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Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali
Edizione nr. 46 del 20/06/2013
www.riflessionline.it
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n. 2187 del 17/08/2009
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Edizione nr. 46 del 20/06/2013
INDICE
DALL’ANTIEBRAISMO ALL’ANTISEMITISMO: MILLENARIA STORIA DI
PERSECUZIONI
Luigi la Gloria
pag.
2
L’INCORRUTTIBILE, L’INCOMBUSTIBILE AMIANTO
Anna Valerio
pag.
11
DOVE OSANO LE IDEE. XXVI SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO
Cesare Granati
pag.
15
LA MOLE AL CIELO. IL GRADO ZERO DELLA STRUTTURA
Piera Melone
pag.
19
EPICA E SIMBOLISMO NEL LINGUAGGIO DI GUERNICA
Alice Fasano
pag.
23
DA GIORGIO FRANCHETTI A GIORGIO FRANCHETTI. COLLEZIONISMI
ALLA CA’ D’ORO
pag.
27
F4/ UN’IDEA DI FOTOGRAFIA. SGUARDI SUL TEMPO
pag.
30
OMAR GALLIANI. IL SOGNO DELLA PRINCIPESSA LYU JI AL FLORIAN
pag.
33
ALLE FIABE RUSSE DI SARMEDE II PREMIO ANDERSEN 2013
pag.
34
UGO VALERI: VOLTO REBELLE DELLA BELLE EPOQUE
pag.
35
THE GARBAGE PATCH STATE
pag.
37
ALOIS BEER: PANORAMI FOTOGRAFICI
pag.
40
VENETKENS - VIAGGIO NELLA TERRA DEI VENETI ANTICHI
pag.
42
Direttore Responsabile
Luigi la Gloria
[email protected]
Vice Direttore
Anna Valerio
[email protected]
Grafica e Impaginazione
Claudio Gori [email protected]
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DALL’ ANTIEBRAISMO ALL ’ANTISEMITISMO: MILLENARIA
STORIA DI PERSECU ZIONI
Luigi la Gloria
La storia del popolo ebraico è una storia di
sofferenze.
Dalla fine del regno di Giuda e con le deportazioni
Assiro-Babilonesi del V secolo a.C., e poi la
distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d.C.
fino alla diaspora e alla shoah, gli ebrei hanno
conosciuto un percorso storico di dolore e
umiliazioni.
Forse nessuno, come questo piccolo popolo le cui
origini affondano nella storia, ha mai vissuto periodi
di persecuzione tanto lunghi e atroci.
L’antiebraismo ha origini antiche essendosi concretizzato già con la diffusione del cristianesimo
anche se, all’inizio, rimane confinato a questione unicamente ecclesiale. Con la liberalizzazione
costantiniana dei culti religiosi del 312, si apre una corsia preferenziale per il cristianesimo che
Teodosio il Grande, nel 380, trasformerà in religione di stato. Come conseguenza l’eresia del
paganesimo sarà dichiarata delitto contro lo Stato e nel 402 anche l’ebraismo, in virtù del codex
Theodosianus, viene giudicato eresia e di fatto bandito dal sacro romano impero nel quale erano
legittimati solo i sacramenti della Chiesa imperiale; Chiesa che dimenticò presto che gli stessi
cristiani fino a poco tempo prima erano stati perseguitati.
In questa occasione sono varate le prime misure repressive come il divieto di ricoprire cariche
pubbliche, di contrarre matrimoni misti nonché la proibizione di costruire sinagoghe e fare
proselitismo. E, mentre teologi come Agostino confidano sempre in una conversione, altri,
come Ambrogio di Milano, sostengono con forza il divieto alla costruzione di sinagoghe
definendole luoghi di sobillatori. Si sta diffondendo la convinzione che la colpa della morte di
Gesù sulla croce sia da addebitarsi agli ebrei, ne consegue che la loro dispersione, il loro ripudio
da parte del mondo, viene considerato la giusta punizione di Dio ad un popolo maledetto: Dio è
stato ucciso, il re di Israele è stato eliminato dalla stessa giustizia di Israele.
Ancora più difficile è la situazione degli ebrei di Alessandria, grande città della diaspora, dove
vengono cacciati dalla folla sobillata dallo stesso vescovo Cirillo. Più tardi il Corpus iuris civilis
contro le eresie dell’ortodossissimo imperatore Giustiniano (527-565) inasprirà nell’impero
d’oriente ancor di più le misure antiebraiche di Teodosio II e tale codice rimarrà come
riferimento per Stato e Chiesa nella legislazione medioevale sugli ebrei.
Nel frattempo in occidente, ancora per qualche secolo, l’attenzione rimane invece concentrata
sulle grandi migrazioni dei popoli germanici e sull’espansione musulmana in Spagna.
Terra, quest’ultima, dove con la conquista musulmana si apre per gli ebrei la possibilità di
un’esistenza quasi normale e, benché non godessero di una totale parità di diritti - erano infatti
oberati da tributi speciali e dovevano rendersi riconoscibili vestendo abiti particolari -
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raccolgono i massimi successi nelle scienze e nella filosofia così come era accaduto a Babilonia,
in Egitto e in Siria, dopo che si erano allentate le catene dell’oppressione.
Nei paesi islamizzati hanno la possibilità di confrontarsi con l’istanza teologica dell’Islam ma
non così accade con i cristiani che impongono da subito la pretesa della rivelazione
impedendo, fin dalla nascita, un qualsiasi dibattito culturale e filosofico tra le due religioni.
Nell’800 con Carlo Magno, imperatore del sacro romano
impero, prenderà forma un nuovo paradigma all’interno del
cristianesimo e precisamente si passerà dal modello
ellenistico della chiesa antica al modello cattolico-romano
della chiesa medioevale.
Ma il radicale mutamento che dà l’avvio alla paurosa svolta
nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’ebraismo
sono le crociate. Nell’Europa dell’inizio del XI secolo già
circolavano voci che gli ebrei avessero avvisato il sultano
d’Egitto Al-Akim dell’intenzione dei cristiani di conquistare Gerusalemme. A scongiurare ciò gli
avrebbero suggerito di distruggere il Santo Sepolcro. Ma in realtà questo era già stato fatto ed
inoltre egli da tempo praticava una politica di persecuzione nei confronti sia degli ebrei che dei
cristiani.
Insieme alle crociate, l’inasprirsi della lotta contro l’eresia degli Albigesi nella Francia del sud
ebbe conseguenze catastrofiche per gran parte degli ebrei in Europa. Essi venivano messi sullo
stesso piano dei musulmani e probabilmente il virulento antislamismo è stata una delle cause
dell’esplosione dell’antiebraismo nel medioevo centrale. Già nel 1096, durante la prima
crociata, si erano registrati i primi tumulti antiebraici causati da semplice avidità e in Palestina,
nel 1099, i cavalieri cristiani, bramosi di bottino e aizzati dai predicatori, avevano fatto strage di
intere comunità.
Emblematico il fatto che, in caso di partecipazione alla seconda crociata, oltre alla remissione
dei peccati, fu assicurata l’estinzione dei debiti nei confronti dei creditori ebrei.
Già Gregorio VII, primo papa assolutista, che aveva messo fine ai matrimoni del clero, aveva
vietato, con una speciale bolla, le cariche pubbliche agli ebrei.
Ma l’acme dell’antiebraismo si tocca con papa Innocenzo III, contemporaneo di Francesco
d’Assisi, certo d’animo diametralmente opposto. Nel 1215, con il più grande concilio del
medioevo, il Lateranense IV, muta radicalmente, sia dal punto di vista giuridico che teologico,
la situazione degli ebrei che vengono dichiarati infedeli e proclamati schiavi del peccato o, per
meglio dire, schiavi, da ora, dei principi cristiani. Devono portare abiti che li discriminino, hanno
il divieto di uscire di casa nella Settimana Santa, viene loro imposto un tributo a favore del clero
locale ed infine ne è reiterata l’esclusione da qualsiasi carica pubblica. Per quanto assurdo possa
sembrare, gli esecutori della nuova politica antiebraica saranno proprio i nuovi ordini
mendicanti di Domenico e di Francesco d’Assisi.
Questo acceso antiebraismo aveva profonde radici psicologiche, teologiche e, certamente non
da ultimo, economiche. Nel corso dei secoli la Chiesa aveva instillato nella mente del cristiano
un sentimento di legittimazione al ripudio dell’ebreo che, nel tempo, si era trasformato in
disprezzo. Causa era stata anche la sacralità con la quale la Chiesa aveva ascritto la colpa della
crocifissione di Gesù al popolo ebraico e, non ultimo, quell’ostinato rifiuto a convertirsi, rifiuto
che qualche secolo più tardi indurrà Martin Lutero a scrivere l’infausto libro Degli ebrei e delle
loro menzogne nel quale l’ebreo è posto tra le creature del demonio.
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Anche l’arte subisce questa evoluzione discriminatoria e persecutoria: si pensi ai portali delle
cattedrali gotiche dove viene spesso rappresentata una figura femminile con gli occhi bendati,
presso una colonna spezzata o con le tavole della legge ai piedi, che impersona la sinagoga,
l’ostinato, cieco, sconfitto, ripudiato ebraismo. Ad esso è sempre contrapposta la figura
trionfale dell’Ecclesia Christi. E più tardi, a partire dal XIII secolo, farà la sua comparsa addirittura
la scrofa ebraica, denigrazione iconografica degli ebrei da parte della Chiesa.
Con la spinta di tali realtà di sofferenza, prendono così l’avvio
secoli di flussi migratori a partenza dalle città del Reno e del
Danubio verso la Polonia e l’Ucraina fino alla Russia.
Anche se nel Sacro Romano Impero gli ebrei erano ritenuti
schiavi della camera imperiale e dei signori territoriali, il che
naturalmente significava un adeguato sfruttamento tributario, in
Germania in quel tempo la vita era comunque ancora
relativamente sopportabile.
Molto peggiore era invece la situazione negli altri stati cristiani
dell’Europa con governo centralistico, dai quali gli ebrei venivano
cacciati appena non c’era più bisogno di loro dal punto di vista
economico. In Francia, per esempio, si era giunti alle tasse speciali, alla confisca dei beni già
allora con la seguente causale: come soluzione finale al problema ebraico.
Tra il 1348 il 1350, durante la grande epidemia di peste, si giunse alla più grave persecuzione
degli ebrei di tutto il medioevo allorché in Alsazia, Renania, Turingia, Baviera e Austria ne
vennero sterminate centinaia di migliaia dal fanatismo religioso. All’origine di tanta spietata
violenza null’altro che una diceria. Dal sud della Francia si era improvvisamente diffusa la voce
secondo la quale gli ebrei sarebbero stati i responsabili dell’epidemia avendo loro stessi
avvelenato i pozzi. Le conseguenze furono fatali! Circa trecento comunità israelite d’Europa
vennero spazzate via dalla furia omicida di folle incontenibili: un bagno di sangue che si
aggiunse tragicamente alle milioni di vittime della terribile infezione. Cominciò, come si diceva,
un’ondata di espulsioni, nel 1390 dalla Francia, disposizione cancellata successivamente solo
con Napoleone, cento anni prima dall’Inghilterra, ed infine, tra il XV e XVI secolo, dalla Spagna,
Portogallo, Provenza e dal Sacro Romano Impero.
Risentimenti religiosi, sociali ed economici si collegavano ovunque con una fatale forma di
antiebraismo che non aveva bisogno delle motivazioni razziste del successivo antisemitismo
per generare migliaia di vittime. In Spagna, con la reconquista del XV secolo e la successiva
unificazione dei regni di Castiglia e Aragona, la situazione era peggiorata. Fu istituita
l’Inquisizione e affidata ai domenicani con l’obiettivo, nel segno di una salvezza, una chiesa, di
convertire gli ebrei se necessario con la forza. Questo portò conseguenze disastrose. Nel 1481
nella sola Siviglia vennero bruciati circa 400 ebrei, 2000 nell’Arcivescovado di Cadice e oltre
12.000 nell’intera Spagna. Dopo la conquista di Granada, ultimo regno musulmano della
penisola, su iniziativa del famigerato grande inquisitore Toquemada, confessore della regina
Isabella, gli ebrei vennero posti tutti davanti all’alternativa del battesimo o dell’esilio. Così, circa
100.000 persone emigrarono; ma furono molti di più coloro che si fecero battezzare, restando
però segretamente legati alla loro religione. Questi furono detti marrani, dallo spagnolo
marranos che significa porci. Osservava un francescano: in Spagna è meno turpe essere un
bestemmiatore, un ladro, un vagabondo, un adultero, un sacrilego o essere infetto da qualche altro
vizio che discendere dal ceppo degli ebrei convertiti… Per questa umanissima impresa Isabella di
Castiglia e Ferdinando d’Aragona ricevettero dal papa Alessandro VI, alias Rodrigo Borja, il
titolo di Reyes Católicos.
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Qualche anno più tardi, nel 1497, furono espulsi anche dal Portogallo e nel 1501 dalla Provenza.
Beneficiari culturali ed anche economici degli ebrei ispanici furono l’impero Ottomano e, fino
all’introduzione dell’Inquisizione, anche l’Italia e l’Olanda. Ma la Spagna cristiana rimase, nella
memoria degli ebrei, come l’immagine tetra e fosca contrapposta alla Spagna moresca.
Spogliati dei loro beni, frutto del lavoro di anni, si trovarono a girovagare per l’Europa dovendo
ricominciare tutto d’accapo. Non potevano svolgere lavori da cristiano. Le corporazioni
avevano loro precluso le attività artigianali; il sistema feudale impediva l’acquisto di terreni, il
commercio con paesi lontani era passato in altre mani. Che cosa avrebbero potuto fare per
sopravvivere? Non rimaneva che il commercio ambulante e al minuto. Ipocritamente fu la
stessa chiesa medioevale a costringerli a dedicarsi al prestito con interesse, perché soltanto così
potevano guadagnarsi da vivere; prestiti indispensabili per i governi ma invisi e odiati dal
popolo, la cui pratica la Chiesa stessa vietava ai propri membri.
Così le attività finanziarie diventarono di fatto loro monopolio ed essi, a causa delle pesanti
tasse imposte sulle loro attività, erano costretti a praticare interessi che andavano dal 49% a
100%, il che era stato motivo, nel 1290, della loro espulsione dall’Inghilterra. Il giudeo incarna
cosi, nel basso medioevo, la figura ostile per eccellenza che, a partire dal XIV secolo, doveva
accompagnare le processioni della Passione nei panni dell’usuraio, figlio di Giuda.
Poco mancava che fosse costretto a comprarsi perfino l’aria che respirava: doveva pagare i
permessi di andare e venire, di vendere e di acquistare, di pregare in comunità, di sposarsi, di
generare figli. Crudele fu il destino che accomunò la stirpe d’Israele all’umile calzolaio che derise
Gesù mentre saliva al Calvario portando la croce! Fu dunque quell’uomo a personificare l’ebreo
per antonomasia e la diaspora la punizione, in attesa della redenzione, per i suoi peccati?
La questione ebraica era davvero ben lungi dal concludersi
civilmente.
Con l’avvento di Lutero, che aveva sempre guardato con occhio
benevolo gli ebrei, la comunità israelita ripone su di lui le proprie
speranze. Lutero proclama con forza la visione di un nuovo
modello riformato della cristianità, un ritorno al Vangelo delle
origini ora da lui riscoperto e liberato di tutte le aggiunte romane.
Egli si presenta risolutamente come avvocato degli ebrei. Inizia
una nuova epoca anche per loro?
Nel 1523, in una serie di prediche aveva commentato il
Pentateuco* e, contemporaneamente, redatto uno scritto
Martin Lutero
intitolato Se Gesù Cristo fosse nato ebreo dove si difende dalle
accuse mossegli dai cattolici, secondo cui avrebbe affermato che Gesù è della stirpe di Abramo,
negando la verginità di Maria e sostenendo così opinioni ebraiche. Lutero matura la certezza
che, dopo l’introduzione della Riforma, gli ebrei non avrebbero più avuto alcuna motivazione a
convertirsi al vero, e originariamente ebraico, cristianesimo.
In questa situazione del tutto nuova si aspetta che gli ebrei assumano un atteggiamento
positivo nei confronti del riscoperto Gesù Cristo, nato ebreo e generato dalla Vergine. Infondo
non avrebbero dovuto far altro che ritornare alla fede dei loro padri, patriarchi e profeti, nella
quale è preannunciata chiaramente la messianicità di Gesù: E se anche noi ci gloriamo
altamente, siamo tuttavia pagani, mentre gli ebrei sono della stirpe di Cristo…
Lutero si scaglia con forza contro coloro che denigrano gli ebrei chiedendo invece che vengano
istruiti in base alla Bibbia e venga migliorata la loro condizione sociale affinché essi trovino
motivo per stare insieme a noi.
Forse aveva in mente una riforma anche dell’ebraismo?
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Cosa avesse veramente in animo di fare Martin Lutero non sappiamo, certo è che ad un certo
punto, sconfortato dalla legittima presa di posizione dell’autorità rabbinica che non aveva
alcuna intenzione di cristianizzare il millenario ebraismo, pubblica quel famigerato scritto
violentemente antiebraico Sugli ebrei e le loro menzogne, uno scritto polemico e malevolo che
doveva avere, alcuni secoli dopo, effetti nefasti su Hitler e i nazisti.
Nella prima parte dell’opera li accusa di superbia per la pretesa di essere il popolo eletto, nella
seconda di essere untori e di uccidere bambini, infine nella terza entra nella polemica ebraica
contro Maria, da loro definita prostituta.
Quindi nella parte conclusiva, in relazione a queste loro terribili affermazioni, suggerisce alle
autorità preposte pratiche antiebraiche.
Dunque Lutero, che un quarto di secolo prima era sfuggito al rogo dell’Inquisizione solo grazie
alla protezione di un Principe, ora chiede la distruzione delle sinagoghe e l’abbattimento delle
case degli ebrei nonché la messa a bando delle Sacre Scritture. Pena la morte chiede che venga
vietato l’insegnamento e la professione del culto, sospesi i salvacondotti, confiscati denaro e
gioielli, imposti i lavori forzati e, come se non bastasse, che ne venga decretata l’espulsione dai
paesi cristiani e il ritorno in Palestina: atteniamoci alla comune saggezza delle altre nazioni, come
la Francia, la Spagna ecc… riprendiamoci quanto ci hanno tolto con l’usura e cacciamoli per sempre
dal nostro paese.
Fortunatamente già allora le richieste di Lutero
apparvero esagerate e, nel 1595, fu chiesto
all’Imperatore Rodolfo II il sequestro del libro come
scritto spudorato e infamante.
Pur tuttavia Lutero non è proprio quell’antisemita
nazionalistico razzista che avrebbe definito gli ebrei
socialmente, psicologicamente e addirittura
biologicamente inferiori. Malgrado gli effetti che il
libro Sugli ebrei e le loro menzogne ha avuto nella
storia e che di certo pesano fortemente sulla sua
coscienza, questa definizione parrebbe, nei fatti,
arbitraria; egli infatti dapprincipio si era dimostrato, come si è detto, tutt’altro che avversario
degli ebrei. La causa della sua reazione probabilmente va cercata nella forte frustrazione
scaturita dagli insuccessi dei tentativi di convertirli al suo nuovo cristianesimo. Non seppe
comprendere che questo popolo restava aggrappato tenacemente alla propria fede avendo
consapevolezza che soltanto nell’unità religiosa e culturale sarebbe sopravvissuto in un
ambiente tanto ostile. Fu per questo, e per altre più celate frizioni politiche di cui forse egli
stesso rimase vittima, che il risentimento si cementò con un senso di inadeguatezza e ne
scatenò la vendicativa reazione. Lutero, come tanti altri pensatori del suo tempo, non
comprendeva il complesso mondo dell’ebraismo, non scorgeva lo spirito che guidava questo
popolo nel suo secolare avanzare in un mondo inospitale alla ricerca di una pace impossibile.
Tutto ciò alla fine lo trasformò nel tremendo predicatore antiebraico che li definisce mentitori e
demoni, proprio come fa con i Turchi e il Papa.
Sinagoga di Padova
In Italia, i papi del rinascimento, pragmatici e molto attenti al denaro quali erano, nei confronti
degli ebrei avevano mantenuto il ruolo di protettori e, allo stesso tempo, di beneficiari,
esattamente come avevano fatto i principi e gli imperatori. Anche il papa di transizione, Paolo
III Farnese (1534-1549) perfetto uomo del rinascimento - ebbe quattro figli - colui che nominò i
cardinali riformatori, approvò l’ordine dei Gesuiti e convocò il Concilio di Trento, incoraggiò
l’insediamento a Roma dei profughi ebrei provenienti dai territori spagnoli e promise loro
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protezione dall’Inquisizione. Ma poteva la benevolenza e la lungimiranza di un solo uomo
cambiare il corso della storia degli ebrei?
Certamente no!
Poi, con la pace di Augusta, con la quale si consolidava per secoli
un’intesa tra le varie confessioni secondo il principio cuius regio, eius
religio, salì al soglio di Pietro, col nome di Paolo IV, il primo Grande
Inquisitore romano, Gian Pietro Carafa. Iniziava così un nuovo periodo
di repressione.
Paolo IV (1555-1559), appena due mesi dopo la sua elezione, emanò la
bolla antiebraica Cum nimis absurdum e pochi giorni dopo,
sull’esempio della “liberale” Venezia, relegherà gli ebrei di Roma in un
quartiere malfamato sulle rive del Tevere. Ghetto ora diventa
rapidamente la denominazione ufficiale di quartieri speciali
rigorosamente delimitati. Una sorta di espulsione dalla società e di
costrizione all’interno di una prigione.
Sempre Paolo IV manderà al rogo ventiquattro marrani fuggiti dal
Portogallo, accusati di essere dei simulatori e quindi traditori della cristianità.
Antonio Ghislieri, già grande inquisitore sotto Paolo IV, poi papa col nome di Pio V,
sottoscrittore nel 1569 della scomunica di Elisabetta I d’Inghilterra, si metterà in luce anch’egli
per la bolla antiebraica Hebreorum gens sola che in pratica decretava l’espulsione dallo Stato
della Chiesa di comunità ebraiche antichissime, accordando insediamenti solo nella città di
Roma ed Ancona.
Gregorio XIII nel 1578, con una bolla antiebraica Antiqua Judaeorum probitas e altri decreti,
amplia notevolmente i diritti dell’Inquisizione nei confronti degli ebrei. Nel cattolicesimo
controriformista non si dà luogo ad alcuna discussione teologica sul’ebraismo, le relazioni con
le comunità sono regolate da leggi speciali mentre la questione spirituale-religiosa è di
pertinenza dell’Inquisizione.
La Chiesa inizierà così a fare pressioni sugli stati cattolici europei affinchè si adeguino all’ormai
istituzionalizzata ideologia antiebraica rinchiudendo le comunità nei ghetti.
La pratica della ghettizzazione si diffonde dunque in quasi tutta l’Europa e solo con Napoleone
alcune leggi antiebraiche, soprattutto quelle che ne limitavano le libertà, saranno abolite.
Nel 1654 ventiquattro ebrei partiranno per il Brasile ma, trovando istituita l’Inquisizione anche
lì, proseguiranno per Nuova Amsterdam, la futura New York dove fonderanno la prima
sinagoga americana i cui atti, in lingua portoghese, si conservano tuttora.
Dopo la Riforma e la Controriforma, con le indescrivibili devastazioni delle guerre religiose, la
fine della guerra dei trent’anni e la pace di Westfalia del 1648, si conclude definitivamente
l’epoca del confessionalismo, mutano gli equilibri globali e si forma il moderno sistema
eurocentrico che dominerà per circa tre secoli. Dopo la dichiarazione dei diritti di Guglielmo III
in Inghilterra a favore dei protestanti non conformisti, ovunque si era ormai stanchi delle
dispute teologiche e si desiderava maggior tolleranza per le diverse religioni.
Quando furono gettate le basi della moderna economia coloniale saranno proprio gli ebrei, che
fino dai tempi di Colombo si erano attivati quasi ovunque, e, per ironia della sorte, proprio i
Sefarditi scacciati dalla penisola iberica, a contribuire in maniera sostanziale e, in qualche caso,
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decisiva a consolidare ad Amsterdam, nel secolo XVII, la supremazia olandese nel commercio
mondiale, contro cattolici spagnoli e portoghesi.
Nello sviluppo economico europeo, fondato sulla circolazione dei capitali, gli ebrei
rappresenteranno ben presto un importante fattore economico: calcolando in maniera
freddamente razionale e insieme pensando in maniera globale, essi già da tempo impiegavano i
loro capitali nello spirito del mercato e, aperti alle innovazioni, facevano ricorso a mezzi di
pagamento e a possibilità di finanziamento quasi rivoluzionari per quel tempo. Nel XVII secolo
sia a Londra che ad Amsterdam avranno un ruolo di primissimo piano nella nascita dei titoli
della borsa valori e nella loro commercializzazione.
Dunque l’età moderna inizia sotto segni favorevoli con una nuova
fede nella ragione umana che, in opposizione a tutte le autorità
religiose, diventa arbitro supremo della verità.
La moderna filosofia che parte dal soggetto umano, fondata da
Cartesio, Spinoza, Leibniz e dagli empiristi inglesi Hobbes e Hume,
trova la sua grande sintesi in Immanuel Kant. Inizia così, a metà del
XVII secolo, un nuovo modello epocale che giunge alla sua maturità
nel XVIII con la rivoluzione filosofico-scientifica e presto anche quella
tecnologica; poi, verso la fine del siècle des lumières, con le rivoluzioni
americana e francese.
Il primo vero passo verso l’emancipazione degli ebrei lo fece
Giuseppe II d’Austria nel 1781 con un editto che dava loro uguale dignità civile e umana. In
concreto l’imperatore stesso decretava nel suo regno la loro emancipazione giuridico-statale,
compresa la modifica del nome affinché assumesse un suono tedesco, con l’obiettivo di rendere
tutti gli ebrei utili cittadini dello stato. Ma questa conquista civile non aprì il dialogo tra la Chiesa
e l’ebraismo: in Germania la grande rivoluzione culturale ebbe luogo ma soltanto nel regno delle
idee, nella filosofia, nella poesia e nella musica, non nella politica.
Come si diceva, la rivoluzione francese portò alla proclamazione formale dei diritti dell’uomo e
quindi anche di quelli degli ebrei. Naturalmente il diritto di cittadinanza era riferito all’individuo
e non alla religione, in conformità al concetto di individualismo e liberalismo moderno. Neppure
Napoleone, che ereditò la rivoluzione, si interessò nella sua politica alla comunità ebraica
perché riteneva la religione una questione esclusivamente privata. Piuttosto era interessato
all’educazione degli ebrei come leali cittadini francesi di fede mosaica, all’interno di uno stato
laico che, per quanto riguardava la visione del mondo, doveva improntarsi alla neutralità e alla
tolleranza nei confronti di tutte le confessioni religiose. Neppure la Germania poteva ignorare i
valori delle due grandi rivoluzioni, nonostante lo scetticismo dei ceti dominati nei confronti di
queste idee occidentali. In ogni modo gli eserciti francesi, ovunque andassero, imponevano
l’emancipazione degli ebrei e la soppressione dell’obbligo di risiedere nel ghetto. Alla caduta di
Napoleone, i tentativi di restaurazione dell’era Metternich, dopo il 1815, miravano ad eliminare
le conquiste dell’illuminismo e a tralasciare l’emancipazione degli ebrei nel segno della dottrina
dello stato cristiano, del mito romantico del popolo e di un patriottismo sempre più
pericolosamente nazionalistico. Ma, nella successiva ondata rivoluzionaria del 1848, anche in
Germania venne proclamato l’affrancamento degli ebrei.
Tardò invece l’impero zarista il quale, dopo l’annessione della Crimea e della Bessarabia e
soprattutto della Polonia, contava quasi i due terzi degli ebrei d’Europa. In effetti era assai
difficile, in uno stato in cui dominava una religione nazionale, che avvenisse con facilità
l’emancipazione delle comunità ebraiche sparse per l’impero. Anzi, sotto Alessandro III (18451894), si fece addirittura ritorno, su sollecitazione dell’alto procuratore cristiano del Santo
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Sinodo, a dure misure repressive. Lo stesso avvenne in Polonia. Qui gli ebrei dovevano fungere
di nuovo da capri espiatori della generale miseria sociale.
A causa di questa diffusa povertà e delle severe condizioni politico-sociali, iniziò un massivo
movimento migratorio questa volta dai paesi dell’est verso gli Stati Uniti. Nel 1880 i soli ebrei di
lingua tedesca furono 250.000; tra questi non c’erano più soltanto poveri e piccoli
commercianti, ma anche, e in misura sempre crescente, benestanti e rabbini formatisi nelle
università tedesche, con idee radicali di cambiamento portate dalla Germania in merito a un
culto moderno che nella libera America, senza tasse ecclesiastiche e regolamentazioni statali,
potevano realizzare addirittura meglio che nel sistema della chiesa statale tedesca.
Con l’insieme dei nuovi sviluppi la società europea si trasforma, dunque, radicalmente e,
nell’onda di questi profondi cambiamenti della struttura sociale, politica, culturale ed
economica; l’integrazione degli ebrei nella vita civile dei paesi europei sembra aprirsi ad
orizzonti più promettenti e mettere la parola fine all’odiosa concezione antiebraica medioevale.
Il XIX secolo germoglia colmo di speranze; i fermenti sociali e politici, che partono dagli strati
più bassi della società, fanno emergere grandi problemi morali ed etici. La circolazione delle
genti nei nuovi continenti apre a integrazioni impensabili solo cinquant’anni prima. Nuove vie e
rivoluzionarie riformulazioni politico-sociali gettano le premesse per un mondo nuovo. Ma tutto
questo trambusto, che al suo esordio sembrava voler sovvertire l’ordine costituito, si ripiega su
se stesso come se avesse perduto di colpo la forza dirompente che lo aveva generato e
ormeggia nel primo porto sicuro che scorge: il nazionalismo.
Un nazionalismo in travolgente ascesa dilaga infatti in tutto il continente europeo come una
marea inarrestabile, un patriottismo mai conosciuto che in Germania risuona come una sorta di
antico amore per i padri. In Polonia e nella Russia di fine secolo l’ostilità verso gli ebrei prende la
forma di vero e proprio razzismo. Perfino l’attentato allo zar Alessandro II viene attribuito a
nichilisti ebrei, considerati agitatori della plebaglia. Cominciano i pogrom che negli anni
successivi, e perfino all’interno delle sommosse rivoluzionarie del 1917-1921, si ripeteranno a
catena.
In Francia scoppia l'affaire Dreyfus che doveva distruggere la
fiducia nella realizzazione degli ideali illuministici di
emancipazione. Ciò che appariva peculiare nella Germania
guglielmina, l’aperto antisemitismo, non sembrava dovesse mai
fare la sua comparsa nella Francia della terza repubblica. E
invece, sotto le ceneri, si nascondeva un fuoco antisemita che
allignava anche nei vertici politici ed economici.
L’ebreo Alfred Dreyfus venne falsamente accusato di alto
tradimento a favore della Germania e venne, da principio,
condannato alla deportazione a vita e, in seguito nel 1889, con
Alfred Dreyfus
evidente violazione del diritto, a 10 anni di reclusione. Era
scoppiato un affaire che, non soltanto doveva portare la terza Repubblica alla sua più grave crisi
interna, ma insieme rivelare tutta la portata dell’antisemitismo di Francia. L’esercito, la nobiltà,
i monarchici, la grande borghesia, la stampa di destra e, naturalmente, il clero si opposero per
anni alla riapertura del processo. Soltanto nel 1906, ben sette anni dopo, l’ebreo alsaziano
Dreyfus otteneva la piena assoluzione.
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Con il neo-nazionalismo europeo viene dunque alla luce un antisemitismo non più di stampo
religioso bensì del tutto in linea con lo spirito social-darwinistico del tempo e del suo principio
della selezione, razziale e biologica.
Fino al XIX secolo l’aggettivo semita indicava solo un gruppo
linguistico comprensivo anche degli arabi. Ma nel 1879 un autore di
pamphlet tedesco di nome Wilhem Marr conia e divulga l’aggettivo
antisemita: una dicitura, secondo lui, scientifica per dare un nome
rispettabile all’odio verso gli ebrei. Nel ventesimo secolo questa
miscela di nazionalismo e razzismo sarebbe diventata un composto
esplosivo di fanatismo nazionalistico la cui forza dirompente è stata
sempre in larga misura sottovalutata.
Dunque, la vecchia questione ebraica non era affatto risolta, ora
veniva addirittura definita questione sociale dal nazionalista Heinrich
von Treiscke e dai suoi seguaci. E questo ancor di più ora, che gli
Wilhem Marr
ebrei avevano raggiunto un crescente ruolo di prestigio
nell’economia, la politica e la cultura, avrebbe provocato sentimenti di odio e di invidia nella
marea di non ebrei insoddisfatti.
Dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, il
risentimento antisemita trova il suo punto di coaugulo nel nascente
partito nazionalsocialista di Adolf Hitler ma ora non si tratta più
soltanto di antisemitismo della carta stampata bensì della parola,
della propaganda, delle urla e infine delle azioni. Il nazismo fu
innanzitutto l’antisemitismo dell’azione, della violenza fine a se
stessa, del terrore e dell’annientamento fino a giungere alla
catastrofe storica.
Non vi è dubbio che l’antisemitismo razzista, ed in particolare quello
nazista, rappresentino una sconfitta senza precedenti
dell’Illuminismo europeo. E’ cosi, dopo le rivoluzioni americana e
francese, dopo che gli ebrei avevano dato alla Germania filosofi,
Heinrich von Treiscke
scrittori, artisti, musicisti e scienziati come Gotthold Ephraim
Lessing e Moses Mendelssohn, Karl Marx, Sigmund Freud, Martin Buber e Albert Einstein,
Gustav Mhaler, Jakob Wasserman e Joseph Roth, ecco che la follia umana rievoca dal passato i
demoni dell’intolleranza e della violenza spingendo una parte di umanità in una spaventosa
ricaduta nel mondo barbarico del medio evo, nell’ignoranza più bieca, in atrocità inaudite e,
usando le parole di Irvin Yalomon del suo libro “ Il problema Spinoza” (Neri Pozza, editore), si
incubava un dramma gigantesco che attendeva soltanto la comparsa sulla scena di attori dotati di
una malvagità soprannaturale.
* Con questo termine si indicano i primi 5 libri del Tanakh, conosciuti anche col nome greco di Pentateuco.
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L’INCORRUTTI BILE, L ’INCOMBUS TIBILE A MIANTO
Anna Valerio
Era già noto nel I sec. a.C. ai tempi del
geografo greco Strabone e poi di Plinio e
di Plutarco; ce ne parla Marco Polo che lo
chiama “lana di salamandra” riferendosi
alla resistenza al fuoco di entrambi. E’
l’amianto, l’incorruttibile, detto anche
asbesto,
l’incombustibile.
Due
denominazioni di origine greca per
definire, in modo sintetico ed esplicito, le
caratteristiche principali di questo materiale tristemente noto. La sua natura è
quella di un silicato fibroso, cioè un composto di silicio e ossigeno, che si ricava
da rocce diverse (crisolite e crocidolite). Una volta estratto e lavorato, diventa
un materiale che fonde a temperature elevatissime (1500°C), inattaccabile
dagli acidi, molto resistente e non molto pesante. Qualcuno, nel secolo
scorso, lo definì il materiale dalle mille possibilità tanto che allora trovò un
impiego pressoché ubiquitario: dai ferri da stiro, ai telefoni, a freni e frizioni,
alle tute dei vigili del fuoco, agli asciugacapelli, ai quadri elettrici, ai bottoni,
ma anche ai filtri di sigaretta e come componente abrasiva delle paste
dentifrice. Il settore che lo utilizzò maggiormente fu l’edilizia sotto forma di
fibro-cemento per la fabbricazione di tubi (anche per le condotte dell’acqua),
rivestimenti di edifici e ricopertura di tetti. Inoltre, la polvere di amianto è
stata largamente utilizzata come coadiuvante nella filtrazione dei vini e come
componente dei ripiani di fondo dei forni per la panificazione.
Questo larghissimo impiego si deve alla creatività dell’austriaco Ludwig
Hatschek che, nel 1901, inventò una macchina per filarlo di cui poi vendette il
brevetto a un gruppo francese e successivamente al gruppo svizzero
Schmidheiny di Niederurnen. L’hanno chiamato eternit a sottolinearne
l’indistruttibilità. Le fibre sono resistenti alla corrosione e quindi si prestano ad
essere lavorate in lastre molto sottili, come una sfoglia, che vengono
impastate e colate in stampi dei quali prendono la forma e dai quali vengono
poi tagliate per essere rimosse e avviate all’uso.
È stato considerato il materiale miracoloso del XX secolo per le sue proprietà
molteplici e, non da ultimo, perché le sue fabbriche, qui da noi prima tra tutte
quella di Casale Monferrato, hanno rappresentato l’Eldorado per quelle
popolazioni che, in alternativa, si sarebbero viste costrette ad emigrare per
trovare quel lavoro che invece, adesso, era lì sotto casa, a disposizione.
Bastava allungare la mano ed ecco il benessere mai conosciuto prima. Un
lavoro sicuro, con un orario preciso e la paga a fine mese. E una dignità
ritrovata che in Italia allora la si acquistava col fare, non con il sapere o con la
loquela. E non solo, la spinta subito è legata anche al desiderio di progresso, di
cambiamento di vita. Tutto si può con questa “pietra artificiale”: meglio allora
sostituire le vecchie tegole dei tetti, rivestire il terrazzo, recintare l’orto, rifare
il pollaio e la conigliera. Le palestre e le scuole saranno più sicure; con l’eternit
tutto sarà più razionale.
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Tutto bene, insomma, per i primi 15-20 anni, fino a che non iniziano, tra i
lavoratori del settore, quelle morti per “bronchite cronica riacutizzata” che, si
sa, sono quelle dei fumatori incalliti e le sigarette, ora, sono alla portata anche
delle classi operaie, anzi trovano proprio qui il loro consumo maggiore. Tutto è
comunque normale, si nasce e si muore; si deve pur morire di qualcosa! E
morire per il lavoro è quasi un onore, in un Italia dove il lavoro scarseggia. A
Casale dal 1907 al 1986, anno della chiusura dello stabilimento, migliaia di
persone hanno lavorato per la produzione di questo materiale tossico.
E la proprietà? Come è stata vissuta questa esperienza dal gruppo
Schmidheiny che fino agli anni 80 possedeva fabbriche di eternit in 16 paesi
per un totale di 23000 dipendenti? Nella famiglia si sono susseguite tre
generazioni, prima Jacob, poi Ernst e ora Stephan, tutte animate da quel
profondo senso della missione e dall’intraprendenza che non li ha fatti
guardare in faccia nessuno, soprattutto al tempo dei loro rapporti lavorativi
con la Germania di Hitler o con il Sudafrica dell’apartheid o ancora nella
ricostruzione con fibro-cemento del Nicaragua devastato dal terremoto del
1976. Tra i più ricchi del pianeta, dovevano essere di certo persone degne
poiché davano lavoro a migliaia di persone; soprattutto l’ultimo di famiglia,
che, dopo il boom nel 1976 delle lastre ondulate a pressione vendute davvero
in ogni dove, soprattutto ai Paesi più poveri, alla fine degli anni ottanta si
sbarazza delle miniere di asbesto e di molte fabbriche e cambia ruolo,
addirittura arriva a ricoprire cariche internazionali (rappresentante dell’ONU
per lo sviluppo sostenibile e consigliere di Bill Clinton) prima di ritirarsi a vita
privata a scrivere libri… sulla natura.
Ripensamento, crisi di coscienza, o semplicemente fiuto tutto imprenditoriale
che lo induce a riciclarsi, come si conviene?
Eppure che l’amianto fosse pericoloso lo sapevano già nel 1930 da studi medici
pionieristici eseguiti nel Regno Unito dove era stata dimostrata una
correlazione tra contatto con l’amianto e sviluppo di tumore. E la Germania
nel 1943 aveva riconosciuto, prima fra le nazioni interessate, che asbestosi,
una malattia polmonare cronica, e mesotelioma pleurico, una grave forma di
cancro, erano conseguenza dell’inalazione di asbesto tanto da prevedere
risarcimenti per i lavoratori colpiti. Nonostante ciò, si continuò a produrre
eternit fino al 1986: l'Italia è stata, infatti, il secondo maggiore produttore
europeo di amianto, dopo l'ex Unione Sovietica, e uno dei maggiori
utilizzatori. E solo a partire dal 1992, con la legge n.257, ne sono state vietate
estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione e
ci si prende cura dei lavoratori esposti. La causa di questo ritardo? Il gruppo
sosteneva che non vi fosse materiale con cui sostituire l’amianto quindi
l’abbandono doveva, di necessità, essere lento e progressivo.
Il punto è che non esiste una soglia di rischio al di sotto della quale la
concentrazione di fibre di amianto nell'aria non sia pericolosa: teoricamente
l'inalazione anche di una sola fibra può causare il mesotelioma e le altre
patologie, anche se, naturalmente, un'esposizione prolungata nel tempo o ad
elevate quantità aumenta esponenzialmente le probabilità di contrarle.
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Così le patologie correlate all'amianto sono aumentate in 10 anni del 50% e in
5 anni del 18%. Come risulta dall'ultimo rapporto annuale dell'Inail: nel 2011
sono state denunciate 2.250 patologie correlate all'amianto, pari al 5% delle
46.558 malattie professionali. Erano circa 1.900 nel 2006 e 1.500 circa nel
2001. Come tristemente sappiamo, in Italia di amianto si continua a morire, e
il picco di casi per il principale tumore causato dall'esposizione alla fibra killer,
il mesotelioma maligno pleurico, è atteso entro il 2020 o 2025. Dopo il boom
di casi, seguirà un declino relativamente rapido, legato al fatto che, a partire
dal 1992, l'impiego dell'amianto è stato bandito.
In questo momento cosa si può fare? Naturalmente stilare elenchi degli ex
esposti e raccogliere dati sui nuovi tumori monitorando anche gli operatori
oggi coinvolti nelle azioni di bonifica, rafforzare il controllo sull’assoluto
rispetto dei divieti, attivare interventi di messa in sicurezza e bonifica e
promuovere la ricerca su nuove tecniche per lo smaltimento dell'amianto
nonchè affrontare il problema dell’insufficienza di discariche e siti di
stoccaggio che obbliga oggi a far ricorso a sedi estere (Germania) con forti
aggravi dei costi.
Ma soprattutto non smettere di cercare possibili cure per alleviare le
sofferenze di chi è colpito da queste malattie. Oggi si sa che cos’è il
mesotelioma pleurico - un tumore maligno che colpisce le cellule della
membrana che riveste i polmoni (pleura) -; che ha una latenza temporale
lunga, cioè che si manifesta fino a 45 anni dall’esposizione, con un picco dopo
30. I principali sintomi (tosse, dolore toracico e dispnea) spesso si manifestano
già un mese dopo la diagnosi, accompagnati da astenia e malessere generale.
La pleura si ispessisce diffusamente e questo può portare obliterazione dello
spazio pleurico (tra pleura stessa e polmone) e conseguente blocco della
motilità polmonare. Se ne conosce il decorso, purtroppo infausto; la
sopravvivenza è breve (7,5 mesi di media) e comunque non più di 1-2 anni. E
ancora si sa che l’asbesto in sé non è una sostanza mutagena, cioè in grado di
provocare mutazioni, ma agisce indirettamente attivando (fosforilando) un
fattore di crescita che sta nelle cellule (EGFR) che, a sua volta, attiva una
cascata di eventi che inducono proliferazione cellulare, quindi tumore. Inoltre
sono coinvolti nell’attivazione anche i ROS (specie reattive dell’ossigeno) che
non sono da meno in quanto a pericolosità. Alcuni studi hanno dimostrato che
sarebbe coinvolta anche una specie virale (SV40) capace di produrre due
proteine che stimolano la crescita cellulare, e inducono mutazione ma
sarebbero in grado anche di sopprimere l’azione di alcuni geni
oncosoppressori, quelli cioè che bloccano l’espressione tumorale. L'asbestosi
è una patologia polmonare cronica che è anche predisponente all'insorgenza
dell'adenocarcinoma polmonare e del mesotelioma pleurico, in particolare nei
soggetti fumatori. Le fibre di asbesto penetrano attraverso le vie respiratorie e
le più sottili possono raggiungere le parti terminali della struttura polmonare,
gli alveoli polmonari, deputati allo scambio gassoso con il circolo sanguigno.
Qui provocano una reazione infiammatoria da corpo estraneo. L’organismo
risponde per eliminare l’infiammazione attivando cellule particolari, i
macrofagi, che sono capaci di fagocitare le fibre e di stimolare la produzione di
tessuto connettivo che non è più capace di operare gli scambi gassosi del
tessuto alveolare. Anche in questo caso si ispessisce la pleura che diventa
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fibrotica e spesso calcifica. Il paziente affetto manifesta difficoltà a respirare
(insufficienza respiratoria) dapprima sotto sforzo poi anche a riposo, un senso
di costrizione toracica, tosse e generale decadimento delle condizioni di
salute. E questa è una condizione predisponente per tumore polmonare o
pleurico.
Il 3 giugno il processo Eternit ha concluso il suo secondo atto. In primo grado,
il 13 febbraio 2012, l’imprenditore elvetico Stephan Schmidheiny era stato
condannato a 16 anni di reclusione. Oggi gli sono stati aggiunti 2 anni di pena
ed è stato condannato a 18 anni. La Corte d’Appello di Torino, dove si è svolto
il processo, ha ritenuto il miliardario svizzero responsabile di disastro doloso e
omissione dolosa di misure di sicurezza non solo per lo stabilimento di Casale
Monferrato ma anche per gli stabilimenti Eternit di Bagnoli (Napoli) e Rubiera
(Reggio Emilia). In primo grado gli imputati erano due, ma il secondo, il
barone belga Louis De Cartier De Marchienne, è deceduto il 21 maggio scorso
a 92 anni, pertanto i giudici hanno dichiarato il non luogo a procedere data la
morte dell’imputato e hanno fatto estinguere ogni reato e anche ogni pretesa
di risarcimento delle persone a lui collegate nel processo penale. Novanta le
famiglie che sono state escluse dalle parti civili e quindi dal risarcimento. Le
parti civili erano la regione Piemonte, il comune di Monferrato e numerosi ex
operai o appunto famiglie di operai deceduti a seguito dell’esposizione
all’amianto.
I giudici hanno disposto provvisionali per 20 milioni di euro alla Regione
Piemonte e oltre 30,9 milioni per il comune di Casale Monferrato. Denaro,
dice il sindaco Giorgio Demezzi, che verrà utilizzato per “eseguire le
bonifiche”; la stessa destinazione avrà ciò che i giudici hanno assegnato alla
Regione. Per i familiari delle vittime sono stati riconosciuti 30mila euro
ciascuno. Sono 932 le vittime che avranno un risarcimento, contro le 2200 che
si erano costituite parte civile. Un dimezzamento dovuto in parte alla morte di
Louis De Cartier e in parte all'assoluzione di Schmidheiny per il periodo
precedente al 1976.
Infatti, per quanto riguarda Schmidheiny, il giudice ha stabilito che il periodo
in cui gestì la Eternit va dal giugno del '76, per gli stabilimenti di Casale e
Bagnoli (Napoli) e dall'80 per quello di Rubiera (Reggio Emilia), e arriva fino al
giugno dell'86 per Casale, fino all'85 per Bagnoli, fino all'84 per Rubiera.
L'imputato è stato quindi assolto per il periodo che va dal giugno del '66 al '76
per non aver commesso il fatto. Il giudice Alberto Oggé, al suo ultimo
giudicato prima della pensione, ha letto per circa un’ora la sentenza in un
silenzio pieno di aspettative: complessivamente il magnate è stato
condannato a risarcire 100 milioni di euro. La reazione umanissima di Stephan
Schmidheiny, per bocca del suo avvocato, è stata: “A questo punto chi verrà più
ad investire in Italia? Una persona che all'epoca investì 75 miliardi di lire e non ne
ha incassato nemmeno uno viene considerato responsabile e condannato a 18
anni. Non mi sembra un incentivo a investire”.
Ora tutti noi attendiamo il terzo grado di giudizio.
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DOVE OSANO LE IDEE. XX VI SALONE
INTERNAZIONALE DEL LIBRO
Cesare Granati
Le idee osano nella rete. Il salone Internazionale
del Libro 2013, svoltosi a Torino dal 16 al 20
maggio, ha mostrato al mondo della cultura che
gli editori, grandi e piccoli, hanno finalmente
preso coscienza della profonda trasformazione
mediale in atto. L’uso dei nuovi mezzi di
comunicazione per diffondere letteratura non
appare più come un pericoloso abbassamento
dell’idea stessa di cultura, ma è considerato
l’unico mezzo valido per avere un ruolo
importante nella società del futuro. Gli
interrogativi restano molti ma il modo per dare
una risposta valida è uno solo: conoscere e
innovare. Tra i problemi più spinosi da risolvere
per chi edita parole in questo oceano di
informazioni che è il web, c’è sicuramente la questione dei diritti d’autore. A
Torino l’argomento è stato affrontato in modo chiaro ed è stato dimostrato
come l’aspetto più preoccupante è la lentezza degli organi legislativi, ancora
rivolti ad un sistema comunicativo superato, rispetto alle innovazioni che si
susseguono rapidamente. Nascono nuove piattaforme online dove ogni
individuo può creare costantemente User Generated Conent (UGC, contenuti
generati dall’utente) che sfuggono spesso alle norme vigenti riguardo ai diritti
d’autore. Colossi come Facebook si appropriano di scritti, immagini,
informazioni senza che l’utente ne abbia consapevolezza e riutilizzano questi
contenuti per ricavarne guadagno. Informarsi e leggere sempre quello che,
con un semplice clic, firmiamo è l’unico modo per tutelare se stessi e quello
che condividiamo in rete. Se l’utilizzo di questi social media è gratuito, non è
per un’innata vocazione alla condivisione, ma perché la merce siamo noi.
Le insidie nascoste tra le righe dei contratti proposti da Facebook & co. non
devono intimorire chi si occupa di cultura. I social media sono un mezzo
potentissimo per farsi conoscere. La difficoltà di vendere prodotti di qualità
online può essere superata grazie alle conoscenze delle generazioni che si
affacciano oggi nel mondo del lavoro. Una casa editrice mitica nel panorama
nazionale è Minimun Fax. Una delle poche case editrici indipendenti che riesce
a coniugare qualità del prodotto e bontà del profitto. Come? Oltre ad
intuizioni editoriali importanti, come pubblicare per primi gli scritti di un certo
Roberto Saviano, hanno da sempre puntato molto sulla interattività tra loro e
il pubblico. I social media sono stati importanti per ampliare questa strategia
comunicativa. Minimum Fax, grazie ai propri (giovani) esperti, non solo esiste
fisicamente, ma vive un’esistenza digitale su Facebook e Twitter. Grazie al
social network di Zuckerberg, porta il proprio pubblico nei suoi uffici mentre
sfrutta i 140 caratteri di ogni singolo cinguettio per raccontare in tempo reale
le proprie iniziative e va anche oltre. Di recente ha pubblicato una storia a
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puntate, già edita dal New Yorker e tradotta in italiano, che la scrittrice
Jennifer Egan aveva pensato proprio per questo tipo di pubblicazione. Ogni
giorno durante la pausa pranzo i followers possono leggere una parte del
racconto. Questo non porta un guadagno immediato ma avvicina pubblico ed
editore e ingolosisce il lettore.
Un'altra grande possibilità offerta dalla rete è una maggiore libertà nella
modellazione di un messaggio. L’intrattenimento offerto grazie alle nuove
tecnologie, e in particolare quello che si trasmette attraverso gli schermi che
circondano continuamente gli esseri umani, ha confuso chi si occupa di
letteratura. Un romanzo non è solo intrattenimento, la cultura può costare
fatica. Guardare un film, se è di qualità effimera tanto meglio, ascoltare una
canzonetta pop è semplice, costa poco e diverte. Non si può e non si deve
confondere letteratura e intrattenimento, ma è possibile cambiarne l’abito per
mantenere le qualità intrinseche del messaggio pur volendo giungere a
diverse fasce di pubblico. L’audiolibro è un medium nuovo per comunicare la
letteratura, può avvicinare alla lettura e contemporaneamente essere un
modo nuovo per gli appassionati di rivivere un romanzo già letto. GoodMood
Edizioni Sonore, leader del settore, ha presentato a Torino un’importante
iniziativa. Quest’estate, sulle spiagge di Cervia e di Milano Marittima, sarà
possibile scaricare gratuitamente due audiolibri connettendosi alla rete
offerta dagli stabilimenti balneari ai turisti. In questa operazione commerciale
si possono individuare due importanti elementi innovativi. Da una parte la
volontà dell’amministrazione locale e degli imprenditori della zona di rendere
il territorio connesso alla rete e dall’altra la capacità di una casa editrice di
sfruttare appieno le possibilità date dal web per diffondere un prodotto nuovo
e che trova nell’esistenza digitale la forma più adatta per diventare un
medium di successo.
Un’altra casa editrice che produce audiolibri è Emons: audiolibri. Molto attiva
durante la fiera ha presentato diversi eventi. La forza principale di questa
realtà editoriale è la qualità delle voci narranti. Emons associa ai grandi
capolavori della storia letteraria le voci di attori, scrittori e cantanti. Uno di
questi è Francesco De Gregori che a Torino ha presentato la versione audio di
“Cuore di tenebra” di Joseph Conrad. Un’occasione per parlare del suo
rapporto con la letteratura e per esplorare un messaggio quanto mai attuale
come quello racchiuso nel capolavoro di fine Ottocento: i demoni che
dobbiamo temere non sono nascosti nel cuore della giungla ma sono dentro di
noi; è l’uomo occidentale, ossessionato dalla ricchezza e dal potere, il vero
demone che il mondo deve temere.
Un’altra iniziativa di Emons è stata la lettura di alcuni brani da “Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana” di Emilio Gadda compiuta da Fabrizio
Gifuni per presentare l’audiolibro appena uscito sul mercato. Più teatrale di De
Gregori, e non potrebbe essere diversamente data la bravura di questo
straordinario attore, Gifuni è stato eccezionale e ha mostrato al pubblico
come forme d’arte differenti si confondono se maneggiate da un grande
interprete. Gli abbiamo rivolto alcune domande per conoscere i suoi segreti di
attore, la sua opinione riguardo agli audiolibri e il suo amore per Gadda.
Per un attore, quali sono le differenze principali tra l’interpretazione di un
copione per uno spettacolo teatrale o per un film rispetto alla lettura di un
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grande romanzo?
Le differenze sono tante. Già lavorare ad un film rispetto che ad uno
spettacolo teatrale rappresenta un lavoro complessivamente diverso anche
se, alla fine di tutto, quello che resta è il lavoro da attore. C’è un denominatore
comune che è quello che l’attore mette in campo, che lo lega a questi testi, la
sua curiosità, la sua passione. Per quello che riguarda la lettura di un
audiolibro tutto sembra essere rimesso esclusivamente nella voce, in realtà
tutto il corpo viene investito com’è in teatro. Io credo che leggere ad alta voce
dei testi, anche non destinati al teatro, sia un’esperienza molto emozionante e
ricca di sorprese.
Gadda era un funambolo della lingua. A livello linguistico, cosa si
guadagna ad ascoltare il romanzo e cose si perde, se si perde qualcosa,
rispetto ad una lettura più intima?
Cosa si perde non lo so, anzi io credo che non si perda nulla. Si può leggerlo
anche con gli occhi e a bassa voce. Io credo che in testi particolarmente
complessi, una lettura ad alta voce dia la possibilità di aprire le maglie del
testo, comprenderlo maggiormente e inoltre io credo che sia un’operazione
profondamente organica al testo. Le parole non si depositano
miracolosamente su una pagina ma provengono dal corpo degli scrittori,
quindi leggerle ad alta voce significa strapparle dalla pagina scritta e
rimetterle in verticale, significa riportarle nella loro sede originale, farle
tornare nuovamente corpo e carne.
Lei ha incontrato Gadda a vent’anni. Con un autore così importante ma
anche così complicato è stato amore a prima vista o ha dovuto conoscerlo?
È stato amore a prima vista perché il romanzo era “Quer pasticciaccio”. Forse
se avessi incontrato qualche altra opera più complessa nell’immediata
fruizione le cose sarebbero andate diversamente, non lo so, fatto sta che la
lettura a vent’anni del “Pasticciaccio” mi ha folgorato, è stata un’esperienza
che ricordo con grande chiarezza ancora oggi, da lì è iniziata una febbre che
mi ha portato a leggere tutto Gadda e fortunatamente c’è tanto, perché
Gadda ha lascito tantissimo.
Letteratura come folgorazione. La cultura come evento significativo nella vita
dell’individuo. Perché queste siano esperienze comuni ai più, la cultura e i libri
devono continuare a essere una presenza costante nella vita delle persone.
Attraverso le parole è possibile istruire, comunicare la Storia, entrare in una
cultura diversa dalla propria, viaggiare con la fantasia, non dimenticare mai
valori quali la giustizia, la libertà e l’amore. La Rai alla fiera del libro ha
presentato la creazione di un portale web perché in ogni momento qualunque
utente possa risalire a discussioni letterarie avvenute in TV o in Radio,
individuare un titolo sfuggito durante la diretta, conoscere un autore.
Ovunque oseranno le idee è fondamentale non restare mai senza parole. Un
grande scrittore italiano ci ha raccontato come di fronte alla più tremenda
delle ingiustizie perpetuate dagli essere umani sui propri simili, fosse
fondamentale non smettere mai di raccontare, di trovare le parole. Primo Levi
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è oggi lo scrittore italiano più tradotto nel mondo, le sue parole sono
immortali e non smetteranno mai di raccontare il dolore, l’ingiustizia, ma
anche lo spirito di unione degli uomini di fronte all’abisso. Al salone
internazionale del libro giovani provenienti da paesi diversi hanno letto dei
brani tradotti dai maggiori scritti di Primo Levi. Questo è il più grande tesoro
che ogni produzione culturale porta con sé: unire persone diverse intorno ad
un sentimento comune. Le idee, ovunque ci porteranno, non dovranno mai
smettere di camminare sulle gambe delle persone, che viaggino portate da un
corriere piuttosto che dentro ad una mail.
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LA MOLE AL CIELO. IL GRADO ZERO DELLA
ST RUTTURA
Piera Melone
Nasce come una sfida agli ordini della statica,
come un’inarrestabile scalata verso l’alto nella
costante ricerca del vuoto, il simbolo della prima
capitale del Bel Paese. Veglia su Torino la Mole
Antonelliana e pare farlo, nelle sue forme ricercate
eppure austere, con quella riservatezza che tanto
si addice alla città sabauda, svettando
silenziosamente tra i palazzi nel trambusto
metropolitano, dalle quiete altezze dei suoi 167,5
metri. Quasi fosse divenuta solo per caso una delle
più ardite sperimentazioni costruttive in Europa;
quasi non fosse uno dei modelli più esemplari e
strabilianti di intuizione e sperimentazione
ottocentesca. Eppure è proprio con spirito
profetico ed intuitivo, nutrito dalla genialità, talvolta utopica, dall’ostinazione
e dalla grandiosità che da sempre hanno caratterizzato tanto lui quanto la sua
opera, che l’architetto Alessandro Antonelli (Ghemme, 1798 – Torino, 1888)
inizia a concepirne il progetto nel 1862; proprio da questo momento prende
vita il determinato, formidabile itinerario verso l’azzurro, risoltosi, in un primo
momento, solo nel 1889, ad un anno dalla morte del suo creatore, tra continue
riprogettazioni, sospensioni dei lavori, ostacoli posti dalla committenza,
richieste di fondi che sembrano non essere mai abbastanza per quella che
Annibale Rigotti (curatore degli interni nel triennio 1905-1908) definisce
«enorme massa di tendini che s’intrecciavano ricoperti di sottili tessuti e
poggianti su venti esilissimi fulcri», le cui «screpolature, strapiombi o le
deformazioni non destavano grande apprensione: si sapeva bene che non
erano mortali, si sapeva bene che le altre generazioni, forse molte, avrebbero
ancora alzato il naso in su per guardarla ammirate passandole accanto». Una
lungimiranza e consapevolezza − quella dell’immortalità, dell’alto valore
architettonico e simbolico della struttura, del significato pre-moderno del
progetto in sé – che in pochi addetti ai lavori possiedono negli anni sessanta
dell’Ottocento. Anche per questa ragione, oltre che per il carattere
intransigente, ostinato, riluttante al compromesso, a tratti anarchico, del
personaggio e del suo lavoro, non si trova opera antonelliana che non abbia
dato origine a contenziosi, tanto con la committenza, che spesso vede
modificati, fino alla trasfigurazione , i progetti iniziali, quanto con il rigido
Collegio degli Edili, all’occorrenza raggirato con espedienti tecnici di ogni
natura.
Già docente di architettura presso l’Accademia Albertina, dove pure ha
ricevuto una prima formazione precedente all’esperienza quinquennale di
Roma (1826-1831), poi deputato al Parlamento Subalpino e consigliere
comunale a Torino e provinciale a Novara, dagli anni ’40 fino alla morte, fa
della sua attività indefessa nell’architettura religiosa, civile, urbanistica (piani
regolatori di Ferrara, 1862, Novara, 1857, Torino, solo su carta, 1854) e
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pubblica, il luogo di uno sperimentalismo talvolta portato all’estremo, con una
sincerità e una coerenza esclusivamente individuali che lo portano, negli anni,
ad apparire sempre più istintivo, nebuloso, ermetico agli occhi delle
committenze. Proprio dall’esigenza di realizzare edifici nei quali dare sfogo
autonomamente alla propria arte, negli anni ’40 fonda la Società Costruttori e
acquista i terreni di Borgo Vanchiglia, quartiere storico alla confluenza dei
fiumi Po e Dora Riparia. Qui, nel centro di Torino, a pochi passi dal Po, tra
Corso San Maurizio e via Giulia di Barolo si può ancora oggi ammirare una
delle sue prime sfide alle forme classiche; Casa Scaccabarozzi (dal cognome
della moglie, Francesca Scaccabarozzi, con la quale visse lì, per un anno, allo
scopo di dimostrare alla collettività la solidità strutturale dell’edificio), o “Fetta
di Polenta” per il colore giallo delle mura e la singolare planimetria, sorge su
un terreno di forma trapezoidale allungata, estendendosi, con i suoi 24 metri
d’altezza, per 16 metri su Via Giulia di Barolo, 4,35 metri su Corso San
Maurizio e appena 54 centimetri dalla parte opposta a quella del corso. Tra le
molteplici opere effettuate su commessa spicca la cupola di San Gaudenzio a
Novara (1841-1878), oggi emblema della città ed incredibilmente prossima
nell’esecuzione, nel metodo e nelle sorti, alle vicende della Mole; anche in
questo caso seguono l’uno all’altro diversi progetti che si sovrappongono in
una ricerca puntuale, con un’elaborazione stilistica complessa, mutevole, in
continua evoluzione; più di una volta Antonelli desta preoccupazioni (e
ostilità) nell’amministrazione comunale, disegna modifiche strutturali che
accrescono le spese d’investimento, e infine aumenta gradatamente l’altezza
della maestosa cupola, fino ad ottenere il risultato di 121 metri. Non deve
essere semplice, per l’Antonelli di questi anni, già proiettato dal 1863 −
durante i difficili lavori di Novara e innumerevoli altre committenze − nel
grande sogno della Mole, perseverare senza indugi in quell’unico, grande
disegno, che di tutta la sua opera diviene il filo conduttore: la spasmodica
rincorsa al vuoto (nella tensione verso l’alto e nelle superfici, che il sistema
antonelliano concepisce esclusivamente come chiusura o riparo, quasi
cercando di giungere ad un momento essenziale, quel “grado zero” del
monumento, che Roland Barthes intuisce nella Tour Eiffel) nella ricerca
metodica della perfezione attraverso una sperimentazione che fa della
grammatica classicista e delle scelte strutturali prettamente neomedievaliste
il suo fondamento.
Quando l’Università Israelitica di Torino, forte dell’emancipazione civile
concessa nel 1848 da Carlo Alberto alla comunità ebraica, affida ad Antonelli
l’incarico di costruire una sinagoga tra le attuali vie Montebello, G.Ferrari,
F.Riberi e G.Verdi (1862), l’Architetto si trova a lavorare su un isolato
dell’ampiezza decisamente ridotta (37 metri per 37), ciononostante riesce in
breve tempo a risolvere le problematiche poste dall’impresa, consegnando un
progetto caratterizzato da un involucro parietale quasi esclusivamente
composto da elementi portanti singoli (doppio perimetro di colonne corinzie e
pilastri), masse murarie limitate a pochi elementi destinati agli interni e agli
interrati e un’altezza complessiva di 47 metri, in linea con le esigenze di
economia e funzionalità della committenza. A partire dalla cupola, che si
configura come una gigantesca volta a padiglione, sceglie di configurare
l’espressione pubblica dello spirito giudaico in un’idea che si allontana
figurativamente dall’iconografia ricorrente, per poi proseguire lungo una
strada tutta personale, che lo conduce, attraverso un’audacia strutturale
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nell’utilizzo di mattoni e pietra (in luogo dei nuovi materiali metallici in voga) a
una flessibilità spaziale, ma anche temporale, caratteristiche del suo metodo.
Deve aver messo a dura prova la pazienza dell’Assemblea dei Contribuenti
Israeliti se, a nove anni dalla fase esecutiva, il Presidente del Consiglio di
Amministrazione dichiara in una relazione: «Divorato dalla smania di
accoppiare il suo nome ad un monumento di singolare maestria e di forma
anche più singolare, faceva lentamente e quasi di soppiatto elevare un terzo
ordine nei piani della costruzione col concetto di portarne la parte superiore
ad una smisurata altezza e, perturbando per tal modo l’organismo di tutto il
progetto dal lato dell’estetica e della costruzione, non solo ma assai più
sostanzialmente, dal lato finanziario ed economico. Allarmata da questo fatto
– di cui solo allora era possibile accorgersi, ma troppo tardi per poterlo
pervenire – l’Amministrazione si presentò all’Antonelli per chiedergliene
schiarimenti e ragione, ed egli, additando appeso alla parete del suo Studio il
nuovo disegno da lui clandestinamente sostituito all’antico, ed assai inoltrato
d’esecuzione, scusò con ragioni tecniche […]».
In effetti, dopo innumerevoli, sostanziali
modifiche
architettoniche,
ivi
compresa
l’introduzione di un nuovo, gigantesco velario di
copertura molto acuto che incrementa l’altezza
del Tempio (già soprannominato “mole”) dai 47 ai
113,57 metri, il progetto iniziale si trova
irreversibilmente sconvolto, e reso noto solo
intorno al 1867, in seguito ad un ulteriore
sovvenzionamento stanziato questa volta
dall’Amministrazione comunale di Torino. La Mole
già si configura come un edificio eccezionale e
fortemente simbolico, ma di qui a poco, nel 1870, i
lavori vengono sospesi, e nel 1873, l’Università
Israelitica cede la struttura (con i costi di
terminazione) al Comune in cambio di un nuovo
spazio nel quartiere di San Salvario. In serio
dubbio viene messa anche la solidità strutturale e con essa la stabilità
dell’edificio; dopo innumerevoli indagini statiche compiute da diverse
Commissioni e Sottocommissioni nominate dal Comune tra il ’70 e il ‘79, un
progetto alternativo esterno (demandato dal Comune ai milanesi Luigi Tatti e
Celeste Clericetti) che propone di demolire la grande volta sostituendola con
un bulbo di ferro e la conseguente, strenua linea difensiva dell’ Antonelli che si
rifiuta categoricamente di vedere violentata la sua opera, i lavori riprendono
solo nel 1878.
L’ anziano Architetto, aiutato dal figlio Costanzo, continua ad apporre
modifiche, stende nuovi progetti, porta l’altezza della costruzione (nel
frattempo dedicata a Re Vittorio Emanuele II e destinata a sede del Museo di
Indipendenza Italiana) a 149 metri, a 153 metri e infine a 163,35 metri; alla
stella dorata del finimento inizialmente proposta sostituisce una statua in
rame sbalzato e dorato rappresentante, come descritto da lui stesso in una
lettera al Sindaco datata 1888, «un Genio alato dell’ Augusta stirpe Savoia
colla Stella d’Italia sul capo, la lancia nella mano destra, la palma nella mano
sinistra, ai piedi le vittoriose corone colle aquile Romane […]». La statua viene
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innalzata sulla guglia il 10 aprile 1889, pochi mesi dopo la mote di Antonelli (18
ottobre 1888), novantenne; ai lavori di rifinitura interna ed esterna gli succede
il figlio, poi sollevato dall’incarico due anni dopo. La Mole viene messa
nuovamente alla prova nel 1904, quando un nubifragio rovescia la pesante
statua (300 kg), che, rimasta miracolosamente in bilico sul terrazzino
sottostante, viene sostituita l’anno seguente con una stella a cinque punte; nel
1953, un uragano abbatte circa 47 metri di cuspide e dà il via ad una nuova fase
di restauro. La creazione di Antonelli, da allora coronata da una stella
tridimensionale a dodici punte, è, dal 2000, sede del Museo Nazionale del
Cinema; al piano terra è esposta la statua del Genio alato a testimonianza di
un’interminabile, proprio perché umana e finita, impresa di scoperta,
nell’ostinato superamento del limite, in quell’ irruente, scaltra tensione verso il
cielo alla quale va il merito di aver regalato alla Mole Antonelliana, prima e
dopo i nuovi grattacieli in costruzione di Massimiliano Fuksas e Renzo Piano, il
primato incontrastato in altezza.
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EPIC A E SIMBOLISMO NEL LINGUAG GIO DI
GU ERNICA
Alice Fasano
Nel gennaio del 1937 il governo spagnolo in esilio commissionò a Pablo Picasso una
pittura murale per l’edificio che avrebbe rappresentato la nazione all’Esposizione
internazionale di Parigi. Il 26 Aprile dello stesso anno la cittadina basca di Guernica
fu bombardata e quasi completamente rasa al suolo dall’aviazione militare nazista.
Rimasero illesi solo la Casa de Juntas, edificio storico nel quale si radunava il
parlamento basco ed erano conservati gli archivi della regione, e la famosa quercia
di Guernica. La tradizione vuole che sotto quest’albero maestoso i re di Spagna
prestassero giuramento di rispettare i diritti democratici, ricevendo in cambio il titolo
di Señor anziché quello più monarchico di Rey. Guernica non era una cittadina
qualsiasi ma, nella mente di ogni spagnolo, rappresentava il baluardo dell’antica
fierezza e della libertà. Questo raccapricciante episodio bellico ebbe effetti
devastanti sotto molti punti di vista: per prima cosa non si trattava semplicemente
di danni, ma della devastazione pressoché totale di una pacifica comunità umana.
Inoltre, dato l’importante ruolo che la città basca ricopriva nella memoria nazionale
spagnola, l’evento fu subito caricato di significati storici e umani. Il tema della
guerra civile aveva sempre interessato Picasso, come ben si può capire osservando i
due gruppi di incisioni Sogno e menzogna di Franco; ma il bombardamento di
Guernica agì da catalizzatore per il suo estro creativo, diventando il soggetto della
pittura murale che gli era stata commissionata diversi mesi prima. Così, appena una
settimana dopo il terribile assalto, fu realizzato il primissimo schizzo per Guernica.
Tuttavia l’opera finale non si presenta come il resoconto storico di tutto ciò che
accadde quel tragico pomeriggio primaverile. La veduta globale del dipinto, infatti, è
limitata ad un ambiente estremamente ristretto: l’angolo di una stanza e segmenti
di una o due facciate. Nessun panorama sulle rovine carbonizzate della città;
nessuna folla in preda al panico che fugge nel disperato tentativo di mettersi in
salvo. Il tema è svolto esclusivamente grazie all’azione-reazione di nove figure,
ognuna delle quali è espressione del
dramma in maniera molto differente
dalle altre. Questi personaggi sono:
quattro donne, un bambino, la statua
di un guerriero, un toro, un cavallo e
un uccello. Piuttosto che l’immagine
del popolo, Guernica rappresenta
l’immagine dell’uomo, scisso nei vari
aspetti
delle
sue
reazioni.
Protagoniste
dell’azione
sono le
donne; l’unico uomo è poco più che
un frammento, a metà tra una
Pablo Picasso, Massacro di Corea, 1951
scultura
e
un
essere
vivente.
Similmente immobile è il toro, monumento più che attore. Le donne invece urlano,
spingono, fuggono e cadono. Certo è vero che nel periodo in cui si svolse
l’incursione aerea Guernica era in prevalenza popolata da donne e bambini poiché
molti uomini combattevano al fronte. La ragione di questa scelta, però, va ben oltre
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il puro interesse documentario: la prevalenza dell’elemento femminile fa di
quest’opera l’immagine dell’umanità innocente, indifesa e inerme. Si tratta dunque
della rappresentazione simbolica di un dramma vissuto in prima persona, provocato
da una rabbia feroce che colpisce la sostanza stessa dell’animo umano come
un’epidemia. In Guernica l’elemento antagonista è stato omesso: sebbene molti
testimoni oculari raccontino che in pochi minuti «il cielo nereggiò di aerei
germanici», nella scena manca ogni riferimento ai nemici. La composizione non è
basata sul contrasto di due partiti antagonisti come nel più tardo Massacro di corea,
dove i robot con i loro fucili automatici sono schierati frontalmente rispetto al gruppo
delle donne. Per questo motivo il murale non ha mai costituito una presa di
posizione politica. Dipingendo gli effetti di una brutalità che colpisce dal nulla e
ferisce il profondo dell’anima, esso parla di sofferenza ma anche di speranza.
Un’ulteriore deviazione dalla storicità dei fatti va letta nella cupa oscurità della
scena. La cittadina fu bombardata in un soleggiato pomeriggio primaverile, ma le
strade furono ben presto avvolte dal fumo degli incendi. Tuttavia la scelta del pittore
non può essere stata dettata esclusivamente da questa ragione. Le tenebre sono
state preferite alla luce del sole con il chiaro intento simbolico di comunicare un
momento di lutto, di morte, di buio. Soltanto due lampade, fonti di luce artificiale,
diffondono bagliori erratici che
illuminano i personaggi e gli
squarci degli edifici. Una di
esse è attratta verso il centro
della scena da una forza
violenta: la modesta lampada
ad olio, sospinta in avanti dalla
donna che si sporge attraverso
la finestra, diventa l’apice del
triangolo che comprende il
guerriero, il cavallo e la donna
in fuga, che è al tempo stesso
una
piramide
luminosa.
Paragonata alla forza di questo
piccolo
lume,
la
grande
lampada appesa al soffitto
sembra del tutto inutile. Non è
Pablo Picasso, Minotauromachia, 1935
introdotta
da
alcun
personaggio e la sua efficacia come fonte luminosa non è rappresentata, dato che
rimane al di fuori del cono di luce. Essa acquisisce la freddezza di una volontà
inefficiente, simbolo di consapevolezza distaccata, di un mondo informato ma non
impegnato.
L’apparente
duplicazione
della
sorgente
luminosa
esprime
effettivamente un contrasto significativo tra la piccola, autentica luce che illumina la
scena e il potente, cieco strumento di una consapevolezza priva di coscienza morale.
Guernica non rappresenta quindi un’allegoria della guerra, come spesso è stata
interpretata: nel dipinto sono presenti forme e figure che acquisiscono un significato
simbolico, non allegorico. Un soggetto mostruosamente deforme può identificarsi
come allegoria solamente se è rappresentato in un contesto realistico di solidità
materiale, come creatura significante e autosufficiente, e non in un mondo
fantastico o altrettanto frammentato e deforme. Né il guerriero spezzato, né il toro,
né l’uccello sono estranei all’ambiente del dipinto nel senso in cui lo è l’allegorica
figura femminile che agita una bandiera nel celebre quadro di Delacroix, La libertà
che guida il popolo (1830). In Guernica tutti i personaggi possiedono il medesimo
status realistico poiché sono collocati in un ambiente smaterializzato in cui ogni
oggetto frammenta la continuità dello spazio fisico. La statua in pezzi non avrebbe
potuto assumere lo stesso ruolo del cavallo se il volume di quest’ultimo non fosse
stato analogamente scomposto in frammenti secondo la tendenza cubista.
Quasi tutti i personaggi che popolano questo dipinto erano già stati rappresentati
nella Minotauromachia del 1935. Non solo, invertendo la lettura del dipinto dal lato
destro verso quello sinistro si scopre che le due composizioni sono disposte in modo
praticamente identico: prima il toro, poi il cavallo agonizzante con il/la combattente
che brandisce un pugnale, quindi la figura femminile che solleva il lume ed infine le
donne affacciate da un’alta finestra. Persino l’uccello e il fiore compaiono in entrambi
i casi, e dagli schizzi preparatori risulta che Picasso avesse considerato di introdurre
l’uomo che si arrampica per la scaletta a pioli anche nel lato destro di Guernica. Il
confronto tra queste due opere dimostra che i soggetti di un artista possono essere
indipendenti dal significato che egli attribuisce loro di volta in volta. Prendiamo ad
esempio il caso del toro: questo ammirevole e temibile animale ha una lunga e
nobile storia nella civiltà mediterranea. Nelle regioni agricole esso rappresenta la
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potenza, la fecondità e la fierezza della natura. Nei combattimenti di tori e nelle
corride invece assume il ruolo di oscuro nemico, l’avversario di un eroe umano che
però, indossando il cappello a due punte del torero, istituisce una misteriosa e
simpatetica somiglianza con l’animale cornuto. In Guernica tutti gli sguardi sono
rivolti verso il toro maestoso che domina la scena dalla destra: l’urlo della madre,
come pure il viso del bimbo morto e il muso del cavallo agonizzante. Il guerriero
guarda nella sua direzione e lo sostiene con le braccia tese, come una sorta di
piedistallo. Una delle donne gli spinge incontro la lampada ad olio mentre quella che
fugge, correndo, fissa lo sguardo verso di lui. Solamente la donna che cade sul lato
destro è, nel suo isolamento, la controparte simmetrica dell’animale. Ma un dettaglio
importante differenzia simbolicamente le due figure: mentre la posizione della
donna, situata quasi a mezz’aria, suggerisce l’estrema mancanza di sostegno, il toro
è l’unico elemento della composizione che poggia solidamente sulla verticale delle
sue zampe. L’isolamento della donna che cade simboleggia la catastrofe definitiva. Il
toro invece è situato al di fuori di tale catastrofe, interessato ma non coinvolto:
protegge la madre disperata come un tetto ma resta inerte non perché manchi di
sentimento (la sua intima passione è rivelata dalla coda in fiamme), ma perché è
materialmente assente dalla scena. Quest’animale rappresenta quindi l’immagine
imperturbabile della Spagna, torreggiante come la quercia di Guernica e la Casa de
Juntas che rimasero intatte nonostante il bombardamento. Se il toro avesse
rappresentato il nemico, il murale sarebbe risultato soltanto come un’immagine di
distruzione e desolazione, come un lamento piuttosto che un appello alla speranza,
alla resistenza e alla sopravvivenza. In questo modo Picasso svincola lo spettatore
dalla reale cruenza dell’evento e, obbligandolo a riflettere in maniera distaccata sulla
situazione, gli instilla il pensiero rinfrancante di una riabilitazione imminente.
Per quanto riguarda le caratteristiche formali, il murale è svolto esclusivamente nelle
tonalità del bianco e del nero; è quindi approssimativamente monocromatico.
Questa non è la necessaria conseguenza della scelta di rappresentare un momento
di tenebre poiché, due anni più tardi, il pittore avrebbe dipinto la Pesca notturna ad
Antibes interamente a colori. In confronto al mondo colorato della nostra esperienza
quotidiana e di buona parte della pittura, la monocromia conferisce al dipinto un
carattere di menomazione. Non compare il rosso del sangue, né si percepisce
differenza tra il fuoco e la luce o tra la carnagione furente dei vivi e il pallore delle
carni morte. L’immagine è ridotta alle pure forme espressive che sono interpretative
piuttosto che narrative. Al tempo stesso la pittura monocromatica crea un’uniformità
che riduce tutti gli eventi al contrasto tra luce e ombra. Nel mondo dei colori la
distinzione tra luce e tenebra è solamente una lieve variazione tra molte altre; nel
mondo moncromo il destino dell’oscurità rimane invariato, ma la chiarezza della luce
è assoluta. Tutti gli oggetti sono dunque classificati e giudicati secondo la stessa
scala cromatica, a seconda del posto che occupano rispetto al bianco e al nero, al
bene e al male, alla vittoria e alla sconfitta. Il mondo di Guernica non può suggerire
quel tipo di raggruppamenti e separazioni che spesso si scoprono fondamentali nelle
composizioni colorate. La distinzione tra la scena del bombardamento e il toro non è
rafforzata da alcuna differenza di colore. L’uso esclusivo delle molteplici tonalità del
bianco e del nero sottolinea l’unità di tutto quanto è contenuto nella pittura: le
figure appartengono tutte al medesimo clan, la Spagna.
L’uniformità è ripresa nelle dimensioni del dipinto: un lungo rettangolo di 3,45 per
7,70 metri, con una proporzione di 1 a 2,2 marginalmente determinata dalla parete
del
padiglione spagnolo. Scegliendo questo formato, Picasso rinunciò
deliberatamente alla possibilità di sfruttare l’altezza per ottenere un forte crescendo
emotivo. Il toro infatti, pur dominando la scena, non è che di poco più alto rispetto
alle altre figure, configurandosi piuttosto come parte integrante della composizione
totale, in cui ogni elemento suggerisce un’emozione di eguale intensità. Come la
monocromia, anche il formato allungato ha un effetto uniformante: fa sì che il
dipinto descriva la tragedia con toni epici, non drammatici. Il pannello lungo inoltre
crea una discontinuità complessiva nella scena. Se disposti verticalmente gli
elementi risultano strettamente collegati tra di loro; orizzontalmente, invece,
possono essere ampiamente distaccati. Dunque, all’uniformità di colore, forma,
altezza e profondità spaziale, si contrappone un estendersi del dipinto
nell’orizzontale, come fosse una veduta panoramica.
Nonostante questa apparente “piattezza”, la composizione di Picasso è del tutto
estranea alla monotonia. L’apice del frontone costituito dalla sommità della lampada
ad olio non è situato esattamente al centro del dipinto, ma leggermente verso
sinistra; la posizione del grande lume appeso al soffitto sposta l’equilibrio della
massa centrale ancor più sulla sinistra. Questo movimento accentua la tendenza
delle figure in direzione del toro. Tuttavia ogni movimento compositivo verso sinistra
va controcorrente poiché, per motivi psicologici, lo sguardo dell’osservatore procede
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di norma verso destra. La simmetria basilare del rettangolo pittorico è quindi
contrastata da una corrente sinistrorsa che genera asimmetria e confusione. La
spinta delle figure in direzione del toro è rigidamente contenuta poiché è orientata
controcorrente. Se per esempio si osservasse il dipinto allo specchio, non appena
destra e sinistra si trovino invertite, la scena si tramuta in una fuga precipitosa in
direzione del toro. Tuttavia questa lettura costituisce una visione estremamente
semplicistica: secondo la sottile concezione di Picasso il corpo del toro fronteggia le
vittime ma la sua testa è distolta da esse e il suo sguardo trascende lo spazio della
scena, verso l’infinito. Tutte le figure, sebbene attratte dalla potenza del toro, sono
mantenute lontane da lui da un’invisibile forza che le imprigiona. La visione della
salvezza, per quanto irraggiungibile, costituisce la meta cui tendono tutti i
personaggi, schiavi di un obiettivo che gli è negato.
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DA GIO RGIO F RANCHETTI A GIO RGIO F RANCHETTI.
COLLEZIONISMI ALLA CA’ D’O RO
Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Cà d’Oro
30 maggio-24 novembre 2013
Le opere, meglio i capolavori, di due straordinari collezionisti, nonno e nipote,
vengono per la prima volta riuniti alla Ca' d'Oro, la dimora che il primo, il
barone Giorgio Franchetti, scelse per contenere i suoi tesori poi messi a
disposizione di tutti. Accanto alle raccolte antiche del nonno, per la durata
della mostra, viene esposta la non meno rara collezione di Giorgio jr che
documenta, in modo esemplare, il nuovo dell'arte italiana del secondo
dopoguerra.
Dal 30 maggio al 24 novembre, questo accade nella mostra "da Giorgio
Franchetti a Giorgio Franchetti. Collezionismi alla Ca' d'Oro" proposta dalla
Soprintendenza per il Polo Museale Veneziano, Soprintendente Giovanna
Damiani, nell'ambito delle iniziative istituzionali del Ministero per i Beni e le
Attività culturali, promosse dal Servizio architettura e arte contemporanee
della Direzione Generale PaBAAC, in occasione della 55. Esposizione
Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia 2013, in collaborazione con
MondoMostre, a cura di Claudia Cremonini e Flavio Fergonzi.
Non è ancora stato dimostrato che tra i geni trasmessi ci sia anche quello per il
collezionismo d'arte. Ma questa tesi trova sicuramente una conferma nel caso
di due collezionisti, nonno e nipote, uniti dalla stessa passione oltre che dal
nome: Giorgio Franchetti. Diversissime le loro collezioni di opere d'arte,
diversissimo del resto era anche il momento storico e le condizioni in
cui vissero e operarono. Il barone Franchetti sr. amava l'arte antica, i maestri
minori, le opere rare e non ancora famose. Il nipote, Giorgio jr, l'arte del suo
tempo e del suo ambiente, ovvero la Roma degli anni '50 e '60 del '900,
momento di innovazione e nuovi fermenti, da lui colti e persino stimolati. In
entrambi emerge sempre il rapporto intimo e intuitivo con l'opera d'arte,
profondamente personale, anticonformista e refrattario alle mode imposte dal
mercato, che è ciò che lega geneticamente i due protagonisti della mostra.
Della competente passione del primo per l'arte antica, soprattutto
rinascimentale, è frutto una collezione originalissima di maestri toscani e
centro italiani, veneti e fiamminghi, da Giambono a Mantegna, da Tiziano,
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Tintoretto, Paris Bordon sino a Guardi, ma anche van Eyck e van Dyck, Paul
Brill o Joachim Patinier.
Il nipote Giorgio Franchetti, deceduto da pochi anni (2006), collezionò Tano
Festa, Cy Twombly, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Alighiero Boetti, Gino
De Dominicis, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Ceroli, Fabro, Luigi Ontani... e
se fece qualche concessione allo "storico" fu per Balla. Queste opere vengono
riunite dopo la dispersione che è seguita alla scomparsa del collezionista, nel
"portego" del secondo piano di Cà d'Oro.
Ad essere coinvolti nella grande esposizione dedicata ai due Franchetti sono
tutti gli spazi della Ca' d'Oro, lungo un percorso che prende avvio dalla
suggestiva corte interna del palazzo, ove riposano le ceneri di Giorgio sr., e
prosegue al primo piano con una sezione tutta dedicata al fondatore del
Museo, alla sua famiglia (di grande interesse i ritratti di Franz von Lenbach, per
la prima volta esposti) e alla munifica donazione della Ca' d'Oro e della sua
collezione allo Stato, nel 1916. Cuore sacralizzato e affettivo della collezione
del barone è la cosiddetta Cappella del Mantegna da lui ideata per accogliere il
dolente San Sebastiano. Il capolavoro di Andrea Mantegna assurge a simbolo
dell'impegno tenace e ostinato del nobiluomo di fare della Ca' d'Oro un luogo
eletto di bellezza e arte, alla sua stessa vicenda umana, segnata da un "sogno
di universalità del bello" spinto spesso fino alla ricerca sofferta e sfibrante della
perfezione: «In basso, ai piedi del santo, il Mantegna ha dipinto un torcetto
acceso che, sotto quello spasimo imprigionato in tanto poco spazio, fumiga
come sotto un vento d'uragano.
Franchetti lo indicò, con un mesto sorriso: - Vedi questo piccolo cero. Sono io.
E m'illudo di fare un poco di luce», dice Giorgio Franchetti accompagnando in
visita l'amico Ugo Ojetti.
In una vita di ricerche, Franchetti sr. aveva collezionato e riunito nella rinata
Ca' d'Oro una considerevole sequenza di opere d'arte. Tra le opere di maggior
prestigio della pinacoteca - che vanta anche una interessante sezione di pittura
fiamminga e olandese del Cinque-Seicento, il Ritratto di Marcello Durazzo di
Van Dyck, la Venere allo specchio di Tiziano, le due Vedute veneziane di
Francesco Guardi. Non meno importanti le sculture rinascimentali andatesi ad
aggregare successivamente (tra cui spicca il Doppio ritratto di Tullio
Lombardo) e le collezioni di medaglie, bronzetti, tappeti, arazzi, affreschi
staccati e arredi lignei di diversa epoca e provenienza, cui si aggiunge una
vasta sezione di ceramiche acclusa al museo nel 1992.
La sezione, curata da Flavio Fergonzi, dedicata al nipote (secondo piano), ne
evidenzia la passione, e la competenza, come collezionista di pittura moderna
negli anni Sessanta e Settanta in area romana. Senza il sostegno, l'azione e la
presenza stessa nel mondo degli ateliers e delle gallerie di questo insolito e
geniale collezionista non sarebbe esistita, di fatto, la Scuola romana di Piazza
del Popolo. Cuore di questa parte della mostra sono le opere di grande
formato di Twombly Rotella, Boetti e Paolini, oltre a capolavori come La
creazione dell'uomo, La grande Odalisca di Tano Festa, Futurismo rivisitato a
colori di Mario Schifano. Poi opere di scultura, tra le più significative del
periodo, di Pascali, Ceroli, Fabro. Un percorso preceduto dall'esposizione di
autori, da Balla a Manzoni, che il Franchetti considerava come prodromi del
nuovo maturato negli anni Sessanta.
L'esempio del nonno e l'impegno che dedicò a Ca' d'Oro erano ben presenti nel
ricordo di Giorgio jr, come testimonia un articolo di Repubblica del 1984 sulla
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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riapertura di Ca' d'Oro, dopo i pluriennali lavori di riallestimento:
“ (...) l'operazione è piaciuta al nipote di Giorgio Franchetti, che porta il suo
stesso nome (è figlio di Carlo, figlio del barone), ha 64 anni, vive a Roma, è
ingegnere ed uno dei maggiori collezionisti di arte contemporanea. "E' un
sogno che rivive, il sogno della mia famiglia, e anche un esempio che l'Italia
può vantare nel mondo della potenzialità dei privati. Il risultato è
affascinante: Ci sono dentro tutti i valori che erano cari a mio nonno, e ci sono
anche gli oggetti del suo grande sogno dell' estetica e della bellezza". “
Ora, grazie a questa mostra, quel sogno si completa, nel segno della passione
per l'arte che accomunò nonno e nipote.
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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F4/ UN’IDEA DI FOTOGRAFIA . SGUARDI SUL
TEMPO
Parte la terza edizione di F4 / un'idea di Fotografia, il festival promosso da
Fondazione Francesco Fabbri con un ampio programma di esposizioni,
workshop e incontri con l'autore a Casa dei Carraresi a Treviso. Ad aprire il
festival saranno le esposizioni Sguardi sul tempo. Percorsi nella fotografia
d'autore e Venezia / L'eredità dei precursori, mostra personale di Francesco
Jodice. La prima rassegna, curata da Carlo Sala, proporrà oltre duecento lavori
dalle
origini del mezzo fino ai nostri giorni provenienti dalla collezione privata di
Dionisio Gavagnin, finora rimasta inedita al pubblico. La selezione qui
proposta è un percorso volto a raffigurare i cambiamenti culturali e sociali
della storia tramite l'occhio privilegiato della fotografia con opere tra gli altri di
Henri Cartier Bresson, Robert Capa, Candida Höfer, Robert Mapplethorpe,
Félix Nadar, Man Ray, Thomas Ruff e Sebastião Salgado.
Ad aprire la prima esposizione un intenso dialogo tra alcuni dei maestri delle
fotografia che in momenti differenti hanno raffigurato la condizione sociale
dell'uomo: i ritratti l'alta borghesia di Félix Nadar si confronta con la volontà
classificatoria che emerge nei volti della gente comune del tedesco August
Sander, ma anche con le immagini patinate uscite dalle riviste di moda di
Robert Mapplethorpe e Irving Penn.
Il novecento si apre con la carica dirompente e sovversiva della avanguardie
storiche: l'inconscio surrealista è testimoniato dalle distorsioni di André
Kertész, i graffiti di Brassaï, le bambole di Hans Bellmer o i celebri ritratti
"solarizzati" di Man Ray; ma anche l'antiaccademismo del movimento Dada
con i collage di Raoul Hausmann o le visioni razionali del Bauhaus.
A continuare questo ideale percorso un'ampia sezione è dedicata alla
fotografia sociale e documentaria con alcuni dei grandi maestri europei e
americani. Autori che hanno lavorato in contesti al limite, dalle scene del
Bronx a New York di Weegee ai vari fronti di guerra come lo sbarco dei tanks in
Cina raccontato da Robert Capa negli anni Trenta o la Cipro descritta da
Donald McCullin.
La fotografia è anche specchio del proprio tempo che narra eventi epocali:
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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ecco apparire gli scatti realizzati dalla NASA l'11 luglio 1969 per celebrare lo
sbarco sulla luna; ma anche fatti che hanno segnato le coscienze collettive
come l'attentato al presidente Ronald Reagan colto da Sebastião Salgado e le
scene di mafia della palermitana Letizia Battaglia. Un nucleo di lavori che
sanno anche tracciare i tratti identitari dei luoghi e delle genti che li popolano,
dall'America di Walker Evans, all'Italia di Mario Giacomelli fino alla Francia
narrata da Robert Doisneau e Henri Cartier-Bresson. La fotografia italiana è
documentata come un mosaico di varie esperienze, partendo da una delle
immagini simbolo del dopoguerra, "Il Tuffatore" di Nino Migliori. Un'Italia dai
tanti volti che alterna immagini rurali alla Dolce Vita colta dal "paparazzo"
Tazio Secchiaroli. Ma anche la stagione della mutata coscienza del paesaggio
con Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Guido Guidi, Franco
Fontana e Walter Niedermayr.
Una parte cospicua della mostra racconta delle ricerche degli anni settanta,
con un rinnovato impegno linguistico che per alcuni si traduce con l'uso delle
immagini di archivio come per Franco Vaccari e Mario Cresci, con i celebri
"Ritratti reali". Ma anche l'uso del corpo come forma di emancipazione e
scardinamento degli assetti sociali con Vito Acconci, gli azionisti viennesi
Hermann Nitsch, Günter Brus, e Arnulf Rainer, l'intimità di Gina Pane, fino ai
lavori di Cindy Sherman con uno dei celebri camuffamenti della serie "Murder
Mystery".
Le tensioni delle contemporaneità appaiono sotto una pluralità di declinazioni
come le analisi rigorose degli autori della scuola di Düsseldorf con i lavori di
Thomas Ruff e Candida Höfer; ma anche le tensioni grottesche di Joel Peter
Witkin e la forza simbolica di Andres Serrano. A concludere, le prospettive più
attuali sull'arte italiana, specchio di un ibridazione culturale e sociale,
testimoniata tra gli altri dai lavori di Vanessa Beecroft, Stefano Cagol, Silvia
Camporesi e Alessadra Tesi.
A concludere il percorso a Casa dei Carraresi è la mostra personale di
Francesco Jodice. L'esposizione, presenta un corpus di lavori inediti legati al
quarto film del ciclo Citytellers che l'autore sta realizzando proprio sulla città
lagunare. Francesco Jodice, ricognitore dei fenomeni sociali e urbanistici, non
si è confrontato con l'aspetto esteriore della città, ma ha mosso la sua
indagine da un peculiare interrogativo: perché oltre mille anni fa è stata
edificata una città proprio in un luogo così ostile? L'autore non ha potuto non
lasciarsi attrarre da questa impresa costruttiva e politica che sembra
infrangere le normali logiche e cautele.
Le immagini che ne emergono parlano dell'essenza attuale della città
attraverso i suoi caratteri archetipali negandone una iconicità strettamente
contemporanea del presente. Con un giro di parole potrebbero essere definite
un "film in costume", per porre una analisi profonda senza alcun intento
celebrativo o nostalgico.
Stupisce una fotografia sospesa tra realtà e finzione che mostra la facciata di
un palazzo veneziano. E' il ritratto di un modellino trovato al Museo Fortuny
che diviene imponente e nella sua "pesante" monumentalità esalta la perizia di
averlo costruito sopra una serie di palafitte in legno. Un atto di ingegno, ma
anche una dimostrazione di potere e forza per un'impresa che
appare quasi impossibile: riuscire dal nulla ad edificare una città che in alcuni
secoli diverrà una delle più popolose d'Europa e uno dei centri culturali ed
economici più floridi del continente.
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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Ogni immagine esposta costituisce una narrazione corale, quasi costituisse
singolarmente uno storytelling complesso. Se dal punto di vista compositivo
ha una apparente semplicità semiotica, dischiude in realtà una complessità
narrativa che volutamente viene appena accennata. L'intento è di stimolare lo
spettatore a rapportarsi con le opere quasi per completarne l'indagine. Il
fruitore posto di fronte all'immagine e agli spunti che la accompagnano è
quasi costretto ad assumere una presa di posizione e completarla così con le
proprie risposte.
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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OMA R GALLIANI. IL SOGNO DELLA PRINCIPESSA
LYU JI AL FLORIAN
Venezia, Stanza Cinese del Caffè Florian
30 maggio - 30 settembre 2013
Lei è l'affascinante Lyu Ji, Principessa di Xiang. Il suo volto e il suo spirito
permeano il Caffè Florian che la accoglierà per l'intera estate veneziana, dal 30
maggio al 30 settembre.
Tutti coloro che avranno il piacere, seduti al Caffè di Piazza San Marco, di
averla accanto nei loro momenti di scoperta di uno dei più antichi caffè del
mondo, non potranno che restarne affascinati: per la bellezza, innanzitutto.
Ma anche per l'aura di eterno mistero e di umana, dolcissima melanconia, che
emana dalla sua figura.
A riportare la Nobilissima Lyu Ji a Venezia, mito nel mito, non poteva che
essere un artista di grande sensibilità: Omar Galliani, un maestro che dopo
innumerevoli viaggi ed esposizioni nei musei cinesi, conosce ed ama la Cina,
dove è riconosciuto come l'erede della tradizione del disegno italiano tra
passato e presente.
Galliani ha scoperto Lyu Ji in uno dei suoi viaggi in quello che è stato il Celeste
Impero. "Ho sognato, scrive Galliani a presentazione di questa sua magnifica
installazione, una stanza di sogni disegnati sui muri dove una principessa
d'Oriente lega il suo nome alla città che ha visto per prima in Europa
accorciarsi le distanze geografiche e culturali tra oriente e occidente. Ho
pensato di disegnarla interamente a matita e di offrire sui tavolini di marmo un
altro segno della mia malinconica visita a Xian quando ho letto per la prima
volta il nome di Lei".
In posizione privilegiata sotto i portici delle Procuratie Nuove in Piazza San
Marco a Venezia, il Caffè Florian fu aperto il 29 dicembre 1720 da Floriano
Francesconi con il nome di "Alla Venezia Trionfante", ma ben presto la
clientela prese l'abitudine di chiamarlo "Florian". Da allora il locale rappresenta
un ritrovo per artisti, intellettuali, politici e personaggi illustri nonché punto di
incontro di svariate realtà.
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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ALLE FIA BE RUSSE DI SAR MEDE II PR EMIO
ANDERSEN 2013
Sàrmede ha conquistato il Premio Andersen, massimo riconoscimento italiano
per i libri illustrati destinati ai più piccoli.
Il Premio ufficialmente consegnato a Genova, al Museo Luzzati, il 25 maggio, è
stato conferito a "Nel bosco della Baba Jaga. Fiabe dalla Russia", progetto a
cura di Monica Monachesi, con testi di Luigi Dal Cin e illustrazioni di Anna
Castagnoli (Italia), Fabio Facchinetti (Italia), Artem Kostyukevich (Russia), Pep
Montserrat (Spagna), Clotilde Perrin (Francia), David Pintor (Spagna), Sacha
Poliakova (Russia), Valerio Vidali (Italia), Józef Wilkon (Polonia), edito da
Franco Cosimo Panini, in collaborazione appunto con la Mostra Internazionale
d'illustrazione per l'infanzia di Sàrmede. L'albo accompagnava l'ultima
edizione della mostra, dedicata alle
fiabe dalla Russia.
Il volume illustrato ha conquistato il Premio di miglior libro dell'anno nella
categoria ragazzi dai 6 ai 9 anni. L'assegnazione è stata motivata dalla Giuria
di specialisti del Premio "Per l'indubbia e sapiente regia grafica che riesce a
dare una felice omogeneità al lavoro di nove diversi maestri dell'illustrazione
europea.
Per la briosa piacevolezza con cui sono stati resi i testi delle fiabe della
tradizione russa.
Per essere un progetto a più voci che nasce dalla vivissima esperienza della
Mostra Internazionale di Illustrazione di Sàrmede Le immagini della fantasia".
Un riconoscimento, quindi, al libro per se stesso ma anche in quanto esempio
dell'attività ormai trentennale di Sàrmede.
Il libro premiato concorrerà inoltre al Super Premio Andersen 2013, assegnato
da una giuria allargata di esperti che decreterà la migliore opera in assoluto, il
Libro dell'Anno.
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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U GO VALERI: VOLTO R EBELLE DELLA BELLE E POQUE
Ugo Valeri, definito per affinità di vita e rapidità di tratto, il Toulouse Lautrec
italiano, sarà protagonista della più approfondita antologica che gli sia mai
stata dedicata, all'indomani del centenario della morte che ne troncò la vita a
trentasette anni, quanto cadde da un balcone di palazzo Pesaro a Venezia.
Commentando la sua scomparsa, Arturo Martini scriveva al fratello di Ugo, il
poeta Diego Valeri, "Tuo fratello fu per noi tutti una tromba: la tromba del
nuovo mattino".
"Ugo Valeri, pittore, illustratore e artista di genio, anticonformista dichiarato
con passioni e frequentazioni avverse al perbenismo dell'epoca, fu uno
straordinario interprete ed effervescente protagonista del gusto della
modernità che inebriò la nascita del XX secolo", sottolinea Andrea Colasio,
Assessore alla Cultura del Comune di Padova.
Dal 20 aprile al 21 luglio 2013, la Banca di Credito Cooperativo di Piove di
Sacco (sua città natale) e il Comune di Padova Assessorato alla Cultura - Musei
Civici, gli dedicano una ampia antologica curata da Virginia Baradel e Federica
Luser, con la direzione di Davide Banzato. In mostra oltre un centinaio di
opere, tra cui diversi inediti e due "omaggi": degli artisti illustratori bolognesi e
degli amici di Ca' Pesaro. Provenienti da istituzioni museali e collezioni
private, le opere in mostra evidenziano come elemento principe il suo segno
rapido e corsivo che suscita con formidabile destrezza i moti delle figure: la
linea diventa una serpentina che costruisce i corpi, li fa volteggiare e
contorcere fino al limite della caricatura, con un ritmo sfrenato che si diluisce
d'un tratto, per effetto dell'acquarello, in un'atmosfera rarefatta, come in
Ballo popolare: preludio e Ballo popolare: fine. Differente il risultato invece
negli splendidi dipinti a olio che hanno un respiro più simbolista, più largo e
pacato, anche se non cancellano la veemenza tipica del suo stile come in
Autunno e Primavera, La Sagra e La Popolana.
Nato a Piove di Sacco, in provincia di Padova il 22 settembre del 1873, Ugo
Valeri frequentò l'Accademia di Venezia e quella di Bologna ma, incapace di
sottostare a qualsiasi disciplina, fu espulso da entrambe. Caparbio e ribelle,
visse al di fuori degli schemi preordinati del mondo artistico, seguendo la
propria indole insofferente che lo costrinse a una vita raminga alla ricerca di
quei gruppi di artisti, definiti all'epoca "scapigliati", con cui condivideva lo
stesso stile di vita. Padova, Venezia, Bologna, un breve soggiorno a Napoli,
poi Milano e quindi nuovamente Venezia, sono le tappe fondamentali della
sua vita artistica.
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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L'ambiente stimolante incontrato a Bologna e Milano, lo spirito che aleggiava
allora in quelle città, permise a Valeri di maturare la propria particolare visione
rispetto la realtà che lo circondava. Divenne il poeta della strada che dipinse
senza veli, attingendo a un campionario di uomini e donne assolutamente
variegato: le sartine, i dandies, i ricchi borghesi, i frequentatori di teatri, le
ballerine, tutti immersi nel proprio mondo fatto di feste popolari,
rappresentazioni teatrali, case di tolleranza.
Disegnatore abilissimo si lasciò trasportare dal proprio estro, affidando alla
linea il ruolo di protagonista, una linea che costruisce i corpi, li fa volteggiare e
avvitare ai limiti della caricatura. Un gusto grafico che lo portò a essere uno
dei maggiori illustratori italiani, sue opere apparvero nel primo decennio del
1900, su riviste quali "La Lettura", "Illustrazione Italiana", "Varietas", "Secolo
XX", "Italia Ride" e libri di Marinetti, Neera, Cavicchioli, Notari.
Valeri non fu solo un illustratore ma deve essere apprezzato anche per l'alto
valore della sua opera pittorica, attraverso cui seppe offrire esempi di grande
modernità che gli aprirono le porte a importanti esposizioni quali Premio
Francia a Bologna (dove vince nel 1898), il Concorso "I sette peccati" al Circolo
filarmonico e artistico di Padova (1904), l'Esposizione Internazionale per
l'apertura del Sempione (1906), la Biennale (1907) e le mostre di Ca' Pesaro del
1909 e del 1910 a Venezia.
La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito dalle Edizionitrart e da
Peruzzo Editoriale corredato da studi storico-critici che approfondiscono,
attraverso ricerche e indagini mirate, un periodo della storia dell'arte italiana
che ancora necessita di adeguate riflessioni.
UGO VALERI (1873 - 1911). Volto ribelle della Belle Epoque. Padova, Civici
Musei agli Eremitani (Piazza Eremitani), dal 20 aprile al 15 luglio 2013.
Orario: tutti i giorni dalle 9 alle 19 (lunedì chiuso).
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T HE GAR BAGE PATC H ST ATE
Ha la profonda potenza del Mito l'idea di portare a Venezia un nuovo Stato,
uno dei più estesi del pianeta, il Garbage Patch State, ovvero l'immenso Stato
delle Immondizie. Nessuna carta geografica ancora lo indica, le rilevazioni
satellitari non riescono a delimitarne i precisi confini, per il mondo scientifico
ha una superficie che, a seconda delle rilevazioni, si estende quanto la Penisola
Iberica o come due volte l'intera superficie del Texas. È uno stato che non si fa
notare, eppure è pericolosissimo per l'ambiente e, in prospettiva – una
prospettiva a breve, quanto brevi sono le catene alimentari che uniscono i
pesci all'uomo -, anche per ciascuno di noi.
Wasteland, di Maria Cristina Finucci, è un'opera complessa che comprende
numerosi interventi dell'artista italiana che a Parigi, l'11 aprile scorso, nella
sede centrale dell'UNESCO, con una installazione-performance, ha ottenuto
dalla comunità internazionale il riconoscimento istituzionale, anche se
solamente simbolico, del Garbage Patch State.
Lo Stato federale che l'artista ha ideato per sintetizzare il grave problema
ambientale delle isole di plastica, denominate appunto Garbage Patch, avrà
una sua Costituzione oltre a una bandiera nazionale: fondo azzurro trasparente
come il mare, popolato da vortici rossi, come quelli che sul Pacifico – ma anche
nel Mare dei Sargassi nell'Atlantico - hanno convogliato e riunito i rifiuti portati
dai fiumi o scaricati dalle navi.
Come molti Stati il Garbage Patch State sarà a Venezia, in concomitanza con la
Biennale d'arte, da giugno a novembre. A ospitarlo sarà, nella sua storica sede
sul Canal Grande e non a caso, l'università Ca' Foscari. L'ateneo veneziano, che
sta sviluppando già da alcuni anni prestigiose iniziative di carattere espositivo,
è altresì il certificato punto di riferimento italiano per le politiche universitarie
del rispetto ambientale, come attesta l'annuale classifica di GreenMetric,
elaborata da Universitas Indonesia, sulle università sostenibili.
Maria Cristina Finucci, per la rappresentazione a Venezia del nuovo Stato, ha
ideato una specifica installazione: una marea di tappi di plastica colorata,
imbrigliati da reti che dal padiglione trapassano verso il Gran Canal, metafora e
immagine dello straripare della plastica e dei rifiuti in tutti i mari e gli oceani
del pianeta. All'interno del padiglione, la sua video-opera " Dentro" , proiettata
a 360°, darà allo spettatore la sensazione di essere immerso in un mare di
plastica. Patrocinata dal Ministero dell'Ambiente Wasteland è un'opera
pensata per sensibilizzare il mondo intorno a un problema che cresce minuto
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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dopo minuto ed è immenso: già oggi, se si potessero raccogliere tutte le
immondizie che galleggiano su mari e oceani e quelle più pesanti, che ne
tappezzano i fondali, si creerebbe un deposito di rifiuti più esteso dell'Himalaya
e più alto dell'Everest.
Nel solo gorgo tra Hawaii e Giappone, nel Pacifico, si calcola "galleggino" 3,65
milioni di tonnellate di plastica. Circa 1 milione di pesci e altrettanti gabbiani
muoiono all'anno per occlusione da ingestione di oggetti di plastica. Il
problema però è anche di natura organica perché i microframmenti di quella
plastica buttata nei mari creano un "brodo" che è scambiato dai pesci per
plancton. Così quelle sostanze, incamerate nelle carni dei pesci, arrivano a noi
che a nostra volta le incorporiamo nei nostri organismi.
L'opera di Maria Cristina Finucci attinge alla forza del Mito che essa stessa ha
voluto creare, trasformando quegli immensi ectoplasmi ribollenti di scarti
dell'umana insipienza - oggi colossali non luoghi - in mondi vivi. A popolarli
saranno personaggi raccontati, per scelta dell'artista, dagli studenti di Ca'
Foscari.
Nella realtà, in queste lande tossiche, pesci, mammiferi marini e gabbiani sono
tutti intossicati e deformati dalla plastica. Invece le nuove popolazioni create
dall'artista e dagli studenti sono formate da speciali creature intelligenti,
cittadini consapevoli del loro nuovo Stato cui danno regole, dove ogni abitante
conta per il suo peso. Popolazioni che parlano una babele infinita di lingue,
quante le nazioni da cui provengono, che sono di tutti e di nessun sesso, non
solo maschi o femmine, maestri del vivere alla giornata, ma con la
consapevolezza di essere quasi eterni, come le immondizie di plastica.
Anche l'opera, nella volontà dell'artista, è di tutti: chiunque infatti, sul blog del
sito garbagepatchstate.org, potrà rendersi protagonista di questa Azione
collettiva, sentirsi cittadino responsabile di uno Stato che oggettivamente ci
appartiene essendo formato anche dai sacchetti di plastica, dai giocattoli rotti,
dai palloni dimenticati da ciascuno di noi.
Il padiglione nazionale rappresenta solo uno dei momenti che l'artista si è data
come mission: alleare l'arte all'ambiente, per sensibilizzare tutti noi attraverso
la forza del linguaggio artistico su un tema così importante, dato che l'arte può
toccare corde che la pura informazione scientifica stenta a far risuonare.
L'avvio del progetto dell'artista lo si è avuto l'11 aprile, a Parigi, con il
riconoscimento del nuovo Stato, istituzionale e fittizio, da parte dell'UNESCO,
non a caso nell'Anno dell'Acqua. Nel mese di settembre seguirà un'istallazione
di Maria Cristina Finucci nella piazza del MAXXI di Roma, un progetto
promosso da MAXXI Educational in collaborazione con il Master in Exhibit &
Public Design dell'Università di Roma La Sapienza. E' in programma anche una
collaborazione con l'Università Roma Tre che ha già contribuito fornendo i
tappi di plastica usati per le installazioni. Ed altro ancora, come una missione in
mezzo all'Atlantico. Il progetto di Cristina Finucci non si esaurisce dunque
soltanto nella produzione di sculture, video o installazioni, ma consiste in un
percorso di relazioni e comportamenti e in ciò che questi ultimi producono in
termini di coinvolgimento intellettuale, oltre che emotivo, degli individui. Un
progetto artistico, insomma, che si svolge nel tempo e include anche un
risvolto immateriale di fare arte. Una modalità che raccoglie le istanze della
società relazionandosi a essa, per contribuire alla conoscenza del fenomeno in
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questione. L'indispensabile precondizione per ogni effettivo cambiamento.
Università Ca' Foscari Venezia - Servizio Comunicazione
Tel: 041. 234 8368
Email: [email protected] www.thegarbagepatchstate.org
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ALOIS BEE R: PANORA MI FOTOG RAFICI
Il 13 aprile 2013 ha inaugurato negli spazi del Museo di Riva del Garda la
mostra Alois Beer 1900-1910. Panorami fotografici del Garda dalle collezioni
del Kriegsarchiv di Vienna, che segue le precedenti esposizioni dedicate ad
Alessandro Oppi e ai Lotze. Oltre all'organizzazione della mostra, il Mag ha
voluto arricchire il proprio archivio fotografico con un fondo dedicato ad Alois
Beer, che consterà di 350 digitalizzazioni delle immagini acquisite dal
Kriegsarchiv di Vienna, alle quali si andranno ad aggiungere circa 80 stampe
vintage. Il fondo Beer del Mag sarà oggetto di un catalogo che repertoria e
storicizza le opere, la cui pubblicazione è prevista per il mese di giugno 2013.
La formazione della collezione Alois Beer presso il Museo di Riva del Garda
rappresenta una valorizzazione importante, sia per il consistente numero di
immagini acquisite che per la loro qualità, dell'archivio fotografico del Mag
Museo Alto Garda. Questa mostra svela, per la prima volta dopo un secolo, un
autentico tesoro: il sorprendente rilevamento fotografico del lago di Garda
effettuato da Alois Beer (1840-1916), che torna alla luce a poco più d'un secolo
dalla sua realizzazione. Praticamente inedita, la serie di negativi fotografici è
rimasta per tutti questi anni custodita e protetta nelle collezioni del
Kriegsarchiv di Vienna. Le immagini sono state riprese nei primissimi anni del
Novecento, e tutt'oggi questa serie rappresenta il più consistente corpus
fotografico noto di documentazione sistematica del Garda realizzato da un
solo autore. Alois Beer. 1900-1910. Panorami fotografici del Garda dalle
collezioni del Kriegsarchiv di Vienna è una mostra curata da Alberto Prandi,
che resterà allestita al Museo di Riva del Garda dal 14 aprile al 3 novembre. Le
350 immagini furono riprese da Alois Beer nel corso dei suoi viaggi fotografici
destinati a incrementare il ricco catalogo di fotografie indirizzato al pubblico
austro-ungarico. Quando il fotografo carinziano giunse al lago di Garda
godeva da tempo di gran fama, il suo studio di Klangenfurt era ritenuto uno
dei più prestigiosi del tempo e le collezioni di vedute panoramiche e urbane
contavano una varietà di soggetti che contemplava oltre i più significativi siti
dell'Impero austro-ungarico anche immagini di località e territori italiani,
francesi, belgi, spagnoli, greci, egiziani, palestinesi, turchi, siriani e del Nord
Africa. Alois Beer, con le sue vedute panoramiche del Garda, pare volerci
riproporre lo stupore di Goethe alla vista del lago, e sembra manifestare la
medesima necessità di partecipazione empatica allo spettacolo imponente
della natura che appartenne alla cultura romantica. Al tempo della campagna
fotografica del Garda, Beer aveva maturato una lunga consuetudine di
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viaggio, ma l'esperienza, la confidenza e la frequentazione di paesi e genti
tanto differenti tra loro, non aveva spento in lui né l'originale curiosità che ha
governato il suo sguardo, né la capacità di rappresentare fotograficamente
con una cifra individuale assolutamente originale gli aspetti naturalistici e
ambientali del Garda, enfatizzandone gli effetti atmosferici, le digradazioni
prospettiche, i contrasti tra gli elementi, senza mai concedersi inflessioni
pittorialiste allora tanto in voga. Alois Beer, nato a Budapest da famiglia
carinziana, appena ventitreenne aprì il proprio studio fotografico a Vienna e
poco dopo una filiale a Klagenfurt dove si trasferì lasciando lo studio viennese
al socio Ferdinad Mayer con cui aprì una ulteriore filale a Graz. I suoi atelier
erano frequentati da chi ambiva a un suo ritratto mentre crescevano i suoi
impegni in ambiti esterni. A lui vennero commissionate campagne
fotografiche di documentazione, ad esempio, delle nuove linee ferroviarie
dell'Impero e nel 1882 gli venne conferito il titolo di Fotografo della Imperial
Regia Corte, riconoscimento cui si aggiunse quello di Fotografo dell'Imperial
Regia Marina. Il 1879, in particolare, fu un anno decisivo: Beer pubblicò un
reportage sui danni provocati da una slavina alle cittadine carinziane di
Bleiberg e Hüttendorf e, a distanza di pochi mesi, fu premiato con la medaglia
d'oro per l'arte e la scienza conquistando quindi l'attenzione della scena
nazionale. Egli iniziò in questo periodo ad estendere il suo repertorio
fotografico oltre la regione carinziana. Nel 1885 fece il suo primo importante
viaggio, in Grecia, al quale sarebbero seguiti quelli in Palestina ed Egitto, Nord
Africa, Turchia, Siria, Francia, Belgio, Spagna e Italia, oltre che più brevi viaggi
in varie zone dell'Impero austro-ungarico. Il catalogo di immagini del suo
studio giunse a proporre 20.000 immagini di paesaggio, una mole
impressionante per quegli anni. Immagini che egli vendeva ovunque, anche
grazie a un rete di corrispondenti in tutta Europa. Il fondo fotografico di Alois
Beer, conservato al Kriegsarchiv di Vienna, comprende le oltre 30.000 lastre
appartenenti al fotografo e presenti nel suo catalogo vendite, edito nel 1910 e
integrato nel 1914.
Museo Alto Garda - Riva del Garda Piazza C. Battisti, 3/A - 38066 Riva del
Garda –
tel. 0464 573869 - fax. 0464 573868
Dal 14 aprile al 3 novembre 2013
Orari: dalle 10 alle 18. Chiuso il lunedì. www.museoaltogarda.it
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VENETKENS
VIAG GIO NELLA TE RRA DEI VENETI ANTICHI
Mostra archeologica
Padova, Palazzo della Ragione
6 aprile – 17 novembre 2013
Quasi 2000 oggetti per raccontare un viaggio lungo secoli
Dal Delta del Po alle alture pedemontane e alpine. Dai primi insediamenti
all’arrivo dei Romani. Sono queste le coordinate nell’ambito delle quali è fiorita,
nel I millennio, la civiltà dei Veneti antichi. Un viaggio nel tempo e nello spazio,
che si può rivivere oggi nel suggestivo percorso della mostra allestita a Palazzo
della Ragione. Quasi duemila reperti – alcuni mai esposti prima – ricostruiranno
la cultura, la quotidianità e i costumi dei Venetkens. Come si procuravano il cibo?
Come costruivano le abitazioni? Che rapporto avevano con il sacro? Come
seppellivano i defunti? A queste e ad altre domande, la mostra risponde con un
allestimento di grande impatto
emotivo, dove trovano spazio
ricostruzioni di abitazioni, santuari e
tombe di famiglia. Luoghi in cui
entrare e rivivere – grazie a suoni, luci
e colori – le atmosfere e le sensazioni
di un passato remoto, ma che parla
molto anche di noi.
Vaso ossuario a bande rosse nere da Este, V sec. a.C.
Le coordinate di un’epopea unica
Il percorso espositivo accompagna il visitatore lungo tutte le principali tappe che
hanno segnato la storia degli antichi Veneti. Questo viaggio immaginario
comincia dalle coste del Delta Padano nel XII sec. a.C., un territorio dove l’acqua
del mare e delle lagune si intreccia con la terra fino a confondersi; prosegue, nel
tempo e nello spazio, arrivando alle pianure solcate dai fiumi, con gli
insediamenti costruiti dall’uomo tra l’VIII e il V secolo a.C. e le città dei morti,
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costellate di tumuli e monumenti; continua quindi verso le alture per esplorare gli
abitati arroccati nelle aree collinari del V, del IV e del III secolo a.C, con i
suggestivi santuari di montagna, sperduti e quasi inaccessibili, ma ricchi di
mistero. L’assorbimento del territorio veneto da parte degli antichi Romani, nel
corso del II secolo a.C, segna la conclusione del cammino percorso dal visitatore,
ed il tramonto della civiltà veneta stessa.
Doni nell’acqua: spada “ad antenne”
da Casier, IX-VIII sec. a.C.
Bronzetto raffigurante Paride arciere, V sec. a.C
Frutto di un importante lavoro scientifico, la mostra mette in luce l’importanza
della pratica della scrittura, l’abilità nella lavorazione del bronzo – con alcune rare
situle – e l’attenzione dedicata al cavallo, animale totemico della protostoria
europea e veneta in particolare, non di rado sepolto in apposite aree di necropoli
e a volte addirittura accompagnatore, nel viaggio oltremondano, del suo
padrone e scudiero.
Laminetta con scena processionale
da Vicenza, V sec. a.C
Disco votivo da Montebelluna, IV sec. a.C.
Un progetto di alto valore scientifico e culturale
I quasi duemila oggetti che sono esposti in Mostra sono provenienti da indagini
archeologiche recenti e da scavi del passato, custoditi nei Musei di diverse
regioni o nei depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto. In
particolare, alcuni di questi saranno presentati per la prima volta al pubblico, che
potrà osservare da vicino reperti di inestimabile importanza e preziosità.
Archeologia e tecnologia si incontrano e raccontano
Touch screen, postazioni multimediali, video e interfacce digitali. Ad essere
unico in questa mostra non è solo l’alto valore scientifico dei reperti. Anche
l’allestimento è un progetto innovativo: un percorso arricchito dalle più
aggiornate tecnologie disponibili. Di grande impatto sono anche alcune
ricostruzioni in scala 1:1, mirate a suscitare l’attenzione, ma soprattutto
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l’emozione del visitatore. Vedere l’interno di un’abitazione, entrare in un
santuario e percepirne l’atmosfera sacrale attraverso la suggestione di una voce
che invoca gli dèi, sentire il fluire dell’acqua; osservare un imponente tumulo
funerario nel quale sono presenti numerose tombe a carattere familiare, cui si
aggiungono una sepoltura equina da un lato, e dall’altro una sepoltura con due
corpi: un uomo e un cavallo. Momenti di grande impatto emotivo, a
completamento di una visita di piena e completa immersione nel mondo
dell’antico Veneto.
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LA PIETRA DI ZAFFIRO- PAR TE II- LE AR MATE DEL
CIELO
Luigi Soranno
La Midgard ha pubblicato nella sua Collana Narrativa
"La Pietra di Zaffiro, Parte II, Le Armate del Cielo" di
Luigi Soranno.
Una nuova e più pericolosa ombra minacciosa si
allunga sempre più sulle Terre Eterne e sulle loro
genti. Glìmor, Re dei Demoni, siede nuovamente sul
suo nero trono ad Hàrgathàn, nel cuore del Regno
Morto, finalmente libero dall’incantesimo che lo ha
relegato nella dimensione infernale per quasi tre
secoli. Una nuova alleanza sancita tra Uomini ed Elfi è
l’ultima speranza
che potrebbe salvare questo mondo dalla sconsiderata volontà del demone
antico. Erionor, Re di Gazard, guiderà i due popoli in un nuovo viaggio irto di
pericoli, tra una densa ed arcana oscurità, nel tentativo di fermare i loschi piani
di vendetta e morte che animano le rinvigorite orde demoniache, confidando
nelle mistiche visioni che la Pietra della Veggenza, incastonata nello Scettro di
Kaàly, continua a mostrargli, imperterrita, guidata dalla divina volontà degli
Dei. Un racconto ricco di pathos che vi condurrà in una nuova avventura piena
di insidie, in una corsa contro il tempo sempre più serrata per scongiurare il
pericolo imminente, regalandovi emozioni uniche ed intense.
Luigi Soranno, nato il 7/5/1982 a Tricarico (MT), risiede attualmente a Verona.
Con Midgard ha già pubblicato “La Pietra di Zaffiro - Lo Scettro di Kaàly”. “La
Pietra di Zaffiro - Le Armate del Cielo”, parte seconda della saga, ha vinto il
Premio Midgard Narrativa 2013.
Per gli ordini: [email protected]
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RIF LESSI ON LINE
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Direttore Responsabile
Luigi la Gloria
[email protected]
Vice Direttore
Anna Valerio
[email protected]
Grafica & Web Master
Claudio Gori
[email protected]
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