Le modalità di recupero e rifunzionalizzazione

CAPITOLO SECONDO
Le modalità di recupero e
rifunzionalizzazione tecnologica
dell’architettura industriale di ieri
Prima di approfondire l’argomento di questo capitolo mi sembra opportuno spiegare
brevemente l’origine e il significato del termine ‘Archeologia Industriale’, coniato in
Inghilterra negli anni Cinquanta.
Questa disciplina in Italia si sviluppò negli anni Settanta e, in particolare, risale al 1973 la
prima mostra, allestita presso il Politecnico di Milano (accompagnata da un catalogo, che può
essere considerata un prezioso documento di lavoro definibile come archetipo della ricerca di
Archeologia industriale30. Nella mostra veniva messo in risalto un problema: quello di dare
una nuova identità a quegli edifici che un tempo accoglievano attività produttive. A tal fine,
nel 1977, nacque a Milano la Società italiana per l’archeologia industriale31, presieduta dal
professor Eugenio Battisti32.
Prima di allora in Italia e, in particolare, dopo la seconda guerra mondiale, si assistette, infatti,
a fenomeni di distruzione selvaggia degli edifici ex industriali per fare posto, secondo criteri
nettamente speculativi, a nuovi complessi residenziali, a nuove periferie, per far fronte,
soprattutto, alla crescente domanda di abitazioni.
Con l’espressione ‘archeologia industriale’ si intende lo studio di tutto ciò che ha
caratterizzato l’industrializzazione di un territorio, compresi i mezzi e metodi di produzione
dei beni.
L’archeologia industriale si serve di diverse discipline tra cui ricordiamo in particolare la
storia dell’architettura, dell’urbanistica, la storia dell’economia, della sociologia e della
politica.
30
Vedi: Marco Dezzi Bardeschi, Quando il cuore della fabbrica riprende a battere, in «Annali della
Fondazione Micheletti. Memoria dell’industrializzazione», a cura di Pier Paolo Poggio, Alberto Garlandini, III,
1987, Brescia, Ed. Luigi Micheletti, p. 299.
31
Vedi: Ornella Selvafolta, Perché l’Archeologia industriale, in AA.VV. Archeologia industriale in Lombardia
dall’Adda al Garda , Milano, Mediocredito Regionale lombardo, 1981, p. 7 e p. 20.
32
Vedi: Massimo Negri, La Società italiana per l’Archeologia industriale, in AA.VV. Supermappa
dell’archeologia industriale. Itinerario nell’Italia settentrionale tra le vecchie fabbriche italiane, Roma,
Roberto Napoleone, 1981, p. 17.
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Il contributo offerto da queste scienze è molto importante per chi deve ricercare, studiare,
catalogare, censire tutti i siti ritenuti interessanti dal punto di vista storico.
Lo scopo infatti di chi si occupa di Archeologia industriale è quello di arrivare alla tutela, alla
ricerca delle modalità da adottare per conservare o riutilizzare i beni studiati.
Accanto al ruolo svolto dagli addetti ai lavori va quindi associata un’attenta pianificazione
territoriale da parte delle autorità competenti che, nelle fasi di sviluppo e di ampliamento dei
centri abitati, considera come una risorsa i siti industriali dimessi, talvolta anche di particolare
pregio architettonico, ma non più funzionali e antieconomici per un’efficace riconversione
produttiva.
Il fenomeno della dismissione è determinato anche dal fatto che non occorrono più vaste aree
per la fabbricazione dei beni poiché, con l’introduzione dell’informatica e della robotica nei
cicli produttivi, non è più necessaria la presenza di numerosa manodopera e di estese aree.
Correlata alle trasformazioni dei metodi di produzione dei beni e al fenomeno della
dismissione nasce la domanda: che cosa ne facciamo di queste aree dimesse, di questi siti che
costellano i nostri centri abitati?
Solo recentemente si è iniziata una politica di interesse per questi luoghi abbandonati che
spesso risultano essere, invece che una risorsa per lo sviluppo della città, dei vuoti all’interno
del tessuto urbano spesso incolmabili, una palla al piede per le amministrazioni comunali e
per tutti quegli enti pubblici che si occupano della pianificazione e della tutela del territorio.
Va comunque detto che il problema non è di facile risoluzione.
La prima domanda da porsi è la seguente: come intervenire?
È chiaro che prima di intervenire su qualsiasi edificio è opportuno svolgere studi approfonditi
per conoscere l’esistente.
Bisogna catalogare e censire in maniera accurata lo stato di fatto mediante un attento rilievo
grafico e fotografico dell’edificio in tutte le sue parti, si deve eseguire un rilievo materico,
stratigrafico e stabilire lo stato di conservazione del manufatto per ricostruirne la storia e
l’evoluzione costruttiva di tutto il suo ciclo di vita, dalla ‘nascita’ alla dismissione.
È utile inoltre, per completarne la schedatura, raccogliere fonti documentarie provenienti da
archivi, testimonianze orali, cronache locali che permettano di completare il quadro di studio
del sito preso in esame.
A seguito di questa fase di indagine diretta sul campo e di raccolta di informazioni a
trecentosessanta gradi si può optare per una serie di modalità di intervento che variano a
seconda del contesto in cui ci si trova ad operare e degli obiettivi prefissati.
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Se si vogliono conservare e valorizzare nella loro integrità e autenticità gli edifici industriali
ritenuti significanti dal punto di vista architettonico (comprendendo anche le attrezzature e i
macchinari atti alla produzione dei beni), l’edificio industriale verrà destinato a museo, in cui
vengono raccolte tutte le testimonianze e gli oggetti studiati e catalogati entrati a far parte
della cultura materiale di quel luogo. Se, invece, si assiste a un cambio della destinazione
d’uso con riattamenti, questi possono essere più o meno invasivi e spesso vanno a mascherare
e falsare la struttura originaria dell’edificio. In questo caso si va a minare l’integrità dei
manufatti per fare posto a nuove funzioni fruibili da una moltitudine di persone, e si stravolge
in maniera irreparabile l’assetto originario dell’edificio.
Così scrive l’Architetto Marco Dezzi Bardeschi, docente presso il Politecnico di Milano, nel
saggio Quando il cuore della fabbrica riprendere a battere33:
[…] le due alternative, entrambe aberranti, che più comunemente ancor oggi si continuano a verificare,
sono la via tradizionale della ruspa e del piccone demolitore prima (magari all’insegna del motto: «Non
si può conservare tutto»), e quella dell’auspicato ritorno al «primitivo splendore» poi, attraverso un
«restauro» talmente radicale e pesante da sopraffare l’esistente, rimuovendone lo statuto archeologico,
ma anche eliminando ogni traccia non solo di degrado (e di storia) e riproducendo poi, per sostituzione di
materiali e per integrazioni analogiche, l’esistente. Col che, ad operazione brillantemente conclusa, il
sopravvissuto risulta trasformato in modo irreversibile in un’altra «fabbrica» che ha ormai perduto ogni
autenticità ed autorità storica.
A conclusione di quanto scritto sopra lo stesso Autore propone alcune modalità da adottare in
un intervento di restauro di edifici industriali dimessi:
Il primo obiettivo di un intervento mi pare sia dunque quello di imparare a riusare senza consumo una
risorsa prima che sia troppo tardi, ossia prima che sia irreversibilmente trasformata in rudere. Operare
oltre questa soglia fatalmente significa ricomporre, reintegrare, magari riprogettare a immagine e
somiglianza, ma alla fine noi avremo, al posto della nostra risorsa, una fabbrica diversa, inedita, che non
può ingannarci e che finirà comunque per uscire sia dal campo d’azione della cultura della
conservazione, sia da quello creativo (non ricreativo) del progetto del nuovo.
Privilegiare i valori d’uso vuol dire anche rispettare l’intero processo vissuto dalla fabbrica-documento e
dunque dire di no alla presunzione e alle parodie di presunti «restauri» intesi come rifacimentoriproduzione del bene. Vuol dire di no a provocare ulteriori sacrifici e selezioni di parti.
33
Marco Dezzi Bardeschi, cit.
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Secondo Marco Dezzi Bardeschi, evidentemente, gli addetti ai lavori devono intervenire sul
costruito massimizzando la conservazione, senza falsarne la struttura e rispettando
stratificazioni, complessità ed eterogeneità del manufatto.
Anche l’architetto Francesco Amendolagine34 nel saggio intitolato Archeologia industriale e
teorie del restauro35 si misura con le problematiche legate alle modalità del recupero, del
restauro e della salvaguardia dei siti industriali dismessi di particolare pregio architettonico.
Lo studioso sottolinea che gli edifici industriali presentano due diverse organizzazioni dello
spazio nel loro interno: la prima è quella che offre all’eventuale restauratore spazi che, per
quanto nati e attuati per precise esigenze industriali, ripropongono, una volta svuotati dei loro
attrezzi e delle loro macchine, dimensioni umanamente praticabili e tendenzialmente abitabili,
cioè, più esattamente, coerenti con la dimensione umana.
La seconda è quella che per le esigenze del funzionamento della macchina, ha richiesto
un’organizzazione degli spazi che non hanno nulla di umano con dimensioni tutte in funzione
della tecnologia applicata.
È evidente che nel secondo caso un restauro conservativo è più difficile.
La teoria del restauro conservativo elaborata dopo la Carta di Venezia36 negli anni Settanta non
prevede la possibilità di alterare con interventi distruttivi lo stato di fatto dell’edificio, poiché
ogni testimonianza lentamente depositatasi sull’edificio partecipa al suo valore culturale ed
artistico.
La serie di interventi idonei in un restauro interamente conservativo non prevede opere
integrative di parti mancanti. Quello che va salvaguardato è la totalità dell’edificio che
giustamente viene paragonato a quello di un corpo vivo a cui qualsiasi sottrazione di parte,
qualsiasi incisione o ferita è un trauma negativo.
34
Francesco Amendolagine, titolare della cattedra di restauro architettonico, presso l’Istituto Universitario di
Architettura a Venezia, IUAV.
35
Francesco Amendolagine, Archeologia industriale e teorie del restauro in Archeologia industriale Tutela e
valorizzazione dei beni culturali industriali, Ministero per i beni culturali e ambientali. Commissione nazionale
per i beni culturali industriali, Roma, 1996.
36
«La Carta Internazionale di Venezia per la Conservazione e il Restauro di Monumenti e Siti del 1964, da
taluni considerata in sé un “monumento”, elaborò a suo tempo fondamenti teorici e approcci metodologici che
rimangono a tutt’oggi per la maggior parte validi. Nella Carta di Venezia la nozione di monumento storico,
rispetto alla Carta di Atene del 1931, si estende fino a comprendere “tanto la creazione architettonica isolata
quanto l’ambiente urbano e paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare, di una
evoluzione significativa o di un evento storico” incluse opere di minor importanza che avessero “acquistato un
significato culturale”. Lo scopo dell’intervento di restauro rimaneva tuttavia quello di “mettere in rilievo i valori
formali e storici del monumento” giudicato autentico sulla base di criteri di natura essenzialmente materiale e
formale». Da Alessandra Knowles Dopo Atene e Venezia, Cracovia. E il restauro è progetto in «Trieste
contemporanea La Rivista», Novembre 2000, n°6/7 Dal sito internet http://www.tscont.ts.it/pag4.htm.
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Per salvaguardare l’integrità dell’edificio con rigore filologico si richiede una profonda
conoscenza storico-critica che il restauratore spesso non possiede e per questo deve essere
affiancato dalla presenza direttiva di uno storico.
Anche un restauro conservativo, precisa Francesco Amendolagine, ammette che si possano
costruire ex novo parti che permettano la sopravvivenza dell’edificio oggetto del restauro, ad
esempio per facilitare l’inserimento delle funzioni di servizio che facilitino la salvaguardia
dell’esistente e un riuso dignitoso dello stesso.
Se per caso le strutture edilizie sono state ideate non fruibili dall’uomo, ci si trova nella
condizione che per far rivivere l’edificio non solo è necessario l’inserimento di elementi
strutturali orizzontali o verticali capaci di ricreare una condizione di vivibilità dell’edificio,
ma siamo costretti a fare modifiche molto più radicali come la creazione di nuove aperture,
ecc. In questo caso si parla più di un restauro di tipo critico.
Nel momento in cui si opta per quest’ultimo tipo di restauro, bisogna non approfondire
soltanto la storia dell’edificio, dalle origini al disuso, ma anche, e soprattutto, bisogna
comprendere e approfondire il criterio con cui sono stati costruiti quei volumi; queste
conoscenze permetteranno di giungere a un restauro critico assennato.
A coronamento di questa analisi sulle modalità di recupero e rifunzionalizzazione delle aree
industriali dimesse ho intervistato37 un architetto bresciano di chiara fama, Francesco
Rovetta38, che ha operato per moltissimi anni, in Italia e all’estero, nel campo dell’edilizia e
37
Ho intervistato l’architetto Francsco Rovetta in data 18 dicembre 2006, presso il suo studio in Brescia.
FRANCESCO ROVETTA, Dal 1965 è iscritto all’Ordine degli Architetti della Provincia di Brescia, con uno
studio indipendente.
Dai nove ai ventidue anni si dedica con grande passione alla pittura seguito dal grande affreschista Vittorio
Trainini. Frequenta gli studi classici. Per un decennio affronta gli studi di Architettura, al Politecnico di Milano,
a Venezia a Firenze e di nuovo a Venezia dove si laurea. Dirige in una ditta di tessuti il reparto arredamento e
stoffe d’arte, lavora con Vittorio Trainini, Fortunato De Pero, Ingher Stigare, Carlo Hauner in disegni di tessuti;
disegna anche tessuti liturgici per Papa Paolo VI.
Dal 1962 ha lavorato in associazione con l’Arch. Luigi Fasser a Brescia. Dal 1962 al 1964 ha collaborato con
Vido Vrbanic a Zagabria per lo studio della sistemazione del centro storico e delle zone collinari di Zagabria.
Come architetto ha progettato e realizzato numerose opere di edilizia nuova, di restauro di edifici storici, in
particolare nel campo dell’edilizia residenziale, museale, scolastica e religiosa.
La qualità e l’interesse della sua opera sono stati riconosciuti da varie pubblicazioni specialistiche in Italia e
all’estero. Tra le numerosissime opere più significative vanno citate: la chiesa parrocchiale di Andalo (TN), il
museo della armi nel castello di Brescia (in collaborazione con Carlo Scarpa), progetto di sistemazione delle
piazze principali di Brescia (in collaborazione con Leonardo Benevolo), redazione di Piani Regolatori,
ristrutturazione di palazzo Gambara a Verolanuova (BS), progetto per il museo palafitticolo di Fiavé (TN),
ristrutturazione dell’ospedale civile di Riva del Garda (TN).
È stato inoltre collaboratore di Carlo Scarpa, fino alla sua scomparsa nel 1978, lavorando a molti progetti ed
esecuzioni di architetture e di allestimenti museografici, in Italia e all’estero.
Si è occupato del restauro del Padiglione del Venezuela di Carlo Scarpa presso la Biennale di Venezia.
Si inoltre occupato del restauro di una parte del palazzo Martinengo delle Palle a Brescia, ora sede della Corte
d’Appello, incarico ottenuto tramite concorso.
Tra i numerosi allestimenti museografici si è occupato della mostra su Carlo Scarpa a Nizza e Parigi.
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del restauro associando alla progettazione l’insegnamento presso le più famose e prestigiose
Università italiane ed estere.
Questo l’esito del nostro colloquio
Interessandoci dell’Archeologia Industriale e al tema del recupero delle aree industriali
dimesse, secondo lei, quali devono essere i criteri guida di chi interviene sul costruito e quale
dovrebbe essere il ruolo di controllo svolto dagli enti pubblici?
Presso gli enti pubblici devono operare persone competenti, professionisti capaci e non scelti
per appoggi politici. In questi enti non possono mancare figure professionali in grado di
progettare spazi adeguati, non privi di significato, e capaci di intervenire in maniera efficace
sul costruito. I politici che decidono di occuparsi di urbanistica e di architettura devono essere
almeno degli appassionati di queste discipline. Nel passato vi era una maggiore cura nella
progettazione degli spazi, una maggiore attenzione alle proporzioni e all’impatto ambientale
degli edifici che si volevano costruire. Oggi, troppo spesso, si realizzano spazi anonimi che
sono il risultato solo di calcoli matematici, nel rispetto dei regolamenti edilizi imposti dagli
enti pubblici che, poi, devono approvare i progetti di intervento.
Nel caso di recupero di aree dimesse, non solo per l’edilizia privata, ma anche per quella
pubblica valgono le regole che impongono una certa percentuale di aree verdi, di aree
destinate al parcheggio, ecc, degli standard che, purtroppo, interpretate in modo restrittivo,
portano a realizzare costruzioni industriali e civili assolutamente anonime, insignificanti, mal
proporzionate, che incidono negativamente sul territorio.
Spesso chi interviene sul costruito preferisce perdere di vista l’idea di effettuare interventi
significativi, che vadano a valorizzare queste aree un tempo destinate alla produzione di beni,
per assecondare fini speculativi, legati al guadagno forzato, senza il doveroso rispetto del
benessere dell’uomo e della società in generale.
Ha svolto un’intensa attività didattica, in particolare presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia:
assistente chiamato da Carlo Scarpa dal 1966 al 1976 in Architettura degli interni, Arredamento e Decorazione e
in Composizione IV e V, è stato professore incaricato di Tecnologia dell’Architettura dal 1978 al 1981. Dal
1981 al 1994, è stato titolare dei corsi annuali in Tecnologia dell’Architettura, Composizione Architettonica,
Scenografia, Allestimenti e Museografia, collaborando in altri corsi di Composizione architettonica e Disegno e
Rilievo.
Sempre in Italia ha insegnato presso il Politecnico di Milano tenendo lezioni, seminari, alla Cà Foscari.
Ha collaborato in progetti con Leonardo Benevolo, Carlo De Carli, Franco Albini, Franca Helg e Giuseppe
Rivadossi con il quale ha consuetudine di lavoro che dura da decenni. Ancora tiene lezioni per architetti
chiamato dall’Ordine e ha tenuto lezioni e conferenze in prestigiose Scuole di Architettura all’estero, in
particolare alla Facoltà di Architettura di Caracas, alla Columbia University di New York, alla Facoltà di
Architettura di Vienna, al South California Institute di Vico Morcote, al Centro Culturale Italiano di Parigi e
all’Università di Parigi-Belleville, a Palermo, Vicenza, Venezia per conto del Centro Internazionale di
Architettura Andrea Palladio, al Centre Culturel Counvent de la Tourette di Le Corbusier. Numerosissime sono
le pubblicazioni.
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L’architettura è spazio tridimensionale e l’urbanistica, checché ne dicano, è architettura in
scala diversa. Oggi si tende a distinguere la figura professionale dell’architetto da quella
dell’urbanista.
Lo spazio pubblico deve essere significante, connettivo fra gli edifici; la piazza, ad esempio,
deve avere una sua dimensione che non è solo il risultato dell’altezza media degli edifici
prospicienti, ma è determinata dal tipo di costruzioni che la delimitano, dal loro carattere,
dallo stile, dalla forma e dal colore. Il modo di concepire in passato gli spazi fece sì che si
realizzassero edifici che noi ora cerchiamo di salvaguardare.
Oggi, purtroppo, chi si occupa del recupero degli edifici industriali dismessi utilizza, quasi
sempre, solo dati statistici e numerici, rischiando di creare ghetti e zone residenziali
monoclasse assolutamente anonime.
Le stesse norme dell’Istituto Case Popolari, ora Aler, non hanno contribuito a realizzare
interventi edilizi che sfuggissero all’anonimato e che ponessero invece al centro il benessere
dell’uomo.
Chi interviene sui siti di archeologia industriale, in alcuni casi, deve avere il coraggio di
trasformare e in altri di demolire.
L’architettura, come quasi tutte le scienze dell’uomo, ha bisogno dell’intervento attivo di un’
équipe formata da professionisti di discipline diverse che sappiano collaborare per ottenere
risultati significativi. Per esempio non si pensi che Rafael Moneo, nei suoi interventi edilizi,
abbia attuato i suoi progetti completamente da solo: ha chiesto sicuramente la collaborazione
di vari specialisti nelle diverse discipline per la realizzazione di ciò che aveva ideato con
singolare poetica creatività.
Quali sono le tendenze oggi per quanto riguarda il recupero di zone industriali dismesse
significative: si conserva o si trasforma?
Finora non è emerso alcun indirizzo preciso; le Sovrintendenze hanno un grandissimo potere
decisionale. Accanto ad esse operano anche i tecnici dei vari comuni che esprimono pareri
spesso troppo vincolanti.
Il recupero delle aree industriali che abbiano valore architettonico deve prevedere solo
l’intervento degli enti pubblici oppure anche quello dei capitali privati?
Può intervenire anche il privato, anche perché esso deve sottostare ai controlli degli enti
pubblici che sono il Comune, la Regione e la Sovraintendenza. E’ comunque l’architetto che
deve capire come deve essere fatto un edificio, quale deve essere la sua altezza e il suo colore.
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Si deve evitare ogni affermazione dogmatica: sostenere, come oggi accade, che l’architettura
«è bianca» è un assurdo: perfino i templi greci erano colorati! Si può, certo, utilizzare il
bianco: si pensi alle case di Marsiglia di Le Corbousier, a Ronchamp; in mezzo al verde,
l’uso del colore bianco può creare uno spettacolo perfettamente inserito; alle nostre latitudini
è, invece, difficile utilizzare il bianco ed è per questo che io nei PRG che ho redatto proibivo
l’uso del bianco, salvo dimostrare che in certi casi poteva essere un elemento di buona
architettura. E poi mi chiedo: i Le Corbousier, i Louis Kahn, i Mies van der Rohe, i Carlo
Scarpa, gli Albini, i Gardella hanno forse bisogno di sottostare ai controlli di tecnici comunali
che suggeriscano loro come inserire gli edifici all’interno del territorio?
Nella Sua lunga esperienza di Architetto come ha operato nell’ambito del recupero? Ha
preferito trasformare o conservare?
Io ho cercato il più possibile di conservare e non mi piace vedere demolire. Se mai in un
capannone industriale nei pressi di un centro abitato, inserirei un campo da tennis, per
integrare la residenza con un servizio, poiché, a mio avviso, la residenza senza servizi non
funziona, soprattutto se toglie ai giovani la possibilità di integrarsi e di socializzare.
Ricordo l’esperienza del mio viaggio a Tokyo dove, tra le altre cose, ho visitato i grandi
complessi che erano stati edificati in occasione delle Olimpiadi; li ritengo di grandissimo
valore architettonico e straordinari dal punto di vista funzionale, ma ormai in completa
decadenza perché isolati dalla residenza.
Nell’urbanistica bisogna che residenza e servizi si integrino: devono poter coesistere botteghe,
terziario, laboratori artigianali, e ciò è possibile perché oggi siamo in grado di controllare,
grazie alle sofisticate tecnologie di insonorizzazione e di filtraggio e depurazione dell’aria, sia
il meccanismo degli odori che quello dei rumori: residenza e strutture produttive possono
rimanere unite come lo erano in passato nei villaggi operai.
A Brescia, per esempio, il villaggio Ferrari era un piccolo borgo in cui tutto era organizzato:
c’erano la chiesa, le case degli operai, degli impiegati, dei dirigenti. La stessa cosa era
avvenuta, per il villaggio Gnutti di Lumezzane, dove era stato costruito addirittura un
ospedale per i primi interventi. Questi sono esempi di integrazione sociale corretta: anche il
recupero di aree industriali dimesse deve essere guidato dal criterio di far nascere borghi con
spazi collettivi di ritrovo: ad esempio piazze, giardini pubblici studiati ad hoc, spazi dedicati
alla pratica dello sport, di cui siamo molto carenti, il tutto coronato dalla presenza di estesi
spazi verdi che contribuiscano a creare un microclima ideale per l’uomo.
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Secondo Lei è giusto musealizzare le vecchie industrie di cui si voglia conservare la
struttura?
Sì, purché museo e residenza coesistano. Anche l’esperienza attuata nel Bresciano con la
creazione della ‘Via del ferro’ è destinata a fallire se non si associano ad essa residenza e
servizi.
Nel recupero come si possono inserire gli impianti tecnologici da cui oggi non si può
prescindere?
Deve essere studiato ogni singolo caso; a Brescia si può usare il teleriscaldamento.
E a livello della struttura dell’edificio?
All’interno dell’edificio si devono utilizzare elementi molto semplici: in alcuni casi si può
ricorrere al riscaldamento a pavimento; va però sottolineato che questa scelta non è adatta per
uffici e abitazioni per ragioni di carattere igienico. Neanche l’aria condizionata va bene, se tu
non hai una centrale di rigenerazione dell’aria che abbatta le polveri. Al di là della scelta degli
impianti bisogna ricordare che l’attore principale nella creazione del benessere all’interno di
un edificio è l’involucro stesso che separa l’esterno dall’interno. Io, in uffici ho adoperato il
raggio infrarosso come mezzo di riscaldamento, con sensori che rilevavano la presenza di
persone e che facevano ripartire automaticamente l’impianto termico. Questa modalità può
essere seguita anche nelle abitazioni e nei vari recuperi.
Nel caso di rifunzionalizzazione di un ambiente Lei utilizzerebbe pannelli solari e sistemi di
riscaldamento a biomasse?
Naturalmente si, la dove è possibile.
Nell’ambito del recupero di ex industrie Lei è dell’idea che sia giusto mescolare le tecniche
costruttive tradizionali con quelle moderne come la prefabbricazione o ritiene sia meglio
utilizzare materiali molto simili a quelli originali creando un falso storico?
Un falso storico mai! Però io posso usare qualsiasi materiale come il legno, la pietra, ecc.
Il legno è un materiale che avrà sempre un suo ruolo e una sua dignità; posso, però,
intervenire anche con sistemi e materiali innovativi. Spesso è necessario distruggere le
superfetazioni che guastano la linea costruttiva originaria dell’edificio per valorizzarne la
bellezza e per renderla più leggibile. Il nullaosta per l’eliminazione delle superfetazioni
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spesso viene concesso dalle Sovrintendenze, certo tutto dipende dalla sensibilità di chi vi
opera.
A livello dell’architettura industriale odierna come giudica il fatto che si costruiscano
capannoni che sono contenitori assolutamente anonimi, che non lasciano capire il tipo di
attività insediata al loro interno se non grazie all’insegna pubblicitaria?
Si tratta di una ‘non-architettura’, è un fenomeno molto negativo soprattutto perché gli edifici
industriali non si inseriscono assolutamente nell’ambiente, anche per quanto riguarda i colori
usati e per l’assenza quasi totale di piantumazioni; un edificio non può essere concepito in
questo modo, va inserito nell’ambiente, bisogna usare del verde per completare le strutture
architettoniche, intervenendo in modo tale che la piantumazione diventi anch’essa
un’espressione architettonica. Sia il colore che la vegetazione devono essere anch’essi
progettati e i P.R.G. dovrebbero essere pensati e formulati con la previsione planivolumetrica
degli edifici da costruire.
I costruttori, gli immobiliaristi non hanno nel loro DNA la cultura del recupero e quella
dell’urbanistica?
Il costruttore e l’imprenditore in generale non si pone neanche il problema di fare qualcosa
che sia in relazione con il benessere e la dignità dell’uomo, che migliori la qualità della vita.
Manca la passione per il bello e l’utile tra gli imprenditori, i costruttori e gli immobiliaristi.
Sono rari oggi gli esempi di architettura industriale significante: più che alla qualità si pensa
alla quantità, all’apparire più che alla qualità costruttiva ed estetica.
In prevalenza, il tipo di intervento fatto dai privati è di tipo speculativo.
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