Autonomia razionale della religione

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Autonomia razionale della religione
Le Opere scelte di Italo Mancini, riproposte da Morcelliana
I
talo Mancini (1925-1993) è stato una delle figure di maggior rilievo nel panorama filosofico
italiano della seconda metà del
Novecento. Per oltre un trentennio, dopo la formazione e un primo periodo
d’insegnamento presso l’Università cattolica di Milano, ha insegnato Filosofia
della religione, Filosofia teoretica e Filosofia del diritto nell’Università di Urbino dove, grazie a un sodalizio intellettuale con l’allora rettore Carlo Bo, ha
fondato l’Istituto superiore di Scienze
religiose, che si sta avviando nel prossimo anno a celebrare il trentennale dell’attività, e l’annuario di filosofia e teologia Hermeneutica.
Protagonista
del rinnovamento
Mancini fu uno dei protagonisti nel
periodo postconciliare del rinnovamento della cultura filosofica e teologica del
cattolicesimo italiano, da una parte grazie a un impegnato confronto intellettuale con la teologia evangelica contemporanea che lo portò a far conoscere in
Italia la produzione di autori come K.
Barth, D. Bonhoeffer, R. Bultmann, dal-
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l’altra per l’ampia ricognizione su numerosi autori e luoghi del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, con
l’obiettivo di una valorizzazione critica
di quest’ultimo che superasse pregiudizi
e chiusure.
In questo sforzo scientifico Mancini,
che aborriva ogni forma di accademismo, seppe travalicare i limiti della discussione accademica per impegnarsi
nell’elaborazione culturale «dal basso»,
intervenendo attivamente nella discussione pubblica sulle molte questioni che
tra la fine degli anni settanta e gli inizi
degli anni ottanta agitavano la coscienza politica e civile italiana.
In particolare va ricordato il suo impegno per un franco dialogo tra cristianesimo e marxismo, l’opzione a favore
della non violenza, la riflessione, per
molti versi ancora oggi attuale, sul rapporto tra forme del cristianesimo e cultura. A questa accentuazione del carattere «pratico» e della funzione civile del
sapere elaborato in sede accademica si
deve anche l’interesse di Mancini per la
filosofia del diritto, che ha occupato l’ultimo quindicennio della sua attività intellettuale e a cui egli si è applicato con
l’intento di offrire, soprattutto alle giovani generazioni, un orientamento su
questa disciplina che superasse la diastasi tra diritto e morale prodottasi in
età moderna e contemporanea.
Proprio per onorare la memoria di
Italo Mancini e per contribuire alla diffusione del suo pensiero, l’Istituto superiore di Scienze religiose di Urbino ha
promosso a partire dal 2007 la ripubblicazione, presso l’editrice Morcelliana di
Brescia, di alcune sue opere. Si tratta
nel complesso di sei opere – Filosofia
della religione (1968), Teologia, ideologia, utopia (1974), Novecento teologico
(1977), Filosofia della prassi (1986),
L’ethos dell’Occidente (1990) e il postumo Frammento su Dio (2000) – che sono
le più importanti per quanto riguarda la
riflessione manciniana nell’ambito della
filosofia della religione, del rapporto tra
teologia e filosofia e della filosofia del
diritto.
In esse si troverà delineato un percorso intellettuale complesso, ricchissimo di mediazioni culturali, continuamente alla ricerca di una sintesi, ma al
tempo stesso consapevole del carattere
irrimediabilmente frammentario del
pensiero umano, soprattutto quando
voglia tentare di elevarsi all’Assoluto.
Più in generale da queste opere si trarrà
rinnovata occasione per comprendere le
caratteristiche di una stagione della cultura cattolica, quella appunto postconciliare, che ha sì prodotto un necessario
«aggiornamento» sul terreno filosofico
e teologico, ma che al tempo stesso si è
trovata in difficoltà nell’evitare che quest’ultimo operasse una vera e propria
cesura con forme del sapere consolidate
che si alimentavano della sintesi tra ellenismo e cristianesimo.
L’eredità del la filosofia
classica e la profezia
cristiana
Mancini, in tutto il suo itinerario intellettuale, ha avvertito fortemente la
tensione fra l’eredità perenne della filosofia greca classica, la profezia cristiana
e il pensiero critico moderno e ha scelto
consapevolmente di mantenere questa
tensione, secondo quella «logica dei
doppi pensieri» che costituisce un vero e
CXVIII
proprio leitmotiv dello scorcio finale della sua esistenza come filosofo e come
credente.
Il primo volume delle Opere scelte di
Mancini, pubblicato alla fine del 2007 e
dunque già disponibile al lettore, è la Filosofia della religione. Il volume, corredato da un’introduzione di Piergiorgio
Grassi che esplicita i contenuti del testo
e li inserisce nel contesto più ampio della riflessione manciniana dedicata alla
filosofia della religione, ripropone al
pubblico, emendata da alcuni refusi, la
terza edizione uscita nel 1986 per i tipi
dell’editrice Marietti e oramai esaurita.
La scelta d’iniziare la pubblicazione
delle opere scelte di Mancini con questo
testo, uscito in prima edizione nel 1968,
è stata una scelta obbligata. Esso non
rappresenta, infatti, soltanto l’espressione matura della prima fase del pensiero
di Mancini, in cui convergono le prospettive di opere precedenti come Ontologia fondamentale (1958) e Linguaggio
e salvezza (1964), ma anche l’opera con
la quale egli, poco più che quarantenne,
s’impose al mondo accademico italiano
come uno fra i massimi studiosi di filosofia della religione e rimane, probabilmente, il contributo teoretico di maggior rilievo della sua lunga attività di
studioso.
Chiunque abbia avvicinato la Filosofia della religione manciniana conserva
il ricordo di un’opera ardua, spesso di
difficile lettura, ma che ripagava gli
sforzi di comprensione con l’abbondanza delle prospettive teoriche e con l’originalità della sua impostazione. Mancini, in effetti, con quest’opera si prefiggeva l’ambizioso scopo di dare una fondazione epistemologica a una disciplina, la filosofia della religione appunto,
che in età moderna è stata compresa soprattutto in senso riduttivo per la religione, ovvero come teoria filosofica precostituita applicata a una o più religioni
storiche.
L’intento fondamentale di Mancini
era invece quello di rendere ragione dell’autonomia del fatto religioso e al tempo stesso di offrirne uno schema di possibilità razionale. Ciò lo ha portato non
soltanto a prendere le distanze dalle varie forme del razionalismo moderno in
filosofia della religione, ma a stabilire
una linea di demarcazione netta tra «filosofia della religione» e «filosofia religiosa», intendendo con quest’ultima
quella riflessione filosofica che culmina
nell’idea dell’Assoluto o di Dio.
CXIX
Il debito bar thiano
Nei confronti della «filosofia religiosa» egli ha fatto valere la critica teologica della religione che K. Barth ha esemplarmente condotto nella seconda edizione del Römerbrief (1922), e cioè quella
critica che, sulla scia di L. Feuerbach,
considera l’idea metafisica di Dio, e il
culto religioso che ne consegue, come
frutto di un’illusione, di un meccanismo
di proiezione del sé in una realtà esteriore. Questa mossa metodologica preliminare, che occupa il primo capitolo della
Filosofia della religione, è finalizzata ad
acquisire il corretto punto di partenza,
secondo Mancini, della filosofia della religione: quello che comprende la religione propriamente come kérygma o come
«rivelazione», cioè come auto-manifestazione di Dio, come atto divino indeducibile a partire dal mondo e dall’uomo. Sotto questo punto di vista la religione, afferma Mancini, «è parola di
Dio, parola non in senso verbalistico o
nozionale, ma eventuale, che partita unilateralmente da lui [da Dio] incontra
l’uomo e ne perturba eteronomicamente
l’esistenza».1
Il «debito barthiano», confessato qui
da Mancini, è evidente e certo può sorprendere quando esso venga a rappresentare proprio il punto di partenza di
una filosofia della religione: questa sorpresa, tuttavia, risulta in parte attenuata
se si tiene presente che nel richiamarsi a
Barth Mancini ha inteso, in realtà, radicalizzare un approccio «ermeneutico»
alla religione, tale cioè da privilegiare la
comprensione nel suo senso originario
senza pretendere di spiegarlo, riducendolo a qualcos’altro da sé.
Nel fare questo, al di là della stridente contrapposizione che Mancini, sulla
scia Barth, non rinuncia a far valere, un
tale approccio, almeno dal punto di vista
metodologico, non appare strutturalmente dissimile da quello espresso da F.
Schleiermacher nei suoi Discorsi sulla religione, oppure dalla fenomenologia della religione novecentesca. La sua radicalizzazione consiste, piuttosto, nella riconduzione senza incertezze del concetto di
religione sotto quello, soprannaturalisticamente connotato, di «rivelazione» e
nella conseguente individuazione della
«fede» come sua modalità conoscitiva.
Ciò fa sì che, secondo Mancini, filosofia della religione e teologia siano di fatto
accomunate dalla considerazione del medesimo oggetto, per quanto distinte siano
poi nella prospettiva – epistemologico-
formale la prima, dogmatico-contenutistica la seconda – con cui lo trattano.
Il metodo
Il significato metodologico di questa
scelta è evidente: tra filosofia e religione
vi è una netta distinzione, sicché né la
prima può trapassare nella seconda, come accade nella filosofia religiosa, né la
seconda può essere appiattita sulla prima, come accade nelle varie forme di
critica filosofica alla religione.
La filosofia della religione ha, secondo Mancini, il difficile compito di preservare la distanza da questi due estremi. Al
tempo stesso, da ciò deriva anche un’acuta consapevolezza dell’ambiguità del
fatto religioso, qualora lo si consideri soltanto nella sua prospettiva antropologica. Da questo punto di vista l’autonomia
della religione a livello coscienziale, per
come è ammessa per esempio nella dottrina dell’a priori religioso d’ispirazione
neo-kantiana, o l’essenza del religioso intuibile sul terreno storico e passibile di
descrizione fenomenologica, non è ancora indice della verità della religione.
Quest’ultima può essere garantita
soltanto dall’iniziativa assoluta di Dio,
ma proprio per questo essa è sottratta di
principio a ogni forma di deduzione razionale e può soltanto venir riconosciuta
liberamente. Si tratta di quel «fondamento ermeneutico» della filosofia della
religione che si distingue da un fondamento antropologico-metafisico per tre
caratteristiche che Mancini richiama in
conclusione della sua ricerca: «L’apertura al tempo di fronte alla definitività dell’essenza; l’eventualità storicamente accidentale di fronte alla necessità logica;
la libertà e il rischio, da cui soltanto può
sorgere un atteggiamento di fede, di
fronte all’evidenza».2
Naturalmente quello ermeneutico è
il fondamento su cui si può erigere
un’autentica filosofia della religione, ma
non risolve in sé tutta la filosofia della religione. Nel senso che Mancini privilegia
di «ermeneutica», cioè quello diltheyano
di teoria del sapere storico, il problema
che si pone è quello di conferire validità
a fatti ed eventi individuali dotati di un
carattere libero e imprevedibile. Il «fondamento ermeneutico» non collima
dunque con una forma di «fideismo»:
questa è piuttosto la posizione di Barth,
da cui Mancini prende le distanze proprio in base alla sua comprensione dell’ermeneutica applicata alla filosofia della religione.
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In quest’ultima, una volta riconosciuta l’infondabilità per mezzo della ragione dell’evento storico della rivelazione, si apre lo spazio per la messa in luce
della sua non assoluta estrinsecità all’uomo e soprattutto per una sua giustificazione per mezzo della teologia filosofica.
Il primo punto, a dire il vero, è soltanto richiamato da Mancini mediante il
tema bultmanniano del «rapporto vitale
(Lebensbezug)» tra parola di Dio ed esistenza umana, un tema che però fa
emergere, proprio nel significato polemico che esso assume di fronte al «positivismo della rivelazione» barthiano, la dimensione, costantemente ribadita dalla
teologia cattolica, dell’analogia tra Dio e
mondo e della naturale aspirazione dell’uomo a estinguere la propria inquietudine in Dio.
Il secondo punto, invece, è esplicitamente trattato da Mancini nell’VIII capitolo, intitolato Il principio della creazione, dove egli riprende, con qualche aggiunta e variante, la «rigorizzazione»
delle prove classiche dell’esistenza di Dio
proposta dal maestro Gustavo Bontadini, la quale arriva all’affermazione di
Dio come creatore del mondo facendo
leva sulla contraddizione dell’esperienza
segnata dal divenire. Per mezzo di questa
peculiare argomentazione metafisica,
Mancini ritiene d’aver prodotto quello
«schema di possibilità» del fatto religioso
che, accuratamente distinto dalla sua
realtà, offre una motivazione razionale
in grado di «garantire» la sua interpretazione, sempre libera e rischiosa, da parte
del credente.
Si tratta, tuttavia, di uno schema di
possibilità razionale che, contrariamente
a quello che avviene nelle filosofie della
religione d’impronta neoscolastica, non
viene prima della fede, ma dopo, ossia
una volta che il riconoscimento della verità del fatto religioso si è autonomamente prodotto. Questa la proposta della Filosofia della religione manciniana, che
qui abbiamo assai sinteticamente restituito.3
Nel dibat tito at tuale
Occorre ora chiedersi, a distanza di
quarant’anni dalla prima edizione di
quest’opera, quale contributo essa possa
ancora offrire alla discussione attuale in
filosofia della religione. A nostro avviso,
l’elemento di maggior interesse consiste
nell’esemplare salvaguardia dell’autonomia della religione e nella sua eccedenza
di significato rispetto a qualsiasi tentati-
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vo d’interpretazione razionalistico-funzionalistica.
La filosofia della religione di Mancini, sotto questo aspetto, ha colto bene il
fallimento dei tentativi novecenteschi di
liquidare, sull’onda lunga della modernità, i contenuti della religione tramite
una loro traduzione filosofica, e ha mostrato, più in generale, i limiti di ogni
tentativo di fondazione metafisico-antropologica della religione. L’attuale dibattito sul ruolo pubblico delle religioni,
quando non sia giocato semplicemente
sul registro ambiguo della loro funzione
civile, muove in gran parte dal rinnovato
riconoscimento della rilevanza cognitiva
dei contenuti religiosi e della loro capacità di orientare legittimamente la vita
delle persone, almeno tanto quanto lo
fanno la politica, l’economia e la scienza.
Al tempo stesso Mancini ha messo in
luce con grande lucidità il rischio che è
sotteso a quelle prospettive di studio sulla religione che pretendono di osservarla, per così dire, «da nessun luogo» e finiscono così spesso col proporre artificiose teorie sulla sua origine che ne banalizzano e in qualche caso ne ridicolizzano il significato. Si giustifica, alla luce
di ciò, l’identità del punto di partenza
della filosofia della religione con quello
della teologia cristiana che dipende, secondo Mancini, sulla scia di Barth, dalla
bontà del riconoscimento dell’indisponibilità ultima all’uomo della realtà religiosa, il che significa del riconoscimento
della sua «verità», dunque del fatto che
essa non è semplice proiezione di un desiderio umano o pur necessaria garanzia
dell’ordine sociale.
Da questo punto di vista Mancini
non ha certo condiviso la tendenza a
squalificare il sapere teologico come
«confessionale» e quindi «di parte»; al
contrario, come abbiamo detto, considerando la «fede» come la modalità conoscitiva propria dell’oggetto religioso, ha
posto le basi per il superamento di una
superficiale contrapposizione tra «ragione» e «fede» che si riverbera a livello disciplinare in quella tra «filosofia» e «teologia».
Indubbiamente molti temi che Mancini affronta nella Filosofia della religione
meritano oggi una rinnovata riflessione,
che sappia ampliare e integrare la visione che egli qui proponeva. Fra di essi si
possono menzionare il sopracitato rapporto tra ragione e fede, il tema dell’esperienza religiosa, il rapporto tra rivelazione e religione, il problema del plurali-
smo religioso, il ruolo della metafisica
nella giustificazione razionale della religione. Nell’itinerario successivo del pensiero di Mancini questo approfondimento è stato purtroppo ostacolato dal fatto
che la distinzione di principio tra filosofia e religione gli è apparsa sempre di più
come una vera e propria separazione e la
filosofia della religione, di conseguenza,
come un compito utopico.
Il punto in cui questa difficoltà si è
resa più evidente riguarda l’atteggiamento di Mancini verso la metafisica e
l’elaborazione di una teologia filosofica.
Egli ha continuato a ritenere valido il discorso metafisico bontadiniano, peraltro
non esente nella sua ultima fase da oggettive ambiguità derivanti dal confronto con il neo-parmenidismo di Severino,4 e più in generale ha continuato a ritenere ineludibile il bisogno della ragione a «dire Dio». Le pagine appassionate
del Frammento su Dio, scritte in limine
vitae, ne sono una testimonianza perfino drammatica. Al tempo stesso, sulla
scia della critica moderna alla metafisica, soprattutto kantiana, egli ha sempre
di più impostato il discorso su Dio su un
registro «dossologico» anziché argomentativo e questo, se da una parte ha
ricordato la necessità che ogni autentico
discorso su Dio debba trasformarsi in
un discorso a Dio, dall’altra non ha favorito un confronto oggettivo sui temi,
come quelli sopra richiamati, che appartengono di buon diritto alla filosofia in
religione.
Andrea Aguti
1
I. MANCINI, Filosofia della religione, Morcelliana, Brescia 2007, 145.
2
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3
Per chi voglia una maggiore ampiezza di riferimenti, si rimanda ai due fascicoli monografici,
dedicati interamente al pensiero di Italo Mancini,
di Hermeneutica, (1995) e (2004). Cf. anche A.
AGUTI, «Italo Mancini. La filosofia della religione
tra metafisica ed ermeneutica», in G. MICHELI, C.
SCILIRONI (a cura di), Filosofi italiani contemporanei, CLEUP, Padova 2004, 95-133.
4
Ampi materiali a questo riguardo per un’interpretazione criticamente avvertita dell’opera di
Gustavo Bontadini si trovano in due recenti pubblicazioni: C. VIGNA (a cura di), Bontadini e la metafisica, Vita & Pensiero, Milano 2008 e L. GRION,
La vita come problema metafisico. Riflessioni sul
pensiero di Gustavo Bontadini, Vita & Pensiero,
Milano 2008.
A p. 462: Italo Mancini.
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