di Lorenzo Pellegrini1 The Author examinates the principle of legal

RISERVA DI LEGGE E COMPETENZA PENALE EUROPEA
di Lorenzo Pellegrini1
SOMMARIO: 1. Obiettivi e prospettive di fondo. – 2. Ratio ed evoluzione del principio di riserva di legge.
– 2.1. Crisi della riserva di legge parlamentare. Le cause endogene. – 2.2. Le cause esogene di crisi
prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. – 3. All’indomani di Lisbona: il principio di
legalità penale nell’ordinamento europeo. – 4. Il problema della conformità al principio di legalità
penale dei meccanismi di produzione normativa europea: attualità dell’obiezione basata sul deficit
democratico-rappresentativo. – 5. Competenza penale indiretta delle istituzioni europee. – 5.1.
L’armonizzazione mediante direttive: i due tipi di competenza penale indiretta stabiliti nell’art. 83
TFUE. – 5.2. L’armonizzazione mediante regolamenti: la competenza ‘quasi diretta’ stabilita dell’art.
86 TFUE. – 6. Competenza penale diretta dell’Unione europea. – 7. Considerazioni conclusive.
The Author examinates the principle of legal state reservation in criminal matters and
its actual decline impressed by the jurisdiction evolution of the European Court of
Justice and the dispositions introduced from the Treaty of Lisbon. In the first part of the
work is remarked - through a casistic-empirical analisys - the historical evolution of the
ratio of the principle of legal reservation, highlighting the deep crisis that today pays
either for endogenous factors - creating imbalances between internal institutional
organizations, depriving Parliament of its role as guarantor of democracy and
representation of the criminal choices – as for exogenous factors - tied instead to the
growing wave of European law-making relevant criminal law, resulting in displacement
of criminal policy decision-makers in an increasing number of cases at the
supranational level - operating even before the entry into force of the Treaty of Lisbon.
The second part has the pourpose of investigating and tracking both the substantial
differences existing between the national legality and the European legality, and the
innovations introduced by the Treaty of Lisbon (with particular reference to the
abolition of the pillar system, the changing of the European law-making process, the
disposals of articles 83 and 86 TFUE). The final part of the work concerne the analyses
of the criminal system of sources and in particular investigates the expression 'European
criminal jurisdiction'. Therefore the final question that the paper tries to give an answer,
it turns out to be, after all, still valid an opposition to the recognition of a European
direct criminal jurisdiction based on the principle of state reservation – at least - in its
garantiste substantial-constitutional feature.
1
Dottorando di ricerca in Discipline penalistiche: diritto e procedura penale dell’Università di Firenze.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
1. Obiettivi e prospettive di fondo
La fase attuale di sviluppo del diritto penale europeo iniziata dopo il Trattato di
Lisbona sembrerebbe avere impresso una decisiva accelerazione alla lunga agonia del
principio di riserva di legge nazionale.
Quattro sono i dati di fatto e le novità rilevanti da evidenziarsi in tale ottica.
In primo luogo va menzionata l’entrata in vigore della prima direttiva di
armonizzazione penale, la ormai ben nota direttiva 2008/99/CE2 adottata a seguito della
celebre sentenza con la quale la Corte di giustizia ha annullato la decisione quadro in
materia di protezione dell’ambiente mediante il diritto penale 3 . In secondo luogo
l’adozione avvenuta o comunque imminente di altre direttive, che - come la n. 99 del
2009 - introducono anch’esse obblighi di incriminazione penale per gli Stati membri4.
In terzo luogo, quanto poi alle novità introdotte con il Trattato di Lisbona, occorre
evidenziare: l’abolizione del sistema a pilastri che ha comportato la “normalizzazione”
del ricorso alle direttive sia negli ambiti di competenza penale concorrente (art. 83.1
TFUE), sia ove siano indispensabili per la tutela dei beni ed interessi dell’Unione (art.
2
Per una diffusa analisi della direttiva 2008/99/CE, del 19 novembre 2008, in GU L 328, 6 dicembre
2008, v. in dottrina tra gli altri L. SIRACUSA, Tutela ambientale: Unione europea e diritto penale fra
decisioni quadro e direttive, in Diritto penale e processo, 2006, pp. 774 ss.; ID., La competenza penale
comunitaria al primo banco di prova: la direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim.
dir. pen. econ.; ID., L’attuazione della direttiva europea sulla tutela dell’ambiente tramite il diritto
penale, intervento al Convegno “La riforma del diritto penale dell’ambiente in prospettiva europea”,
Associazione Internazionale di Diritto Penale, Gruppo italiano, Roma, 4 febbraio 2010, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it; L. SCHIANON DI PEPE, Competenze comunitarie e reati ambientali: il
«caso» dell’inquinamento provocato da navi, in A.A.V.V., Il diritto dell’Unione europea, Milano, 2006,
pp. 769 ss.; P. TORRETTA, Il “consolidamento” della prospettiva del diritto penale comunitario. Note a
prima lettura sulla Direttiva 2008/99/CE, in
Forum di Quaderni costituzionali,
www.forumcostituzionale.it; A. MERLIN, La tutela penale dell’ambiente nella direttiva 2008/99/CE, in
Ambiente e sicurezza, 2009, pp. 86 e ss.; V. PLANTAMURA, Una nuova frontiera europea per il diritto
penale, in Diritto penale e processo, 2009, pp. 85 ss.; G. M. VAGLIASINDI, La direttiva 2008/99/CE e il
Trattato di Lisbona: verso un nuovo volto del diritto penale ambientale italiano?, in Diritto commerciale
internazionale, 2010, pp. 458 ss.; C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità
legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Pisa, 2009.
3
CGCE, 13 settembre 2005, Commissione c. Consiglio, causa C-176/03, in GU C 315, 10 dicembre
2005.
4
Tra le altre è d’uopo segnalare la direttiva 2009/52/CE, del 19 giugno 2009, la quale introduce
norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano
cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in GU L 168, 30 giugno 2009, i cui artt. 9 e 10
impongono agli Stai membri di sanzionare penalmente determinate tipologie di violazioni del divieto
generale di impiego sancito dall’art. 3; e la direttiva 2009/48/CE, del 18 giugno 2009, sulla sicurezza dei
giocattoli, GU L 170, 30 giugno 2009, il cui art. 51 impone agli Stati membri di adottare le sanzioni,
comprese quelle penali per le infrazioni gravi, da irrogare agli operatori economici in caso di violazione
delle norme nazionali di attuazione; la direttiva 2009/123/CE, del 21 ottobre 2009, che modifica la
direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per
violazioni, in GU L 280/53; e la direttiva 2011/36/CE, concernente la prevenzione e la repressione della
tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, che abroga la decisione quadro 2002/629/GAI, COM
(2010) 95.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
2
83.2 TFUE). In queste ipotesi le istituzioni comunitarie possono, infatti, adottare
direttive di armonizzazione penale concernenti tanto il precetto quanto la sanzione.
Dalle nuove disposizioni di cui all’articolo 83 TFUE si evince, dunque, chiaramente una
riconosciuta competenza penale indiretta, mediante direttive dell’Unione europea.
L’ultima quanto problematica novità è, infine, rappresentata dall’introduzione dell’art.
86 TFUE. Ai sensi della disposizione de qua viene, infatti, attribuita la facoltà di
adottare regolamenti che definiscono i reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione
europea.
Delineate le prospettive alla base della nostra indagine è d’uopo fin da subito
definirne con precisione anche gli obiettivi. Cercheremo di dare una non facile risposta
a due quesiti di fondo: quale spazio residua nello scenario appena delineato per
quell’aspetto della legalità rappresentato dal principio di riserva di legge parlamentare?
Come si pone il sistema delle fonti europee penalmente rilevanti di fronte alle istanze
garantistiche che hanno costituito la ratio del principio di riserva di legge? Il presente
lavoro si propone, dunque, di comprendere se possa dirsi ancora fondata la tradizionale
obiezione al riconoscimento o all’allargamento di una competenza penale dell’Unione
europea incentrata sul deficit-democratico dell’architettura e del law–making process
europei5, e quale sia il significato ed il limite dell’espressione “competenza penale
europea”6.
5
Di questa tradizionale e tutt’ora diffusa obiezione danno atto numerosi ed autorevoli autori del
settore. Tra questi si evidenziano G. GRASSO, La costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto
penale dell’Unione europea, in G. GRASSO - R. SICURELLA (a cura di), Lezioni di diritto penale europeo,
Milano, 2007, pp. 676 ss.; R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, Milano,
2005, p. 388; B. SCHÜNEMANN, Presentazione, in B. SCHÜNEMANN (a cura di), Un progetto alternativo di
giustizia penale europea, ed. italiana a cura di V. MILITELLO, Milano, 2007, p. 6 s.; A. BERNARDI ,
Presentazione, in C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, Milano, 2010, p. IX s.; C.
PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale, cit., pp. 15 ss. Nella dottrina comunitaria v., G. GAJA - A.
ADINOLFI, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Roma-Bari, 2010, pp. 124 ss.; U. DRAETTA,
Elementi di diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione
europea, Milano, 2009, p. 79; T. RUSSO, Le norme “anti-deficit” democratico nell’Unione europea, in
Studi sull’integrazione europea, 2007, pp. 599 ss.; L. MAGI; Attribuzione alla “nuova” Unione di poteri
normativi in materia penale nonostante un persistente deficit democratico: possibile contrasto con il
principio costituzionale della riserva di legge?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, pp.
1540 ss.; E. DE MARCO, Elementi di democrazia partecipativa, in La nuova Europa dopo il Trattato di
Lisbona, in P. BIANCA - M. D’AMICO (a cura di), Milano, 2009, pp. 39 ss. L’argomento del deficit
democratico è stato ampiamente trattato ed analizzato nella controversa sentenza con la quale il Tribunale
costituzionale tedesco si è pronunciato sulla conformità costituzionale della legge di autorizzazione alla
ratifica del Trattato di Lisbona e delle leggi collegate (BVerfG, 30 giugno 2009, spec. § 289 ss., in
www.bverfg.de; trad. it. su www.associazionedeicostituzionalisti.it). Come noto dunque, sebbene la
sentenza del Bundesverfassungsgericht del 30 giugno 2009 abbia dichiarato la conformità del Trattato di
Lisbona alla Carta Costituzionale tedesca, è stata tuttavia da più parti ritenuta un passo indietro nel
processo di integrazione europea. Alla luce del ragionamento seguito dalla Corte costituzionale tedesca, si
pongono infatti diverse condizioni e limiti al processo di integrazione comunitario. Di qui l’interrogativo
se tale pronuncia costituisca una sostanziale bocciatura del Trattato e perfino una sfida all’acquis
costituzionale dell’Unione europea. In dottrina sullo specifico punto M. BÖSE, La sentenza della Corte
costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona e il suo significato per la europeizzazione del diritto
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3
Al fine di rispondere a tali interrogativi e giungere così ad una razionale
individuazione delle caratteristiche e dei limiti di una competenza penale europea,
occorrerà: in prima battuta, riepilogare alla luce della sua evoluzione storica la ratio del
principio di riserva di legge statuale evidenziandone la profonda crisi in cui oggi versa
per fattori endogeni ed esogeni; in secondo luogo, tracciare le differenze sostanziali
intercorrenti tra legalità nazionale e legalità europea; infine, esaminare le innovazioni
introdotte dal Trattato di Lisbona al fine di darne una corretta interpretazione.
Tanto, infatti, appare necessario proprio per comprendere consapevolmente e senza
preconcetti cosa sia ed in cosa consista la competenza penale europea.
2. Ratio ed evoluzione del principio di riserva di legge
Come noto, il fondamento positivo del principio di legalità espresso nel nullum
crimen nulla poena sine lege è rappresentato dalla garanzia dei cittadini dai rischi di
sopraffazione e strumentalizzazione insiti nel meccanismo punitivo. In altre parole,
suddetto principio, fondativo delle organizzazioni statuali moderne, si pone quale argine
alla possibile ingerenza liberticida dei diversi poteri7.
penale, in Criminalia, 2009, pp. 267 ss.; M.P. MADURO - G. GRASSO, Quale europa dopo la sentenza
della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona?, in Il diritto dell’Unione europea, 2009, pp.
503 ss.; S. CASSESE; L’Unione europea e il guinzaglio tedesco, in Giorn. dir. amm., 2009, pp. 1003 ss.; J.
ZILLER; Solange III, ovvero al Euoroparechtsfreundlichkeit del Bundesverfassungsgericht. A proposito
della sentenza della corte costituzionale tedesca sulla ratifica del trattato di Lisbona, in Riv. it. dir. pubbl.
comunitario, 2009, pp. 973 ss.; M. CHITI, Am Deutschen Volke. Prime note sulla sentenza del
Bundesverfassungsgericht del 30 giugno 2009 sul Trattato di Lisbona e la sua attuazione in Germania, in
www.astridonline.it; L. MALFERRRARI, Decisione della Corte costituzionale tedesca nel caso delle
banane: piena fiducia alla Corte di giustizia nel campo della protezione dei diritti fondamentali, in Dir.
pubbl. comp. europ., 2000, pp. 1473 ss. Nella dottrina straniera v. in particolare M. NIEDOBITEK, The
Lisbon Case of 30 June 2009 – A comment from the European Law Perspective, in
www.germanlawjournal.com; A. GROSSER, The Federal Constitutional Court’s Lisbon Case: Germany’s
“Sonderweg”. An Outsider’s Perspective, in www.germanlawjournal.net; P. KILVER, German
Partecipation in EU Decision Making after the Lisbon Case: A Comparative View on Domestic
Parliamentary Clearance Procedures, in www.germanlawjournal.com; D. HALBERSTAM, C. MÖLLERS,
The German Costitutional Court says “Ja zu Deutschland!”, in www.germanlawjournal.com; J. WOELK,
Parlare a nuora perchè suocera intenda: il BVerfG ddichiara incostituzionale la legge di attuazione del
mandato d’arresto europeo, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2006, pp. 106 ss.
6
Affrontano la problematica in esame con la suddetta impostazione metodologica principalmente A.
BERNARDI, I tre volti del «diritto penale comunitario», in Riv. it. Dir. pubbl. com., 199, pp. 333 ss.; C.
GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, Milano, 2010.
7
Sul fondamento garantista della legalità penale v. per tutti: F. PALAZZO, Corso di diritto penale.
Parte generale, IV ed., Torino, pp. 98 ss.; ID., Legalità e determinatezza della legge penale: significato
linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, in Diritto penale e giurisprudenza
costituzionale, a cura di G. Vassalli, Napoli-Roma, 2006, pp. 49 ss.; ID., Introduzione ai principi del
diritto penale, Torino, 1999, pp. 199 ss.; ID., Legalità penale considerazioni su trasformazione e
complessità di un principio ‘fondamentale’, in Quaderni Fiorentini, 2007, p. 1284; ID., voce Legge
penale, in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, pp. 344 ss.; ID., Sistema delle fonti e legalità penale, in
Cass. pen., 2005, p. 278; F. MANTOVANI; Diritto penale, ed. VI, Padova, 2009, pp. 3 ss.; G. FIANDACA,
Diritto penale. Parte generale, V ed., Bologna, 2009, pp. 47 ss.; ID., Legalità penale e democrazia, in
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4
Come altrettanto noto, il contenuto del principio di legalità in materia penale è
triplice, così come sono diverse le esigenze sottese a quei tre sottoprincipi.
Irretroattività, determinatezza e riserva di legge sono le tre note articolazioni
dell’unitario principio di legalità: ciascuna di esse rivela un diverso grado di adattabilità
Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, pp. 1247 ss.; M. ROMANO,
Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 1987, pp. 28 ss.; G. MARINUCCI - E. DOLCINI,
Manuale di diritto penale. Parte generale, III ed., Milano, 2009, pp. 29 ss.; ID., Corso di diritto penale,
vol. 1, Milano, 2001, pp. 5 ss.; E. DOLCINI - G. MARINUCCI, Codice penale commentato, artt. 1-384 bis, II
ed., pp. 29 ss.; T. PADOVANI, Codice penale, Milano, 2007, p. 1 ss.; A. PAGLIARO, voce Legge penale:
principi generali, in Enc. dir., XXII, Milano, 1973, p. 1040; L. CARLASSARE, voce Legalità (principio di),
in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990; A. CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno
studio sulla dimensione in action della legalità, Torino, 1999, pp. 50 ss.; M. TRAPANI; voce Legge penale,
I) Fonti, in Enc. giur. Treccani, XVIII, 1990, pp. 1 ss. Sul punto è infine estremamente interessante
sottolineare come già il Beccaria, nella sua opera “Dei delitti e delle pene” – pietra miliare del diritto
penale moderno – proponesse una valorizzazione del principio di legalità in quanto preordinato,
attraverso la certezza del diritto, a perseguire il fine ultimo di garanzia della libertà dell’uomo. Il Beccaria
affermava energicamente, insistendovi quasi in ogni capitolo del proprio libro, l’esigenza che i delitti e le
pene non vengano definiti caso per caso dall’arbitrio del giudice chiamato a conoscere di un fatto già
avvenuto, ma siano fissati in anticipo con leggi generali, che chiaramente determinino in astratto quali
azioni sono vietate come delittuose e quali sono le pene a cui va in contro chi le commette. «Le sole leggi
possono decretare le pene sui delitti; e questa autorità non può risiedere che presso il legislatore …» (§
III); «In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto; la maggiore deve essere la legge
generale, la minore, l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena» (§ IV); «… i
decreti dei quali [giudici] sono sempre opposti alla libertà politica, quando non siano proposizioni
particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice» (§ VI); «ma se questo magistrato
operasse con leggi arbitrarie e non stabilite da un codice che giri fra le mani di tutti i cittadini, si apre un
porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini della libertà politica. Io non trovo eccezione alcuna
a questo assioma generale: che ogni cittadino deve sapere quando sia reo, o quando sia innocente … » (§
XXIII). Così, in questi e in molti altri passi del “Dei delitti e delle pene” (nei quali è evidente l’ispirazione
del Montesquieu) sono efficacemente segnati i principi nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege,
che, insieme con quello complementare nulla poena sien iudicio, parvero dopo il Beccaria una conquista
non più rinunciabile per tutti gli stati civili. Il Beccaria indica così nella legalità la prima condizione della
libertà: se questa non può non essere limitata dalle esigenze della convivenza, i suoi limiti debbono esser
dettati soltanto dalle leggi, affinché i cittadini siano «uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la
sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini esigere nelle presenti condizioni di cose» (§ XII).
Libertà in senso puramente legalitario, dunque: la quale, prima che si entri in una valutazione politica
della sostanza delle leggi, dà intanto ai cittadini il vantaggio della certezza formale del diritto, buono o
cattivo che sia. Il sapere in anticipo e con sicurezza quali sono i propri doveri anche se pesanti, e i limiti,
anche se angusti, della propria libertà, mette le persone in salvo «dal più crudele carnefice dei miseri,
l’incertezza» (§ I): e questo è garanzia di dignità morale e fonte di coraggio civile, perché i cittadini
obbedienti alla volontà del sovrano che solo può comandare attraverso le leggi, sanno di poter resistere
senza tremare «alle piccole tirannie di molti, tanto più crudeli quanto è minore la distanza fra chi offre e
chi fa soffrire». Il legalitarismo del Beccaria si inchina, dunque, senza discutere, di fronte ai gradini del
trono. La libertà politica di cui par che egli si contenti è quella derivante dalla generalità e dalla certezza
della legge, che non lascia posto per favoritismi e per gli arbitrî individuali; ma sulla legittimità di questo
potere assoluto concentrato nel tiranno, senza che il popolo sia ammesso a dire la sua parola sulle leggi
alle quali deve soltanto obbedire, sembra che il Beccaria nulla abbia ad obiettare fedele ad un’idea
dispotica illumina. Cfr. P. CALAMANDREI, Prefazione, in C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, P.
CALAMANDREI (a cura di), Firenze, 1945, pp. 83 ss.
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e di resistenza all’urto dei mutamenti storici8. In altri termini si potrebbe dire che,
mentre taluno di quei sottoprincipi ha una vocazione almeno tendenzialmente
universalistica, altri presentano un più spiccato relativismo storico. Ed infatti il principio
di irretroattività della legge penale sfavorevole così come quello di determinatezza
sembrano vantare una sorta di immutabilità e di generale riconoscimento in tempi e
luoghi diversi, che ne fanno principi tendenzialmente astorico-universali volti a
costituire la nervatura portante del principio di legalità. Più precisamente il versante
universalistico della legalità attiene alla conoscibilità delle norme penali ed alla
conseguente libertà di autodeterminazione dei cittadini: come tale non è soggetto al
relativismo storico delle istituzioni statali.
All’estremo opposto si pone la riserva di legge, la quale sembra essere il principio
più storicamente condizionato in quanto presuppone, in primo luogo, l’esistenza di una
pluralità di fonti del diritto tra le quali si pone l’esigenza di una gerarchia o di un riparto
di competenza, di una selezione e di una concentrazione, che evidentemente non
avrebbero senso alcuno in un ordinamento in cui il potere normativo fosse invece
concentrato in un’unica fonte e in un unico organo. In secondo luogo, proprio perché,
infine, selezione fra fonti diverse, la riserva di legge presuppone che siano praticabili
dei criteri di scelta per l’individuazione della fonte «migliore»; mentre, laddove questa
differenza qualitativa fra le fonti non sia instaurabile o sia comunque smentita dai fatti,
il senso profondo della riserva viene grandemente scemato e viene storicamente
relativizzato il suo valore politico-giuridico di principio fondamentale del diritto
penale9.
Si può, dunque, affermare che la legalità in materia penale è costituita da due
versanti complementari: uno astorico-universalistico, nel quale prendono corpo le
garanzie di tipo sostanziale sancite dai principi di irretroattività e determinatezza; l’altro
storico, in cui viceversa si annoverano le garanzie c.d. formali volte all’individuazione
delle fonti legittimate a produrre diritto penale, sostanziate per quanto concerne
l’ordinamento giuridico italiano nel principio di riserva di legge (oggi) parlamentare
(nullum crimen nulla poena sine lege parlamentaria).
8
F. PALAZZO, Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e
conoscibilità della regula iuris, cit., pp. 56; G. VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Dig.
disc. pen., VII, Torino, 1994, pp. 278 ss.; F. PALAZZO, Ancora sulla legalità in materia penale,
Quaderno, Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, 5, Torino, 1995, pp. 59 ss.
9
Soluzioni diverse si sono infatti avute a seconda degli assetti statuali nelle varie epoche e tutt’ora
permangono anche a livello europeo basti pensare alle diversità che caratterizzano i sistemi di common
law e di civil law e questo nonostante i progressivi avvicinamenti tra i suddetti sistemi. In argomento v. G.
FORNASARI - A. MENELGHINI, Percorsi europei di diritto penale. Casi, fonti e studi per il diritto penale,
Padova, 2005, pp. 2 ss.; E. GRANDE, Droit pènal, principe de lègalitè et civilisation juridique: vision
globale, in Revue internazionale de droit compare, 2004, pp. 119 ss.; F. PALAZZO - M. PAPA, Lezioni di
diritto penale comparato, Torino, 2005; A. BERNARDI, “Riserva di legge” e fonti europee in materia
penale, in Annali dell’Università di Ferrara, Nuova Serie, Scienze Giuridiche, 2006, p. 21; A.A.V.V., Il
diritto penale nella prospettiva europea: quali politiche criminali per quale europa?, S. CANESTRAI - L.
FOFFANI (a cura di), Milano, 2002.
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Ciò premesso e per quanto qui più specificamente interessa, occorre mettere bene a
fuoco il fondamento sostanziale del principio di riserva di legge in materia penale e
chiedersi se la ricostruzione “tradizionale” risponda tuttora alla dimensione in action del
principio stesso10. E’ di centrale importanza nella suddetta indagine rilevare come la
riserva di legge fondi le proprie radici nell’idea illuministica di separazione dei poteri.
Più precisamente, la sua funzione consiste nell’escludere il potere esecutivo e quello
giudiziario dalla produzione del diritto penale e, di conseguenza, concentrarne il
monopolio in capo al legislatore. E’, dunque, il parlamento il soggetto legittimamente
autorizzato a produrre diritto penale e ciò per due ordini di ragioni: storiche e normative
di produzione del diritto.
Le ragioni storiche affondano le proprie radici nel passaggio dall’ancien regime alla
Rivoluzione francese. Storicamente prima della Rivoluzione il potere giudiziario ha,
infatti, rappresentato nell’europa continentale un potere caratterizzato da scarsa
indipendenza ed imparzialità, risultando in definitiva contiguo al potere politico11. Da
qui la diffidenza e la conseguente esigenza di escluderne un ruolo significativo nel
processo di elaborazione normativa. Quanto alle ragioni di tipo normativo di produzione
del diritto, è d’uopo evidenziare inoltre come, laddove il diritto penale sia prodotto
interamente dal potere giudiziario si ponga un consistente problema di incertezza per il
cittadino, irrazionalità e mancanza di possibilità per quest’ultimo di conoscere
previamente le conseguenze del proprio agire. Tutto ciò appare collidere con le opposte
esigenze di unitarietà, sistematicità e prevedibilità che dovrebbero informare il diritto
penale.
Tuttavia, la duplice argomentazione fin qui svolta spiega il perché non si debba
attribuire il potere di produzione del diritto penale all’organo giudiziario, ma non anche
perché si debba optare per la scelta del legislatore. Le ragioni esposte in altre parole
spingono verso l’individuazione di una fonte produttiva ‘astratta’ in quanto la più
idonea, ma non dicono anche quale essa debba essere. Come noto, fonti astratte di
produzione del diritto possono derivare tanto dal governo, quanto dal legislatore. Pur
tuttavia, è altrettanto risaputo che il potere esecutivo non può produrre diritto penale:
occorre, dunque, ancora una volta interrogarci sul perché di tale assunto. A ben vedere,
il grande limite del potere esecutivo sta nel fatto che non ha una legittimazione
10
F. BRICOLA, Il II e il III comma dell’art. 25, in Commentario della Costituzione, a cura di G.
Branca, XXI, Bologna, 1981, pp. 233 ss.; F. PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, cit., pp.
224 ss., ID., Corso di diritto penale. Parte generale, cit., pp. 114 ss.; ID., Legalità e determinatezza della
legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, cit., p. 50 s.; R.
BARTOLI, Incriminazione e giustificazione: una diversa legalità, in Riv. it. dir. proc. pen., pp. 597 ss.; ID.,
Il primato della legge alla prova della modernità, Teramo, 15-17 gennaio 2010, pp. 3 ss. del
dattiloscritto; R. BALDUZZI - F. SORENTINO, voce Riserva di legge, in Enc. dir., XI, Milano, 1989, p. 1222;
M. P. IADICICCO, La riserva di legge nelle dinamiche di trasformazione dell’ordinamento interno e
comunitario, Torino, 2007, pp. 21 ss.
11
Come noto, la Rivoluzione diffida profondamente del potere giudiziario identificato con i riottosi
parlamenti dell’Antico regime, bollati come una corporazione di cui non si desiderava affatto la
resurrezione. Cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, ed. II, 2005, pp. 22
ss.; S. MANNONI, Frontiere del diritto pubblico, Milano, 2004, pp. 41 ss.
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democratica o quantomeno la possiede solo indirettamente12. Il Governo non risponde
del proprio agire direttamente nei confronti dei cittadini e quindi vi è il rischio che possa
utilizzare lo strumento penale in senso liberticida nei loro confronti, in particolare
proprio per eliminare gli avversari politici o per creare privilegi per i suoi sostenitori.
Il legislatore, viceversa, è immediatamente responsabile di fronte ai cittadini e,
pertanto, astrattamente non può loro nuocere. Ecco, dunque, spiegato il perché si sia
ritenuto opportuno attribuire al legislatore e solo a questi il potere di produrre diritto
penale: nasce tutto da un’esigenza garantista connessa al principio democratico. Dal
Parlamento, quale rappresentante dell’intera collettività, ci si attende un esercizio non
abusivo del proprio potere rispetto a quello ipoteticamente praticabile dagli altri poteri.
Ogni limitazione dei diritti sancita con una norma dotata di legittimazione democratica
deve ritenersi pertanto autorizzata in via mediata dagli stessi destinatari che in
quest’ottica finiscono di fatto con l’auto-limitarsi.
Alla base del principio di legalità vi è, pertanto, una ratio di garanzia rispondente al
principio democratico che si esplica poi in tre controlli procedimentali (c.d. garanzie
procedimentali). L’atto legislativo è sottoposto, infatti, a tutta una serie di controlli la
cui sommatoria rende la fonte legislativa la più monitorabile e pertanto affidabile. Si
tratta come noto del controllo: dell’opposizione sull’operato della maggioranza;
dell’opinione pubblica nella fase di formazione delle leggi; dell’elettorato nella fase
successiva delle elezioni politiche13.
Tale ratio democratico-procedurale, volta come visto alla salvaguardia della
democraticità delle incriminazioni, presenta tuttavia dei grandi ed ineludibili limiti sia
strutturali che prasseologici che hanno condotto il principio di riserva di legge alla sua
odierna crisi14.
Sul piano strutturale occorre evidenziare come, a ben vedere, lo stesso legislatore in
un assetto statuale, dove vi è una contrapposizione netta tra una forza di maggioranza ed
12
V., fra tutti, R. BIN - G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino, 2009, pp. 172 ss.; L. ELIA,
voce Governo, in Enc. dir., Milano, 1970, pp. 634 ss.; S. BARTOLE, voce Governo italiano, in Dig. disc.
pubbl., Torino, pp. 634 ss., G. SILVESTRI, voce Poteri dello Stato (divisione dei), in Enc. dir., Milano,
1985, pp. 670 ss.
13
F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, cit., p. 114; ID., Introduzione ai principi del
diritto penale, cit., p. 204 ss.; ID., Riserva di legge e diritto penale moderno, cit., pp. 280 ss.; ID., voce
Legge penale, cit., pp. 338 ss.; G. DE FRANCESCO, Diritto penale. i fondamenti, Torino, 2008, pp. 69 ss.;
G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., pp. 51 ss.; M. ROMANO, Commentario
sistematico del codice penale, cit., p. 28 ss.; M. TRAPANI, voce Legge penale, cit., pp. 4 ss.; G.
MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, Milano, 2001, pp. 37 ss.; C. CUPELLI, La legalità.
Spunti su riserva di legge e delega legislativa nelle tendenze attuali del diritto penale, cit., p. 113; M. P.
IADICCIO, La riserva di legge nelle dinamiche trasformative dell’ordinamento interno comunitario, cit.
pp. 38 ss.
14
Più che di crisi sarebbe corretto parlare di relativizzazione della riserva di legge, nel senso che viene
corrosa l’interconnessione tra riserva e istanza democratica alla base. In tal senso v. in particolare F.
PALAZZO, Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e
conoscibilità della regula iuris, cit., pp. 49 ss., R. BARTOLI, Incriminazione e giustificazione: una diversa
legalità, cit., pp. 598 ss.; ID., Il primato della legge alla prova della modernità, cit., pp. 5 ss. del
dattiloscritto.
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una forza di minoranza, possa costituire un pericolo per i cittadini. La maggioranza in
sistemi sì organizzati diviene un potere difficilmente arginabile: se questa infatti decide
di approvare una legge liberticida - e vi riesce - i tre controlli garantistico-procedurali
finiscono inevitabilmente per avere una ben scarsa efficacia contenitiva. Nel caso, poi,
che maggioranza e minoranza si uniscano e prevedano una legge illegittimamente
incisiva delle libertà dei cittadini, a livello politico i mezzi di contrasto si rivelerebbero
del tutto marginali se non inesistenti15.
Un’indagine a livello di prassi evidenzia, inoltre, un macroscopico allontanamento
dall’archètipo legalitario precedentemente descritto. Qui la crisi della legge, che si
traduce inevitabilmente in crisi della legalità, si manifesta in tutta la sua folgorante
evidenza e ciò a causa di fattori tanto endogeni quanto esogeni16. La prima tipologia di
fattori finisce per distorcere gli equilibri interni tra organi istituzionali, privando il
Parlamento del suo ruolo di garante della democraticità e rappresentatività delle scelte
di incriminazione. I fattori esogeni di crisi della legalità, dal canto loro, derivano,
invece, dal crescente dilagare della produzione normativa europea di rilievo penalistico,
la quale sta producendo uno spostamento dei centri decisionali di politica criminale in
un sempre maggior numero di settori.
Non si può, dunque, non osservare che il principio democratico-procedurale sotteso
alla riserva di legge parlamentare di per se stesso non sembra (più) in grado di fornire
un’idonea garanzia ai cittadini da eventuali abusi. Si impone allora una domanda:
perché si continua a ritenere il legislatore statale l’unico organo legittimato a compiere
scelte di incriminazione? La risposta in realtà viene naturale, solo se si consideri l’altra
ratio garantista alla base del principio di riserva di legge e che affianca quella
democratico-procedurale. Il riferimento è alla garanzia costituzionale-sostanziale che si
esprime nel controllo contenutistico accentrato della Corte costituzionale sulla fonte
primaria. E’, infatti, il rango della fonte che permette l’esplicarsi del suddetto controllo
garantistico17.
2.1. Crisi della riserva di legge parlamentare. Le cause endogene
15
R. BARTOLI, La totale irrazionalità di un divieto assoluto. Considerazioni a margine del divieto di
procreazione medicalmente assistita, in Riv. it. dir. proc. pen., pp. 90 ss.; M. FIORAVANTI, Il
compromesso costituzionale. Riflessioni sulla genesi e sull’attuazione della Costituzione repubblicana, in
P. CARETTI - M. C. GRISOLIA (a cura di), Lo stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva
internazionale, Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, 2010, p. 34.
16
Effettua tale distinzione classificatoria anche C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale
europea, cit., pp. 28 ss.
17
Al Giudice delle leggi è affidato quindi il compito di esprimere un giudizio teso a evitare che i
contenuti delle leggi penali siano illegittimi alla stregua di parametri sovraordinati. Proprio l’insufficienza
genetico-strutturale del procedimento parlamentare a scongiurare il rischio di leggi liberticide induce a
sottolineare la prevalenza della ratio garantista costituzionale-sostanziale rispetto a quella democraticoprocedurale, quale logica di fondo della riserva di legge. In tal senso R. BARTOLI, Incriminazione e
giustificazione: una diversa legalità, cit., pp. 600 ss.
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La prassi palesa una evidente corrosione del principio di riserva di legge statuale e
ciò specialmente per quanto attiene alla sua componente democratica. Al fine di
rendersi conto di quanto appena enunciato, occorre passare in rassegna nella loro
dimensione operativa i tre controlli caratterizzanti il tradizionale procedimento di
adozione delle leggi così da constatare come spesso questi siano nei fatti pressoché
vanificati o quantomeno fortemente ridimensionati. Più precisamente e per comodità
espositiva si possono evidenziare fattori di erosione della legalità che operano nella fase
genetica della produzione della norma penale e fattori che si estrinsecano invece nella
fase di vigenza applicativo/interpretativa.
Quanto al primo gruppo di fattori, se ne possono individuare tre fondamentali
articolazioni tipologiche.
In primo luogo, è d’uopo sottolineare il declino della funzione rappresentativa del
Parlamento nazionale. In tal senso, infatti, si palesa oggi il rischio di un sistema
democratico-maggioritario in cui la forza di maggioranza finisce con il chiudere gli
spazi dialogici con l’opposizione. Da ciò consegue che la minoranza tende a ricoprire un
ruolo del tutto marginale e spesso ridotto nei fatti ad un atteggiamento meramente
contestativo dell’operato della maggioranza18. Il dialogo parlamentare risulta, pertanto,
18
E’ questo il complesso tema delle pratiche ostruzionistiche adottate dall’opposizione nel Parlamento
maggioritario. Nel lessico parlamentare l’ostruzionismo rappresenta l’uso esasperato, pedante ed
artificioso (ma legittimo) di tutte le possibili regole e norme procedurali contenute nei regolamenti
parlamentari o nella Costituzione, al fine di impedire il raggiungimento di una maggioranza e dunque di
ritardare o di ostacolare del tutto la definizione di un iter legislativo. E’ necessario, innanzitutto,
distinguere tra esercizio, anche duro, dell’opposizione e vero e proprio ostruzionismo: l’opposizione
tende infatti ad avvicinare quanto più possibile il testo dei provvedimenti ai propri punti di vista, mentre
l’ostruzionismo mira ad impedirne l’approvazione, o almeno a ritardarla significativamente. Tra le
singole manifestazioni ostruzionistiche praticabili nella prassi parlamentare, come noto, si annoverano: la
continua richiesta di verifica del numero legale, i richiami al regolamento, la presentazione di questioni
incidentali, la richiesta di votazioni qualificate, la presentazione di articoli aggiuntivi, la proposizione di
emendamenti e sub-emendamenti a cascata, la richiesta di inversione dell’ordine del giorno o la richiesta
di trattazione di argomenti che non sono all’ordine del giorno, le massicce iscrizioni a parlare ed il
prolungamento dei discorsi per ore. L’ostruzionismo è, dunque, certamente una manifestazione di libertà
da parte dei rappresentanti della sovranità popolare, ma occorre tenere presente che l’uso estremo di tale
libertà potrebbe, sul piano del funzionamento dell’istituto parlamentare, portare addirittura
all’impossibilità di governare da parte delle maggioranze. In tal senso, è d’uopo sottolineare che la pratica
dell’ostruzionismo sarebbe, dunque, autenticamente legittima (solo) ove risulti un’ipotesi di estrema
ratio. Dovrebbe essere, quindi, utilizzata come rimedio da impegnarsi laddove non sia possibile, per chi
vi ricorre, ottenere gli stessi risultati per altre vie. E’ d’uopo, tuttavia, osservare come in un sistema
democratico-maggioritario, quale quello italiano, alla cui base vi è una logica essenzialmente bipolare, il
Governo risulta dotato di forti poteri di indirizzo politico, diventando una sorta di “comitato direttivo”
della maggioranza parlamentare, attraverso la quale realizza il suo programma politico. La maggioranza
sempre più insensibile alle istanze dell’opposizione in quanto espressione della volontà del Governo,
finisce con il chiudere ogni spazio di dialogo e confronto. Alla forza di opposizione non resta, dunque,
che fare ricorso sempre più consistente a strumenti di tipo ostruzionistico, dato il pressoché completo
disinteresse rispetto alle proprie istanze. Finalizza, quindi, la sua azione politica alla sostituzione della
maggioranza, facendosi portatrice di un indirizzo politico alternativo. Tale situazione ha finito con
l’acuire lo scontro tra maggioranza ed opposizione, spingendo quest’ultima a ricercare ed impiegare ogni
possibile strumento di contrasto avverso la politica del Governo ritenuta contraria agli interessi del Paese.
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sordo alle istanze espresse dall’opposizione, contratto o inesistente, nonché volto al
mero raggiungimento della quantità numerica che consente l’approvazione del
provvedimento19. Evidente lo svilimento del ruolo dialogico-garantista dei cittadini che
dovrebbe ricoprire l’opposizione parlamentare. E’ da rimarcare inoltre il sempre meno
pervasivo, per non dire inesistente, controllo della maggioranza sul Governo. La
compenetrazione tra Governo e maggioranza garantita dal sistema elettorale attualmente
vigente in Italia non permette, infatti, il naturale esplicarsi del suddetto controllo
garantista20. Da tali brevi note si evince, dunque, il forte declino che sta vivendo oggi la
funzione
rappresentativa
del
Parlamento
nazionale,
con
conseguente
ridimensionamento/annullamento delle garanzie di controllo della minoranza sulla
maggioranza e della maggioranza sul governo21.
In secondo luogo, deve porsi mente all’attività del Governo nel settore penale22.
Evidente è il preponderante ruolo assunto oggigiorno dall’esecutivo e ciò è dipeso, da
un lato, dal massiccio utilizzo di decreti legge e decreti legislativi, dall’altro, dal sempre
più diffuso rinvio a fonti secondarie. Per quanto concerne i decreti legge e i decreti
In questa prospettiva l’ostruzionismo si è trasformato da lotta politica attuata da ristrette minoranze in
opposizione extra o anti sistema, in strumento privilegiato dell’opposizione globalmente intesa. Nelle
recenti fasi storiche, dunque, il ruolo dell’opposizione parlamentare si è spesso ridotto ad un’automatica
ed aprioristica contestazione dell’attività della maggioranza, mediante tecniche ostruzionistiche attuate in
sede parlamentare e accese polemiche condotte sul piano mediatico. Il confronto politico tende, dunque,
ad essere “incomunicante” nelle sedi istituzionali ed a spostarsi sempre più al di fuori del Parlamento,
avvertito come luogo asfittico e sede infruttifera per portare avanti le proprie istanze politiche. Si
preferisce, dunque, ostruire con ogni mezzo l’attività del Governo-maggioranza in Parlamento e dare
battaglia in altre sedi incidendo così non tanto sul merito dei singoli provvedimenti ma sulle oscillazioni
dei consensi elettorali. Diffusamente sul punto v. I. PETARDI, Le pratiche ostruzionistiche nel Parlamento
maggioritario e L. CALIFANO, L’evoluzione bipolare della dialettica maggioranza-opposizione e la
necessità di recuperare la “rappresentatività” delle istituzioni parlamentari, in A. BARBERA - T.F.
GIUPPONI, La prassi degli organi costituzionali, Bologna, 2008, pp. 357 ss. e pp. 419 ss.
19
Cfr. R. BARTOLI, La totale irrazionalità di un divieto assoluto. Considerazioni a margine del divieto
di procreazione medicalmente assistita eterologa, cit., p. 91 s.; G. FIANDACA, Legalità penale e
democrazia, in Quaderni fiorentini, vol. 36, tomo II, Milano, 2007, pp. 1252 ss.; ID., Diritto penale, tipi
di morale e tipi di democrazia, in G. FIANDACA - G. FRANCOLINI (a cura di), Sulla legittimazione del
diritto penale, Torino, 2008, pp. 153 ss.;
20
Ciò è segnato dall’identità tra i leaders dei partiti di maggioranza e i membri dell’esecutivo.
L’ultima riforma della legge elettorale italiana – che come noto prevede liste di candidati bloccate e
precostituite dai partiti, con impossibilità per gli elettori di esprimere una preferenza nominativa – sembra
inoltre invertire i rapporti tra Parlamento e Governo. A ben vedere non spetterebbe più tanto al primo il
potere e il compito di esprimere il secondo, assegnandogli la fiducia, ma sono piuttosto i leaders di
partito, componenti del futuro Governo, a designare preventivamente nelle liste elettorali i membri della
propria maggioranza parlamentare, per cui è quest’ultima a risultare, nei fatti, espressione dell’esecutivo
in carica.
21
S. PAJNO, Considerazioni su principio democratico e principio della legalità, cit., pp. 482 ss.; L.
CALIFANO, L’evoluzione della dialettica maggioranza-opposizione e la necessità di recuperare la
“rappresentatività” delle istituzioni parlamentari, cit., pp. 357 ss.
22
Per un’analisi del concreto atteggiarsi nella prassi dei rapporti tra la legge e le fonti governative
(primarie e secondarie) v. F. PALAZZO, Riserva di legge e diritto penale moderno, in Studium iuris, 1996,
p. 277; ID., Introduzione ai principi del diritto penale, cit., p. 202.
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legislativi, seppure oggi pressoché pacificamente ammessi quali fonti di produzione del
diritto penale, si tratta pur sempre di fonti lontane dallo spirito della riserva di legge,
nonché logicamente incongrue e tendenzialmente poco coerenti con quelle che
dovrebbero essere le caratteristiche di un diritto penale razionale23. Il ricorso invece alle
23
In tal senso F. PALAZZO, voce Legge penale, cit., pp. 346 ss.; M. ROMANO, Commentario
sistematico la codice penale, I, cit., pp. 5 ss., C. CUPELLI, La legalità delegata. Spunti su riserva di legge
e delega legislativa nelle tendenze attuali del diritto penale, in Critica del diritto, 2004, pp. 111 ss.
Sempre più diffuso ed incisivo è, nella materia penale, il ricorso ad atti aventi forza di legge, quali i
decreti legge e decreti legislativi. I suddetti interventi normativi, si sono, peraltro, spinti fino
all’introduzione o modificazione di fattispecie di reato e di norme della parte generale del codice penale.
Al fine di delineare una tendenza del fenomeno, basti considerare che, nella materia penale, dall’anno
2000 al luglio 2010 sono stati posti in essere, tra leggi, decreti legge e decreti legislativi, 511
provvedimenti di cui 388 d.l e d.lgs. Quanto osservato starebbe dunque a dimostrare l’importante ruolo
quantitativo rappresentato dalle fonti diverse dalla legge ordinaria, l’unica, quest’ultima, veramente
rispondente allo ‘spirito’ del nullum crimen nulla poena sine lege. La rilevanza non risulta essere, poi,
solamente numerico-quantitativa ma anche qualitativa. In tal senso, basti pensare, infatti, come la materia
dei reati tributari, societari e finanziari sia stata introdotta con decreto legislativo. I “pacchetti sicurezza”
del 2008 e del 2009, il contrasto al terrorismo internazionale del 2005, le modifiche in materia di
attenuanti generiche, recidiva, giudizio di comparazione delle circostanze per i recidivi, usura,
prescrizione del 2005 (c.d. ex Cirielli), sono state, poi, anche queste riforme di centrale importanza nel
diritto penale, introdotte tutte non con legge ordinaria ma con decreto legge. La suddetta indagine pone
dunque in evidenza: da un lato, che anche in materia penale si è fatto un consistente utilizzo di fonti
diverse dalla legge ordinaria e ciò anche al fine di introdurre o modificare fattispecie di reato (già questo
un dato di per se stesso “allarmante”), dall’altro, che in taluni casi ci si è trovati in tensione con i
presupposti di cui agli artt. 76 e 77 della Costituzione. Quest’ultimo rilievo necessita, tuttavia, di
un’ulteriore approfondimento, seppur necessariamente esemplificativo per l’economia del presente
lavoro. Quanto ai decreti legge, i casi di “necessità ed urgenza” (art. 77 Cost.) sono spesso stati
identificati con l’esigenza di fornire un’immediata risposta “simbolica” al clamore suscitato – anche a
causa di un’eccessiva risonanza mediatica – da episodi cruenti di cronaca nera o dall’incidenza statistica
di certi reati di strada (particolarmente avvertiti dall’opinione pubblica, specie se commessi da immigrati),
fatti, tuttavia, per nulla dipendenti da situazioni contingenti e/o straordinarie. Sotto questo profilo,
nonostante l’importante “stretta” assestata dalla Corte costituzionale all’(ab)uso della decretazione
d’urgenza al di fuori dei casi straordinari di necessità ed urgenza con la sentenza n. 171/2007 e n.
128/2008, non si è riusciti ad arginare il varo, a ritmo incalzante anche negli anni ultimi anni, dei decreti
legge introduttivi dei c.d. “pacchetti sicurezza”. Il riferimento è qui al ben noto d.l. 23 maggio 2008, n.
92, conv. in legge 24 luglio 2008, n. 125. Il provvedimento in esame rappresenterebbe, infatti, un fulgido
esempio di quella (consolidata) tradizione che vede il Governo, più che il Parlamento, impegnato nel
fornire risposte complessive ed estemporanee a fenomeni che, pur nella loro obiettiva gravità, non
possono certamente qualificarsi come emergenziali. Garantire la sicurezza pubblica appare compito
istituzionale delle moderne democrazie, mentre la scelta della decretazione d’urgenza certificherebbe in
qualche modo il fallimento di una politica criminale stabile e di ampio respiro, alla prova dei fatti
incapace di affrontare in via ordinaria un compito “ordinario”. La scelta di affidare una materia di tale
rilevanza allo strumento del decreto-legge, non è opinabile solo per la dubbia ricorrenza dei presupposti
costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza, ma anche sotto il profilo del metodo parlamentare,
non si può tacere, infatti, il vero e proprio malcostume di apportare in sede di conversione in legge del
decreto consistenti modifiche ed integrazioni al testo originario, con intuibili difficoltà di ricostruzione
del sistema e di collocazione intertemporale del novum normativo (il riferimento è qui - seppure a titolo
esemplificativo - alle disposizioni penali del codice della strada contenute nell’art. 4 del d.l. 23 maggio
2008, n. 92, convertito con emendamenti dalla legge 24 luglio 2008, n. 125). Quanto, invece, ai decreti
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legislativi delegati, non solo sono – come messo in evidenza nelle statistiche in calce alla presente nota
riportate - sempre più utilizzati, anche in ambito penale, per l’introduzione di riforme di interi settori
penali (specie in ambito economico, basti pensare al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in materia di reati
tributari e al d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, in materia di reati societari), ma deve osservarsi anche come i
principi e i criteri direttivi che il Parlamento deve dettare nel momento in cui conferisce la delega (art. 76
Cost.), al fine di contenere la discrezionalità dell’esecutivo, si limitano, assai di frequente, a formule
vaghe ed interlocutorie, in definitiva poco idonee a circoscrivere tale discrezionalità. Esemplificativa, in
tal senso, è la vicenda normativa attuata dall’art. 9 della legge 205/1999, con cui si è delegato il Governo
alla riformulazione del diritto penale tributario. Ad un’attenta analisi del contenuto della suddetta delega
(art. 9, comma 2 lett. a) i criteri forniti al delegato risulterebbero piuttosto vaghi ed indeterminati:
«semplificazione del sistema repressivo penale nella logica della sua estrema ratio, offensività, natura
delittuosa dei nuovi illeciti, dolo specifico di evasione, esclusione del ricorso a circostanze aggravanti ad
effetto speciale». Appare, dunque, piuttosto evidente l’ampio margine di discrezionalità riservato al
Governo. In materia di circostanze è d’uopo, inoltre, osservare come la legge di delegazione abbia fornito
– come sopra evidenziato – una sola, chiara, indicazione di principio: il nuovo sistema penale non
avrebbe dovuto essere caratterizzato da circostanze aggravanti ad effetto speciale. Una simile presa di
posizione può trovare una spiegazione nell’esigenza di evitare che significativi contenuti di disvalore
nella condotta illecita - tanto significativi da indurre ad una modifica del quadro edittale della pena
massima in modo eccedente l’aumento sino ad un terzo o addirittura ad una sua integrale riscrittura potessero risultare confinati nell’incerto spazio esistenziale degli elementi accidentali del reato,
suscettibili, come noto, di scomparire nelle foschie del giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p., nel
concorso con circostanze di segno opposto. Carta bianca è invece riservata alla possibilità di introdurre
circostanze attenuanti (il legislatore ha, difatti, introdotto una circostanza attenuante particolarmente
significativa ed incisiva all’art. 13 d.lgs. : la c.d. attenuante del pagamento del debito tributario). Un
ulteriore caso emblematico in cui si ricorreva con una certa sistematicità (negli ultimi anni sembra essere,
infatti, parzialmente cambiata la tendenza) a deleghe vaghe ed indeterminate era quello della c.d. legge
Comunitaria (v. oltre paragrafo 2.1). Come noto, la legge Comunitaria a cadenza (teoricamente annuale)
concede delega al Governo per attuare nell’ordinamento interno le direttive dell’anno precedente,
stabilendo altresì criteri di massima per orientare nella scelta degli strumenti sanzionatori punitivi – penali
e amministrativi – qualora siano necessari per rafforzare la tutela della disciplina. Orbene, spesso si tratta
di delega necessariamente generale in quanto relativa a una grande quantità di direttive concernenti
materie tra loro anche molto eterogenee; così che altrettanto generali non possono non essere anche i
criteri di delega concernenti l’apparato sanzionatorio e la scelta del governo sull’an e sul quomodo del
ricorso alla sanzione criminale. Conseguentemente, nonostante il rispetto formale della riserva di legge
assicurato dall’uso del decreto delegato, è chiaro che lo spirito della riserva di legge in materia penale
viene un po’ tradito dalla ineluttabile genericità della delega. Al fine di riscontrare quanto appena
osservato, è sufficiente un’attenta lettura, ad esempio, dei seguenti articoli di legge: art. 2.1 legge 18
aprile 2005, n. 62 (legge Comunitaria 2004); art. 2.1 legge 25 gennaio 2006, n. 99 (legge Comunitaria
2005); art. 2.1 legge 6 febbraio 2007, n. 13 (legge Comunitaria 2006).
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13
fonti secondarie le quali, come noto, intervengono nel processo di definizione del
precetto, seppure necessarie (se non proprio indispensabili) in quei settori caratterizzati
da un elevato contenuto tecnologico-scientifico, in quanto riescono a contemperare le
opposte esigenze di mantenimento di una normazione sintetico-astratta e di un
dettagliato apporto tecnico-specificativo 24 , ove raggiungano dimensioni talmente
importanti sia qualitativamente che quantitativamente inducono nei fatti verso una
progressiva relativizzazione del principio di riserva di legge25. Tali fenomeni dunque
incidono fortemente sulla centralità del Parlamento nel processo di produzione
normativa penale, sostituendovi in definitiva il Governo26.
In terzo ed ultimo luogo, nella fase genetica di formazione delle leggi rilevano, quali
fattori di erosione della legalità, le ormai numerose distorsioni interne al procedimento
legislativo. La prassi legislativa si è infatti andata sempre più allontanando dal
L
D.l.
D.lgs.
attuazione su
impulso comunitario
2000
14
2
12
7
2001
18
8
12
3
2002
6
8
4
2
2003
17
13
12
10
2004
11
10
14
4
2005
10
12
14
7
2006
15
7
20
7
2007
8
4
25
18
2008
3
12
12
5
2009
13
6
8
6
07.2010
8
4
18
10
Tot
123
86
151
79
123
388
511
79
79
24
L’intervento di fonti secondarie per la maggior parte adottate dal potere esecutivo, risulta in tale
ottica necessaria per il raggiungimento di un equo compromesso tra riserva di legge e determinatezza R.
BARTOLI, Incriminazione e giustificazione: una diversa legalità, cit., pp. 597 ss.
25
V. MANES, L’eterointegrazione della fattispecie penale mediante fonti subordinate, tra riserva
“politica” e specificazione tecnica, in Riv. it. dir. proc pen., pp. 95 ss.; F. PALAZZO, Riserva di legge e
diritto penale moderno, cit., pp. 277 ss.; ID., Introduzione ai principi del diritto penale, cit. p. 233.
26
D. TEGA, Gli atti normativi primari del Governo nelle recenti tendenze, in A.A.V.V., La prassi degli
organi costituzionali, cit., pp. 135 ss.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
14
procedimento di formazione delle leggi disciplinato all’art. 70 e seguenti della
Costituzione, anche quando una norma penale è adottata con legge formale. In tale
ottica è d’uopo effettuare un seppur sintetico richiamo ai fenomeni del ricorso ai maxiemendamenti e dell’apposizione della questione di fiducia da parte del governo 27.
Entrambi i suddetti meccanismi procedimentali, sempre più diffusi nella prassi
legislativa odierna e spesso combinati anche tra loro 28 , finiscono infatti con il
27
Il maxi-emendamento rappresenta una forma estrema di esercizio del potere di emendamento e
consiste nella presentazione nel corso dell’esame in Assemblea di una proposta di modifica del testo del
provvedimento da approvare che ne altera radicalmente l’impianto normativo, venendo
contemporaneamente a incidere su più articoli della proposta. Tecnicamente, i maxi-emendamenti sono
strutturati come emendamenti interamente sostitutivi, formalmente riferiti a un unico articolo, ma di fatto
estesi all’intero testo in esame. Si tratta dunque di emendamenti composti da numerosi articoli o
comunque da un solo articolo ma con molti commi, che invece di introdurre delle piccole modificazioni e
precisazioni o piccole abrogazioni alle leggi (cosa che è la funzione propria e legittima
dell'emendamento) le modificano nel loro complesso o addirittura finiscono per renderle del tutto
inoperative. Per di più il maxi-emendamento viene il più delle volte proposto in deroga ai termini ordinari
per la presentazione degli emendamenti, con una cadenza temporale idonea a veicolare il voto della
maggioranza parlamentare su un testo unico predisposto dal Governo, successivamente inemendabile.
L’approvazione non vede alcun dibattito sui singoli commi del maxi-emendamento e avviene mediante
votazione ‘secca’ sull’intero testo normativo: risulta pertanto più una ratifica che un’approvazione da
parte del Parlamento. I maxi-emendamenti cagionano dunque una profonda alterazione delle regole
costituzionali che governano l’adozione dei testi legislativi e che sostanziano la garanzia democraticoprocedimentale. Più precisamente viene meno la trasparenza, la pubblicità e la partecipazione delle
minoranze. In dottrina v. E. GRIGLIO, I maxi-emendamenti del governo in parlamento, in Quad. cost.,
2005, p. 809 s.; G. PICCIRILLI, L’emendamento nel processo di decisione parlamentare, Roma, 2008, pp.
275 ss.; N. LUPO; Emendamenti, maxi-emendamenti e questione di fiducia nelle legislature del
maggioritario, in E. GIANFRANCO - N. LUPO (a cura di), Le regole del diritto parlamentare nella dialettica
tra maggioranza e opposizione, Roma, 2007, pp. 41 ss.; P. GARRO; Il maxi-emendamento, in
www.consiglio.regione.toscana.it; C. GRANDI; Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 33 s.
Quanto poi alla questione di fiducia è questa un istituto parlamentare riservato al Governo e disciplinato
dai regolamenti interni della Camera (art. 116) e del Senato (art. 161) che viene posto su una legge (o più
comunemente su un emendamento ad una legge), qualificando tale atto come fondamentale della propria
permanenza in carica. Nella pratica politica tale strumento viene usato dal Governo per compattare la
maggioranza parlamentare che lo sostiene o per evitare l’ostruzionismo dell’opposizione. Ponendo la
fiducia, tutti gli emendamenti decadono e la legge deve essere votata così come è stata presentata. Nel
caso in cui il Parlamento respinga la questione di fiducia posta dal Governo, quest’ultimo è considerato
privo della fiducia della Camera/Senato e pertanto è tenuto a rassegnare il mandato nelle mani del Capo
dello Stato. Va inoltre ricordato che tale istituto giuridico, compattando la maggioranza cerca di annullare
i c.d. franchi tiratori che si nascondono dietro il voto segreto. Di fatto nella prassi parlamentare si traduce
dunque in uno strumento a disposizione del Governo per costringere la sua maggioranza parlamentare a
sostenere le iniziative secondo l’impegno assunto in sede di approvazione della mozione di fiducia. A ben
vedere dunque l’utilizzo anche frequente nella prassi del suddetto strumento finisce per neutralizzare i
controlli garantisti di maggioranza e minoranza parlamentari. M. OLIVETTI, La questione di fiducia nel
sistema parlamentare italiano, Milano, 1996, pp. 1 ss.; N. LUPO, Emendamenti, maxi-emendamenti e
questione di fiducia, cit., pp. 104 ss.
28
In Parlamento è sempre più frequente il ricorso all’approvazione di maxi-emendamenti coperti dalla
questione di fiducia. Quest’ultima combinazione rappresenta a ben vedere un vero e proprio vulnus alla
qualità della normazione, consentendo al Governo di “blindare il voto” su un testo unitario non più
emendabile e di pervenire con certezza ed in tempi brevi all’approvazione. Fortemente compromesso, se
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non propriamente annullato, risulta ictu oculi il controllo sia dell’organo rappresentativo sull’operato del
Governo sia dell’opinione pubblica sull’attività del Parlamento dati i tempi contingentati di approvazione.
Le ‘torsioni’ al procedimento legislativo fin qui descritte, hanno trovano applicazione anche in materia
penale, dove dovrebbero, invece, farsi più saldi ed inflessibili i meccanismi garantisti disciplinati dalla
Costituzione. Caso emblematico in tal senso, è rappresentato dall’iter di approvazione della legge n. 94
del 15 luglio 2009 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009 (c.d. secondo pacchetto
sicurezza). Si tratta, come noto, di uno degli interventi normativi in materia penale più significativi degli
ultimi anni che è andato ad incidere in maniera profonda su numerosi istituti e disposizioni anche della
parte generale del codice penale. In particolare, si ricorda la controversa (anche se ritenuta
costituzionalmente legittima) introduzione del reato di «Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello
Stato» (art. 1 comma 16 ddl S. 733-B). Da un’attenta analisi dell’iter di approvazione della suddetta
legge, si evince chiaramente come il Governo abbia fatto ricorso allo strumento dei maxi-emendamenti
coperti dalla questione di fiducia, al fine di “blindare il voto” del Parlamento ed ottenerne l’approvazione
in tempi rapidi. Più nel dettaglio, è d’uopo osservare che il Governo Berlusconi aveva presentato e
trasmesso al Senato il ddl S. 733 recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica» in data 3 giugno
2008. Il Senato, in prima lettura, tra l’esame in Commissione e la discussione in Assemblea, vedeva la
presentazione di un numero complessivo di 25 ordini del giorno, 639 emendamenti, 2 questioni
pregiudiziali, 1 proposta stralcio ed 1 proposta di coordinamento: quasi i tre quarti dei suddetti atti su
iniziativa dell’opposizione. Il Senato giungeva, quindi, in data 5 febbraio 2009 all’approvazione della
proposta di legge il cui testo veniva trasmesso alla Camera dei Deputati. In quest’ultima sede, l’esame in
Commissione prima e la discussione in Assemblea poi, risultavano particolarmente articolate e dibattute.
Più precisamente, furono presentate ben 656 proposte emendative riferite al C. 2180 e al C. 2180-A. In
particolare, è d’uopo sottolineare che gli ultimi tre emendamenti proposti in Assemblea furono presentati
dal Governo ed erano, in realtà, dei maxi-emendamenti (consistenti rispettivamente in un solo articolo e
composti da complessivi 128 commi) fortemente incisivi sull’intero articolato approvato dalle
Commissioni. Per la votazione dei tre maxi-emendamenti fu posta, inoltre, la questione di fiducia.
Evidenti le conseguenze e gli esiti: caduta di tutti i precedenti emendamenti proposti e votati,
veicolazione della votazione su un unico testo unilateralmente predisposto dal Governo, che veniva,
essendo stato oggetto di questione di fiducia, “inevitabilmente” approvato in data 13 maggio 2009. Il testo
del disegno di legge sulla sicurezza dopo l’approvazione con modificazioni da parte della Camera dei
Deputati, veniva, dunque, trasmesso nuovamente al Senato. La Commissione e l’Assemblea
presentavano, con riferimento al ddl S. 733-B, 30 ordini del giorno, 279 emendamenti e 9 questioni di
fiducia. Tuttavia, anche in questo caso, l’attività di discussione e confronto Parlamentare veniva “ridotta
ai minimi termini”, avendo il Governo su ciascuno dei tre articoli del ddl 733-B posto nuovamente la
questione di fiducia. Si giungeva, dunque, alla definitiva approvazione in data 15 luglio 2009 di un testo
sostanzialmente unilateralmente predisposto dal Governo, sul quale l’attività di controllo della
maggioranza e dell’opposizione parlamentari era risultata pressochè assente.
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comprimere fino quasi ad annullare sia il controllo di maggioranza e minoranza
parlamentare, che quello dell’opinione pubblica sull’operato del Parlamento.
Per quanto attiene alla fase della vigenza delle norme e, quindi, alla loro dimensione
applicativo-interpretativa da parte del giudice, occorre verificare come la giurisprudenza
della Corte costituzionale e i giudici di merito concorrano anch’essi alla corrosione
dell’interconnessione tra la riserva di legge e l’istanza democratica che ne è alla base.
Al riguardo, vale innanzitutto la pena evidenziare che la giurisprudenza
costituzionale ha incrementato notevolmente anche in campo penale la pervasività del
controllo di costituzionalità attraverso il giudizio di ragionevolezza e l’utilizzo delle
sentenze manipolative, interpretative di rigetto e di inammissibilità interpretative. Il
giudice costituzionale ha, pertanto, esercitato una sempre maggiore ingerenza sulle
opzioni di incriminazione e sulla determinazione dei livelli sanzionatori29.
Iª lettura ddl S. 733 – Iª lettura ddl C. 2180 – IIª lettura ddl S. 733-B
Ordini del giorno
Commissio
ne
Assemblea
13
42
Tot. 55
Emendamenti
Commission
e
Assemblea
810
760
(3 maxiemendamen
ti)
Tot. 1574
Proposte stralcio
Commissio
ne
Assemblea
Proposte di
coordinamento
Commissio
ne
Assemblea
1
Tot. 1
1
Tot. 1
29
E’ da evidenziare come, nei sui rapporti con i giudici comuni la Corte stia consolidando un
orientamento in cui essa esercita i suoi poteri di interpretazione correttiva più che attraverso sentenze
interpretative di rigetto mediante addirittura sentenze di inammissibilità, nel presupposto che il giudice a
quo non abbia esercitato tutti i doverosi sforzi di interpretazione adeguatrice prima di sollevare la
questione. Il che, peraltro, non le impedisce talvolta di suggerire essa stessa la soluzione interpretativa
ritenuta conforme a Costituzione. Una posizione, dunque, da un lato di «disimpegno», ma dall’altro di
forte monito ai giudici per un loro fattivo impegno interpretativo di cui la Corte si spinge a tracciare le
linee costituzionalmente obbligate. Emblematiche di tale indirizzo risultano le ben note sentenze 14
giugno 2007, n. 192, su una complessa questione in tema di recidiva reiterata, e 24 luglio 2007, n. 322,
concernente l’irrilevanza del c.d. error aetatis nei reati sessuali). In dottrina, conformemente alle suddette
osservazioni v. F. PALAZZO, Il costituzionalismo penale italiano e le Corti penali europee, in P. CARETTI M. C. GRISOLIA (a cura di), Lo stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva
internazionale, Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, 2011, pp. 574 ss. E’ d’uopo analizzare la
pronuncia del 24 luglio 2007 nel dettaglio, al fine di comprendere più chiaramente, attraverso
l’esemplificazione, quanto appena rilevato. La Corte costituzionale, nella nota sentenza 322/2007, era
stata chiamata a sindacare la conformità della disposizione di cui all’art. 609-sexies c.p. agli artt. 3 e 27
della Costituzione. La norma codicistica sottoposta al vaglio costituzionale, che riproduce pressoché
letteralmente l’abrogato art. 539 c.p., dispone che il colpevole di determinati reati sessuali commessi ai
danni di un minore che non abbia compiuto ancora i quattordici anni di età «non può invocare, a propria
scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa». La Corte, pur ravvisando nella sostanza l’illegittimità
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costituzionale dell’interpretazione dell’art. 609-sexies c.p. nel senso in cui l’irrilevanza dell’error aetatis
dovesse ritenersi essere assoluta ed invincibile (interpretazione questa l’unica testualmente possibile) e
ciò a causa dell’inequivocabile contrasto con il principio di colpevolezza così come chiarito e precisato
dalla svolta giurisprudenziale impressa dalle sentenze n. 364 e 1085 del 1988, si pronunciava dichiarando
inammissibile la questione sollevata. Più precisamente, si osserva che la fattispecie sottoposta al vaglio
costituzionale incentra il proprio disvalore interamente nell’età inferiore ai quattordici anni, «facendo
scattare la presunzione iuris et de iure di incapacità della vittima a prestare un valido consenso agli atti
sessuali», è pertanto necessario (dopo le pronunce dell’88) che tale elemento della fattispecie sia collegato
all’agente da un nesso psicologico. Tale regola, che incarna il principio di colpevolezza, «non può essere
sacrificata dal legislatore ordinario in nome di una più efficace tutela di altri valori, ancorché essi pure di
rango costituzionale» nemmeno al fine di minimizzare l’effetto dissuasivo e di contrasto di condotte
illecite di consociati. I principi di garanzia in materia penale non sono, infatti, suscettibili di essere
compressi poiché strettamente collegati e funzionali alla libertà ed al valore della persona umana. Ciò
chiarito, la Consulta, ha tuttavia ritenuto inammissibile la questione sollevata dal giudice a quo per non
avere questi esperito il tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma: «il
giudice rimettente non si pone neppure il problema di esperire un’interpretazione secundum costitutionem
della disposizione denunciata: acclarando, in specie, se sia o meno possibile ritenere che l’ipotesi
dell’ignoranza inevitabile resti estranea alla regola dell’inescusabilità sancita dalla disposizione stessa».
In altre parole viene, cioè, rimproverato al giudice rimettente il mancato tentativo di interpretare la norma
impugnata alla luce dell’avvenuta ‘costituzionalizzazione’ del principio di «necessaria colpevolezza,
ragguagliato quantomeno al minimum dell’ignoranza o dell’errore inevitabile, incida esso sulla norma o
sugli elementi del fatto stesso, operazione ermeneutica doverosa per il giudicante». E’ d’uopo, tuttavia,
chiedersi se il giudicante avrebbe davvero potuto a cuor leggero formulare un’interpretazione
costituzionalmente orientata della norma alla luce della sentenza 364/1988 – così come la Corte gli
rimprovera di non aver fatto – a fronte di un dato letterale di segno opposto, di una giurisprudenza
conforme all’interpretazione del rimettente e di una dottrina che ha sottolineato la «cruda perentorietà»
del dettato normativo, con l’effetto di pervenire ad una vera e propria rottura della lettera dell’art. 609sexies c.p. la cui formulazione non lascerebbe adito ad interpretazioni diverse da quella che esclude ogni
rilevanza all’errore sull’età sia esso colpevole/inescusabile o incolpevole/scusabile. A ben vedere,
peraltro, anche con una scelta più «decisa», volta ad affrontare il merito della questione, la Corte non
avrebbe invaso il campo riservato alle scelte politiche riservate al legislatore, ma avrebbe semplicemente
riportato il contenuto della disciplina discrezionalmente forgiata dal legislatore a quel «livello minimo» di
compatibilità con il non derogabile principio di colpevolezza, in maniera peraltro del tutto analoga a
quanto già avvenuto con la sentenza n. 1085 del 1988. Sembra dunque che la scelta della dichiarazione di
inammissibilità, più che un ossequio alla discrezionalità del legislatore, sia stata piuttosto determinata
dalla volontà di rispettare rigorosamente la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e dunque in
genere il potere interpretativo della norma che spetta al giudice. La sentenza di inammissibilità della
Corte costituzionale, infatti, per sua natura formalmente non vincola in alcun modo i giudici, al contrario
delle cosiddette sentenze interpretative, sia di rigetto che di accoglimento. Occorre abituarsi a questa
scelta «umile», «di basso profilo» della Corte costituzionale, negli ultimi anni statisticamente sempre più
frequente, e considerare queste dichiarazioni di inammissibilità come le «nuove» sentenze interpretative,
tutte le volte in cui l'interpretazione offerta dal rimettente sia rigettata per motivi attinenti ad un contrasto
dell'interpretazione della norma impugnata con la Costituzione (Cfr. L. DELLI PRISCOLI - F. FIORENTIN,
L’ignoranza dell’età del minore nei reati sessuali e le «nuove» sentenze interpretative, in Giur cost.,
2008, pp. 472 ss.). Si tratta di una nuova tipologia di sentenza interpretativa, pronunciata a prescindere dal
fatto che l'interpretazione offerta dal rimettente corrisponda a quella del cosiddetto «diritto vivente» e
conserva un quid di entrambe le specie: di quelle di rigetto (che vengono normalmente emanate quando il
rimettente aderisce ad un'interpretazione diversa da quella consolidata o quando non vi sia un diritto
vivente), e di quelle di accoglimento (emanate a fronte di un'interpretazione della norma conforme al
diritto vivente), le quali dunque conseguentemente vedono entrambe restringersi il loro campo di azione.
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18
Infatti, quanto alla tipologia classica della sentenza interpretativa di rigetto (questo è il tipico dispositivo:
«la Corte costituzionale dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità
costituzionale dell'art. ...») essa svolge ormai solo un ruolo residuale (lo testimonia anche, negli ultimi
anni, la diminuzione in termini numerici di questa tipologia di sentenze), relegato alla dichiarazione di
non fondatezza di questioni riguardanti norme per le quali l'erroneità dell'interpretazione discende
semplicemente da un non corretto utilizzo dei canoni ermeneutici classici (interpretazione letterale,
logico-sistematica, etc.), senza che sia necessario richiamare un'interpretazione costituzionalmente
orientata. Trattandosi di interpretazioni errate per cattivo uso dei canoni interpretativi tradizionali, si
tratterà dunque, nella maggior parte dei casi, di interpretazioni minoritarie non seguite dalla maggior parte
della giurisprudenza. Quanto poi alle sentenze interpretative di accoglimento, deve anzitutto osservarsi
che l'adozione della pronunzia di inammissibilità, a fronte dell'alternativa costituita da una pronunzia
interpretativa, pur non assurgendo a dictum vincolante per l'interprete, indubbiamente rafforza la lettura
della disposizione censurata nel senso di armonizzarla con il principio di colpevolezza scritto nel «nuovo»
art. 5 c.p. La sentenza in esame offre infatti certamente più di un argomento per superare, già in via
interpretativa e nella sede di merito, i dubbi di costituzionalità espressi dal rimettente, consentendo
un'applicazione della norma denunciata che tenga conto della rilevanza scusante dell'errore sull'età
infraquattordicenne della vittima del reato sessuale. In altre parole, preso atto del dispositivo della
sentenza - di inammissibilità - la sentenza ha comunque un importante contenuto precettivo che la
giurisprudenza potrebbe sì formalmente ignorare, continuando a non dar spazio all'errore inevitabile, ma
che la esporrebbe a questo punto inevitabilmente, qualora la questione tornasse all'attenzione della Corte
costituzionale, ad una tradizionale sentenza interpretativa di accoglimento, che dichiarerebbe
l'incostituzionalità della norma nella parte in cui è suscettibile di essere interpretata nel senso che il reato
è integrato anche nel caso di ignoranza inevitabile sull'età del minore. Pertanto, è come se la Corte
costituzionale avesse inaugurato, attraverso l'ampio ricorso alle pronunce di inammissibilità per non avere
il rimettente tentato di esperire un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, una nuova
stagione di «galateo istituzionale» nei rapporti con i giudici (Cfr., G.P. DOLSO, Le interpretative di rigetto
tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in Giur. cost., 2004, pp. 3021 ss.; L. DELLI PRISCOLI - P.G.
DEMARCHI, L'eccezione di incostituzionalità: profili processuali, Bologna, 2008, pp. 200 ss.; L. DELLI
PRISCOLI - F. FIORENTIN, L’ignoranza dell’età del minore nei reati sessuali e le «nuove» sentenze
interpretative, cit., pp. 472 ss.), che si concretizza per la Corte costituzionale nel ridurre al minimo
indispensabile le sentenze interpretative, sostituite da quelle di inammissibilità e per la giurisprudenza
nell'attenersi a quanto affermato in motivazione da quest'ultime sentenze. La Cassazione, con la sent. 11
luglio 2007, n. 32235, ha offerto, proprio con riguardo alla sentenza in esame, un esempio evidente del
buon funzionamento di questo tipo di rapporti: in tale sentenza, infatti, si aderisce esplicitamente alla
motivazione della sentenza in commento pur riconoscendo trattarsi di sentenza di inammissibilità. Ha
infatti affermato tale sentenza che: «l'imputato non può allegare di ignorare un elemento della fattispecie
di reato qual è l'età della parte offesa, giacché è l'età che reca con sé tutto il disvalore della previsione del
fatto come reato. Tale inescusabilità però deve ora tenere conto della recente pronuncia dalla Corte
costituzionale (Corte cost., 24 luglio 2007, n. 322) che, nel dichiarare inammissibile la questione di
legittimità costituzionale di tale disposizione in riferimento all'art. 27 commi 1 e 3 Cost., rimarcando tra
l'altro che il giudice rimettente non si era posto il problema di verificare la praticabilità di una
interpretazione secundum constitutionem della disposizione denunciata, ha in particolare affermato che «il
principio di colpevolezza - quale delineato dalle sentt. nn. 364 e 1085 del 1988 di questa Corte - si pone
non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole
norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell'applicazione
delle disposizioni vigenti». Può allora ritenersi, in ragione proprio di un'interpretazione secundum
constitutionem dell'art. 609-sexies c.p., che la storica sent. n. 364 del 1988, che ha dichiarato illegittimo,
per violazione dell'art. 2 Cost., dell'art. 3 commi 1 e 2 Cost., dell'art. 25 comma 2 Cost., dell'art. 27
commi 1 e 3 Cost., l'art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge
penale l'ignoranza inevitabile, ha fissato il principio generale della soglia minima di imputabilità costituita
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Quanto alla giurisprudenza di merito è noto, invece, come questa dia ormai origine al
c.d. ‘diritto vivente’. L’attività interpretativa spesso conduce a delle vere e proprie
torsioni delle fattispecie incriminatrici tant’è che è diffusa oggi l’idea di una forte
creatività interpretativa dei giudici30.
In estrema sintesi, si può agevolmente constatare che l’attività creativa e
manipolativa della giurisprudenza del giudice comune e della Corte costituzionale
mettono in forte crisi le prerogative dell’organo rappresentativo nella definizione dei
contenuti delle norme penali.
dalla mancanza dell'«ignoranza inevitabile»; principio che è generalissimo, autoapplicativo, e che permea
tutto l'ordinamento delle fattispecie penali. Se l'ignoranza inevitabile scrimina nell'ipotesi estrema - quella
in cui l'ignoranza verte addirittura sull'esistenza del precetto penale (tale è il dispositivo della sent. n. 364
del 1988) - questa stessa ignoranza inevitabile, a maggior ragione, deve scriminare anche quando verta su
un singolo elemento della fattispecie. Il «vantaggio» della pronuncia di inammissibilità è, inoltre, al di là
di un maggior rispetto formale per il ruolo della Cassazione, quello di non vincolare definitivamente i
giudici al rispetto di una certa interpretazione della norma, consentendo anche delle modifiche
nell'interpretazione stessa, di pari passo con l'evolversi di una diversa sensibilità nei confronti delle norme
costituzionali (Cfr. in tal senso L. DELLI PRISCOLI - F. FIORENTIN, L’ignoranza dell’età del minore nei
reati sessuali e le «nuove» sentenze interpretative, cit., pp. 476 ss. La maggiore elasticità
nell'interpretazione rappresenta però anche il «difetto», non di poco conto, di questo nuovo corso delle
sentenze interpretative sotto le mentite spoglie dell'inammissibilità per non avere il rimettente esperito il
doveroso tentativo di dare alla norma un'interpretazione costituzionalmente orientata. Infatti, la possibilità
offerta ai giudici di distaccarsi da quanto affermato dalla Corte costituzionale intacca inevitabilmente la
certezza del diritto, e si pensi solo all'imbarazzo e alla difficoltà per i compilatori dei codici, indecisi
sull'opportunità o meno di riportare in nota agli articoli interessati le numerose sentenze di
inammissibilità della Corte costituzionale per omesso tentativo di esperire un'interpretazione
costituzionalmente orientata. Peraltro, in questa nuova prospettiva, non può comunque trascurarsi che la
rilevanza dell'ignorantia aetatis, per esplicare efficacia scusante deve raggiungere la soglia
dell'inevitabilità, di tal che il piano di indagine si sposta sulla fattispecie concreta, sull'individuazione,
cioè, dei casi in cui l'ignoranza o l'errore possono considerarsi «inevitabili». A questo fine certamente può
aiutare l'elaborazione giurisprudenziale citata, che ha ad esempio escluso la rilevanza a fini scusanti delle
dichiarazioni del soggetto minorenne, del suo «prorompente» aspetto fisico, nonché del suo
comportamento sessuale «spregiudicato» Cfr. L. DELLI PRISCOLI - F. FIORENTIN, L’ignoranza dell’età del
minore nei reati sessuali e le «nuove» sentenze interpretative, cit., pp. 472 ss.
30
Il rapporto tra legislatore, giudici e Corte costituzionale assume nell’odierno assetto statuale forma e
natura ‘triangolare’. Con la suddetta figura geometrica ci preme evidenziare come i tre attori si
inseriscano in un percorso unitario in cui tutti entrano in gioco e concorrono in vari momenti alla ricerca
ed individuazione della regola iuris costituzionalmente conforme applicabile al caso concreto. Tale
interazione deve risultare sempre equilibrata nel rispetto dei diversi ruoli costituzionali. Le suddette
considerazioni hanno avuto come riferimento principale: la relazione di P. GROSSI al convegno Giustizia
penale, Costituzione e diritti fondamentali, in ricordo di Giuliano Vassalli, tenutosi alla Corte Suprema di
Cassazione il 13 ottobre 2010 e la lectio magistralis dello stesso dal titolo “L’identità del giurista oggi”,
tenutasi presso l’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaia” di Firenze il 3 dicembre 2010;
la relazione di F. PALAZZO, al convegno Giustizia penale, Costituzione e diritti fondamentali, in ricordo di
Giuliano Vassalli, tenutosi alla Corte Suprema di Cassazione il 13 ottobre 2010; il dattiloscritto della
relazione di R. BARTOLI al seminario L’interpretazione delle norme tra legalità e Costituzione, tenutosi
all’Università di Ferrara il 30 aprile 2010; la relazione tenuta da G. LEO, al convegno Pericolosità e
giustizia penale, tenutosi all’Università di Udine il 25-26 marzo 2011.
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Decadimento della capacità rappresentativa del Parlamento, perdita di centralità di
tale organo e della fonte legislativa nel quadro della produzione normativa penale,
malfunzionamento dei controlli democratici che caratterizzano l’iter approvativo delle
leggi penali, interpretazione creativa o manipolativa della prassi giurisprudenziale del
giudice comune e del Giudice delle leggi, sono pertanto tutti fattori endogeni che
provocano inevitabilmente un deficit di democraticità che affligge il diritto penale di
oggi. Sul piano interno italiano la riserva di legge penale si è, dunque, piegata nei fatti a
mille compromessi lasciando spazi vieppiù ampi agli apporti dell’esecutivo e
svuotandosi con sempre maggiore frequenza del suo carattere democratico, financo nel
processo formativo della legge ordinaria.
Tuttavia, lo scadimento dei meccanismi di controllo democratico-procedimentali
connessi alla riserva di legge fanno spostare il baricentro garantista del principio nella
fase del controllo della Corte costituzionale, con conseguente inevitabile incremento del
suo ruolo politico31.
2.2. Le cause esogene di crisi prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona
I fattori esogeni di crisi, spesso combinati con i primi (endogeni) rischiano di
assestare un ulteriore colpo decisivo alla componente democratico-procedurale della
riserva di legge parlamentare32.
31
F. PALAZZO, Legalità penale, cit., p. 1292; R. BARTOLI, La totale irrazionalità di un divieto
assoluto, cit., p. 92 s. Entrambi gli autori sottolineano che la crisi della componente democraticoprocedurale del principio di riserva di legge comporta il conseguente incremento del ruolo “politico”
degli organi di garanzia, presso i quali – a dispetto della loro mancata legittimazione democratica e a
discapito dell’imparzialità della loro funzione di controllo – si tende a proseguire il dibattito.
32
Per un’analisi della crisi della riserva di legge parlamentare dovuta a cause esogene, v., fra tutti, A.
BERNARDI, «Riserva di legge» e fonti europee in materia penale, cit., p. 79 ss.; ID., Codificazione penale e
diritto comunitario. I- La modificazione del codice penale ad opera del diritto comunitario, Ferrara,
1996; ID., I tre volti del diritto penale comunitario, cit., pp. 333 ss.; ID., L’ammortizzazione delle sanzioni
in Europa: linee ricostruttive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 11 ss.; C. SOTIS, Il Trattato di Lisbona e
le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, pp. 1146 ss.; ID., Diritto comunitario e
giudice penale. Prima parte. Le coordinate essenziali, in Il corriere del merito, 2008, fasc. S2, pp. 7 ss.;
ID., Diritto comunitario e giudice penale. Premessa, in Il corriere del merito, 2008, fasc. S2, pp. 5 ss.; G.
GRASSO, Introduzione. Diritto penale e integrazione europea, in A.A.V.V., Lezioni di diritto penale
europeo, Milano, 2007, pp. 1 ss.; G. FORNASARI, Riserva di legge e fonti comunitarie. Spunti per una
riflessione, in D. FONDAROLI (a cura di), Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali,
Padova, 2008, pp. 17 ss.; S. MANACORDA, L’efficacia espansiva del diritto comunitario sul diritto penale
e fonti sopranazionali, in Il Foro it., 1995, IV, c. 55 ss.; V. PACILEO, Riflessi del diritto comunitario nel
diritto penale nazionale. Casi pratici e criteri interpretativi, in Diritto comunitario degli scambi
internazionali, 1999, pp. 639 ss.; S. SICURELLA; Diritto penale e competenze dell’Unione europea,
Milano, 2005; K TIEDEMANN, Diritto comunitario e diritto penale, in Riv. trim. dir., pen. econ., 1993, pp.
209 ss.; M. ROMANO, Complessità delle fonti e sistema penale. Leggi regionali, ordinamento comunitario,
Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 548, il quale parla di sistema penale
“sostanzialmente eteroguidato” ed esprime riserve circa il “salto qualitativo di enorme portata” operato
dalla Corte di giustizia con la sentenza ambiente, ritenendo che l’attribuzione della competenza ad
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A ben vedere, la sempre maggiore incidenza delle fonti internazionali e soprattutto
comunitarie e dell’Unione europea sul diritto penale statuale ancor prima dell’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona, aveva finito con il realizzare una forte compressione
della discrezionalità del legislatore nazionale nell’introduzione di nuove incriminazioni.
Per quanto qui interessa, è d’uopo osservare infatti come il legislatore comunitario
proprio attraverso l’uso di decisioni-quadro, direttive e regolamenti abbia già prima di
Lisbona contribuito in maniera più o meno incisiva all’individuazione di veri e propri
obblighi di incriminazione per il legislatore nazionale33.
Procedendo con ordine nella disamina dei suddetti atti normativi e della loro
incidenza sull’elaborazione delle fattispecie penali statuali, occorre prendere le mosse
dall’analisi delle decisioni-quadro. I provvedimenti de quibus erano, come noto, i
principali atti (assieme alle convenzioni) che potevano essere adottati nell’ambito del
terzo pilastro, l’unico che prima della sua abolizione ad opera del Trattato di Lisbona
interessava più da vicino il diritto penale, riguardando questo espressamente la
collaborazione intergovernativa in materia di “giustizia”. Le decisioni-quadro, volte al
ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, sono
vincolanti quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità
nazionali in merito alla forma e ai mezzi. La violazione degli obblighi in esse contenuti
- essendo atti del terzo pilastro e a differenza proprio delle direttive - non aveva peraltro
alcuna sanzionabilità. Nonostante tali forti carenze di efficacia cogente dovute a ragioni
di tipo strutturale, le decisioni-quadro hanno finito tuttavia spesso nella sostanza delle
cose con il sottrarre al legislatore nazionale la possibilità di esercitare discrezionalmente
il proprio potere di compiere le scelte sia di incriminazione che sanzionatorie34. Quanto
adottare direttive di armonizzazione penale avrebbe richiesto una previa, apposita ed esplicita modifica
dei trattati. Da ultimo, infine, C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 45 ss.
33
Cfr. fra tutti A. BERNARDI, Il ruolo del terzo pilastro Ue nella europeizzazione del diritto penale.
Un sintetico bilancio alla vigilia della riforma dei Trattati, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2007, pp.
1157 ss.; M. CONDINANZI, Fonti nel «terzo pilastro» dell’Unione europea e ruolo della Corte
costituzionale, in Il diritto penale dell’unione europea, 2007, pp. 513 ss.; A. TIZZANO, Brevi note sul
«terzo pilastro» del Trattato di Maastricht, in Il diritto dell’Unione europea, 1996, pp. 391 ss.; G.
TOSATO, Atti giuridici vincolanti e competenze della Corte comunitaria nell’ambito del “terzo pilastro”,
in L’Italia e la politica internazionale, Bologna, 2000, p. 331; M.L. TUFANO, La cooperazione giudiziaria
penale e gli sviluppi del «terzo pilastro» del Trattato sull’Unione europea, in Diritto pubblico comparato
ed europea, 2001, pp. 1029 ss.
34
Eloquenti in proposito si presentano senza dubbio le iniziative normative dell’Unione in materia di
terrorismo internazionale e di tratta di esseri umani e sfruttamento sessuale dei minori. La decisionequadro sulla lotta contro il terrorismo presenta peraltro profili di indubbio interesse ai fini di una indagine
sull’armonizzazione delle legislazioni nazionali ad opera degli strumenti di terzo pilastro, avendo essa
tentato per prima tra gli strumenti internazionali intervenuti in materia di dare una definizione comune di
«reato terroristico», con conseguente importante valenza armonizzatrice delle legislazioni penali nazionali
quanto alle condotte da sottoporre a pena, nonché quanto a certe modalità di criminalizzazione. Un
passaggio, questo, tanto più fondamentale laddove si consideri come tratti di condotte riconducibili nella
loro materialità a forme di criminalità comune (come nel caso di reati contro la vita o l’incolumità fisica o
la fabbricazione e l’utilizzazione di armi) ma che assumono il carattere di atto terroristico in ragione della
relativa idoneità ad arrecare un grave danno a un paese o ad una organizzazione internazionale e
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appena rilevato appare evidente alla luce di due diverse considerazioni. In primo luogo è
d’uopo osservare che nella prassi normativa italiana si sia finiti con il trasportare in
modo pressoché automatico nell’ordinamento interno il contenuto dispositivo delle
decisioni-quadro. Il legislatore nazionale viene così a ricoprire un ruolo meramente
formale e marginale dal momento che il fulcro delle valutazioni e scelte incriminatici
permane a livello sovrastatuale-europeo. Un secondo rilevante aspetto è individuabile
nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea ed in particolare nella ben nota
sentenza Pupino35. In tale occasione la Corte di giustizia ha infatti esteso l’obbligo del
giudice nazionale di interpretazione conforme del diritto penale interno anche ai
contenuti delle decisioni-quadro. Viene dunque conferito a tali atti normativi europei
una certa capacità penetrativa negli ordinamenti nazionali.
soprattutto per la finalità perseguita dall’agente, costituita dalla volontà di intimidire gravemente una
popolazione, di costringere indebitamente autorità pubbliche o organizzazioni internazionali a compiere o
a non compiere un determinato atto, o a destabilizzare gravemente le strutture fondamentali politiche,
costituzionali, economiche e sociali di un paese o di una organizzazione internazionale. Si tratta
evidentemente di un esito significativo in ragione dell’impatto che sui sistemi penali nazionali nel loro
complesso la qualificazione di un atto come reato terroristico ai sensi della decisione-quadro è idonea a
determinare, in termini non solo di maggiore severità della pena rispetto al corrispondente reato comune
(secondo le prescrizioni in materia della stessa decisione-quadro) ma anche in generale in termini di
regole processuali, derogatorie delle regole ordinarie, e soprattutto di disciplina delle indagini e delle
garanzie rilevanti in questa fase. Espressione della medesima dinamica reattiva possono altresì
considerarsi gli interventi normativi in materia di tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale dei
minori, laddove le terribili vicende dell’affare Dutroux hanno sollecitato l’Unione ad adottare, proprio su
iniziativa belga, il primo testo in materia, l’azione comune «relativa alla lotta contro la tratta di esseri
umani e lo sfruttamento sessuale dei minori». Strumento, questo successivamente sostituito, secondo una
linea di intervento più coerente e completa, da due decisioni-quadro relative, rispettivamente, alla lotta
contro la tratta degli esseri umani (in generale) e alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la
pornografia infantile, assunte nell’ambito di un approccio più globale ed estremamente significativo
adottato dall’Unione, in cui la questione della tratta di persone risulta strettamente correlata con la
questione più direttamente comunitaria della lotta all’immigrazione clandestina. A. BERNARDI, Il ruolo
del terzo pilastro Ue nella europeizzazione del diritto penale. Un sintetico bilancio alla vigilia della
riforma dei Trattati, cit., p. 1157; R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit.,
pp. 263 ss.
35
CGCE, 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino. Prima del suddetto intervento giurisprudenziale si
riteneva che l’obbligo di interpretazione conforme riguardasse la sola normativa comunitaria del primo
pilastro e non anche quindi le decisioni-quadro. In dottrina numerosi sono stati i commenti alla pronuncia
in esame, fra tutti v. F. SGUBBI - V. MANES (a cura di), L’interpretazione conforme al diritto comunitario
in materia penale, a cura di, Bologna, 2007; R. CALVANO, Il caso Pupino: ovvero dell’alterazione per via
giudiziaria dei rapporti tra diritto interno (processuale penale), diritto Ue e diritto comunitario, in
Giurisprudenza costituzionale, 2005, pp. 4027 ss.; V. BAZZOCCHI, Il caso Pupino e il principio di
interpretazione conforme delle decisioni-quadro, in Quad. cost., 2005, p. 884; M. MARGHEGIANI,
L’obbligo dell’interpretazione conforme alle decisioni quadro: considerazioni in margine alla sentenza
Pupino, in Il diritto dell’Unione europea, 2006, pp. 563 ss.; M. ZULEEG, Interpretazione
“com’unitariamente conforme” e creazione giurisprudenziale del diritto negli Stati membri, in R.
COLONNA - R. SCHULZE, -S. TROIANO (a cura di), L’interpretazione del diritto privato europeo e del
diritto armonizzato, Napoli, 2004, p. 142; E. PISTOIA, Cooperazione penale nei rapporti fra diritto
dell’unione europea e diritto statale, Napoli, 2008, pp. 147 ss.
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23
Quanto alle direttive che introducono obblighi di incriminazione per i Paesi membri
significativa è (anche) in questo campo l’evoluzione della giuirisprudenza della Corte di
giustizia europea, la quale, prima ancora dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona,
in due fondamentali pronunce - rispettivamente rese il 13 settembre 2005 ed il 23
ottobre 2007 - ha riconosciuto la facoltà da parte degli organi comunitari di imporre
obblighi di incriminazione36. Preliminarmente è d’uopo ricordare che la direttiva è un
atto vincolante nel senso che essa «vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto
riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali
in merito alla forma e ai mezzi» (cfr. art. 288 TFUE già art. 249 TCE). Di regola la
direttiva, per essere efficace nell’ordinamento interno, ha bisogno di un atto di recezione
– o di trasposizione – nella formazione del quale lo Stato gode di un certo margine di
discrezionalità per quanto riguarda l’allestimento dei “mezzi” per il raggiungimento
dell’“obiettivo” posto invece in modo vincolante a livello sovranazionale europeo.
Sennonché, la consolidata tendenza va nel senso di emanare direttive sempre più
dettagliate (c.d. self-executing), sovente corredate di indicazioni anche per quanto
riguarda la necessità di garantire un’adeguata tutela sanzionatoria, penale e/o
amministrativa, alla disciplina attuativa delle direttive stesse. Riprendendo dunque
l’analisi della giurisprudenza comunitaria, con la prima sentenza sopra menzionata del
settembre 2005 - sostanzialmente confermata dalla successiva pronuncia del 2007 - si
attribuisce al legislatore comunitario la potestà di armonizzazione penale mediante
direttive. Viene in altre parole riconosciuta una chiara competenza penale indiretta
dell’Unione, subordinandola tuttavia al principio di efficacia e al principio di necessità,
“principi il cui combinato operare si sostanzia nel principio di sussidiarietà, in forza del
quale in tanto può esercitarsi detta competenza europea o comunitaria, in quanto gli
obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati
membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti in questione, essere
realizzati meglio a livello comunitario”37. Alla luce dell’indirizzo della Grande Sezione
della Corte di giustizia europea appena evidenziato, appare evidente l’incisione che si
viene a realizzare sul principio di riserva di legge statuale. I parlamenti nazionali, a
fronte dell’introduzione di un obbligo di incriminazione mediante direttiva, finiscono
infatti con il limitarsi a veicolare nell’ordinamento interno la scelta effettuata
36
Esemplificativa in tal senso è la già ricordata recente direttiva 2008/99/CE, nella quale si è previsto
per gli Stati membri l’obbligo di adottare entro il 26 dicembre 2010 norme che sanzionano penalmente
una serie di attività dannose o pericolose per l’ambiente. In tal caso i vari Stati non hanno la possibilità di
scegliere che tipo di sanzione prevedere per i vari tipi di illecito tipizzati a grandi linee dal legislatore
comunitario, ma devono necessariamente apprestare una sanzione penale, ritenuta nell’ordinamento
sovranazionale l’unica adeguata per tutelare compiutamente gli interessi da esso perseguiti. E’ di tutta
evidenza che in presenza di tali atti normativi il legislatore interno abbia poco spazio creativo, non ha
libertà sull’an della sanzione, dovendo necessariamente rispondere alle indicazioni comunitarie per non
incorrere in eventuali giudizi di responsabilità per inadempimento di fronte alla Corte di giustizia. Per gli
opportuni riferimenti bibliografici in merito alla suddetta direttiva si rinvia alla nota n. 1 del presente
lavoro.
37
In tal senso vedasi T.E. EPIDENDIO, Diritto comunitario e diritto penale interno, Milano, 2007, p.
26.
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dall’organo sovranazionale. Il legislatore statuale non esplica, se non in maniera del
tutto marginale nonché residuale, alcun ruolo attivo di contributo alla costruzione della
fattispecie di reato, a maggior ragione se si considera la “spada di Damocle” della
procedura d’infrazione pendente sugli Stati membri nel caso di mancato o inadeguato
adempimento all’obbligo di attuazione delle direttive38. Quindi, seppure formalmente
risulterebbe rispettato il principio di riserva di legge – non avendo la direttiva un effetto
diretto all’interno degli ordinamenti dei Paesi membri e dovendoci infatti essere una
legge nazionale di trasposizione interna – esso nella sostanza appare tuttavia superato
venendo meno il più delle volte il controllo sulle scelte di penalizzazione da parte del
legislatore interno. Il ridimensionamento del ruolo del Parlamento nazionale nelle scelte
di incriminazione appare poi ancor più evidente nell’esperienza italiana di attuazione
interna delle direttive comunitarie. Come noto l’intera materia del recepimento interno
delle direttive è stata regolata in via generale prima dalla legge 9 marzo 1989, n. 86 ed
oggi dalla legge 4 febbraio 2005, n. 11, cercando di conciliare l’esigenza di assicurare il
necessario ruolo del Parlamento nazionale nella trasposizione con l’esigenza di
assicurare i tempi relativamente brevi per non incorrere in inadempienze nei confronti
dell’Unione. La legge n. 11/2005 prevede che ogni anno un’apposita “legge
comunitaria” provveda all’adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive europee
dell’anno precedente, specificamente individuate mediante apposito elenco. Tale
adeguamento, oltre che diretto da parte della stessa legge comunitaria, può essere
demandato al governo sia mediante delega legislativa (art. 9.1 lett. c) sia mediante
autorizzazione a provvedervi in via regolamentare (art. 11), entrambe contenute nella
legge comunitaria. Quest’ultima modalità è esclusa quando si tratti di materia coperta da
riserva assoluta di legge. Anche nel caso di adeguamento mediante regolamento, le
sanzioni penali e amministrative eventualmente richieste dalla direttiva europea possono
essere però introdotte esclusivamente con legge o con atto avente forza di legge (art.
11.6). Egualmente, nel caso di recepimento delle direttive da parte delle Regioni, a
seguito della modifica del Titolo V della Costituzione, le eventuali disposizioni penali
devono essere introdotte attraverso delega legislativa al Governo (art. 9 lett. g) 39 .
Dall’analisi delle disposizioni appena richiamate e soprattutto della prassi è facile
rilevare come il Parlamento abbia finito per infarcire la legge comunitaria di deleghe
legislative al Governo, per di più caratterizzate da principi e criteri direttivi vaghi e
generici (c.d. deleghe in bianco). Di conseguenza, nonostante le norme nazionali
attuative di fonti europee rappresentino ormai da anni quasi la metà della produzione
normativa statuale 40 , risulta del tutto esiguo l’apporto parlamentare nella loro
definizione: da un lato, infatti, i vincoli imposti dalle fonti europee riducono assai la
discrezionalità del legislatore interno; dall’altro lato quest’ultimo, attraverso deleghe
legislative poco stringenti, lascia al Governo l’esercizio della maggior parte del residuo
38
Cfr. C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp. 55 ss.
Cfr. F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, cit., p. 129.
40
Con una quota di norme penali destinata presumibilmente e con ogni probabilità a salire a seguito
dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
39
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25
spazio di discrezionalità41. Appare, dunque, ancora una volta ictu oculi evidente il forte
ridimensionamento del ruolo del Parlamento nazionale e della istanza garantista
democratico-procedurale di cui esso stesso è portatore.
L’ultimo strumento normativo europeo rimasto da analizzare nell’ottica di influenza
esercitata sugli ordinamenti penali nazionali è il regolamento. La tematica che ci
accingiamo ad affrontare è sicuramente, in particolar modo oggi dopo l’introduzione
dell’art. 86 TFUE ad opera del Trattato di Lisbona, uno dei nodi maggiormente
problematici. Per avere contezza della delicatezza del tema è sufficiente rendersi conto
che, ove le condotte vietate e le relative sanzioni siano entrambe definite direttamente
da un regolamento europeo, la discrezionalità del legislatore nazionale non risulterebbe
tanto “compressa” quanto piuttosto “esclusa in radice”. Il regolamento è infatti un atto
normativo dotato di portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente
applicabile in ciascuno degli Stati membri42. Ciò significa che il regolamento è idoneo a
far sorgere direttamente – senza bisogno di nessun’altra intermediazione o trasposizione
da parte degli Stati membri – diritti ed obblighi per le persone fisiche e giuridiche di
questi ultimi e che il giudice nazionale è dunque tenuto ad applicarlo come tale. Il
regolamento è dunque dotato della c.d. “efficacia diretta”. Prima di analizzare
puntualmente l’influenza che i regolamenti europei hanno esercitato ed esercitano sugli
41
In argomento v. fra tutti G. MORGANTE - P. SPAGNOLO, Le regole penalistiche della “legge
comunitaria 2009”, in Legisl. pen., 2010, pp. 387 ss. ed in particolare si segnalano i paragrafi 1 e 2; C.
GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 59; S. BARTOLE, Novità e problemi applicativi
del disegno di legge La Pergola per l’attuazione delle direttive comunitarie, in Foro it., 1988, IV, c. 494;
C. DE FIORES, Le trasformazioni della delega legislativa nell’epoca della globalizzazione, in A.A.V.V.,
Trasformazioni della funzione legislativa. Crisi della legge e sistema delle fonti, vol. II, Milano, 2000, pp.
157 ss.; M. CARTABIA, Il pluralismo istituzionale come forma della democrazia sopranazionale, in Pol.
dir., 1994, p. 218; C. HONORATI, La comunitarizzazione della tutela penale e il principio di legalità
nell’ordinamento comunitario, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 2006, pp. 980
ss.; F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, cit., p. 129; ID., Introduzione ai principi di diritto
penale, cit., p. 210; M. ROMANO; Complessità delle fonti e sistema penale, cit., p. 551; L. MAGI,
Attribuzione alla “nuova” Unione di poteri normativi in materia penale, cit., p. 1548. Un chiaro esempio
in tal senso è rappresentato dalla l. n. 96/2010 recante «Disposizioni per l’adempimento di obblighi
derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee» (id est la c.d. “legge comunitaria” per il
2009). Tra i numerosi provvedimenti comunitari (regolamenti, direttive e decisioni quadro) da attuare, i
quali spaziano dalla disciplina in materia di alimenti, di marchi e brevetti, di lavoro e tutela dei
consumatori a quella in tema di telecomunicazioni e nuove tecnologie, si segnalano quelli di interesse lato
sensu “penale” in quanto afferenti sia all’area del diritto penale sostanziale sia a quella del processo. In
particolare, per quanto attiene al primo settore si tratta delle disposizioni in materia di ambiente e
territorio, di lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti, di
rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del
soggiorno illegali e della fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle
sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti. I provvedimenti europei de quibus
appaiono nella loro formulazione particolarmente stringenti, nonché le deleghe attribuite al governo per le
suddette attuazioni risulterebbero, a ben vedere, ampie se non addirittura generiche. Conseguenze dirette
ineliminabili: significativa riduzione della discrezionalità del legislatore italiano ed attribuzione al
Governo del ruolo (seppur residuale) determinante.
42
Cfr. art. 288 TFUE.
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26
ordinamenti penali nazionali – rinviando peraltro l’analisi della disciplina introdotta
dall’art. 86 TFUE ad un secondo momento quando affronteremo le innovazioni
introdotte dal Trattato di Lisbona - è d’uopo effettuare due precisazioni preliminari.
Come noto, per la tutela dei beni giuridici europei l’ordinamento dell’Unione europea
(prima CE) è dotato di un autonomo sistema sanzionatorio a carattere interdittivo e/o
patrimoniale. Sussiste dunque la possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare atti
corredati di sanzioni sovrastatali nei diversi settori di competenza comunitaria, laddove
tali sanzioni si rivelino misure utili o necessarie in vista del raggiungimento degli
obiettivi prefissati dagli atti in questione. Tuttavia tale sistema sanzionatorio è oggi
pressoché pacificamente ritenuto avere natura esclusivamente amministrativa e non
anche penale43. Da ciò si evince che allo stato attuale l’Unione europea non possa
vantare una propria potestà punitiva di natura penale44. Nessun organo possiede infatti
una legittimazione ad emanare direttamente norme incriminatici, mancando un espresso
referente normativo a cui agganciare la suddetta legittimazione. Non sembra peraltro
che un argomento in senso contrario possa desumersi dall’art. 261 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (già art. 229 del Trattato CE) che, nella nuova
versione introdotta dal Trattato di Amsterdam e consolidata dopo il Trattato di Lisbona,
si limita a stabilire che i regolamenti comunitari possono prevedere “sanzioni” destinate
ad essere applicate dalla Corte di giustizia. Il generico riferimento alle “sanzioni” e
l’omessa menzione espressa della possibilità per gli organi comunitari di irrogare
“sanzioni penali” inducono quindi a ritenere che con la disposizione citata si sia inteso
semplicemente confermare la titolarità in capo agli organi comunitari della sola potestà
sanzionatoria amministrativa45. In secondo luogo va premesso che le fonti comunitarie
nella maggior parte dei casi non orientano in maniera rigorosa e dettagliata gli Stati
membri nelle scelte punitive, ma lasciano invece ampio margine alla loro
discrezionalità. Spesso si limitano infatti a imporre un generico obbligo di punire la
violazione delle norme europee con sanzioni adeguate, appropriate, proporzionate,
43
In argomento cfr., per tutti, A. BERNARDI, I tre volti del «diritto penale comunitario», cit., p. 343 s.;
C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 50; A.M. MAUGERI, Il regolamento n.
2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario. Parte I. La natura giuridica delle
sanzioni comunitarie, in Riv. it. dir. pen. econ., 1999, pp. 527 ss. e Parte II. I principi fondamentali delle
sanzioni comunitarie, ivi, pp. 929 ss.; ID., Il sistema sanzionatorio comunitario dopo la carta europea dei
diritti fondamentali, in A.A.V.V., Lezioni di diritto penale europeo, cit., pp. 99 ss.
44
Il che non significa però, come abbiamo già accennato e vedremo meglio nel proseguio, che
l’unione non abbia una “competenza” in materia penale.
45
L’art. 261 TFUE sancisce infatti che «i regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento
europeo e dal Consiglio in virtù delle disposizioni dei trattati possono attribuire alla Corte di giustizia
dell’Unione europea una competenza giurisdizionale anche in di merito per quanto riguarda le sanzioni
previste nei regolamenti stessi». Pertanto, onde fugare i dubbi sopra evidenziati ed in perfetta coerenza
con il dettato normativo del Trattato, si ribadisce che la tutela degli interessi comunitari da parte
dell’Unione europea viene perseguita attraverso l’irrogazione di sanzioni amministrative. Queste a)
possono avere carattere patrimoniale e/o interdittivo; b) la loro adozione è delegabile alle autorità dei
singoli Stai membri; c) soltanto in rari casi possono afferire settori tematici diversi da quelli
originariamente previsti (agricoltura, pesca).
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27
efficaci e dissuasive. Ciò premesso la dottrina ha messo tuttavia in evidenza ormai da
tempo l’influenza esplicata sugli ordinamenti nazionali penali da parte dei regolamenti
europei, con conseguente compressione della discrezionalità dei legislatori interni46. E’
stata infatti ancora una volta la giurisprudenza della Corte di giustizia che, facendo leva
sul principio di «fedeltà comunitaria», ha elaborato due sottoprincipi: quello di
assimilazione e quello di effettività-proporzione-dissuasività, entrambi capaci di
comprimere la discrezionalità del legislatore nazionale nelle scelte di penalizzazione47.
Più precisamente è d’uopo ricordare che l’art. 10 TCE esprimeva il principio secondo il
quale vi è un preciso obbligo da parte degli Stati membri di apprestare un’adeguata
tutela sanzionatoria della normativa europea: «gli Stati membri adottano tutte le misure
di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti
dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità». Sulla
base del disposto de quo, la Corte di giustizia ha quindi elaborato in primo luogo il
principio di assimilazione, in virtù del quale si impone agli Stati membri di utilizzare,
per le violazioni del diritto comunitario, sanzioni analoghe a quelle previste per le
violazioni del diritto interno simili per natura e gravità. Di conseguenza, lo Stato
membro ha un preciso obbligo di apprestare una tutela penale tutte le volte in cui, pur
mancando una precisa indicazione sanzionatoria nella fonte di diritto derivato, le
violazioni del diritto interno simili per natura e gravità siano assoggettate a sanzioni
siffatte. Diversamente con il principio di efficacia-proporzionalità la giurisprudenza
comunitaria ha affermato che le sanzioni devono essere effettive, adeguate alla gravità
del fatto ed avere capacità dissuasiva. Anche questo secondo principio fa dunque
sorgere un obbligo di punire penalmente la violazione del diritto comunitario in tutti i
casi in cui tuttavia le violazioni del diritto comunitario siano talmente gravi da escludere
che una sanzione non penale si riveli efficace. In tutte queste ipotesi dunque l’opzione
incriminatrice viene sostanzialmente imposta al legislatore interno, con conseguente
marginalizzazione del ruolo del Parlamento nazionale48. I sottoprincipi in esame, non si
46
Cfr. A. BERNARDI, Profili di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale agroalimentare, in
Annali dell’Università di Ferrara – Scienze giuridiche, vol. XI, Ferrara, 1997, p. 148 s.; ID.,
L’europeizzazione del diritto e della scienza penale, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno, II, 2002, pp. 488 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p.
51; R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., pp. 183 ss.
47
Cfr. Corte di giustizia, sent. 21 settembre 1989, causa 68/88 (Commissione c. Grecia). Molte altre
successive sentenze hanno ribadito tali sottoprincipi.
48
Cfr. R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., pp. 189 ss.; C. GRANDI,
Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 52. Quest’ultimo A. osserva inoltre che il legislatore
nazionale gode di margini di apprezzamento ridottissimi anche nella formulazione della fattispecie penale
posta a tutela della normativa comunitaria. A ben vedere infatti qualora il precetto penale comunitario cui
dare attuazione sia contenuto in un regolamento, il primato e la diretta applicabilità di tale fonte europea
sul diritto interno precludono sia la rielaborazione del precetto medesimo da parte del legislatore
nazionale nel quadro di un nuovo precetto di diritto interno, sia la sua fedele riproduzione in una norma
statuale. Entrambe queste due opzioni “nazionalizzatrici” comporterebbero infatti l’inaccettabile risultato
di sottrarre il precetto non solo all’interpretazione centralizzata della Corte di giustizia, ma anche alle
eventuali modifiche apportate dalla normativa comunitaria successiva, esponendolo invece a quelle
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limitano, dunque, a perseguire una rudimentale armonizzazione delle scelte
sanzionatorie nazionali attuative del diritto comunitario, ma, al contrario, finiscono con
il sancire, in taluni casi, veri e propri obblighi di incriminazione a carico degli Stati49.
attuabili dal legislatore interno. In sostanza quindi per sanzionarsi penalmente le violazioni dei precetti
contenuti nei regolamenti comunitari deve farsi ricorso alla “tecnica del rinvio” alla fonte precettiva
europea da parte di una norma interna di carattere meramente sanzionatorio. Questa tecnica di
formulazione della fattispecie, oltre a privare il legislatore del momento più nobile, desta non pochi dubbi
di compatibilità con il principio di legalità/riserva di legge nazionale. Più precisamente, occorre
sottolineare che le esigenze sottese al principio di riserva di legge possono ritenersi essenzialmente
soddisfatte solo nell’ipotesi di un rinvio «rigido» o «recettizio» ad una fonte regolamentare comunitaria
preesistente (cui viene di fatto demandata la definizione del contenuto del precetto). In tal caso infatti la
cristallizzazione nel testo legislativo interno del contenuto precettizio fornito dal regolamento comunitario
sancirebbe in certo qual modo, quand’anche si riscontri un rinvio ‘completo’ (che comporti cioè un rinvio
integrale alla fonte comunitaria), la consapevole (ed anzi perseguita) integrazione degli interessi delineati
nella normativa comunitaria con gli interessi tutelati dall’ordinamento nazionale (che provvede ad
apprestare la necessaria disciplina penale a tutela degli stessi). Di contro, evidenti profili di illegittimità
emergono con riguardo alle ipotesi di rinvio ad atti comunitari futuri, o di rinvii generici, o ancora di un
rinvio «elastico», destinato cioè a ricoprire automaticamente le modifiche della disciplina comunitaria di
rinvio. Si tratta infatti di ipotesi che attestano una totale estromissione del legislatore nazionale dalla
determinazione del contenuto di disvalore della fattispecie o che implicano, come nel caso di rinvio
elastico, la possibilità di una successiva trasformazione inconsapevole per il legislatore di un tale
contenuto di disvalore, con possibili incongruenze peraltro rispetto alla previsione sanzionatoria nazionale
inizialmente concepita sulla base del contenuto originario del regolamento comunitario; sanzioni, queste,
che denotano tutte una seppur parziale abdicazione del legislatore al monopolio nella formulazione delle
norme incriminatici che egli possiede in ossequio al principio di riserva di legge. Sulla tematica v. anche
A. BERNARDI, L’europeizzazione del diritto penale e della scienza penale, cit., pp. 476 ss.; ID., La difficile
integrazione tra diritto comunitario e diritto penale: il caso della disciplina agroalimentare, in Cass.
pen., 1996, p. 997; ID., Profili di incidenza del diritto comunitario sul diritto penale agroalimentare, cit.,
pp. 154 ss; C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale, cit., pp. 16 ss.; P. BERNASCONI, L’influenza del
diritto comunitario sulle tecniche di costruzione della fattispecie penale, in Indice penale, 1996, pp. 456
ss.; G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., p. 64 s. Deve peraltro rilevarsi come anche
l’opzione di un rinvio «recettizio» e «rigido» alla normativa comunitaria non risulti avulsa da profili
problematici sul piano più generalmente politico-criminale. Ciò in ragione non solo dell’evidente
inidoneità di una tale tecnica a rispondere adeguatamente alle esigenze di penalizzazione di settori tecnici
in continua evoluzione e caratterizzati dunque da un continuo susseguirsi di modifiche normative a livello
comunitario, ma soprattutto per la tendenza (ed i rischi) che il ricorso ad una tale tecnica normativa
comporta di una penalizzazione a tappeto e comunque di una situazione di ipertrofia penale (con
innumerevoli disposizioni penali peraltro fortemente specifiche e settoriali). Per tali profili problematici,
cfr. A. BERNARDI, Il processo di razionalizzazione del sistema sanzionatorio alimentare tra codice e leggi
speciali, cit., p. 75; ID., Entre la piramide et le réseau: les effets de l’europèanisation du droit sur le
système pénal, in Revue interdisciplinare d’études juridiques, 2004, pp. 19 ss. Per le critiche sotto il
profilo della non piena compatibilità tra il rinvio rigido ed il contenuto sostanziale della riserva di legge v.
G. FORNASARI, Riserva di legge e fonti comunitarie. Spunti per una riflessione, in D. FONDAROLI (a cura
di), Principi costituzionali in materia penale e fonti sopranazionali, Padova, 2008, pp. 23 ss.; C. SOTIS,
Diritto comunitario e giudice penale, in Il corriere del merito, Rassegne, 2008, n. 2, p. 17.
49
E’ d’uopo tuttavia osservare che la competenza penale europea sottesa ai principi e alle norme sopra
ricordate, costituivano una sorta di eccezione alla regola secondo la quale il diritto comunitario non può
imporre obblighi di incriminazione, senza contare che i suddetti riflessi non risultavano comunque
immediatamente percepibili ai governi dei Paesi membri, e dunque finivano col celare il proprio effetto
dirompente e, secondo taluni, lesivo della sovranità nazionale. V. in merito a tali riflessioni sent. 10 aprile
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
29
Tutto ciò premesso, torniamo ora alla crisi della legge e alla conseguente crisi della
legalità per dire che non tutti i contenuti della legalità penale subiscono gli stessi effetti
della crisi della legge. Fuori discussione è l’irrinunciabilità, anzi l’intangibilità, del
principio di irretroattività e di determinatezza: il loro carattere in qualche modo
universale li mette per così dire al riparo dal relativismo indotto dalla crisi della legge e
delle fonti. Quanto poi alla riserva di legge, si assiste ad un fenomeno singolare e
complesso. Indubbiamente, per le ragioni già dette, la riserva è il principio
maggiormente esposto alle conseguenze del processo di svalutazione della legge dovuto
a fattori interni-nazionali ed esterni-comunitari. Ma, come è stato notato50, proprio
l’esperienza italiana delle ultime legislature ha mostrato come la riserva di legge abbia
ancora, nonostante tutto, un importante ruolo garantista da svolgere. Di fronte al rischio
di una dittatura della maggioranza politica incline a stravolgere coerenza, razionalità e
giustizia del sistema penale, solo la pubblicità della sede parlamentare imposta dalla
riserva di legge ha potuto garantire di contenere i guasti che altrimenti avrebbe prodotto
una volontà politica esorbitante. Indubbiamente, tanto l’esperienza politica appena
trascorsa ed attuale quanto la sempre maggiore influenzata esercitata dalle fonti
normative europee sull’ordinamento giuridico penale interno, comportano un certo
spostamento dell’asse garantista della riserva, che in effetti sembra inclinare più verso i
rimedi della pubblicità e della impugnabilità della legge dinanzi alla Corte
costituzionale piuttosto che verso la idoneità dell’organo parlamentare ad assicurare
contenuti normativi coerenti con i caratteri del sistema penale e dotati di quella
«sostanziale» base di legittimazione democratica che solo un’ampia e costruttiva
dialettica fra tutte le forze politiche può garantire. Ma questo non è che la conferma di
un certo relativismo della riserva di legge. La quale, appunto, esibisce una fisionomia
garantista mutevole in quanto sensibile ai condizionamenti derivanti dall’assetto sociopolitico nazionale e sovranazionale ancor prima che costituzionale degli organi della
produzione giuridica51.
3. All’indomani di Lisbona: il principio di legalità penale nell’ordinamento europeo
Una volta, dunque, analizzato come la riserva di legge nazionale risulti corrosa nel
suo fondamento democratico da cause tanto endogene quanto esogene, è necessario
tuttavia, al fine di completare l’analisi, verificare se e come la ratio garantista sottesa al
principio di riserva di legge parlamentare possa dirsi adeguatamente salvaguardata
2003, causa C-40/02, (Scherndl), punto 64; in dottrina cfr. per tutti A. BERNARDI, All’indomani di
Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, in Quaderni costituzionali, 2009, p. 48 ss.
50
E. DOLCINI, Il carattere generale e astratto della legge e la riserva di legge in materia penale:
principi-cardine dell’ordinamento o polverose reminiscenze del passato?, in G. COCCO (a cura di),
Interpretazione e precedente giudiziale in diritto penale, Padova, 2005, pp. 61 ss.
51
Per tutti v. F. PALAZZO, Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico,
interpretazione e conoscibilità della regula iuris, cit., p. 50 s.; ID., Legalità penale, cit., pp. 1292 ss.; ID.,
Riserva di legge e diritto penale moderno, cit., pp. 277 ss.; ID.; Sistema delle fonti e legalità penale, in
Cass. pen., 2005, p. 278.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
30
anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, attraverso meccanismi di tutela
equivalente. E’ evidente, infatti, che ove l’esito della suddetta indagine conducesse ad
una risposta completamente positiva si dovrebbe aprire – seppur sempre negli ambiti ad
essa attribuiti - alla piena competenza penale europea52.
A tal fine, occorre innanzitutto spogliarsi di quelle impostazioni dogmatiche che
ritengono la riserva di legge parlamentare un principio del tutto intangibile, con
conseguente completa esclusione del riconoscimento di una vera e propria competenza
penale in capo all’Unione europea. I sostenitori dell’indirizzo dottrinale de quo negano,
infatti, in radice la suddetta facoltà sulla base di due principali argomentazioni. In primo
luogo, si afferma che riconoscere la possibilità da parte delle istituzioni comunitarie di
adottare atti normativi di rilevanza penale (anche solo indiretta) contrasterebbe con il
principio di sovranità nazionale. Si evidenzia, infatti, in tal senso che le prerogative
penali sono un riflesso diretto ed immediato della sovranità statuale e, in quanto tali,
inalienabili. In secondo luogo, si osserva inoltre che il suddetto riconoscimento
comporterebbe un’evidente violazione del principio di legalità in materia penale e ciò a
causa del deficit democratico comunitario. Il legislatore nazionale nella più rosea delle
ipotesi finirebbe, infatti, con il divenire un mero esecutore formale delle scelte di
penalizzazione compiute interamente ed esclusivamente da organi sovranazionali,
rispetto ai quali si pongono non pochi dubbi di legittimazione democraticorappresentativa. Più precisamente, si osserva che il meccanismo decisionale europeo, ed
in genere gli equilibri istituzionali europei che vedono quale istanza determinante
l’organo rappresentativo degli Stati, cioè il Consiglio, attribuirebbero al sistema una
connotazione incompatibile con l’esercizio democratico dello ius puniendi53. A ben
52
Si dovrebbe cioè giungere al riconoscimento di un “potestà punitiva” penale propria dell’Unione
europea. Questa avrebbe dunque la facoltà di emanare precetti penalmente sanzionati direttamente
obbligatori per i cittadini dell’Unione: potestà questa che per comodità espositiva chiameremo nel
proseguio competenza penale diretta proprio per porla meglio in contrapposizione con quella indiretta.
53
Seppur con accenti diversi nella dottrina penalistica italiana, critiche riguardo alla debolezza del
sistema decisionale ed istituzionale europeo rispetto alle esigenze garantistiche sottese al principio di
riserva di legge sono state formulate da numerosi autori. La complessità dell’organizzazione istituzionale
ed in genere dell’ordinamento giuridico europeo si accompagnerebbe in effetti ad un’opacità
dell’esercizio complessivo della relativa funzione normativa, in vari casi ancora affidata ad atti
promananti essenzialmente dall’esecutivo europeo e sottratti ad un adeguato intervento parlamentare, e
più in generale ad una sufficiente partecipazione democratica. Quanto osservato viene ritenuto in linea di
massima ancora valido nonostante la graduale democratizzazione dell’ordinamento sovranazionale,
attuata attraverso il significativo ridimensionamento dei poteri decisionali del Consiglio nell’ambito della
procedura di codecisione (che oggi dopo Lisbona prende il nome di “procedura legislativa ordinaria”) a
favore dell’istanza rappresentativa dei popoli europei. In dottrina oltre ai richiami bibliografici di cui alla
nota n. 4 del presente lavoro a cui pertanto si rinvia, v. F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 130;
G. MARINUCCI, Relazione di sintesi e R. RIZ, Unificazione europea e presidi penalistici, in A.A.V.V., La
giustizia penale italiana nella prospettiva internazionale, Milano, 2000, pp. 201 ss. e 87 ss.; S. MOCCIA,
L’involuzione del diritto penale in materia economica e le fattispecie incriminatici del Corpus iuris, in N.
BARTONE (a cura di), Diritto penale europeo. Spazio giuridico e rete giudiziaria, Padova, 2001, pp. 54
ss.; G. INSOLERA, Democrazia ragione e prevaricazione. Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo
riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri, Milano, 2003, pp. 59 ss.; contra v. A. BERNARDI,
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31
vedere, la suddetta impostazione finirebbe, tuttavia, con il risultare erronea in quanto
pretende di leggere il fenomeno comunitario attraverso le “lenti deformanti degli schemi
nazionali” 54 . Più precisamente, l’impostazione de qua finirebbe con il valutare la
legalità europea alla luce del principio di riserva di legge parlamentare, trasportando
così automaticamente su scala europea un meccanismo tipicamente nazionale. Tale
operazione risulterebbe, tuttavia, inappropriata e manchevole sotto le seguenti tre
prospettive55 . In una prima prospettiva, di carattere giuridico-istituzionale legata al
principio di separazione dei poteri, va innanzitutto segnalato come il nullum crimen
nulla poena sine lege sia un principio fortemente ancorato, come sottolineato anche in
precedenza, all’idea ereditata da Montesquieu della tripartizione dei poteri.
Diversamente, le istituzioni comunitarie esercitano allo stesso tempo funzioni di
carattere amministrativo e legislativo, essendo inoltre ben noto come la Corte di
giustizia svolga un ruolo non solo giurisdizionale ma quasi normativo, spesso
sopperendo così - come è avvenuto soprattutto in una prima fase di sviluppo della
Comunità - alle difficoltà di funzionamento dei procedimenti decisionali delle istituzioni
politiche56. Nell’ordinamento comunitario, infatti, i poteri delle istituzioni non sono
definiti ed attribuiti secondo una demarcazione netta tra esecutivo, legislativo e
giudiziario. La legalità europea, sotto il profilo interno al sistema, non si esplica,
dunque, attraverso il principio di separazione dei poteri, ma per mezzo del principio
dell’“equilibrio istituzionale”, che tende a regolamentare l’esercizio, da parte delle
istituzioni politiche, delle rispettive competenze salvaguardando il ruolo che a ciascuna
di esse è affidato nel sistema nel suo complesso57. Sotto questo profilo la legalità
comunitaria coincide, quindi, con la salvaguardia delle prerogative di ciascuna
istituzione, in quanto l’assetto configurato dal Trattato richiede una «composizione» dei
diversi interessi dei quali tali istituzioni sono portatrici. Il principio dell’equilibrio
Prefazione, in C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. XV; ID., All’indomani di
Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit., p. 48 ss.; M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni
della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale
dell’Unione europea, in S. VINCIGUERRA - F. DASSANO (a cura di), Scritti in memoria di Giuliano Marini,
Napoli, 2010, pp. 661 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 83.
54
Espressione questa felicemente usata da Iadiccio, cfr. M. P. IADICCIO, La riserva di legge nelle
dinamiche di trasformazione dell’ordinamento interno e comunitario, cit., pp. 21 ss.;
55
Per una approfondita analisi della questione v. C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale
europea, cit., p. 74 ss.
56
Sul ruolo «normativo» esercitato dalla Corte di giustizia, cfr. P. MENGOZZI, La “rule of law” e il
diritto comunitario di formazione giurisprudenziale, in Riv. dir. eur., 1992, pp. 511 ss.
57
Cfr. A. ADINOLFI, Il principio di legalità nel diritto comunitario, in Diritto comunitario e degli
scambi internazionali, 2008, p. 9 s. E’ d’uopo inoltre osservare che la stessa Corte di giustizia europea
con la sentenza 22 maggio 1990 in causa n. 70/88, Parlamento europeo c. Consiglio, abbia riconosciuto
che il Trattato ha delineato «un sistema di ripartizione delle competenze tra le varie istituzioni della
Comunità, secondo il quale ciascuna svolge una propria specifica funzione nella struttura istituzionale
della Comunità e nella realizzazione dei compiti affidatile». Appare, dunque, piuttosto chiaramente come
nella definizione delle competenze non rilevi la natura del potere esercitato, ma la ripartizione di ciascun
potere tra le varie istituzioni che è delineata dal Trattato.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
32
istituzionale comporta in definitiva – come la Corte ha affermato - che «ogni istituzione
eserciti le proprie competenze nel rispetto di quelle delle altre istituzioni»58. In una
seconda prospettiva, di carattere logico-prasseologico, parrebbe, inoltre, contraddittorio
utilizzare, al fine di misurare il rispetto della legalità penale in ambito europeo, un
corollario (id est la riserva di legge) che, oltre ad essere calibrato sulle realtà statuali,
spesso non viene rispettato neppure in queste ultime. Infine, secondo una terza
prospettiva pratico-realista, sarebbe proprio la realtà fattuale ad indicare l’esistenza di
una competenza penale europea. Le direttive di armonizzazione penale rappresentano,
infatti, una realtà innegabile ed in continua espansione, riconosciuta oggi - dopo
Lisbona - anche dall’attuale assetto delle fonti (art. 83 TFUE). Neppure mancano, per lo
meno secondo alcune opinioni, gli spazi per il futuro esercizio di una competenza
penale diretta mediante lo strumento regolamentare, sia pure limitatamente al settore
degli interessi finanziari dell’Unione (art. 86 TFUE).
Superata, pertanto, l’impostazione critica da cui abbiamo preso le mosse, per le
diverse ragioni sopra ripercorse, è d’uopo spostare il campo dell’indagine sulla
dimensione teorica e pratica della legalità europea e verificare se l’istanza garantista alla
base del principio di riserva di legge parlamentare possa dirsi adeguatamente tutelata a
livello europeo, attraverso meccanismi di tutela equivalenti.
Un attento studio della legalità penale europea, non può che rilevare la tradizionale
assenza nei Trattati istitutivi di un suo esplicito riconoscimento: univoco punto di
riferimento dal quale gli sviluppi interpretativi avrebbero potuto prendere le mosse. E’
d’uopo, tuttavia, osservare che l’originaria natura meramente economica dei testi in
questione, i perduranti dubbi in merito ad una qualsivoglia competenza penale
comunitaria e comunque l’assenza di atti normativi «di primo pilastro» a carattere
esplicitamente penale, avessero attenuato il rimpianto per la mancanza nei Trattati del
suddetto principio. L’impossibilità, poi, di individuare un comune denominatore
europeo in ordine ai corollari del principio di legalità contrassegnati da una marcata
variabilità in chiave storico-politica, non avrebbe comunque reso agevole la
formulazione di quest’ultimi in un testo scritto «europeo», come tale inevitabilmente
soggetto a influenze e vincoli di matrice comparatistica59. Se quanto fin qui osservato è
vero, tuttavia, ad un certo punto, con il progredire della costruzione europea, si è
avvertita la necessità di dare vita ad un testo scritto contenente un catalogo generale di
principi e diritti e di collocare al suo interno il principio di legalità penale. Il riferimento
è, come noto, all’art. 49.1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;
tuttavia, come altrettanto noto, tale Carta risultava priva di effettivo valore giuridico,
non essendo stata inserita nei Trattati. Ecco, dunque, che un ruolo determinante era stato
ricoperto dalla Corte di giustizia europea, la quale aveva riconosciuto e dichiarato
l’esistenza del principio di legalità penale nell’ordinamento europeo in via ermeneutica,
quale principio di diritto non scritto ricavabile dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (cfr. art. 7 CEDU) e
58
59
Sentenza 22 maggio 1990 in causa n. 70/88, Parlamento europeo c. Consiglio.
Sul punto v. più diffusamente oltre, nello stesso paragrafo.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
33
risultante dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri 60 . Si può, dunque,
ragionevolmente sostenere che la Corte di giustizia ha sempre ritenuto come facente
parte, seppur implicitamente, del diritto europeo primario il principio di legalità in
materia penale. Parallelamente, appare chiaro che al rispetto di tale principio di legalità
europea dovrebbe risultare tenuta, non solo ogni eventuale fonte europea in materia
penale, ma anche ogni fonte nazionale deputata a dare attuazione penale a norme di
diritto europeo.
La mancanza di un riferimento esplicito e vincolante al principio di legalità nei
Trattati, con l’entrata in vigore il 1° dicembre 2009 del Trattato di Lisbona, è stata,
seppur indirettamente, colmata dal nuovo art. 6 TUE. L’articolo de quo, al primo
paragrafo, riconosce, infatti, alla Carta di Nizza «lo stesso valore giuridico dei trattati»
e, dunque, anche al principio di legalità dei reati e delle pene come sancito dal sopra
menzionato art. 49.1, ai sensi del quale: «nessuno può essere condannato per un’azione
od un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo
il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena
più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se,
successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena
più lieve, occorre applicare quest’ultima». L’art. 6 TUE, nei suoi due successivi
paragrafi, rende, inoltre, ancor più visibile ed espressa la soggezione delle fonti europee
al principio di legalità penale. Più precisamente, il disposto di cui all’art. 6.2 TUE, nel
sancire l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo61, richiama indirettamente, riconoscendone così l’importanza e la centralità
anche in ambito europeo, l’art. 7.1 della Convenzione, ai sensi del quale: «nessuno può
essere condannato per una azione o una omissione che al momento in cui fu commessa
non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non
può del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al
momento in cui il reato è stato commesso». Norma, infine, di chiusura del cerchio è
l’art. 6.3 TUE, il quale, annoverando tutti i diritti fondamentali garantiti dalla
Convenzione EDU e desumibili dalle tradizioni costituzionali comuni, tra i principi
generali del diritto dell’Unione, rende proprio dell’Unione quel patrimonio di principi
costituzionali tra cui vi è anche il principio di legalità penale. L’espressa riconduzione
della legalità penale nel quadro del diritto europeo primario mediante la valorizzazione
60
L’arricchimento del diritto comunitario primario attraverso i principi generali di diritto non scritto
(detti anche principi impliciti o inespressi) si è avuto grazie all’attività pretoria della Corte di giustizia
fondata sugli artt. 220, 230, e 288 Tr.CE., i quali sembrano autorizzare il ricorso ai principi generali di
diritto per colmare le lacune dell’ordinamento comunitario. Cfr. B. NASCIMBENE, C. SANNA, Commento
all’art. 6 TUE, in A. TIZZANO (a cura di), Trattati dell’unione europea e della Comunità europea,
Milano, 2004, pp. 49 ss.; F. CAPOTORTI, Il diritto comunitario non scritto, in Dir. com. scambi intern.,
1983, pp. 411 ss.; A. ADINOLFI, I principi generali nella giurisprudenza comunitaria e la loro influenza
sugli ordinamenti degli Stati membri, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1994, pp. 553 ss.; G. GAJA, Aspetti
problematici della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, in Riv. dir. intern., 1988,
pp. 579 ss.; G. GRASSO, La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario e i suoi
riflessi sui sistemi penali degli Stati membri, in Riv. int. dir. uomo, 1991, pp. 617 ss.
61
Adesione questa ad oggi non ancora formalmente compiuta ai sensi del Protocollo n. 8.
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34
giuridica della Carta europea dei diritti e l’adesione alla Convenzione EDU non ha però
sottratto d’importanza al previo sforzo ermeneutico, compiuto in prima battuta dalla
Corte di giustizia, volto alla definizione dei suoi contenuti. Tale sforzo risulta, anzi,
vieppiù avvalorato, giacché la “costituzionalizzazione” del principio stesso non è stata
accompagnata da una compiuta specificazione normativa delle sue concrete
articolazioni, la cui ricostruzione resta, dunque, in larga parte affidata proprio alla
precedente elaborazione pretoria62. Riconosciuta, dunque, la sussistenza, prima quale
principio meramente implicito, ora anche normativamente espresso, della legalità penale
europea, il problema diviene quello di mettere a fuoco la sua concreta articolazione
contenutistica.
A tal fine, date le suddette premesse e la pluralità di fonti che ne danno
riconoscimento, è opportuno analizzare il contenuto del principio di legalità penale
europea così come delineato: nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali e nell’accezione a questo data dalla giurisprudenza della Corte
EDU; nelle tradizioni costituzionali degli Stati membri; nella giurisprudenza della Corte
di giustizia europea63.
Quanto all’analisi contenutistica del principio di legalità penale alla luce della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come noto, l’art. 7.1, nell’affrontare
esplicitamente il problema della retroattività della legge penale, sancisce che i cittadini
dei Paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto che
non è stato previamente previsto come reato dal diritto vigente, ovvero non possono
essere assoggettati a pene più gravi di quelle che erano applicabili al momento in cui il
reato è stato commesso64. La disposizione de qua è stata oggetto di una significativa
attività di implementazione da parte della Corte di Strasburgo. Più precisamente, infatti,
attraverso complessi processi ermeneutici, impossibili da ripercorrere in questa sede, si
è interpretato il principio di legalità di cui all’art. 7.1 CEDU in modo tale da valorizzare
e diversificare gli aspetti «qualitativo-sostanziali» della legge penale, concernenti in
generale i requisiti di accessibilità e prevedibilità di ogni fonte legale in materia
criminale e della relativa giurisprudenza. In altre parole, sono stati valorizzati i principicorollario «astorici» di irretroattività, determinatezza, accessibilità e prevedibilità della
norma penale e dello stesso diritto penale vivente di fonte giurisprudenziale65. Tuttavia,
62
Cfr. in tal senso C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., p. 83 s.
Sulla necessità di tale analisi v., fra tutti, A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sul principio
europeo di legalità penale, cit., p. 50 s.; C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit., pp.
84 ss.
64
L’art. 7.2 prevede, poi, una fondamentale deroga al principio di cui all’art. 7.1. Possono, infatti,
venire processati e condannati gli autori di fatti considerati criminali secondo i principi generali di diritto
riconosciuti dalle nazioni civili, ancorché al momento della loro commissione detti fatti non costituissero
reato in base al diritto nazionale o internazionale. L’argomento sarebbe degno della massima attenzione,
nonché di un’attenta riflessione, tuttavia, esulando dallo specifico tema affrontato in questa sede, è d’uopo
limitarsi ad una mera segnalazione.
65
E’ d’uopo, inoltre, osservare come i contenuti conferiti all’art. 7.1 dagli organi di Strasburgo,
smentiscano la concezione secondo la quale le norme della CEDU rifletterebbero niente più di quel
63
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
35
in merito ai corollari «storici» del principio di legalità penale (quelli cioè deputati a
selezionare gli organi legittimati a produrre norme penali) vi è assoluto silenzio da parte
dell’art. 7.1 CEDU, peraltro amplificato dal parallelo, invitabile, silenzio sul punto della
Corte EDU66 . In definitiva, nessun vincolo (sia a carico degli Stati del Consiglio
d’Europa, sia a carico dell’Unione europea) in merito agli organi deputati a produrre
diritto penale può discendere dall’art. 7.1 così come interpretato dagli organi di
Strasburgo e ciò perché si sarebbe ovviamente preclusa l’adesione alla Convenzione da
parte dei Paesi di common law.
Come si è avuto modo di ricordare in precedenza, i principi comunitari di diritto non
scritto in materia di diritti fondamentali vengono ricavati dai giudici di Lussemburgo
non solo dai trattati internazionali cui i Paesi membri hanno cooperato o aderito, ma
anche dalle Costituzioni (e più in generale dagli ordinamenti giuridici) degli Stati
membri. A livello statuale è noto come le leggi fondamentali di questi e le prassi
interpretative non si limitino a prevedere o enucleare i tradizionali corollari astoricouniversali della legalità penale, ma forniscano anche espresse indicazioni in merito alle
fonti legittimate a produrre norme penali. Nella maggior parte dei casi tali indicazioni
spingono, peraltro, nel senso di accentrare il monopolio dello ius puniendi nelle mani
minimo comune denominatore di tutela già riscontrabile a livello europeo, così da non offrire in nessun
caso una protezione ai diritti dell’uomo migliore e più completa di quella assicurata dal diritto interno dei
singoli Stati aderenti alla Convenzione. Al contrario, proprio l’analisi dell’implementazione dell’art. 7.1
da parte della Corte di Strasburgo, rivela come la legalità penale CEDU finisca con il condizionare
profondamente i sistemi giuridici dei Paesi membri e le relative prassi. Di grande interesse in questo
senso è, ad esempio, la recentissima sentenza della corte di Strasburgo (Grande Camera, 17.9.2009,
Scoppola c. Italia), con la quale viene ricondotto al contenuto implicito del principio di legalità di cui
all’art. 7 CEDU anche il principio di necessaria retroattività della legge penale più favorevole, che, come
è noto, la Costituzione italiana non prevede espressamente essendo invece desumibile dal più generale
principio di eguaglianza (in senso oggettivo), con la conseguente possibilità di deroghe purché
«ragionevoli». L’art. 7.1 CEDU è stato, inoltre, recentemente interpretato, ben al di là della sua
formulazione testuale, nel senso di rispecchiare anche il principio di colpevolezza: «l’art. 7 non menziona
espressamente il legame morale tra l’elemento materiale dell’infrazione e la persona che ne è considerato
l’autore. Tuttavia, la logica della pena e della punizione così come la nozione […] di “persona colpevole”
vanno nel senso di un’interpretazione dell’art. 7 che esige, per punire, un legame di natura intellettuale
(coscienza e volontà) che permetta di scoprire un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore
materiale dell’infrazione» (Sez. II, 20 gennaio 2009, Sud Fondi S.r.l. et auters c. Italie). Cfr. F. PALAZZO,
Il costituzionalismo penale italiano e le Corti penali europee, cit., p. 578 s. Diffusamente sul principio di
legalità penale nella CEDU, v. anche A. BERNARDI, Nessuna pena senza legge (art. 7), in Commentario
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, diretto da S. BARTOLE - B. CONFORTI - G. RAIMONDI Padova, 2001, pp. 256 ss.; P. ROLLAND, Artiche 7, in L.E. PETTITI - E. DECAUX - P.H. IMBERT (a cura di),
La Convention européenne des droits de l’homme, Parigi, 1995, pp. 294 ss.; D.J. HARRIS - M. O’BOYLE C. WARBRIK, Law of the Europea Conventio on human rights, Oxford, 2009, pp. 332 ss.; V.
ZAGREBELSKY, La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità in materia penale,
in Ius 17, 2009, pp. 57 ss.; da ultimo, ID., La convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principiod i
legalità penale e F. VIGANÒ, Obblighi convenzionali di tutela penale?, in V. MANES - V. ZAGREBELSKY (a
cura di), La convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Milano, 2011,
pp. 70 ss. e pp. 243 ss.
66
Cfr. A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità, cit., p. 55; C.
GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit. p. 86 s.
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36
dell’organo rappresentativo con deroghe più o meno ampie da Stato a Stato. Ciò
debitamente premesso, è altrettanto noto come all’interno dell’Unione europea si
registrino differenze anche molto accentuate con riferimento a quei corollari del
principio di legalità d’impronta più marcatamente storico-politica. A ben vedere,
dunque, il problema di quali siano gli organi legittimati a creare norme penali risulta
fortemente condizionato dalla cultura del tempo e del luogo e in particolare dalla forma
assunta dallo Stato in un dato momento storico. Al riguardo, infatti, sembra possibile
affermare che – sebbene non cessi di essere sottolineato il processo di ravvicinamento
tra i sistemi penali europei e persino tra quelli di civil e common law - risultano essere
ancora alquanto differenziate dall’uno all’altro degli Stati UE le convinzioni su quali
debbano essere gli organi nazionali ritenuti meritevoli di produrre norme penali, e su
quali siano i rispettivi limiti di operatività. Al riguardo appare, dunque, naturale che
tuttora i sistemi di civil law, tradizionalmente portati a valorizzare innanzitutto, nella
legalità penale, i contenuti di democraticità e di astratta uguaglianza, esprimano –
almeno in linea di massima – una netta preferenza per gli organi di origine parlamentare
e per le relative fonti normative, con conseguente mantenimento (pur tra mille deroghe e
senza con questo negare le crescenti funzioni normative del Governo) del principiocorollario della riserva di legge. Del pari, risulta naturale che i sistemi di common law,
pur nella consapevolezza della crescente importanza della legge scritta, continuino a
tenere in somma considerazione il ruolo dei giudici e, dunque, a prestare particolare
attenzione alla dimensione applicativa del diritto, o se si preferisce «alla giustizia del
caso concreto» 67 . Queste difficoltà non fanno che sottolineare come la pretesa di
derivare un modello di legalità storica comune alle tradizioni costituzionali degli Stati
membri da trasferire ipso facto all’ordinamento europeo, sia un’operazione oltremodo
complicata se non impossibile data l’eterogeneità interna tra i Paesi membri e la
“differenza di scala” tra gli assetti istituzionali e i meccanismi di produzione giuridica
nazionali rispetto a quelli dell’Unione68.
67
Cfr. A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona, note sul principio europeo di legalità penale, cit., pp.
58 ss.
68
In tal senso finirebbero inevitabilmente per fallire anche tutti quei criteri attraverso i quali, a partire
dalle tradizioni costituzionali comuni, è dato ricostruire i principi generali del diritto europeo non scritto.
Si pensi, in particolare: al criterio in base al quale la tutela comunitaria (nel nostro caso del principio di
legalità, ma più in generale di ogni altro principio/diritto fondamentale) deve essere orientata al livello più
alto di protezione rinvenibile all’interno dei diversi sistemi costituzionali dei Paesi membri (criterio del
maximum standard); al criterio per il quale la tutela deve rifarsi alla tendenza prevalente all’interno dei
diversi sistemi costituzionali dei Paesi membri (criterio dell’orientamento prevalente); al criterio teso a
privilegiare le tendenze nazionali che risultino migliori alla luce delle particolari esigenze del diritto
comunitario (criterio della bettar law); al criterio secondo cui la tutela comunitaria deve circoscriversi al
minimo denominatore comune di protezione riscontrabile nei suddetti sistemi costituzionali (criterio del
minimo comune denominatore). V. per una diffusa analisi del fallimento nella ricostruzione del principio
di riserva di legge prendendo le mosse dalle tradizioni costituzionali comuni A. BERNARDI , All’indomani
di Lisbona: note sul principio europeo di legalità penale, cit. pp. 60 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge e
legalità penale europea, cit., pp. 88 ss.
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37
Per quanto attiene, infine, all’orientamento della Corte di giustizia, questa ricava i
principi generali del diritto europeo non scritto dalle convenzioni internazionali
ratificate dagli Stati membri e dalle leggi fondamentali di quest’ultimi. Il principio
europeo di legalità penale è stato, dunque, estratto a partire dalle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri e dall’art. 7.1 CEDU. Tuttavia, anche nella
giurisprudenza di Lussemburgo a fronte di un certo sviluppo dei corollari della legalità
attinenti il versante universale-astorico, le indicazioni circa il versante storico sono
pressoché del tutto assenti. Più precisamente, per quanto attiene ai corollari astoricouniversali la Corte di giustizia non è in definitiva giunta a dire niente di più di quanto
già affermato dalla Corte EDU. I giudici di Lussemburgo si sono, dunque, in definitiva
allineati con gli orientamenti definiti dalla Corte EDU, richiamando e sancendo, in
particolare, i principi di irretroattività della legge penale sfavorevole69, della precisione
e chiarezza della norma penale70, nonché del divieto di interpretazione analogica71. Per
quanto attiene, invece, al versante «storico» della legalità penale la Corte di giustizia
europea non afferma sostanzialmente alcunché. Tale silenzio sulla fonte legittimata a
produrre norme penali può ragionevolmente ricondursi, da un lato all’assenza di un
espresso richiamo nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nella
giurisprudenza della Corte EDU, dall’altro alle difficoltà di individuare punti di
convergenza nelle tradizioni costituzionali comuni72.
L’analisi fin qui sviluppata giunge, dunque, in definitiva ad una conclusione
pressoché unitaria e coerente con l’attuale architettura istituzionale e il sistema europeo
delle fonti. Se da un lato, infatti, il principio europeo di legalità penale è stato oggetto di
un’implementazione sia a livello normativo che interpretativo-giurisprudenziale capace
di conferire un contenuto sufficientemente articolato e dettagliato ai suoi corollari
69
V., fra le altre, CGCE 10 luglio 1984, Regina c. Kent Kirk, causa 63/83, in particolare § 22; CGCE,
28 giugno 2005, Dansk Rørindustri e aa. c. Commissione, in particolare § 227; CGCE 8 febbraio 2007,
Groupe Danone c. Commissione, causa C-3/06 P, in particolare § 87.
70
CGCE 3 giugno 2008, Intertanko, causa C-308/06, in particolare § 69; CGCE 3 maggio 2007,
Advocaten voor de Wereld, VZW c. Leden van de Minikterraad, causa C-299/95, in particolare § 49 ss.
71
CGCE 12 dicembre 1996, Procedimenti penali contro X, § 25, in cui si sancisce il divieto di
interpretazione (anche solamente) estensiva; Tribunale di primo grado 8 luglio 2008, AC-Treuhand AG,
causa T-99/04, § 140.
72
E’ stato, peraltro, opportunamente osservato che l’assenza nella giurisprudenza della Corte di
Lussemburgo di indicazioni relative al versante storico della legalità penale, non significa
necessariamente che quest’ultima sia insensibile alle istanze democratiche (oltre che garantiste) in taluni
Stati soddisfatte tramite la riserva di legge. Più plausibilmente, si può ritenere che la Corte tenga nella
debita considerazione anche queste istanze, reputandole già adeguatamente rispettate mediante il
meccanismo dell’armonizzazione penale ottenuta con fonti bisognose di trasposizione negli ordinamenti
interni attraverso le regole proprie di ciascun sistema nazionale. In questo senso v. nella giurisprudenza
europea, CGCE sent. 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld, cit., in particolare § 52; in dottrina v., S.
MANACORDA, La deroga alla doppia punibilità nel mandato di arresto europeo e il principio di legalità.
(Note a margine di Corte di Giustizia, Advocaten voor de Wereld, 3 maggio 2007), in Cass. pen., 2007,
pp. 4346 ss.; G. DE AMICIS - O. VILLONI, Mandato di arresto europeo e legalità penale
nell’interpretazione della Corte di Giustizia, in Cass. pen., 2008, pp. 383 ss.; C. GRANDI, Riserva di legge
e legalità penale europea, cit., p. 99.
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38
astorico-universali, dall’altro lato, invece, rispetto ai corollari storico-politici si registra
un sostanziale vuoto normativo che nessuna attività interpretativa della Corte EDU e
della Corte di giustizia ha potuto o voluto colmare. A tutt’oggi in Europa non esiste,
dunque, un punto di vista comune in merito a quali siano gli organi legittimati alla
produzione delle norme penali. Apparirebbe, peraltro, vano ogni tentativo di incorporare
nella legalità penale europea corollari formali volti a replicare a livello UE meccanismi
di produzione normativa identici a quelli operanti nei Paesi membri e ciò a causa
dell’impossibilità di rinvenire un adeguato termine di paragone tra l’Unione e gli Stati
membri sotto i diversi profili dell’architettura istituzionale, della separazione dei poteri
e del sistema delle fonti.
4. Il problema della conformità al principio di legalità dei meccanismi di produzione
normativa europea in materia penale: attualità dell’obiezione fondata sul deficit
democratico-rappresentativo
Per completare l’analisi della legalità penale europea, specie sul versante “storico”
della riserva di legge, che è quello che più interessa ai fini della nostra indagine, è
d’uopo analizzare il coefficiente di democraticità del law making process delle fonti
europee penalistiche alla luce delle rilevanti novità introdotte il 1° dicembre 2009.
Il processo normativo operante all’interno dell’Unione ha tradizionalmente sofferto,
infatti, di un «difetto congenito» rappresentato dal ruolo assolutamente predominante
degli organi a carattere «governativo» (il Consiglio in primis, ma anche la
Commissione) e, per contro, dal ruolo tradizionalmente subalterno del Parlamento
europeo 73 . Tuttavia, prima di procedere con l’analisi della situazione attuale, va
rimarcato come già rispetto al sistema delle fonti e delle relative procedure di adozione
adottato dal Trattato di Amsterdam, parte autorevole della dottrina avesse ritenuto ormai
superata, o in fase di superamento, la tradizionale obiezione al riconoscimento e
all’allargamento delle competenze penali dell’Unione, incentrata sul deficit democratico
di quest’ultima e sulla violazione della ratio della legalità/riserva di legge nazionale74.
73
Cfr., oltre alle voci bibliografiche richiamate alla nota n. 4 e 51 del presente lavoro, v. in particolare
A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sulla legalità penale europea, cit., p. 61 s.
74
Cfr., fra tutti nella dottrina penalistica, F. PALAZZO, La legalidad penal en la Europa de Amsterdam,
in Revista penal, 1999, pp. 39 ss.; A. BERNARDI, All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di
legalità penale, cit., pp. 60 ss.; ID., I tre volti del diritto penale comunitario, cit., pp. 90 ss.; H. SATZGER,
Die
Europaisierung
des
Strafrechts:
eine
Untersuchungzum
Einfluss
des
EuropaischenGemeinschaftsrechts auf das deutsche Strafrecht, Koln, 2001. Più diffusamente si è
osservato come, il deficit democratico, così ampiamente caratterizzante il sistema comunitario, si sarebbe
negli anni gradualmente attenuato con il rafforzamento, sul piano istituzionale, della democrazia
rappresentativa, a seguito di una serie di riforme dell’organo maggiormente idoneo ad esprimerla, il
Parlamento europeo. Un primo fondamentale passo, dal punto di vista della formazione, era compiuto con
l’elezione diretta a suffragio universale del Parlamento europeo, avvenuta per la prima volta nel 1979 a
seguito di decisione del Consiglio del settembre 1976. Pur in mancanza di procedure elettorali uniformi
nei vari Stati, il Parlamento europeo assumeva il ruolo di istituzione direttamente rappresentativa dei
popoli degli Stati riuniti nella Comunità. Si assisteva, d’altro canto, ad un progressivo potenziamento del
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39
Al fine di valutare, dunque, il livello di democraticità del processo normativo
europeo, occorre innanzitutto considerare che esso si articola (sia prima che dopo
Lisbona) in tre macrofasi, legate ad altrettanti momenti della legalità e nell’ambito delle
quali rimangono coinvolti i Parlamenti e i Governi nazionali, il Consiglio, la
Commissione e il Parlamento dell’Unione. Si tratta, come noto, della fase «ascendente»,
«centralizzata» e «discendente». La prima fase è quella in cui gli organi di produzione
normativa dell’Unione (la Commissione e il Consiglio) interpellano i Parlamenti
nazionali nelle materie oggetto di riforma o nuova disciplina, al fine di evitare – nei limi
del possibile – il varo di atti che trovino poi il dissenso degli Stati membri. La seconda
fase si ha nel momento in cui i testi normativi, già oggetto di discussione tra organi
europei e organi nazionali, entrano nel vivo del processo normativo a Bruxelles, che
vede come unici protagonisti il Consiglio, la Commissione e il Parlamento europeo. La
terza ed ultima fase concerne, invece, l’attività di trasposizione-precisazione dei testi
normativi europei da parte degli organi normativi nazionali 75 , affinché attraverso
disposizioni di diritto interno vengano raggiunti, nei singoli Stati membri, i risultati
voluti dai suddetti testi.
Ora, il Trattato di Lisbona ha finito per valorizzare la componente democraticopartecipativa del procedimento normativo europeo sia nella fase ascendente che
accentrata76.
ruolo del Parlamento europeo che veniva via investito di rilevanti compiti in ordine soprattutto al
procedimento legislativo (fino al riconoscimento in alcuni casi di un potere di veto) e in materia di
bilancio: pur non raggiungendo peraltro uno status assimilabile a quello della seconda Camera federale.
Significative tappe del rafforzamento del ruolo dell’istituzione parlamentare europea erano compiute con
vari Trattati: dal Trattato di Lussemburgo del 1970 e dalla Dichiarazione comune del 1974, che
ampliavano i poteri finanziari del Parlamento europeo fino ad attribuirgli un parziale potere di
codecisione in tema di spese comunitarie non obbligatorie, all’Atto Unico europeo del 1986, che ha
introdotto, tra l’altro, una procedura di cooperazione del Parlamento con il Consiglio dei ministri in
diverse materie del Trattato CEE nonché dello stesso Atto Unico; al Trattato di Maastricht sull’Unione
Europea del 1992, che ha ampliato e potenziato in vari ambiti il ruolo del Parlamento europeo,
estendendo tra l’altro in diversi settori la procedura di cooperazione con il Consiglio e conferendo allo
stesso Parlamento, attraverso una procedura di conciliazione, un diritto di veto in vari settori; al Trattato
di Amsterdam del 1997, che ha tra l’altro attribuito al Parlamento il potere di approvare la nomina del
presidente della Commissione. Riforme, tutte queste, che, pur non sopendo in dottrina il dibattito sul
problema del deficit democratico comunitario, portavano a volte a taluni ripensamenti. Così, ad esempio,
Gorge Ress, che pure aveva insistito sul deficit democratico comunitario, frutto della mancanza di una
reale competenza legislativa del Parlamento, e che anzi aveva ravvisato nello stesso Atto Unico un fattore
non di rafforzamento del ruolo dello stesso Parlamento europeo ma piuttosto di estensione della sfera di
“legislazione senza Parlamento” che caratterizzava fino dall’inizio la Comunità, si mostrava dell’avviso
che con i Trattati di Maastricht e di Amsterdam la posizione del Parlamento si era rafforzata a tal punto da
potersi “quasi parlare di una adeguata legittimazione democratica diretta”. Cfr. G. RESS,
Parlamentarismo e democrazia in europa, in Jus Publicum Europaeum, traduzione italiana a cura di R.
Miccù, Napoli, 1999, pp. 15 ss.; E. DE MARCO, Elementi di democrazia partecipativa, in P. BILANCIA M. D’AMICO (a cura di), La nuova europa dopo il Trattato di Lisbona, Milano 2009, pp. 39 ss.
75
Eccezion fatta, come noto, per i regolamenti.
76
La fase discendente, come è agevole comprendere, non è stata interessata da significativi
cambiamenti. Si continua, dunque, a riconoscere ampia discrezionalità agli Stati membri in ordine alle
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40
Più precisamente, nella prima fase, si tende ad innalzare il coefficiente di
democraticità dei testi normativi europei attraverso la promozione e l’incremento (sia
quantitativo sia qualitativo) della partecipazione degli organi nazionali nel momento
preparatorio delle norme europee. In particolare, è stato rafforzato il ruolo consultivo
dei Parlamenti nazionali a cui si è riconosciuta una pervasiva funzione partecipativa e di
controllo nella progettazione dei contenuti delle fonti europee. Lo sviluppo dei suddetti
meccanismi di interazione tra Parlamenti nazionali ed istituzioni europee, seppur non in
grado di bloccare il processo normativo europeo, sono, tuttavia, capaci di influenzarlo,
rallentarlo, sospenderlo ed aggravarlo, con conseguente rilevante capacità incisiva.
Quanto poi alla fase centralizzata, è d’uopo sottolineare come il Trattato di Lisbona
abbia decisamente rafforzato il ruolo del Parlamento europeo (spesso in passato relegato
ad una funzione meramente consultiva), assumendolo a colegislatore anche
nell’esercizio della competenza penale77. L’art. 294 TFUE riconosce, infatti, quale
meccanismo generale di adozione degli atti legislativi europei la “procedura legislativa
ordinaria”, la quale ricalca, in larga parte, la procedura di codecisione. La suddetta
procedura di adozione degli atti normativi, come disciplinata dal disposto di cui all’art.
249 TFUE, ha finito, dunque, con il sancire la piena parità tra Consiglio e Parlamento:
in mancanza di un voto favorevole di entrambe le istituzioni sulla proposta della
Commissione, ovvero di un voto favorevole sul testo oggetto di emendamenti in
seconda lettura, oppure sul testo scaturito dal comitato di conciliazione in terza lettura,
l’atto non può essere, infatti, adottato78.
modalità di attuazione negli ordinamenti interni degli obblighi sanzionatori contenuti negli atti
dell’Unione.
77
V. il combinato disposto degli artt. 249 e 82 TFUE.
78
Cfr. art. 294 TUE, ai sensi del quale: «1. Quando nei trattati si fa riferimento alla procedura
legislativa ordinaria per l’adozione di un atto, si applica la procedura che segue. 2. La commissione
presenta una proposta la Parlamento europeo e al Consiglio. Prima lettura. 3. Il Parlamento europeo
adotta la sua posizione in prima lettura e la trasmette al Consiglio. 4. Se il Consiglio approva la posizione
del Parlamento europeo, l’atto in questione è adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione
del Parlamento europeo. 5. Se il Consiglio non approva la posizione del Parlamento europeo, esso adotta
la sua posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento europeo. 6. Il Consiglio informa
esaurientemente il Parlamento europeo dei motivi che l’hanno indotto ad adottare la sua posizione in
prima lettura. La Commissione informa esaurientemente il Parlamento europeo della sua posizione.
Seconda lettura. 7. Se, entro un termine di tre mesi da tale comunicazione, il Parlamento europeo: a)
approva la posizione del Consiglio in prima lettura o non si è pronunciato, l’atto in questione si considera
adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge la posizione del
Consiglio in prima lettura a maggioranza dei membri che lo compongono, l’atto predisposto si considera
non adottato; c) propone emendamenti alla posizione del Consiglio in prima lettura a maggioranza dei
membri che lo compongono, il testo così emendato è comunicato al Consiglio e alla Commissione che
formula un parere su tali emendamenti. 8. Se, entro un termine di tre mesi dal ricevimento degli
emendamenti del Parlamento europeo, il Consiglio e, deliberando a maggioranza qualificata: a) approva
tutti gli emendamenti, l’atto in questione si considera adottato; b) non approva tutti gli emendamenti, il
presidente del Consiglio, d’intesa con il presidente del Parlamento europeo, convoco entro sei settimane il
comitato di conciliazione. 9. Il Consiglio delibera all’unanimità sugli emendamenti rispetto ai quali la
Commissione ha dato parere negativo. Conciliazione. 10. Il comitato di conciliazione, che riunisce i
membri del Consiglio o i loro rappresentanti ed altrettanti membri rappresentatiti il Parlamento europeo,
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41
Alla luce di quanto sin qui osservato occorre, dunque, chiedersi se sia ancora attuale
l’obiezione al riconoscimento di una competenza penale dell’Unione europea basata sul
deficit democratico comunitario. Il consolidamento della base democratica della legalità
comunitaria che – nelle materie interessate dalla prevenzione e repressione della
criminalità – si esprime attraverso la generalizzazione della procedura legislativa
ordinaria, fa propendere verso una risposta di tipo negativo: il law making process
europeo sembra presentare, infatti, dopo Lisbona un coefficiente di democraticità
pressoché identico ai procedimenti interni nazionali ed in particolare a quello italiano79.
ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune a maggioranza qualificata dei membri del
Consiglio o dei loro rappresentanti e a maggioranza dei membri rappresentanti il Parlamento europeo
entro un termine di sei settimane dalla convocazione, basandosi sulle posizioni del Parlamento europeo e
del Consiglio in seconda lettura. 11. La Commissione partecipa ai lavori del comitato di conciliazione e
prende ogni iniziativa necessaria per favorire un ravvicinamento fra la posizione del Parlamento europeo
e quella del Consiglio. 12. Se, entro un termine di sei settimane dalla convocazione, il comitato di
conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato. Terza
lettura. 13. Se, entro tale termine, il comitato di conciliazione approva un progetto comune, il Parlamento
europeo e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane a decorrere dall’approvazione
per adottare l’atto in questione in base al progetto comune; il Parlamento europeo delibera a maggioranza
dei voti espressi e il Consiglio a maggioranza qualificata. In mancanza di una decisione, l’atto in
questione si considera non adottato. 14. I termini di tre mesi e di sei settimane di cui al presente articolo
sono prorogati rispettivamente di un mese e di due settimane, al massimo, su iniziativa del Parlamento
europeo o del Consiglio. Disposizioni particolari. 15. Quando, nei casi previsti dai trattati, un atto
legislativo è soggetto alla copertura legislativa ordinaria su iniziativa di un gruppo di Stati membri, su
raccomandazione della Banca centrale europea o su richiesta sella Corte di giustizia, il paragrafo 2, il
paragrafo 6, seconda frase e il paragrafo 9 non si applicano. In tali casi, il Parlamento europeo e il
Consiglio trasmettono alla Commissione il progetto di atto insieme alle loro posizioni in prima e seconda
lettura. Il Parlamento europeo o il Consiglio possono chiedere il parere della Commissione durante tutta
la procedura, parere che la Commissione può altresì formulare si sua iniziativa. Se lo reputa necessario,
essa può anche partecipare al comitato di conciliazione conformemente al paragrafo 11».
79
Non ignoriamo certo le differenti posizioni di parte – seppur minoritaria - della dottrina, la quale
non ritiene le riforme introdotte a Lisbona in grado di colmare il deficit di democraticità del law making
process europeo che pertanto persisterebbe. Al riguardo, si adducono due principali ordini di argomenti.
In primis si è osservato che il Parlamento europeo non avrebbe alcun potere di iniziativa legislativa,
riservato questo, in via quasi esclusiva, alla Commissione. Sul punto non sembra, tuttavia, che la critica
appena mossa possa inficiare in maniera irreversibile la ratio garantista propria della legalità, la quale,
tutt’al più, potrebbe dirsi violata ove vi fosse un’esclusione del Parlamento nella fase di elaborazione ed
approvazione delle norme. Il secondo argomento critico avanzato in dottrina è incentrato, invece, più
genericamente sulla presunta incapacità del Parlamento di svolgere un effettivo ruolo rappresentativo dei
cittadini europei. In questa prospettiva, si è denunciata, soprattutto, l’assenza di un «popolo europeo» in
senso proprio, la mancanza di veri e propri partiti europei e la mancanza di una dialettica maggioranzaopposizione equiparabile a quella del nostro Parlamento nazionale. Le suddette obiezioni appaiono,
tuttavia, peccare per genericità e scarsa attenzione alla realtà delle cose. Non solo, infatti, si sembra
ignorare sia il progressivo formarsi di una vera e propria identità popolare comune-europea, sia le
involuzioni dei processi dialettici subiti nelle c.d. democrazie maggioritarie; ma si finirebbe così
argomentando anche con il trascurare il fatto che la tenuità delle contrapposizioni ideologiche preconcette
all’interno del Parlamento europeo (dovuta anche alla suddivisione del potere legislativo tra Consiglio e
Parlamento) rappresenta un elemento favorevole e non disfunzionale alla democraticità del law making
process europeo. Sul punto v. C. SIMONCINI, I limiti del coinvolgimento del Parlamento europeo nei
processi di decislione normativa, cit., p. 1227 s.; E. TRIGGIANI, Gli equilibri politici interistituzionali
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42
Tuttavia, e questo è il punto, per stabilire se la ratio sottesa alla riserva di legge sia
rispettata nella dimensione europea, non è determinante (solo) la misura del grado di
partecipazione dell’organo rappresentativo nel procedimento di formazione delle norme
penali europee, ma occorre valutare se il “clima costituzionale” in cui le norme stesse
sono destinate ad operare offra le ulteriori garanzie equivalenti a quelle che la riserva di
legge tende ad assicurare negli ordinamenti nazionali80.
E’, dunque, a questo punto matura la riflessione per capire se ed entro quali limiti sia
configurabile una competenza penale europea.
Alla domanda se sussista un’autonoma potestà penale in capo alle istituzioni
comunitarie la risposta non può che essere, come visto, affermativa. Va tuttavia distinto
tra una competenza penale indiretta ed una diretta.
5. Competenza penale indiretta delle istituzioni europee
Preliminarmente, prima di procedere alla puntuale analisi del duplice fondamento
giurisprudenziale e positivo alla base della competenza penale indiretta dell’Unione
europea, è bene sottolineare che, l’impossibilità per l’Unione – allo stato attuale – di
vantare una propria potestà punitiva di natura penale, non significa, tuttavia, che non
abbia una “competenza” in materia penale. A ben vedere, infatti, non pare potersi
ravvisare alcun ostacolo al riconoscimento in capo agli organi dell’Unione di un
compito di indirizzo dell’attività normativa degli Stati in funzione di armonizzazione
anche per quanto concerne l’amministrazione della giustizia penale81. Certamente, la
suddetta attività normativa di armonizzazione su impulso europeo è più intensa in
campo processuale penale, ove la necessità di cooperazione tra gli Stati è più forte.
Tuttavia, l’esigenza armonizzatrice assicurata dall’Unione si manifesta anche nella
disciplina penale più propriamente sostanziale.
Ciò premesso, quanto allo specifico problema del riconoscimento in capo all’Unione
europea di una competenza penale indiretta, è possibile individuare, a seguito
dopo Lisbona, cit., p. 18; F. RASPADORI, Il deficit di rappresentatività del Parlamento europeo: limiti e
soluzioni, in Studi sull’integrazione europea, 2009, pp. 125 ss.; I. FROMM, Supranational Criminal Law
Competence and the Democratic Deficit of the european Union, in JECL, 2008/2009, p. 43 s.; C. MAGI,
Attribuzione alla “nuova” unione di poteri normativi in materia penale, in Diritto pubblico comparato ed
europeo, 2008, p. 1554 s.; C. PAONESSA, La discrezionalità del legislatore nazionale, cit., p. 396 s.; U.
DRAETTA, La funzione legislativa ed esecutiva dell’Unione europea nel Trattato di Lisbona, in Diritto
comunitario e degli scambi internazionali, 2008, p. 685. Per una recente sottolineatura della non
praticabilità delle critiche sopra ripercorse v. C. GRANDI, Riserva di legge e legalità penale europea, cit.,
pp. 116 ss.
80
Cfr. R. SICURELLA, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, cit., pp. 393 ss.
81
In tal senso è sufficiente infatti analizzare il disposto di cui all’art. 67.3 del TFUE, il quale sancisce
che «l’Unione si adopera per garantire un livello elevato di sicurezza attraverso misure di prevenzione e
di lotta contro la criminalità, il razzismo e la xenofobia, attraverso misure si coordinamento e di
cooperazione tra forze di polizia e autorità giudiziarie e altre autorità competenti, nonché tramite il
riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie penali e, se necessario, il ravvicinamento delle
legislazioni penali».
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dell’intervento riformatore attuato dal Trattato di Lisbona, un fondamento
giurisprudenziale ed uno normativo-positivo di tale potestà.
La stessa Corte di giustizia, infatti, con la nota pronuncia del 13 settembre 2005, resa
in sede di ricorso per annullamento della Decisione quadro del Consiglio in materia di
protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, pur ribadendo che in via di
principio, la legislazione penale, così come le norme di procedura penale, non rientrano
nella competenza della Comunità, ha puntualizzato che quest’ultima constatazione non
può tuttavia impedire al legislatore comunitario di adottare direttive che obblighino gli
Stati membri a sanzionare penalmente determinate condotte. Più precisamente, si
osserva, infatti, che, allorché l’applicazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e
dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisca una misura
indispensabile di lotta contro le violazioni ambientali gravi, le istituzioni comunitarie
possono incidere mediante l’adozione di direttive sugli ordinamenti penali degli Stati
membri, al fine di garantire la piena efficacia delle norme emanate a livello europeo in
materia di tutela dell’ambiente. I giudici di Lussemburgo, quindi, con la suddetta
sentenza, pur ribadendo il principio secondo cui la normazione penale esorbita dalle
competenze comunitarie, hanno, per la prima volta, sottolineato come alla legislazione
comunitaria non sia precluso il ricorso a misure connesse ai diritti penali nazionali
allorquando l’applicazione da parte delle autorità degli Stati membri di pene effettive,
proporzionate e dissuasive, si riveli essenziale per il contrasto di gravi violazioni in
materia di ambiente. Più nel dettaglio, la richiamata decisione del settembre 2005 della
Grande Sezione della Corte di giustizia ha segnato un momento fondamentale per
individuare le competenze penali della Comunità, dettando alcuni principi cardine che
hanno condizionato anche l’evoluzione istituzionale successiva. Innanzitutto, si è,
infatti, affermato che non esiste una competenza comunitaria generale in materia penale,
essendo essa di spettanza dei singoli Stati membri. Esiste, tuttavia, una competenza
penale particolare, attribuita all’Unione europea in determinate materie (criminalità
organizzata, terrorismo, traffico illecito di sostanze stupefacenti), che mira sia al
ravvicinamento delle varie legislazioni penali degli Stati membri, sia a prevedere
l’obbligo di sanzionare penalmente determinate condotte. Si afferma, inoltre, l’esistenza
di una competenza penale implicita della Comunità correlata al perseguimento dei
propri obiettivi essenziali. Ove, infatti, al fine di garantire massima efficacia all’azione
comunitaria per la tutela delle sue competenze è necessario prevedere delle sanzioni
penali, anche la Comunità può adottare tali disposizioni. Si esclude, infine, seppur
implicitamente che l’Unione e la Comunità possano prevedere nuove fattispecie penali
che si applichino direttamente agli individui, riconoscendosi viceversa la sola possibilità
di prevedere misure di ravvicinamento delle singole legislazioni penali nazionali, che si
possono spingere sino a stabilire veri e propri obblighi per gli Stati di penalizzazione di
determinati comportamenti. Si è, dunque, da un lato negato una competenza penale
diretta delle istituzioni europee e dall’altro riconosciuto una (esclusiva) competenza
penale indiretta.
Quanto sancito dalla sentenza della Corte di giustizia appena richiamata e ripercorsa
nelle sue linee essenziali, è stato, peraltro, confermato da un successivo provvedimento
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
44
dei giudici di Lussemburgo82. Nella sentenza 23 ottobre 2007, C-440/05, si è infatti
sostenuto, per l’appunto, che se è vero che, in via di principio, la legislazione penale
così come le norme di procedura penale, non rientrano nella competenza della
Comunità, resta nondimeno il fatto che il legislatore comunitario, allorché
l’applicazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive da parte delle
competenti autorità nazionali costituisca una misura indispensabile di lotta contro danni
ambientali gravi, può imporre agli Stati membri l’obbligo di introdurre tali sanzioni per
garantire la piena efficacia delle norme che emana in tale ambito. A questo punto
sembrava che la politica penale dell’Unione fosse in grado di estendersi in relazione a
campi di materia da attrarre nel primo pilastro, vincolando i parlamenti nazionali
attraverso direttive sia sulle scelte di criminalizzazione sia sulle scelte sanzionatorie,
accantonando la tecnica del doppio testo. La Corte di giustizia, tuttavia, proprio nella
pronuncia del 2007 stabiliva che non spettava comunque alle direttive «la
determinazione del tipo e del livello delle sanzioni penali applicabili». I giudici di
Lussemburgo avevano così voluto fissare una soglia-limite all’espansione della politica
criminale comunitaria e ciò al fine de evitare un’eccessiva ingerenza nella potestà
normativa penale degli Stati membri. A ben vedere, è, infatti, proprio sul profilo della
sanzione che la politica penale si mostra più gelosamente ancorata al rigoroso rispetto
delle garanzie della riserva di legge statale83.
In conclusione sul punto, si può dunque sostenere che si è andato sviluppando in via
giurisprudenziale il riconoscimento della potestà degli organi comunitari di incidere
sulle scelte discrezionali dei singoli legislatori nazionali nella politica criminale
attraverso l’imposizione, mediante direttive, di obblighi di penalizzazione tutte le volte
in cui vi sia l’esigenza di assicurare la tutela di interessi comunitari a fronte
dell’insufficienza delle legislazioni nazionali (principio di sussidiarietà comunitaria).
Emergeva, dunque, già prima di Lisbona una direzione di sviluppo, in cui la
compressione della discrezionalità penale degli Stati membri sulle politiche criminali
nazionali andava a vantaggio della comunitarizzazione della politica criminale. Si deve,
tuttavia, registrare un limitato uso di questa competenza. Il diritto comunitario sembra
aver preferito, infatti, continuare a chiedere agli Stati sanzioni efficaci, proporzionate e
dissuasive piuttosto che sanzioni penali e ciò nonostante il riconoscimento della facoltà
di emettere, nelle materie di propria competenza, obblighi di tutela penale ove necessari
all’attuazione delle normative europee.
82
CGCE, 23 ottobre 2007, causa C-440/05, Commissione c. Consiglio UE, in Dir. pen. proc., 2008,
pp. 118 ss. Per un commento v. L. SIRACUSA, Verso la comunitarizzazione della potestà normativa
penale: un nuovo «tassello» della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008,
pp. 241 ss.
83
Tale dato risulta peraltro pienamente confermato nella nostra disciplina penale interna. La Corte
costituzionale ha, infatti, stabilito che «il principio costituzionale di legalità della pena sia da interpretare
più rigorosamente», in quanto spetta solo alla legge «stabilire con quale misura debba essere impressa la
trasgressione dei precetti che vuole sanzionare penalmente». C. Cost., 23 marzo 1966, n. 26, in Giur.
cost., 1966, pp. 255 ss.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
45
Le importanti pronunce della Corte di giustizia, da cui si è preso le mosse nel
riconoscere una competenza penale europea indiretta, non fanno che aprire il campo
alle scelte più radicali introdotte dal Trattato di Lisbona. Quest’ultimo ha, infatti,
rafforzato le competenze sulla politica criminale dell’Unione europea.
Sul piano istituzionale, infatti, diviene centrale l’abolizione della struttura a pilastri e
la comunitarizzazione delle questioni attinenti alla criminalità che trova nella direttiva il
nuovo ed unico strumento di governo. Si cristallizza così nelle nuove norme del trattato
quel percorso della giurisprudenza comunitaria che aveva portato al rafforzamento della
politica dell’Unione europea attraverso il rafforzamento sia della efficacia delle norme
del terzo pilastro sia delle norme del primo pilastro come strumento per un più incisivo
condizionamento delle scelte di politica criminale dei singoli Stati nazionali. Dopo il
Trattato di Lisbona l’armonizzazione non si realizza, dunque, più attraverso le
decisioni-quadro, venute meno con l’abolizione della struttura a pilastri, ma attraverso
direttive e, in un caso specifico, mediante regolamenti.
Il significato che riveste il ricorso a questi due diversi strumenti segnala differenti
gradi di intensità della politica criminale europea: è d’uopo pertanto analizzarli
separatamente.
5.1 L’armonizzazione mediante direttive: i due tipi di competenza penale indiretta
stabiliti nell’art. 83 TFUE
L’art. 83 TFUE, così come introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che
l’intervento di direttive in materia penale sia finalizzato a soddisfare esigenze di
ravvicinamento delle discipline nazionali in ragione della transnazionalità del
fenomeno criminale da disciplinare o di completamento delle esigenze di
armonizzazione emerse in specifici settori di disciplina. Più precisamente, il primo
paragrafo prevede che «il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante
direttive secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire norme minime
relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente
grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle
implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni».
Sono individuati, dunque, specifici ambiti di criminalità, già peraltro considerati dal
previgente art. 31 TUE, non più condizionati dall’esigenza di cooperazione giudiziaria e
passibili di estensione, in relazione all’evoluzione storico diacronica della criminalità,
sulla base di una decisione del Consiglio che delibera all’unanimità, previa
approvazione del Parlamento europeo. Si può, dunque, rilevare come l’art. 83.1 TFUE
attribuisca - per mezzo di un’espressa previsione normativa - una competenza penale
europea indiretta ratione materiae, attraverso l’indicazione nominale di nove materie
(terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori,
traffico illecito di stupefacenti traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione,
contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità
organizzata), il cui elenco è, tuttavia, suscettibile di essere incrementato con il voto
unanime del Consiglio.
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46
Accanto all’esigenza di disciplina della criminalità transnazionale, l’armonizzazione
delle legislazioni nazionali in materia penale può rilevarsi indispensabile «per garantire
l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di
misure di armonizzazione»84. Anche in questa seconda ipotesi si sancisce, infatti, che
l’Unione è legittimata con direttive a stabilire norme minime relative alla definizione
dei reati e delle sanzioni nel settore in questione. Nel secondo paragrafo dell’art. 83
TFUE, il riconoscimento delle competenze penali dell’Unione non è, dunque, a
differenza del primo, individuato per specifici settori. L’intervento penale viene messo,
infatti, in generale correlazione con la necessità di garantire il ravvicinamento delle
disposizioni legislative e regolamentari. L’unico limite al tipo di materie sembra essere
costituito dal requisito che il settore sia già stato oggetto di misure di armonizzazione
sul versante extrapenale che comportano anche un intervento di omogeinizzazione della
disciplina penale. E’ stato, tuttavia, osservato in dottrina che tale clausola di limitazione
settoriale, a causa della generica formulazione, sarebbe destinata ad andare in contro ad
una lettura estensiva con conseguente minimizzazzione della sua funzione selettiva85. Il
vero ed unico filtro selettivo del riconoscimento di una competenza penale indiretta
comunitaria si è, dunque, osservato che risiederebbe nel requisito dell’indispensabilità,
il quale sembrerebbe garantire il carattere sussidiario dell’uso del diritto penale
mediante una valutazione in termini di necessità (rectius indispensabilità) di pena86. E’
d’uopo, tuttavia, sottolineare - in senso contrario alla predetta opzione interpretativa87 che il giudizio di indispensabilità richiesto dall’art. 83.2 TFUE non sembra riferito alla
tutela del bene giuridico, ma all’attuazione efficace di una politica dell’Unione. A ben
vedere, la differenza non sarebbe assolutamente di poco conto. Subordinare, infatti, il
giudizio di necessità od indispensabilità di pena non ad una valutazione di protezione
dei beni giuridici sottostanti, ma piuttosto ad una efficace attuazione normativa
comporterebbe, in sostanza, che ad essere giudicato necessario sarebbe l’intervento
penale a tutela di una norma e non di un bene. Così argomentando si giungerebbe,
dunque, a cambiare radicalmente il parametro di giudizio a cui è subordinato
l’intervento penale, con conseguente esaltazione del potere discrezionale di scelta del
84
Cfr. art. 83.2 TFUE, così come introdotto dal Trattato di Lisbona.
In tal senso G. GRASSO, La costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale
dell’Unione europea, cit., pp. 62 ss.; C. SOTIS, Le novità in tema di diritto penale europeo, in La nuova
Europa dopo il Trattato di Lisbona, cit., pp. 147 ss.; ID., Il Trattato di Lisbona e le competenze penali
dell’Unione europea, cit., p. 1154 s.; M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte
di giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’unione europea, cit., p. 673
s. Da ultimo v. anche F. PALAZZO, Europa e diritto penale: i nodi al pettine, in Dir. pen. proc., in corso di
pubblicazione.
86
Cfr. G. GRASSO, La costituzione per l’Europa e la formazione di un diritto penale dell’Unione
europea, cit., pp. 64 s.
87
Per una critica alla impostazione sopra ripercorsa di Grasso v. C. SOTIS, Le novità in tema di diritto
penale europeo, in La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, cit., pp. 147 ss.; ID., Il Trattato di
Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., p. 1154 s.;
85
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47
legislatore 88 . A ben vedere, infatti, una norma incriminatrice potrebbe essere
perfettamente idonea a difendere la tenuta complessiva di un impianto normativo – ad
esempio stabilendo ciò che è sbagliato o indicando la corretta scala di valori in gioco -,
ma al contempo del tutto inidonea a proteggere il bene giuridico tutelato. In altre parole,
a seconda del termine di riferimento del giudizio di indispensabilità, si passerebbe dal
paradigma penale ‘teleologico/funzionalista’ al ben diverso paradigma del diritto penale
‘normativista’89. Va, infine, ricordato che l’art. 83.3 TFUE attribuisce ad ogni Stato
membro la possibilità di utilizzare il c.d. “freno d’emergenza”, ogniqualvolta ritenga
che il progetto di direttiva in esame incida su aspetti fondamentali del proprio
ordinamento giuridico penale. In tale ipotesi, la procedura legislativa viene sospesa e la
questione rimessa al Consiglio europeo; ed in caso di persistente disaccordo, un gruppo
di nove stati membri può avviare la procedura di cooperazione rafforzata90.
Tutto sommato, è possibile, dunque, affermare che l’art. 83 TFUE si pone in
sostanziale continuità rispetto alla politica criminale giudiziaria della Corte di giustizia,
confermando ed assumendo a regola generale la comunitarizzazione della materia
penale in relazione alle scelte di criminalizzazione. E’ d’uopo, tuttavia, rimarcare due
principali profili di novità, rispetto alla precedente evoluzione giurisprudenziale.
In primo luogo, l’ambito delle materie rispetto alle quali può sorgere l’esigenza di
adottare direttive in materia penale, non risulta più limitato ai soli settori di interesse
preminente dell’Unione ma, come visto, è fortemente ampliato.
In secondo luogo - questo uno degli aspetti più problematici delle innovazioni
introdotte con il Trattato di Lisbona – l’art. 83 TFUE riconosce la possibilità di dettare,
tramite direttive, norme minime relative sia alla definizione del precetto che delle
sanzioni. L’espresso richiamo alle sanzioni segnala il superamento dei principi fissati
dalla sentenza del 2007, la quale aveva escluso la possibilità di indicare tramite direttive
linee di politica sanzionatoria penale, lasciando ogni soluzione alla tecnica del doppio
testo91. Questo profilo rappresenta un’indubbia novità che segnala il rafforzamento della
politica penale dell’Unione europea. Si assumerebbe, dunque, la consapevolezza che
88
Come noto, il bene giuridico, la valutazione del suo rango ed importanza, hanno rappresentato e
continuano a rappresentare il cardine/limite delle scelte di incriminazione del legislatore nazionale.
89
Cfr. D. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, pp. 484
ss.; C.E. PALIERO, Il principio di effettività nel diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, pp. 430 ss.;
C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., p. 1155.
90
La norma in esame presenterebbe, a ben vedere, non pochi dubbi sulla possibilità e sugli effetti
della sua attuazione. Infatti, la possibilità che in caso di disaccordo sulla direttiva «penale», si avvii una
procedura di cooperazione rafforzata, consentendo così ad alcuni Stati di sottrarsi alla direttiva che
vincolerà solo gli Stati che vi hanno aderito, rischia di creare una legislazione penale europea a macchia
di leopardo. Ove, infatti, gli Stati membri facessero ampio ricorso al meccanismo di salvaguardia
garantito dal paragrafo 3 dell’art. 83 TFUE, ci troveremmo di fronte a processi di armonizzazione del
diritto penale a doppia velocità, ben lontani dall’assicurare quelle esigenze di armonizzazione che
avevano portatola giurisprudenza della Corte di giustizia a comunitarizzare alcuni settori della
legislazione penale.
91
Cfr. M. PANEBIANCO, Il riparto della competenza penale tra i «pilastri» dell’Unione europea, in
Dir. pen. proc., 2008, p. 403.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
48
l’efficacia del contrasto ad un fenomeno criminale non si gioca solo sul terreno della
formazione di un minimo comune denominatore in relazione all’area della penalità, ma
richiede anche la definizione di un acquis penale comunitario in relazione alla politica
sanzionatoria92. Non è, dunque, solo un problema di se e cosa punire ma anche di come
ed è proprio quest’ultimo profilo che qualifica l’intervento penale. Il punto presenta,
tuttavia, - come facilmente intuibile - non poche né marginali problematiche. Le
indicazioni provenienti dalle direttive vanno, infatti, ad inserirsi in sistemi sanzionatori
nazionali profondamente diversi tra loro. L’indicazione in una direttiva dei limiti edittali
ai quali gli Stati devono attenersi nel prevedere determinate fattispecie di reato deve,
quindi, tenere conto del fatto che quei limiti assumono un significato differente in
relazione al contesto in cui andranno ad operare (una pena comminata da uno a tre di
reclusione in Italia e in Portogallo vogliono dire due cose diversissime)93. L’effettività
della risposta sanzionatoria dipende, dunque, non dai limiti edittali della pena, ma dal
grado di capacità del sistema di far corrispondere alla sanzione comminata in astratto
una corrispondente sanzione applicata dal giudice e poi concretamente eseguita. La
definizione a livello accentrato-europeo di sanzioni comuni si stempererebbe, dunque,
nella complessità dei sistemi sanzionatori nazionali, nella interazione tra previsioni
legislative sulle comminatorie edittali, potere discrezionale del giudice, cause di
estinzione del reato e della pena, disposizioni processuali e norme sull’esecuzione della
pena, che possono rendere del tutto simbolica l’indicazione iniziale sugli astratti limiti
edittali della pena94. Stabilire le comminatorie edittali a livello europeo non sarebbe,
dunque, affatto garanzia di uniformità della pena inflitta (né nel tipo né nella qualità) e,
quindi, anche della pena minacciata. Paradossalmente, dunque, unificando in maniera
rigida le comminatorie edittali si aprirebbe la strada a sperequazioni tali da finire con il
condannare il sistema sotto il profilo della proporzione ed omogeneità95. In materia di
sanzioni sarebbe, quindi, più coerente con gli stessi obiettivi di
armonizzazione/unificazione stabilire a livello europeo non le comminatorie editali, ma
standards flessibili di riferimento capaci così di adattare la pena alle peculiarità locali96.
92
Su tale necessità v., in particolare, A. BERNARDI, L’armonizzazione delle sanzioni in Europa: linee
ricostruttive, in G. GRASSO - R. SICURELLA (a cura di), Per un bilancio del progetto europeo. Esigenze
della tutela degli interessi comunitari e nuove strategie di integrazione penale, Milano, 2008, p. 436; M.
PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di Lisbona: il
rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 674.
93
Cfr. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di
Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 677.; C. SOTIS, Il Trattato di
Lisbona, cit., pp. 1159 ss.
94
Cfr. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di
Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 676.
95
Cfr. C. SOTIS, Le novità, cit., pp. 154 ss.; ID., Il Trattato di Lisbona, cit., pp. 1159 ss.
96
In tal senso, v. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al
Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 677.; C. SOTIS, Le
novità, cit., pp. 154 ss.; ID., Il Trattato di Lisbona, cit., pp. 1159 ss.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
49
5.2 L’armonizzazione mediante regolamenti: la competenza ‘quasi diretta’ stabilita
dall’art. 86 TFUE
Sicuramente molto più incisive sugli ordinamenti penali nazionali degli Stati membri
potranno rivelarsi le scelte di politica criminale prefigurate dal Trattato di Lisbona in
relazione alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea.
Va preliminarmente osservato come gli interessi finanziari siano interessi
istituzionalmente europei, di pertinenza diretta cioè della stessa Unione. In effetti,
avendo essa la disponibilità d’impiego di un consistente budget finanziario per i suoi
scopi, si pone la necessità di apprestare una tutela penale contro le possibili aggressioni
fraudolente provenienti dai propri funzionari ma anche dai funzionari e dai cittadini dei
vari Stati membri dell’Unione97.
L’art. 86 TFUE attribuisce, proprio a tal fine, all’Unione la competenza a istituire,
mediante regolamento, una Procura europea per combattere i reati che ledano gli
interessi finanziari dell’Unione (par. 1); e prevede altresì, mediante il medesimo
regolamento, la competenza a definire i reati medesimi, i cui autori dovranno essere
individuati, perseguiti e rinviati a giudizio dalla Procura europea (par. 2).
La disposizione de qua, a causa dell’ambiguo riferimento alla definizione dei reati,
ha destato non pochi dubbi in dottrina circa l’avvenuta o meno attribuzione di una
competenza penale diretta dell’Unione europea. Qualora, infatti, si interpretasse il
paragrafo 2 dell’art. 86 TFUE nel senso che l’Unione europea possa mediante la fonte
regolamentare costruire ex novo fattispecie penali in caso di lesioni di interessi
finanziari, si realizzerebbe un effetto davvero dirompente. La diretta applicabilità
propria della fonte utilizzata comporterebbe, infatti, l’ingresso di fattispecie penali di
pura creazione europea negli ordinamenti interni, “by-passando” quel meccanismo di
recepimento necessario per le direttive di armonizzazione penale, che, secondo la Corte
di giustizia e parte della dottrina, renderebbe l’esercizio della competenza penale
indiretta compatibile con il principio di legalità.
Con specifico riguardo alla disposizione espressa dall’art. 86.2 TFUE è stata
elaborata di recente in dottrina98 una ricostruzione secondo la quale la norma in oggetto
attribuirebbe all’Unione, limitatamente alla tutela degli interessi finanziari, la
competenza ad adottare regolamenti in materia penale, ma con esclusivo riferimento alla
definizione dei soli precetti e non anche delle relative sanzioni. La suddetta tesi si
incentra tutta su di una puntuale analisi del testo della norma. Più precisamente si
osserva che l’espressione “definizione di reato” non potrebbe assumere altro significato
se non quello di “previsione degli elementi costitutivi di reato”. La norma, dunque, se
da un lato sembra attribuire all’Unione piena competenza a definire quali
comportamenti lesivi degli interessi finanziari siano reati (definizione dell’area del
97
Quali ad esempio la truffa nelle erogazione di fondi europei, la corruzione di funzionari europei ecc.
Qualcosa di simile si può dire anche a proposito della tutela dell’euro che – in quanto moneta unica – si
pone quale oggetto di un’esigenza di tutela che non può che essere propria dell’Unione come tale.
98
Cfr. C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., pp. 1160 ss.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
50
penalmente rilevante), dall’altro, tuttavia, non le attribuirebbe anche la potestà punitiva.
In tal senso si argomenta, infatti, che la disposizione farebbe riferimento al solo
concetto di “reati che ledono gli interessi finanziari quali definiti dal regolamento”. Non
vi sarebbe, dunque, alcun esplicito riferimento alle definizioni delle sanzioni. Il concetto
non potrebbe, peraltro, essere neppure ritenuto implicitamente sottointeso e ciò perché
da una parte – come detto - occorre valorizzare il dato testuale (orfano di tale
previsione) e dall’altra il legislatore del Trattato di solito fa riferimento al diverso
sintagma “definizione dei reati e delle sanzioni”. Quanto appena detto si evince
chiaramente proprio dal raffronto con il sopra analizzato art. 83 TFUE, in cui a più
riprese si chiamano in causa sia i reati sia le sanzioni99. Quindi, non si può ritenere che
il solo riferimento alla capacità di definire i reati comprenda anche la capacità di
stabilire le pene, visto che non è per nulla scontato che alla competenza a stabilire
precetti da sanzionare penalmente corrisponda anche la competenza a stabilire le pene
che devono in concreto essere inflitte a chi ha violato quei precetti. Invero, non vengono
sottaciute neppure le significative differenze tra le diverse versioni linguistiche del
Trattato nelle quali il participio “definiti” non sempre risulta riferito al sostantivo
“reati”. Differenze, queste, così rilevanti da condannare senza possibilità di appello il
testo all’equivocità, con la conseguenza che non si potrebbe proprio ritenere che questa
disposizione costituisca la base giuridica attraverso cui attribuire competenza penale
diretta all’Unione europea100.
L’art. 86.2 TFUE conferirebbe, dunque, una competenza a stabilire i precetti
penalmente rilevanti, mentre non riconoscerebbe anche la competenza alla definizione
delle pene, salva restando la possibilità di norme minime in tema di sanzioni. In tal
senso si è, infatti, affermato che lo stesso regolamento nell’individuare il
comportamento lesivo di interessi finanziari dell’Unione da ritenersi reato, potrebbe poi
prevedere in materia sanzionatoria delle norme minime in tema di sanzioni (ad esempio
la tipologia di pene, al limite i meccanismi di conversione e i minimi dei massimi
edittali, secondo un meccanismo ormai ben oliato), demandando, però, alla legge
nazionale di stabilire nel concreto la tipologia ed il funzionamento delle pene
comminate e da applicarsi101 . Ecco, dunque, il riconoscimento di una competenza
penale non diretta ma ‘quasi diretta’ in capo all’Unione europea. Per questa via viene, di
conseguenza, meno l’esigenza di affrontare la questione di compatibilità dell’art. 86.2
TFUE con l’art. 25, comma 2, cost., poiché in questo modo il reo verrebbe comunque ad
essere punito in forza di una legge dello Stato entrata in vigore prima del fatto
commesso.
99
Si tratta in buona sostanza di effettuare una interpretazione sistematica dell’espressione contenuta
nell’art. 86.2 TFUE alla luce delle altre disposizioni del Trattato ed in particolare dell’art. 83 TFUE. Per
una diffusa analisi del disposto di cui all’art. 83 TFUE e per la distinzione tra reati e sanzioni si rinvia a
quanto osservato nel paragrafo precedente.
100
In tal senso, oltre a C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea,
cit., pp. 1159 ss, v. anche F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 131 s.
101
Cfr. C. SOTIS, Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., pp. 1159 ss.
Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2011
51
Questa articolata impostazione interpretativa ci sembra in linea di massima
assolutamente condivisibile sia sul piano della ricostruzione testuale e sistematica del
dato normativo, sia negli esiti a cui è giunta. Si rendono, tuttavia, necessarie alcune
precisazioni.
Posto che i regolamenti non possono – proprio perché direttamente applicabili –
produrre alcun effetto nel senso dell’incriminazione, i loro precetti, dunque, pur
direttamente efficaci devono essere “fatti propri” e muniti di sanzione penale da parte di
un atto legislativo interno. A questo scopo viene in gioco proprio quel particolare
meccanismo di integrazione costituito dal rinvio o richiamo effettuato dalla norma
interna penale alla fonte europea. La disposizione normativa penale nazionale viene ad
assumere, così, una funzione e una struttura meramente sanzionatoria di una disciplina
extrapenale interamente contenuta nella fonte europea. Poiché la norma legislativa
interna si limita, in definitiva, ad apporre una ‘clausola sanzionatoria’ al regolamento, è
chiaro che è quest’ultimo ad assumersi il compito pressoché esclusivo di configurare il
precetto (che diviene poi) penale102 .
Come noto, il rinvio integrale al regolamento può presentare una duplice natura. Nel
caso, infatti, di rinvio recettizio la norma interna sanzionatoria fa proprio il contenuto di
un regolamento preesistente e perfettamente individuato in tutti i suoi estremi. A ben
vedere la suddetta tecnica di integrazione (rectius “identificazione”), se da un lato si
presenta immune da vizi o difetti di legalità, dall’altro si rivela, tuttavia, difficilmente
praticabile dal punto di vista dell’Unione. Infatti, la recezione non solo comporta
l’impossibilità di un adeguamento automatico agli eventuali successivi prodotti
normativi della fonte europea, essendo la norma interna per così dire “bloccata” sul
contenuto normativo a suo tempo recepito, ma implica soprattutto l’impossibilità di
sottoporre il regolamento – in quanto trasformato in diritto interno – all’interpretazione
pregiudiziale della Corte di giustizia103. Tanto che quest’ultima ha ritenuto illegittima la
pratica di trasformare i regolamenti europei in diritto interno. Nel caso, invece, di rinvio
formale o mobile (cioè non al contenuto ma alla fonte) la norma richiamante sarà in
grado di accogliere di volta in volta, anche in futuro, il prodotto normativo così come
proverrà dalla fonte europea e per il solo fatto di venire ad esistenza. Si tratterebbe, in
altre parole, di un rinvio al potere normativo della fonte comunitaria. Se questa tecnica
d’integrazione si presenta in perfetta rispondenza con i principi e le esigenze europee,
essa risulta per contro fortemente problematica sotto il profilo della legalità penale.
In conclusione, dunque, l’art. 86 TFUE, pur con i suoi limiti ed aporie, finisce con il
rappresentare una norma fondamentale nella prospettiva del rafforzamento della politica
criminale dell’Unione europea. Dalla politica intergovernativa delle decisioni-quadro si
è, infatti, passati alle direttive per giungere, infine, a legittimare, in materia penale, la
fonte europea che presenta da sempre la maggiore forza di penetrazione nei sistemi
nazionali. Questo dato segnala, dunque, una tendenza alla localizzazione a livello
sovranazionale europeo delle scelte di politica criminale rispetto alla tutela di interessi
102
103
Sulla specifica problematica v., fra tutti, F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 136 s.
Cfr. F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 136 s.
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essenziali per la vita stessa dell’Unione, ma non si può ritenere che ci si sia spinti fino al
riconoscimento di una competenza penale diretta dell’Unione104.
6. Competenza penale diretta dell’Unione europea
Le ragioni che non possono che condurre all’esclusione di una competenza diretta
dell’Unione europea in materia penale, si fondano ed articolano essenzialmente su tre
diverse argomentazioni. E’ d’uopo pertanto, seppur sinteticamente ripercorrerle.
In primo luogo, è opportuno considerare e valorizzare un dato di tipo formaleestrinseco che, seppure apparentemente ovvio, risulta spesso trascurato nelle riflessioni
sul tema. Nessun organo dell’Unione europea possiede, infatti, una legittimazione ad
emanare direttamente norme incriminatici, sia perché i trattati istitutivi non hanno mai
attribuito siffatti poteri agli organi comunitari, sia perché lo stesso trattato UE non
consente di fondare una competenza penale dell’Unione. Mancano, quindi, riferimenti
normativi a cui agganciare la legittimazione degli organi dell’Unione europea ad
emanare norme incriminatici, destinate a trovare diretta applicazione innanzi alle
autorità giurisdizionali europee o a quelle dei singoli Stati nazionali. In tali termini si è
pronunciata anche la stessa Corte di giustizia in una storica sentenza in cui si è
affermato che «una direttiva comunitaria non può avere l’effetto, di per sé ed
indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua
trasposizione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono
in violazione delle sue disposizioni» 105 . Non sembra che un dato contrario possa
peraltro desumersi dagli articoli 261 e 86.2 TFUE. La prima disposizione richiamata –
nella nuova versione introdotta dal Trattato di Amsterdam e consolidata dopo il Trattato
di Lisbona - si limita, infatti, a stabilire che i regolamenti comunitari possono prevedere
“sanzioni” destinate ad essere applicate dalla Corte di giustizia. Il generico riferimento
alle “sanzioni” e l’omessa menzione, quindi, della possibilità per gli organi comunitari
di irrogare “sanzioni penali” inducono – oggi pressoché unanimemente - a ritenere che
con la disposizione de qua si sia inteso semplicemente confermare la titolarità in capo
agli organi dell’Unione della sola potestà sanzionatoria amministrativa e non anche
penale. Quanto all’ambiguo disposto di cui all’art. 86.2 TFUE, in attesa che il
legislatore europeo e, ancor più, la Corte di giustizia – il cui intervento sarà
presumibilmente presto sollecitato, qualora un regolamento ai sensi della suddetta
norma sia effettivamente adottato - offrano spunti chiarificatori, si è per ora portati a
ritenere che non abbia attribuito all’Unione europea una competenza penale diretta. Ciò
può ragionevolmente affermarsi sulla base delle sopra ripercorse ragioni che
renderebbero coerente la suddetta limitazione con il significato testuale e sistematico
della disposizione normativa.
104
V., sul punto, contra M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di
giustizia al Trattato di Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 678;
G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit., pp. 64 s.
105
CGCE 11 maggio 1987, 14/86.
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In secondo luogo, assume centrale importanza nella negazione di una competenza
penale diretta in capo agli organi dell’Unione una argomento ‘interno’ legato alla ratio
sostanziale-costituzionale della riserva di legge statuale. Più precisamente, l’adozione di
fonti primarie interne di attuazione (seppur meramente formale) degli obblighi di
incriminazione comunitari, risulta essere ancora e nonostante l’attuale crisi della legalità
penale nazionale un tratto imprescindibile del nostro sistema. Se, infatti, da un lato può
dirsi in qualche modo ridimensionato a livello interno il fondamento garantista
democratico-procedurale legato alla riserva di legge in materia penale – con
conseguente pretestuosità di quelle obiezioni fondate su un (asserito) deficit
rappresentativo comunitario –, dall’altro lato si assiste ad un progressivo rafforzamento
della ratio sostanziale-costituzionale sottesa al suddetto principio, la quale finisce con il
divenire il solo irrinunciabile fondamento. La conservazione del principio di riserva di
legge in materia penale rappresenta oggi, dunque, un tratto imprescindibile per il
mantenimento di quella garanzia per i cittadini rappresentata dal controllo della Corte
costituzionale sulla fonte primaria interna. E’ evidente, infatti, che ove si aprisse alla
possibilità di introdurre norme incriminatici da parte di fonti europee dotate di efficacia
diretta all’interno degli Stati membri - risultando così svincolate da qualsiasi forma di
‘mediazione interna’ - si otterrebbe, quale conseguenza, che il controllo della Corte
costituzionale verrebbe inesorabilmente meno o quantomeno risulterebbe
completamente snaturato. Non sembra neppure tenere, quale possibile obiezione alla
suddetta ricostruzione, la riconosciuta possibilità della Corte costituzionale di ricorrere
alla c.d. teoria dei controlimiti. Attraverso la suddetta teoria, come noto, la supremazia
del diritto dell’Unione è stata, infatti, mitigata dall’affermazione – in chiave oppositivogarantista106 – del principio per cui, ove vengano in considerazione principi supremi o
diritti inviolabili, il presidio giurisdizionale del controllo accentrato di legittimità
costituzionale non può essere in alcun modo by-passato o sostituito dall’attività del
giudice107. Orbene, a ben vedere, la teoria dei controlimiti si pone quale rimedio del
106
Cfr. M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., p. 101, secondo cui nel
cammino comunitario della giurisprudenza costituzionale è ravvisabile una «intera generazione di casi in
cui la Corte, se con una mano accondiscende alle esigenze comunitarie, con l’altra limita o argina le
proprie concessioni». In tal senso v. anche A. CARDONE, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello
dei), in Enc. dir., in corso di pubblicazione.
107
La compiuta elaborazione dei “controlimiti” all’ingresso del diritto dell’Unione viene effettuata
dalla Corte in una ormai celebre sentenza del 1973, in cui si legge che deve escludersi che le limitazioni
di sovranità consentite dall’art. 11 cost. «possano comunque comportare per gli organi della C.E.E. un
inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti
inalienabili della persona umana» (C. cost. 27 dicembre 1973, n. 183, in Giur. cost., 1973, pp. 2401 ss.).
La stessa Corte costituzionale ha, poi, mostrato di ritenere «improbabile» (C. cost. 8 giugno 1984, n. 170,
in Giur. cost., 1984, pp. 1098 ss.) l’ipotesi che il diritto dell’Unione violi i principi supremi o i diritti
inviolabili ma ha comunque precisato in una successiva, e altrettanto nota, sentenza del 1989 che «quel
che è sommamente improbabile è pur sempre possibile» e che la propria competenza non concerne solo il
controllo sul sistema comunitario nel suo complesso ma si estende a verificare «verificare, attraverso il
controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa
è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona
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tutto residuale e marginale sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo rispetto
alla funzione per così dire “ordinaria” del controllo di costituzionalità delle norme
espletato dalla Corte costituzionale. Inoltre, all’operatività di tali limiti osterebbe in
materia penale, oltre alla difficile configurabilità del contrasto con i diritti inviolabili, la
circostanza che la Corte, fin dalla notissima sentenza del 1973, abbia escluso in forza
dell’argomento letterale tratto dall’art. 134 cost. la possibilità che, sempre per il tramite
della legge di esecuzione, possa essere controllato il rispetto dei controlimiti non solo da
parte dei trattati ma anche da parte degli atti del diritto derivato e, in particolar modo dei
regolamenti 108 . Ammettere, dunque, una competenza penale diretta europea
significherebbe in buona sostanza rinunciare a quel pregnante controllo ed indirizzo
espletato dalla Corte costituzionale, la quale verrebbe conseguentemente a ricoprire un
ruolo del tutto marginale nel sistema.
Va, infine, osservato che d’altra parte, anche se i trattati contenessero una previsione
che in modo espresso ed inequivoco conferisse una competenza penale diretta alle fonti
comunitarie, le norme incriminatici eventualmente emanate da tali fonti non potrebbero
avere ingresso nel nostro ordinamento perché in contrasto con il principio costituzionale
della riserva di legge in materia penale. Come, infatti, ha ripetutamente affermato la
Corte costituzionale italiana, «l’ordinamento statale non si apre incondizionatamente
alla normativa comunitaria, giacché in ogni caso vige il limite del rispetto dei principi
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della
persona umana, con conseguente sindacabilità […] della legge di esecuzione del
trattato»109. E fra ‘i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale’ che
segnano un limite invalicabile all’ingresso di norme europee nell’ordinamento un posto
primario compete proprio al nullum crimen nulla poena sine lege, come garanzia
costituzionale-sostanziale prima ancora che democratico-procedurale per il cittadino e la
sua libertà personale110.
umana» (C. cost. 21 aprile 1989, n. 232, in Giur. cost., 1989, pp. 1001 ss.). Sul punto v., per tutti, A.
CARDONE, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), cit.
108
Soluzione peraltro questa criticata dalla dottrina maggioritaria, tra cui M. CARTABIA, Nuovi
sviluppi nelle «competenze comunitarie» della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1989, pp. 1012 ss.; P.
PERLINGERI, Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo-comunitario delle fonti,
Napoli, 1992, pp. 109 ss.; G. GAJA, La Corte costituzionale di fronte al diritto comunitario, in La
dimensione internazionale ed europea del diritto, pp. 267 ss.. Contra SORRENTINO, La rilevanza delle
fonti comunitarie nell’ordinamento italiano, in Dir. comm. intern., 1989, pp. 455 ss, secondo cui il
controllo sul rispetto dei controlimiti da parte dei regolamenti deve essere assicurato dal giudice comune
attraverso la disapplicazione.
109
Così da ultimo Corte cost. 18 aprile 1991 n. 168, in Giur. cost., 1991, p. 1409 ss., in particolare p.
1414.
110
Come si è felicemente affermato in dottrina, “il principio di legalità, in quanto rappresenta un
momento essenziale dei rapporti tra autorità e libertà, costituisce sicuramente l’espressione di un diritto
fondamentale”. G. GRASSO, Relazione di sintesi, in La lotta contro la frode agli interessi finanziari della
Comunità europea tra prevenzione e repressione: l’esempio dei fondi strutturali, a cura di G. Grasso,
Milano, 2000, p. 398. V. anche sul punto F. PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 131; G. MARINUCCI
- E. DOLCINI, Corso di diritto penale, cit. p. 63.
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7. Considerazioni conclusive
L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia e le nuove disposizioni
introdotte dal Trattato di Lisbona esprimono una linea unitaria di sviluppo nella
direzione del rafforzamento progressivo della politica criminale europea, nella
consapevolezza che la tutela di interessi fondamentali dell’Unione, siano essi interessi
istituzionali o interessi a dimensione transnazionale, richiedono politiche comuni di
intervento, per le quali in alcuni casi già la prospettiva europea appare troppo ristretta.
E’ da attendersi che questa dislocazione a livello sovranazionale-europeo delle scelte
politiche sulle strategie penali di tutela abbia nei prossimi anni un impatto significativo
sulle legislazioni penali interne: le scelte fatte a livello dell’Unione europea tramite
direttive si tradurranno, infatti, in obblighi comunitari di criminalizzazione e, per effetto
del parametro interposto dell’art. 117 Cost., in obblighi costituzionali di tutela penale. Il
rafforzamento degli strumenti di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali non
è affatto casuale, ma rispecchia il progressivo rafforzamento della base democratica
della legalità dell’Unione europea che attraverso il potenziamento della procedura di
codecisione, prima di Lisbona, e nella nuova procedura legislativa ordinaria, dopo
Lisbona, riconosce al Parlamento europeo il ruolo effettivo di legislatore111. Pur tuttavia,
se si deve salutare favorevolmente a livello locale-nazionale una politica di dialogo ed
“armonizzazione”, questa non potrà tradursi in una vera e propria “uniformazione” con
il riconoscimento in capo alle istituzioni europee di una competenza penale diretta: pena
la vanificazione dell’istanza garantista sostanziale-costituzionale sottesa al corollario
della riserva di legge statale e la conseguente estromissione del vigile controllo della
Corte costituzionale.
Troviamo in definitiva confermato ancora una volta quel vincolo strettissimo che
avvince le garanzie della legalità penale alle scelte politiche sulla fonte deputata ad
incidere nella materia penale.
111
Cfr. M. PELISSERO, Dalle sollecitazioni della giurisprudenza della Corte di giustizia al Trattato di
Lisbona: il rafforzamento della politica penale dell’Unione europea, cit., p. 680.
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