Enciclopedia Treccani In senso ampio, quel ramo della filosofia che

Enciclopedia Treccani
In senso ampio, quel ramo della filosofia che si occupa di qualsiasi forma di comportamento
(gr. ἦθος) umano, politico, giuridico o morale; in senso stretto, invece, l’e. va distinta sia dalla
politica sia dal diritto, in quanto ramo della filosofia che si occupa più specificamente della sfera
delle azioni buone o cattive dell’individuo e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o
di quelle politicamente più adeguate.
I filosofi nelle loro dottrine etiche hanno avuto di mira due differenti obiettivi, spesso ricercati
congiuntamente. Da una parte si sono proposti di raccomandare nella forma più articolata e
argomentata l’insieme di valori ritenuti più adeguati al comportamento morale dell’uomo; dall’altra
hanno mirato a una conoscenza puramente speculativa del comportamento morale dell’uomo,
badando non tanto a prescrivere fini, quanto a ricostruire i moventi, gli usi linguistici, i
ragionamenti che sono rintracciabili nel comportamento etico. Nel 20° sec. è invalso l’uso di
distinguere nettamente tra questi due indirizzi nella riflessione sulla morale, caratterizzando come e.
una filosofia prevalentemente pratica, impegnata in difesa di determinati valori, e
come metaetica una filosofia con pretese esclusivamente teoretiche e conoscitive, rivolta a
ricostruire la logica e il significato delle nozioni in uso nella morale.
1. L’etica nel mondo greco
1. Particolarmente vivace fu nella cultura ateniese del 5° sec. a.C. il dibattito sui fini della
condotta umana. I Sofisti sottolinearono l’origine umana e non divina dei valori e, in
contrasto con l’opinione più diffusa, sostennero la tesi dell’insegnabilità della virtù,
impegnandosi a elaborare particolari tecniche retoriche volte a ottenere la persuasione.
2. La ricerca sulla nozione di bene va considerata al centro dell’attività filosofica di Socrate, al
quale si fa risalire il primo tentativo di definire la natura propria della virtù come scienza
ossia conoscenza del bene. Intellettualismo etico o razionalismo morale.
3. Se per Platone la vita divenne distacco progressivo dal corpo dell’ anima immortale
(filosofia come preparazione alla morte), l’etica di Aristotele riprende l’idea socratica della
virtù come ricerca razionale. Il bene non è fondato tanto su un’idea di perfezione assoluta,
quanto su una definizione della natura dell’uomo: fine supremo della condotta umana è la
felicità ( eudemonismo), che potrà essere raggiunta adeguando il comportamento alle
esigenze proprie della natura umana. Una volta colto il carattere essenzialmente razionale
dell’uomo, la felicità è fatta consistere nella vita secondo ragione. È solo con il prevalere
delle facoltà razionali e con la realizzazione delle virtù dianoetiche (sapienza, scienza,
intelligenza, arte, saggezza) che l’uomo può essere felice. Anche laddove sono gli impulsi
sensibili a determinare le scelte è però possibile indicare una forma di comportamento
virtuoso: avremo le diverse virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, mansuetudine)
che consistono nel dominare gli impulsi sensibili secondo un criterio del ‘giusto mezzo’ che
esclude gli estremi viziosi.
4. Anche nell’etica post-aristotelica resta ferma la tendenza a identificare il bene supremo nel
raggiungimento della felicità. Epicuro indica nella liberazione dell’uomo dal timore e dal
dolore il proprio ideale di felicità, consistente in una tranquilla calma dell’animo (apatia,
atarassia). Lo Stoicismo, invece, pur nell’accettazione dell’ideale dell’autarchia e
dell’indifferenza,vide nel mondo stesso il divino, il realizzarsi di un fato razionale, che
nulla poteva alterare e di fronte a cui non restava se non la virtù dell’accettazione.
***** Il cane di Crisippo.
2. L’etica cristiana
Su una concezione religiosa totalmente nuova si fonda l’etica cristiana. La regola di condotta
evangelica si traduce in comandamento d’amore per gli altri, considerati tutti uguali e fratelli; cade
ogni distinzione etnica e sociale e l’incondizionato amore per l’altro, anche se nemico e peccatore, è
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il sommo comandamento. L’etica cristiana è fondata sulla caritas, che a differenza dell’eros greco è
amore gratuito, un operoso donare sé stessi, senza nulla chiedere in cambio.
Inserendosi nella tradizione e nella civiltà del mondo mediterraneo, il Cristianesimo doveva
necessariamente misurarsi con la cultra greca: pur affermandosi come originale, ne assorbì i motivi
essenziali. Così nei Padri greci e in Agostino il richiamo all’interiorità e alla trascendenza, pur
esprimendosi nei termini del linguaggio platonico, assume un significato nuovo: nell’‘uomo
interiore’ il cristianesimo scopre non il ricordo di una forma immutabile, ma l’immagine stessa di
Dio.
Platone: la filosofia come preparazione alla morte.
******* Brani. Lettera a Diogneto.
3. Etica moderna
Nell’Umanesimo e nel Rinascimento si hanno l’accentuarsi degli interessi ‘civili’, la polemica
contro aspetti della spiritualità medievale (l’ascetismo in particolare), la rivendicazione di un fare
politico autonomo rispetto alla legge morale. Al centro della riflessione non è più Dio, ma appare
l’uomo, di cui si esalta la virtus come attività puramente umana e civile.
******Brano: Pico e la dignità dell’uomo.
In Hobbes la natura umana è dedita alla ricerca del piacere e della propria conservazione; gli
obblighi morali non riconducibili alla tendenza individuale al piacere sono il risultato delle
imposizioni della forza statuale che mira alla conservazione della pace sociale. La tendenza alla
propria conservazione fu posta al centro dell’etica anche da B. Spinoza, per il quale, come per gli
Stoici, bisogna accettare l’ordine razionale necessario del mondo e l’uomo virtuoso deve proporsi
di dominare le passioni e seguire la ragione.
Nella filosofia inglese del Sttecento si pone in primo piano è piuttosto la questione
dell’identificazione del criterio o facoltà che permette agli uomini di distinguere tra vizio e
virtù. Già in A. Shaftesbury il recupero dell’e. stoica e l’affermazione, in contrasto con l’e.
‘egoistica’ di Hobbes, della presenza nella natura umana di un ‘senso morale’ si congiungono con
il riconoscimento che il comportamento virtuoso derivi da una benevolenza universale. La tesi di
una radice sentimentale delle distinzioni morali verrà ripresa da Hume, per il quale nella natura
umana è presente un’inclinazione alla benevolenza. Su questa base il comportamento virtuoso
risulta quello che ha di mira non tanto la felicità individuale quanto una più intensa felicità del
maggiore numero di persone cointeressate.
*****Brani: Spinoza, Hume.
Per Kant, in polemica con l’etica dell’utile, si può parlare autenticamente di morale (morale
autonoma) solo quando la volontà sia determinata da un imperativo categorico, e cioè voluto
assolutamente e di per sé, senza alcun riguardo ad altri fini. Questa autonomia e assolutezza della
legge morale è, per Kant, il segno della sua universalità, del suo carattere a priori. Dall’apriorismo e
dal rigorismo, che veniva a porre l’uomo in perenne conflitto con le passioni, nascono le più gravi
difficoltà dell’e. kantiana, che Kant stesso cercò di superare postulando l’esistenza di un’altra vita e
di Dio come principio del sommo bene, nel quale virtù e felicità, in terra perennemente dissociate,
venissero a coincidere.
Oggi l’imperativo categorico di Kant è stato riletto da Jonas ne Il principio responsabilità (1979).
**********Brani: Kant e Jonas.
La filosofia post-kantiana approfondisce questi problemi, accentuando il concetto di autonomia
della morale. Nell’idealismo etico di Fichte trova pieno sviluppo il concetto kantiano di libertà,
ponendo come suprema norma etica l’obbedienza alla pura convinzione razionale della propria
coscienza, mentre G.W.F. Hegel vede il superamento della moralità individuale
nell’ eticità (Sittlichkeit) che lo Stato incarna e alla quale il soggetto deve sottostare se vuole
elevarsi sopra la sua singolarità .L’eticità in Hegel designa dunque quel complesso di istituzioni
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umane (famiglia, società civile, Stato) in cui la libertà si realizza oggettivandosi, ossia passa
gradualmente dalla sua astratta espressione individualistica alla universalità concreta.
*********Brani: Fichte.
In polemica contro alcune tesi centrali dell’e. idealistica, S. Kierkegaard sostiene l’irriducibile
individualità della scelta etica, contrapponendo poi la sfera della vita morale, caratterizzata dalla
continuità e dall’impegno per l’universalità, alla vita estetica, dominata dal caso, e alla vita
religiosa, come ‘scandalo’ e superamento della dimensione della società. In senso antihegeliano Schopenhauer presenta una morale in netta antitesi con la storia e la società: fine della
condotta etica è la negazione completa dei bisogni naturali fino all’annullamento di ogni desiderio e
al più completo ascetismo. In F. Nietzsche contro i valori, accettati dall’etica cristiana e socialista
dell’altruismo e della sottomissione, si propone una scelta in nome della volontà di potenza,
dell’autoaffermazione e della liberazione degli istinti (il dionisiaco).
Di natura completamente diversa è lo sviluppo della riflessione sull’etica nella cultura inglese, in
cui prevale l’accettazione del principio utilitaristico (Bentham, Mill) che vede la condotta morale
nella realizzazione della maggiore felicità per il maggiore numero di persone.
4. La riflessione sull’etica nel XX secolo
Nella riflessione filosofica del XX secolo, l’obiettivo di proporre una ben precisa tavola di valori
passa in secondo piano, rispetto al tentativo di caratterizzare le condizioni proprie dell’esperienza
morale.
Bergson distingue tra due diverse forme di morale, quella chiusa, volta al mantenimento delle
abitudini che permettono la conservazione della società, e quella aperta caratterizzata
dall’entusiasmo creativo dei grandi innovatori quali i profeti e i santi.
A ricostruire la genesi psicologica della morale sono rivolte alcune analisi di Freud: i valori morali
sono visti come l’interiorizzazione da parte dell’individuo di regole repressive degli istinti e delle
pulsioni; d’altro canto, il processo di sublimazione da cui nasce la condotta morale individuale
rappresenta un elemento essenziale per la genesi della ‘civiltà’.
Uno stretto collegamento tra vita etica e scelta viene affermato dagli esponenti dell’esistenzialismo:
una scelta aperta verso il recupero dei valori cristiani in alcuni esponenti dell’esistenzialismo
religioso, come Marcel, o verso un concreto impegno etico-politico in esponenti
dell’esistenzialismo ateo, come Sartre.
5. Il ritorno all’etica normativa.
Dopo la lunga stagione in cui si è ritenuto che la riflessione filosofica di tipo etico dovesse limitarsi
all’analisi del linguaggio morale, l’ultimo trentennio del 20º sec. ha visto una svolta radicale verso
concezioni di tipo normativo, che intendono cioè affermare la natura prescrittiva e oggettiva delle
richieste della morale. Il nucleo comune di questo orientamento sta nel concepire l’e. come una
teoria che risponde a questioni pubbliche, legate alla tematica della giustizia o dell’accettabilità
delle istituzioni politiche da un punto di vista morale. L’opera che ha inaugurato questa fase è A
theory of justice (1971) di Rawls. La vita morale in quanto tale va caratterizzata per Rawls secondo
una prospettiva deontologica, che ha a che fare con l’esposizione di alcuni principi in grado di
suggerire una soluzione adeguata alle principali questioni di giustizia che si devono affrontare nella
sfera pubblica. Due sono i principi al centro della teoria della giustizia: il principio di salvaguardia
della libertà e dell’autonomia di ciascun individuo e il principio di ‘differenza’ o equità, secondo
cui oneri, premi e limitazioni possono essere accettati sul piano sociale solo se rivolti a migliorare le
condizioni dei più svantaggiati, e dunque a rendere più eque le istituzioni che governano la vita
associata.
L’esigenza di sviluppare una teoria etica in grado di fondare i diritti morali individuali viene
soddisfatta nelle più diverse maniere anche nelle culture filosofiche dell’Europa continentale. Così,
la filosofia di lingua tedesca ha cercato di realizzare una fondazione universalistica dei diritti e più
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radicalmente delle regole e delle norme morali. K.O. Apel si è particolarmente impegnato a
connettere la sua analisi pragmatica del discorso alla nozione morale di responsabilità. L’e. di Apel
si basa sulla tesi che tanto la comunità universale della comunicazione quanto le condizioni
intersoggettive dell’argomentazione razionale presuppongono l’osservanza di una ben precisa
norma morale, da intendersi come un dovere specifico che esige il riconoscimento degli stessi
diritti a tutti i membri della comunicazione. Sulla stessa linea procede Habermas, il quale insiste
sulla natura ideale propria della norma, che per essere moralmente adeguata deve risultare
universalizzabile, ovvero tale da poter realizzare su di essa un accordo di tutti.
Nella cultura filosofica francese possiamo citare l’opera di Lévinas, filosofo lituano naturalizzato
francese, .
****** Lévinas.
6. L’etica applicata
Verso la fine del 20° sec. si afferma l’esigenza che la riflessione etica offra suggerimenti utili per
risolvere i nuovi problemi morali suscitati dalle grandi trasformazioni che gli sviluppi della ricerca
scientifica e della tecnologia hanno prodotto nelle società occidentali. Per la prima volta si pongono
alla condotta umana alcune drammatiche alternative morali riguardanti la cura delle malattie, i modi
di nascere e di morire. All’interno del nuovo orientamento vanno così consolidandosi vari settori di
analisi, come l’ etica medica, dalla millenaria tradizione ippocratica, edificata sul rispetto del
principio bonum faciendum, malum vitandum, posto a fondamento della relazione medico-paziente.
Alla luce dei nuovi complessi scenari in cui il medico può essere chiamato a valutare implicazioni e
conseguenze di scelte nell’ambito di delicati settori, come la sperimentazione sull’uomo, la gestione
delle situazioni di fine vita, il consenso informato, l’e. medica si ridefinisce (➔ bioetica).
Si vanno consolidando anche altri ambiti di ricerca su nuove questioni etiche. La discussione si è
polarizzata tra due opposte concezioni, fondate sulla sacralità e sulla qualità della vita.
Non meno ampia è stata l’elaborazione di teorie volte a porre un limite a una condotta
irresponsabile nei confronti delle risorse limitate a disposizione sulla Terra, facendo appello alle
responsabilità delle generazioni attuali nei confronti di quelle future (Jonas).
Anche le questioni etiche relative al trattamento degli animali sono state ampiamente affrontate
con un’attenzione del tutto nuova. Il diffuso interesse per le questioni etiche riguardanti il modo di
rapportarsi agli animali può essere visto come una presa d’atto delle inutili crudeltà a essi inflitte in
conseguenza dell’uso di nuove tecniche, nell’ambito della produzione industriale del cibo e nella
sperimentazione a fini farmaceutici o per il perfezionamento di beni di consumo. In quest’area di
riflessione molto influente è stata la forma di e. utilitaristica di P. Singer, che ha denunciato come
un pregiudizio ‘specistico’ l’impostazione morale che discrimina tra le sofferenze degli esseri
umani e quelle degli animali. La tesi di una rilevanza morale delle azioni rivolte agli animali è stata
difesa in modo più radicale da parte di teorici che, come T. Regan, hanno basato i diritti morali
degli animali sul valore intrinseco delle loro vite.
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LA FILOSOFIA COME STILE DI VITA.
Approfondimenti e documenti.
*IL CANE DI CRISIPPO. L’ETICA STOICA.
Il saggio stoico deve accettare senza battere ciglio quel che il destino gli riserva, visto che
nell’ordinata armonia del cosmo non c’è posto per il caso. Ma come conciliare questo “fatalismo” e
“determinismo” con la libertà? (Tale problema riguarderà anche la futura discussione all’interno del
Cristianesimo del concetto di libero arbitrio). C’è un’immagine interessante per illustrare la
soluzione: il saggio deve comportarsi come un cane incatenato al carro. Il cane può scegliere di
seguire volontariamente il carro, ma se decidesse di resistere il risultato non cambierebbe; sarebbe
comunque costretto (magari torcendosi il collo) a seguire la via segnata dal carro. La differenza sta
nel fatto che nel primo caso si sceglie liberamente quel che il fato impone. La libertà consiste
dunque nell’accettare e nel piegarsi alla necessità del proprio destino.
*LA LETTERA A DIOGNETO (IISEC.).
V. 1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2.
Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di
vita speciale. 3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi
aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4. Vivendo in città greche e
barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel
resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5. Vivono nella
loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come
stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e
generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Sono
nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza
nel cielo. 10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11. Amano tutti, e
da tutti vengono perseguitati. 12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e
riprendono a vivere. 13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano.
14. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15. Sono
ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16. Facendo del bene vengono puniti come
malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17. Dai giudei sono combattuti come
stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio.
***Kant. L’Illuminismo come uscita dallo stato di minorità. L'intelletto quale guida
L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso.
Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se
stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza
di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere
aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza - è dunque il motto dell'illuminismo.
La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo
tempo affrancati dall'eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri
minorenni per l'intera vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto
comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza
per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di
darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si
assumeranno per me questa noiosa occupazione. A far si che la stragrande maggioranza degli
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uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile,
anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l'alta
sorveglianza sopra costoro. […] Che invece un pubblico si illumini da sé è cosa maggiormente
possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile.
***Kant: LA TERZA FORMULAZIONE DELL'IMPERATIVO CATEGORICO.
Il concetto che ogni essere ragionevole deve considerarsi autore, in virtù delle massime della sua
volontà, di una legislazione universale affinché possa, da questo punto di vista, giudicare se stesso e
le sue azioni, conduce a un concetto assai fecondo che si connette a questo, cioè al concetto di un
regno dei fini. [...] La moralità consiste pertanto nel rapporto di ogni azione con quella legislazione
che è la condizione del regno dei fini. Ma questa legislazione deve valere per ogni essere
ragionevole e deve poter derivare dalla sua volontà, secondo questo principio: non compiere alcuna
azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale
che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come
universalmente legislatrice.
(I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi)
***KANT: LA LEGGE MORALE DENTRO DI ME.
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú
spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale
in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero
avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le
connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io
occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza
interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro
movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io
indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che
solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi
visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale
e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia
importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la
materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della
forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza,
mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità
e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione
conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta
alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.
(Kant, Critica della ragion pratica, Conclusione)
*** Kant: il regno dei fini.
Cosa si intende per dignità della persona umana?
Si riporta di seguito un brano del libro I diritti umani oggi (Laterza, 2005, cap. 3) di Antonio
Cassese.
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Nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) Kant osservò
Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito
da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non
ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità […] Ciò che permette che qualcosa sia un fine a se
stesso non ha solo un valore relativo, e cioè un prezzo, ma ha un valore intrinseco, e cioè una
dignità […]
L’umanità [l’essere uomo] è essa stessa una dignità: l’uomo non può essere trattato
dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un semplice mezzo, ma deve essere trattato
sempre anche come un fine. In ciò appunto consiste la sua dignità (personalità), ed è in tal modo che
egli si eleva al di sopra di tutti gli esseri viventi che non sono uomini e possono servirgli da
strumento.
Nella Metafisica dei costumi (1797) ribadisce il concetto con queste parole:
L’uomo considerato nel sistema della natura (homo phaenomenon [elemento del mondo
sensibile], animale razionale), è un essere di importanza mediocre ed ha un valore modesto (pretium
vulgare) che condivide con tutti gli altri animali che produce la terra. Ma considerato come persona,
e cioè come soggetto di una ragione moralmente pratica, l’uomo è al di sopra di qualunque prezzo.
Perchè da questo punto di vista, come homo noumenon [membro del mondo intelligibile], egli non
può essere considerato come un mezzo per i fini altrui, o anche per i propri fini, ma come un fine in
se stesso, e cioè egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto) mediante cui costringe tutte
le altre creature ragionevoli al rispetto della sua persona e può misurarsi con ciascuna di esse e
considerarsi eguale ad esse.
[…] Anzitutto, la concezione kantiana traduce in termini filosofici idee nobilissime già espresse nei
Vangeli, là dove Cristo esorta ad amare “il prossimo tuo come te stesso” (Matteo, 22,39) e cioè a
considerare l’altro alla stregua del proprio io. Il mio io è il centro del mondo ma così devo
considerare anche l’altro, che diventa quindi soggetto da rispettare, proteggere, difendere […], [cioè
devo] trattare l’altro come se fosse il mio io.
In secondo luogo, Kant non è così ingenuo da pensare che si possa richiedere a ciascuno di noi di
considerare l’altro solo e sempre come un fine in se stesso. Sarebbe poco realistico: io ho bisogno
del maestro perché mi insegni un mestiere, ho bisogno del bottegaio che mi vende la sua merce…
Kant lo sa,e perciò chiede solo di considerare anche l’altro come un fine in se stesso.
Un altro punto che mi sembra necessario sottolineare è che l’etica rigorosa di Kant esige che la
persona usi anche se stessa non solo come un mezzo ma anche come un fine. In altri termini, Kant
ci chiede di rifiutare di asservirci a chiunque ci usi come strumento nelle sue mani. Io ho il dovere
di vedere in me stesso un fine […] e ciò mi impone di ribellarmi contro il mio asservimento. È
questo il fondamento della proposizione della Dichiarazione Universale dei diritti umani secondo
cui l’uomo può “ribellarsi all’oppressione e alla tirannide”. Ma Kant va più lontano, in quanto
postula che ciascuno di noi ha non solo un diritto alla ribellione ma anche un dovere, perché se non
mi ribello calpesto la mia dignità umana.
Infine, notiamo che Kant coerentemente impone di considerare come disonorevole e immorale
punire con pene disumane, contrarie alla sua dignità, il malvagio che si sia macchiato di gravi
crimini. In altri termini, anche il malvagio va rispettato nella sua dignità di persona umana, benché
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egli stesso l’abbia calpestata […]. Vengono in mente le parole che ha scritto Nelson Mandela alla
fine della sua autobiografia : “L'oppressore deve essere liberato così come l'oppresso. Un uomo che
sottrae ad un altro la sua libertà è prigioniero dell'odio, è serrato dietro le sbarre del pregiudizio e
della pochezza mentale. Sia l'oppresso che l'oppressore sono privati della loro umanità”.
Il caso del nano e il Consiglio di Stato francese.
Quel che dice Kant può rimanere astratto e remoto. Un caso giurisprudenziale recente può forse più
efficacemente illustrare cosa debba intendersi per "dignità della persona umana". Nel 1995 la
discoteca di un paese della provincia francese, Morsangsur-Orge, pochi chilometri a sud di Parigi,
decise di inserire nello spettacolo serale il "lancio del nano": doveva consistere nell'offrire agli
spettatori la possibilità di lanciare un nano, presumibilmente per vedere chi riuscisse a scagliarlo più
lontano. Il sindaco della cittadina vietò lo spettacolo, affermando che era contrario all'ordine
pubblico ed al rispetto della dignità umana. La società che gestiva lo spettacolo fece appello al
tribunale amministrativo di Versailles, che le diede ragione. Il sindaco della cittadina impugnò però
quella sentenza davanti al Consiglio di Stato, che la annullò con una decisione del 27 ottobre 1995.
Proprio questa decisione illustra la nozione di "dignità umana". Il supremo organo di giustizia
amministrativa francese, citando non solo le leggi francesi, ma anche l'art. 3 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo (che vieta tra l'altro qualunque trattamento disumano o degradante)
osservò che utilizzare "come proiettile una persona affetta da un handicap fisico, presentata come
tale […] lede la dignità della persona umana". Il Consiglio ammise che nel caso di specie il nano
aveva liberamente scelto di prestarsi allo spettacolo, e che anzi invocava il principio del "diritto al
lavoro" e "la libertà dell'impresa e del commercio". Esso ritenne però che il rispetto della dignità
della persona umana dovesse prevalere sia sulla volontà del nano, sia sui diritti di libertà da lui
accampati. Malgrado l'estrema concisione della decisione, non si poteva meglio dimostrare come si
può applicare il concetto che stiamo discutendo. Kant avrebbe detto che il nano non doveva
accettare di ridurre se stesso a mezzo di divertimento di altre persone, perché doveva considerarsi
un fine in sé. Il Consiglio di Stato affermò lo stesso concetto, stabilendo che un essere umano non
può volontariamente rinunciare alla propria dignità. A maggior ragione quella dignità deve essere
rispettata dagli altri.
***Fichte: ognuno sceglie la filosofia in base a ciò che è. Idealismo e dogmatismo.
Un essere ragionevole finito non dispone di nient’altro all’infuori dell’esperienza: è l’esperienza che
contiene l’intera materia del suo pensiero. Il filosofo sottostà necessariamente alle stesse condizioni.
Sembra dunque impossibile pensare ch’egli possa elevarsi al di sopra dell’esperienza.
Ma egli ha la possibilità di astrarre, cioè a dire separare, mediante la libertà del pensiero, ciò che
nell’esperienza è unito. Nella esperienza la cosa, e cioè ciò che è determinato indipendentemente
dalla nostra libertà e a cui la nostra conoscenza si rivolge, e l’intelligenza, che ha la funzione di
conoscere, sono inscindibilmente unite. Il filosofo può prescindere dall’una o dall’altra...
Da tutto ciò risulta abbastanza evidente che questi due sono gli unici sistemi filosofici possibili. [...]
Il contrasto tra l’idealista e il dogmatico consiste propriamente in ciò: se l’autonomia dell’io debba
essere sacrificata a quella della cosa o viceversa. Che cos’è dunque che induce un uomo ragionevole
a decidersi per l’una cosa piuttosto che per l’altra? [...].
Quale di questi due termini dev’essere fatto primo? La ragione non è in grado di fornire un
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principio che risolva l’alternativa, poiché si tratta non di collegare un membro all’interno d’una
serie, per il che principî di ragione sarebbero sufficienti, ma di cominciare la serie intera, il che,
essendo un atto assolutamente primo, non dipende che dalla libertà del pensiero. Tale atto è dunque
determinato dall’arbitrio, e, dato che la decisione dell’arbitrio deve pure avere una ragione,
dall’inclinazione e dall’interesse. La ragione ultima della differenza fra idealista e dogmatico è
perciò la differenza del loro interesse.
L’interesse supremo, principio di ogni altro interesse, è quello che abbiamo per noi stessi. Il che
vale anche per il filosofo. [...]
La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è
un’inerte suppellettile, che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito che un
uomo ha. Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato e
dalla servitú spirituale, non potrà mai elevarsi all’idealismo.
(J. G. Fichte, Prima introduzione alla Dottrina della Scienza)
***Hans Jonas: l’imperativo ecologico.
(H. Jonas, Il principio responsabilità, 1979)
***Emmanuel Lévinas: il volto dell’Altro.
“Filosofia del potere, l'ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il medesimo, è
una filosofia dell'ingiustizia. L'ontologia heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla
relazione con l'essere in generale [...] resta all'interno dell'obbedienza dell'anonimo e porta,
fatalmente, ad un'altra potenza, al dominio imperialista, alla tirannia. [...] L'essere prima dell'ente.
L'ontologia prima della metafisica- cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della
giustizia. È un movimento nel medesimo prima dell'obbligo nei confronti dell'altro.”
“Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la forma del naso, il rossore
delle labbra. Fermandomi qui io contemplo ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di
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dati. La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che
è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”.
Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l'Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi
come un insieme di qualità che formano un'immagine. Il volto d'Altri distrugge ad ogni istante e
oltrepassa l'immagine plastica che mi lascia ". Il volto dell'Altro ha significato di per sé, si impone
al di là del contesto fisico e sociale: il senso del volto non consiste nella relazione con qualcos'altro,
esso è senso per sé. Si può dire che il volto non è visto. Esso è ciò che non può diventare un
contenuto afferrabile dal pensiero; è l'incontenibile, ti conduce al di là. Il volto dell'Altro ti viene
incontro e ti dice: "Tu non ucciderai". Nonostante il divieto può esserci l'assassinio, ma la malignità
del male riapparirà nei rimorsi della coscienza dell'assassino, nell'accesso al volto c'è anche un
accesso all'idea di Dio. Il volto è responsabilità per Altri: il volto dell'Altro entra nel nostro mondo;
esso è una visitazione; è responsabilità: esso mi guarda e mi riguarda. Il volto d'Altri mi impone un
atteggiamento etico: " è il povero per il quale io posso tutto e al quale devo tutto ". E' così che il
volto si sottrae al possesso; il volto dell'Altro, afferma Lévinas, " mi parla e mi invita ad una
relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita ". Il volto dell'Altro, dunque, mi
coinvolge, mi pone in questione, mi rende immediatamente responsabile. La responsabilità nei
confronti dell'Altro viene a configurarsi, nel pensiero di Lévinas, come la struttura originaria del
soggetto. Fin dall'inizio, " l'estraneo che non ho né concepito, né partorito, l' ho già in braccio ". La
mia responsabilità nei confronti dell'altro arriva fino al punto che io mi debba sentire responsabile
anche della responsabilità degli altri.
“Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è
ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie
all’apertura di una nuova dimensione. Infatti la resistenza alla presa non si produce come una
resistenza insormontabile, come durezza della roccia contro cui è inutile lo sforzo della mano, come
lontananza di una stella nell’immensità dello spazio. L’espressione che il volto introduce nel mondo
non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose,
apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla
e così mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita,
foss’anche godimento o conoscenza”. (Lévinas, Totalità e infinito)
“Il libro che più mi ispira è il volto umano, fino al punto che non riesco a parlare, e nemmeno a
formulare un pensiero, se non mi sta davanti qualcuno: almeno uno, un essere vivente; allora sono
sicuro che il discorso si snoda in tutta abbondanza, come un torrente, a volte in troppa piena. Mi
succede così quando predico, ad esempio: pur dopo anni e anni di praticaccia. E’ così: non mi viene
la parola se non mi rappresento qualcuno in ascolto o che mi parli. Anzi, è questa la ragione per cui
quasi tutto il mio scrivere si svolge in forma di colloquio: è sul filo dell’io e del tu che si snoda il
discorso. A osservare bene, tutta la mia poesia è un colloquio. No, non c’è praticaccia che tenga: se
non guardo in faccia la gente, non riesco a parlare. Sì, il mio primo libro è la faccia dell’uomo. Sono
uno dal colloquio a vivo, più che di lettura, anche se il desiderio di leggere mi perseguita con
graffiante nostalgia: uno dei tanti desideri che mi lampeggiano dentro, da sempre.”
(David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici)
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".
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