Gestire il cambiamento in tempo di crisi: l`equilibrio non è stasi

focus economia
Gestire il cambiamento in tempo
di crisi: l’equilibrio non è stasi
Un’analisi originale, che non segue gli schemi tradizionali, ma che si
spinge oltre: il territorio parmense visto come “persona”, alla luce di
chiavi interpretative tipiche delle scienze sociali.
PARMA economica
FOCUS ECONOMIA
Guido Caselli
“S
e si raccolgono abbastanza
dati, qualsiasi cosa può essere
dimostrata con metodi statistici”.
L’aforisma contenuto nelle “leggi di
Murphy” descrive efficacemente il clima
di confusione che aleggia attorno al tema
della crisi economica: sono sufficienti pochi
decimali di differenza per far propendere
l’ago della bilancia verso il bel tempo
o la tempesta. Forse in questi giorni è
opportuno chiamarsi fuori dalla guerra
delle percentuali e cercare di comprendere
le dinamiche che sottostanno ai numeri.
In queste pagine vorrei tentare di farlo
seguendo un filo narrativo un po’ fuori dagli
schemi tradizionali, considerando il territorio
di Parma come se fosse una «persona»
e, conseguentemente, analizzarlo con gli
strumenti e le chiavi interpretative adottati
dalle scienze sociali. Un viaggio attraverso
e oltre i numeri, nella speranza di fornire una
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lettura originale di quanto sta avvenendo e
di evocare suggestioni utili ad alimentare il
dibattito sul futuro, sociale ed economico,
del nostro territorio.
Riconoscere e interpretare i
cambiamenti
Il punto di partenza è il cambiamento. Stiamo
vivendo anni nei quali siamo attraversati da
una profonda trasformazione, sociale ed
economica; cambiamenti che spesso non
riusciamo a cogliere a fondo né, tantomeno,
a misurare. Una possibile spiegazione
risiede nel fatto che il nostro territorio è un
sistema complesso, cioè un sistema dove
le relazioni tra le parti che lo compongono
sono l’aspetto più importante, tanto che,
se analizziamo le singole componenti,
non capiamo nulla del funzionamento
complessivo. Del resto è così anche per
una persona, non possiamo farla a pezzi e
analizzarne l’anatomia, un piede piuttosto
che una mano, per capire come funziona
nella sua interezza. Per quanto bravi a
vivisezionare non riusciremmo a prendere
in considerazione, ad esempio, la sfera
emotiva e relazionale che, come sappiamo,
è essenziale per capire come funzioniamo.
Se ammettiamo che il territorio come le
persone siano sistemi complessi, le analogie
sono tante. Per esempio, come si affrontano
i cambiamenti importanti, come quelli portati
da uno stato di crisi? Una persona di fronte
a una seria difficoltà o a uno stato di crisi
può reagire in maniera differente: rimanere
completamente paralizzato e incapace
di agire; oppure mettere in campo azioni
volte ad affrontare i pericoli che di volta in
volta si presentano, guidato dall’istinto alla
sopravvivenza e in attesa di tempi migliori;
o ancora operare delle scelte forti e spesso
rischiose che consentano di superare
definitivamente la difficoltà. Un sistema
territoriale complesso di fronte a uno stato
di crisi può avere le medesime reazioni: non
fare nulla, cercare di sopravvivere, reagire.
Stare in equilibrio,
in movimento
Dire che siamo un sistema complesso non
è solo un esercizio di classificazione fine a
sé stesso, ma implica una serie di cose e un
salto culturale non indifferente. Per esempio
la teoria della complessità afferma che “in
un sistema complesso, equilibrio, simmetria
e stabilità significano crisi”. Pensiamo a noi,
alle persone. Coerentemente con la nostra
visione e i nostri valori ci poniamo degli
obiettivi di equilibrio che mirano a conciliare
aspetti tra loro apparentemente contrastanti,
per esempio famiglia e lavoro. È un
equilibrio per natura instabile e in perenne
riconfigurazione, in quanto cambiamo noi,
cambiano gli altri, muta l’ambiente nel
quale viviamo. Per riuscire a mantenere
l'equilibrio occorre ricercarlo e rinnovarlo
continuamente, perché se non fossimo
in grado di farlo evolvere, parallelamente
ai cambiamenti, e rimanessimo ancorati
al concetto di equilibrio che avevamo in
passato, probabilmente, come afferma la
teoria della complessità, vivremmo uno
stato di crisi. Come persone riusciamo a
far evolvere il concetto di equilibrio, come
sistema territoriale facciamo più fatica. Se
pensiamo a un sistema territoriale, i nostri
numeri e - soprattutto - il percorso logico con
il quale affrontiamo i cambiamenti vanno alla
ricerca e danno valore a un concetto statico
di equilibrio. Non è un caso che da decenni
ci affanniamo nel rincorrere, attraverso
vecchi modelli e modalità non più efficaci,
condizioni economiche e sociali raggiunte
in passato e progressivamente smarrite. E,
la conseguenza di questo nostro guardare
all’indietro è che di fronte ai cambiamenti
portati dalla globalizzazione ci spaventiamo
e ci lamentiamo del fatto di non riuscire
a trovare più una stabilità tra crescita
economica e coesione sociale, come se le
due cose non potessero più andare insieme.
Non necessariamente è così. Dobbiamo
guardare a un nuovo concetto di equilibrio,
dobbiamo guardare e guidare il territorio
come se fossimo in bicicletta. In bicicletta
per non cadere è necessario combinare
due polarità apparentemente impossibili da
mettere insieme, il movimento e la stabilità.
Sei stabile perché ti muovi, ma le due cose
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PARMA economica
Di fronte alla crisi
è necessario
superare la
tentazione di
rincorrere via
passate ed
“evolvere” da
un concetto di
equilibrio statico:
il cambiamento è
nuovo equilibrio
FOCUS ECONOMIA
focus economia
focus economia
sono viste come impossibili da tenere
insieme, un po’ come la crescita economica
e la coesione sociale.
L’instabilità oggi tocca i livelli
logici più alti: le convinzioni,
i valori, l’identità
PARMA economica
FOCUS ECONOMIA
In bicicletta si ha un equilibrio instabile e
proficuo. Un equilibrio in movimento. Quello
che dobbiamo cercare di avere come
sistema territoriale e come persone.
per la realizzazione della nostra visione –
quando questi livelli sono allineati, quando
vi è coerenza tra ciò che siamo e ciò che
facciamo.
Proviamo ad applicare questo modello
all’analisi di un sistema territoriale. Per
semplicità espositiva li ho raggruppati in tre
livelli:
1.
Analizzare il sistema
territoriale secondo «i livelli
logici» del cambiamento
Su come tentare di raggiungere tale
«equilibrio in movimento» ci vengono in
aiuto le scienze sociali. In particolare,
secondo Robert Dilts, i cambiamenti di
una persona agiscono e possono essere
sistematizzati all’interno di sei «livelli logici».
Si parte dall’ambiente che è il contesto nel
quale ci muoviamo, dove le nostre azioni
producono i loro effetti. Con l’ambiente
interagiamo attraverso il comportamento e
le azioni, azioni che dipendono dalle nostre
strategie e dalle nostre capacità. Capacità e
strategie derivano dalle nostre convinzioni,
dai nostri valori che a loro volta discendono
dalla nostra identità, dal chi siamo. Sopra
l’identità c’è un ulteriore livello, dato dalla
nostra visione, dal nostro spirito.
Vi è un evidente ordinamento gerarchico
tra questi livelli, ciascuno dipende da quello
sopra. Le cose funzionano – siamo presenti
a noi stessi, operiamo correttamente
14
2.
3.
Il primo livello è l’ambiente. L’ambiente
rappresenta il contesto di riferimento
nel quale siamo chiamati a muoverci
e interagiamo. Per esempio in
questo livello vediamo gli effetti della
globalizzazione, misuriamo lo sviluppo
raggiunto in termini di PIL o di ricchezza
per abitante.
Il secondo livello include tutte le azioni
che impattano sul primo livello, il cosa
facciamo proattivamente per cambiare
l’ambiente o quali comportamenti
adottiamo in seguito a modificazioni
esterne. Come riusciamo a mettere in
campoquesteazionieconqualeefficacia,
alla luce delle nostre capacità, delle
strategie adottate, delle conoscenze,
dell’abilità e del talento delle persone.
Per esempio, cosa e come esportiamo,
quali percorsi seguiamo per innovare,
quali strategie adottiamo per assistere
gli anziani, sono tutte modalità di
comportamento che rientrano in questo
secondo livello.
Il terzo livello riguarda le motivazioni che
sono alla base delle azioni intraprese;
le convinzioni e i valori che ci guidano,
l’identità e la visione. Chi siamo, quali
Una prima riflessione che nasce dalla
semplice osservazione di questo modello
è che probabilmente oggi avvertiamo
lo stato di instabilità in misura maggiore
rispetto al passato perché - a differenza
di quanto probabilmente accaduto negli
anni precedenti - a esserne interessati
sono anche i livelli logici più alti, quelli che
riguardano i valori, le convinzioni, l’identità.
Quale elemento di ulteriore instabilità, va
aggiunto che i cambiamenti in questi livelli
non stanno avvenendo per un cambio
di visione (quindi dall’alto), ma perché le
trasformazioni nei livelli più bassi si stanno
ripercuotendo su quelli superiori, con esiti
difficilmente prevedibili e controllabili.
Il primo livello. L'ambiente:
l'effetto Paese, la
trasformazione demografica
e il futuro possibile
Proviamo a entrare in questi tre livelli,
partendo dal primo: l'ambiente.. Per
descriverlo credo sia necessario partire da
quello che chiamo “effetto Paese”. Ci hanno
raccontato che abbiamo resistito alla crisi
meglio di altri. Qualche perplessità ce l’ho,
se guardiamo ai dati OCSE: guardando alle
variazioni del PIL di 182 Paesi, dal 2001 a
oggi, solo lo Zimbabwe ha fatto peggio di
noi. Nel 2009 siamo tornati alla ricchezza
creata nel 2000, un salto indietro di nove
anni; nessun altro Paese ha fatto un salto
indietro così grande. Il problema dell’Italia
non va ricercato - non solamente - nella crisi
del 2009, ma ha radici ben più profonde,
aggrovigliate a un decennio di mancata
crescita.
Dunque siamo cresciuti meno di tutti.
Riusciremo a ripartire meglio, più in fretta
degli altri, come si sente ripetere da più
parti? Sembrerebbe di no, ancora una volta
il confronto con gli altri Paesi è impietoso.
Dei 182 Paesi di cui sopra, solo sette, da
qui al 2014, cresceranno meno di noi. Non
solo siamo cresciuti meno di tutti negli anni
passati, anche per quelli a venire siamo
destinati a inseguire. Inseguire a grande
distanza.
È vero che il PIL spiega sempre meno dello
sviluppo di un Paese, però rimane un bel
termometro per capire come vanno le cose.
E se si allarga lo sguardo ad altri indicatori,
le “cattive notizie” sembrano prevalere sulle
“buone notizie”; non emergono elementi in
grado, se non di ribaltare, di rendere meno
fosco lo scenario dipinto dal PIL. Anche
il tasso di disoccupazione spesso citato
come fattore di forza rispetto ad altre realtà
europee, perché leggermente inferiore,
è principalmente dovuto a un tasso di
occupazione e di attività che è di circa
dieci punti percentuali inferiore alla media
europea. Semplificando, non è che in Italia
sia più facile trovare lavoro, semplicemente
è maggiore la quota di persone che per
differenti ragioni ha rinunciato a cercare
occupazione (e, quindi non figurare tra i
disoccupati). Si potrebbe proseguire a lungo
nel raccontare il ritardo accumulato dall’Italia
rispetto agli altri Paesi e di come questo
divario si stia ampliando ogni giorno di più. Il
ritardo dell’Italia si ripercuote pesantemente
sulle dinamiche provinciali e regionali. Se
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PARMA economica
sono le nostre vocazioni, manifatturiere
piuttosto che turistiche, in cosa crediamo
e la nostra visione del territorio per i
prossimi anni.
FOCUS ECONOMIA
focus economia
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PARMA economica
FOCUS ECONOMIA
confrontiamo l’Emilia-Romagna con le altre
regioni dell’Unione Europea, ci accorgiamo
che continua a essere una delle aree più
ricche d’Europa, ma, al tempo stesso, è tra
quelle che negli ultimi anni sono cresciute
meno. In questo contesto, appare evidente
che la provincia non può avere una dinamica
che si differenzi sensibilmente da quella
regionale e nazionale. Il valore aggiunto nel
2009 a Parma è tornato sui livelli raggiunti
nel 2003; un salto indietro di sei anni, non di
nove come registrato a livello nazionale.
Per raggiungere e superare il valore
massimo raggiunto nel 2007 occorreranno
diversi anni di crescita apprezzabile.
Inoltre, da un lato il PIL cresce poco,
dall’altro assistiamo a una trasformazione
demografica che ha portato nella provincia
di Parma a quasi 39.000 nuovi abitanti negli
ultimi cinque anni.
Oggi un residente ogni dieci proviene da
altri Paesi e oltre un quinto dei nuovi nati è
straniero. Numeri destinati ad aumentare
ancora nei prossimi anni: nel 2030 oltre
un quarto degli abitanti con meno di 50
anni sarà di nazionalità non italiana. A ciò
si aggiunge il progressivo invecchiamento
della popolazione. Il risultato di questi due
effetti congiunti, bassa crescita del PIL e
aumento della popolazione fa sì che negli
ultimi cinque anni se lo sviluppo economico
ha viaggiato a cento chilometri orari, il
benessere dei cittadini – sempre misurato
in termini economici – ha viaggiato a 27
chilometri orari, una velocità quasi quattro
volte inferiore. Sembra di poter dire che la
nostra «bicicletta territoriale» sta iniziando ad
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arrancare e a sbandare pericolosamente.
Verrebbe da dire che, di fronte all’effetto
Paese o alla trasformazione demografica,
dinamiche sulle quali poco o nulla possiamo
fare in ambito locale, la nostra capacità
di incidere sulle traiettorie di sviluppo
sia alquanto limitata. Recentemente ho
affermato che il futuro non si prevede, si
fa. Un’affermazione che nasceva dalla
convinzione che i numeri che racconteranno
il territorio nei prossimi anni dovranno
essere quelli che pianifichiamo oggi, quelli
che modelleremo nel tempo se saremo in
grado di operare delle scelte. Può sembrare
un’affermazione contraddittoria e priva di
contatto con la realtà: come possiamo infatti
essere artefici del nostro futuro se vi sono
vincoli che non dipendono da noi?
Però in passato lo abbiamo fatto. In passato
abbiamo creato un modello virtuoso di
sviluppo nonostante ci fossero ostacoli e
vincoli ambientali. Lo abbiamo fatto con
un’operazione che spesso i coach utilizzano
per accompagnare le persone ad affrontare
i cambiamenti. Abbiamo preso coscienza
delle nostre debolezze, delle nostre ombre
e, invece di tentare di nasconderle le
abbiamo portate alla luce e guardate da
una nuova prospettiva, cercando di cogliere
il loro valore e la loro utilità. Pensiamo per
esempio alla piccola dimensione delle
imprese: da punto di debolezza ne abbiamo
fatto un punto di forza che ha fatto il nostro
successo per tanti anni. Se immaginiamo il
nostro territorio come una squadra sportiva,
fino ad oggi abbiamo ottenuto risultati
eccellenti nonostante fosse composta da
giocatori buoni o discreti, non da grandi
campioni. I risultati sono venuti perché
L’Emilia Romagna
resta una delle
aree più ricche
d’Europa, ma
i suoi ritmi di
crescita sono
tra i più lenti. In
passato la piccola
impresa e la filiera
hanno permesso
la svolta. Ora il
sistema territorio
deve puntare
sul nuovo
Il secondo livello. Le azioni:
resistere, decidere e saper
cambiare
Negli ultimi mesi da più parti ci hanno
ricordato l’etimologia della parola “crisi”.
Ha origine dal greco krino, che significa
separare, decidere (recidere?). Ha
quindi una valenza non negativa, indica la
possibilità di scegliere. Analogamente in
cinese la parola “crisi” è composta da due
ideogrammi, uno rappresenta il pericolo,
l'altro l'opportunità. La nostra capacità
di reagire positivamente ai cambiamenti
portati dalla crisi dipende da come e in quali
tempi si riesce a vedere oltre il pericolo e
a cogliere le opportunità che questa crisi
porta con sé. Abbiamo ricordato i differenti
comportamenti che persone o sistemi
territoriali possono avere di fronte a una crisi.
Se penso al sistema territoriale, mi sembra
di poter dire che - almeno in questo territorio
- azioni e risorse economiche nel corso del
2009 sono state indirizzate principalmente
– così come doveva essere fatto - agli
ammortizzatori sociali (come testimoniano
i dati della cassa integrazione guadagni) e
al sostegno all’accesso al credito; interventi
che si configurano come di breve periodo
rispondenti a una logica di sopravvivenza,
pensati con l’obiettivo di contenere il più
possibile i danni provocati dalla recessione
mondiale.
L’etimologia della parola “crisi”
rimanda a “scelta” e quindi
anche a nuova opportunità
Anche in questo 2010 la priorità sembra
essere la gestione dell’emergenza: evitare
la chiusura di numerose imprese, garantire
l’occupazione, sostenere le persone e le
famiglie che, con il perdurare della crisi,
stanno pericolosamente scivolando oltre la
soglia della povertà. È del tutto evidente che
assicurarsi la sopravvivenza non può che
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PARMA economica
c’era lo spirito di squadra, ruoli ben definiti
e aiuto tra i compagni per coprire i limiti e far
brillare le eccellenze. Il sistema distrettuale
o di filiera, il nostro modulo di gioco, ci ha
consentito di sopperire al limite della piccola
dimensione. Era un sistema vincente perché
c’era un forte legame relazionale, c’era,
come si dice in gergo sportivo, «amalgama di
squadra». Purtroppo l’amalgama nel nostro
territorio sta venendo meno. Dobbiamo
evitare che venga meno anche la capacità
di guardare da una prospettiva nuova. Allora
l’affermazione “il futuro non si prevede. Si fa”,
assume forma e sostanza se ricominciamo
a guardare da una prospettiva nuova,
senza paure e chiusure alle novità portate
dai cambiamenti, possiamo governare i
cambiamenti se accettiamo - come sistema
territoriale, collettivamente - la sfida di
accogliere e portare a valore i flussi che
arrivano sul nostro territorio (e che arrivano
indipendentemente dalla nostra volontà)
e allo stesso tempo di accompagnare con modalità nuove - in tale processo di
cambiamento le persone e le imprese locali.
Cosa e come farlo, attiene al secondo livello
del cambiamento, quello delle azioni.
FOCUS ECONOMIA
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essere il primo obiettivo.
L’impressione che si ha leggendo i numeri
relativi alle azioni delle aziende è che le
imprese abbiano colto che da questa crisi
si uscirà diversi da come si è entrati e siano
consapevoli della necessità di riposizionarsi
per vedere oltre il pericolo. In questo
cammino che porta fuori dalla sola logica
della sopravvivenza, vi sono poche imprese
che stanno procedendo a forte velocità,
competono su scala internazionale e spesso
guidano il processo di cambiamento del
mercato. Vi sono altre aziende che questa
strada l’hanno imboccata – o la stanno
imboccando – forti di scelte importanti,
spesso coraggiose. Per esempio è positivo
che sia in crescita il numero delle piccole
imprese che esportano: molte aziende
hanno infatti visto venir meno il tradizionale
rapporto di committenza subfornitura con
le imprese locali e tentano di affacciarsi
in prima persona sui mercati esteri. Però
la grande maggioranza delle imprese
percorrono strade che si snodano ai margini
o hanno smesso di avanzare e attendono di
vedere cosa accadrà, alla prossima curva.
Un atteggiamento dovuto al fatto che la
volontà di riposizionarsi, di percorrere la via
alta dello sviluppo – fatta dalla qualità del
lavoro, dall’innovazione, dalla capacità di
operare sui mercati esteri – si scontra con
ostacoli di natura strutturale, con la carenza
di competenze professionali necessaria per
competere nel nuovo contesto.
Allora, da un lato i dati che abbiamo visto
nel primo livello ci hanno raccontato come
siano in atto profondi cambiamenti che
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stanno seriamente mettendo in discussione
il modello economico e sociale che sino ad
oggi abbiamo sperimentato.
La crisi mondiale ha solo reso maggiormente
evidenti le contraddizioni del nostro modello,
in realtà sono anni – almeno dalla seconda
metà degli anni Novanta – che esso
sembra non rispondere più efficacemente
ai bisogni del territorio. I numeri ci dicono
che quello che stiamo facendo è tentare di
sopravvivere, in attesa di tempi migliori.
Come imprese, come territorio e, in molti
casi, come persone. Probabilmente ho una
visione un po’ pessimistica, però mi sembra
di poter affermare che non possono esserci
tempi migliori, se non siamo noi a crearceli.
E questa logica di sopravvivenza può
rivelarsi inutile se non supportata da una
strategia di più ampio respiro, che sappia
vedere oltre il pericolo, che sappia andare
oltre la gestione dell’emergenza.
Però per fare questo sono necessari
comportamenti e azioni che richiedono
capacità che sembrano essere fuori dalla
nostra portata. Almeno singolarmente.
Il punto è che non possiamo perpetuare a
lungo navigazioni a vista.
O si trova la propria collocazione - la propria
identità, il proprio ruolo – nel mondo dei
flussi, oppure si è fuori.
Se, come sembra, non siamo in grado di farlo
individualmente, la domanda diventa: siamo
capaci di farlo collettivamente? Siamo cioè
capaci, su basi nuove, di riscoprire quella
dimensione relazionale - quell’amalgama di
squadra - che in passato ci ha consentito di
affrontare i cambiamenti in maniera vincente,
Il terzo livello. Le motivazioni:
avere un'identità, valori e una
visione del mondo
Il profitto, da
mezzo e misura
dell’efficienza
economica, si è
imposto come fine
e l’economia ha
perso il senso del
sociale e dell’etico
Introduciamo l’ultima parte, quella dei
cambiamenti nei valori, nell’identità e nella
visione ripercorrendo quello che è stato il
cammino del nostro modello economico e
sociale sino a oggi. Nel perpetuo processo
di metamorfosi strutturale e organizzativa
alla ricerca della competitività, vi sono due
punti fermi, «due fili rossi» che ricorrono
costantemente. Il primo filo rosso è che
il successo di un territorio nel corso
dei decenni è sempre stato correlato
all’emergere di imprese leader che hanno
fatto da traino a un vasto sistema di piccole
imprese, attraverso un forte legame di
subfornitura. Il secondo filo rosso riguarda
un'altra tipologia di rete, quella sociale. La
rete economica ha funzionato perché tra
i cittadini c’è stata condivisione di valori
e obiettivi, coesione sociale, senso di
appartenenza e identità. D’altro canto la
rete sociale funzionava perché l’economia
garantiva livelli elevati e diffusi di benessere,
un circolo virtuoso completato da una
buona amministrazione del territorio e da
un sistema di welfare efficiente. Caliamo
questi due aspetti nel contesto socio-
economico attuale. Le imprese leader
stanno operando una selezione ancora più
rigida dei subfornitori (nonché una revisione
delle condizioni economiche), alcune di
esse stanno spostando la produzione fuori
dai confini locali, altre stanno aprendo
ad
aziende
subfornitrici
localizzate
all’estero. Quello che si sta verificando è
un allentamento della rete che unisce le
imprese del territorio.
Ma, non solo è la rete tra imprese a
indebolirsi, come abbiamo visto, la minore
competitività associata alla trasformazione
demografica sta riducendo la capacità di
assicurare benessere diffuso sul territorio.
L'economia segue strade sempre più lontane
dalle istanze sociali e vi è uno smarrimento
generale dovuto anche a un’assenza di
valori, a un sistema di rappresentanza che
fatica a rappresentare.
Leggiamo i cambiamenti da una differente
prospettiva. Secondo l’economista Stefano
Zamagni, le crisi possono essere classificate
in due differenti tipologie, dialettica ed
entropica. La crisi dialettica nasce da uno
scontro che prende corpo in determinate
società e che contiene, al proprio interno
le forze per uscirne. La rivoluzione francese
è un esempio di crisi dialettica. Entropica,
invece, è la crisi che tende a far collassare
il sistema per implosione, senza modificarlo.
Questo tipo di crisi si sviluppa quando la
società perde il senso – cioè, letteralmente,
la direzione del proprio incedere. La caduta
dell’impero romano; è un esempio di crisi
entropica. La crisi attuale ha natura entropica
e la perdita di senso è ben visibile in molte
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PARMA economica
siamo in grado di trovare un nuovo modulo
di gioco che ci consenta di trasformare le
nostre debolezze in eccellenze? Siamo
capaci di trovare un nuovo equilibrio che
non ci faccia cadere dalla bicicletta?
Tentare di rispondere a questa domanda
attiene già alla visione, all’identità, al terzo
livello di cambiamento.
FOCUS ECONOMIA
focus economia
PARMA economica
FOCUS ECONOMIA
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sue contraddizioni, dalla separazione della
sfera economica da quella sociale, dal
lavoro separato al mercato separato, alla
democrazia. A valutazioni analoghe giunge
Mauro Magatti, secondo il quale negli
ultimi due decenni la crescita economica
ha avuto come unico obiettivo: un aumento
indiscriminato delle opportunità individuali,
nell’ipotesi che tale aumento costituisse
un bene in sé, da perseguire comunque.
Il profitto da mezzo e misura dell’efficienza
economica si è imposto come fine in sé
stesso e l’economia ha perso di vista
qualunque dimensione sociale e di “senso”,
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cioè qualunque valutazione - di ordine
sociale, politico o morale - che non fosse
tecnica.
Perdita di senso, intesa come direzione
smarrita, ma anche come perdita di
significato dell’agire, dell’essere.
Le fratture alle quali stiamo assistendo,
ciò che non riusciamo più a tenere in
equilibrio - rete economica e rete sociale,
individualismo contro collettività, mercato
contro democrazia - derivano da una
perdita di una direzione condivisa, da uno
smarrimento di identità e di ruolo. Occorre
ridare centralità alla dimensione relazionale
accompagnate dal sistema territoriale.
Pensiamo
per
esempio
ai
temi
dell’innovazione, dell’internazionalizzazione
e a tutti quegli aspetti per i quali le imprese
singolarmente non hanno dimensioni e
competenze per farcela, ma collettivamente,
come sistema sì.
Ribaltare il paradigma significa anche
iniziare a concepire il welfare non come un
costo ma come una risorsa. Le politiche di
coesione sociale, oltre alla socializzazione
dei rischi individuali, devono avere come
obiettivo l’identificazione e la realizzazione di
un dividendo sociale, cioè di un insieme di
vantaggi dei quali beneficiano tutti gli attori
del territorio.
Un esempio di investimento sociale è il
sostegno a percorsi di transizione alla
vita adulta dei giovani per consentire
loro di superare gli ostacoli connessi alla
precarizzazione e alla rigidità del mercato
abitativo. Ribaltare il paradigma richiede
una governance.
Quando in un sistema territoriale
individualismo e collettività sono
allineati si ritrova il senso,
la reazione, l’equilibrio
Anch’essa deve superare la dicotomia
economia-sociale attraverso nuove forme
di progettazione e gestione delle politiche;
deve rappresentare i bisogni del territorio,
deve essere la giusta mediazione tra
interessi individuali e collettivi, tra mercato
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PARMA economica
Bisogna essere
competitivi come
sistema territorio.
Solo così
si possono
coniugare
internazionalizzazione e
innovazione
ad un welfare
visto non come
costo, ma risorsa
e a quella del senso; avere un senso
individualmente e collettivamente.
La storia ci insegna che non si esce da una
crisi entropica con aggiustamenti di natura
tecnica o con provvedimenti solo legislativi,
ma è fondamentale affrontare di petto e
risolvere la questione del senso.
Detto in altri termini, possiamo mettere
in campo tutte le strategie e le azioni che
vogliamo, ma se non partiamo da qui, se
non ritroviamo il «senso dell’equilibrio», la
bicicletta non cammina.
Nel tentativo di recuperare il senso, non
vedo grandi alternative, dobbiamo mediare,
ritrovare una maggior armonizzazione tra
individualismo e collettività, tra mercato e
democrazia, tra coesione sociale e sviluppo
economico.
La visione non è nuova – e di per sé non
è negativo, anzi, avere una visione ben
definita e stabile nel tempo – devono essere
nuove le modalità con le quali perseguirla.
Innanzitutto occorre cambiare il paradigma
che ci ha accompagnato per anni.
Abbiamo sostenuto che imprese competitive
fanno il territorio competitivo – e lo dicevamo
perché in passato era vero - oggi dobbiamo
dire che si è competitivi come imprese e
come persone se si è inseriti in un territorio
competitivo.
Non è un gioco di parole, è un modo
completamente differente di vedere le
cose, a partire dal modo in cui si pensano le
politiche per lo sviluppo.
Per esempio ribaltare il paradigma vuol dire
che di fronte ad alcuni ostacoli allo sviluppo,
le imprese non vanno lasciate sole, ma
FOCUS ECONOMIA
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PARMA economica
FOCUS ECONOMIA
focus economia
e democrazia.
Una governance che sappia riconoscere
come prioritaria la centralità della dimensione
relazionale e del senso.Vorrei chiudere
riprendendo lo schema iniziale e l’analogia
tra persona e sistema territoriale.
La distinzione tra individualismo e collettività
vista nel nostro sistema territoriale la
ritroviamo anche analizzando le persone.
Secondo Robert Dilts, l’identità di una
persona può essere scomposta in due
aspetti complementari, l’ego e l’anima.
L’ego è la nostra parte individualista
ed è orientato alla sopravvivenza, al
22
riconoscimento personale, all’ambizione; ci
porta a occuparci di noi stessi.
L’anima apre agli altri, è orientata alla visione,
all’essere proattiva, al contributo verso la
società.
La possibilità di dare forma e sostanza alla
propria visione, quindi di portare a termine
il cambiamento con successo, è tanto più
elevata quanto più riusciamo ad allineare
l’ego e l’anima, cioè quanto riusciamo
a tenere allineati la nostra ambizione
personale con la visione complessiva, le
nostre capacità distintive con il ruolo che
ricopriamo.
cambiamenti «insieme», procedendo nella
stessa direzione, se risolveremo le tante
contraddizioni che ci hanno accompagnato
in questi ultimi quindici/vent’anni, forse
riusciremo a essere un esempio di
sperimentazione di un nuovo modello di
coesione sociale e crescita economica,
un modello basato su un equilibrio in
movimento, instabile e proficuo.
Come la bicicletta. Robert Kennedy ha
affermato: “Alcuni uomini vedono le cose
come sono e si chiedono: Perché?
Io sogno le cose come non sono mai state
e dico: Perché no?”.
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PARMA economica
Quando ego e anima sono allineati, siamo
in equilibrio.
Quando individualismo e collettività sono
allineati come sistema territoriale, si ritrova
il senso. In definitiva sta a noi decidere dove
ci vogliamo collocare in tale schema.
Se diamo ascolto ai numeri di oggi questi
ci dicono che al pallino verde, alla reazione
proattiva, e - per continuare la metafora usata
- alla bicicletta in equilibrio, ci arriveranno
poche imprese e pochi cittadini.
Però, come detto inizialmente, sta a noi
decidere come gestire i cambiamenti.
Se avremo coraggio, se affronteremo i
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