RISERVA DI LEGGE E COMPETENZA PENALE EUROPEA di Lorenzo Pellegrini1 SOMMARIO: 1. Obiettivi e prospettive di fondo. – 2. Ratio ed evoluzione del principio di riserva di legge. – 2.1. Crisi della riserva di legge parlamentare. Le cause endogene. – 2.2. Le cause esogene di crisi prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. – 3. All’indomani di Lisbona: il principio di legalità penale nell’ordinamento europeo. – 4. Il problema della conformità al principio di legalità penale dei meccanismi di produzione normativa europea: attualità dell’obiezione basata sul deficit democratico-rappresentativo. – 5. Competenza penale indiretta delle istituzioni europee. – 5.1. L’armonizzazione mediante direttive: i due tipi di competenza penale indiretta stabiliti nell’art. 83 TFUE. – 5.2. L’armonizzazione mediante regolamenti: la competenza ‘quasi diretta’ stabilita dell’art. 86 TFUE. – 6. Competenza penale diretta dell’Unione europea. – 7. Considerazioni conclusive. The Author examinates the principle of legal state reservation in criminal matters and its actual decline impressed by the jurisdiction evolution of the European Court of Justice and the dispositions introduced from the Treaty of Lisbon. In the first part of the work is remarked - through a casistic-empirical analisys - the historical evolution of the ratio of the principle of legal reservation, highlighting the deep crisis that today pays either for endogenous factors - creating imbalances between internal institutional organizations, depriving Parliament of its role as guarantor of democracy and representation of the criminal choices – as for exogenous factors - tied instead to the growing wave of European law-making relevant criminal law, resulting in displacement of criminal policy decision-makers in an increasing number of cases at the supranational level - operating even before the entry into force of the Treaty of Lisbon. The second part has the pourpose of investigating and tracking both the substantial differences existing between the national legality and the European legality, and the innovations introduced by the Treaty of Lisbon (with particular reference to the abolition of the pillar system, the changing of the European law-making process, the disposals of articles 83 and 86 TFUE). The final part of the work concerne the analyses of the criminal system of sources and in particular investigates the expression 'European criminal jurisdiction'. Therefore the final question that the paper tries to give an answer, it turns out to be, after all, still valid an opposition to the recognition of a European direct criminal jurisdiction based on the principle of state reservation – at least - in its garantiste substantial-constitutional feature. 1 Dottorando di ricerca in Discipline penalistiche: diritto e procedura penale dell’Università di Firenze. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 1. Obiettivi e prospettive di fondo La fase attuale di sviluppo del diritto penale europeo iniziata dopo il Trattato di Lisbona sembrerebbe avere impresso una decisiva accelerazione alla lunga agonia del principio di riserva di legge nazionale. Quattro sono i dati di fatto e le novità rilevanti da evidenziarsi in tale ottica. In primo luogo va menzionata l’entrata in vigore della prima direttiva di armonizzazione penale, la ormai ben nota direttiva 2008/99/CE2 adottata a seguito della celebre sentenza con la quale la Corte di giustizia ha annullato la decisione quadro in materia di protezione dell’ambiente mediante il diritto penale 3 . In secondo luogo l’adozione avvenuta o comunque imminente di altre direttive, che - come la n. 99 del 2009 - introducono anch’esse obblighi di incriminazione penale per gli Stati membri4. In terzo luogo, quanto poi alle novità introdotte con il Trattato di Lisbona, occorre evidenziare: l’abolizione del sistema a pilastri che ha comportato la “normalizzazione” del ricorso alle direttive sia negli ambiti di competenza penale concorrente (art. 83.1 TFUE), sia ove siano indispensabili per la tutela dei beni ed interessi dell’Unione (art. 2 Per una diffusa analisi della direttiva 2008/99/CE, del 19 novembre 2008, in GU L 328, 6 dicembre 2008, v. in dottrina tra gli altri L. SIRACUSA, Tutela ambientale: Unione europea e diritto penale fra decisioni quadro e direttive, in Diritto penale e processo, 2006, pp. 774 ss.; ID., La competenza penale comunitaria al primo banco di prova: la direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ.; ID., L’attuazione della direttiva europea sulla tutela dell’ambiente tramite il diritto penale, intervento al Convegno “La riforma del diritto penale dell’ambiente in prospettiva europea”, Associazione Internazionale di Diritto Penale, Gruppo italiano, Roma, 4 febbraio 2010, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; L. SCHIANON DI PEPE, Competenze comunitarie e reati ambientali: il «caso» dell’inquinamento provocato da navi, in A.A.V.V., Il diritto dell’Unione europea, Milano, 2006, pp. 769 ss.; P. TORRETTA, Il “consolidamento” della prospettiva del diritto penale comunitario. Note a prima lettura sulla Direttiva 2008/99/CE, in Forum di Quaderni costituzionali, www.forumcostituzionale.it; A. MERLIN, La tutela penale dell’ambiente nella direttiva 2008/99/CE, in Ambiente e sicurezza, 2009, pp. 86 e ss.; V. PLANTAMURA, Una nuova frontiera europea per il diritto penale, in Diritto penale e processo, 2009, pp. 85 ss.; G. M. VAGLIASINDI, La direttiva 2008/99/CE e il Trattato di Lisbona: verso un nuovo volto del diritto penale ambientale italiano?, in Diritto commerciale internazionale, 2010, pp. 458 ss.; C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Pisa, 2009. 3 CGCE, 13 settembre 2005, Commissione c. Consiglio, causa C-176/03, in GU C 315, 10 dicembre 2005. 4 Tra le altre è d’uopo segnalare la direttiva 2009/52/CE, del 19 giugno 2009, la quale introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in GU L 168, 30 giugno 2009, i cui artt. 9 e 10 impongono agli Stai membri di sanzionare penalmente determinate tipologie di violazioni del divieto generale di impiego sancito dall’art. 3; e la direttiva 2009/48/CE, del 18 giugno 2009, sulla sicurezza dei giocattoli, GU L 170, 30 giugno 2009, il cui art. 51 impone agli Stati membri di adottare le sanzioni, comprese quelle penali per le infrazioni gravi, da irrogare agli operatori economici in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione; la direttiva 2009/123/CE, del 21 ottobre 2009, che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni, in GU L 280/53; e la direttiva 2011/36/CE, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, che abroga la decisione quadro 2002/629/GAI, COM (2010) 95. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 2 83.2 TFUE). In queste ipotesi le istituzioni comunitarie possono, infatti, adottare direttive di armonizzazione penale concernenti tanto il precetto quanto la sanzione. Dalle nuove disposizioni di cui all’articolo 83 TFUE si evince, dunque, chiaramente una riconosciuta competenza penale indiretta, mediante direttive dell’Unione europea. L’ultima quanto problematica novità è, infine, rappresentata dall’introduzione dell’art. 86 TFUE. Ai sensi della disposizione de qua viene, infatti, attribuita la facoltà di adottare regolamenti che definiscono i reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione europea. Delineate le prospettive alla base della nostra indagine è d’uopo fin da subito definirne con precisione anche gli obiettivi. Cercheremo di dare una non facile risposta a due quesiti di fondo: quale spazio residua nello scenario appena delineato per quell’aspetto della legalità rappresentato dal principio di riserva di legge parlamentare? Come si pone il sistema delle fonti europee penalmente rilevanti di fronte alle istanze garantistiche che hanno costituito la ratio del principio di riserva di legge? Il presente lavoro si propone, dunque, di comprendere se possa dirsi ancora fondata la tradizionale obiezione al riconoscimento o all’allargamento di una competenza penale dell’Unione europea incentrata sul deficit-democratico dell’architettura e del law–making process europei5, e quale sia il significato ed il limite dell’espressione “competenza penale europea”6. 5 Di questa tradizionale e tutt’ora diffusa obiezione danno atto numerosi ed autorevoli autori del settore. Tra questi si evidenziano G. GRASSO, La costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione europea, in G. GRASSO - R. SICURELLA (a cura di), Lezioni di diritto penale europeo, Milano, 2007, pp. 676 ss.; R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, Milano, 2005, p. 388; B. SCHÜNEMANN, Presentazione, in B. SCHÜNEMANN (a cura di), Un progetto alternativo di giustizia penale europea, ed. italiana a cura di V. MILITELLO, Milano, 2007, p. 6 s.; A. BERNARDI , Presentazione, in C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, Milano, 2010, p. IX s.; C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale, cit., pp. 15 ss. Nella dottrina comunitaria v., G. GAJA - A. ADINOLFI, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Roma-Bari, 2010, pp. 124 ss.; U. DRAETTA, Elementi di diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione europea, Milano, 2009, p. 79; T. RUSSO, Le norme “anti-deficit” democratico nell’Unione europea, in Studi sull’integrazione europea, 2007, pp. 599 ss.; L. MAGI; Attribuzione alla “nuova” Unione di poteri normativi in materia penale nonostante un persistente deficit democratico: possibile contrasto con il principio costituzionale della riserva di legge?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, pp. 1540 ss.; E. DE MARCO, Elementi di democrazia partecipativa, in La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, in P. BIANCA - M. D’AMICO (a cura di), Milano, 2009, pp. 39 ss. L’argomento del deficit democratico è stato ampiamente trattato ed analizzato nella controversa sentenza con la quale il Tribunale costituzionale tedesco si è pronunciato sulla conformità costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona e delle leggi collegate (BVerfG, 30 giugno 2009, spec. § 289 ss., in www.bverfg.de; trad. it. su www.associazionedeicostituzionalisti.it). Come noto dunque, sebbene la sentenza del Bundesverfassungsgericht del 30 giugno 2009 abbia dichiarato la conformità del Trattato di Lisbona alla Carta Costituzionale tedesca, è stata tuttavia da più parti ritenuta un passo indietro nel processo di integrazione europea. Alla luce del ragionamento seguito dalla Corte costituzionale tedesca, si pongono infatti diverse condizioni e limiti al processo di integrazione comunitario. Di qui l’interrogativo se tale pronuncia costituisca una sostanziale bocciatura del Trattato e perfino una sfida all’acquis costituzionale dell’Unione europea. In dottrina sullo specifico punto M. BÖSE, La sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona e il suo significato per la europeizzazione del diritto Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 3 Al fine di rispondere a tali interrogativi e giungere così ad una razionale individuazione delle caratteristiche e dei limiti di una competenza penale europea, occorrerà: in prima battuta, riepilogare alla luce della sua evoluzione storica la ratio del principio di riserva di legge statuale evidenziandone la profonda crisi in cui oggi versa per fattori endogeni ed esogeni; in secondo luogo, tracciare le differenze sostanziali intercorrenti tra legalità nazionale e legalità europea; infine, esaminare le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona al fine di darne una corretta interpretazione. Tanto, infatti, appare necessario proprio per comprendere consapevolmente e senza preconcetti cosa sia ed in cosa consista la competenza penale europea. 2. Ratio ed evoluzione del principio di riserva di legge Come noto, il fondamento positivo del principio di legalità espresso nel nullum crimen nulla poena sine lege è rappresentato dalla garanzia dei cittadini dai rischi di sopraffazione e strumentalizzazione insiti nel meccanismo punitivo. In altre parole, suddetto principio, fondativo delle organizzazioni statuali moderne, si pone quale argine alla possibile ingerenza liberticida dei diversi poteri7. penale, in Criminalia, 2009, pp. 267 ss.; M.P. MADURO - G. GRASSO, Quale europa dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona?, in Il diritto dell’Unione europea, 2009, pp. 503 ss.; S. CASSESE; L’Unione europea e il guinzaglio tedesco, in Giorn. dir. amm., 2009, pp. 1003 ss.; J. ZILLER; Solange III, ovvero al Euoroparechtsfreundlichkeit del Bundesverfassungsgericht. A proposito della sentenza della corte costituzionale tedesca sulla ratifica del trattato di Lisbona, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2009, pp. 973 ss.; M. CHITI, Am Deutschen Volke. Prime note sulla sentenza del Bundesverfassungsgericht del 30 giugno 2009 sul Trattato di Lisbona e la sua attuazione in Germania, in www.astridonline.it; L. MALFERRRARI, Decisione della Corte costituzionale tedesca nel caso delle banane: piena fiducia alla Corte di giustizia nel campo della protezione dei diritti fondamentali, in Dir. pubbl. comp. europ., 2000, pp. 1473 ss. Nella dottrina straniera v. in particolare M. NIEDOBITEK, The Lisbon Case of 30 June 2009 – A comment from the European Law Perspective, in www.germanlawjournal.com; A. GROSSER, The Federal Constitutional Court’s Lisbon Case: Germany’s “Sonderweg”. An Outsider’s Perspective, in www.germanlawjournal.net; P. KILVER, German Partecipation in EU Decision Making after the Lisbon Case: A Comparative View on Domestic Parliamentary Clearance Procedures, in www.germanlawjournal.com; D. HALBERSTAM, C. MÖLLERS, The German Costitutional Court says “Ja zu Deutschland!”, in www.germanlawjournal.com; J. WOELK, Parlare a nuora perchè suocera intenda: il BVerfG ddichiara incostituzionale la legge di attuazione del mandato d’arresto europeo, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2006, pp. 106 ss. 6 Affrontano la problematica in esame con la suddetta impostazione metodologica principalmente A. BERNARDI, I tre volti del «diritto penale comunitario», in Riv. it. Dir. pubbl. com., 199, pp. 333 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, Milano, 2010. 7 Sul fondamento garantista della legalità penale v. per tutti: F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, IV ed., Torino, pp. 98 ss.; ID., Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, Napoli-Roma, 2006, pp. 49 ss.; ID., Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999, pp. 199 ss.; ID., Legalità penale considerazioni su trasformazione e complessità di un principio ‘fondamentale’, in Quaderni Fiorentini, 2007, p. 1284; ID., voce Legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, pp. 344 ss.; ID., Sistema delle fonti e legalità penale, in Cass. pen., 2005, p. 278; F. MANTOVANI; Diritto penale, ed. VI, Padova, 2009, pp. 3 ss.; G. FIANDACA, Diritto penale. Parte generale, V ed., Bologna, 2009, pp. 47 ss.; ID., Legalità penale e democrazia, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 4 Come altrettanto noto, il contenuto del principio di legalità in materia penale è triplice, così come sono diverse le esigenze sottese a quei tre sottoprincipi. Irretroattività, determinatezza e riserva di legge sono le tre note articolazioni dell’unitario principio di legalità: ciascuna di esse rivela un diverso grado di adattabilità Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, pp. 1247 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1987, pp. 28 ss.; G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, III ed., Milano, 2009, pp. 29 ss.; ID., Corso di diritto penale, vol. 1, Milano, 2001, pp. 5 ss.; E. DOLCINI - G. MARINUCCI, Codice penale commentato, artt. 1-384 bis, II ed., pp. 29 ss.; T. PADOVANI, Codice penale, Milano, 2007, p. 1 ss.; A. PAGLIARO, voce Legge penale: principi generali, in Enc. dir., XXII, Milano, 1973, p. 1040; L. CARLASSARE, voce Legalità (principio di), in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990; A. CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Torino, 1999, pp. 50 ss.; M. TRAPANI; voce Legge penale, I) Fonti, in Enc. giur. Treccani, XVIII, 1990, pp. 1 ss. Sul punto è infine estremamente interessante sottolineare come già il Beccaria, nella sua opera “Dei delitti e delle pene” – pietra miliare del diritto penale moderno – proponesse una valorizzazione del principio di legalità in quanto preordinato, attraverso la certezza del diritto, a perseguire il fine ultimo di garanzia della libertà dell’uomo. Il Beccaria affermava energicamente, insistendovi quasi in ogni capitolo del proprio libro, l’esigenza che i delitti e le pene non vengano definiti caso per caso dall’arbitrio del giudice chiamato a conoscere di un fatto già avvenuto, ma siano fissati in anticipo con leggi generali, che chiaramente determinino in astratto quali azioni sono vietate come delittuose e quali sono le pene a cui va in contro chi le commette. «Le sole leggi possono decretare le pene sui delitti; e questa autorità non può risiedere che presso il legislatore …» (§ III); «In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto; la maggiore deve essere la legge generale, la minore, l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena» (§ IV); «… i decreti dei quali [giudici] sono sempre opposti alla libertà politica, quando non siano proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice» (§ VI); «ma se questo magistrato operasse con leggi arbitrarie e non stabilite da un codice che giri fra le mani di tutti i cittadini, si apre un porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini della libertà politica. Io non trovo eccezione alcuna a questo assioma generale: che ogni cittadino deve sapere quando sia reo, o quando sia innocente … » (§ XXIII). Così, in questi e in molti altri passi del “Dei delitti e delle pene” (nei quali è evidente l’ispirazione del Montesquieu) sono efficacemente segnati i principi nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege, che, insieme con quello complementare nulla poena sien iudicio, parvero dopo il Beccaria una conquista non più rinunciabile per tutti gli stati civili. Il Beccaria indica così nella legalità la prima condizione della libertà: se questa non può non essere limitata dalle esigenze della convivenza, i suoi limiti debbono esser dettati soltanto dalle leggi, affinché i cittadini siano «uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini esigere nelle presenti condizioni di cose» (§ XII). Libertà in senso puramente legalitario, dunque: la quale, prima che si entri in una valutazione politica della sostanza delle leggi, dà intanto ai cittadini il vantaggio della certezza formale del diritto, buono o cattivo che sia. Il sapere in anticipo e con sicurezza quali sono i propri doveri anche se pesanti, e i limiti, anche se angusti, della propria libertà, mette le persone in salvo «dal più crudele carnefice dei miseri, l’incertezza» (§ I): e questo è garanzia di dignità morale e fonte di coraggio civile, perché i cittadini obbedienti alla volontà del sovrano che solo può comandare attraverso le leggi, sanno di poter resistere senza tremare «alle piccole tirannie di molti, tanto più crudeli quanto è minore la distanza fra chi offre e chi fa soffrire». Il legalitarismo del Beccaria si inchina, dunque, senza discutere, di fronte ai gradini del trono. La libertà politica di cui par che egli si contenti è quella derivante dalla generalità e dalla certezza della legge, che non lascia posto per favoritismi e per gli arbitrî individuali; ma sulla legittimità di questo potere assoluto concentrato nel tiranno, senza che il popolo sia ammesso a dire la sua parola sulle leggi alle quali deve soltanto obbedire, sembra che il Beccaria nulla abbia ad obiettare fedele ad un’idea dispotica illumina. Cfr. P. CALAMANDREI, Prefazione, in C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, P. CALAMANDREI (a cura di), Firenze, 1945, pp. 83 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 5 e di resistenza all’urto dei mutamenti storici8. In altri termini si potrebbe dire che, mentre taluno di quei sottoprincipi ha una vocazione almeno tendenzialmente universalistica, altri presentano un più spiccato relativismo storico. Ed infatti il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole così come quello di determinatezza sembrano vantare una sorta di immutabilità e di generale riconoscimento in tempi e luoghi diversi, che ne fanno principi tendenzialmente astorico-universali volti a costituire la nervatura portante del principio di legalità. Più precisamente il versante universalistico della legalità attiene alla conoscibilità delle norme penali ed alla conseguente libertà di autodeterminazione dei cittadini: come tale non è soggetto al relativismo storico delle istituzioni statali. All’estremo opposto si pone la riserva di legge, la quale sembra essere il principio più storicamente condizionato in quanto presuppone, in primo luogo, l’esistenza di una pluralità di fonti del diritto tra le quali si pone l’esigenza di una gerarchia o di un riparto di competenza, di una selezione e di una concentrazione, che evidentemente non avrebbero senso alcuno in un ordinamento in cui il potere normativo fosse invece concentrato in un’unica fonte e in un unico organo. In secondo luogo, proprio perché, infine, selezione fra fonti diverse, la riserva di legge presuppone che siano praticabili dei criteri di scelta per l’individuazione della fonte «migliore»; mentre, laddove questa differenza qualitativa fra le fonti non sia instaurabile o sia comunque smentita dai fatti, il senso profondo della riserva viene grandemente scemato e viene storicamente relativizzato il suo valore politico-giuridico di principio fondamentale del diritto penale9. Si può, dunque, affermare che la legalità in materia penale è costituita da due versanti complementari: uno astorico-universalistico, nel quale prendono corpo le garanzie di tipo sostanziale sancite dai principi di irretroattività e determinatezza; l’altro storico, in cui viceversa si annoverano le garanzie c.d. formali volte all’individuazione delle fonti legittimate a produrre diritto penale, sostanziate per quanto concerne l’ordinamento giuridico italiano nel principio di riserva di legge (oggi) parlamentare (nullum crimen nulla poena sine lege parlamentaria). 8 F. PALAZZO, Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, cit., pp. 56; G. VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig. disc. pen., VII, Torino, 1994, pp. 278 ss.; F. PALAZZO, Ancora sulla legalità in materia penale, Quaderno, Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, 5, Torino, 1995, pp. 59 ss. 9 Soluzioni diverse si sono infatti avute a seconda degli assetti statuali nelle varie epoche e tutt’ora permangono anche a livello europeo basti pensare alle diversità che caratterizzano i sistemi di common law e di civil law e questo nonostante i progressivi avvicinamenti tra i suddetti sistemi. In argomento v. G. FORNASARI - A. MENELGHINI, Percorsi europei di diritto penale. Casi, fonti e studi per il diritto penale, Padova, 2005, pp. 2 ss.; E. GRANDE, Droit pènal, principe de lègalitè et civilisation juridique: vision globale, in Revue internazionale de droit compare, 2004, pp. 119 ss.; F. PALAZZO - M. PAPA, Lezioni di diritto penale comparato, Torino, 2005; A. BERNARDI, “Riserva di legge” e fonti europee in materia penale, in Annali dell’Università di Ferrara, Nuova Serie, Scienze Giuridiche, 2006, p. 21; A.A.V.V., Il diritto penale nella prospettiva europea: quali politiche criminali per quale europa?, S. CANESTRAI - L. FOFFANI (a cura di), Milano, 2002. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 6 Ciò premesso e per quanto qui più specificamente interessa, occorre mettere bene a fuoco il fondamento sostanziale del principio di riserva di legge in materia penale e chiedersi se la ricostruzione “tradizionale” risponda tuttora alla dimensione in action del principio stesso10. E’ di centrale importanza nella suddetta indagine rilevare come la riserva di legge fondi le proprie radici nell’idea illuministica di separazione dei poteri. Più precisamente, la sua funzione consiste nell’escludere il potere esecutivo e quello giudiziario dalla produzione del diritto penale e, di conseguenza, concentrarne il monopolio in capo al legislatore. E’, dunque, il parlamento il soggetto legittimamente autorizzato a produrre diritto penale e ciò per due ordini di ragioni: storiche e normative di produzione del diritto. Le ragioni storiche affondano le proprie radici nel passaggio dall’ancien regime alla Rivoluzione francese. Storicamente prima della Rivoluzione il potere giudiziario ha, infatti, rappresentato nell’europa continentale un potere caratterizzato da scarsa indipendenza ed imparzialità, risultando in definitiva contiguo al potere politico11. Da qui la diffidenza e la conseguente esigenza di escluderne un ruolo significativo nel processo di elaborazione normativa. Quanto alle ragioni di tipo normativo di produzione del diritto, è d’uopo evidenziare inoltre come, laddove il diritto penale sia prodotto interamente dal potere giudiziario si ponga un consistente problema di incertezza per il cittadino, irrazionalità e mancanza di possibilità per quest’ultimo di conoscere previamente le conseguenze del proprio agire. Tutto ciò appare collidere con le opposte esigenze di unitarietà, sistematicità e prevedibilità che dovrebbero informare il diritto penale. Tuttavia, la duplice argomentazione fin qui svolta spiega il perché non si debba attribuire il potere di produzione del diritto penale all’organo giudiziario, ma non anche perché si debba optare per la scelta del legislatore. Le ragioni esposte in altre parole spingono verso l’individuazione di una fonte produttiva ‘astratta’ in quanto la più idonea, ma non dicono anche quale essa debba essere. Come noto, fonti astratte di produzione del diritto possono derivare tanto dal governo, quanto dal legislatore. Pur tuttavia, è altrettanto risaputo che il potere esecutivo non può produrre diritto penale: occorre, dunque, ancora una volta interrogarci sul perché di tale assunto. A ben vedere, il grande limite del potere esecutivo sta nel fatto che non ha una legittimazione 10 F. BRICOLA, Il II e il III comma dell’art. 25, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, XXI, Bologna, 1981, pp. 233 ss.; F. PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, cit., pp. 224 ss., ID., Corso di diritto penale. Parte generale, cit., pp. 114 ss.; ID., Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, cit., p. 50 s.; R. BARTOLI, Incriminazione e giustificazione: una diversa legalità, in Riv. it. dir. proc. pen., pp. 597 ss.; ID., Il primato della legge alla prova della modernità, Teramo, 15-17 gennaio 2010, pp. 3 ss. del dattiloscritto; R. BALDUZZI - F. SORENTINO, voce Riserva di legge, in Enc. dir., XI, Milano, 1989, p. 1222; M. P. IADICICCO, La riserva di legge nelle dinamiche di trasformazione dell’ordinamento interno e comunitario, Torino, 2007, pp. 21 ss. 11 Come noto, la Rivoluzione diffida profondamente del potere giudiziario identificato con i riottosi parlamenti dell’Antico regime, bollati come una corporazione di cui non si desiderava affatto la resurrezione. Cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, ed. II, 2005, pp. 22 ss.; S. MANNONI, Frontiere del diritto pubblico, Milano, 2004, pp. 41 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 7 democratica o quantomeno la possiede solo indirettamente12. Il Governo non risponde del proprio agire direttamente nei confronti dei cittadini e quindi vi è il rischio che possa utilizzare lo strumento penale in senso liberticida nei loro confronti, in particolare proprio per eliminare gli avversari politici o per creare privilegi per i suoi sostenitori. Il legislatore, viceversa, è immediatamente responsabile di fronte ai cittadini e, pertanto, astrattamente non può loro nuocere. Ecco, dunque, spiegato il perché si sia ritenuto opportuno attribuire al legislatore e solo a questi il potere di produrre diritto penale: nasce tutto da un’esigenza garantista connessa al principio democratico. Dal Parlamento, quale rappresentante dell’intera collettività, ci si attende un esercizio non abusivo del proprio potere rispetto a quello ipoteticamente praticabile dagli altri poteri. Ogni limitazione dei diritti sancita con una norma dotata di legittimazione democratica deve ritenersi pertanto autorizzata in via mediata dagli stessi destinatari che in quest’ottica finiscono di fatto con l’auto-limitarsi. Alla base del principio di legalità vi è, pertanto, una ratio di garanzia rispondente al principio democratico che si esplica poi in tre controlli procedimentali (c.d. garanzie procedimentali). L’atto legislativo è sottoposto, infatti, a tutta una serie di controlli la cui sommatoria rende la fonte legislativa la più monitorabile e pertanto affidabile. Si tratta come noto del controllo: dell’opposizione sull’operato della maggioranza; dell’opinione pubblica nella fase di formazione delle leggi; dell’elettorato nella fase successiva delle elezioni politiche13. Tale ratio democratico-procedurale, volta come visto alla salvaguardia della democraticità delle incriminazioni, presenta tuttavia dei grandi ed ineludibili limiti sia strutturali che prasseologici che hanno condotto il principio di riserva di legge alla sua odierna crisi14. Sul piano strutturale occorre evidenziare come, a ben vedere, lo stesso legislatore in un assetto statuale, dove vi è una contrapposizione netta tra una forza di maggioranza ed 12 V., fra tutti, R. BIN - G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino, 2009, pp. 172 ss.; L. ELIA, voce Governo, in Enc. dir., Milano, 1970, pp. 634 ss.; S. BARTOLE, voce Governo italiano, in Dig. disc. pubbl., Torino, pp. 634 ss., G. SILVESTRI, voce Poteri dello Stato (divisione dei), in Enc. dir., Milano, 1985, pp. 670 ss. 13 F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, cit., p. 114; ID., Introduzione ai principi del diritto penale, cit., p. 204 ss.; ID., Riserva di legge e diritto penale moderno, cit., pp. 280 ss.; ID., voce Legge penale, cit., pp. 338 ss.; G. DE FRANCESCO, Diritto penale. i fondamenti, Torino, 2008, pp. 69 ss.; G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., pp. 51 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., p. 28 ss.; M. TRAPANI, voce Legge penale, cit., pp. 4 ss.; G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, pp. 37 ss.; C. CUPELLI, La legalità. Spunti su riserva di legge e delega legislativa nelle tendenze attuali del diritto penale, cit., p. 113; M. P. IADICCIO, La riserva di legge nelle dinamiche trasformative dell’ordinamento interno comunitario, cit. pp. 38 ss. 14 Più che di crisi sarebbe corretto parlare di relativizzazione della riserva di legge, nel senso che viene corrosa l’interconnessione tra riserva e istanza democratica alla base. In tal senso v. in particolare F. PALAZZO, Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, cit., pp. 49 ss., R. BARTOLI, Incriminazione e giustificazione: una diversa legalità, cit., pp. 598 ss.; ID., Il primato della legge alla prova della modernità, cit., pp. 5 ss. del dattiloscritto. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 8 una forza di minoranza, possa costituire un pericolo per i cittadini. La maggioranza in sistemi sì organizzati diviene un potere difficilmente arginabile: se questa infatti decide di approvare una legge liberticida - e vi riesce - i tre controlli garantistico-procedurali finiscono inevitabilmente per avere una ben scarsa efficacia contenitiva. Nel caso, poi, che maggioranza e minoranza si uniscano e prevedano una legge illegittimamente incisiva delle libertà dei cittadini, a livello politico i mezzi di contrasto si rivelerebbero del tutto marginali se non inesistenti15. Un’indagine a livello di prassi evidenzia, inoltre, un macroscopico allontanamento dall’archètipo legalitario precedentemente descritto. Qui la crisi della legge, che si traduce inevitabilmente in crisi della legalità, si manifesta in tutta la sua folgorante evidenza e ciò a causa di fattori tanto endogeni quanto esogeni16. La prima tipologia di fattori finisce per distorcere gli equilibri interni tra organi istituzionali, privando il Parlamento del suo ruolo di garante della democraticità e rappresentatività delle scelte di incriminazione. I fattori esogeni di crisi della legalità, dal canto loro, derivano, invece, dal crescente dilagare della produzione normativa europea di rilievo penalistico, la quale sta producendo uno spostamento dei centri decisionali di politica criminale in un sempre maggior numero di settori. Non si può, dunque, non osservare che il principio democratico-procedurale sotteso alla riserva di legge parlamentare di per se stesso non sembra (più) in grado di fornire un’idonea garanzia ai cittadini da eventuali abusi. Si impone allora una domanda: perché si continua a ritenere il legislatore statale l’unico organo legittimato a compiere scelte di incriminazione? La risposta in realtà viene naturale, solo se si consideri l’altra ratio garantista alla base del principio di riserva di legge e che affianca quella democratico-procedurale. Il riferimento è alla garanzia costituzionale-sostanziale che si esprime nel controllo contenutistico accentrato della Corte costituzionale sulla fonte primaria. E’, infatti, il rango della fonte che permette l’esplicarsi del suddetto controllo garantistico17. 2.1. Crisi della riserva di legge parlamentare. Le cause endogene 15 R. BARTOLI, La totale irrazionalità di un divieto assoluto. Considerazioni a margine del divieto di procreazione medicalmente assistita, in Riv. it. dir. proc. pen., pp. 90 ss.; M. FIORAVANTI, Il compromesso costituzionale. Riflessioni sulla genesi e sull’attuazione della Costituzione repubblicana, in P. CARETTI - M. C. GRISOLIA (a cura di), Lo stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva internazionale, Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, 2010, p. 34. 16 Effettua tale distinzione classificatoria anche C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 28 ss. 17 Al Giudice delle leggi è affidato quindi il compito di esprimere un giudizio teso a evitare che i contenuti delle leggi penali siano illegittimi alla stregua di parametri sovraordinati. Proprio l’insufficienza genetico-strutturale del procedimento parlamentare a scongiurare il rischio di leggi liberticide induce a sottolineare la prevalenza della ratio garantista costituzionale-sostanziale rispetto a quella democraticoprocedurale, quale logica di fondo della riserva di legge. In tal senso R. BARTOLI, Incriminazione e giustificazione: una diversa legalità, cit., pp. 600 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 9 La prassi palesa una evidente corrosione del principio di riserva di legge statuale e ciò specialmente per quanto attiene alla sua componente democratica. Al fine di rendersi conto di quanto appena enunciato, occorre passare in rassegna nella loro dimensione operativa i tre controlli caratterizzanti il tradizionale procedimento di adozione delle leggi così da constatare come spesso questi siano nei fatti pressoché vanificati o quantomeno fortemente ridimensionati. Più precisamente e per comodità espositiva si possono evidenziare fattori di erosione della legalità che operano nella fase genetica della produzione della norma penale e fattori che si estrinsecano invece nella fase di vigenza applicativo/interpretativa. Quanto al primo gruppo di fattori, se ne possono individuare tre fondamentali articolazioni tipologiche. In primo luogo, è d’uopo sottolineare il declino della funzione rappresentativa del Parlamento nazionale. In tal senso, infatti, si palesa oggi il rischio di un sistema democratico-maggioritario in cui la forza di maggioranza finisce con il chiudere gli spazi dialogici con l’opposizione. Da ciò consegue che la minoranza tende a ricoprire un ruolo del tutto marginale e spesso ridotto nei fatti ad un atteggiamento meramente contestativo dell’operato della maggioranza18. Il dialogo parlamentare risulta, pertanto, 18 E’ questo il complesso tema delle pratiche ostruzionistiche adottate dall’opposizione nel Parlamento maggioritario. Nel lessico parlamentare l’ostruzionismo rappresenta l’uso esasperato, pedante ed artificioso (ma legittimo) di tutte le possibili regole e norme procedurali contenute nei regolamenti parlamentari o nella Costituzione, al fine di impedire il raggiungimento di una maggioranza e dunque di ritardare o di ostacolare del tutto la definizione di un iter legislativo. E’ necessario, innanzitutto, distinguere tra esercizio, anche duro, dell’opposizione e vero e proprio ostruzionismo: l’opposizione tende infatti ad avvicinare quanto più possibile il testo dei provvedimenti ai propri punti di vista, mentre l’ostruzionismo mira ad impedirne l’approvazione, o almeno a ritardarla significativamente. Tra le singole manifestazioni ostruzionistiche praticabili nella prassi parlamentare, come noto, si annoverano: la continua richiesta di verifica del numero legale, i richiami al regolamento, la presentazione di questioni incidentali, la richiesta di votazioni qualificate, la presentazione di articoli aggiuntivi, la proposizione di emendamenti e sub-emendamenti a cascata, la richiesta di inversione dell’ordine del giorno o la richiesta di trattazione di argomenti che non sono all’ordine del giorno, le massicce iscrizioni a parlare ed il prolungamento dei discorsi per ore. L’ostruzionismo è, dunque, certamente una manifestazione di libertà da parte dei rappresentanti della sovranità popolare, ma occorre tenere presente che l’uso estremo di tale libertà potrebbe, sul piano del funzionamento dell’istituto parlamentare, portare addirittura all’impossibilità di governare da parte delle maggioranze. In tal senso, è d’uopo sottolineare che la pratica dell’ostruzionismo sarebbe, dunque, autenticamente legittima (solo) ove risulti un’ipotesi di estrema ratio. Dovrebbe essere, quindi, utilizzata come rimedio da impegnarsi laddove non sia possibile, per chi vi ricorre, ottenere gli stessi risultati per altre vie. E’ d’uopo, tuttavia, osservare come in un sistema democratico-maggioritario, quale quello italiano, alla cui base vi è una logica essenzialmente bipolare, il Governo risulta dotato di forti poteri di indirizzo politico, diventando una sorta di “comitato direttivo” della maggioranza parlamentare, attraverso la quale realizza il suo programma politico. La maggioranza sempre più insensibile alle istanze dell’opposizione in quanto espressione della volontà del Governo, finisce con il chiudere ogni spazio di dialogo e confronto. Alla forza di opposizione non resta, dunque, che fare ricorso sempre più consistente a strumenti di tipo ostruzionistico, dato il pressoché completo disinteresse rispetto alle proprie istanze. Finalizza, quindi, la sua azione politica alla sostituzione della maggioranza, facendosi portatrice di un indirizzo politico alternativo. Tale situazione ha finito con l’acuire lo scontro tra maggioranza ed opposizione, spingendo quest’ultima a ricercare ed impiegare ogni possibile strumento di contrasto avverso la politica del Governo ritenuta contraria agli interessi del Paese. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 10 sordo alle istanze espresse dall’opposizione, contratto o inesistente, nonché volto al mero raggiungimento della quantità numerica che consente l’approvazione del provvedimento19. Evidente lo svilimento del ruolo dialogico-garantista dei cittadini che dovrebbe ricoprire l’opposizione parlamentare. E’ da rimarcare inoltre il sempre meno pervasivo, per non dire inesistente, controllo della maggioranza sul Governo. La compenetrazione tra Governo e maggioranza garantita dal sistema elettorale attualmente vigente in Italia non permette, infatti, il naturale esplicarsi del suddetto controllo garantista20. Da tali brevi note si evince, dunque, il forte declino che sta vivendo oggi la funzione rappresentativa del Parlamento nazionale, con conseguente ridimensionamento/annullamento delle garanzie di controllo della minoranza sulla maggioranza e della maggioranza sul governo21. In secondo luogo, deve porsi mente all’attività del Governo nel settore penale22. Evidente è il preponderante ruolo assunto oggigiorno dall’esecutivo e ciò è dipeso, da un lato, dal massiccio utilizzo di decreti legge e decreti legislativi, dall’altro, dal sempre più diffuso rinvio a fonti secondarie. Per quanto concerne i decreti legge e i decreti In questa prospettiva l’ostruzionismo si è trasformato da lotta politica attuata da ristrette minoranze in opposizione extra o anti sistema, in strumento privilegiato dell’opposizione globalmente intesa. Nelle recenti fasi storiche, dunque, il ruolo dell’opposizione parlamentare si è spesso ridotto ad un’automatica ed aprioristica contestazione dell’attività della maggioranza, mediante tecniche ostruzionistiche attuate in sede parlamentare e accese polemiche condotte sul piano mediatico. Il confronto politico tende, dunque, ad essere “incomunicante” nelle sedi istituzionali ed a spostarsi sempre più al di fuori del Parlamento, avvertito come luogo asfittico e sede infruttifera per portare avanti le proprie istanze politiche. Si preferisce, dunque, ostruire con ogni mezzo l’attività del Governo-maggioranza in Parlamento e dare battaglia in altre sedi incidendo così non tanto sul merito dei singoli provvedimenti ma sulle oscillazioni dei consensi elettorali. Diffusamente sul punto v. I. PETARDI, Le pratiche ostruzionistiche nel Parlamento maggioritario e L. CALIFANO, L’evoluzione bipolare della dialettica maggioranza-opposizione e la necessità di recuperare la “rappresentatività” delle istituzioni parlamentari, in A. BARBERA - T.F. GIUPPONI, La prassi degli organi costituzionali, Bologna, 2008, pp. 357 ss. e pp. 419 ss. 19 Cfr. R. BARTOLI, La totale irrazionalità di un divieto assoluto. Considerazioni a margine del divieto di procreazione medicalmente assistita eterologa, cit., p. 91 s.; G. FIANDACA, Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini, vol. 36, tomo II, Milano, 2007, pp. 1252 ss.; ID., Diritto penale, tipi di morale e tipi di democrazia, in G. FIANDACA - G. FRANCOLINI (a cura di), Sulla legittimazione del diritto penale, Torino, 2008, pp. 153 ss.; 20 Ciò è segnato dall’identità tra i leaders dei partiti di maggioranza e i membri dell’esecutivo. L’ultima riforma della legge elettorale italiana – che come noto prevede liste di candidati bloccate e precostituite dai partiti, con impossibilità per gli elettori di esprimere una preferenza nominativa – sembra inoltre invertire i rapporti tra Parlamento e Governo. A ben vedere non spetterebbe più tanto al primo il potere e il compito di esprimere il secondo, assegnandogli la fiducia, ma sono piuttosto i leaders di partito, componenti del futuro Governo, a designare preventivamente nelle liste elettorali i membri della propria maggioranza parlamentare, per cui è quest’ultima a risultare, nei fatti, espressione dell’esecutivo in carica. 21 S. PAJNO, Considerazioni su principio democratico e principio della legalità, cit., pp. 482 ss.; L. CALIFANO, L’evoluzione della dialettica maggioranza-opposizione e la necessità di recuperare la “rappresentatività” delle istituzioni parlamentari, cit., pp. 357 ss. 22 Per un’analisi del concreto atteggiarsi nella prassi dei rapporti tra la legge e le fonti governative (primarie e secondarie) v. F. PALAZZO, Riserva di legge e diritto penale moderno, in Studium iuris, 1996, p. 277; ID., Introduzione ai principi del diritto penale, cit., p. 202. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 11 legislativi, seppure oggi pressoché pacificamente ammessi quali fonti di produzione del diritto penale, si tratta pur sempre di fonti lontane dallo spirito della riserva di legge, nonché logicamente incongrue e tendenzialmente poco coerenti con quelle che dovrebbero essere le caratteristiche di un diritto penale razionale23. Il ricorso invece alle 23 In tal senso F. PALAZZO, voce Legge penale, cit., pp. 346 ss.; M. ROMANO, Commentario sistematico la codice penale, I, cit., pp. 5 ss., C. CUPELLI, La legalità delegata. Spunti su riserva di legge e delega legislativa nelle tendenze attuali del diritto penale, in Critica del diritto, 2004, pp. 111 ss. Sempre più diffuso ed incisivo è, nella materia penale, il ricorso ad atti aventi forza di legge, quali i decreti legge e decreti legislativi. I suddetti interventi normativi, si sono, peraltro, spinti fino all’introduzione o modificazione di fattispecie di reato e di norme della parte generale del codice penale. Al fine di delineare una tendenza del fenomeno, basti considerare che, nella materia penale, dall’anno 2000 al luglio 2010 sono stati posti in essere, tra leggi, decreti legge e decreti legislativi, 511 provvedimenti di cui 388 d.l e d.lgs. Quanto osservato starebbe dunque a dimostrare l’importante ruolo quantitativo rappresentato dalle fonti diverse dalla legge ordinaria, l’unica, quest’ultima, veramente rispondente allo ‘spirito’ del nullum crimen nulla poena sine lege. La rilevanza non risulta essere, poi, solamente numerico-quantitativa ma anche qualitativa. In tal senso, basti pensare, infatti, come la materia dei reati tributari, societari e finanziari sia stata introdotta con decreto legislativo. I “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009, il contrasto al terrorismo internazionale del 2005, le modifiche in materia di attenuanti generiche, recidiva, giudizio di comparazione delle circostanze per i recidivi, usura, prescrizione del 2005 (c.d. ex Cirielli), sono state, poi, anche queste riforme di centrale importanza nel diritto penale, introdotte tutte non con legge ordinaria ma con decreto legge. La suddetta indagine pone dunque in evidenza: da un lato, che anche in materia penale si è fatto un consistente utilizzo di fonti diverse dalla legge ordinaria e ciò anche al fine di introdurre o modificare fattispecie di reato (già questo un dato di per se stesso “allarmante”), dall’altro, che in taluni casi ci si è trovati in tensione con i presupposti di cui agli artt. 76 e 77 della Costituzione. Quest’ultimo rilievo necessita, tuttavia, di un’ulteriore approfondimento, seppur necessariamente esemplificativo per l’economia del presente lavoro. Quanto ai decreti legge, i casi di “necessità ed urgenza” (art. 77 Cost.) sono spesso stati identificati con l’esigenza di fornire un’immediata risposta “simbolica” al clamore suscitato – anche a causa di un’eccessiva risonanza mediatica – da episodi cruenti di cronaca nera o dall’incidenza statistica di certi reati di strada (particolarmente avvertiti dall’opinione pubblica, specie se commessi da immigrati), fatti, tuttavia, per nulla dipendenti da situazioni contingenti e/o straordinarie. Sotto questo profilo, nonostante l’importante “stretta” assestata dalla Corte costituzionale all’(ab)uso della decretazione d’urgenza al di fuori dei casi straordinari di necessità ed urgenza con la sentenza n. 171/2007 e n. 128/2008, non si è riusciti ad arginare il varo, a ritmo incalzante anche negli anni ultimi anni, dei decreti legge introduttivi dei c.d. “pacchetti sicurezza”. Il riferimento è qui al ben noto d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. in legge 24 luglio 2008, n. 125. Il provvedimento in esame rappresenterebbe, infatti, un fulgido esempio di quella (consolidata) tradizione che vede il Governo, più che il Parlamento, impegnato nel fornire risposte complessive ed estemporanee a fenomeni che, pur nella loro obiettiva gravità, non possono certamente qualificarsi come emergenziali. Garantire la sicurezza pubblica appare compito istituzionale delle moderne democrazie, mentre la scelta della decretazione d’urgenza certificherebbe in qualche modo il fallimento di una politica criminale stabile e di ampio respiro, alla prova dei fatti incapace di affrontare in via ordinaria un compito “ordinario”. La scelta di affidare una materia di tale rilevanza allo strumento del decreto-legge, non è opinabile solo per la dubbia ricorrenza dei presupposti costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza, ma anche sotto il profilo del metodo parlamentare, non si può tacere, infatti, il vero e proprio malcostume di apportare in sede di conversione in legge del decreto consistenti modifiche ed integrazioni al testo originario, con intuibili difficoltà di ricostruzione del sistema e di collocazione intertemporale del novum normativo (il riferimento è qui - seppure a titolo esemplificativo - alle disposizioni penali del codice della strada contenute nell’art. 4 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con emendamenti dalla legge 24 luglio 2008, n. 125). Quanto, invece, ai decreti Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 12 legislativi delegati, non solo sono – come messo in evidenza nelle statistiche in calce alla presente nota riportate - sempre più utilizzati, anche in ambito penale, per l’introduzione di riforme di interi settori penali (specie in ambito economico, basti pensare al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in materia di reati tributari e al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, in materia di reati societari), ma deve osservarsi anche come i principi e i criteri direttivi che il Parlamento deve dettare nel momento in cui conferisce la delega (art. 76 Cost.), al fine di contenere la discrezionalità dell’esecutivo, si limitano, assai di frequente, a formule vaghe ed interlocutorie, in definitiva poco idonee a circoscrivere tale discrezionalità. Esemplificativa, in tal senso, è la vicenda normativa attuata dall’art. 9 della legge 205/1999, con cui si è delegato il Governo alla riformulazione del diritto penale tributario. Ad un’attenta analisi del contenuto della suddetta delega (art. 9, comma 2 lett. a) i criteri forniti al delegato risulterebbero piuttosto vaghi ed indeterminati: «semplificazione del sistema repressivo penale nella logica della sua estrema ratio, offensività, natura delittuosa dei nuovi illeciti, dolo specifico di evasione, esclusione del ricorso a circostanze aggravanti ad effetto speciale». Appare, dunque, piuttosto evidente l’ampio margine di discrezionalità riservato al Governo. In materia di circostanze è d’uopo, inoltre, osservare come la legge di delegazione abbia fornito – come sopra evidenziato – una sola, chiara, indicazione di principio: il nuovo sistema penale non avrebbe dovuto essere caratterizzato da circostanze aggravanti ad effetto speciale. Una simile presa di posizione può trovare una spiegazione nell’esigenza di evitare che significativi contenuti di disvalore nella condotta illecita - tanto significativi da indurre ad una modifica del quadro edittale della pena massima in modo eccedente l’aumento sino ad un terzo o addirittura ad una sua integrale riscrittura potessero risultare confinati nell’incerto spazio esistenziale degli elementi accidentali del reato, suscettibili, come noto, di scomparire nelle foschie del giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p., nel concorso con circostanze di segno opposto. Carta bianca è invece riservata alla possibilità di introdurre circostanze attenuanti (il legislatore ha, difatti, introdotto una circostanza attenuante particolarmente significativa ed incisiva all’art. 13 d.lgs. : la c.d. attenuante del pagamento del debito tributario). Un ulteriore caso emblematico in cui si ricorreva con una certa sistematicità (negli ultimi anni sembra essere, infatti, parzialmente cambiata la tendenza) a deleghe vaghe ed indeterminate era quello della c.d. legge Comunitaria (v. oltre paragrafo 2.1). Come noto, la legge Comunitaria a cadenza (teoricamente annuale) concede delega al Governo per attuare nell’ordinamento interno le direttive dell’anno precedente, stabilendo altresì criteri di massima per orientare nella scelta degli strumenti sanzionatori punitivi – penali e amministrativi – qualora siano necessari per rafforzare la tutela della disciplina. Orbene, spesso si tratta di delega necessariamente generale in quanto relativa a una grande quantità di direttive concernenti materie tra loro anche molto eterogenee; così che altrettanto generali non possono non essere anche i criteri di delega concernenti l’apparato sanzionatorio e la scelta del governo sull’an e sul quomodo del ricorso alla sanzione criminale. Conseguentemente, nonostante il rispetto formale della riserva di legge assicurato dall’uso del decreto delegato, è chiaro che lo spirito della riserva di legge in materia penale viene un po’ tradito dalla ineluttabile genericità della delega. Al fine di riscontrare quanto appena osservato, è sufficiente un’attenta lettura, ad esempio, dei seguenti articoli di legge: art. 2.1 legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge Comunitaria 2004); art. 2.1 legge 25 gennaio 2006, n. 99 (legge Comunitaria 2005); art. 2.1 legge 6 febbraio 2007, n. 13 (legge Comunitaria 2006). Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 13 fonti secondarie le quali, come noto, intervengono nel processo di definizione del precetto, seppure necessarie (se non proprio indispensabili) in quei settori caratterizzati da un elevato contenuto tecnologico-scientifico, in quanto riescono a contemperare le opposte esigenze di mantenimento di una normazione sintetico-astratta e di un dettagliato apporto tecnico-specificativo 24 , ove raggiungano dimensioni talmente importanti sia qualitativamente che quantitativamente inducono nei fatti verso una progressiva relativizzazione del principio di riserva di legge25. Tali fenomeni dunque incidono fortemente sulla centralità del Parlamento nel processo di produzione normativa penale, sostituendovi in definitiva il Governo26. In terzo ed ultimo luogo, nella fase genetica di formazione delle leggi rilevano, quali fattori di erosione della legalità, le ormai numerose distorsioni interne al procedimento legislativo. La prassi legislativa si è infatti andata sempre più allontanando dal L D.l. D.lgs. attuazione su impulso comunitario 2000 14 2 12 7 2001 18 8 12 3 2002 6 8 4 2 2003 17 13 12 10 2004 11 10 14 4 2005 10 12 14 7 2006 15 7 20 7 2007 8 4 25 18 2008 3 12 12 5 2009 13 6 8 6 07.2010 8 4 18 10 Tot 123 86 151 79 123 388 511 79 79 24 L’intervento di fonti secondarie per la maggior parte adottate dal potere esecutivo, risulta in tale ottica necessaria per il raggiungimento di un equo compromesso tra riserva di legge e determinatezza R. BARTOLI, Incriminazione e giustificazione: una diversa legalità, cit., pp. 597 ss. 25 V. MANES, L’eterointegrazione della fattispecie penale mediante fonti subordinate, tra riserva “politica” e specificazione tecnica, in Riv. it. dir. proc pen., pp. 95 ss.; F. PALAZZO, Riserva di legge e diritto penale moderno, cit., pp. 277 ss.; ID., Introduzione ai principi del diritto penale, cit. p. 233. 26 D. TEGA, Gli atti normativi primari del Governo nelle recenti tendenze, in A.A.V.V., La prassi degli organi costituzionali, cit., pp. 135 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 14 procedimento di formazione delle leggi disciplinato all’art. 70 e seguenti della Costituzione, anche quando una norma penale è adottata con legge formale. In tale ottica è d’uopo effettuare un seppur sintetico richiamo ai fenomeni del ricorso ai maxiemendamenti e dell’apposizione della questione di fiducia da parte del governo 27. Entrambi i suddetti meccanismi procedimentali, sempre più diffusi nella prassi legislativa odierna e spesso combinati anche tra loro 28 , finiscono infatti con il 27 Il maxi-emendamento rappresenta una forma estrema di esercizio del potere di emendamento e consiste nella presentazione nel corso dell’esame in Assemblea di una proposta di modifica del testo del provvedimento da approvare che ne altera radicalmente l’impianto normativo, venendo contemporaneamente a incidere su più articoli della proposta. Tecnicamente, i maxi-emendamenti sono strutturati come emendamenti interamente sostitutivi, formalmente riferiti a un unico articolo, ma di fatto estesi all’intero testo in esame. Si tratta dunque di emendamenti composti da numerosi articoli o comunque da un solo articolo ma con molti commi, che invece di introdurre delle piccole modificazioni e precisazioni o piccole abrogazioni alle leggi (cosa che è la funzione propria e legittima dell'emendamento) le modificano nel loro complesso o addirittura finiscono per renderle del tutto inoperative. Per di più il maxi-emendamento viene il più delle volte proposto in deroga ai termini ordinari per la presentazione degli emendamenti, con una cadenza temporale idonea a veicolare il voto della maggioranza parlamentare su un testo unico predisposto dal Governo, successivamente inemendabile. L’approvazione non vede alcun dibattito sui singoli commi del maxi-emendamento e avviene mediante votazione ‘secca’ sull’intero testo normativo: risulta pertanto più una ratifica che un’approvazione da parte del Parlamento. I maxi-emendamenti cagionano dunque una profonda alterazione delle regole costituzionali che governano l’adozione dei testi legislativi e che sostanziano la garanzia democraticoprocedimentale. Più precisamente viene meno la trasparenza, la pubblicità e la partecipazione delle minoranze. In dottrina v. E. GRIGLIO, I maxi-emendamenti del governo in parlamento, in Quad. cost., 2005, p. 809 s.; G. PICCIRILLI, L’emendamento nel processo di decisione parlamentare, Roma, 2008, pp. 275 ss.; N. LUPO; Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di fiducia nelle legislature del maggioritario, in E. GIANFRANCO - N. LUPO (a cura di), Le regole del diritto parlamentare nella dialettica tra maggioranza e opposizione, Roma, 2007, pp. 41 ss.; P. GARRO; Il maxi-emendamento, in www.consiglio.regione.toscana.it; C. GRANDI; Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 33 s. Quanto poi alla questione di fiducia è questa un istituto parlamentare riservato al Governo e disciplinato dai regolamenti interni della Camera (art. 116) e del Senato (art. 161) che viene posto su una legge (o più comunemente su un emendamento ad una legge), qualificando tale atto come fondamentale della propria permanenza in carica. Nella pratica politica tale strumento viene usato dal Governo per compattare la maggioranza parlamentare che lo sostiene o per evitare l’ostruzionismo dell’opposizione. Ponendo la fiducia, tutti gli emendamenti decadono e la legge deve essere votata così come è stata presentata. Nel caso in cui il Parlamento respinga la questione di fiducia posta dal Governo, quest’ultimo è considerato privo della fiducia della Camera/Senato e pertanto è tenuto a rassegnare il mandato nelle mani del Capo dello Stato. Va inoltre ricordato che tale istituto giuridico, compattando la maggioranza cerca di annullare i c.d. franchi tiratori che si nascondono dietro il voto segreto. Di fatto nella prassi parlamentare si traduce dunque in uno strumento a disposizione del Governo per costringere la sua maggioranza parlamentare a sostenere le iniziative secondo l’impegno assunto in sede di approvazione della mozione di fiducia. A ben vedere dunque l’utilizzo anche frequente nella prassi del suddetto strumento finisce per neutralizzare i controlli garantisti di maggioranza e minoranza parlamentari. M. OLIVETTI, La questione di fiducia nel sistema parlamentare italiano, Milano, 1996, pp. 1 ss.; N. LUPO, Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di fiducia, cit., pp. 104 ss. 28 In Parlamento è sempre più frequente il ricorso all’approvazione di maxi-emendamenti coperti dalla questione di fiducia. Quest’ultima combinazione rappresenta a ben vedere un vero e proprio vulnus alla qualità della normazione, consentendo al Governo di “blindare il voto” su un testo unitario non più emendabile e di pervenire con certezza ed in tempi brevi all’approvazione. Fortemente compromesso, se Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 15 non propriamente annullato, risulta ictu oculi il controllo sia dell’organo rappresentativo sull’operato del Governo sia dell’opinione pubblica sull’attività del Parlamento dati i tempi contingentati di approvazione. Le ‘torsioni’ al procedimento legislativo fin qui descritte, hanno trovano applicazione anche in materia penale, dove dovrebbero, invece, farsi più saldi ed inflessibili i meccanismi garantisti disciplinati dalla Costituzione. Caso emblematico in tal senso, è rappresentato dall’iter di approvazione della legge n. 94 del 15 luglio 2009 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009 (c.d. secondo pacchetto sicurezza). Si tratta, come noto, di uno degli interventi normativi in materia penale più significativi degli ultimi anni che è andato ad incidere in maniera profonda su numerosi istituti e disposizioni anche della parte generale del codice penale. In particolare, si ricorda la controversa (anche se ritenuta costituzionalmente legittima) introduzione del reato di «Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» (art. 1 comma 16 ddl S. 733-B). Da un’attenta analisi dell’iter di approvazione della suddetta legge, si evince chiaramente come il Governo abbia fatto ricorso allo strumento dei maxi-emendamenti coperti dalla questione di fiducia, al fine di “blindare il voto” del Parlamento ed ottenerne l’approvazione in tempi rapidi. Più nel dettaglio, è d’uopo osservare che il Governo Berlusconi aveva presentato e trasmesso al Senato il ddl S. 733 recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica» in data 3 giugno 2008. Il Senato, in prima lettura, tra l’esame in Commissione e la discussione in Assemblea, vedeva la presentazione di un numero complessivo di 25 ordini del giorno, 639 emendamenti, 2 questioni pregiudiziali, 1 proposta stralcio ed 1 proposta di coordinamento: quasi i tre quarti dei suddetti atti su iniziativa dell’opposizione. Il Senato giungeva, quindi, in data 5 febbraio 2009 all’approvazione della proposta di legge il cui testo veniva trasmesso alla Camera dei Deputati. In quest’ultima sede, l’esame in Commissione prima e la discussione in Assemblea poi, risultavano particolarmente articolate e dibattute. Più precisamente, furono presentate ben 656 proposte emendative riferite al C. 2180 e al C. 2180-A. In particolare, è d’uopo sottolineare che gli ultimi tre emendamenti proposti in Assemblea furono presentati dal Governo ed erano, in realtà, dei maxi-emendamenti (consistenti rispettivamente in un solo articolo e composti da complessivi 128 commi) fortemente incisivi sull’intero articolato approvato dalle Commissioni. Per la votazione dei tre maxi-emendamenti fu posta, inoltre, la questione di fiducia. Evidenti le conseguenze e gli esiti: caduta di tutti i precedenti emendamenti proposti e votati, veicolazione della votazione su un unico testo unilateralmente predisposto dal Governo, che veniva, essendo stato oggetto di questione di fiducia, “inevitabilmente” approvato in data 13 maggio 2009. Il testo del disegno di legge sulla sicurezza dopo l’approvazione con modificazioni da parte della Camera dei Deputati, veniva, dunque, trasmesso nuovamente al Senato. La Commissione e l’Assemblea presentavano, con riferimento al ddl S. 733-B, 30 ordini del giorno, 279 emendamenti e 9 questioni di fiducia. Tuttavia, anche in questo caso, l’attività di discussione e confronto Parlamentare veniva “ridotta ai minimi termini”, avendo il Governo su ciascuno dei tre articoli del ddl 733-B posto nuovamente la questione di fiducia. Si giungeva, dunque, alla definitiva approvazione in data 15 luglio 2009 di un testo sostanzialmente unilateralmente predisposto dal Governo, sul quale l’attività di controllo della maggioranza e dell’opposizione parlamentari era risultata pressochè assente. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 16 comprimere fino quasi ad annullare sia il controllo di maggioranza e minoranza parlamentare, che quello dell’opinione pubblica sull’operato del Parlamento. Per quanto attiene alla fase della vigenza delle norme e, quindi, alla loro dimensione applicativo-interpretativa da parte del giudice, occorre verificare come la giurisprudenza della Corte costituzionale e i giudici di merito concorrano anch’essi alla corrosione dell’interconnessione tra la riserva di legge e l’istanza democratica che ne è alla base. Al riguardo, vale innanzitutto la pena evidenziare che la giurisprudenza costituzionale ha incrementato notevolmente anche in campo penale la pervasività del controllo di costituzionalità attraverso il giudizio di ragionevolezza e l’utilizzo delle sentenze manipolative, interpretative di rigetto e di inammissibilità interpretative. Il giudice costituzionale ha, pertanto, esercitato una sempre maggiore ingerenza sulle opzioni di incriminazione e sulla determinazione dei livelli sanzionatori29. Iª lettura ddl S. 733 – Iª lettura ddl C. 2180 – IIª lettura ddl S. 733-B Ordini del giorno Commissio ne Assemblea 13 42 Tot. 55 Emendamenti Commission e Assemblea 810 760 (3 maxiemendamen ti) Tot. 1574 Proposte stralcio Commissio ne Assemblea Proposte di coordinamento Commissio ne Assemblea 1 Tot. 1 1 Tot. 1 29 E’ da evidenziare come, nei sui rapporti con i giudici comuni la Corte stia consolidando un orientamento in cui essa esercita i suoi poteri di interpretazione correttiva più che attraverso sentenze interpretative di rigetto mediante addirittura sentenze di inammissibilità, nel presupposto che il giudice a quo non abbia esercitato tutti i doverosi sforzi di interpretazione adeguatrice prima di sollevare la questione. Il che, peraltro, non le impedisce talvolta di suggerire essa stessa la soluzione interpretativa ritenuta conforme a Costituzione. Una posizione, dunque, da un lato di «disimpegno», ma dall’altro di forte monito ai giudici per un loro fattivo impegno interpretativo di cui la Corte si spinge a tracciare le linee costituzionalmente obbligate. Emblematiche di tale indirizzo risultano le ben note sentenze 14 giugno 2007, n. 192, su una complessa questione in tema di recidiva reiterata, e 24 luglio 2007, n. 322, concernente l’irrilevanza del c.d. error aetatis nei reati sessuali). In dottrina, conformemente alle suddette osservazioni v. F. PALAZZO, Il costituzionalismo penale italiano e le Corti penali europee, in P. CARETTI M. C. GRISOLIA (a cura di), Lo stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva internazionale, Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, 2011, pp. 574 ss. E’ d’uopo analizzare la pronuncia del 24 luglio 2007 nel dettaglio, al fine di comprendere più chiaramente, attraverso l’esemplificazione, quanto appena rilevato. La Corte costituzionale, nella nota sentenza 322/2007, era stata chiamata a sindacare la conformità della disposizione di cui all’art. 609-sexies c.p. agli artt. 3 e 27 della Costituzione. La norma codicistica sottoposta al vaglio costituzionale, che riproduce pressoché letteralmente l’abrogato art. 539 c.p., dispone che il colpevole di determinati reati sessuali commessi ai danni di un minore che non abbia compiuto ancora i quattordici anni di età «non può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa». La Corte, pur ravvisando nella sostanza l’illegittimità Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 17 costituzionale dell’interpretazione dell’art. 609-sexies c.p. nel senso in cui l’irrilevanza dell’error aetatis dovesse ritenersi essere assoluta ed invincibile (interpretazione questa l’unica testualmente possibile) e ciò a causa dell’inequivocabile contrasto con il principio di colpevolezza così come chiarito e precisato dalla svolta giurisprudenziale impressa dalle sentenze n. 364 e 1085 del 1988, si pronunciava dichiarando inammissibile la questione sollevata. Più precisamente, si osserva che la fattispecie sottoposta al vaglio costituzionale incentra il proprio disvalore interamente nell’età inferiore ai quattordici anni, «facendo scattare la presunzione iuris et de iure di incapacità della vittima a prestare un valido consenso agli atti sessuali», è pertanto necessario (dopo le pronunce dell’88) che tale elemento della fattispecie sia collegato all’agente da un nesso psicologico. Tale regola, che incarna il principio di colpevolezza, «non può essere sacrificata dal legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela di altri valori, ancorché essi pure di rango costituzionale» nemmeno al fine di minimizzare l’effetto dissuasivo e di contrasto di condotte illecite di consociati. I principi di garanzia in materia penale non sono, infatti, suscettibili di essere compressi poiché strettamente collegati e funzionali alla libertà ed al valore della persona umana. Ciò chiarito, la Consulta, ha tuttavia ritenuto inammissibile la questione sollevata dal giudice a quo per non avere questi esperito il tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma: «il giudice rimettente non si pone neppure il problema di esperire un’interpretazione secundum costitutionem della disposizione denunciata: acclarando, in specie, se sia o meno possibile ritenere che l’ipotesi dell’ignoranza inevitabile resti estranea alla regola dell’inescusabilità sancita dalla disposizione stessa». In altre parole viene, cioè, rimproverato al giudice rimettente il mancato tentativo di interpretare la norma impugnata alla luce dell’avvenuta ‘costituzionalizzazione’ del principio di «necessaria colpevolezza, ragguagliato quantomeno al minimum dell’ignoranza o dell’errore inevitabile, incida esso sulla norma o sugli elementi del fatto stesso, operazione ermeneutica doverosa per il giudicante». E’ d’uopo, tuttavia, chiedersi se il giudicante avrebbe davvero potuto a cuor leggero formulare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma alla luce della sentenza 364/1988 – così come la Corte gli rimprovera di non aver fatto – a fronte di un dato letterale di segno opposto, di una giurisprudenza conforme all’interpretazione del rimettente e di una dottrina che ha sottolineato la «cruda perentorietà» del dettato normativo, con l’effetto di pervenire ad una vera e propria rottura della lettera dell’art. 609sexies c.p. la cui formulazione non lascerebbe adito ad interpretazioni diverse da quella che esclude ogni rilevanza all’errore sull’età sia esso colpevole/inescusabile o incolpevole/scusabile. A ben vedere, peraltro, anche con una scelta più «decisa», volta ad affrontare il merito della questione, la Corte non avrebbe invaso il campo riservato alle scelte politiche riservate al legislatore, ma avrebbe semplicemente riportato il contenuto della disciplina discrezionalmente forgiata dal legislatore a quel «livello minimo» di compatibilità con il non derogabile principio di colpevolezza, in maniera peraltro del tutto analoga a quanto già avvenuto con la sentenza n. 1085 del 1988. Sembra dunque che la scelta della dichiarazione di inammissibilità, più che un ossequio alla discrezionalità del legislatore, sia stata piuttosto determinata dalla volontà di rispettare rigorosamente la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e dunque in genere il potere interpretativo della norma che spetta al giudice. La sentenza di inammissibilità della Corte costituzionale, infatti, per sua natura formalmente non vincola in alcun modo i giudici, al contrario delle cosiddette sentenze interpretative, sia di rigetto che di accoglimento. Occorre abituarsi a questa scelta «umile», «di basso profilo» della Corte costituzionale, negli ultimi anni statisticamente sempre più frequente, e considerare queste dichiarazioni di inammissibilità come le «nuove» sentenze interpretative, tutte le volte in cui l'interpretazione offerta dal rimettente sia rigettata per motivi attinenti ad un contrasto dell'interpretazione della norma impugnata con la Costituzione (Cfr. L. DELLI PRISCOLI - F. FIORENTIN, L’ignoranza dell’età del minore nei reati sessuali e le «nuove» sentenze interpretative, in Giur cost., 2008, pp. 472 ss.). Si tratta di una nuova tipologia di sentenza interpretativa, pronunciata a prescindere dal fatto che l'interpretazione offerta dal rimettente corrisponda a quella del cosiddetto «diritto vivente» e conserva un quid di entrambe le specie: di quelle di rigetto (che vengono normalmente emanate quando il rimettente aderisce ad un'interpretazione diversa da quella consolidata o quando non vi sia un diritto vivente), e di quelle di accoglimento (emanate a fronte di un'interpretazione della norma conforme al diritto vivente), le quali dunque conseguentemente vedono entrambe restringersi il loro campo di azione. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 18 Infatti, quanto alla tipologia classica della sentenza interpretativa di rigetto (questo è il tipico dispositivo: «la Corte costituzionale dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. ...») essa svolge ormai solo un ruolo residuale (lo testimonia anche, negli ultimi anni, la diminuzione in termini numerici di questa tipologia di sentenze), relegato alla dichiarazione di non fondatezza di questioni riguardanti norme per le quali l'erroneità dell'interpretazione discende semplicemente da un non corretto utilizzo dei canoni ermeneutici classici (interpretazione letterale, logico-sistematica, etc.), senza che sia necessario richiamare un'interpretazione costituzionalmente orientata. Trattandosi di interpretazioni errate per cattivo uso dei canoni interpretativi tradizionali, si tratterà dunque, nella maggior parte dei casi, di interpretazioni minoritarie non seguite dalla maggior parte della giurisprudenza. Quanto poi alle sentenze interpretative di accoglimento, deve anzitutto osservarsi che l'adozione della pronunzia di inammissibilità, a fronte dell'alternativa costituita da una pronunzia interpretativa, pur non assurgendo a dictum vincolante per l'interprete, indubbiamente rafforza la lettura della disposizione censurata nel senso di armonizzarla con il principio di colpevolezza scritto nel «nuovo» art. 5 c.p. La sentenza in esame offre infatti certamente più di un argomento per superare, già in via interpretativa e nella sede di merito, i dubbi di costituzionalità espressi dal rimettente, consentendo un'applicazione della norma denunciata che tenga conto della rilevanza scusante dell'errore sull'età infraquattordicenne della vittima del reato sessuale. In altre parole, preso atto del dispositivo della sentenza - di inammissibilità - la sentenza ha comunque un importante contenuto precettivo che la giurisprudenza potrebbe sì formalmente ignorare, continuando a non dar spazio all'errore inevitabile, ma che la esporrebbe a questo punto inevitabilmente, qualora la questione tornasse all'attenzione della Corte costituzionale, ad una tradizionale sentenza interpretativa di accoglimento, che dichiarerebbe l'incostituzionalità della norma nella parte in cui è suscettibile di essere interpretata nel senso che il reato è integrato anche nel caso di ignoranza inevitabile sull'età del minore. Pertanto, è come se la Corte costituzionale avesse inaugurato, attraverso l'ampio ricorso alle pronunce di inammissibilità per non avere il rimettente tentato di esperire un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, una nuova stagione di «galateo istituzionale» nei rapporti con i giudici (Cfr., G.P. DOLSO, Le interpretative di rigetto tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in Giur. cost., 2004, pp. 3021 ss.; L. DELLI PRISCOLI - P.G. DEMARCHI, L'eccezione di incostituzionalità: profili processuali, Bologna, 2008, pp. 200 ss.; L. DELLI PRISCOLI - F. FIORENTIN, L’ignoranza dell’età del minore nei reati sessuali e le «nuove» sentenze interpretative, cit., pp. 472 ss.), che si concretizza per la Corte costituzionale nel ridurre al minimo indispensabile le sentenze interpretative, sostituite da quelle di inammissibilità e per la giurisprudenza nell'attenersi a quanto affermato in motivazione da quest'ultime sentenze. La Cassazione, con la sent. 11 luglio 2007, n. 32235, ha offerto, proprio con riguardo alla sentenza in esame, un esempio evidente del buon funzionamento di questo tipo di rapporti: in tale sentenza, infatti, si aderisce esplicitamente alla motivazione della sentenza in commento pur riconoscendo trattarsi di sentenza di inammissibilità. Ha infatti affermato tale sentenza che: «l'imputato non può allegare di ignorare un elemento della fattispecie di reato qual è l'età della parte offesa, giacché è l'età che reca con sé tutto il disvalore della previsione del fatto come reato. Tale inescusabilità però deve ora tenere conto della recente pronuncia dalla Corte costituzionale (Corte cost., 24 luglio 2007, n. 322) che, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale di tale disposizione in riferimento all'art. 27 commi 1 e 3 Cost., rimarcando tra l'altro che il giudice rimettente non si era posto il problema di verificare la praticabilità di una interpretazione secundum constitutionem della disposizione denunciata, ha in particolare affermato che «il principio di colpevolezza - quale delineato dalle sentt. nn. 364 e 1085 del 1988 di questa Corte - si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell'applicazione delle disposizioni vigenti». Può allora ritenersi, in ragione proprio di un'interpretazione secundum constitutionem dell'art. 609-sexies c.p., che la storica sent. n. 364 del 1988, che ha dichiarato illegittimo, per violazione dell'art. 2 Cost., dell'art. 3 commi 1 e 2 Cost., dell'art. 25 comma 2 Cost., dell'art. 27 commi 1 e 3 Cost., l'art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile, ha fissato il principio generale della soglia minima di imputabilità costituita Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 19 Quanto alla giurisprudenza di merito è noto, invece, come questa dia ormai origine al c.d. ‘diritto vivente’. L’attività interpretativa spesso conduce a delle vere e proprie torsioni delle fattispecie incriminatrici tant’è che è diffusa oggi l’idea di una forte creatività interpretativa dei giudici30. In estrema sintesi, si può agevolmente constatare che l’attività creativa e manipolativa della giurisprudenza del giudice comune e della Corte costituzionale mettono in forte crisi le prerogative dell’organo rappresentativo nella definizione dei contenuti delle norme penali. dalla mancanza dell'«ignoranza inevitabile»; principio che è generalissimo, autoapplicativo, e che permea tutto l'ordinamento delle fattispecie penali. Se l'ignoranza inevitabile scrimina nell'ipotesi estrema - quella in cui l'ignoranza verte addirittura sull'esistenza del precetto penale (tale è il dispositivo della sent. n. 364 del 1988) - questa stessa ignoranza inevitabile, a maggior ragione, deve scriminare anche quando verta su un singolo elemento della fattispecie. Il «vantaggio» della pronuncia di inammissibilità è, inoltre, al di là di un maggior rispetto formale per il ruolo della Cassazione, quello di non vincolare definitivamente i giudici al rispetto di una certa interpretazione della norma, consentendo anche delle modifiche nell'interpretazione stessa, di pari passo con l'evolversi di una diversa sensibilità nei confronti delle norme costituzionali (Cfr. in tal senso L. DELLI PRISCOLI - F. FIORENTIN, L’ignoranza dell’età del minore nei reati sessuali e le «nuove» sentenze interpretative, cit., pp. 476 ss. La maggiore elasticità nell'interpretazione rappresenta però anche il «difetto», non di poco conto, di questo nuovo corso delle sentenze interpretative sotto le mentite spoglie dell'inammissibilità per non avere il rimettente esperito il doveroso tentativo di dare alla norma un'interpretazione costituzionalmente orientata. Infatti, la possibilità offerta ai giudici di distaccarsi da quanto affermato dalla Corte costituzionale intacca inevitabilmente la certezza del diritto, e si pensi solo all'imbarazzo e alla difficoltà per i compilatori dei codici, indecisi sull'opportunità o meno di riportare in nota agli articoli interessati le numerose sentenze di inammissibilità della Corte costituzionale per omesso tentativo di esperire un'interpretazione costituzionalmente orientata. Peraltro, in questa nuova prospettiva, non può comunque trascurarsi che la rilevanza dell'ignorantia aetatis, per esplicare efficacia scusante deve raggiungere la soglia dell'inevitabilità, di tal che il piano di indagine si sposta sulla fattispecie concreta, sull'individuazione, cioè, dei casi in cui l'ignoranza o l'errore possono considerarsi «inevitabili». A questo fine certamente può aiutare l'elaborazione giurisprudenziale citata, che ha ad esempio escluso la rilevanza a fini scusanti delle dichiarazioni del soggetto minorenne, del suo «prorompente» aspetto fisico, nonché del suo comportamento sessuale «spregiudicato» Cfr. L. DELLI PRISCOLI - F. FIORENTIN, L’ignoranza dell’età del minore nei reati sessuali e le «nuove» sentenze interpretative, cit., pp. 472 ss. 30 Il rapporto tra legislatore, giudici e Corte costituzionale assume nell’odierno assetto statuale forma e natura ‘triangolare’. Con la suddetta figura geometrica ci preme evidenziare come i tre attori si inseriscano in un percorso unitario in cui tutti entrano in gioco e concorrono in vari momenti alla ricerca ed individuazione della regola iuris costituzionalmente conforme applicabile al caso concreto. Tale interazione deve risultare sempre equilibrata nel rispetto dei diversi ruoli costituzionali. Le suddette considerazioni hanno avuto come riferimento principale: la relazione di P. GROSSI al convegno Giustizia penale, Costituzione e diritti fondamentali, in ricordo di Giuliano Vassalli, tenutosi alla Corte Suprema di Cassazione il 13 ottobre 2010 e la lectio magistralis dello stesso dal titolo “L’identità del giurista oggi”, tenutasi presso l’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaia” di Firenze il 3 dicembre 2010; la relazione di F. PALAZZO, al convegno Giustizia penale, Costituzione e diritti fondamentali, in ricordo di Giuliano Vassalli, tenutosi alla Corte Suprema di Cassazione il 13 ottobre 2010; il dattiloscritto della relazione di R. BARTOLI al seminario L’interpretazione delle norme tra legalità e Costituzione, tenutosi all’Università di Ferrara il 30 aprile 2010; la relazione tenuta da G. LEO, al convegno Pericolosità e giustizia penale, tenutosi all’Università di Udine il 25-26 marzo 2011. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 20 Decadimento della capacità rappresentativa del Parlamento, perdita di centralità di tale organo e della fonte legislativa nel quadro della produzione normativa penale, malfunzionamento dei controlli democratici che caratterizzano l’iter approvativo delle leggi penali, interpretazione creativa o manipolativa della prassi giurisprudenziale del giudice comune e del Giudice delle leggi, sono pertanto tutti fattori endogeni che provocano inevitabilmente un deficit di democraticità che affligge il diritto penale di oggi. Sul piano interno italiano la riserva di legge penale si è, dunque, piegata nei fatti a mille compromessi lasciando spazi vieppiù ampi agli apporti dell’esecutivo e svuotandosi con sempre maggiore frequenza del suo carattere democratico, financo nel processo formativo della legge ordinaria. Tuttavia, lo scadimento dei meccanismi di controllo democratico-procedimentali connessi alla riserva di legge fanno spostare il baricentro garantista del principio nella fase del controllo della Corte costituzionale, con conseguente inevitabile incremento del suo ruolo politico31. 2.2. Le cause esogene di crisi prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona I fattori esogeni di crisi, spesso combinati con i primi (endogeni) rischiano di assestare un ulteriore colpo decisivo alla componente democratico-procedurale della riserva di legge parlamentare32. 31 F. PALAZZO, Legalità penale, cit., p. 1292; R. BARTOLI, La totale irrazionalità di un divieto assoluto, cit., p. 92 s. Entrambi gli autori sottolineano che la crisi della componente democraticoprocedurale del principio di riserva di legge comporta il conseguente incremento del ruolo “politico” degli organi di garanzia, presso i quali – a dispetto della loro mancata legittimazione democratica e a discapito dell’imparzialità della loro funzione di controllo – si tende a proseguire il dibattito. 32 Per un’analisi della crisi della riserva di legge parlamentare dovuta a cause esogene, v., fra tutti, A. BERNARDI, «Riserva di legge» e fonti europee in materia penale, cit., p. 79 ss.; ID., Codificazione penale e diritto comunitario. I- La modificazione del codice penale ad opera del diritto comunitario, Ferrara, 1996; ID., I tre volti del diritto penale comunitario, cit., pp. 333 ss.; ID., L’ammortizzazione delle sanzioni in Europa: linee ricostruttive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 11 ss.; C. SOTIS, Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, pp. 1146 ss.; ID., Diritto comunitario e giudice penale. Prima parte. Le coordinate essenziali, in Il corriere del merito, 2008, fasc. S2, pp. 7 ss.; ID., Diritto comunitario e giudice penale. Premessa, in Il corriere del merito, 2008, fasc. S2, pp. 5 ss.; G. GRASSO, Introduzione. Diritto penale e integrazione europea, in A.A.V.V., Lezioni di diritto penale europeo, Milano, 2007, pp. 1 ss.; G. FORNASARI, Riserva di legge e fonti comunitarie. Spunti per una riflessione, in D. FONDAROLI (a cura di), Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, Padova, 2008, pp. 17 ss.; S. MANACORDA, L’efficacia espansiva del diritto comunitario sul diritto penale e fonti sopranazionali, in Il Foro it., 1995, IV, c. 55 ss.; V. PACILEO, Riflessi del diritto comunitario nel diritto penale nazionale. Casi pratici e criteri interpretativi, in Diritto comunitario degli scambi internazionali, 1999, pp. 639 ss.; S. SICURELLA; Diritto penale e competenze dell’Unione europea, Milano, 2005; K TIEDEMANN, Diritto comunitario e diritto penale, in Riv. trim. dir., pen. econ., 1993, pp. 209 ss.; M. ROMANO, Complessità delle fonti e sistema penale. Leggi regionali, ordinamento comunitario, Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 548, il quale parla di sistema penale “sostanzialmente eteroguidato” ed esprime riserve circa il “salto qualitativo di enorme portata” operato dalla Corte di giustizia con la sentenza ambiente, ritenendo che l’attribuzione della competenza ad Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 21 A ben vedere, la sempre maggiore incidenza delle fonti internazionali e soprattutto comunitarie e dell’Unione europea sul diritto penale statuale ancor prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, aveva finito con il realizzare una forte compressione della discrezionalità del legislatore nazionale nell’introduzione di nuove incriminazioni. Per quanto qui interessa, è d’uopo osservare infatti come il legislatore comunitario proprio attraverso l’uso di decisioni-quadro, direttive e regolamenti abbia già prima di Lisbona contribuito in maniera più o meno incisiva all’individuazione di veri e propri obblighi di incriminazione per il legislatore nazionale33. Procedendo con ordine nella disamina dei suddetti atti normativi e della loro incidenza sull’elaborazione delle fattispecie penali statuali, occorre prendere le mosse dall’analisi delle decisioni-quadro. I provvedimenti de quibus erano, come noto, i principali atti (assieme alle convenzioni) che potevano essere adottati nell’ambito del terzo pilastro, l’unico che prima della sua abolizione ad opera del Trattato di Lisbona interessava più da vicino il diritto penale, riguardando questo espressamente la collaborazione intergovernativa in materia di “giustizia”. Le decisioni-quadro, volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, sono vincolanti quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La violazione degli obblighi in esse contenuti - essendo atti del terzo pilastro e a differenza proprio delle direttive - non aveva peraltro alcuna sanzionabilità. Nonostante tali forti carenze di efficacia cogente dovute a ragioni di tipo strutturale, le decisioni-quadro hanno finito tuttavia spesso nella sostanza delle cose con il sottrarre al legislatore nazionale la possibilità di esercitare discrezionalmente il proprio potere di compiere le scelte sia di incriminazione che sanzionatorie34. Quanto adottare direttive di armonizzazione penale avrebbe richiesto una previa, apposita ed esplicita modifica dei trattati. Da ultimo, infine, C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 45 ss. 33 Cfr. fra tutti A. BERNARDI, Il ruolo del terzo pilastro Ue nella europeizzazione del diritto penale. Un sintetico bilancio alla vigilia della riforma dei Trattati, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2007, pp. 1157 ss.; M. CONDINANZI, Fonti nel «terzo pilastro» dell’Unione europea e ruolo della Corte costituzionale, in Il diritto penale dell’unione europea, 2007, pp. 513 ss.; A. TIZZANO, Brevi note sul «terzo pilastro» del Trattato di Maastricht, in Il diritto dell’Unione europea, 1996, pp. 391 ss.; G. TOSATO, Atti giuridici vincolanti e competenze della Corte comunitaria nell’ambito del “terzo pilastro”, in L’Italia e la politica internazionale, Bologna, 2000, p. 331; M.L. TUFANO, La cooperazione giudiziaria penale e gli sviluppi del «terzo pilastro» del Trattato sull’Unione europea, in Diritto pubblico comparato ed europea, 2001, pp. 1029 ss. 34 Eloquenti in proposito si presentano senza dubbio le iniziative normative dell’Unione in materia di terrorismo internazionale e di tratta di esseri umani e sfruttamento sessuale dei minori. La decisionequadro sulla lotta contro il terrorismo presenta peraltro profili di indubbio interesse ai fini di una indagine sull’armonizzazione delle legislazioni nazionali ad opera degli strumenti di terzo pilastro, avendo essa tentato per prima tra gli strumenti internazionali intervenuti in materia di dare una definizione comune di «reato terroristico», con conseguente importante valenza armonizzatrice delle legislazioni penali nazionali quanto alle condotte da sottoporre a pena, nonché quanto a certe modalità di criminalizzazione. Un passaggio, questo, tanto più fondamentale laddove si consideri come tratti di condotte riconducibili nella loro materialità a forme di criminalità comune (come nel caso di reati contro la vita o l’incolumità fisica o la fabbricazione e l’utilizzazione di armi) ma che assumono il carattere di atto terroristico in ragione della relativa idoneità ad arrecare un grave danno a un paese o ad una organizzazione internazionale e Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 22 appena rilevato appare evidente alla luce di due diverse considerazioni. In primo luogo è d’uopo osservare che nella prassi normativa italiana si sia finiti con il trasportare in modo pressoché automatico nell’ordinamento interno il contenuto dispositivo delle decisioni-quadro. Il legislatore nazionale viene così a ricoprire un ruolo meramente formale e marginale dal momento che il fulcro delle valutazioni e scelte incriminatici permane a livello sovrastatuale-europeo. Un secondo rilevante aspetto è individuabile nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea ed in particolare nella ben nota sentenza Pupino35. In tale occasione la Corte di giustizia ha infatti esteso l’obbligo del giudice nazionale di interpretazione conforme del diritto penale interno anche ai contenuti delle decisioni-quadro. Viene dunque conferito a tali atti normativi europei una certa capacità penetrativa negli ordinamenti nazionali. soprattutto per la finalità perseguita dall’agente, costituita dalla volontà di intimidire gravemente una popolazione, di costringere indebitamente autorità pubbliche o organizzazioni internazionali a compiere o a non compiere un determinato atto, o a destabilizzare gravemente le strutture fondamentali politiche, costituzionali, economiche e sociali di un paese o di una organizzazione internazionale. Si tratta evidentemente di un esito significativo in ragione dell’impatto che sui sistemi penali nazionali nel loro complesso la qualificazione di un atto come reato terroristico ai sensi della decisione-quadro è idonea a determinare, in termini non solo di maggiore severità della pena rispetto al corrispondente reato comune (secondo le prescrizioni in materia della stessa decisione-quadro) ma anche in generale in termini di regole processuali, derogatorie delle regole ordinarie, e soprattutto di disciplina delle indagini e delle garanzie rilevanti in questa fase. Espressione della medesima dinamica reattiva possono altresì considerarsi gli interventi normativi in materia di tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale dei minori, laddove le terribili vicende dell’affare Dutroux hanno sollecitato l’Unione ad adottare, proprio su iniziativa belga, il primo testo in materia, l’azione comune «relativa alla lotta contro la tratta di esseri umani e lo sfruttamento sessuale dei minori». Strumento, questo successivamente sostituito, secondo una linea di intervento più coerente e completa, da due decisioni-quadro relative, rispettivamente, alla lotta contro la tratta degli esseri umani (in generale) e alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile, assunte nell’ambito di un approccio più globale ed estremamente significativo adottato dall’Unione, in cui la questione della tratta di persone risulta strettamente correlata con la questione più direttamente comunitaria della lotta all’immigrazione clandestina. A. BERNARDI, Il ruolo del terzo pilastro Ue nella europeizzazione del diritto penale. Un sintetico bilancio alla vigilia della riforma dei Trattati, cit., p. 1157; R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., pp. 263 ss. 35 CGCE, 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino. Prima del suddetto intervento giurisprudenziale si riteneva che l’obbligo di interpretazione conforme riguardasse la sola normativa comunitaria del primo pilastro e non anche quindi le decisioni-quadro. In dottrina numerosi sono stati i commenti alla pronuncia in esame, fra tutti v. F. SGUBBI - V. MANES (a cura di), L’interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, a cura di, Bologna, 2007; R. CALVANO, Il caso Pupino: ovvero dell’alterazione per via giudiziaria dei rapporti tra diritto interno (processuale penale), diritto Ue e diritto comunitario, in Giurisprudenza costituzionale, 2005, pp. 4027 ss.; V. BAZZOCCHI, Il caso Pupino e il principio di interpretazione conforme delle decisioni-quadro, in Quad. cost., 2005, p. 884; M. MARGHEGIANI, L’obbligo dell’interpretazione conforme alle decisioni quadro: considerazioni in margine alla sentenza Pupino, in Il diritto dell’Unione europea, 2006, pp. 563 ss.; M. ZULEEG, Interpretazione “com’unitariamente conforme” e creazione giurisprudenziale del diritto negli Stati membri, in R. COLONNA - R. SCHULZE, -S. TROIANO (a cura di), L’interpretazione del diritto privato europeo e del diritto armonizzato, Napoli, 2004, p. 142; E. PISTOIA, Cooperazione penale nei rapporti fra diritto dell’unione europea e diritto statale, Napoli, 2008, pp. 147 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 23 Quanto alle direttive che introducono obblighi di incriminazione per i Paesi membri significativa è (anche) in questo campo l’evoluzione della giuirisprudenza della Corte di giustizia europea, la quale, prima ancora dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in due fondamentali pronunce - rispettivamente rese il 13 settembre 2005 ed il 23 ottobre 2007 - ha riconosciuto la facoltà da parte degli organi comunitari di imporre obblighi di incriminazione36. Preliminarmente è d’uopo ricordare che la direttiva è un atto vincolante nel senso che essa «vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi» (cfr. art. 288 TFUE già art. 249 TCE). Di regola la direttiva, per essere efficace nell’ordinamento interno, ha bisogno di un atto di recezione – o di trasposizione – nella formazione del quale lo Stato gode di un certo margine di discrezionalità per quanto riguarda l’allestimento dei “mezzi” per il raggiungimento dell’“obiettivo” posto invece in modo vincolante a livello sovranazionale europeo. Sennonché, la consolidata tendenza va nel senso di emanare direttive sempre più dettagliate (c.d. self-executing), sovente corredate di indicazioni anche per quanto riguarda la necessità di garantire un’adeguata tutela sanzionatoria, penale e/o amministrativa, alla disciplina attuativa delle direttive stesse. Riprendendo dunque l’analisi della giurisprudenza comunitaria, con la prima sentenza sopra menzionata del settembre 2005 - sostanzialmente confermata dalla successiva pronuncia del 2007 - si attribuisce al legislatore comunitario la potestà di armonizzazione penale mediante direttive. Viene in altre parole riconosciuta una chiara competenza penale indiretta dell’Unione, subordinandola tuttavia al principio di efficacia e al principio di necessità, “principi il cui combinato operare si sostanzia nel principio di sussidiarietà, in forza del quale in tanto può esercitarsi detta competenza europea o comunitaria, in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”37. Alla luce dell’indirizzo della Grande Sezione della Corte di giustizia europea appena evidenziato, appare evidente l’incisione che si viene a realizzare sul principio di riserva di legge statuale. I parlamenti nazionali, a fronte dell’introduzione di un obbligo di incriminazione mediante direttiva, finiscono infatti con il limitarsi a veicolare nell’ordinamento interno la scelta effettuata 36 Esemplificativa in tal senso è la già ricordata recente direttiva 2008/99/CE, nella quale si è previsto per gli Stati membri l’obbligo di adottare entro il 26 dicembre 2010 norme che sanzionano penalmente una serie di attività dannose o pericolose per l’ambiente. In tal caso i vari Stati non hanno la possibilità di scegliere che tipo di sanzione prevedere per i vari tipi di illecito tipizzati a grandi linee dal legislatore comunitario, ma devono necessariamente apprestare una sanzione penale, ritenuta nell’ordinamento sovranazionale l’unica adeguata per tutelare compiutamente gli interessi da esso perseguiti. E’ di tutta evidenza che in presenza di tali atti normativi il legislatore interno abbia poco spazio creativo, non ha libertà sull’an della sanzione, dovendo necessariamente rispondere alle indicazioni comunitarie per non incorrere in eventuali giudizi di responsabilità per inadempimento di fronte alla Corte di giustizia. Per gli opportuni riferimenti bibliografici in merito alla suddetta direttiva si rinvia alla nota n. 1 del presente lavoro. 37 In tal senso vedasi T.E. EPIDENDIO, Diritto comunitario e diritto penale interno, Milano, 2007, p. 26. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 24 dall’organo sovranazionale. Il legislatore statuale non esplica, se non in maniera del tutto marginale nonché residuale, alcun ruolo attivo di contributo alla costruzione della fattispecie di reato, a maggior ragione se si considera la “spada di Damocle” della procedura d’infrazione pendente sugli Stati membri nel caso di mancato o inadeguato adempimento all’obbligo di attuazione delle direttive38. Quindi, seppure formalmente risulterebbe rispettato il principio di riserva di legge – non avendo la direttiva un effetto diretto all’interno degli ordinamenti dei Paesi membri e dovendoci infatti essere una legge nazionale di trasposizione interna – esso nella sostanza appare tuttavia superato venendo meno il più delle volte il controllo sulle scelte di penalizzazione da parte del legislatore interno. Il ridimensionamento del ruolo del Parlamento nazionale nelle scelte di incriminazione appare poi ancor più evidente nell’esperienza italiana di attuazione interna delle direttive comunitarie. Come noto l’intera materia del recepimento interno delle direttive è stata regolata in via generale prima dalla legge 9 marzo 1989, n. 86 ed oggi dalla legge 4 febbraio 2005, n. 11, cercando di conciliare l’esigenza di assicurare il necessario ruolo del Parlamento nazionale nella trasposizione con l’esigenza di assicurare i tempi relativamente brevi per non incorrere in inadempienze nei confronti dell’Unione. La legge n. 11/2005 prevede che ogni anno un’apposita “legge comunitaria” provveda all’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive europee dell’anno precedente, specificamente individuate mediante apposito elenco. Tale adeguamento, oltre che diretto da parte della stessa legge comunitaria, può essere demandato al governo sia mediante delega legislativa (art. 9.1 lett. c) sia mediante autorizzazione a provvedervi in via regolamentare (art. 11), entrambe contenute nella legge comunitaria. Quest’ultima modalità è esclusa quando si tratti di materia coperta da riserva assoluta di legge. Anche nel caso di adeguamento mediante regolamento, le sanzioni penali e amministrative eventualmente richieste dalla direttiva europea possono essere però introdotte esclusivamente con legge o con atto avente forza di legge (art. 11.6). Egualmente, nel caso di recepimento delle direttive da parte delle Regioni, a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione, le eventuali disposizioni penali devono essere introdotte attraverso delega legislativa al Governo (art. 9 lett. g) 39 . Dall’analisi delle disposizioni appena richiamate e soprattutto della prassi è facile rilevare come il Parlamento abbia finito per infarcire la legge comunitaria di deleghe legislative al Governo, per di più caratterizzate da principi e criteri direttivi vaghi e generici (c.d. deleghe in bianco). Di conseguenza, nonostante le norme nazionali attuative di fonti europee rappresentino ormai da anni quasi la metà della produzione normativa statuale 40 , risulta del tutto esiguo l’apporto parlamentare nella loro definizione: da un lato, infatti, i vincoli imposti dalle fonti europee riducono assai la discrezionalità del legislatore interno; dall’altro lato quest’ultimo, attraverso deleghe legislative poco stringenti, lascia al Governo l’esercizio della maggior parte del residuo 38 Cfr. C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 55 ss. Cfr. F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, cit., p. 129. 40 Con una quota di norme penali destinata presumibilmente e con ogni probabilità a salire a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. 39 Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 25 spazio di discrezionalità41. Appare, dunque, ancora una volta ictu oculi evidente il forte ridimensionamento del ruolo del Parlamento nazionale e della istanza garantista democratico-procedurale di cui esso stesso è portatore. L’ultimo strumento normativo europeo rimasto da analizzare nell’ottica di influenza esercitata sugli ordinamenti penali nazionali è il regolamento. La tematica che ci accingiamo ad affrontare è sicuramente, in particolar modo oggi dopo l’introduzione dell’art. 86 TFUE ad opera del Trattato di Lisbona, uno dei nodi maggiormente problematici. Per avere contezza della delicatezza del tema è sufficiente rendersi conto che, ove le condotte vietate e le relative sanzioni siano entrambe definite direttamente da un regolamento europeo, la discrezionalità del legislatore nazionale non risulterebbe tanto “compressa” quanto piuttosto “esclusa in radice”. Il regolamento è infatti un atto normativo dotato di portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri42. Ciò significa che il regolamento è idoneo a far sorgere direttamente – senza bisogno di nessun’altra intermediazione o trasposizione da parte degli Stati membri – diritti ed obblighi per le persone fisiche e giuridiche di questi ultimi e che il giudice nazionale è dunque tenuto ad applicarlo come tale. Il regolamento è dunque dotato della c.d. “efficacia diretta”. Prima di analizzare puntualmente l’influenza che i regolamenti europei hanno esercitato ed esercitano sugli 41 In argomento v. fra tutti G. MORGANTE - P. SPAGNOLO, Le regole penalistiche della “legge comunitaria 2009”, in Legisl. pen., 2010, pp. 387 ss. ed in particolare si segnalano i paragrafi 1 e 2; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 59; S. BARTOLE, Novità e problemi applicativi del disegno di legge La Pergola per l’attuazione delle direttive comunitarie, in Foro it., 1988, IV, c. 494; C. DE FIORES, Le trasformazioni della delega legislativa nell’epoca della globalizzazione, in A.A.V.V., Trasformazioni della funzione legislativa. Crisi della legge e sistema delle fonti, vol. II, Milano, 2000, pp. 157 ss.; M. CARTABIA, Il pluralismo istituzionale come forma della democrazia sopranazionale, in Pol. dir., 1994, p. 218; C. HONORATI, La comunitarizzazione della tutela penale e il principio di legalità nell’ordinamento comunitario, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 2006, pp. 980 ss.; F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, cit., p. 129; ID., Introduzione ai principi di diritto penale, cit., p. 210; M. ROMANO; Complessità delle fonti e sistema penale, cit., p. 551; L. MAGI, Attribuzione alla “nuova” Unione di poteri normativi in materia penale, cit., p. 1548. Un chiaro esempio in tal senso è rappresentato dalla l. n. 96/2010 recante «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee» (id est la c.d. “legge comunitaria” per il 2009). Tra i numerosi provvedimenti comunitari (regolamenti, direttive e decisioni quadro) da attuare, i quali spaziano dalla disciplina in materia di alimenti, di marchi e brevetti, di lavoro e tutela dei consumatori a quella in tema di telecomunicazioni e nuove tecnologie, si segnalano quelli di interesse lato sensu “penale” in quanto afferenti sia all’area del diritto penale sostanziale sia a quella del processo. In particolare, per quanto attiene al primo settore si tratta delle disposizioni in materia di ambiente e territorio, di lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti, di rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali e della fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti. I provvedimenti europei de quibus appaiono nella loro formulazione particolarmente stringenti, nonché le deleghe attribuite al governo per le suddette attuazioni risulterebbero, a ben vedere, ampie se non addirittura generiche. Conseguenze dirette ineliminabili: significativa riduzione della discrezionalità del legislatore italiano ed attribuzione al Governo del ruolo (seppur residuale) determinante. 42 Cfr. art. 288 TFUE. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 26 ordinamenti penali nazionali – rinviando peraltro l’analisi della disciplina introdotta dall’art. 86 TFUE ad un secondo momento quando affronteremo le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona - è d’uopo effettuare due precisazioni preliminari. Come noto, per la tutela dei beni giuridici europei l’ordinamento dell’Unione europea (prima CE) è dotato di un autonomo sistema sanzionatorio a carattere interdittivo e/o patrimoniale. Sussiste dunque la possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare atti corredati di sanzioni sovrastatali nei diversi settori di competenza comunitaria, laddove tali sanzioni si rivelino misure utili o necessarie in vista del raggiungimento degli obiettivi prefissati dagli atti in questione. Tuttavia tale sistema sanzionatorio è oggi pressoché pacificamente ritenuto avere natura esclusivamente amministrativa e non anche penale43. Da ciò si evince che allo stato attuale l’Unione europea non possa vantare una propria potestà punitiva di natura penale44. Nessun organo possiede infatti una legittimazione ad emanare direttamente norme incriminatici, mancando un espresso referente normativo a cui agganciare la suddetta legittimazione. Non sembra peraltro che un argomento in senso contrario possa desumersi dall’art. 261 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già art. 229 del Trattato CE) che, nella nuova versione introdotta dal Trattato di Amsterdam e consolidata dopo il Trattato di Lisbona, si limita a stabilire che i regolamenti comunitari possono prevedere “sanzioni” destinate ad essere applicate dalla Corte di giustizia. Il generico riferimento alle “sanzioni” e l’omessa menzione espressa della possibilità per gli organi comunitari di irrogare “sanzioni penali” inducono quindi a ritenere che con la disposizione citata si sia inteso semplicemente confermare la titolarità in capo agli organi comunitari della sola potestà sanzionatoria amministrativa45. In secondo luogo va premesso che le fonti comunitarie nella maggior parte dei casi non orientano in maniera rigorosa e dettagliata gli Stati membri nelle scelte punitive, ma lasciano invece ampio margine alla loro discrezionalità. Spesso si limitano infatti a imporre un generico obbligo di punire la violazione delle norme europee con sanzioni adeguate, appropriate, proporzionate, 43 In argomento cfr., per tutti, A. BERNARDI, I tre volti del «diritto penale comunitario», cit., p. 343 s.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 50; A.M. MAUGERI, Il regolamento n. 2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario. Parte I. La natura giuridica delle sanzioni comunitarie, in Riv. it. dir. pen. econ., 1999, pp. 527 ss. e Parte II. I principi fondamentali delle sanzioni comunitarie, ivi, pp. 929 ss.; ID., Il sistema sanzionatorio comunitario dopo la carta europea dei diritti fondamentali, in A.A.V.V., Lezioni di diritto penale europeo, cit., pp. 99 ss. 44 Il che non significa però, come abbiamo già accennato e vedremo meglio nel proseguio, che l’unione non abbia una “competenza” in materia penale. 45 L’art. 261 TFUE sancisce infatti che «i regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio in virtù delle disposizioni dei trattati possono attribuire alla Corte di giustizia dell’Unione europea una competenza giurisdizionale anche in di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi». Pertanto, onde fugare i dubbi sopra evidenziati ed in perfetta coerenza con il dettato normativo del Trattato, si ribadisce che la tutela degli interessi comunitari da parte dell’Unione europea viene perseguita attraverso l’irrogazione di sanzioni amministrative. Queste a) possono avere carattere patrimoniale e/o interdittivo; b) la loro adozione è delegabile alle autorità dei singoli Stai membri; c) soltanto in rari casi possono afferire settori tematici diversi da quelli originariamente previsti (agricoltura, pesca). Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 27 efficaci e dissuasive. Ciò premesso la dottrina ha messo tuttavia in evidenza ormai da tempo l’influenza esplicata sugli ordinamenti nazionali penali da parte dei regolamenti europei, con conseguente compressione della discrezionalità dei legislatori interni46. E’ stata infatti ancora una volta la giurisprudenza della Corte di giustizia che, facendo leva sul principio di «fedeltà comunitaria», ha elaborato due sottoprincipi: quello di assimilazione e quello di effettività-proporzione-dissuasività, entrambi capaci di comprimere la discrezionalità del legislatore nazionale nelle scelte di penalizzazione47. Più precisamente è d’uopo ricordare che l’art. 10 TCE esprimeva il principio secondo il quale vi è un preciso obbligo da parte degli Stati membri di apprestare un’adeguata tutela sanzionatoria della normativa europea: «gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità». Sulla base del disposto de quo, la Corte di giustizia ha quindi elaborato in primo luogo il principio di assimilazione, in virtù del quale si impone agli Stati membri di utilizzare, per le violazioni del diritto comunitario, sanzioni analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e gravità. Di conseguenza, lo Stato membro ha un preciso obbligo di apprestare una tutela penale tutte le volte in cui, pur mancando una precisa indicazione sanzionatoria nella fonte di diritto derivato, le violazioni del diritto interno simili per natura e gravità siano assoggettate a sanzioni siffatte. Diversamente con il principio di efficacia-proporzionalità la giurisprudenza comunitaria ha affermato che le sanzioni devono essere effettive, adeguate alla gravità del fatto ed avere capacità dissuasiva. Anche questo secondo principio fa dunque sorgere un obbligo di punire penalmente la violazione del diritto comunitario in tutti i casi in cui tuttavia le violazioni del diritto comunitario siano talmente gravi da escludere che una sanzione non penale si riveli efficace. In tutte queste ipotesi dunque l’opzione incriminatrice viene sostanzialmente imposta al legislatore interno, con conseguente marginalizzazione del ruolo del Parlamento nazionale48. I sottoprincipi in esame, non si 46 Cfr. A. BERNARDI, Profili di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale agroalimentare, in Annali dell’Università di Ferrara – Scienze giuridiche, vol. XI, Ferrara, 1997, p. 148 s.; ID., L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, II, 2002, pp. 488 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 51; R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., pp. 183 ss. 47 Cfr. Corte di giustizia, sent. 21 settembre 1989, causa 68/88 (Commissione c. Grecia). Molte altre successive sentenze hanno ribadito tali sottoprincipi. 48 Cfr. R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., pp. 189 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 52. Quest’ultimo A. osserva inoltre che il legislatore nazionale gode di margini di apprezzamento ridottissimi anche nella formulazione della fattispecie penale posta a tutela della normativa comunitaria. A ben vedere infatti qualora il precetto penale comunitario cui dare attuazione sia contenuto in un regolamento, il primato e la diretta applicabilità di tale fonte europea sul diritto interno precludono sia la rielaborazione del precetto medesimo da parte del legislatore nazionale nel quadro di un nuovo precetto di diritto interno, sia la sua fedele riproduzione in una norma statuale. Entrambe queste due opzioni “nazionalizzatrici” comporterebbero infatti l’inaccettabile risultato di sottrarre il precetto non solo all’interpretazione centralizzata della Corte di giustizia, ma anche alle eventuali modifiche apportate dalla normativa comunitaria successiva, esponendolo invece a quelle Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 28 limitano, dunque, a perseguire una rudimentale armonizzazione delle scelte sanzionatorie nazionali attuative del diritto comunitario, ma, al contrario, finiscono con il sancire, in taluni casi, veri e propri obblighi di incriminazione a carico degli Stati49. attuabili dal legislatore interno. In sostanza quindi per sanzionarsi penalmente le violazioni dei precetti contenuti nei regolamenti comunitari deve farsi ricorso alla “tecnica del rinvio” alla fonte precettiva europea da parte di una norma interna di carattere meramente sanzionatorio. Questa tecnica di formulazione della fattispecie, oltre a privare il legislatore del momento più nobile, desta non pochi dubbi di compatibilità con il principio di legalità/riserva di legge nazionale. Più precisamente, occorre sottolineare che le esigenze sottese al principio di riserva di legge possono ritenersi essenzialmente soddisfatte solo nell’ipotesi di un rinvio «rigido» o «recettizio» ad una fonte regolamentare comunitaria preesistente (cui viene di fatto demandata la definizione del contenuto del precetto). In tal caso infatti la cristallizzazione nel testo legislativo interno del contenuto precettizio fornito dal regolamento comunitario sancirebbe in certo qual modo, quand’anche si riscontri un rinvio ‘completo’ (che comporti cioè un rinvio integrale alla fonte comunitaria), la consapevole (ed anzi perseguita) integrazione degli interessi delineati nella normativa comunitaria con gli interessi tutelati dall’ordinamento nazionale (che provvede ad apprestare la necessaria disciplina penale a tutela degli stessi). Di contro, evidenti profili di illegittimità emergono con riguardo alle ipotesi di rinvio ad atti comunitari futuri, o di rinvii generici, o ancora di un rinvio «elastico», destinato cioè a ricoprire automaticamente le modifiche della disciplina comunitaria di rinvio. Si tratta infatti di ipotesi che attestano una totale estromissione del legislatore nazionale dalla determinazione del contenuto di disvalore della fattispecie o che implicano, come nel caso di rinvio elastico, la possibilità di una successiva trasformazione inconsapevole per il legislatore di un tale contenuto di disvalore, con possibili incongruenze peraltro rispetto alla previsione sanzionatoria nazionale inizialmente concepita sulla base del contenuto originario del regolamento comunitario; sanzioni, queste, che denotano tutte una seppur parziale abdicazione del legislatore al monopolio nella formulazione delle norme incriminatici che egli possiede in ossequio al principio di riserva di legge. Sulla tematica v. anche A. BERNARDI, L’europeizzazione del diritto penale e della scienza penale, cit., pp. 476 ss.; ID., La difficile integrazione tra diritto comunitario e diritto penale: il caso della disciplina agroalimentare, in Cass. pen., 1996, p. 997; ID., Profili di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale agroalimentare, cit., pp. 154 ss; C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale, cit., pp. 16 ss.; P. BERNASCONI, L’influenza del diritto comunitario sulle tecniche di costruzione della fattispecie penale, in Indice penale, 1996, pp. 456 ss.; G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 64 s. Deve peraltro rilevarsi come anche l’opzione di un rinvio «recettizio» e «rigido» alla normativa comunitaria non risulti avulsa da profili problematici sul piano più generalmente politico-criminale. Ciò in ragione non solo dell’evidente inidoneità di una tale tecnica a rispondere adeguatamente alle esigenze di penalizzazione di settori tecnici in continua evoluzione e caratterizzati dunque da un continuo susseguirsi di modifiche normative a livello comunitario, ma soprattutto per la tendenza (ed i rischi) che il ricorso ad una tale tecnica normativa comporta di una penalizzazione a tappeto e comunque di una situazione di ipertrofia penale (con innumerevoli disposizioni penali peraltro fortemente specifiche e settoriali). Per tali profili problematici, cfr. A. BERNARDI, Il processo di razionalizzazione del sistema sanzionatorio alimentare tra codice e leggi speciali, cit., p. 75; ID., Entre la piramide et le réseau: les effets de l’europèanisation du droit sur le système pénal, in Revue interdisciplinare d’études juridiques, 2004, pp. 19 ss. Per le critiche sotto il profilo della non piena compatibilità tra il rinvio rigido ed il contenuto sostanziale della riserva di legge v. G. FORNASARI, Riserva di legge e fonti comunitarie. Spunti per una riflessione, in D. FONDAROLI (a cura di), Principi costituzionali in materia penale e fonti sopranazionali, Padova, 2008, pp. 23 ss.; C. SOTIS, Diritto comunitario e giudice penale, in Il corriere del merito, Rassegne, 2008, n. 2, p. 17. 49 E’ d’uopo tuttavia osservare che la competenza penale europea sottesa ai principi e alle norme sopra ricordate, costituivano una sorta di eccezione alla regola secondo la quale il diritto comunitario non può imporre obblighi di incriminazione, senza contare che i suddetti riflessi non risultavano comunque immediatamente percepibili ai governi dei Paesi membri, e dunque finivano col celare il proprio effetto dirompente e, secondo taluni, lesivo della sovranità nazionale. V. in merito a tali riflessioni sent. 10 aprile Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 29 Tutto ciò premesso, torniamo ora alla crisi della legge e alla conseguente crisi della legalità per dire che non tutti i contenuti della legalità penale subiscono gli stessi effetti della crisi della legge. Fuori discussione è l’irrinunciabilità, anzi l’intangibilità, del principio di irretroattività e di determinatezza: il loro carattere in qualche modo universale li mette per così dire al riparo dal relativismo indotto dalla crisi della legge e delle fonti. Quanto poi alla riserva di legge, si assiste ad un fenomeno singolare e complesso. Indubbiamente, per le ragioni già dette, la riserva è il principio maggiormente esposto alle conseguenze del processo di svalutazione della legge dovuto a fattori interni-nazionali ed esterni-comunitari. Ma, come è stato notato50, proprio l’esperienza italiana delle ultime legislature ha mostrato come la riserva di legge abbia ancora, nonostante tutto, un importante ruolo garantista da svolgere. Di fronte al rischio di una dittatura della maggioranza politica incline a stravolgere coerenza, razionalità e giustizia del sistema penale, solo la pubblicità della sede parlamentare imposta dalla riserva di legge ha potuto garantire di contenere i guasti che altrimenti avrebbe prodotto una volontà politica esorbitante. Indubbiamente, tanto l’esperienza politica appena trascorsa ed attuale quanto la sempre maggiore influenzata esercitata dalle fonti normative europee sull’ordinamento giuridico penale interno, comportano un certo spostamento dell’asse garantista della riserva, che in effetti sembra inclinare più verso i rimedi della pubblicità e della impugnabilità della legge dinanzi alla Corte costituzionale piuttosto che verso la idoneità dell’organo parlamentare ad assicurare contenuti normativi coerenti con i caratteri del sistema penale e dotati di quella «sostanziale» base di legittimazione democratica che solo un’ampia e costruttiva dialettica fra tutte le forze politiche può garantire. Ma questo non è che la conferma di un certo relativismo della riserva di legge. La quale, appunto, esibisce una fisionomia garantista mutevole in quanto sensibile ai condizionamenti derivanti dall’assetto sociopolitico nazionale e sovranazionale ancor prima che costituzionale degli organi della produzione giuridica51. 3. All’indomani di Lisbona: il principio di legalità penale nell’ordinamento europeo Una volta, dunque, analizzato come la riserva di legge nazionale risulti corrosa nel suo fondamento democratico da cause tanto endogene quanto esogene, è necessario tuttavia, al fine di completare l’analisi, verificare se e come la ratio garantista sottesa al principio di riserva di legge parlamentare possa dirsi adeguatamente salvaguardata 2003, causa C-40/02, (Scherndl), punto 64; in dottrina cfr. per tutti A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, in Quaderni costituzionali, 2009, p. 48 ss. 50 E. DOLCINI, Il carattere generale e astratto della legge e la riserva di legge in materia penale: principi-cardine dell’ordinamento o polverose reminiscenze del passato?, in G. COCCO (a cura di), Interpretazione e precedente giudiziale in diritto penale, Padova, 2005, pp. 61 ss. 51 Per tutti v. F. PALAZZO, Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, cit., p. 50 s.; ID., Legalità penale, cit., pp. 1292 ss.; ID., Riserva di legge e diritto penale moderno, cit., pp. 277 ss.; ID.; Sistema delle fonti e legalità penale, in Cass. pen., 2005, p. 278. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 30 anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, attraverso meccanismi di tutela equivalente. E’ evidente, infatti, che ove l’esito della suddetta indagine conducesse ad una risposta completamente positiva si dovrebbe aprire – seppur sempre negli ambiti ad essa attribuiti - alla piena competenza penale europea52. A tal fine, occorre innanzitutto spogliarsi di quelle impostazioni dogmatiche che ritengono la riserva di legge parlamentare un principio del tutto intangibile, con conseguente completa esclusione del riconoscimento di una vera e propria competenza penale in capo all’Unione europea. I sostenitori dell’indirizzo dottrinale de quo negano, infatti, in radice la suddetta facoltà sulla base di due principali argomentazioni. In primo luogo, si afferma che riconoscere la possibilità da parte delle istituzioni comunitarie di adottare atti normativi di rilevanza penale (anche solo indiretta) contrasterebbe con il principio di sovranità nazionale. Si evidenzia, infatti, in tal senso che le prerogative penali sono un riflesso diretto ed immediato della sovranità statuale e, in quanto tali, inalienabili. In secondo luogo, si osserva inoltre che il suddetto riconoscimento comporterebbe un’evidente violazione del principio di legalità in materia penale e ciò a causa del deficit democratico comunitario. Il legislatore nazionale nella più rosea delle ipotesi finirebbe, infatti, con il divenire un mero esecutore formale delle scelte di penalizzazione compiute interamente ed esclusivamente da organi sovranazionali, rispetto ai quali si pongono non pochi dubbi di legittimazione democraticorappresentativa. Più precisamente, si osserva che il meccanismo decisionale europeo, ed in genere gli equilibri istituzionali europei che vedono quale istanza determinante l’organo rappresentativo degli Stati, cioè il Consiglio, attribuirebbero al sistema una connotazione incompatibile con l’esercizio democratico dello ius puniendi53. A ben 52 Si dovrebbe cioè giungere al riconoscimento di un “potestà punitiva” penale propria dell’Unione europea. Questa avrebbe dunque la facoltà di emanare precetti penalmente sanzionati direttamente obbligatori per i cittadini dell’Unione: potestà questa che per comodità espositiva chiameremo nel proseguio competenza penale diretta proprio per porla meglio in contrapposizione con quella indiretta. 53 Seppur con accenti diversi nella dottrina penalistica italiana, critiche riguardo alla debolezza del sistema decisionale ed istituzionale europeo rispetto alle esigenze garantistiche sottese al principio di riserva di legge sono state formulate da numerosi autori. La complessità dell’organizzazione istituzionale ed in genere dell’ordinamento giuridico europeo si accompagnerebbe in effetti ad un’opacità dell’esercizio complessivo della relativa funzione normativa, in vari casi ancora affidata ad atti promananti essenzialmente dall’esecutivo europeo e sottratti ad un adeguato intervento parlamentare, e più in generale ad una sufficiente partecipazione democratica. Quanto osservato viene ritenuto in linea di massima ancora valido nonostante la graduale democratizzazione dell’ordinamento sovranazionale, attuata attraverso il significativo ridimensionamento dei poteri decisionali del Consiglio nell’ambito della procedura di codecisione (che oggi dopo Lisbona prende il nome di “procedura legislativa ordinaria”) a favore dell’istanza rappresentativa dei popoli europei. In dottrina oltre ai richiami bibliografici di cui alla nota n. 4 del presente lavoro a cui pertanto si rinvia, v. F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 130; G. MARINUCCI, Relazione di sintesi e R. RIZ, Unificazione europea e presidi penalistici, in A.A.V.V., La giustizia penale italiana nella prospettiva internazionale, Milano, 2000, pp. 201 ss. e 87 ss.; S. MOCCIA, L’involuzione del diritto penale in materia economica e le fattispecie incriminatici del Corpus iuris, in N. BARTONE (a cura di), Diritto penale europeo. Spazio giuridico e rete giudiziaria, Padova, 2001, pp. 54 ss.; G. INSOLERA, Democrazia ragione e prevaricazione. Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri, Milano, 2003, pp. 59 ss.; contra v. A. BERNARDI, Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 31 vedere, la suddetta impostazione finirebbe, tuttavia, con il risultare erronea in quanto pretende di leggere il fenomeno comunitario attraverso le “lenti deformanti degli schemi nazionali” 54 . Più precisamente, l’impostazione de qua finirebbe con il valutare la legalità europea alla luce del principio di riserva di legge parlamentare, trasportando così automaticamente su scala europea un meccanismo tipicamente nazionale. Tale operazione risulterebbe, tuttavia, inappropriata e manchevole sotto le seguenti tre prospettive55 . In una prima prospettiva, di carattere giuridico-istituzionale legata al principio di separazione dei poteri, va innanzitutto segnalato come il nullum crimen nulla poena sine lege sia un principio fortemente ancorato, come sottolineato anche in precedenza, all’idea ereditata da Montesquieu della tripartizione dei poteri. Diversamente, le istituzioni comunitarie esercitano allo stesso tempo funzioni di carattere amministrativo e legislativo, essendo inoltre ben noto come la Corte di giustizia svolga un ruolo non solo giurisdizionale ma quasi normativo, spesso sopperendo così - come è avvenuto soprattutto in una prima fase di sviluppo della Comunità - alle difficoltà di funzionamento dei procedimenti decisionali delle istituzioni politiche56. Nell’ordinamento comunitario, infatti, i poteri delle istituzioni non sono definiti ed attribuiti secondo una demarcazione netta tra esecutivo, legislativo e giudiziario. La legalità europea, sotto il profilo interno al sistema, non si esplica, dunque, attraverso il principio di separazione dei poteri, ma per mezzo del principio dell’“equilibrio istituzionale”, che tende a regolamentare l’esercizio, da parte delle istituzioni politiche, delle rispettive competenze salvaguardando il ruolo che a ciascuna di esse è affidato nel sistema nel suo complesso57. Sotto questo profilo la legalità comunitaria coincide, quindi, con la salvaguardia delle prerogative di ciascuna istituzione, in quanto l’assetto configurato dal Trattato richiede una «composizione» dei diversi interessi dei quali tali istituzioni sono portatrici. Il principio dell’equilibrio Prefazione, in C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. XV; ID., All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., p. 48 ss.; M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, in S. VINCIGUERRA - F. DASSANO (a cura di), Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli, 2010, pp. 661 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 83. 54 Espressione questa felicemente usata da Iadiccio, cfr. M. P. IADICCIO, La riserva di legge nelle dinamiche di trasformazione dell’ordinamento interno e comunitario, cit., pp. 21 ss.; 55 Per una approfondita analisi della questione v. C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 74 ss. 56 Sul ruolo «normativo» esercitato dalla Corte di giustizia, cfr. P. MENGOZZI, La “rule of law” e il diritto comunitario di formazione giurisprudenziale, in Riv. dir. eur., 1992, pp. 511 ss. 57 Cfr. A. ADINOLFI, Il principio di legalità nel diritto comunitario, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, p. 9 s. E’ d’uopo inoltre osservare che la stessa Corte di giustizia europea con la sentenza 22 maggio 1990 in causa n. 70/88, Parlamento europeo c. Consiglio, abbia riconosciuto che il Trattato ha delineato «un sistema di ripartizione delle competenze tra le varie istituzioni della Comunità, secondo il quale ciascuna svolge una propria specifica funzione nella struttura istituzionale della Comunità e nella realizzazione dei compiti affidatile». Appare, dunque, piuttosto chiaramente come nella definizione delle competenze non rilevi la natura del potere esercitato, ma la ripartizione di ciascun potere tra le varie istituzioni che è delineata dal Trattato. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 32 istituzionale comporta in definitiva – come la Corte ha affermato - che «ogni istituzione eserciti le proprie competenze nel rispetto di quelle delle altre istituzioni»58. In una seconda prospettiva, di carattere logico-prasseologico, parrebbe, inoltre, contraddittorio utilizzare, al fine di misurare il rispetto della legalità penale in ambito europeo, un corollario (id est la riserva di legge) che, oltre ad essere calibrato sulle realtà statuali, spesso non viene rispettato neppure in queste ultime. Infine, secondo una terza prospettiva pratico-realista, sarebbe proprio la realtà fattuale ad indicare l’esistenza di una competenza penale europea. Le direttive di armonizzazione penale rappresentano, infatti, una realtà innegabile ed in continua espansione, riconosciuta oggi - dopo Lisbona - anche dall’attuale assetto delle fonti (art. 83 TFUE). Neppure mancano, per lo meno secondo alcune opinioni, gli spazi per il futuro esercizio di una competenza penale diretta mediante lo strumento regolamentare, sia pure limitatamente al settore degli interessi finanziari dell’Unione (art. 86 TFUE). Superata, pertanto, l’impostazione critica da cui abbiamo preso le mosse, per le diverse ragioni sopra ripercorse, è d’uopo spostare il campo dell’indagine sulla dimensione teorica e pratica della legalità europea e verificare se l’istanza garantista alla base del principio di riserva di legge parlamentare possa dirsi adeguatamente tutelata a livello europeo, attraverso meccanismi di tutela equivalenti. Un attento studio della legalità penale europea, non può che rilevare la tradizionale assenza nei Trattati istitutivi di un suo esplicito riconoscimento: univoco punto di riferimento dal quale gli sviluppi interpretativi avrebbero potuto prendere le mosse. E’ d’uopo, tuttavia, osservare che l’originaria natura meramente economica dei testi in questione, i perduranti dubbi in merito ad una qualsivoglia competenza penale comunitaria e comunque l’assenza di atti normativi «di primo pilastro» a carattere esplicitamente penale, avessero attenuato il rimpianto per la mancanza nei Trattati del suddetto principio. L’impossibilità, poi, di individuare un comune denominatore europeo in ordine ai corollari del principio di legalità contrassegnati da una marcata variabilità in chiave storico-politica, non avrebbe comunque reso agevole la formulazione di quest’ultimi in un testo scritto «europeo», come tale inevitabilmente soggetto a influenze e vincoli di matrice comparatistica59. Se quanto fin qui osservato è vero, tuttavia, ad un certo punto, con il progredire della costruzione europea, si è avvertita la necessità di dare vita ad un testo scritto contenente un catalogo generale di principi e diritti e di collocare al suo interno il principio di legalità penale. Il riferimento è, come noto, all’art. 49.1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; tuttavia, come altrettanto noto, tale Carta risultava priva di effettivo valore giuridico, non essendo stata inserita nei Trattati. Ecco, dunque, che un ruolo determinante era stato ricoperto dalla Corte di giustizia europea, la quale aveva riconosciuto e dichiarato l’esistenza del principio di legalità penale nell’ordinamento europeo in via ermeneutica, quale principio di diritto non scritto ricavabile dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (cfr. art. 7 CEDU) e 58 59 Sentenza 22 maggio 1990 in causa n. 70/88, Parlamento europeo c. Consiglio. Sul punto v. più diffusamente oltre, nello stesso paragrafo. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 33 risultante dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri 60 . Si può, dunque, ragionevolmente sostenere che la Corte di giustizia ha sempre ritenuto come facente parte, seppur implicitamente, del diritto europeo primario il principio di legalità in materia penale. Parallelamente, appare chiaro che al rispetto di tale principio di legalità europea dovrebbe risultare tenuta, non solo ogni eventuale fonte europea in materia penale, ma anche ogni fonte nazionale deputata a dare attuazione penale a norme di diritto europeo. La mancanza di un riferimento esplicito e vincolante al principio di legalità nei Trattati, con l’entrata in vigore il 1° dicembre 2009 del Trattato di Lisbona, è stata, seppur indirettamente, colmata dal nuovo art. 6 TUE. L’articolo de quo, al primo paragrafo, riconosce, infatti, alla Carta di Nizza «lo stesso valore giuridico dei trattati» e, dunque, anche al principio di legalità dei reati e delle pene come sancito dal sopra menzionato art. 49.1, ai sensi del quale: «nessuno può essere condannato per un’azione od un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima». L’art. 6 TUE, nei suoi due successivi paragrafi, rende, inoltre, ancor più visibile ed espressa la soggezione delle fonti europee al principio di legalità penale. Più precisamente, il disposto di cui all’art. 6.2 TUE, nel sancire l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo61, richiama indirettamente, riconoscendone così l’importanza e la centralità anche in ambito europeo, l’art. 7.1 della Convenzione, ai sensi del quale: «nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che al momento in cui fu commessa non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso». Norma, infine, di chiusura del cerchio è l’art. 6.3 TUE, il quale, annoverando tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione EDU e desumibili dalle tradizioni costituzionali comuni, tra i principi generali del diritto dell’Unione, rende proprio dell’Unione quel patrimonio di principi costituzionali tra cui vi è anche il principio di legalità penale. L’espressa riconduzione della legalità penale nel quadro del diritto europeo primario mediante la valorizzazione 60 L’arricchimento del diritto comunitario primario attraverso i principi generali di diritto non scritto (detti anche principi impliciti o inespressi) si è avuto grazie all’attività pretoria della Corte di giustizia fondata sugli artt. 220, 230, e 288 Tr.CE., i quali sembrano autorizzare il ricorso ai principi generali di diritto per colmare le lacune dell’ordinamento comunitario. Cfr. B. NASCIMBENE, C. SANNA, Commento all’art. 6 TUE, in A. TIZZANO (a cura di), Trattati dell’unione europea e della Comunità europea, Milano, 2004, pp. 49 ss.; F. CAPOTORTI, Il diritto comunitario non scritto, in Dir. com. scambi intern., 1983, pp. 411 ss.; A. ADINOLFI, I principi generali nella giurisprudenza comunitaria e la loro influenza sugli ordinamenti degli Stati membri, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1994, pp. 553 ss.; G. GAJA, Aspetti problematici della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. intern., 1988, pp. 579 ss.; G. GRASSO, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi riflessi sui sistemi penali degli Stati membri, in Riv. int. dir. uomo, 1991, pp. 617 ss. 61 Adesione questa ad oggi non ancora formalmente compiuta ai sensi del Protocollo n. 8. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 34 giuridica della Carta europea dei diritti e l’adesione alla Convenzione EDU non ha però sottratto d’importanza al previo sforzo ermeneutico, compiuto in prima battuta dalla Corte di giustizia, volto alla definizione dei suoi contenuti. Tale sforzo risulta, anzi, vieppiù avvalorato, giacché la “costituzionalizzazione” del principio stesso non è stata accompagnata da una compiuta specificazione normativa delle sue concrete articolazioni, la cui ricostruzione resta, dunque, in larga parte affidata proprio alla precedente elaborazione pretoria62. Riconosciuta, dunque, la sussistenza, prima quale principio meramente implicito, ora anche normativamente espresso, della legalità penale europea, il problema diviene quello di mettere a fuoco la sua concreta articolazione contenutistica. A tal fine, date le suddette premesse e la pluralità di fonti che ne danno riconoscimento, è opportuno analizzare il contenuto del principio di legalità penale europea così come delineato: nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nell’accezione a questo data dalla giurisprudenza della Corte EDU; nelle tradizioni costituzionali degli Stati membri; nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea63. Quanto all’analisi contenutistica del principio di legalità penale alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come noto, l’art. 7.1, nell’affrontare esplicitamente il problema della retroattività della legge penale, sancisce che i cittadini dei Paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto che non è stato previamente previsto come reato dal diritto vigente, ovvero non possono essere assoggettati a pene più gravi di quelle che erano applicabili al momento in cui il reato è stato commesso64. La disposizione de qua è stata oggetto di una significativa attività di implementazione da parte della Corte di Strasburgo. Più precisamente, infatti, attraverso complessi processi ermeneutici, impossibili da ripercorrere in questa sede, si è interpretato il principio di legalità di cui all’art. 7.1 CEDU in modo tale da valorizzare e diversificare gli aspetti «qualitativo-sostanziali» della legge penale, concernenti in generale i requisiti di accessibilità e prevedibilità di ogni fonte legale in materia criminale e della relativa giurisprudenza. In altre parole, sono stati valorizzati i principicorollario «astorici» di irretroattività, determinatezza, accessibilità e prevedibilità della norma penale e dello stesso diritto penale vivente di fonte giurisprudenziale65. Tuttavia, 62 Cfr. in tal senso C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 83 s. Sulla necessità di tale analisi v., fra tutti, A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., p. 50 s.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 84 ss. 64 L’art. 7.2 prevede, poi, una fondamentale deroga al principio di cui all’art. 7.1. Possono, infatti, venire processati e condannati gli autori di fatti considerati criminali secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, ancorché al momento della loro commissione detti fatti non costituissero reato in base al diritto nazionale o internazionale. L’argomento sarebbe degno della massima attenzione, nonché di un’attenta riflessione, tuttavia, esulando dallo specifico tema affrontato in questa sede, è d’uopo limitarsi ad una mera segnalazione. 65 E’ d’uopo, inoltre, osservare come i contenuti conferiti all’art. 7.1 dagli organi di Strasburgo, smentiscano la concezione secondo la quale le norme della CEDU rifletterebbero niente più di quel 63 Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 35 in merito ai corollari «storici» del principio di legalità penale (quelli cioè deputati a selezionare gli organi legittimati a produrre norme penali) vi è assoluto silenzio da parte dell’art. 7.1 CEDU, peraltro amplificato dal parallelo, invitabile, silenzio sul punto della Corte EDU66 . In definitiva, nessun vincolo (sia a carico degli Stati del Consiglio d’Europa, sia a carico dell’Unione europea) in merito agli organi deputati a produrre diritto penale può discendere dall’art. 7.1 così come interpretato dagli organi di Strasburgo e ciò perché si sarebbe ovviamente preclusa l’adesione alla Convenzione da parte dei Paesi di common law. Come si è avuto modo di ricordare in precedenza, i principi comunitari di diritto non scritto in materia di diritti fondamentali vengono ricavati dai giudici di Lussemburgo non solo dai trattati internazionali cui i Paesi membri hanno cooperato o aderito, ma anche dalle Costituzioni (e più in generale dagli ordinamenti giuridici) degli Stati membri. A livello statuale è noto come le leggi fondamentali di questi e le prassi interpretative non si limitino a prevedere o enucleare i tradizionali corollari astoricouniversali della legalità penale, ma forniscano anche espresse indicazioni in merito alle fonti legittimate a produrre norme penali. Nella maggior parte dei casi tali indicazioni spingono, peraltro, nel senso di accentrare il monopolio dello ius puniendi nelle mani minimo comune denominatore di tutela già riscontrabile a livello europeo, così da non offrire in nessun caso una protezione ai diritti dell’uomo migliore e più completa di quella assicurata dal diritto interno dei singoli Stati aderenti alla Convenzione. Al contrario, proprio l’analisi dell’implementazione dell’art. 7.1 da parte della Corte di Strasburgo, rivela come la legalità penale CEDU finisca con il condizionare profondamente i sistemi giuridici dei Paesi membri e le relative prassi. Di grande interesse in questo senso è, ad esempio, la recentissima sentenza della corte di Strasburgo (Grande Camera, 17.9.2009, Scoppola c. Italia), con la quale viene ricondotto al contenuto implicito del principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU anche il principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole, che, come è noto, la Costituzione italiana non prevede espressamente essendo invece desumibile dal più generale principio di eguaglianza (in senso oggettivo), con la conseguente possibilità di deroghe purché «ragionevoli». L’art. 7.1 CEDU è stato, inoltre, recentemente interpretato, ben al di là della sua formulazione testuale, nel senso di rispecchiare anche il principio di colpevolezza: «l’art. 7 non menziona espressamente il legame morale tra l’elemento materiale dell’infrazione e la persona che ne è considerato l’autore. Tuttavia, la logica della pena e della punizione così come la nozione […] di “persona colpevole” vanno nel senso di un’interpretazione dell’art. 7 che esige, per punire, un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di scoprire un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale dell’infrazione» (Sez. II, 20 gennaio 2009, Sud Fondi S.r.l. et auters c. Italie). Cfr. F. PALAZZO, Il costituzionalismo penale italiano e le Corti penali europee, cit., p. 578 s. Diffusamente sul principio di legalità penale nella CEDU, v. anche A. BERNARDI, Nessuna pena senza legge (art. 7), in Commentario della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, diretto da S. BARTOLE - B. CONFORTI - G. RAIMONDI Padova, 2001, pp. 256 ss.; P. ROLLAND, Artiche 7, in L.E. PETTITI - E. DECAUX - P.H. IMBERT (a cura di), La Convention européenne des droits de l’homme, Parigi, 1995, pp. 294 ss.; D.J. HARRIS - M. O’BOYLE C. WARBRIK, Law of the Europea Conventio on human rights, Oxford, 2009, pp. 332 ss.; V. ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità in materia penale, in Ius 17, 2009, pp. 57 ss.; da ultimo, ID., La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principiod i legalità penale e F. VIGANÒ, Obblighi convenzionali di tutela penale?, in V. MANES - V. ZAGREBELSKY (a cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011, pp. 70 ss. e pp. 243 ss. 66 Cfr. A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità, cit., p. 55; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit. p. 86 s. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 36 dell’organo rappresentativo con deroghe più o meno ampie da Stato a Stato. Ciò debitamente premesso, è altrettanto noto come all’interno dell’Unione europea si registrino differenze anche molto accentuate con riferimento a quei corollari del principio di legalità d’impronta più marcatamente storico-politica. A ben vedere, dunque, il problema di quali siano gli organi legittimati a creare norme penali risulta fortemente condizionato dalla cultura del tempo e del luogo e in particolare dalla forma assunta dallo Stato in un dato momento storico. Al riguardo, infatti, sembra possibile affermare che – sebbene non cessi di essere sottolineato il processo di ravvicinamento tra i sistemi penali europei e persino tra quelli di civil e common law - risultano essere ancora alquanto differenziate dall’uno all’altro degli Stati UE le convinzioni su quali debbano essere gli organi nazionali ritenuti meritevoli di produrre norme penali, e su quali siano i rispettivi limiti di operatività. Al riguardo appare, dunque, naturale che tuttora i sistemi di civil law, tradizionalmente portati a valorizzare innanzitutto, nella legalità penale, i contenuti di democraticità e di astratta uguaglianza, esprimano – almeno in linea di massima – una netta preferenza per gli organi di origine parlamentare e per le relative fonti normative, con conseguente mantenimento (pur tra mille deroghe e senza con questo negare le crescenti funzioni normative del Governo) del principiocorollario della riserva di legge. Del pari, risulta naturale che i sistemi di common law, pur nella consapevolezza della crescente importanza della legge scritta, continuino a tenere in somma considerazione il ruolo dei giudici e, dunque, a prestare particolare attenzione alla dimensione applicativa del diritto, o se si preferisce «alla giustizia del caso concreto» 67 . Queste difficoltà non fanno che sottolineare come la pretesa di derivare un modello di legalità storica comune alle tradizioni costituzionali degli Stati membri da trasferire ipso facto all’ordinamento europeo, sia un’operazione oltremodo complicata se non impossibile data l’eterogeneità interna tra i Paesi membri e la “differenza di scala” tra gli assetti istituzionali e i meccanismi di produzione giuridica nazionali rispetto a quelli dell’Unione68. 67 Cfr. A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona, note sul principio europeo di legalità penale, cit., pp. 58 ss. 68 In tal senso finirebbero inevitabilmente per fallire anche tutti quei criteri attraverso i quali, a partire dalle tradizioni costituzionali comuni, è dato ricostruire i principi generali del diritto europeo non scritto. Si pensi, in particolare: al criterio in base al quale la tutela comunitaria (nel nostro caso del principio di legalità, ma più in generale di ogni altro principio/diritto fondamentale) deve essere orientata al livello più alto di protezione rinvenibile all’interno dei diversi sistemi costituzionali dei Paesi membri (criterio del maximum standard); al criterio per il quale la tutela deve rifarsi alla tendenza prevalente all’interno dei diversi sistemi costituzionali dei Paesi membri (criterio dell’orientamento prevalente); al criterio teso a privilegiare le tendenze nazionali che risultino migliori alla luce delle particolari esigenze del diritto comunitario (criterio della bettar law); al criterio secondo cui la tutela comunitaria deve circoscriversi al minimo denominatore comune di protezione riscontrabile nei suddetti sistemi costituzionali (criterio del minimo comune denominatore). V. per una diffusa analisi del fallimento nella ricostruzione del principio di riserva di legge prendendo le mosse dalle tradizioni costituzionali comuni A. BERNARDI , All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit. pp. 60 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 88 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 37 Per quanto attiene, infine, all’orientamento della Corte di giustizia, questa ricava i principi generali del diritto europeo non scritto dalle convenzioni internazionali ratificate dagli Stati membri e dalle leggi fondamentali di quest’ultimi. Il principio europeo di legalità penale è stato, dunque, estratto a partire dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dall’art. 7.1 CEDU. Tuttavia, anche nella giurisprudenza di Lussemburgo a fronte di un certo sviluppo dei corollari della legalità attinenti il versante universale-astorico, le indicazioni circa il versante storico sono pressoché del tutto assenti. Più precisamente, per quanto attiene ai corollari astoricouniversali la Corte di giustizia non è in definitiva giunta a dire niente di più di quanto già affermato dalla Corte EDU. I giudici di Lussemburgo si sono, dunque, in definitiva allineati con gli orientamenti definiti dalla Corte EDU, richiamando e sancendo, in particolare, i principi di irretroattività della legge penale sfavorevole69, della precisione e chiarezza della norma penale70, nonché del divieto di interpretazione analogica71. Per quanto attiene, invece, al versante «storico» della legalità penale la Corte di giustizia europea non afferma sostanzialmente alcunché. Tale silenzio sulla fonte legittimata a produrre norme penali può ragionevolmente ricondursi, da un lato all’assenza di un espresso richiamo nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nella giurisprudenza della Corte EDU, dall’altro alle difficoltà di individuare punti di convergenza nelle tradizioni costituzionali comuni72. L’analisi fin qui sviluppata giunge, dunque, in definitiva ad una conclusione pressoché unitaria e coerente con l’attuale architettura istituzionale e il sistema europeo delle fonti. Se da un lato, infatti, il principio europeo di legalità penale è stato oggetto di un’implementazione sia a livello normativo che interpretativo-giurisprudenziale capace di conferire un contenuto sufficientemente articolato e dettagliato ai suoi corollari 69 V., fra le altre, CGCE 10 luglio 1984, Regina c. Kent Kirk, causa 63/83, in particolare § 22; CGCE, 28 giugno 2005, Dansk Rørindustri e aa. c. Commissione, in particolare § 227; CGCE 8 febbraio 2007, Groupe Danone c. Commissione, causa C-3/06 P, in particolare § 87. 70 CGCE 3 giugno 2008, Intertanko, causa C-308/06, in particolare § 69; CGCE 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld, VZW c. Leden van de Minikterraad, causa C-299/95, in particolare § 49 ss. 71 CGCE 12 dicembre 1996, Procedimenti penali contro X, § 25, in cui si sancisce il divieto di interpretazione (anche solamente) estensiva; Tribunale di primo grado 8 luglio 2008, AC-Treuhand AG, causa T-99/04, § 140. 72 E’ stato, peraltro, opportunamente osservato che l’assenza nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo di indicazioni relative al versante storico della legalità penale, non significa necessariamente che quest’ultima sia insensibile alle istanze democratiche (oltre che garantiste) in taluni Stati soddisfatte tramite la riserva di legge. Più plausibilmente, si può ritenere che la Corte tenga nella debita considerazione anche queste istanze, reputandole già adeguatamente rispettate mediante il meccanismo dell’armonizzazione penale ottenuta con fonti bisognose di trasposizione negli ordinamenti interni attraverso le regole proprie di ciascun sistema nazionale. In questo senso v. nella giurisprudenza europea, CGCE sent. 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld, cit., in particolare § 52; in dottrina v., S. MANACORDA, La deroga alla doppia punibilità nel mandato di arresto europeo e il principio di legalità. (Note a margine di Corte di Giustizia, Advocaten voor de Wereld, 3 maggio 2007), in Cass. pen., 2007, pp. 4346 ss.; G. DE AMICIS - O. VILLONI, Mandato di arresto europeo e legalità penale nell’interpretazione della Corte di Giustizia, in Cass. pen., 2008, pp. 383 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 99. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 38 astorico-universali, dall’altro lato, invece, rispetto ai corollari storico-politici si registra un sostanziale vuoto normativo che nessuna attività interpretativa della Corte EDU e della Corte di giustizia ha potuto o voluto colmare. A tutt’oggi in Europa non esiste, dunque, un punto di vista comune in merito a quali siano gli organi legittimati alla produzione delle norme penali. Apparirebbe, peraltro, vano ogni tentativo di incorporare nella legalità penale europea corollari formali volti a replicare a livello UE meccanismi di produzione normativa identici a quelli operanti nei Paesi membri e ciò a causa dell’impossibilità di rinvenire un adeguato termine di paragone tra l’Unione e gli Stati membri sotto i diversi profili dell’architettura istituzionale, della separazione dei poteri e del sistema delle fonti. 4. Il problema della conformità al principio di legalità dei meccanismi di produzione normativa europea in materia penale: attualità dell’obiezione fondata sul deficit democratico-rappresentativo Per completare l’analisi della legalità penale europea, specie sul versante “storico” della riserva di legge, che è quello che più interessa ai fini della nostra indagine, è d’uopo analizzare il coefficiente di democraticità del law making process delle fonti europee penalistiche alla luce delle rilevanti novità introdotte il 1° dicembre 2009. Il processo normativo operante all’interno dell’Unione ha tradizionalmente sofferto, infatti, di un «difetto congenito» rappresentato dal ruolo assolutamente predominante degli organi a carattere «governativo» (il Consiglio in primis, ma anche la Commissione) e, per contro, dal ruolo tradizionalmente subalterno del Parlamento europeo 73 . Tuttavia, prima di procedere con l’analisi della situazione attuale, va rimarcato come già rispetto al sistema delle fonti e delle relative procedure di adozione adottato dal Trattato di Amsterdam, parte autorevole della dottrina avesse ritenuto ormai superata, o in fase di superamento, la tradizionale obiezione al riconoscimento e all’allargamento delle competenze penali dell’Unione, incentrata sul deficit democratico di quest’ultima e sulla violazione della ratio della legalità/riserva di legge nazionale74. 73 Cfr., oltre alle voci bibliografiche richiamate alla nota n. 4 e 51 del presente lavoro, v. in particolare A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sulla legalità penale europea, cit., p. 61 s. 74 Cfr., fra tutti nella dottrina penalistica, F. PALAZZO, La legalidad penal en la Europa de Amsterdam, in Revista penal, 1999, pp. 39 ss.; A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., pp. 60 ss.; ID., I tre volti del diritto penale comunitario, cit., pp. 90 ss.; H. SATZGER, Die Europaisierung des Strafrechts: eine Untersuchungzum Einfluss des EuropaischenGemeinschaftsrechts auf das deutsche Strafrecht, Koln, 2001. Più diffusamente si è osservato come, il deficit democratico, così ampiamente caratterizzante il sistema comunitario, si sarebbe negli anni gradualmente attenuato con il rafforzamento, sul piano istituzionale, della democrazia rappresentativa, a seguito di una serie di riforme dell’organo maggiormente idoneo ad esprimerla, il Parlamento europeo. Un primo fondamentale passo, dal punto di vista della formazione, era compiuto con l’elezione diretta a suffragio universale del Parlamento europeo, avvenuta per la prima volta nel 1979 a seguito di decisione del Consiglio del settembre 1976. Pur in mancanza di procedure elettorali uniformi nei vari Stati, il Parlamento europeo assumeva il ruolo di istituzione direttamente rappresentativa dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità. Si assisteva, d’altro canto, ad un progressivo potenziamento del Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 39 Al fine di valutare, dunque, il livello di democraticità del processo normativo europeo, occorre innanzitutto considerare che esso si articola (sia prima che dopo Lisbona) in tre macrofasi, legate ad altrettanti momenti della legalità e nell’ambito delle quali rimangono coinvolti i Parlamenti e i Governi nazionali, il Consiglio, la Commissione e il Parlamento dell’Unione. Si tratta, come noto, della fase «ascendente», «centralizzata» e «discendente». La prima fase è quella in cui gli organi di produzione normativa dell’Unione (la Commissione e il Consiglio) interpellano i Parlamenti nazionali nelle materie oggetto di riforma o nuova disciplina, al fine di evitare – nei limi del possibile – il varo di atti che trovino poi il dissenso degli Stati membri. La seconda fase si ha nel momento in cui i testi normativi, già oggetto di discussione tra organi europei e organi nazionali, entrano nel vivo del processo normativo a Bruxelles, che vede come unici protagonisti il Consiglio, la Commissione e il Parlamento europeo. La terza ed ultima fase concerne, invece, l’attività di trasposizione-precisazione dei testi normativi europei da parte degli organi normativi nazionali 75 , affinché attraverso disposizioni di diritto interno vengano raggiunti, nei singoli Stati membri, i risultati voluti dai suddetti testi. Ora, il Trattato di Lisbona ha finito per valorizzare la componente democraticopartecipativa del procedimento normativo europeo sia nella fase ascendente che accentrata76. ruolo del Parlamento europeo che veniva via investito di rilevanti compiti in ordine soprattutto al procedimento legislativo (fino al riconoscimento in alcuni casi di un potere di veto) e in materia di bilancio: pur non raggiungendo peraltro uno status assimilabile a quello della seconda Camera federale. Significative tappe del rafforzamento del ruolo dell’istituzione parlamentare europea erano compiute con vari Trattati: dal Trattato di Lussemburgo del 1970 e dalla Dichiarazione comune del 1974, che ampliavano i poteri finanziari del Parlamento europeo fino ad attribuirgli un parziale potere di codecisione in tema di spese comunitarie non obbligatorie, all’Atto Unico europeo del 1986, che ha introdotto, tra l’altro, una procedura di cooperazione del Parlamento con il Consiglio dei ministri in diverse materie del Trattato CEE nonché dello stesso Atto Unico; al Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del 1992, che ha ampliato e potenziato in vari ambiti il ruolo del Parlamento europeo, estendendo tra l’altro in diversi settori la procedura di cooperazione con il Consiglio e conferendo allo stesso Parlamento, attraverso una procedura di conciliazione, un diritto di veto in vari settori; al Trattato di Amsterdam del 1997, che ha tra l’altro attribuito al Parlamento il potere di approvare la nomina del presidente della Commissione. Riforme, tutte queste, che, pur non sopendo in dottrina il dibattito sul problema del deficit democratico comunitario, portavano a volte a taluni ripensamenti. Così, ad esempio, Gorge Ress, che pure aveva insistito sul deficit democratico comunitario, frutto della mancanza di una reale competenza legislativa del Parlamento, e che anzi aveva ravvisato nello stesso Atto Unico un fattore non di rafforzamento del ruolo dello stesso Parlamento europeo ma piuttosto di estensione della sfera di “legislazione senza Parlamento” che caratterizzava fino dall’inizio la Comunità, si mostrava dell’avviso che con i Trattati di Maastricht e di Amsterdam la posizione del Parlamento si era rafforzata a tal punto da potersi “quasi parlare di una adeguata legittimazione democratica diretta”. Cfr. G. RESS, Parlamentarismo e democrazia in europa, in Jus Publicum Europaeum, traduzione italiana a cura di R. Miccù, Napoli, 1999, pp. 15 ss.; E. DE MARCO, Elementi di democrazia partecipativa, in P. BILANCIA M. D’AMICO (a cura di), La nuova europa dopo il Trattato di Lisbona, Milano 2009, pp. 39 ss. 75 Eccezion fatta, come noto, per i regolamenti. 76 La fase discendente, come è agevole comprendere, non è stata interessata da significativi cambiamenti. Si continua, dunque, a riconoscere ampia discrezionalità agli Stati membri in ordine alle Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 40 Più precisamente, nella prima fase, si tende ad innalzare il coefficiente di democraticità dei testi normativi europei attraverso la promozione e l’incremento (sia quantitativo sia qualitativo) della partecipazione degli organi nazionali nel momento preparatorio delle norme europee. In particolare, è stato rafforzato il ruolo consultivo dei Parlamenti nazionali a cui si è riconosciuta una pervasiva funzione partecipativa e di controllo nella progettazione dei contenuti delle fonti europee. Lo sviluppo dei suddetti meccanismi di interazione tra Parlamenti nazionali ed istituzioni europee, seppur non in grado di bloccare il processo normativo europeo, sono, tuttavia, capaci di influenzarlo, rallentarlo, sospenderlo ed aggravarlo, con conseguente rilevante capacità incisiva. Quanto poi alla fase centralizzata, è d’uopo sottolineare come il Trattato di Lisbona abbia decisamente rafforzato il ruolo del Parlamento europeo (spesso in passato relegato ad una funzione meramente consultiva), assumendolo a colegislatore anche nell’esercizio della competenza penale77. L’art. 294 TFUE riconosce, infatti, quale meccanismo generale di adozione degli atti legislativi europei la “procedura legislativa ordinaria”, la quale ricalca, in larga parte, la procedura di codecisione. La suddetta procedura di adozione degli atti normativi, come disciplinata dal disposto di cui all’art. 249 TFUE, ha finito, dunque, con il sancire la piena parità tra Consiglio e Parlamento: in mancanza di un voto favorevole di entrambe le istituzioni sulla proposta della Commissione, ovvero di un voto favorevole sul testo oggetto di emendamenti in seconda lettura, oppure sul testo scaturito dal comitato di conciliazione in terza lettura, l’atto non può essere, infatti, adottato78. modalità di attuazione negli ordinamenti interni degli obblighi sanzionatori contenuti negli atti dell’Unione. 77 V. il combinato disposto degli artt. 249 e 82 TFUE. 78 Cfr. art. 294 TUE, ai sensi del quale: «1. Quando nei trattati si fa riferimento alla procedura legislativa ordinaria per l’adozione di un atto, si applica la procedura che segue. 2. La commissione presenta una proposta la Parlamento europeo e al Consiglio. Prima lettura. 3. Il Parlamento europeo adotta la sua posizione in prima lettura e la trasmette al Consiglio. 4. Se il Consiglio approva la posizione del Parlamento europeo, l’atto in questione è adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Parlamento europeo. 5. Se il Consiglio non approva la posizione del Parlamento europeo, esso adotta la sua posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento europeo. 6. Il Consiglio informa esaurientemente il Parlamento europeo dei motivi che l’hanno indotto ad adottare la sua posizione in prima lettura. La Commissione informa esaurientemente il Parlamento europeo della sua posizione. Seconda lettura. 7. Se, entro un termine di tre mesi da tale comunicazione, il Parlamento europeo: a) approva la posizione del Consiglio in prima lettura o non si è pronunciato, l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge la posizione del Consiglio in prima lettura a maggioranza dei membri che lo compongono, l’atto predisposto si considera non adottato; c) propone emendamenti alla posizione del Consiglio in prima lettura a maggioranza dei membri che lo compongono, il testo così emendato è comunicato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti. 8. Se, entro un termine di tre mesi dal ricevimento degli emendamenti del Parlamento europeo, il Consiglio e, deliberando a maggioranza qualificata: a) approva tutti gli emendamenti, l’atto in questione si considera adottato; b) non approva tutti gli emendamenti, il presidente del Consiglio, d’intesa con il presidente del Parlamento europeo, convoco entro sei settimane il comitato di conciliazione. 9. Il Consiglio delibera all’unanimità sugli emendamenti rispetto ai quali la Commissione ha dato parere negativo. Conciliazione. 10. Il comitato di conciliazione, che riunisce i membri del Consiglio o i loro rappresentanti ed altrettanti membri rappresentatiti il Parlamento europeo, Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 41 Alla luce di quanto sin qui osservato occorre, dunque, chiedersi se sia ancora attuale l’obiezione al riconoscimento di una competenza penale dell’Unione europea basata sul deficit democratico comunitario. Il consolidamento della base democratica della legalità comunitaria che – nelle materie interessate dalla prevenzione e repressione della criminalità – si esprime attraverso la generalizzazione della procedura legislativa ordinaria, fa propendere verso una risposta di tipo negativo: il law making process europeo sembra presentare, infatti, dopo Lisbona un coefficiente di democraticità pressoché identico ai procedimenti interni nazionali ed in particolare a quello italiano79. ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a maggioranza dei membri rappresentanti il Parlamento europeo entro un termine di sei settimane dalla convocazione, basandosi sulle posizioni del Parlamento europeo e del Consiglio in seconda lettura. 11. La Commissione partecipa ai lavori del comitato di conciliazione e prende ogni iniziativa necessaria per favorire un ravvicinamento fra la posizione del Parlamento europeo e quella del Consiglio. 12. Se, entro un termine di sei settimane dalla convocazione, il comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato. Terza lettura. 13. Se, entro tale termine, il comitato di conciliazione approva un progetto comune, il Parlamento europeo e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane a decorrere dall’approvazione per adottare l’atto in questione in base al progetto comune; il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei voti espressi e il Consiglio a maggioranza qualificata. In mancanza di una decisione, l’atto in questione si considera non adottato. 14. I termini di tre mesi e di sei settimane di cui al presente articolo sono prorogati rispettivamente di un mese e di due settimane, al massimo, su iniziativa del Parlamento europeo o del Consiglio. Disposizioni particolari. 15. Quando, nei casi previsti dai trattati, un atto legislativo è soggetto alla copertura legislativa ordinaria su iniziativa di un gruppo di Stati membri, su raccomandazione della Banca centrale europea o su richiesta sella Corte di giustizia, il paragrafo 2, il paragrafo 6, seconda frase e il paragrafo 9 non si applicano. In tali casi, il Parlamento europeo e il Consiglio trasmettono alla Commissione il progetto di atto insieme alle loro posizioni in prima e seconda lettura. Il Parlamento europeo o il Consiglio possono chiedere il parere della Commissione durante tutta la procedura, parere che la Commissione può altresì formulare si sua iniziativa. Se lo reputa necessario, essa può anche partecipare al comitato di conciliazione conformemente al paragrafo 11». 79 Non ignoriamo certo le differenti posizioni di parte – seppur minoritaria - della dottrina, la quale non ritiene le riforme introdotte a Lisbona in grado di colmare il deficit di democraticità del law making process europeo che pertanto persisterebbe. Al riguardo, si adducono due principali ordini di argomenti. In primis si è osservato che il Parlamento europeo non avrebbe alcun potere di iniziativa legislativa, riservato questo, in via quasi esclusiva, alla Commissione. Sul punto non sembra, tuttavia, che la critica appena mossa possa inficiare in maniera irreversibile la ratio garantista propria della legalità, la quale, tutt’al più, potrebbe dirsi violata ove vi fosse un’esclusione del Parlamento nella fase di elaborazione ed approvazione delle norme. Il secondo argomento critico avanzato in dottrina è incentrato, invece, più genericamente sulla presunta incapacità del Parlamento di svolgere un effettivo ruolo rappresentativo dei cittadini europei. In questa prospettiva, si è denunciata, soprattutto, l’assenza di un «popolo europeo» in senso proprio, la mancanza di veri e propri partiti europei e la mancanza di una dialettica maggioranzaopposizione equiparabile a quella del nostro Parlamento nazionale. Le suddette obiezioni appaiono, tuttavia, peccare per genericità e scarsa attenzione alla realtà delle cose. Non solo, infatti, si sembra ignorare sia il progressivo formarsi di una vera e propria identità popolare comune-europea, sia le involuzioni dei processi dialettici subiti nelle c.d. democrazie maggioritarie; ma si finirebbe così argomentando anche con il trascurare il fatto che la tenuità delle contrapposizioni ideologiche preconcette all’interno del Parlamento europeo (dovuta anche alla suddivisione del potere legislativo tra Consiglio e Parlamento) rappresenta un elemento favorevole e non disfunzionale alla democraticità del law making process europeo. Sul punto v. C. SIMONCINI, I limiti del coinvolgimento del Parlamento europeo nei processi di decislione normativa, cit., p. 1227 s.; E. TRIGGIANI, Gli equilibri politici interistituzionali Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 42 Tuttavia, e questo è il punto, per stabilire se la ratio sottesa alla riserva di legge sia rispettata nella dimensione europea, non è determinante (solo) la misura del grado di partecipazione dell’organo rappresentativo nel procedimento di formazione delle norme penali europee, ma occorre valutare se il “clima costituzionale” in cui le norme stesse sono destinate ad operare offra le ulteriori garanzie equivalenti a quelle che la riserva di legge tende ad assicurare negli ordinamenti nazionali80. E’, dunque, a questo punto matura la riflessione per capire se ed entro quali limiti sia configurabile una competenza penale europea. Alla domanda se sussista un’autonoma potestà penale in capo alle istituzioni comunitarie la risposta non può che essere, come visto, affermativa. Va tuttavia distinto tra una competenza penale indiretta ed una diretta. 5. Competenza penale indiretta delle istituzioni europee Preliminarmente, prima di procedere alla puntuale analisi del duplice fondamento giurisprudenziale e positivo alla base della competenza penale indiretta dell’Unione europea, è bene sottolineare che, l’impossibilità per l’Unione – allo stato attuale – di vantare una propria potestà punitiva di natura penale, non significa, tuttavia, che non abbia una “competenza” in materia penale. A ben vedere, infatti, non pare potersi ravvisare alcun ostacolo al riconoscimento in capo agli organi dell’Unione di un compito di indirizzo dell’attività normativa degli Stati in funzione di armonizzazione anche per quanto concerne l’amministrazione della giustizia penale81. Certamente, la suddetta attività normativa di armonizzazione su impulso europeo è più intensa in campo processuale penale, ove la necessità di cooperazione tra gli Stati è più forte. Tuttavia, l’esigenza armonizzatrice assicurata dall’Unione si manifesta anche nella disciplina penale più propriamente sostanziale. Ciò premesso, quanto allo specifico problema del riconoscimento in capo all’Unione europea di una competenza penale indiretta, è possibile individuare, a seguito dopo Lisbona, cit., p. 18; F. RASPADORI, Il deficit di rappresentatività del Parlamento europeo: limiti e soluzioni, in Studi sull’integrazione europea, 2009, pp. 125 ss.; I. FROMM, Supranational Criminal Law Competence and the Democratic Deficit of the european Union, in JECL, 2008/2009, p. 43 s.; C. MAGI, Attribuzione alla “nuova” unione di poteri normativi in materia penale, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, p. 1554 s.; C. PAONESSA, La discrezionalità del legislatore nazionale, cit., p. 396 s.; U. DRAETTA, La funzione legislativa ed esecutiva dell’Unione europea nel Trattato di Lisbona, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 2008, p. 685. Per una recente sottolineatura della non praticabilità delle critiche sopra ripercorse v. C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 116 ss. 80 Cfr. R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., pp. 393 ss. 81 In tal senso è sufficiente infatti analizzare il disposto di cui all’art. 67.3 del TFUE, il quale sancisce che «l’Unione si adopera per garantire un livello elevato di sicurezza attraverso misure di prevenzione e di lotta contro la criminalità, il razzismo e la xenofobia, attraverso misure si coordinamento e di cooperazione tra forze di polizia e autorità giudiziarie e altre autorità competenti, nonché tramite il riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie penali e, se necessario, il ravvicinamento delle legislazioni penali». Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 43 dell’intervento riformatore attuato dal Trattato di Lisbona, un fondamento giurisprudenziale ed uno normativo-positivo di tale potestà. La stessa Corte di giustizia, infatti, con la nota pronuncia del 13 settembre 2005, resa in sede di ricorso per annullamento della Decisione quadro del Consiglio in materia di protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, pur ribadendo che in via di principio, la legislazione penale, così come le norme di procedura penale, non rientrano nella competenza della Comunità, ha puntualizzato che quest’ultima constatazione non può tuttavia impedire al legislatore comunitario di adottare direttive che obblighino gli Stati membri a sanzionare penalmente determinate condotte. Più precisamente, si osserva, infatti, che, allorché l’applicazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisca una misura indispensabile di lotta contro le violazioni ambientali gravi, le istituzioni comunitarie possono incidere mediante l’adozione di direttive sugli ordinamenti penali degli Stati membri, al fine di garantire la piena efficacia delle norme emanate a livello europeo in materia di tutela dell’ambiente. I giudici di Lussemburgo, quindi, con la suddetta sentenza, pur ribadendo il principio secondo cui la normazione penale esorbita dalle competenze comunitarie, hanno, per la prima volta, sottolineato come alla legislazione comunitaria non sia precluso il ricorso a misure connesse ai diritti penali nazionali allorquando l’applicazione da parte delle autorità degli Stati membri di pene effettive, proporzionate e dissuasive, si riveli essenziale per il contrasto di gravi violazioni in materia di ambiente. Più nel dettaglio, la richiamata decisione del settembre 2005 della Grande Sezione della Corte di giustizia ha segnato un momento fondamentale per individuare le competenze penali della Comunità, dettando alcuni principi cardine che hanno condizionato anche l’evoluzione istituzionale successiva. Innanzitutto, si è, infatti, affermato che non esiste una competenza comunitaria generale in materia penale, essendo essa di spettanza dei singoli Stati membri. Esiste, tuttavia, una competenza penale particolare, attribuita all’Unione europea in determinate materie (criminalità organizzata, terrorismo, traffico illecito di sostanze stupefacenti), che mira sia al ravvicinamento delle varie legislazioni penali degli Stati membri, sia a prevedere l’obbligo di sanzionare penalmente determinate condotte. Si afferma, inoltre, l’esistenza di una competenza penale implicita della Comunità correlata al perseguimento dei propri obiettivi essenziali. Ove, infatti, al fine di garantire massima efficacia all’azione comunitaria per la tutela delle sue competenze è necessario prevedere delle sanzioni penali, anche la Comunità può adottare tali disposizioni. Si esclude, infine, seppur implicitamente che l’Unione e la Comunità possano prevedere nuove fattispecie penali che si applichino direttamente agli individui, riconoscendosi viceversa la sola possibilità di prevedere misure di ravvicinamento delle singole legislazioni penali nazionali, che si possono spingere sino a stabilire veri e propri obblighi per gli Stati di penalizzazione di determinati comportamenti. Si è, dunque, da un lato negato una competenza penale diretta delle istituzioni europee e dall’altro riconosciuto una (esclusiva) competenza penale indiretta. Quanto sancito dalla sentenza della Corte di giustizia appena richiamata e ripercorsa nelle sue linee essenziali, è stato, peraltro, confermato da un successivo provvedimento Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 44 dei giudici di Lussemburgo82. Nella sentenza 23 ottobre 2007, C-440/05, si è infatti sostenuto, per l’appunto, che se è vero che, in via di principio, la legislazione penale così come le norme di procedura penale, non rientrano nella competenza della Comunità, resta nondimeno il fatto che il legislatore comunitario, allorché l’applicazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisca una misura indispensabile di lotta contro danni ambientali gravi, può imporre agli Stati membri l’obbligo di introdurre tali sanzioni per garantire la piena efficacia delle norme che emana in tale ambito. A questo punto sembrava che la politica penale dell’Unione fosse in grado di estendersi in relazione a campi di materia da attrarre nel primo pilastro, vincolando i parlamenti nazionali attraverso direttive sia sulle scelte di criminalizzazione sia sulle scelte sanzionatorie, accantonando la tecnica del doppio testo. La Corte di giustizia, tuttavia, proprio nella pronuncia del 2007 stabiliva che non spettava comunque alle direttive «la determinazione del tipo e del livello delle sanzioni penali applicabili». I giudici di Lussemburgo avevano così voluto fissare una soglia-limite all’espansione della politica criminale comunitaria e ciò al fine de evitare un’eccessiva ingerenza nella potestà normativa penale degli Stati membri. A ben vedere, è, infatti, proprio sul profilo della sanzione che la politica penale si mostra più gelosamente ancorata al rigoroso rispetto delle garanzie della riserva di legge statale83. In conclusione sul punto, si può dunque sostenere che si è andato sviluppando in via giurisprudenziale il riconoscimento della potestà degli organi comunitari di incidere sulle scelte discrezionali dei singoli legislatori nazionali nella politica criminale attraverso l’imposizione, mediante direttive, di obblighi di penalizzazione tutte le volte in cui vi sia l’esigenza di assicurare la tutela di interessi comunitari a fronte dell’insufficienza delle legislazioni nazionali (principio di sussidiarietà comunitaria). Emergeva, dunque, già prima di Lisbona una direzione di sviluppo, in cui la compressione della discrezionalità penale degli Stati membri sulle politiche criminali nazionali andava a vantaggio della comunitarizzazione della politica criminale. Si deve, tuttavia, registrare un limitato uso di questa competenza. Il diritto comunitario sembra aver preferito, infatti, continuare a chiedere agli Stati sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive piuttosto che sanzioni penali e ciò nonostante il riconoscimento della facoltà di emettere, nelle materie di propria competenza, obblighi di tutela penale ove necessari all’attuazione delle normative europee. 82 CGCE, 23 ottobre 2007, causa C-440/05, Commissione c. Consiglio UE, in Dir. pen. proc., 2008, pp. 118 ss. Per un commento v. L. SIRACUSA, Verso la comunitarizzazione della potestà normativa penale: un nuovo «tassello» della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 241 ss. 83 Tale dato risulta peraltro pienamente confermato nella nostra disciplina penale interna. La Corte costituzionale ha, infatti, stabilito che «il principio costituzionale di legalità della pena sia da interpretare più rigorosamente», in quanto spetta solo alla legge «stabilire con quale misura debba essere impressa la trasgressione dei precetti che vuole sanzionare penalmente». C. Cost., 23 marzo 1966, n. 26, in Giur. cost., 1966, pp. 255 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 45 Le importanti pronunce della Corte di giustizia, da cui si è preso le mosse nel riconoscere una competenza penale europea indiretta, non fanno che aprire il campo alle scelte più radicali introdotte dal Trattato di Lisbona. Quest’ultimo ha, infatti, rafforzato le competenze sulla politica criminale dell’Unione europea. Sul piano istituzionale, infatti, diviene centrale l’abolizione della struttura a pilastri e la comunitarizzazione delle questioni attinenti alla criminalità che trova nella direttiva il nuovo ed unico strumento di governo. Si cristallizza così nelle nuove norme del trattato quel percorso della giurisprudenza comunitaria che aveva portato al rafforzamento della politica dell’Unione europea attraverso il rafforzamento sia della efficacia delle norme del terzo pilastro sia delle norme del primo pilastro come strumento per un più incisivo condizionamento delle scelte di politica criminale dei singoli Stati nazionali. Dopo il Trattato di Lisbona l’armonizzazione non si realizza, dunque, più attraverso le decisioni-quadro, venute meno con l’abolizione della struttura a pilastri, ma attraverso direttive e, in un caso specifico, mediante regolamenti. Il significato che riveste il ricorso a questi due diversi strumenti segnala differenti gradi di intensità della politica criminale europea: è d’uopo pertanto analizzarli separatamente. 5.1 L’armonizzazione mediante direttive: i due tipi di competenza penale indiretta stabiliti nell’art. 83 TFUE L’art. 83 TFUE, così come introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che l’intervento di direttive in materia penale sia finalizzato a soddisfare esigenze di ravvicinamento delle discipline nazionali in ragione della transnazionalità del fenomeno criminale da disciplinare o di completamento delle esigenze di armonizzazione emerse in specifici settori di disciplina. Più precisamente, il primo paragrafo prevede che «il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni». Sono individuati, dunque, specifici ambiti di criminalità, già peraltro considerati dal previgente art. 31 TUE, non più condizionati dall’esigenza di cooperazione giudiziaria e passibili di estensione, in relazione all’evoluzione storico diacronica della criminalità, sulla base di una decisione del Consiglio che delibera all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo. Si può, dunque, rilevare come l’art. 83.1 TFUE attribuisca - per mezzo di un’espressa previsione normativa - una competenza penale europea indiretta ratione materiae, attraverso l’indicazione nominale di nove materie (terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata), il cui elenco è, tuttavia, suscettibile di essere incrementato con il voto unanime del Consiglio. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 46 Accanto all’esigenza di disciplina della criminalità transnazionale, l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia penale può rilevarsi indispensabile «per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione»84. Anche in questa seconda ipotesi si sancisce, infatti, che l’Unione è legittimata con direttive a stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nel settore in questione. Nel secondo paragrafo dell’art. 83 TFUE, il riconoscimento delle competenze penali dell’Unione non è, dunque, a differenza del primo, individuato per specifici settori. L’intervento penale viene messo, infatti, in generale correlazione con la necessità di garantire il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari. L’unico limite al tipo di materie sembra essere costituito dal requisito che il settore sia già stato oggetto di misure di armonizzazione sul versante extrapenale che comportano anche un intervento di omogeinizzazione della disciplina penale. E’ stato, tuttavia, osservato in dottrina che tale clausola di limitazione settoriale, a causa della generica formulazione, sarebbe destinata ad andare in contro ad una lettura estensiva con conseguente minimizzazzione della sua funzione selettiva85. Il vero ed unico filtro selettivo del riconoscimento di una competenza penale indiretta comunitaria si è, dunque, osservato che risiederebbe nel requisito dell’indispensabilità, il quale sembrerebbe garantire il carattere sussidiario dell’uso del diritto penale mediante una valutazione in termini di necessità (rectius indispensabilità) di pena86. E’ d’uopo, tuttavia, sottolineare - in senso contrario alla predetta opzione interpretativa87 che il giudizio di indispensabilità richiesto dall’art. 83.2 TFUE non sembra riferito alla tutela del bene giuridico, ma all’attuazione efficace di una politica dell’Unione. A ben vedere, la differenza non sarebbe assolutamente di poco conto. Subordinare, infatti, il giudizio di necessità od indispensabilità di pena non ad una valutazione di protezione dei beni giuridici sottostanti, ma piuttosto ad una efficace attuazione normativa comporterebbe, in sostanza, che ad essere giudicato necessario sarebbe l’intervento penale a tutela di una norma e non di un bene. Così argomentando si giungerebbe, dunque, a cambiare radicalmente il parametro di giudizio a cui è subordinato l’intervento penale, con conseguente esaltazione del potere discrezionale di scelta del 84 Cfr. art. 83.2 TFUE, così come introdotto dal Trattato di Lisbona. In tal senso G. GRASSO, La costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione europea, cit., pp. 62 ss.; C. SOTIS, Le novità in tema di diritto penale europeo, in La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, cit., pp. 147 ss.; ID., Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., p. 1154 s.; M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’unione europea, cit., p. 673 s. Da ultimo v. anche F. PALAZZO, Europa e diritto penale: i nodi al pettine, in Dir. pen. proc., in corso di pubblicazione. 86 Cfr. G. GRASSO, La costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione europea, cit., pp. 64 s. 87 Per una critica alla impostazione sopra ripercorsa di Grasso v. C. SOTIS, Le novità in tema di diritto penale europeo, in La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, cit., pp. 147 ss.; ID., Il Trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., p. 1154 s.; 85 Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 47 legislatore 88 . A ben vedere, infatti, una norma incriminatrice potrebbe essere perfettamente idonea a difendere la tenuta complessiva di un impianto normativo – ad esempio stabilendo ciò che è sbagliato o indicando la corretta scala di valori in gioco -, ma al contempo del tutto inidonea a proteggere il bene giuridico tutelato. In altre parole, a seconda del termine di riferimento del giudizio di indispensabilità, si passerebbe dal paradigma penale ‘teleologico/funzionalista’ al ben diverso paradigma del diritto penale ‘normativista’89. Va, infine, ricordato che l’art. 83.3 TFUE attribuisce ad ogni Stato membro la possibilità di utilizzare il c.d. “freno d’emergenza”, ogniqualvolta ritenga che il progetto di direttiva in esame incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico penale. In tale ipotesi, la procedura legislativa viene sospesa e la questione rimessa al Consiglio europeo; ed in caso di persistente disaccordo, un gruppo di nove stati membri può avviare la procedura di cooperazione rafforzata90. Tutto sommato, è possibile, dunque, affermare che l’art. 83 TFUE si pone in sostanziale continuità rispetto alla politica criminale giudiziaria della Corte di giustizia, confermando ed assumendo a regola generale la comunitarizzazione della materia penale in relazione alle scelte di criminalizzazione. E’ d’uopo, tuttavia, rimarcare due principali profili di novità, rispetto alla precedente evoluzione giurisprudenziale. In primo luogo, l’ambito delle materie rispetto alle quali può sorgere l’esigenza di adottare direttive in materia penale, non risulta più limitato ai soli settori di interesse preminente dell’Unione ma, come visto, è fortemente ampliato. In secondo luogo - questo uno degli aspetti più problematici delle innovazioni introdotte con il Trattato di Lisbona – l’art. 83 TFUE riconosce la possibilità di dettare, tramite direttive, norme minime relative sia alla definizione del precetto che delle sanzioni. L’espresso richiamo alle sanzioni segnala il superamento dei principi fissati dalla sentenza del 2007, la quale aveva escluso la possibilità di indicare tramite direttive linee di politica sanzionatoria penale, lasciando ogni soluzione alla tecnica del doppio testo91. Questo profilo rappresenta un’indubbia novità che segnala il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea. Si assumerebbe, dunque, la consapevolezza che 88 Come noto, il bene giuridico, la valutazione del suo rango ed importanza, hanno rappresentato e continuano a rappresentare il cardine/limite delle scelte di incriminazione del legislatore nazionale. 89 Cfr. D. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, pp. 484 ss.; C.E. PALIERO, Il principio di effettività nel diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, pp. 430 ss.; C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., p. 1155. 90 La norma in esame presenterebbe, a ben vedere, non pochi dubbi sulla possibilità e sugli effetti della sua attuazione. Infatti, la possibilità che in caso di disaccordo sulla direttiva «penale», si avvii una procedura di cooperazione rafforzata, consentendo così ad alcuni Stati di sottrarsi alla direttiva che vincolerà solo gli Stati che vi hanno aderito, rischia di creare una legislazione penale europea a macchia di leopardo. Ove, infatti, gli Stati membri facessero ampio ricorso al meccanismo di salvaguardia garantito dal paragrafo 3 dell’art. 83 TFUE, ci troveremmo di fronte a processi di armonizzazione del diritto penale a doppia velocità, ben lontani dall’assicurare quelle esigenze di armonizzazione che avevano portatola giurisprudenza della Corte di giustizia a comunitarizzare alcuni settori della legislazione penale. 91 Cfr. M. PANEBIANCO, Il riparto della competenza penale tra i «pilastri» dell’Unione europea, in Dir. pen. proc., 2008, p. 403. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 48 l’efficacia del contrasto ad un fenomeno criminale non si gioca solo sul terreno della formazione di un minimo comune denominatore in relazione all’area della penalità, ma richiede anche la definizione di un acquis penale comunitario in relazione alla politica sanzionatoria92. Non è, dunque, solo un problema di se e cosa punire ma anche di come ed è proprio quest’ultimo profilo che qualifica l’intervento penale. Il punto presenta, tuttavia, - come facilmente intuibile - non poche né marginali problematiche. Le indicazioni provenienti dalle direttive vanno, infatti, ad inserirsi in sistemi sanzionatori nazionali profondamente diversi tra loro. L’indicazione in una direttiva dei limiti edittali ai quali gli Stati devono attenersi nel prevedere determinate fattispecie di reato deve, quindi, tenere conto del fatto che quei limiti assumono un significato differente in relazione al contesto in cui andranno ad operare (una pena comminata da uno a tre di reclusione in Italia e in Portogallo vogliono dire due cose diversissime)93. L’effettività della risposta sanzionatoria dipende, dunque, non dai limiti edittali della pena, ma dal grado di capacità del sistema di far corrispondere alla sanzione comminata in astratto una corrispondente sanzione applicata dal giudice e poi concretamente eseguita. La definizione a livello accentrato-europeo di sanzioni comuni si stempererebbe, dunque, nella complessità dei sistemi sanzionatori nazionali, nella interazione tra previsioni legislative sulle comminatorie edittali, potere discrezionale del giudice, cause di estinzione del reato e della pena, disposizioni processuali e norme sull’esecuzione della pena, che possono rendere del tutto simbolica l’indicazione iniziale sugli astratti limiti edittali della pena94. Stabilire le comminatorie edittali a livello europeo non sarebbe, dunque, affatto garanzia di uniformità della pena inflitta (né nel tipo né nella qualità) e, quindi, anche della pena minacciata. Paradossalmente, dunque, unificando in maniera rigida le comminatorie edittali si aprirebbe la strada a sperequazioni tali da finire con il condannare il sistema sotto il profilo della proporzione ed omogeneità95. In materia di sanzioni sarebbe, quindi, più coerente con gli stessi obiettivi di armonizzazione/unificazione stabilire a livello europeo non le comminatorie editali, ma standards flessibili di riferimento capaci così di adattare la pena alle peculiarità locali96. 92 Su tale necessità v., in particolare, A. BERNARDI, L’armonizzazione delle sanzioni in Europa: linee ricostruttive, in G. GRASSO - R. SICURELLA (a cura di), Per un bilancio del progetto europeo. Esigenze della tutela degli interessi comunitari e nuove strategie di integrazione penale, Milano, 2008, p. 436; M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 674. 93 Cfr. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 677.; C. SOTIS, Il Trattato di Lisbona, cit., pp. 1159 ss. 94 Cfr. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 676. 95 Cfr. C. SOTIS, Le novità, cit., pp. 154 ss.; ID., Il Trattato di Lisbona, cit., pp. 1159 ss. 96 In tal senso, v. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 677.; C. SOTIS, Le novità, cit., pp. 154 ss.; ID., Il Trattato di Lisbona, cit., pp. 1159 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 49 5.2 L’armonizzazione mediante regolamenti: la competenza ‘quasi diretta’ stabilita dall’art. 86 TFUE Sicuramente molto più incisive sugli ordinamenti penali nazionali degli Stati membri potranno rivelarsi le scelte di politica criminale prefigurate dal Trattato di Lisbona in relazione alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea. Va preliminarmente osservato come gli interessi finanziari siano interessi istituzionalmente europei, di pertinenza diretta cioè della stessa Unione. In effetti, avendo essa la disponibilità d’impiego di un consistente budget finanziario per i suoi scopi, si pone la necessità di apprestare una tutela penale contro le possibili aggressioni fraudolente provenienti dai propri funzionari ma anche dai funzionari e dai cittadini dei vari Stati membri dell’Unione97. L’art. 86 TFUE attribuisce, proprio a tal fine, all’Unione la competenza a istituire, mediante regolamento, una Procura europea per combattere i reati che ledano gli interessi finanziari dell’Unione (par. 1); e prevede altresì, mediante il medesimo regolamento, la competenza a definire i reati medesimi, i cui autori dovranno essere individuati, perseguiti e rinviati a giudizio dalla Procura europea (par. 2). La disposizione de qua, a causa dell’ambiguo riferimento alla definizione dei reati, ha destato non pochi dubbi in dottrina circa l’avvenuta o meno attribuzione di una competenza penale diretta dell’Unione europea. Qualora, infatti, si interpretasse il paragrafo 2 dell’art. 86 TFUE nel senso che l’Unione europea possa mediante la fonte regolamentare costruire ex novo fattispecie penali in caso di lesioni di interessi finanziari, si realizzerebbe un effetto davvero dirompente. La diretta applicabilità propria della fonte utilizzata comporterebbe, infatti, l’ingresso di fattispecie penali di pura creazione europea negli ordinamenti interni, “by-passando” quel meccanismo di recepimento necessario per le direttive di armonizzazione penale, che, secondo la Corte di giustizia e parte della dottrina, renderebbe l’esercizio della competenza penale indiretta compatibile con il principio di legalità. Con specifico riguardo alla disposizione espressa dall’art. 86.2 TFUE è stata elaborata di recente in dottrina98 una ricostruzione secondo la quale la norma in oggetto attribuirebbe all’Unione, limitatamente alla tutela degli interessi finanziari, la competenza ad adottare regolamenti in materia penale, ma con esclusivo riferimento alla definizione dei soli precetti e non anche delle relative sanzioni. La suddetta tesi si incentra tutta su di una puntuale analisi del testo della norma. Più precisamente si osserva che l’espressione “definizione di reato” non potrebbe assumere altro significato se non quello di “previsione degli elementi costitutivi di reato”. La norma, dunque, se da un lato sembra attribuire all’Unione piena competenza a definire quali comportamenti lesivi degli interessi finanziari siano reati (definizione dell’area del 97 Quali ad esempio la truffa nelle erogazione di fondi europei, la corruzione di funzionari europei ecc. Qualcosa di simile si può dire anche a proposito della tutela dell’euro che – in quanto moneta unica – si pone quale oggetto di un’esigenza di tutela che non può che essere propria dell’Unione come tale. 98 Cfr. C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., pp. 1160 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 50 penalmente rilevante), dall’altro, tuttavia, non le attribuirebbe anche la potestà punitiva. In tal senso si argomenta, infatti, che la disposizione farebbe riferimento al solo concetto di “reati che ledono gli interessi finanziari quali definiti dal regolamento”. Non vi sarebbe, dunque, alcun esplicito riferimento alle definizioni delle sanzioni. Il concetto non potrebbe, peraltro, essere neppure ritenuto implicitamente sottointeso e ciò perché da una parte – come detto - occorre valorizzare il dato testuale (orfano di tale previsione) e dall’altra il legislatore del Trattato di solito fa riferimento al diverso sintagma “definizione dei reati e delle sanzioni”. Quanto appena detto si evince chiaramente proprio dal raffronto con il sopra analizzato art. 83 TFUE, in cui a più riprese si chiamano in causa sia i reati sia le sanzioni99. Quindi, non si può ritenere che il solo riferimento alla capacità di definire i reati comprenda anche la capacità di stabilire le pene, visto che non è per nulla scontato che alla competenza a stabilire precetti da sanzionare penalmente corrisponda anche la competenza a stabilire le pene che devono in concreto essere inflitte a chi ha violato quei precetti. Invero, non vengono sottaciute neppure le significative differenze tra le diverse versioni linguistiche del Trattato nelle quali il participio “definiti” non sempre risulta riferito al sostantivo “reati”. Differenze, queste, così rilevanti da condannare senza possibilità di appello il testo all’equivocità, con la conseguenza che non si potrebbe proprio ritenere che questa disposizione costituisca la base giuridica attraverso cui attribuire competenza penale diretta all’Unione europea100. L’art. 86.2 TFUE conferirebbe, dunque, una competenza a stabilire i precetti penalmente rilevanti, mentre non riconoscerebbe anche la competenza alla definizione delle pene, salva restando la possibilità di norme minime in tema di sanzioni. In tal senso si è, infatti, affermato che lo stesso regolamento nell’individuare il comportamento lesivo di interessi finanziari dell’Unione da ritenersi reato, potrebbe poi prevedere in materia sanzionatoria delle norme minime in tema di sanzioni (ad esempio la tipologia di pene, al limite i meccanismi di conversione e i minimi dei massimi edittali, secondo un meccanismo ormai ben oliato), demandando, però, alla legge nazionale di stabilire nel concreto la tipologia ed il funzionamento delle pene comminate e da applicarsi101 . Ecco, dunque, il riconoscimento di una competenza penale non diretta ma ‘quasi diretta’ in capo all’Unione europea. Per questa via viene, di conseguenza, meno l’esigenza di affrontare la questione di compatibilità dell’art. 86.2 TFUE con l’art. 25, comma 2, cost., poiché in questo modo il reo verrebbe comunque ad essere punito in forza di una legge dello Stato entrata in vigore prima del fatto commesso. 99 Si tratta in buona sostanza di effettuare una interpretazione sistematica dell’espressione contenuta nell’art. 86.2 TFUE alla luce delle altre disposizioni del Trattato ed in particolare dell’art. 83 TFUE. Per una diffusa analisi del disposto di cui all’art. 83 TFUE e per la distinzione tra reati e sanzioni si rinvia a quanto osservato nel paragrafo precedente. 100 In tal senso, oltre a C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., pp. 1159 ss, v. anche F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 131 s. 101 Cfr. C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., pp. 1159 ss. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 51 Questa articolata impostazione interpretativa ci sembra in linea di massima assolutamente condivisibile sia sul piano della ricostruzione testuale e sistematica del dato normativo, sia negli esiti a cui è giunta. Si rendono, tuttavia, necessarie alcune precisazioni. Posto che i regolamenti non possono – proprio perché direttamente applicabili – produrre alcun effetto nel senso dell’incriminazione, i loro precetti, dunque, pur direttamente efficaci devono essere “fatti propri” e muniti di sanzione penale da parte di un atto legislativo interno. A questo scopo viene in gioco proprio quel particolare meccanismo di integrazione costituito dal rinvio o richiamo effettuato dalla norma interna penale alla fonte europea. La disposizione normativa penale nazionale viene ad assumere, così, una funzione e una struttura meramente sanzionatoria di una disciplina extrapenale interamente contenuta nella fonte europea. Poiché la norma legislativa interna si limita, in definitiva, ad apporre una ‘clausola sanzionatoria’ al regolamento, è chiaro che è quest’ultimo ad assumersi il compito pressoché esclusivo di configurare il precetto (che diviene poi) penale102 . Come noto, il rinvio integrale al regolamento può presentare una duplice natura. Nel caso, infatti, di rinvio recettizio la norma interna sanzionatoria fa proprio il contenuto di un regolamento preesistente e perfettamente individuato in tutti i suoi estremi. A ben vedere la suddetta tecnica di integrazione (rectius “identificazione”), se da un lato si presenta immune da vizi o difetti di legalità, dall’altro si rivela, tuttavia, difficilmente praticabile dal punto di vista dell’Unione. Infatti, la recezione non solo comporta l’impossibilità di un adeguamento automatico agli eventuali successivi prodotti normativi della fonte europea, essendo la norma interna per così dire “bloccata” sul contenuto normativo a suo tempo recepito, ma implica soprattutto l’impossibilità di sottoporre il regolamento – in quanto trasformato in diritto interno – all’interpretazione pregiudiziale della Corte di giustizia103. Tanto che quest’ultima ha ritenuto illegittima la pratica di trasformare i regolamenti europei in diritto interno. Nel caso, invece, di rinvio formale o mobile (cioè non al contenuto ma alla fonte) la norma richiamante sarà in grado di accogliere di volta in volta, anche in futuro, il prodotto normativo così come proverrà dalla fonte europea e per il solo fatto di venire ad esistenza. Si tratterebbe, in altre parole, di un rinvio al potere normativo della fonte comunitaria. Se questa tecnica d’integrazione si presenta in perfetta rispondenza con i principi e le esigenze europee, essa risulta per contro fortemente problematica sotto il profilo della legalità penale. In conclusione, dunque, l’art. 86 TFUE, pur con i suoi limiti ed aporie, finisce con il rappresentare una norma fondamentale nella prospettiva del rafforzamento della politica criminale dell’Unione europea. Dalla politica intergovernativa delle decisioni-quadro si è, infatti, passati alle direttive per giungere, infine, a legittimare, in materia penale, la fonte europea che presenta da sempre la maggiore forza di penetrazione nei sistemi nazionali. Questo dato segnala, dunque, una tendenza alla localizzazione a livello sovranazionale europeo delle scelte di politica criminale rispetto alla tutela di interessi 102 103 Sulla specifica problematica v., fra tutti, F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 136 s. Cfr. F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 136 s. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 52 essenziali per la vita stessa dell’Unione, ma non si può ritenere che ci si sia spinti fino al riconoscimento di una competenza penale diretta dell’Unione104. 6. Competenza penale diretta dell’Unione europea Le ragioni che non possono che condurre all’esclusione di una competenza diretta dell’Unione europea in materia penale, si fondano ed articolano essenzialmente su tre diverse argomentazioni. E’ d’uopo pertanto, seppur sinteticamente ripercorrerle. In primo luogo, è opportuno considerare e valorizzare un dato di tipo formaleestrinseco che, seppure apparentemente ovvio, risulta spesso trascurato nelle riflessioni sul tema. Nessun organo dell’Unione europea possiede, infatti, una legittimazione ad emanare direttamente norme incriminatici, sia perché i trattati istitutivi non hanno mai attribuito siffatti poteri agli organi comunitari, sia perché lo stesso trattato UE non consente di fondare una competenza penale dell’Unione. Mancano, quindi, riferimenti normativi a cui agganciare la legittimazione degli organi dell’Unione europea ad emanare norme incriminatici, destinate a trovare diretta applicazione innanzi alle autorità giurisdizionali europee o a quelle dei singoli Stati nazionali. In tali termini si è pronunciata anche la stessa Corte di giustizia in una storica sentenza in cui si è affermato che «una direttiva comunitaria non può avere l’effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua trasposizione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni» 105 . Non sembra che un dato contrario possa peraltro desumersi dagli articoli 261 e 86.2 TFUE. La prima disposizione richiamata – nella nuova versione introdotta dal Trattato di Amsterdam e consolidata dopo il Trattato di Lisbona - si limita, infatti, a stabilire che i regolamenti comunitari possono prevedere “sanzioni” destinate ad essere applicate dalla Corte di giustizia. Il generico riferimento alle “sanzioni” e l’omessa menzione, quindi, della possibilità per gli organi comunitari di irrogare “sanzioni penali” inducono – oggi pressoché unanimemente - a ritenere che con la disposizione de qua si sia inteso semplicemente confermare la titolarità in capo agli organi dell’Unione della sola potestà sanzionatoria amministrativa e non anche penale. Quanto all’ambiguo disposto di cui all’art. 86.2 TFUE, in attesa che il legislatore europeo e, ancor più, la Corte di giustizia – il cui intervento sarà presumibilmente presto sollecitato, qualora un regolamento ai sensi della suddetta norma sia effettivamente adottato - offrano spunti chiarificatori, si è per ora portati a ritenere che non abbia attribuito all’Unione europea una competenza penale diretta. Ciò può ragionevolmente affermarsi sulla base delle sopra ripercorse ragioni che renderebbero coerente la suddetta limitazione con il significato testuale e sistematico della disposizione normativa. 104 V., sul punto, contra M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 678; G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., pp. 64 s. 105 CGCE 11 maggio 1987, 14/86. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 53 In secondo luogo, assume centrale importanza nella negazione di una competenza penale diretta in capo agli organi dell’Unione una argomento ‘interno’ legato alla ratio sostanziale-costituzionale della riserva di legge statuale. Più precisamente, l’adozione di fonti primarie interne di attuazione (seppur meramente formale) degli obblighi di incriminazione comunitari, risulta essere ancora e nonostante l’attuale crisi della legalità penale nazionale un tratto imprescindibile del nostro sistema. Se, infatti, da un lato può dirsi in qualche modo ridimensionato a livello interno il fondamento garantista democratico-procedurale legato alla riserva di legge in materia penale – con conseguente pretestuosità di quelle obiezioni fondate su un (asserito) deficit rappresentativo comunitario –, dall’altro lato si assiste ad un progressivo rafforzamento della ratio sostanziale-costituzionale sottesa al suddetto principio, la quale finisce con il divenire il solo irrinunciabile fondamento. La conservazione del principio di riserva di legge in materia penale rappresenta oggi, dunque, un tratto imprescindibile per il mantenimento di quella garanzia per i cittadini rappresentata dal controllo della Corte costituzionale sulla fonte primaria interna. E’ evidente, infatti, che ove si aprisse alla possibilità di introdurre norme incriminatici da parte di fonti europee dotate di efficacia diretta all’interno degli Stati membri - risultando così svincolate da qualsiasi forma di ‘mediazione interna’ - si otterrebbe, quale conseguenza, che il controllo della Corte costituzionale verrebbe inesorabilmente meno o quantomeno risulterebbe completamente snaturato. Non sembra neppure tenere, quale possibile obiezione alla suddetta ricostruzione, la riconosciuta possibilità della Corte costituzionale di ricorrere alla c.d. teoria dei controlimiti. Attraverso la suddetta teoria, come noto, la supremazia del diritto dell’Unione è stata, infatti, mitigata dall’affermazione – in chiave oppositivogarantista106 – del principio per cui, ove vengano in considerazione principi supremi o diritti inviolabili, il presidio giurisdizionale del controllo accentrato di legittimità costituzionale non può essere in alcun modo by-passato o sostituito dall’attività del giudice107. Orbene, a ben vedere, la teoria dei controlimiti si pone quale rimedio del 106 Cfr. M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., p. 101, secondo cui nel cammino comunitario della giurisprudenza costituzionale è ravvisabile una «intera generazione di casi in cui la Corte, se con una mano accondiscende alle esigenze comunitarie, con l’altra limita o argina le proprie concessioni». In tal senso v. anche A. CARDONE, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., in corso di pubblicazione. 107 La compiuta elaborazione dei “controlimiti” all’ingresso del diritto dell’Unione viene effettuata dalla Corte in una ormai celebre sentenza del 1973, in cui si legge che deve escludersi che le limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 cost. «possano comunque comportare per gli organi della C.E.E. un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana» (C. cost. 27 dicembre 1973, n. 183, in Giur. cost., 1973, pp. 2401 ss.). La stessa Corte costituzionale ha, poi, mostrato di ritenere «improbabile» (C. cost. 8 giugno 1984, n. 170, in Giur. cost., 1984, pp. 1098 ss.) l’ipotesi che il diritto dell’Unione violi i principi supremi o i diritti inviolabili ma ha comunque precisato in una successiva, e altrettanto nota, sentenza del 1989 che «quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile» e che la propria competenza non concerne solo il controllo sul sistema comunitario nel suo complesso ma si estende a verificare «verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 54 tutto residuale e marginale sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo rispetto alla funzione per così dire “ordinaria” del controllo di costituzionalità delle norme espletato dalla Corte costituzionale. Inoltre, all’operatività di tali limiti osterebbe in materia penale, oltre alla difficile configurabilità del contrasto con i diritti inviolabili, la circostanza che la Corte, fin dalla notissima sentenza del 1973, abbia escluso in forza dell’argomento letterale tratto dall’art. 134 cost. la possibilità che, sempre per il tramite della legge di esecuzione, possa essere controllato il rispetto dei controlimiti non solo da parte dei trattati ma anche da parte degli atti del diritto derivato e, in particolar modo dei regolamenti 108 . Ammettere, dunque, una competenza penale diretta europea significherebbe in buona sostanza rinunciare a quel pregnante controllo ed indirizzo espletato dalla Corte costituzionale, la quale verrebbe conseguentemente a ricoprire un ruolo del tutto marginale nel sistema. Va, infine, osservato che d’altra parte, anche se i trattati contenessero una previsione che in modo espresso ed inequivoco conferisse una competenza penale diretta alle fonti comunitarie, le norme incriminatici eventualmente emanate da tali fonti non potrebbero avere ingresso nel nostro ordinamento perché in contrasto con il principio costituzionale della riserva di legge in materia penale. Come, infatti, ha ripetutamente affermato la Corte costituzionale italiana, «l’ordinamento statale non si apre incondizionatamente alla normativa comunitaria, giacché in ogni caso vige il limite del rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana, con conseguente sindacabilità […] della legge di esecuzione del trattato»109. E fra ‘i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale’ che segnano un limite invalicabile all’ingresso di norme europee nell’ordinamento un posto primario compete proprio al nullum crimen nulla poena sine lege, come garanzia costituzionale-sostanziale prima ancora che democratico-procedurale per il cittadino e la sua libertà personale110. umana» (C. cost. 21 aprile 1989, n. 232, in Giur. cost., 1989, pp. 1001 ss.). Sul punto v., per tutti, A. CARDONE, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), cit. 108 Soluzione peraltro questa criticata dalla dottrina maggioritaria, tra cui M. CARTABIA, Nuovi sviluppi nelle «competenze comunitarie» della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1989, pp. 1012 ss.; P. PERLINGERI, Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 1992, pp. 109 ss.; G. GAJA, La Corte costituzionale di fronte al diritto comunitario, in La dimensione internazionale ed europea del diritto, pp. 267 ss.. Contra SORRENTINO, La rilevanza delle fonti comunitarie nell’ordinamento italiano, in Dir. comm. intern., 1989, pp. 455 ss, secondo cui il controllo sul rispetto dei controlimiti da parte dei regolamenti deve essere assicurato dal giudice comune attraverso la disapplicazione. 109 Così da ultimo Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168, in Giur. cost., 1991, p. 1409 ss., in particolare p. 1414. 110 Come si è felicemente affermato in dottrina, “il principio di legalità, in quanto rappresenta un momento essenziale dei rapporti tra autorità e libertà, costituisce sicuramente l’espressione di un diritto fondamentale”. G. GRASSO, Relazione di sintesi, in La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e repressione: l’esempio dei fondi strutturali, a cura di G. Grasso, Milano, 2000, p. 398. V. anche sul punto F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 131; G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit. p. 63. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 55 7. Considerazioni conclusive L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia e le nuove disposizioni introdotte dal Trattato di Lisbona esprimono una linea unitaria di sviluppo nella direzione del rafforzamento progressivo della politica criminale europea, nella consapevolezza che la tutela di interessi fondamentali dell’Unione, siano essi interessi istituzionali o interessi a dimensione transnazionale, richiedono politiche comuni di intervento, per le quali in alcuni casi già la prospettiva europea appare troppo ristretta. E’ da attendersi che questa dislocazione a livello sovranazionale-europeo delle scelte politiche sulle strategie penali di tutela abbia nei prossimi anni un impatto significativo sulle legislazioni penali interne: le scelte fatte a livello dell’Unione europea tramite direttive si tradurranno, infatti, in obblighi comunitari di criminalizzazione e, per effetto del parametro interposto dell’art. 117 Cost., in obblighi costituzionali di tutela penale. Il rafforzamento degli strumenti di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali non è affatto casuale, ma rispecchia il progressivo rafforzamento della base democratica della legalità dell’Unione europea che attraverso il potenziamento della procedura di codecisione, prima di Lisbona, e nella nuova procedura legislativa ordinaria, dopo Lisbona, riconosce al Parlamento europeo il ruolo effettivo di legislatore111. Pur tuttavia, se si deve salutare favorevolmente a livello locale-nazionale una politica di dialogo ed “armonizzazione”, questa non potrà tradursi in una vera e propria “uniformazione” con il riconoscimento in capo alle istituzioni europee di una competenza penale diretta: pena la vanificazione dell’istanza garantista sostanziale-costituzionale sottesa al corollario della riserva di legge statale e la conseguente estromissione del vigile controllo della Corte costituzionale. Troviamo in definitiva confermato ancora una volta quel vincolo strettissimo che avvince le garanzie della legalità penale alle scelte politiche sulla fonte deputata ad incidere nella materia penale. 111 Cfr. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 680. Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011 56