L’impero zarista prima e quello sovietico poi hanno creato piccole nebulose di minoranze oppresse e perseguitate: tartari di Crimea, curdi, ingusci e ceceni del Caucaso, tedeschi del Volga, greci del Mar Nero. E ancora: bud- Lemki, così diversi così colpevoli MINORANZE testo e foto di Monika Bulaj disti calmucchi, ebrei esiliati in Siberia, mingreli, caraiti o basmac’. Si sa molto poco di questi popoli, come si sa poco dei lemki, russo-ortodossi che per secoli hanno abitato fra Polonia, Slovacchia e Ucraina uando volo di notte tra la Siberia e l’Europa centrale, e solo qualche luce interrompe il buio sterminato sotto di me, ripenso all’arcipelago dei popoli perduti dell’Est. Popoli annientati, chiusi nei gulag, deportati, dispersi, criminalizzati da Stalin e, prima, dalla Russia zarista. Una geografia affascinante, che per secoli ha disegnato piccole nebulose ai margini delle nazioni dominanti, e poi d’un tratto venne spazzata via nel secolo totalitario. Tartari di Crimea, curdi, ingusci e ceceni del Caucaso, tedeschi del Volga, greci del Mar Nero. Che ne sappiamo di loro? Niente, talvolta nemmeno il nome. Niente dei buddisti calmucchi, spediti in Siberia dalle basse terre del Volga; niente degli ebrei esiliati in Siberia in una terra di nome Birobizhan; niente mingreli, caraiti o basmac’. Non ne sapevo nulla nemmeno io, quando vent’anni fa andai alla ricerca dei lemki – detti anche ruteni – russo-ortodossi che per secoli avevano abitato fra Polonia, Slovacchia e Ucraina. Non potevo immaginare fino a che punto Varsavia ai tempi di Stalin avesse perseguitato questo popolo colpevole di essere troppo diverso. Un popolo colpevole, come molti altri, di rovinare il gioco ai geometri delle etnie, incaricati di dividere i popoli a Q 60 compartimenti stagni bene ordinati e ostili fra loro, affinché il Potere potesse più facilmente comandare attraverso la discordia. Partii, con tanto entusiasmo e incoscienza, senza immaginare che quella ricerca mi avrebbe cambiato la vita e disegnato nella mia mente una geografia completamente diversa dello spazio eurasiatico. Capii subito che stavo cercando delle ombre. Relitti di mondi estinti. Capii che anche i polacchi, gli ucraini, i tedeschi – oltre ovviamente agli ebrei – erano stati deportati a milioni. Anche gli armeni, gli zingari, i curdi, o i bulgari di Crimea. Ma la loro massa critica li aveva risparmiati dalla cancellazione totale. Questi, invece, non esistevano quasi più. Non avevano avuto nemmeno la capacità di resistenza dei Ceceni. Capii che per sapere di loro avrei dovuto parlare con gli ultimi vecchi, quelli che avevano conosciuto l’invasione tedesca e la repressione sovietica. Era l’unico modo per sapere qualcosa di questo popolo di guaritori-sciamani, cantastorie e bevitori di leggenda. Ecco come li ho conosciuti, nel 1988, millenario della Russia cristianizzata, quando per la prima volta dall’inizio del comunismo – da Kiev fino a Novgorod – le campane delle chiese poterono suonare a distesa. MINORANZE chiodi, alla stregua greca. C’è anche un mucchio di croci, rotte, con un nido d’uccello in mezzo. Solo dopo un attimo mi rendo conto che sono in un cimitero, e che tutto è stato demolito, sparso sistematicamente. Come una forza immane, come una grande iracondia, come se ci fosse bisogno di una valida ragione per compiere un tale scempio. Terra dei lemki, un pugno di terra. L’attraversi in due ore con la macchina. Qualche valle scava cautamente montagne piatte, qualche fiume rotola le pietre a nord, fino alla Vistola. Le chiese in legno con gli angeli scoloriti dalle piogge sprofondano nella terra. I meli inselvatichiti, i campanili vuoti stesi per terra; una manciata di casolari, di alcuno sono rimaste solo le mura dai tronchi marci e le finestre vuote che inquadrano il prato con l’erba alta. Jan Paszko di Bartne è un ex-prigionero di Jaworzno, una filiale di Auschwitz che è stata l’ultimo campo di concentramento costruito dal Terzo Reich. Erano terminati i MoniKa Bulaj L’ angelo Jan Paszko è un lemko e la terra dei lemki è un pezzo di Bisanzio ficcato sul confine tra la Polonia e la Slovacchia. Il vento sferza con una pioggia gelida, la strada è divenuta un torrente. Lui se ne sta con l’acqua fino alla cintola, come niente fosse, a torso nudo, insaponato. Ride di sé, di noi, della pioggia. Odora di sapone grezzo, legna bruciata, sterco di vacca, foglie marce. Indica un azzurro casolare fumante sulla collina, perché tra un po’ scomparirà nella nebbia. Quella è la sua casa. Oltre, nel campo c’è un angelo di pietra con la testa mozzata. Le ali sono accuratamente ripiegate sulle spalle. Sul prato, nei cespugli, tra i radi alberi della boscaglia, le braccia rotte dei Salvatori indicano, salutano, minacciano, spuntano dalla terra, irose come monconi di esercito sterminato in tronco. I piedi dell’unico Cristo che si è salvato con tutte le estremità perché colato col ferro, sono inchiodati separatamente alla croce, con due LEMKI, COSÌ DIVERSI COSÌ COLPEVOLI I valichi I lemki hanno ricevuto una batosta in ogni guerra. Tutti i dominatori li hanno guardati come “diversi”. Polacchi, ucraini, austriaci, tedeschi, russi. Loro si considerano come i curdi in Turchia o i “Pellerossa d’Europa”. La loro complessa identità è stata strumentalizzata per decenni, con l’avallo di teorie pseudo-scientifiche, in un vortice di follie nazionaliste, guerre e paure. Per il sospetto di alleanze con l’agonizzante zarismo, gli austriaci, nel 1914, li condussero al campo di Thalerhof, che si copre della fama di essere stato il primo campo di concentramento d’Europa. In ogni ruteno gli austriaci volevano vedere una spia. Del resto da tempo la Russia piaceva ai ruteni. Non poteva essere altrimenti: qui, sul valico di Dukielska, apparse lo zar in persona, quando nel 1849 trascinava sul Danubio il suo esercito per affogare nel sangue l’insurrezione ungherese, i barbuti preti ortodossi cospargevano l’esercito col fumo di odorose resine, con la croce d’oro benedivano i ruteni, li buttavano caramelle, cantavano in basso profondo un fervido “alliluja”, la cui eco si MoniKa Bulaj processi a Norimberga, e la Polonia comunista – oltre ai propri cadaveri e alle città rese polvere – aveva ereditato baracche, filo spinato ad alta tensione, celle di isolamento, kapò, tifo e pidocchi. Con questo sistema concentrazionario intatto, Varsavia aveva imparato da Stalin come risolvere, un volta per tutte, la questione delle minoranze. Era il 1945, lo stesso anno in cui il Parlamento comunista approvava la legge sulla “commemorazione del Martirio del Popolo Polacco e di Altri Popoli ad Auschwitz”. Come Paszko, anche altri prigionieri di Jaworzno sbattuti là per il solo fatto di essere di origine lemka e di abitare a cavallo dei Carpazi, ci mostrano sulle spalle cicatrici dei pestaggi, documenti ingialliti con le impronte digitali e una foto da cui ci guardano occhi spalancati dal terrore. “Dì anche solo una parola e ritornerai”, gli avevano detto al momento della liberazione. I sopravvissuti tacquero per quarant’anni. Ed è a me che per la prima volta in vita loro – dopo aver chiuso accuratamente le finestre come se le spie fossero ancora in ascolto – mostrano i segni tremendi dell’inferno. MINORANZE New Bedford e Nantucket” – scrisse Zygmunt Haupt – portarono nelle valli radio scricchiolanti e notizie dal mondo. Ma ogni volta gli eserciti marciavano nei valichi. Dopo la Prima guerra mondiale a Lemko è rimasto il gusto per l’etere rubato agli ospedali da campo, più forte della vodka, che provocava fantastiche visioni, e poi i cadaveri austriaci, ungheresi, russi e tedeschi, e i combattenti di entrambe le parti: polacchi, cechi e ruteni. L’operazione di Gorlice fu una delle battaglie più sanguinose della Prima guerra mondiale; sui campi rimasero 60.829 corpi insepolti, secondo lo scrupoloso rapporto del “reparto sepolcrale”, ovvero il Kriegsgraberabteilung des K. und K. Militarkommandos Krakau, secondo un’opinione comune, la migliore unità funzionante dell’esercito austro-ungarico. L’ultima iniziativa della frantumatesi monarchia – titanica, se contare progetti, denaro, materiali edili e piantine – sarà la costruzione di 365 cimiteri con la collaborazione di artisti di spicco provenienti da Cracovia, Praga, Budapest e Vienna. MoniKa Bulaj spandeva tra le montagne come un grido. I soldati dello zar Nicola, oltre alle baionette portarono le icone con San Nicola, il santo adorato dai lemki, e non colpirono nessuno con il knut, non li impiccarono al crocevia, non stuprarono le fanciulle (lo zar ci teneva al buon nome tra i fratelli slavi e per la violenza sui ruteni minacciò di morte i soldati). Sebbene la terra dei lemki sia appena una stretta fascia del boscoso pettine dei Carpazi tranciato da alcuni valichi, sebbene sia soltanto un vicolo di storia, la strada cieca che adesso s’impantana tra i cespugli, proprio questa geografia sarebbe divenuta la sua maledizione. Nelle profonde valli si può scomparire per secoli, tessere la lana, suonare le campane per le nuvole, riverire le icone, gettare i carboni ardenti nell’acqua, gridare le profezie sugli uccelli di ferro, che voleranno per il cielo e getteranno sulla gente delle uova mortali. Si può infilzare il guscio dell’uovo su un bastoncino e metterlo tra lo steccato per scacciare l’invidioso malocchio. Gli abitanti di Los, innamorati dei cavalli, allevatori di cavalli, ladri di cavalli, “come i balenieri di LEMKI, COSÌ DIVERSI COSÌ COLPEVOLI rante il buon imperatore. Da qua, per l’appunto, dal valico Lupkowski è passato il più grande esercito della Seconda guerra mondiale. Dietro a questo rimasero per terra migliaia di fibbie con la scritta “Gott mit uns”, migliaia di corpi sputati alla primavera dai campi disgelati, “urla selvagge che nelle notti inseguivano il carro, schiamazzi e rumori. Rimbombavano dietro alle spalle, schiacciavano il pane sul carro”. Di questo disordine ora nessuno avrà più la testa per occuparsene. “Animuccia, via da me” Nel 1945 migliaia di giovani lemki tornavano ai casolari costruiti con lunghi tronchi separati da argille rosse, blu e gialle. Tornavano dai lavori forzati del Terzo Reich, perché i contadini ariani che combattevano sul fronte di tutto il mondo si occupavano della definitiva soluzione delle questioni ultime, mentre in Germania erano rimaste le donne sole e i campi da seminare. Tornavano dalla prigionia tedesca perché nel ’39 avevano combattuto in difesa della patria. Dalla MoniKa Bulaj Vincitori e vinti giaceranno in fraterna pace tra sarcofaghi pseudo-egizi, vialetti serpeggianti in mezzo all’edera, anfiteatri dove meditare sul destino di entrambe le parti in lotta, torri in stile folcloristico, croci, nei quali chiunque poteva vedere con brama l’anima: il simbolo della Passione, oppure gli emblemi slavi del culto pagano miracolosamente risorti dall’aldilà. Con serietà mortale si discuteva allora nei salotti della pervinca: induce alla meditazione e si fa più abile di una rosa capricciosa. I cimiteri di Gorlice sono probabilmente l’ultimo esempio di umanesimo dell’epoca scomparsa irrimediabilmente. Tra i lemki fu destinato a durare in eterno anche il mito del buon imperatore (e dei cattivi funzionari), nonostante preti e insegnanti lemki massacrati a Thalerhof. “Non è vero che nella stessa Vienna e nelle piccole stazioncine dell’Europa centrale, l’imperatore in persona ascoltava pretese e lamentele dei contadini? Non chiedeva ‘Come va a Bartne, signor Madzik?’” Ancora nel 1958, un contadino a rischio della vita portò via dalla casa in fiamme un’oleografia raffigu- MINORANZE ubriaconi accaniti. “I lemki venivano da noi dopo il mercato a bere un tè e la guardavano in estasi; allora suo padre le gridava – vai, vai dai tuoi lemki, perché lei li amava da morire”, mi racconta nel 1992 Ester, sorella di Maria, nella lontana Anversa. Finì la guerra e Maria uscì per fare un salto alla sua osteria. Fu fucilata sulla soglia. Uscì per l’ultima passeggiata in centro il farmacista a Grybow. Fu accoltellato. Strano, brutto tempo. “Ci siamo mossi per cinque anni in un mondo di sguardi pieni d’odio, di denti stretti, carichi di gesti e di voci che svegliano l’orrore”, scriveva Ryszard Kapuscinski. “La guerra continuava dentro di noi”. I lemki tornarono dunque ai casolari dalle strisce colorate. Non li colpì né l’Olocausto (dal greco:”il sacrificio totalmente bruciato”), né la Shoah (dall’ebraico:”Disgrazia”), né il Porrajmos (nella lingua zigana:”Grande divoratore”), né l’Holodomor (in ucraino: ”Morte pestilenziale per carestia”, ovvero epidemia di fame, come se l’avesse portata un’aria malsana, come se la fame si potesse contrarre), né i Pogrom (dal MoniKa Bulaj Slovacchia perché vicina, e attaccando alle scarpe gli zoccoli a rovescio portavano di contrabbando sale e sigarette. Da Berlino, perché li aveva rapiti come volontari (ma non erano pure fratelli ruteni?) l’esercito sovietico che incalzava verso Occidente in una nuvola di polvere. Da Auschwitz, perché sopravvissuti. Altri – gli ebrei – vennero fuori dalle soffitte e dagli armadi. O dalle fosse, come Izrael Aster di Rymanow, che per oltre un anno e mezzo, nutrito dagli amici polacchi, se ne stette sotto terra come una talpa, ripetendo ogni mattina come un mantra, che poi di sicuro il mondo sarebbe stato migliore. Poi c’era Cracovia, spari, urla, la rabbia della folla polacca, “Hanno ucciso un bimbo per del pane azzimo”, “Che il sangue di Cristo cada sulle loro teste”, solai, un treno, corpi immobili degli amici ebrei allineati lungo i binari – Izrael saltò, ci riuscì, cadde, scomparve. Uscì Maria Furher dal nascondiglio, “la bella Maria dell’osteria di Grybow” dicevano gli habitué polacchi, “bella come la Madonna”, dicevano i lemki, e così coraggiosa che non faceva entrare nel locale gli LEMKI, COSÌ DIVERSI COSÌ COLPEVOLI neve. Infine una volta lo zar Nicola I fu qui: c’erano croci d’oro e incensi. Partirono oltre centomila. Si chiamava “l’evacuazione nello spirito di reciproci interessi polacco-sovietici e nello spirito dell’idea di nazione uniforme”. Nel Paese dei Soviet aprirono i vagoni, li buttarono nelle steppe, con le mani scavavano delle buche per nascondersi dal freddo, dell’erba facevano pane. “Quattordici famiglie tornavano dal Mar Nero, per quattro mesi camminarono accanto ai carri trascinati da cavalli e mucche, pagando le tangenti a soldati, impiegati, doganieri, e alle imperversanti bande. Giunti nel nostro villaggio, la milizia li ha acchiappati, derubati e così com’erano buttati sui camion, cacciati senza capre, mucche, vestiti, senza figli, come capitava, come bestie destinate a macello”. Agli altri, sulla nuova frontiera polacco-ucraina, piombavano i vagoni e li rimandavano da dove erano venuti, anche nei lager, per la fuga dal paradiso. Quelli che tornavano dai lavori forzati, dalla prigionia, da Berlino, dal contrabbando, trovavano il pane bruciato nel forno e la casa MoniKa Bulaj russo:”Distruzione”, “un colpo forte che si ripete”). Non li distrussero, sebbene ferirono terribilmente, la Prima e Seconda guerra mondiale, né ciò che vi fu nel mezzo, non era ancora giunto il momento. Non li colpirono i crimini in Volinia del 1942 e 1943, questa volta compiuti ai polacchi dai suoi vicini ucraini, né la sanguinosa vendetta dei polacchi sugli ucraini della nuova frontiera polacca stabilita nella conferenza di Yalta. Non li toccarono i sogni di un’Ucraina libera, dalla Vistola al Don. I lemki avevano una propria lingua, propri preti, proprie icone e propri miti. La fine giunse dopo Hiroshima, quando l’Europa provava ad imparare la pace. Nel 1945 a Bartno miserò un Madzik sulla sedia del campo, uno di quei Madzik che andavano dall’imperatore a Vienna a perorare la causa. Lo misero tra la folla dei vicini per fare agitazione. Mormorò tra sé e sé “Animella, esci da me” e gridò ai lemki che nella Russia Sovietica c’era il paradiso. In tutti i paesini dei lemki spiegavano, minacciavano, promettevano, mettevano sulle alte tribune, cadevano volantini dal cielo come MINORANZE MoniKa Bulaj (2) vuota derubata. Quelli che sono rimasti nelle campagne perché si sono intestarditi, nascosti, sono stati cacciati due anni più tardi verso le terre occidentali, questa volta senza promesse ma sotto scorta armata. Per i lemki da quel momento il tempo si dividerà in prima e dopo il 1947. Quell’alba di luglio del ’47 gli hanno lasciato due ore per buttare sul carro tutti i loro beni. I lemki prendevano pezzi di aratro, un libro, una icona, o si sedevano sulla soglia, in silenzio, come presi da qualche pazzia. Gli rovesciavano i carri. Gli buttavano le donne nei fiumi, “per una lavata delle puttane rutene”. Nel fiume Ropa galleggiavano le tavole di tiglio con le icone della Madonna Hodigitria, in greco: ”Quella che condurrà”. Jaroslaw Trochanowski, futuro musicista, aveva cinque anni e contava i cerchi di fumo dalla macchina a vapore e raccontava al padre tornato dal campo tedesco, che erano le anime dei morti che li seguivano in fretta. Quali? Quelle von-zu dall’armata imperiale che aveva solo 17 anni e solo quella parola come lancia con bandiera e in premio eterno riposo? O le anime sterminate dai nazisti nei boschi della famiglia del rabbino Ben Sijon Halberstam di Bobowa, il quale aveva sposato con tanto rumore negli anni trenta la figlia Hana con il talmudista di Tarnów, e gli suonava una banda di ebrei travestiti da ulani, cracoviani e montanari? Forse li seguiva l’anima di Amoz folle in dio, il prete ortodosso mancato, che si trascinava per i paesini per predicare i sermoni in versi, e scomparve un inverno Dio solo sa dove? I vagoni frenavano improvvisamente e le mucche fratturavano le gambe alle donne che le mungevano tra sterco, fango e pioggia. Lo chiamavano “lo stipamento dei ruteni”. A Jaworzno, punto di comunicazione vicino ad Auschwitz, comodo e controllato alla perfezione dai nazisti negli ultimi anni, selezionavano nei treni – contadini, preti, donne, adolescenti – per il lager. A Jaworzno, oltre il filo elettrico, tenevano anche prigionieri i criminali di guerra tedeschi “da loro tutto era pulito, silenzioso, ordinato, nessuna cella di punizione né kapò”, raccontava Paszko. I tedeschi guardavano con meraviglia i ruteni moribondi. Nel frattempo le famiglie dei deportati proseguivano a ovest, 300 km in due settimane. Nei carri bestiame nascevano i bambini. Piotr Karlak di Kunkowa fu fortunato, venne al mondo nell’ospedale accanto alla stazione. Le infermiere polacche volevano comprarlo, lusingavano i suoi occhi neri, infilavano i soldi alla partoriente, spiegavano alla madre ammutolita: “Tanto il vostro popolo va allo sterminio”. Gusci “Era un crimine efferato”, mi disse Jerzy Nowosielski, pittore di icone, scrittore e professore all’Accademia delle Belle Arti di Cracovia, “inflitto senza ragioni, gratuito”. Che cosa potevano opporvi? Avevano i gusci delle uova infilati nello steccato e “acqua del Giordano”, per la quale saltavano dal ponte nel fiume congelato appena il prete ortodosso tirava via la croce dorata dal buco del ghiaccio. Con l’acqua santa spruzzavano le nuvole in arrivo perché non portassero dei fulmini. Avevano le briciole del pane santo di Pasqua che avvolgevano nell’asciugamano bianco e mettevano tra gli zoccoli del cavallo, così che sopra ci passasse la prima aratura primaverile. Avevano dei canti. Emilia Jakubiec, la fattucchiera che abita alla fine della strada a Blechnarka, là dove finisce la Polonia, contenta della visita, ammazza la 67 LEMKI, COSÌ DIVERSI COSÌ COLPEVOLI gallina per il brodo e poi butta i carboni ardenti contando da dieci alla rovescia. Perché questo? Sorride timidamente. “Se oggi la gente avesse le conoscenze di una volta, come ce le ho io, con i malocchi avrebbero distrutto tutto il mondo!” “Andavano dagli stregoni”, racconta Jakubiec, e loro avevano la soluzione per tutto. Potevano fare e disfare. Fare male e opporvisi. Potevano erigere una diga contro il male, prenderlo in giro, confonderlo, dirigerlo su un albero, su un fazzoletto o su un cespuglio. “Facevano anche il male, ma non così male come desiderava la gente”, racconta Michal Buriak di Polany, sulla soglia della sua casa dalle strisce blu. Mettevano ordine tra le anime perse e vaganti dei morti, perché i paesi ne erano pieni; di tanto in tanto come in qualche orchestra straniera risuonavano con i campanelli tra i cespugli “una musica così terribile, un così bel canto, come ora su quelle diverse radio. Belle voci, prima e seconda, cantavano con tutte le voci”. Proprio quelle erano l’unico pericolo reale. Si attaccavano ai vivi, intrecciavano pensieri e sogni, portavano fuori strada. Come rimedio il padre “ordinò di bere un decotto di codino di topo, ma solo il tronco, senza radici. O di mattola che cresce nelle paludi”, mi dice la figlia di uno dei più famosi stregoni ruteni dall’oltre frontiera, slovacco Keckovec. Esisteva pure il male impersonale, non intenzionale, non voluto, celato nello sguardo, nei pensieri incontrollati, nell’improvviso stupore o desiderio. Dietro ogni malattia dell’uomo o della mucca si celava qualche causa, la quale si doveva trovare e nominare per ricreare ordine. Ogni lemko sapeva: l’equilibrio tra l’uomo e la natura è terribilmente fragile. Basta poco, niente, perché il mondo va in rovina, nei paesini dove la gente e gli animali abitano la stessa casupola separata dalla fragile parete e terra battuta; i conigli in inverno mordono le dita ai bambini e la cosa più difficile è sopravvivere fino alla primavera. Ponticello sul fiume “L’ortodossia fu la prima al mondo, appena dopo Cristo o forse ancora prima di Cristo”, dichiara all’alba Emilia, buttandomi dentro la tazza con il latte pezzi di pane di segale. Le chiese dovevano stare vicino alle case, 68 allora ce n’erano a centinaia. Torrette esili, campanili barocchi, elmi a punta, mezzelune orientali e croci russe si affollavano, salivano il cielo a gradi, come questi monti. Da nessuna parte costruivano così. Migliaia di tegole di legno brillavano nella pioggia, scurivano nella tempesta, come squame di un gigantesco pesce. Qui s’incontravano l’Occidente e l’Oriente, il barocco attolico e i monasteri della Bucovina. Le donne portavano nei grembiuli le pietre dal fiume per le fondamenta. Gli uomini tagliavano gli alberi, “facevano la colletta, vendevano l’ultima mucca, ma la chiesa ci doveva essere”. Erano strane chiese: da lontano sembravano schooner (velieri a tre alberi) o tre dervishi roteanti in svolazzanti sottane e volà. Erano attorniate dalle enormi querce che dovevano attirare su di loro i fulmini. “A est da Cracovia c’è un ponticello sul piccolo fiume che divide i due mondi, uno occidentale, che vuole accompagnare e creare la storia e orientale che esprime il mistero”, scriveva Nowosielski, saggista e iconografo che dedicò tutta la vita per contagiare MINORANZE Mater Misericordiae, per i crocifissi dei gesuiti, insostituibili per cacciare via dai paesi i demoni. I “vecchi polacchi” (nelle terre dei lemki abitavano da secoli insieme i ruteni, i polacchi, gli ebrei, gli zingari) ammiravano la liturgia orientale, si meravigliavano: “calano i sipari, scoprono ori, fumi, canti, da voi è bello come al teatro”, dicevano. I “nuovi polacchi”, quelli con cui lo Stato ha deciso di ripopolare le scomode zone di frontiera affinché non ci fosse più nessun Oriente, nessuna sorpresa etnica (degli ebrei e zingari si è occupata “la scopa della storia”) non si meravigliavano più di nulla, in una hanno messo un toro e dopo è caduta da sola. Ridipingevano Cristo sulle croci nei bivi, ma solo fino alle ginocchia, sopra i piedi attaccati separatamente per renderlo un po’ cattolico. Con difficoltà mettevano le radici nella terra, dove l’orzo cresce a malapena e le patate ruzzolano come pietre fino al torrente. Soltanto alcuni preti cattolici hanno intuito che le chiese rutene sono un miracolo e che la direzione della liturgia latina dopo la riforma si adatta perfettamente alle porte MoniKa Bulaj (2) i cattolici polacchi con il batterio dell’ortodossia. … “Il barbaro non si accorge di questa frontiera”. Dietro il ponticello, laddove il filioque sparisce dal Credo, i più pesanti fronti delle due guerre mondiali del XX secolo hanno distrutto appena qualche decina di chiese. Dopo la Seconda guerra mondiale furono distrutte dai polacchi a centinaia. Prendevano fuoco facilmente, perché di legno, una parte è caduta in rovina da sola. Migliaia di icone dal valore inestimabile viaggiavano nelle borse dei diplomatici verso gli antiquari dell’Europa occidentale. Erano strane icone, dipinte da maestri anonimi su commissione, caso inconsueto, non di monaci o vescovi ma di montanari analfabeti tagliati dal mondo. Avevano in sé non solo Bisanzio, ma anche la dolcezza del Barocco polacco: le dita della Madonna sostenevano delicatamente l’orlo del vestito, le guance rosate, i tratti dei volti degli apostoli ingrossati, il rossore contadino. Accanto ai santi bizantini si troverà su di loro il posto per sette spade nel cuore di Maria, per la Pietà secondo Michelangelo, per la cattolicissima LEMKI, COSÌ DIVERSI COSÌ COLPEVOLI regali e che ufficiando la messa guardando i fedeli, s’insegna ai fedeli di guardare l’iconostasi, talvolta – amarla. Il villaggio Polany, dicembre 1988, mille anni dopo il battesimo del santo principe Vladimir nel Dniepr. Davanti alla monumentale chiesa ortodossa giace una bara nella neve. Jan Galczyk è riuscito ad erigere sotto la chiesa la croce del giubileo, e tre mesi dopo è morto. La chiesa di San Giovanni Crisostomo a Polany è vista da lontano, costruita nello stile di Kiev, sulla pianta del crocifisso greco, monumentale, di pietra – doveva durare secoli. Fu l’orgoglio dei lemki. Durante la guerra i cannoni russi hanno rotto il tetto e per anni la riempivano le piogge, come un pentolone. Jan Galczyk aveva nove figli ma l’ho stesso ha chiesto il credito, ha comprato le tegole e il zinco e di tasca propria ha ristrutturato la chiesa. Ai lavori ultimati, i cattolici non permiserò ai lemki di entrarvi dentro, hanno rotto le serrature e hanno messo i loro catenacci, hanno distrutto l’iconostasi, hanno sacrilegato il sancto sanctorum, hanno picchiato il prete ortodosso. I ruteni hanno pregato per 22 anni sotto lo steccato, e sotto lo steccato un pugno di lemki ha celebrato la panachida, una preghiera funeraria ortodossa per l’anima di Galczyk. ridendo come un bambino, della chiesa, del futuro Papa, come se fosse il migliore degli scherzi. È una torrida estate del 1991, sta sulla soglia, appoggiato alla falce, senza camicia, racconta. Ha gli occhi azzurri come gli occhi degli angeli nella chiesa che ha salvato. Deportato nei campi di lavoro dai nazisti, dal ’45 cominciò a fuggire senza tregua. Dal fattore tedesco, dal campo di prigionia, dalla prigione nazista, dai soldati dell’armata rossa che gli miserò l’uniforme, gli ficcarono l’arma nelle mani. A casa non trovò nessuno, avevano deportato la famiglia nei kolkoz, nell’Ucraina orientale. Li riuscì a raggiungere, ma dopo qualche giorno nel kolkoz dovette scappare di nuovo, ora lo cercava il KGB. Scappò fino in Polonia. Ma il villaggio era vuoto, tutti i lemki deportati a ovest. “Là in cambio nuvole, terra e cielo, le mani afferravano il vuoto”. Tornò, a dispetto di decreti, pattuglie, rettate. Di notte cantava a squarciagola per non addormentarsi, perché solo di notte poteva pascolare le pecore nel suo campo. I lemki tornavano, da soli o con le famiglie, falsificarono i passaporti, corruppero impiegati, cambiarono le finali rutene dei cognomi in polacche, prendevano residenze false. Stefania Felenczkowa tornò cinque volte, con cinque bambini: lavava i pannolini nel fiume Ropa, li asciugava sulla pietra, la polizia la cacciò via, si nascose alla stazione ferroviaria, purché non la registrassero in occidente. “Senza marito, perché l’uomo portavano subito in prigione, e alle femmine cosa possono fare?” Guardava come le demolivano la casa. Anche agli zingari, che erano scampati allo Sterminio, non fu concesso di tornare nelle montagne. In fin dei conti uno zingaro è uno zingaro. Furono deportati insieme ai lemki, come ai lemki gli hanno vietato il ritorno con un decreto. “Eppure un giorno lo dovranno capire”, dice Jan Paszko di Bartno, della più lunga campagna lemka, che a poco a poco si arrampica sulla valle, “che non si può fare niente, affinché in un Paese tutti siano uguali. Hanno gli aerei, hanno tutto e volano non so dove, ma non hanno preso questa proprietà, questa sfera terrestre, questa campagna celeste, non l’hanno presa e non la prenderanno, benché siano così furbi”. Tornavano Nel paese di Owczary, in una piovosa notte autunnale del ’49 due giovani turisti con gli zaini vanno per il paese e chiedono di poter pernottare. Nessuno risponde, sebbene presso ogni colono polacco ci sia la luce accesa e si sentano delle voci. Szymon Wasylczak invita degli sconosciuti per la notte, e l’ospitalità, come capita dai lemki, sarà regale. Wasylczak è un lemko, che c’è l’ha fatta a tornare, prova adesso a trasformare una stalla abbandonata in una casa. Mancano le finestre, le porte, il tetto è bucato, ma oltre a questo si trova vicino alla chiesa e la si può sorvegliare giorno e notte: “È proprio un miracolo”. Il miracolo ha una splendida iconostasi barocca, che fa gola a molti. Gli ospiti di Wasylczak sono preti; il più giovane scrive il suo nome in ricordo sul quaderno del lemko: “Karol Wojtyla”. “Ci fu un tuono, un rimbombo, acqua come se venisse giù il cielo, il fiume straripava ma ciononostante Le finestre nere nessuno gli ha aperto”, Szymon Wasylczak Nikifor da Krynica, pittore-mendicante, scrolla la cenere con un dito e racconta, in cravatta, col cappello schiacciato e la cami70 MINORANZE Quando i suoi quadretti comparvero per l’ennesima volta nelle migliori gallerie di Parigi, il governo polacco gli diede un cognome polacco, sebbene avesse il proprio nome lemko. In compenso non gli diedero la croce sulla tomba. Ci rimane il suo mondo, immobile e vuoto, infantile e innocente. I colori dei casolari costruiti con i tronchi separati da fasce colorate di argilla, geometrie delle uova di Pasqua. Marrone, rosso, verde, giallo, azzurro, quadretti, zig-zag, punti e linee. MoniKa Bulaj I leoni A Bobowa, ai piedi della più alta montagna-cimitero dei Carpazi, il fiume Bianco serpeggia e brilla nel sole. In cima, in mezzo ai larici alti, sulle lapide ebraiche salvate, si dimenano con fantasia con le code i leoni. “Il leone è segno di grande forza”, mi spiega Leja Haberman. È il marzo del 2007 e Leja è venuta da Israele con la famiglia sulla tomba di un tzadiq di Bobowa. Ai piedi ha delle ciacia indurita dallo sporco come l’acciaio, batte e grosse calze infeltrite, in testa una dipingeva da mattino a sera – in totale si parrucca di capelli bianchi. Mi prega di ritrosono raccolte alcune decine di migliaia di vare il suo atto di nascita negli uffici polacquadri e ognuno diverso – sul cartone, sulle chi. “Sono nata in Polonia nel ottobre del scatole di cioccolatini, sulla carta da imbal1939, erano già entrati i tedeschi. So che non laggio, nei moduli degli uffici austriaci, dovrei, ma guarda, sono viva!” La madre di polacchi, tedeschi, russi. Nei suoi quadretti Leja durante la guerra si fece passare per la puniva i colpevoli, elevava gli umiliati, moglie di un ufficiale dell’Armata Nazionale migliorava il mondo: al candelabro ebraico ucciso dai russi. Delle contadine polacche in aggiunse due braccia separate, di scorta, alzò un paesino non lontano da Jedwabny si prei tetti, ampliò i fasci di cupole nelle chiese, le sero cura con commozione della sottile bionprotese con ali di aquile onnivedenti, molti- dina con una bambina dagli occhi azzurri. Il plicava le file di case, le girava di sbieco nipote di Leja dagli occhi azzurri, boccoli verso la luce, affinché brillassero del colore, imponenti e pallido come carta, chassid creò delle aiuole, boschi, giardini, arabeschi e come la nonna, come il bisnonno Moshe nobilitava tutto con la sagoma di un persoHaim, come la bisnonna Gitle, salta vicino a naggio ieratico: principe o ministro, vescovo noi di pietra in pietra, canticchiando a voce o generale, dai re, zar, sovrani, imperatori, alta in polacco: “Buongiorno signori, grazie, santi. Anche lui si innalzò, salì nei cieli, lui, scusi, salute, arrivederci, buon viaggio”. figlio balbuziente di una donna di servizio Leja accarezza con la mano le lapidi. I musi divenne un Maestro, un amico personale di dei leoni di Bobowa mi sono familiari. San Nicola, con il dito alzato comandò l’ePaffuti come i volti degli angeli lemki. In sercito di lettere e parole sparse nei quadret- fondo sono stati scolpiti da questa stessa areti. naria. La forma del muso della bestia, come Quando lo deportarono perché lemko, quindi l’espressione degli angeli ruteni, è nato sulle spia, traditore del popolo polacco che spuvalli sull’argine dei Carpazi, poco sotto la tando nei colori sul muretto dipingeva le superficie terrestre. mappe strategiche del confine per i nemici della patria – ricoprì di vernice nera le finestre delle sue chiese ortodosse. Anche lui tornò, tornò tre volte a piedi, fino al recinto a Krynica, logoro da dove e come, chi lo sa. 71