Loredana De Vita ALTRO NON SIAMO CHE VOCE La storia e la memoria ARMANDO EDITORE Sommario Una luce, una stella 9 Introduzione 11 Dare voce 15 …e poi, incontro Alberta 21 Il senso della memoria 27 Spiegare l’Olocausto 35 La nuit 37 Alberta si racconta 65 La storia di Alberta 85 Quella finestra chiusa 87 Vita e morte 105 Spiegami la notte 111 Noi testimoni oggi 113 Le tante inutili vittime 121 Lucida follia 123 Il futuro ha un cuore antico 135 Smarrimento della memoria: suicidio collettivo 143 Tecnologia e vuoto sociale 149 Resistere al male 157 Conclusioni 163 Una parola ancora per te pensando a te 167 Ringraziamenti 170 Bibliografia 171 Filmografia 175 Sitografia 176 per Alberta, amica e maestra Una luce, una stella Una luce, una stella per ciascuno dei milioni morti laggiù. Quale tra queste sei tu, amico sconosciuto, amico mai incontrato, ma trovato nel cuore profondo della tua dignità. Mi osservi, mi spii mi chiedi di vivere nella mia la tua libertà. Sono qui, sono pronto sono pieno di te, entra nella mia vita, che io ricordi per sempre il silenzio del tuo sguardo. Che io sia la parola mai detta, caduta nel vuoto di un antico lamento. Sono qui, sono pronto a gridare per tutti la tua libertà, ad alzare la voce contro l’indifferenza. Una luce, una stella per te e per ciascuno dei vivi quaggiù. 9 Introduzione Non ho assolutamente la presunzione di attribuire valore storico a una ricerca e una riflessione in un testo come questo che di storico ha soltanto la realtà dell’evento o degli eventi cui si riferisce. C’è piuttosto da parte mia il desiderio di ritrovare un umano oltre la violenza degli eventi e la personale costernazione che essi hanno suscitato. In un’epoca come la nostra, così provata da mille contraddizioni e in cui da troppe parti sembrano svilupparsi i primi sintomi dell’intolleranza e della xenofobia, ritengo importante non lasciar parlare solo la storia (per quanto essa vada ribadita e mai negata), ma l’intensità del desiderio di bene cui tutti, per natura, ambiamo. L’oblio della memoria genera “mostri”1, mentre io credo che sia il caso di ristabilire un giusto equilibrio tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere se nuovamente abbandonassimo la nostra umanità in nome di un non meglio connotato principio di superiorità. Sappiamo dalla storia che il passato disumano e crudele, che si voglia o no, appartiene a tutti; quello che io mi propongo è di dare un senso prospettico a quelli che sono morti, dare loro una vita nella nostra esistenza, e questo è possibile solo se si considera il bene di cui alcuni (troppo pochi, purtroppo, ma comunque sono esistiti) hanno popolato quella stessa storia con la loro azione individuale, senza ricevere ordine alcuno se non quello dettato dalla propria coscienza. È questo il seme di speranza che a ciascuno è suggerito di cogliere non per dimenticare il male, ma per non tacere il bene di cui tutti 1 Piersandro Vanzan, S.J., La “Shoah” illuminata dai “giusti”, in «La Civiltà Cattolica», quad. 3851, 2010/IV (4 dicembre 2010), p. 477. 11 avrebbero potuto farsi latori: il non averlo fatto crea la differenza, ed è questa la nostra responsabilità individuale maggiore. Possiamo e potremo vivere se davvero quella lezione scabrosa l’abbiamo imparata, se davvero vogliamo restituire un po’ di giustizia a quanti hanno immensamente sofferto. Questo testo non è altro che la storia di un incontro tra una donna ebrea sopravvissuta alla deportazione di Roma, 16 ottobre 1943, e una donna cristiana che ha sempre sentito forte il richiamo della comunità oltre la diversità culturale, religiosa, politica, ideologica quale arricchimento della propria opportunità di vita. Una donna più giovane con tante domande e col desiderio di ascoltare per riflettere e raccontare, e una donna anziana con tante storie e tanta voglia di raccontarle sono un connubio raro e profondo tra due mondi, due età, esperienze e tragedie personali differenti che hanno cominciato a camminare insieme: Alberta ed io. Ci sono degli incontri che sembrano scritti in cielo, che sembrano cambiarti la vita o, più semplicemente, che fanno venire alla luce qualcosa nascosto nel buio profondo e confuso della propria intuizione. Con Alberta ho scoperto nel concreto quello che già da ragazza mi era stato insegnato e che, giorno dopo giorno, sentivo crescere più forte in me: l’appartenenza etnica, religiosa, politica, ideologica, persino le emozioni e la simpatia personali non sono sufficientemente forti da disgregare ciò che possiamo tenere unito con la forza del cuore. Nel cuore di ciascun uomo c’è il senso della vita che è l’amore per l’altro che è la vita stessa, non il mio amore ma l’Amore. Finalmente tutto mi è divenuto più chiaro; la mia attenzione per gli eventi tragici della Shoah non è l’attenzione per la storia generale del popolo ebraico né l’attaccamento morboso a storie infinitamente dolorose e tragiche in cui sfogare determinati bisogni affettivi. Il mio interesse è per ciascuna delle persone di questo popolo cui è stata spenta la possibilità di confronto e di essere e divenire. La storia ebraica, come quella cristiana e di qualunque altra religione ha per me un grande fascino, ma io non volevo affrontare la questione in maniera “dotta”; tutto quello che ho imparato su questa e su altre culture è stato per me un indubbio ampliamento delle mie 12 conoscenze in proposito, ma a me interessavano le persone, è attraverso di loro che ho appreso quello che so. Difatti, grazie alla lettura di tantissime testimonianze ho potuto avvicinarmi a qualcosa di più intimo della storia di un popolo: la storia della sua anima. In un primo momento, a dire il vero, l’emozione mi ha travolto e trascinato. Mi sentivo coinvolta, quasi altrettanto colpevole di quelli che hanno infangato la propria umanità infliggendo il male sebbene molti anni dovessero ancora passare prima che io nascessi. Poi, ho capito che non era questo il messaggio che le testimonianze mi suggerivano: sia i sopravvissuti (conosciuti attraverso la lettura delle loro storie), sia i morti mi chiedevano di essere liberati da quella condizione di staticità in cui la morte, il silenzio dei vivi, il revisionismo, il negazionismo, li aveva imprigionati. Ho cominciato a riflettere molto su queste voci soffuse che insistevano a passarmi il loro testimone per non essere dimenticati e, mentre riflettevo e scoprivo l’insorgere di nuove indifferenze e fastidi non solo verso la storia dell’Olocausto, ma anche verso altri popoli, gli immigrati, le intolleranze verso gli omosessuali, ecc… ho capito che questa era la richiesta che giungeva da molto lontano: dare voce. Quando s’intraprende una strada del genere, non serve essere soli, bisogna creare un movimento di ricerca e di riscoperta dei valori della solidarietà, della comunità, della pace… Come si può parlare di pace a vanvera, senza cioè costruire la pace dal più piccolo istante fino alle grandi proposte? Come e da dove cominciare? Dai giovani, i miei studenti, perché a loro appartiene il futuro, perché è per loro che dobbiamo imparare a seminare la pace. Nasce così l’idea che mi portò a conoscere Alberta: una teatroconferenza abbinata a una mostra sulla Shoah nella quale già evidenziare i passi per un discorso da ampliare al contesto contemporaneo. Il futuro ha un cuore antico fu il titolo che con i ragazzi decidemmo di dare alla nostra manifestazione. E fu solo un inizio… La riflessione continua ancora e assume le forme più disparate per colpire e coinvolgere le diverse sensibilità, un po’ come la forma 13 di questo testo, che raccoglie e alterna riflessioni e racconti, poesie e partiture teatrali per provare ad analizzare non solo il passato, ma il presente che è già futuro. È innegabile che troppo spesso ormai le nostre relazioni a stretto o largo giro siano regolate da un predominante istinto di conservazione, da un aggrapparsi alla propria identità senza probabilmente neanche sforzarci di guardare a essa per l’occasione che ci offre di incontrare altre identità che si mettono in dialogo. L’identità è il tabù da non superare oltre il quale c’è il rischio di perdersi e di scoprirsi diversi rispetto a quello che si immaginava di essere. L’identità diventa la giustificazione e la motivazione dell’autodifesa piuttosto che farsi volontà di conoscere ciò che è dissimile. Quando questo accade, quando l’istinto di autoconservazione prevale su ogni cosa, vuol dire che abbiamo perso il senso di ogni memoria, di ogni umana emozione che ci ponga allo stesso livello al cospetto dell’altro. Quando questo accade, cresce il rischio dell’aggressione verso l’altro che intuiamo come possibile nemico. Ci ritroviamo in una solitudine disumana in cui spesso la stessa tecnologia ci illude di poter stare meglio affidandoci ad essa, mentre invece ci rende ancora più soli con il suo distanziamento dalla persona e con la sua illusione di comunicazione. È dunque l’uomo destinato ad essere solo per sempre in balia dei soprusi e della violenza? Queste sono le nostre paure, ed esse ci ancorano anche più strettamente alle nostre posizioni. La realtà, però, può essere ben diversa; la paura può essere sgominata e l’innocenza ritrovata restituendo valore alla dignità e all’umanità di ciascuna persona… perché resistere al male non solo si deve, ma è anche una scelta possibile. 14 Dare voce Da molto tempo ci siamo abituati al silenzio. Ci siamo abituati al silenzio del non detto, della paura di dire, della convenienza di non dire. Un silenzio diverso da quello della riflessione, di chi entra in se stesso per cercare le risposte al dolore, alla gioia, all’amore, all’odio, alla pace. Non il silenzio di chi ammutolisce per lo stupore della vita e del creato. La storia ci ha mostrato le contraddizioni dei nostri silenzi e delle nostre parole. Quante volte abbiamo taciuto mentre avremmo dovuto gridare ad alta voce il nostro dissenso e quante volte abbiamo parlato solo per riempire il vuoto della coscienza o per coprire le urla silenziose che ci inseguivano e ci aggredivano all’improvviso per la nostra cruda omertà? Il silenzio è diventato uno stile di vita… uno strano stile di vita, opprimente, perché esso non si manifesta nel raccoglimento e nell’osservazione dell’altro quanto piuttosto nel rumore, nel caos, nella negazione dell’esistenza dell’altro. Sin da ragazzina volevo essere una scrittrice; sin dal primo incontro con la Shoah sapevo in cuor mio (in quell’angolo di senso nascosto a tutti e persino a me) che avrei desiderato scrivere un libro sull’argomento pur non avendone vissuto il tempo. Non volevo, però, scrivere un romanzo e fantasticare sull’orrore, né volevo scrivere un saggio storico. No, volevo immedesimarmi e dare voce perché pensavo, allora quindicenne, ai tanti ragazzi e ragazze della mia stessa età che, come me, avevano dei sogni che fi15 nirono con loro nei campi di sterminio spegnendo con essi la propria esistenza. Pensavo che forse avrebbero voluto, anche loro, diventare scrittori come lo desideravo io, con la stessa intensità e passione… ma non hanno potuto provarci a causa di una mano vile che ne ha stroncate le potenzialità evirandoli dei propri desideri prima di condurli a morte. Nessuno deve distruggere i sogni dei bambini e non si può strapparne con la violenza le ambizioni! Eppure è accaduto… e in altri luoghi, in altri modi… accade ancora… È ovvio, c’erano di certo anche ragazzi che avrebbero voluto impegnarsi in altre professioni, e, in un certo senso, volevo dare voce anche a loro. È una responsabilità. Non si può mentire dinanzi ai sei milioni e oltre che non parlano più… nel mio piccolo, non ho mentito mai, si trattasse di insegnare ai miei alunni o di scrivere i miei libri anche di altro argomento. Non ho mentito mai e ho sempre richiamato l’attenzione sul diritto alla vita, al senso, ai sogni… Insegno lingue… anche questo è un segno: comunicare nelle lingue del mondo per dare voce2. Non voglio semplicemente commemorare, questo già si fa, e a volte anche in maniera impropria, male e senza rispetto profondo per la vita smarrita3 di chi non c’è più ma anche per quella negata di chi si è macchiato di sangue infinito e incancellabile4 e, ancora, per i pochi che restano a testimoniare di 2 «La sensazione che non avrei potuto continuare a vivere qui, in Israele, come ebreo, come israeliano, come uomo, come padre, come scrittore, se non fossi riuscito a capire la mia vita non vissuta “laggiù”, “in quel paese lì” e ai tempi della Shoah». David Grossman, La memoria della Shoah, Casagrande editore, Bellinzona, 2000, p. 18. 3 «Per me è molto importante riuscire a capire esattamente come un essere normale possa diventare un assassino. Cosa si debba fare per riuscire a collaborare in maniera così efficiente con il male, quali parti della propria anima bisogna annientare, trasformare in una specie di zona militare per poter poi funzionare al meglio in una situazione così distorta», ibidem. 4 «Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from my hand? No, this my hand will rather the multitudinous seas incarnadine, making the green one red» (Potrà l’immenso oceano di Nettuno lavare il sangue da queste mie mani? No, queste mie mani renderanno piuttosto rossi i tanti mari), così Macbeth dopo essersi macchiato 16 un’epoca che ci fa così paura e ci crea una tale ansia da volerne, in realtà, offuscare la reale pregnanza per il presente. Perché, ne sono convinta, dietro l’indifferenza, la noia, il fastidio di ricordare, si nasconde la paura non solo del male ripetibile, ma anche del dover ammettere la propria fallibilità e caducità… nonostante la storia ci abbia dato tutti i segni e la cultura per poterli leggere e farne tesoro. Sono preoccupata dal silenzio, presente e futuro, di chi nella confusione e scarsità di valori essenziali semina il germe del male confondendolo con il senso del dolore… ma non è la stessa cosa, perché il dolore segna l’esistenza di ciascuno in particolari momenti della vita, ma l’altra faccia della medaglia è la gioia5. La contropartita del male, invece, è il male stesso che si nutre di sé, auto-rigenerandosi. Non cerco, dunque, l’origine del dolore, ma desidero che questo non si confonda più, arbitrariamente, con il male. Il ricordo del dolore è già nel primo atto di separazione, nel primo lamento alla nascita e ancor prima nell’agitarsi nel grembo materno in cerca di una posizione nella culla provvisoria, in cerca di nutrimento, nel desiderio innato di libertà. Il male no. Il male non si può collegare alla vita e, in fondo, neanche al vero senso della morte. Se penso alla storia drammatica di Bruno Schultz6, narrata sapientemente da David Grossman in Vedi alla voce: Amore7, è evidente la sensibilità del personaggio che traspare dai suoi stessi racconti e, allora, non posso fare a meno di provare un profondo dolore, e nel cupo silenzio che mi dilania l’anima penso a quante persone dell’omicidio del buon re Duncan, Atto II, Scena II, 60-64. William Shakespeare, Macbeth, in Complete Works, Oxford University Press, Oxford, 1986. 5 «Il dolore è il rompersi del guscio che racchiude la vostra intelligenza. Come il nocciolo del frutto deve rompersi per esporsi al sole, così dovrete conoscere il dolore. E se sapeste voi meravigliarvi in cuore dei prodigi quotidiani della vita, il dolore vi stupirebbe meno della gioia; accogliereste le stagioni che ripassano sui campi. E vegliereste sereni anche nei duri inverni», G. Khalil Gibran, Il profeta, Guanda, Milano, 1980. 6 Bruno Schultz nasce a Drohobycz, nella Galizia orientale, il 12 luglio 1892, da una famiglia di commercianti ebrei. Dal 1934 al 1938 pubblica i suoi racconti pieni di fascino e riflessione sul senso vero delle cose semplici che colmano di vita la vita stessa. Con lo scoppio della guerra Drohobycz viene occupata dai tedeschi. Il 19 novembre del 1942 viene ammazzato da un ufficiale nazista come vendetta perché un altro ufficiale nazista aveva ucciso il suo servo ebreo. 7 David Grossman, Vedi alla voce: Amore, Mondadori, Milano, 2008. 17 come lui, Schultz, avrebbero potuto offrirci, nella cultura e nella vita di tutti i giorni, i loro messaggi, il segno della loro presenza e del loro passaggio in un mondo che avrebbe potuto essere più ricco di significati e di senso… allora, sento che DEVO essere voce, non posso farne a meno, né tirarmi indietro senza smentire tutta la passione per l’educazione e la formazione dei giovani che da anni mi contraddistingue. Se è vero, com’è vero, ciò che afferma Elie Wiesel8 e cioè che “tacere è proibito, parlare è impossibile”, non voglio che questo valga solo per i testimoni, perché tutti siamo testimoni, perché tutti sappiamo che l’inimmaginabile è ormai non solo reale, ma anche riproducibile… e talvolta tendiamo a dimenticarlo, anche quelli che più da vicino hanno sopportato sulle spalle il peso del dolore del mondo. Il dolore di quel mondo che sempre di più attraverso la cronaca si rende il dolore di questo mondo dimostrando vera la tesi che ormai tutto è possibile. Il mio cuore, infatti, guarda al passato, ma il mio occhio interiore bada al presente e al futuro che si prepara in maniera così inquietante per i nostri figli. L’unica risposta all’ansia per il presente, ineluttabile e scarsamente identificabile, è che si può imparare dal passato, non per restare ancorati al tempo che fu, prigionieri della malinconia o, come nel nostro caso, della paura, ma perché non si può nascondere la testa sotto la sabbia quando il problema accenna a riformularsi, quando l’altro continua a essere un diverso la cui alterità è pericolosa per la custodia e conservazione dei nostri privilegi. Dobbiamo smettere di pensare che quello che accade non è anche dentro di noi, che il problema non è il nostro, poiché nostra è, invece, la responsabilità che ne produce le cause, anche se fingiamo di non vedere i sintomi. 8 Elie Wiesel è uno scrittore ebreo di lingua francese nato a Sighet in Transilvania. Durante la seconda guerra mondiale fu deportato ad Auschwitz e a Buchenwald. Dopo la Liberazione è stato giornalista, autore di numerosi romanzi, racconti, saggi e opere teatrali. Nel 1986 gli è stato conferito il Premio Nobel per la pace. 18 Non bisogna sentirsi fuori, ma essere parte dell’esistenza e imparare a leggere i primi segni della crisi ancor prima che essa si manifesti pienamente9. Talvolta la paura del passato ci consolida nella convinzione che il silenzio sia il modo migliore per evitare il pericolo e che su certe storie è meglio calare il sipario e cacciarle in una tomba ben occultata e sigillata dalla pietra più immobile e solida che possa esistere affinché le morti ingiuste del passato non si trasformino in fantasmi del presente e spengano invece la loro passione di giustizia e verità schiacciati dalle ristrette mura del sepolcro che li racchiude. La paura, però, non rinnova la vita, non rigenera l’uomo, ma, anzi, lo distrugge chiudendolo nello stesso sepolcro in cui crede di aver rinchiuso per sempre i propri fantasmi. La lotta, allora, diviene impari, poiché ci sono più forza e motivazione in chi avrebbe voluto vivere ma altri ne hanno scelto la morte, rispetto a chi vive ma si costringe, cieco, a precipitare nel baratro scegliendo da se stesso di morire. Ciechi, sordi, muti, noi rifiutiamo di imparare e di cercare nel presente che è già anche futuro le passioni positive che danno alla vita un senso. Non ascoltiamo quella loro voce, che è la nostra voce, che ci rende capaci di migliorare la qualità dell’esistenza per noi e per tutti10. Dare voce per arrivare attesi e non delusi all’appuntamento in9 «Tu sai cosa vuol dire Tormenta… Sì, è la prova suprema, quella che mette a rischio il lavoro di anni di attesa e di crescita, quella che ti impone una risposta sincera e una presa di posizione tenace e severa per ciò che riguarda la propria esistenza. La Tormenta ti obbliga a mettere in atto le tue scelte attraverso ostacoli e pericoli che ti fanno sentire sull’orlo di un precipizio: essa ti avvolge e non puoi fuggirle, ma puoi resisterle e vincerla se il tuo spirito è forte e se la tua umanità è sufficientemente matura da combattere con lealtà laddove essa ti sfida con l’inganno. La Tormenta è la prova che si compie attraverso eventi più disparati e apparentemente senza rimedio… è dura e forte e non sarà facile sopravviverle, annienterà tutto e trasformerà ogni cosa, farà tremare il nostro essere fino a sconvolgerlo». Loredana De Vita, Disegno di un sogno… un cuore nascosto, Aletti editore, Villanova di Guidonia, 2007, pp. 89-90. 10 Scriveva in tempi non sospetti Sir Arthur Conan Doyle, segno che l’insegnamento del passato è un valore da sempre: «Apprendete dunque da questo racconto a non temere le conseguenze del passato, ma piuttosto ad essere circospetti per l’avvenire, affinché le malvagie passioni per le quali la nostra famiglia ha così dolorosamente sofferto non 19 teriore nel quale a ciascuno sarà chiesta prova della propria fede nell’uomo, nel valore della persona, oltre ogni differenza etnica, religiosa, culturale… Dare voce al senso dell’uomo che ciascuno deve ricercare in se stesso e negli altri, affinché la vita stessa si presenti e si offra all’altro come dono che ci accomuna e cresce senza lacerarci e dividerci… Dare voce alla passione per l’altro a prescindere dalla sua condizione, dal genere e dalle scelte che lo guidano nel cammino… Dare voce alla giustizia e alla verità di ciascuno perché è nella differenza e nella molteplicità che ciascuno trova il proprio ruolo e il proprio significato… Dare voce alla libertà personale di scegliere e di salvaguardare sempre la libertà dell’altro rispettandola poiché solo in questa convergenza l’uno e l’altro s’identificano… Dare voce alla speranza, alla gioia che possa insegnare ai nostri giovani, confusi e delusi, che vale la pena vivere, che la persona è un valore superiore al possesso di beni… Dare voce all’amore e al desiderio di pace che allontani le morti inutili dal pensiero malato e distorto di chi ci governa che contribuisce a dare alla morte stessa un valore temibile e negativo mentre essa, quando non è la conseguenza della violenza degli altri, è la normale e comune conclusione di un tempo di crescita, di attese, di responsabilità… la vita. Altro non siamo che voce, testimoni della gioia e del dolore, complici della vita e della morte, ricercatori di speranza e di pace. Questa è la mia voce per te, amico ritrovato, e per ciascuno dei milioni di vivi quassù… debbano scatenarsi nuovamente per colpa vostra». Arthur Conan Doyle, The Hound of the Baskervilles, Penguin Classic, Harmondsworth, Middlesex England, 2001. 20