Una medesima genesi per due arti: rapporti estetici e sinestetici tra la pittura informale e la musica elettroacustica nel secondo dopoguerra Jacopo Leone Bolis [email protected] ABSTRACT Il novecento è stato un secolo segnato da profonde rivoluzioni estetiche, sociali e culturali. L’arte pittorica e l’arte musicale, durante il secolo scorso, non intrapresero strade similari e parallele, bensì un medesimo quanto intercambiabile percorso artistico ed espressivo. Alla luce di ciò è possibile asserire scientemente quanto segue: la rivoluzione estetica alla base della pittura informale e della musica elettroacustica fu, senza ombra di dubbio, la medesima. La tragedia del secondo conflitto mondiale (1939-1945) segnò così a fondo le anime e le sensibilità degli artisti europei ch’essi, per la prima volta nella storia della cultura occidentale, misero volontariamente la parola fine alle prassi e alle sensibilità artistiche del passato. Ciò che nessuna avanguardia artistica d’inizio novecento era riuscita a realizzare, ovvero la completa frattura d’ogni possibile quanto plausibile relazione tra il passato ed il presente, si realizzò nel secondo dopoguerra grazie all’arte informale e alla musica elettroacustica. Una medesima rivoluzione estetica e culturale diede vita e concretezza a percorsi espressivi similari e, perlomeno in parte, sovrapponibili tanto in ambito pittorico quanto musicale. 1. INTRODUZIONE In passato furono innumerevoli gli artisti, i compositori e i letterati che proclamarono l’avvento d’un necessario, quanto ineluttabile, sposalizio tra tutte le arti. Il tedesco Richard Wagner (1813 - 1883) vide nel teatro il luogo adatto ove poter dare concretezza alla sua cosiddetta opera assoluta (Gesamtkunstwerk), un evento artistico ove tutte le arti potessero mischiarsi e convivere in fruttuosa interrelazione. Nel suo saggio L’arte e la rivoluzione (1849) [1], richiamandosi direttamente alla tragedia eschilea, Wagner decise di superare (e, perché no, eliminare) le prassi teatrali occidentali che, da Euripide fino al melodramma italiano seicentesco e settecentesco, avevano lentamente ma inesorabilmente distrutto tale antica coesistenza (nel melodramma italiano del XVI e XVII secolo assistiamo a una riorganizzazione di tipo gerarchico delle arti interne allo svolgimento drammatico dell’opera, infatti il canto e la musica andarono, gradualmente, a sovrastare tutte le altre arti). Copyright: © 2013 Jacopo Leone Bolis et al. This is an openaccess article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License 3.0 Unported, which permits unrestricted use, distribution, and reproduction in any medium, provided the original author and source are credited. Agli inizi del novecento furono gli artisti futuristi a far emergere, con il loro ben noto furore, l’importanza d’una rivoluzione estetica che non si limitasse ad una sola arte ma che, viceversa, provocasse la genesi di sinceri e profondi rapporti sinestetici tra arti figurative, arti plastiche, musica, teatro e poesia. Esempio di tale dirompente sensibilità fu il manifesto La pittura dei suoni, rumori e odori (1913) a firma di Carlo Carrà (1881 - 1966). In questo interessante scritto si può leggere quanto segue: Noi pittori affermiamo che i suoni, i rumori, gli odori si incorporano nell’architettura nell’espressione delle linee, dei volumi e dei colori, come le linee e i colori s’incorporano nell’architettura di un’opera musicale. [2] Pittura e musica, forse per la prima volta nella complessa storia dell’arte occidentale, appaiono quali discipline fortemente interconnesse (tra tale asserzione e le passate affermazioni di Goethe in merito al rapporto tra suoni e colori vi è, evidentemente, una distanza siderale). Eppure tanto l’agire wagneriano quanto le piroettanti asserzioni futuriste non riuscirono a imporre a livello comunitario tale nuova sensibilità estetica. Le arti, ancora per qualche decade, avrebbero continuato a percorrere strade similari ma differenti. Ciò avvenne poiché, sebbene i pensieri e le azioni di Wagner e dei futuristi italiani fossero assai lungimiranti, questi erano frutto di pensieri individuali, elitari e non collettivi. Le conquiste estetiche di Wagner e dei futuristi italiani, in altre parole, erano qualcosa di artificioso, di estraneo o di innaturale rispetto all’ambiente socioculturale in cui esse presero forma. Ci volle una profonda scossa sociale, economica e culturale (il secondo conflitto mondiale) affinché le antiche segmentazioni in cui l’arte occidentale era stata per secoli e secoli categorizzata potessero venire meno. La tanto agognata unione delle arti nacque dalle ceneri d’un Europa prostrata, tanto a livello sociale quanto culturale, e desiderosa di intraprendere nuovi ed inesplorati percorsi espressivi. 2. UNA (VERA) RIVOLUZIONE ESTETICA Prendiamo in analisi qualche dipinto capace di descrivere, seppur brevemente e limitatamente agli esempi proposti di seguito, l’evoluzione dell’arte pittorica europea nel corso del frenetico XX secolo. Per incominciare sottoponiamo alla nostra lente di ingrandimento il Cavaliere azzurro (1903) di Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 - 1944). Si tratta di un olio su tela (55 X 60 cm) ove viene rappresentato un cavaliere, avvolto da una mantellina azzurra, in groppa al suo cavallo dal candido manto. Questo binomio uomo/animale è colto in pieno movimento mentre si slancia con fervore sulle verdi distese d’una collina. L’elemento dinamico intrinseco all’opera è reso esplicito soprattutto grazie al librarsi della mantellina del cavaliere. Quest’ultima si staglia lungamente alle spalle di questi come percossa da forti folate di vento. Inoltre, ad aumentare significativamente la pregnanza dell’elemento cinetico internamente a questa piccola opera pittorica, interviene la postura fisica del cavallo. Quest’ultimo, infatti, è rappresentato quasi in volo, lievemente distaccato da terra con i suoi arti e con la coda che, similmente alla mantellina del suo cavaliere, si stende per la sua intera lunghezza. Questa piccola tela degli inizi del ‘900 ci rivela un gusto ed una vena pittorica ancora fortemente legate all’allora recente rivoluzione impressionista svoltasi prevalentemente in Francia durante la seconda metà del XIX secolo ad opera di artisti quali Edouard Manet (1832 - 1883), Paul Cézanne (1839 - 1906) e Claude Monet (1840 1926). La natura, nella sua accezione più complessa, non veniva più colta e rappresentata dagli artisti nella sua oggettività esteriore (per quanto tale finalità, anche all’interno della più recente corrente iperrealista statunitense, non possa essere mai effettivamente raggiunta) ma, viceversa, veniva profondamente riletta dalla ragione e dall’animo degli artisti che vi si dedicavano. Ebbe così inizio una rivoluzione artistica di portata storica. La realtà oggettiva veniva ripudiata e ad essa andava sostituendosi un’individualistica ed estremamente soggettiva rappresentazione del reale. Il concetto di bello, dapprima collettivo e comunitario, stava mutando in maniera irreparabile in favore dell’individuo, delle sue esigenze e delle proprie ed indiscutibili volontà. Probabilmente ispirato dal dipinto Les grandes Baigneuses (1906) di Paul Cézanne, lo spagnolo Pablo Picasso (1881 - 1973) dipinse nel 1907 una delle sue opere più conosciute ed apprezzate: Les Demoiselles d'Avignon , olio su tela (243,9 x 233,7 cm), oggi conservato presso il MoMA di New York. Il dipinto rappresenta cinque prostitute presso il bordello di calle Avignon a Barcellona. Le figure femminili, tuttavia, sono ampiamente deformate, rivisitate e manomesse dal pennello del pittore. Tramite tale profonda rilettura della fisicità delle prostitute, il quadro perde ogni carica erotica convenzionale e, viceversa, strizza apertamente l’occhio ad una sensibilità fisiognomica di matrice africana. I volti delle prostitute sono allungati, squadrati, così come i loro arti ed i loro seni. Quest’opera è stata giustamente definita dalla critica una delle prime realizzazioni pittoriche di Picasso ove sia possibile scorgere un gusto estetico anticipatore delle future conquiste cubiste. Nel 1921 questa tendenza alla semplificazione geometrica del reale e alla sua riproposizione sulla tela deprivando, volontariamente, la propria prassi artistica d’ogni prospettiva spaziale dal passato sapor rinascimentale, portò il celebre artista spagnolo alla stesura del dipinto I tre musici, olio su tela (200,7 x 222,9 cm), conservato anch’esso presso il MoMA di New York. Quest’opera, pienamente inseribile all’interno della corrente estetica del cosiddetto cubismo sintetico, mostra tre figure maschili intente ad eseguire della musica (per l’esattezza si tratta di due personaggi carnevaleschi, Arlecchino e Pulcinella, ai quali sono associate una chitarra ed un clarinetto, ed un monaco cantore che stringe in pugno una partitura deformata ed illeggibile). Le figure sono stilizzate e squadrate quasi all’eccesso. Il tutto appare estremamente irrealistico essendo deprivato d’ogni profondità spaziale in favore d’uno schietto desiderio rappresentativo di natura bidimensionale. Il filtro posto dall’artista alla percezione ed alla rappresentazione del reale sulla tela è sempre più marcato. Questo gioco estetico fondato sulla reinterpretazione del reale porterà il già citato Kandinskij all’abbandono d’ogni desiderio figurativo in favore di composizioni pittoriche incentrate su mere rappresentazioni grafico-geometriche ove ai tipici soggetti della pittura occidentale (es. rappresentazioni sacre, naturalistiche) andarono a sostituirsi quadrati, cerchi, linee dritte, curve e macchie di colore delle più disparate forme. Era nato l’astrattismo. Quasi contemporaneamente alle prime sperimentazioni astratte di Vasilij Kandinskij (e forse con un animo ancor più rivoluzionario di questi) il pittore russo Kazimir Severinovič Malevič (1878 - 1935) iniziò ad insinuare nella cultura pittorica europea il gusto per le figurazioni geometriche. La sua pittura, le cui guide estetiche egli sintetizzò con intelligenza nel suo manifesto del suprematismo [3], abbandonò assai presto ogni mero desiderio rappresentativo/figurativo in favore d’un gusto geometrico proto-minimale fondato su evidenti quanto significativi contrasti cromatici (Malevič tornerà all’arte figurativa solo in vecchiaia a partire dal 1930 ca.). Esempi lampanti di tale suo particolare gusto estetico sono Cerchio nero (1913), olio su tela (109 X 109 cm), e Quadrato nero (1913), olio su tela, (109 X 109 cm), entrambi oggi conservati presso il Museo di Stato Russo di Pietroburgo. [4] Del resto anche nel futurismo italiano d’inizio XX secolo notiamo una profonda rilettura della realtà a noi tutti circostante. Quest’ultima venne trasportata sulla tela tramite profonde ed esplicite manomissioni nel tentativo di palesarne l’intrinseca dinamicità (per i futuristi la vita era pulsione tanto razionale quanto emotiva, lotta per la sopravvivenza, spasmodica ricerca dell’azione). Il movimento, il gesto plastico e vigoroso, diventano le finalità ed i sentiti desideri dei più illustri pittori futuristi dell’epoca (es. La città che sale di Umberto Boccioni del 1910 e Il cavaliere rosso Cavallo e cavaliere del 1913 di Carlo Carrà). Eppure, anche se la trasposizione del movimento all’interno della tela portò ad una rilettura profonda del reale oggettivo da parte degli artisti futuristi, un qualche desiderio figurativo certo non mancò in talune loro realizzazioni pittoriche. Questa commistione quasi paritetica di desideri figurativi e profonde ed individualistiche riletture del reale trovò felice sposalizio in alcune opere di Fortunato Depero (1892 1960). Prendiamo, ad esempio, La rissa (1926), olio su tela (149 x 255 cm), oggi conservato al MART di Rovereto (Trento - Italia). In questo dipinto, utilizzando una raffinata tricromia (bianco-grigionero), il pittore italiano rappresentò un’umanità futura quasi robotizzata intenta ad arrecarsi violenza all’interno di un locale, una specie di locanda/osteria dall’evidente sapore avveniristico. Da evidenziarsi come, in questa bella tela di Depero, passato e futuro s’incontrino e si sovrappongano perfettamente nello svolgersi d’una socialità che ha mantenuto quasi del tutto inalterati i propri antichissimi riti (così come l’uomo del passato spendeva parte del proprio tempo ubriacandosi presso l’osteria del proprio paese o rione, così l’uomo del futuro darà vita e materia alle proprie pulsioni sociali all’interno d’una locanda). In questa tela avviene una profonda e biunivoca relazione tra figura e reinterpretazione del reale. Le figure umane sono stilizzate, disumanizzate, rese tramite un color nero opaco a cui si aggiungono addizioni geometriche che ne snaturano ulteriormente tanto la parvenza esteriore quanto l’essenza stessa. L’uomo non è più tale, egli è un insieme ben strutturato di mattoncini geometrici ben accatastati gli uni sugli altri, eppure, per quanto fortemente manomesso dall’artista, l’uomo, nella sua nuova bruttura, è pur sempre percepito come tale dal fruitore dell’opera. Alla luce di quanto finora asserito non ci deve certo sorprendere la geniale intuizione del critico italiano Gillo Dorfles (n. 1910) secondo la quale l’arte occidentale precedente al secondo conflitto mondiale (1939 - 1945) è e resta un’arte strettamente connessa con il gusto e le prassi pittoriche di tradizione medioevale e rinascimentale: Fino agli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale pittura e scultura erano ancora legate – sia pure attraverso a un tenue cordone ombelicale – con la ‘grande arte’ che dal rinascimento giungeva, ininterrotta, sino ai primi decenni del nostro secolo. Cubismo, futurismo, pittura metafisica, avevano significato una resa più o meno modificata della realtà del mondo esterno, e un progressivo abbandono di canoni naturalistici, ma alla base dell’opera d’arte c’era pur sempre la presenza o la suggestione d’un immagine, d’un nucleo immaginifico sia implicito che esplicito, e a questo nucleo rimaneva ancorata la composizione stessa. [5] Seppur tramite parole differenti e, sicuramente meno esplicite, il medesimo concetto è stato espresso anche dalla critica d’arte francese Dora Vallier nel suo scritto L’arte astratta (1964): Successivamente, a partire dal 1945, si assiste a un’altra astrazione che non è più la ricerca della forma ma, al contrario, il desiderio di esprimere, prima nella forma e anche al di fuori di essa, tutta la ricchezza e la spontaneità della vita interiore: l’artista si proietta senza alcuna mediazione nella sua opera, nei termini di quella che è stata chiamata astrazione ‘lirica’ o ‘informale’ […] La pittura astratta del dopoguerra sarà gestuale (action painting, come la chiamano gli americani) o calligrafica (alla maniera dell’Estremo Oriente) o informale. Tutte tendenze che rifiutano il controllo della coscienza e che, per questo, mettono in discussione la tecnica. Se inizialmente l’artista astratto si accontentava dell’indipendenza totale dei colori e delle forme, adesso sente il bisogno di trasgredire i mezzi tecnici tradizionali. [6] La vera e propria cesura tra l’arte del passato e l’arte contemporanea avvenne negli anni immediatamente seguenti al secondo dopoguerra quando artisti quali il franco-tedesco Wolfang Schultze detto Wols (1913 1951), il francese Georges Mathieu (n. 1921), l’italiano Giuseppe Capogrossi (1900 - 1972) e gli americani Mark Tobey (1890 - 1976) e Jackson Pollock (1912 1956), solo per fare qualche nome, diedero vita alla cosiddetta arte segnica/gestuale (poetica espressiva interna all’allora giovanissima arte informale). Sulla tela non apparivano più figure geometriche, linee, cerchi, quadrati e parallelepipedi. A colori e forme riconducibili a significati e a immagini precise, seppur apparentemente esterni al mondo reale, venivano a sostituirsi macchie di colore dalle forme indefinite, volutamente imprecise e difficilmente riproducibili. Il gesto, quasi involontario ed irrazionale, sostituiva la pennellata precisa, raffinata e attentamente ponderata da parte dell’artista. Questa nuova prassi artistica, priva di forme riconducibili ad elementi anteriormente presenti nel nostro bagaglio culturale, desiderava svincolare l’agire demiurgico dell’artista da ogni desiderio razionalmente costruttivo. La tela diveniva il luogo ove il pittore poteva sfogare ogni propria forza interiore per palesarne esteriormente l’esistenza. La cultura orientale, che ormai da tempo influenzava in maniera significativa il pensiero occidentale, forniva a questi tentativi estetici una vera e propria base teorica grazie alla quale giustificare queste azioni creative. All’interno delle dottrine facenti capo al buddismo zen, filosofia quest’ultima nata e sviluppatasi nell’antico Giappone, vi è presente un termine estremamente complesso: ko-tzu. Questa misterica parola può essere tradotta secondo le seguenti definizioni: spontaneità d’azione, impulso creativo, sentimento creatore privo di razionalità. Del resto la cultura giapponese ha da sempre miscelato con sapiente armonia ragione ed emotività, scrupoli formali e impeto creativo. Prova ne sono, ad esempio, le antichissime forme poetiche del tanka e dell’haiuku. In entrambe queste strutture poetiche di piccole dimensioni, razionalità ed emotività si saldano tra loro in perfetta unione. Il tanka è un componimento poetico composto da due strofe aventi un significato contrastante: la prima, denominata strofa superiore, è formata da tre versi composti da 5, 7 e 5 sillabe, mentre la seconda, denominata strofa inferiore, nasce dall’unione di due versi aventi 7 sillabe ognuno. L’haiuku, forma poetica cronologicamente più recente, deriva direttamente dal tanka e ne mantiene la sola strofa superiore dando vita così ad una struttura poetica ancora più sintetica e diretta. Tanka ed haiuku sono forme poetiche estremamente razionali per via della loro prepotente sinteticità, tuttavia, a tale attenta e ponderata miscela di sillabe e versi, i poeti giapponesi hanno sempre unito tematiche di stampo naturalistico e filosofico estremamente criptiche e ricche di sfumature emotive. Allo stesso modo l’arte informale occidentale cercò, ed in parte vi riuscì e vi riesce tuttora, di fondere gestualità improvvise ed irrazionali (emotività) a visioni filosofiche ed estetiche estremamente complesse (raziocinio). Quasi paradossalmente, grazie alle conquiste artistiche raggiunte dall’antica cultura giapponese, il pensiero filosofico orientale diveniva la giustificazione estetico-filosofica dell’agire artistico occidentale. Il ko-tzu, questa irrefrenabile energia vitale e creatrice, trovò materializzazione perfetta, ad esempio, nell’Action-Painting statunitense di Jackson Pollock e William Congdon (1912 - 1998). Questa profonda rivoluzione artistica e culturale affondò le proprie radici storiche nei due conflitti mondiali che travolsero il vecchio continente (1914/18 - 1939/45). La guerra, del resto, ha segnato la storia dell’umanità fin dai suoi albori. Essa è un insieme eterogeneo di violenza, morte, mutamenti geopolitici e sociali. Ovviamente, come qualsiasi altro manufatto umano, la guerra muta, si modifica con l’incedere dei decenni, dei secoli. Tra il 1914 ed il 1918 il mondo intero (ma soprattutto l’Europa) conobbe l’inaudita e fino ad allora inimmaginabile violenza della guerra moderna: milioni di uomini gettati come burattini e bambole di pezza sotto il fuoco incrociato di mitragliatrici, fucili e granate. A questo desolante scenario si deve aggiungere l’enorme smottamento sociale a cui tale conflitto diede vita per la prima volta nella storia dell’umanità: contadini, operai, studenti liceali ed universitari, tutti insieme, furono lasciati a marcire in buche fangose, accuditi con cura dalla malevola compagnia di pidocchi, acari e germi d’ogni natura. Così il letterato, scrittore, storico e cineasta italiano Curzio Malaparte (1898 - 1957), arruolatosi volontario, descrisse la gerarchizzazione sociale presente all’interno delle forze armate italiane durante il primo conflitto mondiale: Allo scoppiare della guerra, il nostro proletariato non fu né neutralista né interventista: fu il popolo, come sempre. Rimase, cioè, spettatore durante le doglie dei nove mesi di neutralità, e partì per il fronte il 24 Maggio, con le stellette al collo. Fu popolo: cioè capro. La piccola borghesia (elemento spregevole e ammirevole, abituata a stentare e ad ubbidire, a lasciarsi sfruttare senza mai chiedere niente) imbandierò le finestre, invoco l’elmo di Scipio e partì per il fronte il 26 Maggio (due giorni dopo il popolo minuto) con le stellette al collo e sulle maniche, credente in dio e nella patria, nelle istituzioni e nel sovrano, convinta che i tedeschi fossero barbari e che la Giustizia, il Diritto e la Civiltà fossero figli della immacolata vergine Giovanna d’Arco. La borghesia ricca si sparse per i mercati: accaparratrice d’oro. Le ruote del carro della Fortuna erano unte col grasso dei morti. L’aristocrazia si sparse per i comandi: accaparratrice di croci ed onori. Gloria ai pochi Paolucci dei Calboli e ai pochi Sermoneta che hanno sputato sulla casta. [7] Le pagine di Malaparte evidenziano una tristissima verità storica. Contadini, operai, studenti e piccoli possidenti furono mandati a morire mentre, viceversa, ricchi e nobili, arroccati nei loro lussuosi palazzi, si limitarono a parlare di patria, di sacrificio e di coraggio incastonando sui loro lussuosi abiti le più preziose gemme e i più luccicanti diamanti. La guerra, ahimè, certo non sfuggì (e non sfugge tuttora) alle rigidissime regole sociali intrinseche alla società occidentale. Eppure l’enorme quantità di sangue versato tra il 1914 ed il 1918 non bastò a saziare gli orrendi appetiti delle classi dirigenti europee. Tra il 1939 ed il 1945 un’altra guerra, altri milioni di morti e di feriti. Ancora una volta Curzio Malaparte fu attento protagonista ed osservatore di tali nefasti avvenimenti. Questi tragici eventi gli permisero la stesura di uno dei suoi capolavori letterari: il romanzo Kaputt (1944). Kaputt è un libro crudele. La sua crudeltà è la più straordinaria esperienza che io abbia tratto dallo spettacolo dell’Europa in questi anni di guerra. Tuttavia, fra i protagonisti di questo libro, la guerra non è che un personaggio secondario. Si potrebbe dire che solo un valore di pretesto, se i pretesti inevitabili non appartenessero all’ordine della fatalità. In Kaputt la guerra conta dunque come fatalità. Non v’entra in altro modo. Direi che v’entra non da protagonista, ma da spettatrice, in quello stesso senso in cui è spettatore un paesaggio. La guerra è il paesaggio oggettivo di questo libro. Il protagonista principale è Kaputt, questo mostro allegro e crudele. Nessuna parola, meglio della dura, e quasi misteriosa parola tedesca Kaputt, che letteralmente significa ‘rotto, finito, andato in pezzi, in malora’, potrebbe dare il senso di ciò che noi siamo, di ciò che ormai è l’Europa: un mucchio di rottami. E sia ben chiaro che io preferisco questa Europa kaputt all’Europa d’ieri, e a quella di venti, trent’anni or sono. Preferisco che tutto sia da rifare, al dover tutto accettare come un’eredità immutabile. [8] L’Europa uscita dal secondo conflitto mondiale era quindi un continente prostrato, una tabula rasa sulla quale edificare una nuova civiltà. L’arte pittorica e scultorea europea, con vera furia iconoclasta, ideò la già citata poetica informale e gestuale, prima insanabile frattura tra l’arte del passato e l’arte contemporanea. In questa complessa cornice storica ed artistica anche l’arte musicale accademica decise che era necessario abbandonare il passato per gettarsi verso nuove (ed inesplorate) mete artistico-estetiche. Il sistema tonale ristretto (armonia funzionale) teorizzato dal musicista e teorico francese Jean-Philippe Rameau (1683 - 1764) nel suo celebre Trattato d’Armonia del 1722 (seppur, cronologicamente parlando, tale sistema grammaticalesintattico possa essere fatto risalire al trionfo della monodia accompagnata sul contrappunto durante i primi anni del seicento) arricchitosi successivamente del cosiddetto temperamento equabile, la cui funzionalità tanto compositiva quanto estetica venne palesata da Johann Sebastian Bach (1685 - 1750) nel suoi due libri del Clavicembalo ben temperato (1722 1744), iniziò ad entrare irrimediabilmente in crisi intorno alla seconda metà del XIX secolo. Richard Wagner (1813 - 1883), Claude Debussy (1862 - 1918) ed Erik Satie (1866 - 1925) ben rappresentano, storicamente parlando, quell’asse franco-tedesco a cui si dovette l’abbattimento delle passate regole compositive legate all’armonia funzionale e la conseguente nascita del linguaggio atonale. Solo con Arnold Schönberg (1874 - 1951) ed allievi, intorno ai primi anni ‘20 del ‘900, si vide l’avvento di una nuova grammatica e sintassi musicale capace di portare ordine e disciplina ove il precedente linguaggio atonale, con le sue regole sfumate, eteree ed inesistenti, aveva generato un certo caos estetico. Era nata la dodecafonia. Alla passata armonia triadica e alla sapiente alternanza di accordi di area di tonica, sottodominante e dominante, andavano a sostituirsi la serie dodecafonica e la riorganizzazione e manipolazione di quest’ultima tramite l’uso di tecniche compositive quali la retrogradazione, l’inversione e la retrogradazione/inversione (tecniche quest’ultime già ampiamente usate nel corso del XV secolo da parte dei musicisti fiamminghi dediti all’antica arte del contrappunto). In realtà, proprio come la pittura impressionista, futurista, cubista, metafisica ed astratta non avevano completamente reciso lo stretto legame che le collegava alle antiche prassi pittoriche rinascimentali, così la rivoluzione dodecafonica non aveva di certo annullato i proprio legami con il passato linguaggio tonale ristretto. Alla centralità dell’accordo costruito, in stato fondamentale, sul primo grado della scala diatonica di riferimento, andò a sostituirsi la cosiddetta serie originale. L’impianto gravitazionale sul quale si fondava l’armonia funzionale rimaneva quindi intatto, semplicemente non era più il Sole a girare intorno alla Terra bensì era quest’ultima a girare intorno al Sole (per usare un piccolo parallelismo astronomico). Schönberg fu quindi una specie di Niccolò Copernico. Così come in passato si continuava a disquisire di stelle, pianeti ed oggetti celesti, così in musica si continuò a parlare di semitoni, toni, ottave ben temperate e note musicali. Di tale stretto legame tra passato e contemporaneità se ne rese ben conto lo stesso Schönberg evidenziando in alcuni suoi scritti gli stretti legami genetici che collegavano l’antica tradizione tonale all’allora neonato linguaggio dodecafonico. Per Schönberg, infatti, la musica dodecafonica nacque come naturale prolungamento storico-estetico del linguaggio tonale. Quest’ultimo, difatti, possiede al suo interno una serie di caratteristiche tali che ne provocarono l’inevitabile implosione e la conseguente nascita della dodecafonia. Schönberg così sintetizzò tali elementi implosivi interni al sistema tonale ristretto: 1. 2. 3. 4. 5. 6. Ogni triade maggiore, presa isolatamente, può di per sé esprimere una tonalità d’impianto Se non viene aggiunto nulla in contraddizione, può essere considerata una tonica Ma ogni accordo successivo mette in discussione questo senso tonale e spinge in direzione di altre tonalità Soltanto certe successioni particolari di accordi permettono di identificarne alcuni, di solito l’ultimo, come accordi fondamentali di una tonalità d’impianto. Ma anche questa determinazione è valida soltanto se non segue nulla in contraddizione! Senza l’uso di mezzi tecnici ben precisi non si può esprimere in modo inequivocabile una tonalità d’impianto. [9] Fu proprio l’instabilità interna al linguaggio tonale ristretto a provocarne l’inevitabile scomparsa. Tuttavia, oltre a tali legami tanto lessicali quanto materici, anche fortissime relazioni organologiche, orchestrali e coloristiche legavano in maniera strettissima il linguaggio tonale passato alla musica dodecafonica. Legni, ottoni, pianoforti, archi (eccetera) erano esattamente gli stessi del secolo precedente (per non parlare del sistema notazionale che rimaneva, sostanzialmente, lo stesso). Del resto legami genetici ancora più forti furono quelli che vennero a crearsi tra l’arte musicale dodecafonica ed il serialismo integrale tanto caro ai seguaci di Anton Webern (1883 - 1945) radunatisi, dopo il secondo conflitto mondiale, attorno alla cittadina tedesca di Darmstadt (ove, fin dal 1946, si svolsero i celeberrimi Corsi estivi di composizione per la Nuova Musica). Alla luce di quanto finora esposto appare evidente come il primo novecento fu, all’interno dell’evoluzione musicale europea, figlio legittimo delle passate tradizioni accademiche ottocentesche. La vera e propria rottura tra passato accademico e avanguardia musicale venne ad essere sancita soltanto sul finire degli anni ‘40 del secolo scorso quando il compositore ed ingegnere francese Pierre Schaeffer (1910 - 1995) iniziò a registrare e manipolare i più svariati suoni da lui ritenuti ‘musicalmente interessanti’, come ad esempio il suono di una locomotiva, trasformandoli in vere e proprie composizioni musicali tramite profonde manomissioni elettroacustiche dei suoni precedentemente registrati. Era nata la musica concreta1. Tale frattura tra passato e contemporaneità venne ad essere ulteriormente ampliata nel corso degli anni ‘50 e ‘60 grazie a compositori quali i tedeschi Herbert Eimert (1897 1972) e Karlheinz Stockhausen (1928 - 2005) e gli italiani Luciano Berio (1925 - 2003), Bruno Maderna (1920 - 1973) e Luigi nono (1924 - 1990). I primi sperimentando e generando suoni ex novo negli studi presenti presso la Nordwestdeutscher Rundfunk di Colonia, i secondi utilizzando le allora avanzatissime strumentazioni elettroniche site presso lo Studio di Fonologia della Rai di Milano. Era nata la musica elettroacustica. Non esistevano più solamente le abusate note musicali occidentali ben temperate all’interno di un intervallo d’ottava fondato sulla proporzione armonica 2/1 di pitagorica memoria, bensì a tali eventi acustici di matrice accademica andarono ad aggiungersi suoni campionati o generati ex-novo tramite i primissimi registratori e sintetizzatori. Ai pianoforti ed ai violini si erano sostituite le locomotive e le onde acustiche sinusoidali. Eppure, ad uno sguardo attento, ci si accorge che la frattura tra l’allora presente ed il passato accademico a questi antecedente non fu completa. I nuovissimi suoni ottenuti tramite i più differenti processi di genesi sonora (es. sintesi additiva, sintesi sottrattiva) vennero, difatti, gestiti ed organizzati, a livello compositivo, in base alle regole grammaticali e sintattiche interne al serialismo integrale. Tale modus operandi è facilmente 1 Erroneamente si ritiene che il termine musica concreta indichi l’utilizzo da parte di Schaeffer di suoni registrati dalla realtà circostante e riutilizzati per finalità musicali. Questa asserzione è vera solamente in parte. Il termine di musique concrète venne utilizzato da Schaeffer per evidenziare come la propria rivoluzione musicale ribaltasse l’azione compositiva del musicista. Mentre nella musica tradizionale il compositore pensa la musica (pensiero astratto), scrive la partitura e poi, tramite il momento esecutivo, la genera a livello uditivo (esecuzione), nella musique concrète prima viene il suono (realtà uditiva concreta) e solo seguentemente l’azione compositiva del musicista. riscontrabile in brani quali Studie I (1953) e Studie II (1954) di Karlheinz Stockhausen. Allo stesso modo, se prendiamo in analisi il brano Thema (omaggio a Joyce) del 1958 di Luciano Berio, scopriamo che tale composizione è strutturata secondo l’antica prassi della variazione su tema. La splendida voce di Cathy Berberian (1925 - 1983), intenta ad interpretare un passo estrapolato dall’Ulisse di James Joyce (1882 1941), è infatti dapprima presentata senza alcuna manomissione da parte del compositore il quale, in seguito a tale candido incipit, si sbizzarrisce, nel corso del brano, in una continua manipolazione del materiale vocale iniziale al punto da renderlo del tutto incomprensibile (l’elemento vocale perde la sua completa intelligibilità, viene così a smarrirsi l’antica relazione linguistica significante/significato). Così come la pittura informale pagò un forte debito nei confronti delle precedenti esperienze astratte, così la musica elettroacustica non poté ignorare del tutto le sensibilità musicali ad essa antecedenti (anche se ciò non deve certo svilire la forza iconoclasta e rivoluzionaria tanto dell’arte informale quanto della musica elettroacustica). L’arte informale e la musica elettroacustica si generarono dal medesimo terreno fertile, ovvero da quella vera e propria tabula rasa sociale e culturale che fu l’Europa seguente al secondo conflitto mondiale. Fu proprio questa stretta parentela a permettere, nel corso delle decadi seguenti, la genesi di rapporti sinestetici sempre più stretti tra le arti visive e l’arte dei suoni (in altre parole se l’estetica a fondamento di più arti è la medesima è ovvio che tali differenti arti possano mischiarsi dando vita a nuove potenzialità espressive). Sfruttando tale vicinanza storica ed estetica nacquero, nel corso degli anni seguenti, esperienze artistiche ove l’elemento visivo e quello sonoro erano assolutamente inscindibili e parimenti importanti per la fruizione di un determinato evento artistico. 3. CONCLUSIONI L’arte informale (soprattutto nella sua corrente segnica/gestuale) e la musica elettroacustica nacquero quali risposte ad un’allora presente profondamente ferito dalle nefandezze che, nel corso del secondo conflitto mondiale, segnarono il continente europeo. A complicare ulteriormente questa situazione intervenne l’esplicita benché dormiente conflittualità USA/URSS (guerra fredda 1945 - 1991). Le atrocità perpetrate dai regimi nazifascisti nel corso del secondo conflitto mondiale richiesero una completa rottura, in ambito artistico e culturale, nei confronti di un passato che, nel bene e nel male, era stato il padre di tale nefandezze. L’arte informale e la musica elettroacustica rappresentarono, quindi, una medesima sensibilità estetica germogliata in ambiti espressivi differenti ma, al contempo, complementari. La tanto agognata unione delle arti aveva finalmente trovato una solida radice storica e culturale grazie alla quale imporsi a livello comunitario. Come in pittura il gesto irrazionale e la forma priva di forma ruppero gli schemi passati, così in musica il suono registrato, manomesso e/o ottenuto tramite sintesi elettronica distrusse il lessico musicale accademico e, conseguentemente, sembrò destinare all’obliò gl’innumerevoli strumenti musicali partoriti dalla cultura europea. Tuttavia tale energia iconoclasta fu tale solamente in parte. A ben vedere, infatti, anche in queste rivoluzioni innovatrici si possono scorgere legami con l’arte del passato. Come già ricordato Stockhausen e Berio non riuscirono a liberarsi completamente da talune sensibilità estetiche ad essi cronologicamente precedenti così come, in ambito pittorico, l’arte informale mostra delle connessioni, seppur flebili, con le celebri macchie di colore dell’italiano Giorgione (1478 - 1510) e con l’arte astratta creata e perpetrata da Kandinskij agl’inizi del novecento. Con l’arte informale e la musica elettroacustica, per la prima volta, la frattura tra presente e passato fu realmente totale. Eppure, anche in questa situazione di completa iconoclastia nei confronti del passato, qualcosa di quest’ultimo sopravvisse e si perpetuò. Il celebre drammaturgo rumeno naturalizzato francese Eugène Ionesco (1912 - 1994) mise in bocca ad alcuni suoi personaggi parole densissime di significato nella sua pièce teatrale L’improvviso dell’Alma ovvero Il camaleonte del pastore: […] Bartholomeus I (a Bartholomeus II e a Bartholomeus III) Silenzio! (A Ionesco) Lei dunque non sa che i contrari sono identici? Un esempio: Quando le dico: una cosa è veramente vera, ciò vuol dire che è falsamente falsa. Bartholomeus II Ossia, inversamente: se una cosa è falsamente falsa, è anche veramente vera… Ionesco Non l’avrei mai creduto. Come sono dotti! [10] Cosa ci insegnano le sopraccitate parole di Ionesco? Esse evidenziano come, talvolta, anche ciò che ci appare come antitetico nei confronti di un’idea o di un dato materiale possa essere, in realtà, gemmazione di quest’ultimo. L’arte informale e la musica elettroacustica godettero sì d’un medesimo padre, quello spirito rivoluzionario ed iconoclasta che si espanse per tutta Europa successivamente al secondo conflitto mondiale, ma, al tempo stesso, non chiusero del tutto, tanto volontariamente quanto involontariamente, le proprie porte alle conquiste del passato. Mai come oggi le arti comunicano e dialogano fruttuosamente tra di loro. Tutto ciò è oggi possibile ed esteticamente accettato e ricercato poiché vi fu, dopo il secondo conflitto mondiale, la sentita necessità d’una rottura profonda con le tradizioni passate. Arte informale e musica elettroacustica condivisero i medesimi natali e, forti di questa stretta parentela, non poterono evitarsi a lungo. Oggi installazioni audiovisive, sperimentazioni di natura cinematografica ove suoni ed immagini sono assolutamente inscindibili e pratiche musicali strettamente connesse con eventi luminosi e/o tattili, sono all’ordine del giorno. Forse siamo ancora lontani dalla nascita d’una sensibilità estetica capace di unificare, anche forzosamente, linguaggi espressivi differenti, tuttavia è indubbio che il percorso intrapreso dall’arte occidentale si è volto sempre di più, giorno dopo giorno, verso tale finalità. 4. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA [1] Richard Wagner, L’arte e la rivoluzione, Roma: Fahrenheit 451, 2003. [2] Daniele Lombardi e Carlo Piccardi, Rumori Futuri Studi e immagini sulla Musica Futurista, Firenze: Vallecchi Editore, 2003 - 2004, p. 25. [3] Kasimir Malevič, Suprematismo: il mondo della non-oggettività, Bari: De Donato Editore, 1962. [4] http://www.rusmuseum.ru/ [5] Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi Dall’informale al concettuale, Milano: Feltrinelli Editore, 1973, p. 20 [6] Dora Vallier, L’arte astratta - Il cosmo dell’immagine pura, Italia (Milano): Garzanti Editore s.p.a., 1984, p. 13 e p. 30. [7] Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Firenze: Vallecchi Editore, 1995, p. 105. [8] Curzio Malaparte, Kaputt, Milano: Adelphi, 2009, p. 14. [9] Arnold Schönberg, Stile e Pensiero - Scritti su musica e società, Milano: il Saggiatore S.p.A., 2008, p. 126. [10] AA. VV., Il Teatro contemporaneo - I Capolavori di Beckett, Ionesco, Osborne - Il teatro di Eugène Ionesco - L’improvviso dell’Alma ovvero Il camaleonte del pastore, Italia: Giulio Einaudi Editore e Arnoldo Mondadori Editore, 1961, p. 220.