Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 www.riflessionline.it Iscrizione presso il Tribunale di Padova n. 2187 del 17/08/2009 Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 0 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 INDICE DALL’ANTIEBRAISMO ALL’ANTISEMITISMO: MILLENARIA STORIA DI PERSECUZIONI Luigi la Gloria pag. 2 L’INCORRUTTIBILE, L’INCOMBUSTIBILE AMIANTO Anna Valerio pag. 11 DOVE OSANO LE IDEE. XXVI SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO Cesare Granati pag. 15 LA MOLE AL CIELO. IL GRADO ZERO DELLA STRUTTURA Piera Melone pag. 19 EPICA E SIMBOLISMO NEL LINGUAGGIO DI GUERNICA Alice Fasano pag. 23 DA GIORGIO FRANCHETTI A GIORGIO FRANCHETTI. COLLEZIONISMI ALLA CA’ D’ORO pag. 27 F4/ UN’IDEA DI FOTOGRAFIA. SGUARDI SUL TEMPO pag. 30 OMAR GALLIANI. IL SOGNO DELLA PRINCIPESSA LYU JI AL FLORIAN pag. 33 ALLE FIABE RUSSE DI SARMEDE II PREMIO ANDERSEN 2013 pag. 34 UGO VALERI: VOLTO REBELLE DELLA BELLE EPOQUE pag. 35 THE GARBAGE PATCH STATE pag. 37 ALOIS BEER: PANORAMI FOTOGRAFICI pag. 40 VENETKENS - VIAGGIO NELLA TERRA DEI VENETI ANTICHI pag. 42 Direttore Responsabile Luigi la Gloria [email protected] Vice Direttore Anna Valerio [email protected] Grafica e Impaginazione Claudio Gori [email protected] Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 1 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 DALL’ ANTIEBRAISMO ALL ’ANTISEMITISMO: MILLENARIA STORIA DI PERSECU ZIONI Luigi la Gloria La storia del popolo ebraico è una storia di sofferenze. Dalla fine del regno di Giuda e con le deportazioni Assiro-Babilonesi del V secolo a.C., e poi la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d.C. fino alla diaspora e alla shoah, gli ebrei hanno conosciuto un percorso storico di dolore e umiliazioni. Forse nessuno, come questo piccolo popolo le cui origini affondano nella storia, ha mai vissuto periodi di persecuzione tanto lunghi e atroci. L’antiebraismo ha origini antiche essendosi concretizzato già con la diffusione del cristianesimo anche se, all’inizio, rimane confinato a questione unicamente ecclesiale. Con la liberalizzazione costantiniana dei culti religiosi del 312, si apre una corsia preferenziale per il cristianesimo che Teodosio il Grande, nel 380, trasformerà in religione di stato. Come conseguenza l’eresia del paganesimo sarà dichiarata delitto contro lo Stato e nel 402 anche l’ebraismo, in virtù del codex Theodosianus, viene giudicato eresia e di fatto bandito dal sacro romano impero nel quale erano legittimati solo i sacramenti della Chiesa imperiale; Chiesa che dimenticò presto che gli stessi cristiani fino a poco tempo prima erano stati perseguitati. In questa occasione sono varate le prime misure repressive come il divieto di ricoprire cariche pubbliche, di contrarre matrimoni misti nonché la proibizione di costruire sinagoghe e fare proselitismo. E, mentre teologi come Agostino confidano sempre in una conversione, altri, come Ambrogio di Milano, sostengono con forza il divieto alla costruzione di sinagoghe definendole luoghi di sobillatori. Si sta diffondendo la convinzione che la colpa della morte di Gesù sulla croce sia da addebitarsi agli ebrei, ne consegue che la loro dispersione, il loro ripudio da parte del mondo, viene considerato la giusta punizione di Dio ad un popolo maledetto: Dio è stato ucciso, il re di Israele è stato eliminato dalla stessa giustizia di Israele. Ancora più difficile è la situazione degli ebrei di Alessandria, grande città della diaspora, dove vengono cacciati dalla folla sobillata dallo stesso vescovo Cirillo. Più tardi il Corpus iuris civilis contro le eresie dell’ortodossissimo imperatore Giustiniano (527-565) inasprirà nell’impero d’oriente ancor di più le misure antiebraiche di Teodosio II e tale codice rimarrà come riferimento per Stato e Chiesa nella legislazione medioevale sugli ebrei. Nel frattempo in occidente, ancora per qualche secolo, l’attenzione rimane invece concentrata sulle grandi migrazioni dei popoli germanici e sull’espansione musulmana in Spagna. Terra, quest’ultima, dove con la conquista musulmana si apre per gli ebrei la possibilità di un’esistenza quasi normale e, benché non godessero di una totale parità di diritti - erano infatti oberati da tributi speciali e dovevano rendersi riconoscibili vestendo abiti particolari - Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 2 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 raccolgono i massimi successi nelle scienze e nella filosofia così come era accaduto a Babilonia, in Egitto e in Siria, dopo che si erano allentate le catene dell’oppressione. Nei paesi islamizzati hanno la possibilità di confrontarsi con l’istanza teologica dell’Islam ma non così accade con i cristiani che impongono da subito la pretesa della rivelazione impedendo, fin dalla nascita, un qualsiasi dibattito culturale e filosofico tra le due religioni. Nell’800 con Carlo Magno, imperatore del sacro romano impero, prenderà forma un nuovo paradigma all’interno del cristianesimo e precisamente si passerà dal modello ellenistico della chiesa antica al modello cattolico-romano della chiesa medioevale. Ma il radicale mutamento che dà l’avvio alla paurosa svolta nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’ebraismo sono le crociate. Nell’Europa dell’inizio del XI secolo già circolavano voci che gli ebrei avessero avvisato il sultano d’Egitto Al-Akim dell’intenzione dei cristiani di conquistare Gerusalemme. A scongiurare ciò gli avrebbero suggerito di distruggere il Santo Sepolcro. Ma in realtà questo era già stato fatto ed inoltre egli da tempo praticava una politica di persecuzione nei confronti sia degli ebrei che dei cristiani. Insieme alle crociate, l’inasprirsi della lotta contro l’eresia degli Albigesi nella Francia del sud ebbe conseguenze catastrofiche per gran parte degli ebrei in Europa. Essi venivano messi sullo stesso piano dei musulmani e probabilmente il virulento antislamismo è stata una delle cause dell’esplosione dell’antiebraismo nel medioevo centrale. Già nel 1096, durante la prima crociata, si erano registrati i primi tumulti antiebraici causati da semplice avidità e in Palestina, nel 1099, i cavalieri cristiani, bramosi di bottino e aizzati dai predicatori, avevano fatto strage di intere comunità. Emblematico il fatto che, in caso di partecipazione alla seconda crociata, oltre alla remissione dei peccati, fu assicurata l’estinzione dei debiti nei confronti dei creditori ebrei. Già Gregorio VII, primo papa assolutista, che aveva messo fine ai matrimoni del clero, aveva vietato, con una speciale bolla, le cariche pubbliche agli ebrei. Ma l’acme dell’antiebraismo si tocca con papa Innocenzo III, contemporaneo di Francesco d’Assisi, certo d’animo diametralmente opposto. Nel 1215, con il più grande concilio del medioevo, il Lateranense IV, muta radicalmente, sia dal punto di vista giuridico che teologico, la situazione degli ebrei che vengono dichiarati infedeli e proclamati schiavi del peccato o, per meglio dire, schiavi, da ora, dei principi cristiani. Devono portare abiti che li discriminino, hanno il divieto di uscire di casa nella Settimana Santa, viene loro imposto un tributo a favore del clero locale ed infine ne è reiterata l’esclusione da qualsiasi carica pubblica. Per quanto assurdo possa sembrare, gli esecutori della nuova politica antiebraica saranno proprio i nuovi ordini mendicanti di Domenico e di Francesco d’Assisi. Questo acceso antiebraismo aveva profonde radici psicologiche, teologiche e, certamente non da ultimo, economiche. Nel corso dei secoli la Chiesa aveva instillato nella mente del cristiano un sentimento di legittimazione al ripudio dell’ebreo che, nel tempo, si era trasformato in disprezzo. Causa era stata anche la sacralità con la quale la Chiesa aveva ascritto la colpa della crocifissione di Gesù al popolo ebraico e, non ultimo, quell’ostinato rifiuto a convertirsi, rifiuto che qualche secolo più tardi indurrà Martin Lutero a scrivere l’infausto libro Degli ebrei e delle loro menzogne nel quale l’ebreo è posto tra le creature del demonio. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 3 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Anche l’arte subisce questa evoluzione discriminatoria e persecutoria: si pensi ai portali delle cattedrali gotiche dove viene spesso rappresentata una figura femminile con gli occhi bendati, presso una colonna spezzata o con le tavole della legge ai piedi, che impersona la sinagoga, l’ostinato, cieco, sconfitto, ripudiato ebraismo. Ad esso è sempre contrapposta la figura trionfale dell’Ecclesia Christi. E più tardi, a partire dal XIII secolo, farà la sua comparsa addirittura la scrofa ebraica, denigrazione iconografica degli ebrei da parte della Chiesa. Con la spinta di tali realtà di sofferenza, prendono così l’avvio secoli di flussi migratori a partenza dalle città del Reno e del Danubio verso la Polonia e l’Ucraina fino alla Russia. Anche se nel Sacro Romano Impero gli ebrei erano ritenuti schiavi della camera imperiale e dei signori territoriali, il che naturalmente significava un adeguato sfruttamento tributario, in Germania in quel tempo la vita era comunque ancora relativamente sopportabile. Molto peggiore era invece la situazione negli altri stati cristiani dell’Europa con governo centralistico, dai quali gli ebrei venivano cacciati appena non c’era più bisogno di loro dal punto di vista economico. In Francia, per esempio, si era giunti alle tasse speciali, alla confisca dei beni già allora con la seguente causale: come soluzione finale al problema ebraico. Tra il 1348 il 1350, durante la grande epidemia di peste, si giunse alla più grave persecuzione degli ebrei di tutto il medioevo allorché in Alsazia, Renania, Turingia, Baviera e Austria ne vennero sterminate centinaia di migliaia dal fanatismo religioso. All’origine di tanta spietata violenza null’altro che una diceria. Dal sud della Francia si era improvvisamente diffusa la voce secondo la quale gli ebrei sarebbero stati i responsabili dell’epidemia avendo loro stessi avvelenato i pozzi. Le conseguenze furono fatali! Circa trecento comunità israelite d’Europa vennero spazzate via dalla furia omicida di folle incontenibili: un bagno di sangue che si aggiunse tragicamente alle milioni di vittime della terribile infezione. Cominciò, come si diceva, un’ondata di espulsioni, nel 1390 dalla Francia, disposizione cancellata successivamente solo con Napoleone, cento anni prima dall’Inghilterra, ed infine, tra il XV e XVI secolo, dalla Spagna, Portogallo, Provenza e dal Sacro Romano Impero. Risentimenti religiosi, sociali ed economici si collegavano ovunque con una fatale forma di antiebraismo che non aveva bisogno delle motivazioni razziste del successivo antisemitismo per generare migliaia di vittime. In Spagna, con la reconquista del XV secolo e la successiva unificazione dei regni di Castiglia e Aragona, la situazione era peggiorata. Fu istituita l’Inquisizione e affidata ai domenicani con l’obiettivo, nel segno di una salvezza, una chiesa, di convertire gli ebrei se necessario con la forza. Questo portò conseguenze disastrose. Nel 1481 nella sola Siviglia vennero bruciati circa 400 ebrei, 2000 nell’Arcivescovado di Cadice e oltre 12.000 nell’intera Spagna. Dopo la conquista di Granada, ultimo regno musulmano della penisola, su iniziativa del famigerato grande inquisitore Toquemada, confessore della regina Isabella, gli ebrei vennero posti tutti davanti all’alternativa del battesimo o dell’esilio. Così, circa 100.000 persone emigrarono; ma furono molti di più coloro che si fecero battezzare, restando però segretamente legati alla loro religione. Questi furono detti marrani, dallo spagnolo marranos che significa porci. Osservava un francescano: in Spagna è meno turpe essere un bestemmiatore, un ladro, un vagabondo, un adultero, un sacrilego o essere infetto da qualche altro vizio che discendere dal ceppo degli ebrei convertiti… Per questa umanissima impresa Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona ricevettero dal papa Alessandro VI, alias Rodrigo Borja, il titolo di Reyes Católicos. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 4 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Qualche anno più tardi, nel 1497, furono espulsi anche dal Portogallo e nel 1501 dalla Provenza. Beneficiari culturali ed anche economici degli ebrei ispanici furono l’impero Ottomano e, fino all’introduzione dell’Inquisizione, anche l’Italia e l’Olanda. Ma la Spagna cristiana rimase, nella memoria degli ebrei, come l’immagine tetra e fosca contrapposta alla Spagna moresca. Spogliati dei loro beni, frutto del lavoro di anni, si trovarono a girovagare per l’Europa dovendo ricominciare tutto d’accapo. Non potevano svolgere lavori da cristiano. Le corporazioni avevano loro precluso le attività artigianali; il sistema feudale impediva l’acquisto di terreni, il commercio con paesi lontani era passato in altre mani. Che cosa avrebbero potuto fare per sopravvivere? Non rimaneva che il commercio ambulante e al minuto. Ipocritamente fu la stessa chiesa medioevale a costringerli a dedicarsi al prestito con interesse, perché soltanto così potevano guadagnarsi da vivere; prestiti indispensabili per i governi ma invisi e odiati dal popolo, la cui pratica la Chiesa stessa vietava ai propri membri. Così le attività finanziarie diventarono di fatto loro monopolio ed essi, a causa delle pesanti tasse imposte sulle loro attività, erano costretti a praticare interessi che andavano dal 49% a 100%, il che era stato motivo, nel 1290, della loro espulsione dall’Inghilterra. Il giudeo incarna cosi, nel basso medioevo, la figura ostile per eccellenza che, a partire dal XIV secolo, doveva accompagnare le processioni della Passione nei panni dell’usuraio, figlio di Giuda. Poco mancava che fosse costretto a comprarsi perfino l’aria che respirava: doveva pagare i permessi di andare e venire, di vendere e di acquistare, di pregare in comunità, di sposarsi, di generare figli. Crudele fu il destino che accomunò la stirpe d’Israele all’umile calzolaio che derise Gesù mentre saliva al Calvario portando la croce! Fu dunque quell’uomo a personificare l’ebreo per antonomasia e la diaspora la punizione, in attesa della redenzione, per i suoi peccati? La questione ebraica era davvero ben lungi dal concludersi civilmente. Con l’avvento di Lutero, che aveva sempre guardato con occhio benevolo gli ebrei, la comunità israelita ripone su di lui le proprie speranze. Lutero proclama con forza la visione di un nuovo modello riformato della cristianità, un ritorno al Vangelo delle origini ora da lui riscoperto e liberato di tutte le aggiunte romane. Egli si presenta risolutamente come avvocato degli ebrei. Inizia una nuova epoca anche per loro? Nel 1523, in una serie di prediche aveva commentato il Pentateuco* e, contemporaneamente, redatto uno scritto Martin Lutero intitolato Se Gesù Cristo fosse nato ebreo dove si difende dalle accuse mossegli dai cattolici, secondo cui avrebbe affermato che Gesù è della stirpe di Abramo, negando la verginità di Maria e sostenendo così opinioni ebraiche. Lutero matura la certezza che, dopo l’introduzione della Riforma, gli ebrei non avrebbero più avuto alcuna motivazione a convertirsi al vero, e originariamente ebraico, cristianesimo. In questa situazione del tutto nuova si aspetta che gli ebrei assumano un atteggiamento positivo nei confronti del riscoperto Gesù Cristo, nato ebreo e generato dalla Vergine. Infondo non avrebbero dovuto far altro che ritornare alla fede dei loro padri, patriarchi e profeti, nella quale è preannunciata chiaramente la messianicità di Gesù: E se anche noi ci gloriamo altamente, siamo tuttavia pagani, mentre gli ebrei sono della stirpe di Cristo… Lutero si scaglia con forza contro coloro che denigrano gli ebrei chiedendo invece che vengano istruiti in base alla Bibbia e venga migliorata la loro condizione sociale affinché essi trovino motivo per stare insieme a noi. Forse aveva in mente una riforma anche dell’ebraismo? Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 5 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Cosa avesse veramente in animo di fare Martin Lutero non sappiamo, certo è che ad un certo punto, sconfortato dalla legittima presa di posizione dell’autorità rabbinica che non aveva alcuna intenzione di cristianizzare il millenario ebraismo, pubblica quel famigerato scritto violentemente antiebraico Sugli ebrei e le loro menzogne, uno scritto polemico e malevolo che doveva avere, alcuni secoli dopo, effetti nefasti su Hitler e i nazisti. Nella prima parte dell’opera li accusa di superbia per la pretesa di essere il popolo eletto, nella seconda di essere untori e di uccidere bambini, infine nella terza entra nella polemica ebraica contro Maria, da loro definita prostituta. Quindi nella parte conclusiva, in relazione a queste loro terribili affermazioni, suggerisce alle autorità preposte pratiche antiebraiche. Dunque Lutero, che un quarto di secolo prima era sfuggito al rogo dell’Inquisizione solo grazie alla protezione di un Principe, ora chiede la distruzione delle sinagoghe e l’abbattimento delle case degli ebrei nonché la messa a bando delle Sacre Scritture. Pena la morte chiede che venga vietato l’insegnamento e la professione del culto, sospesi i salvacondotti, confiscati denaro e gioielli, imposti i lavori forzati e, come se non bastasse, che ne venga decretata l’espulsione dai paesi cristiani e il ritorno in Palestina: atteniamoci alla comune saggezza delle altre nazioni, come la Francia, la Spagna ecc… riprendiamoci quanto ci hanno tolto con l’usura e cacciamoli per sempre dal nostro paese. Fortunatamente già allora le richieste di Lutero apparvero esagerate e, nel 1595, fu chiesto all’Imperatore Rodolfo II il sequestro del libro come scritto spudorato e infamante. Pur tuttavia Lutero non è proprio quell’antisemita nazionalistico razzista che avrebbe definito gli ebrei socialmente, psicologicamente e addirittura biologicamente inferiori. Malgrado gli effetti che il libro Sugli ebrei e le loro menzogne ha avuto nella storia e che di certo pesano fortemente sulla sua coscienza, questa definizione parrebbe, nei fatti, arbitraria; egli infatti dapprincipio si era dimostrato, come si è detto, tutt’altro che avversario degli ebrei. La causa della sua reazione probabilmente va cercata nella forte frustrazione scaturita dagli insuccessi dei tentativi di convertirli al suo nuovo cristianesimo. Non seppe comprendere che questo popolo restava aggrappato tenacemente alla propria fede avendo consapevolezza che soltanto nell’unità religiosa e culturale sarebbe sopravvissuto in un ambiente tanto ostile. Fu per questo, e per altre più celate frizioni politiche di cui forse egli stesso rimase vittima, che il risentimento si cementò con un senso di inadeguatezza e ne scatenò la vendicativa reazione. Lutero, come tanti altri pensatori del suo tempo, non comprendeva il complesso mondo dell’ebraismo, non scorgeva lo spirito che guidava questo popolo nel suo secolare avanzare in un mondo inospitale alla ricerca di una pace impossibile. Tutto ciò alla fine lo trasformò nel tremendo predicatore antiebraico che li definisce mentitori e demoni, proprio come fa con i Turchi e il Papa. Sinagoga di Padova In Italia, i papi del rinascimento, pragmatici e molto attenti al denaro quali erano, nei confronti degli ebrei avevano mantenuto il ruolo di protettori e, allo stesso tempo, di beneficiari, esattamente come avevano fatto i principi e gli imperatori. Anche il papa di transizione, Paolo III Farnese (1534-1549) perfetto uomo del rinascimento - ebbe quattro figli - colui che nominò i cardinali riformatori, approvò l’ordine dei Gesuiti e convocò il Concilio di Trento, incoraggiò l’insediamento a Roma dei profughi ebrei provenienti dai territori spagnoli e promise loro Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 6 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 protezione dall’Inquisizione. Ma poteva la benevolenza e la lungimiranza di un solo uomo cambiare il corso della storia degli ebrei? Certamente no! Poi, con la pace di Augusta, con la quale si consolidava per secoli un’intesa tra le varie confessioni secondo il principio cuius regio, eius religio, salì al soglio di Pietro, col nome di Paolo IV, il primo Grande Inquisitore romano, Gian Pietro Carafa. Iniziava così un nuovo periodo di repressione. Paolo IV (1555-1559), appena due mesi dopo la sua elezione, emanò la bolla antiebraica Cum nimis absurdum e pochi giorni dopo, sull’esempio della “liberale” Venezia, relegherà gli ebrei di Roma in un quartiere malfamato sulle rive del Tevere. Ghetto ora diventa rapidamente la denominazione ufficiale di quartieri speciali rigorosamente delimitati. Una sorta di espulsione dalla società e di costrizione all’interno di una prigione. Sempre Paolo IV manderà al rogo ventiquattro marrani fuggiti dal Portogallo, accusati di essere dei simulatori e quindi traditori della cristianità. Antonio Ghislieri, già grande inquisitore sotto Paolo IV, poi papa col nome di Pio V, sottoscrittore nel 1569 della scomunica di Elisabetta I d’Inghilterra, si metterà in luce anch’egli per la bolla antiebraica Hebreorum gens sola che in pratica decretava l’espulsione dallo Stato della Chiesa di comunità ebraiche antichissime, accordando insediamenti solo nella città di Roma ed Ancona. Gregorio XIII nel 1578, con una bolla antiebraica Antiqua Judaeorum probitas e altri decreti, amplia notevolmente i diritti dell’Inquisizione nei confronti degli ebrei. Nel cattolicesimo controriformista non si dà luogo ad alcuna discussione teologica sul’ebraismo, le relazioni con le comunità sono regolate da leggi speciali mentre la questione spirituale-religiosa è di pertinenza dell’Inquisizione. La Chiesa inizierà così a fare pressioni sugli stati cattolici europei affinchè si adeguino all’ormai istituzionalizzata ideologia antiebraica rinchiudendo le comunità nei ghetti. La pratica della ghettizzazione si diffonde dunque in quasi tutta l’Europa e solo con Napoleone alcune leggi antiebraiche, soprattutto quelle che ne limitavano le libertà, saranno abolite. Nel 1654 ventiquattro ebrei partiranno per il Brasile ma, trovando istituita l’Inquisizione anche lì, proseguiranno per Nuova Amsterdam, la futura New York dove fonderanno la prima sinagoga americana i cui atti, in lingua portoghese, si conservano tuttora. Dopo la Riforma e la Controriforma, con le indescrivibili devastazioni delle guerre religiose, la fine della guerra dei trent’anni e la pace di Westfalia del 1648, si conclude definitivamente l’epoca del confessionalismo, mutano gli equilibri globali e si forma il moderno sistema eurocentrico che dominerà per circa tre secoli. Dopo la dichiarazione dei diritti di Guglielmo III in Inghilterra a favore dei protestanti non conformisti, ovunque si era ormai stanchi delle dispute teologiche e si desiderava maggior tolleranza per le diverse religioni. Quando furono gettate le basi della moderna economia coloniale saranno proprio gli ebrei, che fino dai tempi di Colombo si erano attivati quasi ovunque, e, per ironia della sorte, proprio i Sefarditi scacciati dalla penisola iberica, a contribuire in maniera sostanziale e, in qualche caso, Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 7 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 decisiva a consolidare ad Amsterdam, nel secolo XVII, la supremazia olandese nel commercio mondiale, contro cattolici spagnoli e portoghesi. Nello sviluppo economico europeo, fondato sulla circolazione dei capitali, gli ebrei rappresenteranno ben presto un importante fattore economico: calcolando in maniera freddamente razionale e insieme pensando in maniera globale, essi già da tempo impiegavano i loro capitali nello spirito del mercato e, aperti alle innovazioni, facevano ricorso a mezzi di pagamento e a possibilità di finanziamento quasi rivoluzionari per quel tempo. Nel XVII secolo sia a Londra che ad Amsterdam avranno un ruolo di primissimo piano nella nascita dei titoli della borsa valori e nella loro commercializzazione. Dunque l’età moderna inizia sotto segni favorevoli con una nuova fede nella ragione umana che, in opposizione a tutte le autorità religiose, diventa arbitro supremo della verità. La moderna filosofia che parte dal soggetto umano, fondata da Cartesio, Spinoza, Leibniz e dagli empiristi inglesi Hobbes e Hume, trova la sua grande sintesi in Immanuel Kant. Inizia così, a metà del XVII secolo, un nuovo modello epocale che giunge alla sua maturità nel XVIII con la rivoluzione filosofico-scientifica e presto anche quella tecnologica; poi, verso la fine del siècle des lumières, con le rivoluzioni americana e francese. Il primo vero passo verso l’emancipazione degli ebrei lo fece Giuseppe II d’Austria nel 1781 con un editto che dava loro uguale dignità civile e umana. In concreto l’imperatore stesso decretava nel suo regno la loro emancipazione giuridico-statale, compresa la modifica del nome affinché assumesse un suono tedesco, con l’obiettivo di rendere tutti gli ebrei utili cittadini dello stato. Ma questa conquista civile non aprì il dialogo tra la Chiesa e l’ebraismo: in Germania la grande rivoluzione culturale ebbe luogo ma soltanto nel regno delle idee, nella filosofia, nella poesia e nella musica, non nella politica. Come si diceva, la rivoluzione francese portò alla proclamazione formale dei diritti dell’uomo e quindi anche di quelli degli ebrei. Naturalmente il diritto di cittadinanza era riferito all’individuo e non alla religione, in conformità al concetto di individualismo e liberalismo moderno. Neppure Napoleone, che ereditò la rivoluzione, si interessò nella sua politica alla comunità ebraica perché riteneva la religione una questione esclusivamente privata. Piuttosto era interessato all’educazione degli ebrei come leali cittadini francesi di fede mosaica, all’interno di uno stato laico che, per quanto riguardava la visione del mondo, doveva improntarsi alla neutralità e alla tolleranza nei confronti di tutte le confessioni religiose. Neppure la Germania poteva ignorare i valori delle due grandi rivoluzioni, nonostante lo scetticismo dei ceti dominati nei confronti di queste idee occidentali. In ogni modo gli eserciti francesi, ovunque andassero, imponevano l’emancipazione degli ebrei e la soppressione dell’obbligo di risiedere nel ghetto. Alla caduta di Napoleone, i tentativi di restaurazione dell’era Metternich, dopo il 1815, miravano ad eliminare le conquiste dell’illuminismo e a tralasciare l’emancipazione degli ebrei nel segno della dottrina dello stato cristiano, del mito romantico del popolo e di un patriottismo sempre più pericolosamente nazionalistico. Ma, nella successiva ondata rivoluzionaria del 1848, anche in Germania venne proclamato l’affrancamento degli ebrei. Tardò invece l’impero zarista il quale, dopo l’annessione della Crimea e della Bessarabia e soprattutto della Polonia, contava quasi i due terzi degli ebrei d’Europa. In effetti era assai difficile, in uno stato in cui dominava una religione nazionale, che avvenisse con facilità l’emancipazione delle comunità ebraiche sparse per l’impero. Anzi, sotto Alessandro III (18451894), si fece addirittura ritorno, su sollecitazione dell’alto procuratore cristiano del Santo Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 8 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Sinodo, a dure misure repressive. Lo stesso avvenne in Polonia. Qui gli ebrei dovevano fungere di nuovo da capri espiatori della generale miseria sociale. A causa di questa diffusa povertà e delle severe condizioni politico-sociali, iniziò un massivo movimento migratorio questa volta dai paesi dell’est verso gli Stati Uniti. Nel 1880 i soli ebrei di lingua tedesca furono 250.000; tra questi non c’erano più soltanto poveri e piccoli commercianti, ma anche, e in misura sempre crescente, benestanti e rabbini formatisi nelle università tedesche, con idee radicali di cambiamento portate dalla Germania in merito a un culto moderno che nella libera America, senza tasse ecclesiastiche e regolamentazioni statali, potevano realizzare addirittura meglio che nel sistema della chiesa statale tedesca. Con l’insieme dei nuovi sviluppi la società europea si trasforma, dunque, radicalmente e, nell’onda di questi profondi cambiamenti della struttura sociale, politica, culturale ed economica; l’integrazione degli ebrei nella vita civile dei paesi europei sembra aprirsi ad orizzonti più promettenti e mettere la parola fine all’odiosa concezione antiebraica medioevale. Il XIX secolo germoglia colmo di speranze; i fermenti sociali e politici, che partono dagli strati più bassi della società, fanno emergere grandi problemi morali ed etici. La circolazione delle genti nei nuovi continenti apre a integrazioni impensabili solo cinquant’anni prima. Nuove vie e rivoluzionarie riformulazioni politico-sociali gettano le premesse per un mondo nuovo. Ma tutto questo trambusto, che al suo esordio sembrava voler sovvertire l’ordine costituito, si ripiega su se stesso come se avesse perduto di colpo la forza dirompente che lo aveva generato e ormeggia nel primo porto sicuro che scorge: il nazionalismo. Un nazionalismo in travolgente ascesa dilaga infatti in tutto il continente europeo come una marea inarrestabile, un patriottismo mai conosciuto che in Germania risuona come una sorta di antico amore per i padri. In Polonia e nella Russia di fine secolo l’ostilità verso gli ebrei prende la forma di vero e proprio razzismo. Perfino l’attentato allo zar Alessandro II viene attribuito a nichilisti ebrei, considerati agitatori della plebaglia. Cominciano i pogrom che negli anni successivi, e perfino all’interno delle sommosse rivoluzionarie del 1917-1921, si ripeteranno a catena. In Francia scoppia l'affaire Dreyfus che doveva distruggere la fiducia nella realizzazione degli ideali illuministici di emancipazione. Ciò che appariva peculiare nella Germania guglielmina, l’aperto antisemitismo, non sembrava dovesse mai fare la sua comparsa nella Francia della terza repubblica. E invece, sotto le ceneri, si nascondeva un fuoco antisemita che allignava anche nei vertici politici ed economici. L’ebreo Alfred Dreyfus venne falsamente accusato di alto tradimento a favore della Germania e venne, da principio, condannato alla deportazione a vita e, in seguito nel 1889, con Alfred Dreyfus evidente violazione del diritto, a 10 anni di reclusione. Era scoppiato un affaire che, non soltanto doveva portare la terza Repubblica alla sua più grave crisi interna, ma insieme rivelare tutta la portata dell’antisemitismo di Francia. L’esercito, la nobiltà, i monarchici, la grande borghesia, la stampa di destra e, naturalmente, il clero si opposero per anni alla riapertura del processo. Soltanto nel 1906, ben sette anni dopo, l’ebreo alsaziano Dreyfus otteneva la piena assoluzione. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 9 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Con il neo-nazionalismo europeo viene dunque alla luce un antisemitismo non più di stampo religioso bensì del tutto in linea con lo spirito social-darwinistico del tempo e del suo principio della selezione, razziale e biologica. Fino al XIX secolo l’aggettivo semita indicava solo un gruppo linguistico comprensivo anche degli arabi. Ma nel 1879 un autore di pamphlet tedesco di nome Wilhem Marr conia e divulga l’aggettivo antisemita: una dicitura, secondo lui, scientifica per dare un nome rispettabile all’odio verso gli ebrei. Nel ventesimo secolo questa miscela di nazionalismo e razzismo sarebbe diventata un composto esplosivo di fanatismo nazionalistico la cui forza dirompente è stata sempre in larga misura sottovalutata. Dunque, la vecchia questione ebraica non era affatto risolta, ora veniva addirittura definita questione sociale dal nazionalista Heinrich von Treiscke e dai suoi seguaci. E questo ancor di più ora, che gli Wilhem Marr ebrei avevano raggiunto un crescente ruolo di prestigio nell’economia, la politica e la cultura, avrebbe provocato sentimenti di odio e di invidia nella marea di non ebrei insoddisfatti. Dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, il risentimento antisemita trova il suo punto di coaugulo nel nascente partito nazionalsocialista di Adolf Hitler ma ora non si tratta più soltanto di antisemitismo della carta stampata bensì della parola, della propaganda, delle urla e infine delle azioni. Il nazismo fu innanzitutto l’antisemitismo dell’azione, della violenza fine a se stessa, del terrore e dell’annientamento fino a giungere alla catastrofe storica. Non vi è dubbio che l’antisemitismo razzista, ed in particolare quello nazista, rappresentino una sconfitta senza precedenti dell’Illuminismo europeo. E’ cosi, dopo le rivoluzioni americana e francese, dopo che gli ebrei avevano dato alla Germania filosofi, Heinrich von Treiscke scrittori, artisti, musicisti e scienziati come Gotthold Ephraim Lessing e Moses Mendelssohn, Karl Marx, Sigmund Freud, Martin Buber e Albert Einstein, Gustav Mhaler, Jakob Wasserman e Joseph Roth, ecco che la follia umana rievoca dal passato i demoni dell’intolleranza e della violenza spingendo una parte di umanità in una spaventosa ricaduta nel mondo barbarico del medio evo, nell’ignoranza più bieca, in atrocità inaudite e, usando le parole di Irvin Yalomon del suo libro “ Il problema Spinoza” (Neri Pozza, editore), si incubava un dramma gigantesco che attendeva soltanto la comparsa sulla scena di attori dotati di una malvagità soprannaturale. * Con questo termine si indicano i primi 5 libri del Tanakh, conosciuti anche col nome greco di Pentateuco. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 10 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 L’INCORRUTTI BILE, L ’INCOMBUS TIBILE A MIANTO Anna Valerio Era già noto nel I sec. a.C. ai tempi del geografo greco Strabone e poi di Plinio e di Plutarco; ce ne parla Marco Polo che lo chiama “lana di salamandra” riferendosi alla resistenza al fuoco di entrambi. E’ l’amianto, l’incorruttibile, detto anche asbesto, l’incombustibile. Due denominazioni di origine greca per definire, in modo sintetico ed esplicito, le caratteristiche principali di questo materiale tristemente noto. La sua natura è quella di un silicato fibroso, cioè un composto di silicio e ossigeno, che si ricava da rocce diverse (crisolite e crocidolite). Una volta estratto e lavorato, diventa un materiale che fonde a temperature elevatissime (1500°C), inattaccabile dagli acidi, molto resistente e non molto pesante. Qualcuno, nel secolo scorso, lo definì il materiale dalle mille possibilità tanto che allora trovò un impiego pressoché ubiquitario: dai ferri da stiro, ai telefoni, a freni e frizioni, alle tute dei vigili del fuoco, agli asciugacapelli, ai quadri elettrici, ai bottoni, ma anche ai filtri di sigaretta e come componente abrasiva delle paste dentifrice. Il settore che lo utilizzò maggiormente fu l’edilizia sotto forma di fibro-cemento per la fabbricazione di tubi (anche per le condotte dell’acqua), rivestimenti di edifici e ricopertura di tetti. Inoltre, la polvere di amianto è stata largamente utilizzata come coadiuvante nella filtrazione dei vini e come componente dei ripiani di fondo dei forni per la panificazione. Questo larghissimo impiego si deve alla creatività dell’austriaco Ludwig Hatschek che, nel 1901, inventò una macchina per filarlo di cui poi vendette il brevetto a un gruppo francese e successivamente al gruppo svizzero Schmidheiny di Niederurnen. L’hanno chiamato eternit a sottolinearne l’indistruttibilità. Le fibre sono resistenti alla corrosione e quindi si prestano ad essere lavorate in lastre molto sottili, come una sfoglia, che vengono impastate e colate in stampi dei quali prendono la forma e dai quali vengono poi tagliate per essere rimosse e avviate all’uso. È stato considerato il materiale miracoloso del XX secolo per le sue proprietà molteplici e, non da ultimo, perché le sue fabbriche, qui da noi prima tra tutte quella di Casale Monferrato, hanno rappresentato l’Eldorado per quelle popolazioni che, in alternativa, si sarebbero viste costrette ad emigrare per trovare quel lavoro che invece, adesso, era lì sotto casa, a disposizione. Bastava allungare la mano ed ecco il benessere mai conosciuto prima. Un lavoro sicuro, con un orario preciso e la paga a fine mese. E una dignità ritrovata che in Italia allora la si acquistava col fare, non con il sapere o con la loquela. E non solo, la spinta subito è legata anche al desiderio di progresso, di cambiamento di vita. Tutto si può con questa “pietra artificiale”: meglio allora sostituire le vecchie tegole dei tetti, rivestire il terrazzo, recintare l’orto, rifare il pollaio e la conigliera. Le palestre e le scuole saranno più sicure; con l’eternit tutto sarà più razionale. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 11 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Tutto bene, insomma, per i primi 15-20 anni, fino a che non iniziano, tra i lavoratori del settore, quelle morti per “bronchite cronica riacutizzata” che, si sa, sono quelle dei fumatori incalliti e le sigarette, ora, sono alla portata anche delle classi operaie, anzi trovano proprio qui il loro consumo maggiore. Tutto è comunque normale, si nasce e si muore; si deve pur morire di qualcosa! E morire per il lavoro è quasi un onore, in un Italia dove il lavoro scarseggia. A Casale dal 1907 al 1986, anno della chiusura dello stabilimento, migliaia di persone hanno lavorato per la produzione di questo materiale tossico. E la proprietà? Come è stata vissuta questa esperienza dal gruppo Schmidheiny che fino agli anni 80 possedeva fabbriche di eternit in 16 paesi per un totale di 23000 dipendenti? Nella famiglia si sono susseguite tre generazioni, prima Jacob, poi Ernst e ora Stephan, tutte animate da quel profondo senso della missione e dall’intraprendenza che non li ha fatti guardare in faccia nessuno, soprattutto al tempo dei loro rapporti lavorativi con la Germania di Hitler o con il Sudafrica dell’apartheid o ancora nella ricostruzione con fibro-cemento del Nicaragua devastato dal terremoto del 1976. Tra i più ricchi del pianeta, dovevano essere di certo persone degne poiché davano lavoro a migliaia di persone; soprattutto l’ultimo di famiglia, che, dopo il boom nel 1976 delle lastre ondulate a pressione vendute davvero in ogni dove, soprattutto ai Paesi più poveri, alla fine degli anni ottanta si sbarazza delle miniere di asbesto e di molte fabbriche e cambia ruolo, addirittura arriva a ricoprire cariche internazionali (rappresentante dell’ONU per lo sviluppo sostenibile e consigliere di Bill Clinton) prima di ritirarsi a vita privata a scrivere libri… sulla natura. Ripensamento, crisi di coscienza, o semplicemente fiuto tutto imprenditoriale che lo induce a riciclarsi, come si conviene? Eppure che l’amianto fosse pericoloso lo sapevano già nel 1930 da studi medici pionieristici eseguiti nel Regno Unito dove era stata dimostrata una correlazione tra contatto con l’amianto e sviluppo di tumore. E la Germania nel 1943 aveva riconosciuto, prima fra le nazioni interessate, che asbestosi, una malattia polmonare cronica, e mesotelioma pleurico, una grave forma di cancro, erano conseguenza dell’inalazione di asbesto tanto da prevedere risarcimenti per i lavoratori colpiti. Nonostante ciò, si continuò a produrre eternit fino al 1986: l'Italia è stata, infatti, il secondo maggiore produttore europeo di amianto, dopo l'ex Unione Sovietica, e uno dei maggiori utilizzatori. E solo a partire dal 1992, con la legge n.257, ne sono state vietate estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione e ci si prende cura dei lavoratori esposti. La causa di questo ritardo? Il gruppo sosteneva che non vi fosse materiale con cui sostituire l’amianto quindi l’abbandono doveva, di necessità, essere lento e progressivo. Il punto è che non esiste una soglia di rischio al di sotto della quale la concentrazione di fibre di amianto nell'aria non sia pericolosa: teoricamente l'inalazione anche di una sola fibra può causare il mesotelioma e le altre patologie, anche se, naturalmente, un'esposizione prolungata nel tempo o ad elevate quantità aumenta esponenzialmente le probabilità di contrarle. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 12 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Così le patologie correlate all'amianto sono aumentate in 10 anni del 50% e in 5 anni del 18%. Come risulta dall'ultimo rapporto annuale dell'Inail: nel 2011 sono state denunciate 2.250 patologie correlate all'amianto, pari al 5% delle 46.558 malattie professionali. Erano circa 1.900 nel 2006 e 1.500 circa nel 2001. Come tristemente sappiamo, in Italia di amianto si continua a morire, e il picco di casi per il principale tumore causato dall'esposizione alla fibra killer, il mesotelioma maligno pleurico, è atteso entro il 2020 o 2025. Dopo il boom di casi, seguirà un declino relativamente rapido, legato al fatto che, a partire dal 1992, l'impiego dell'amianto è stato bandito. In questo momento cosa si può fare? Naturalmente stilare elenchi degli ex esposti e raccogliere dati sui nuovi tumori monitorando anche gli operatori oggi coinvolti nelle azioni di bonifica, rafforzare il controllo sull’assoluto rispetto dei divieti, attivare interventi di messa in sicurezza e bonifica e promuovere la ricerca su nuove tecniche per lo smaltimento dell'amianto nonchè affrontare il problema dell’insufficienza di discariche e siti di stoccaggio che obbliga oggi a far ricorso a sedi estere (Germania) con forti aggravi dei costi. Ma soprattutto non smettere di cercare possibili cure per alleviare le sofferenze di chi è colpito da queste malattie. Oggi si sa che cos’è il mesotelioma pleurico - un tumore maligno che colpisce le cellule della membrana che riveste i polmoni (pleura) -; che ha una latenza temporale lunga, cioè che si manifesta fino a 45 anni dall’esposizione, con un picco dopo 30. I principali sintomi (tosse, dolore toracico e dispnea) spesso si manifestano già un mese dopo la diagnosi, accompagnati da astenia e malessere generale. La pleura si ispessisce diffusamente e questo può portare obliterazione dello spazio pleurico (tra pleura stessa e polmone) e conseguente blocco della motilità polmonare. Se ne conosce il decorso, purtroppo infausto; la sopravvivenza è breve (7,5 mesi di media) e comunque non più di 1-2 anni. E ancora si sa che l’asbesto in sé non è una sostanza mutagena, cioè in grado di provocare mutazioni, ma agisce indirettamente attivando (fosforilando) un fattore di crescita che sta nelle cellule (EGFR) che, a sua volta, attiva una cascata di eventi che inducono proliferazione cellulare, quindi tumore. Inoltre sono coinvolti nell’attivazione anche i ROS (specie reattive dell’ossigeno) che non sono da meno in quanto a pericolosità. Alcuni studi hanno dimostrato che sarebbe coinvolta anche una specie virale (SV40) capace di produrre due proteine che stimolano la crescita cellulare, e inducono mutazione ma sarebbero in grado anche di sopprimere l’azione di alcuni geni oncosoppressori, quelli cioè che bloccano l’espressione tumorale. L'asbestosi è una patologia polmonare cronica che è anche predisponente all'insorgenza dell'adenocarcinoma polmonare e del mesotelioma pleurico, in particolare nei soggetti fumatori. Le fibre di asbesto penetrano attraverso le vie respiratorie e le più sottili possono raggiungere le parti terminali della struttura polmonare, gli alveoli polmonari, deputati allo scambio gassoso con il circolo sanguigno. Qui provocano una reazione infiammatoria da corpo estraneo. L’organismo risponde per eliminare l’infiammazione attivando cellule particolari, i macrofagi, che sono capaci di fagocitare le fibre e di stimolare la produzione di tessuto connettivo che non è più capace di operare gli scambi gassosi del tessuto alveolare. Anche in questo caso si ispessisce la pleura che diventa Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 13 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 fibrotica e spesso calcifica. Il paziente affetto manifesta difficoltà a respirare (insufficienza respiratoria) dapprima sotto sforzo poi anche a riposo, un senso di costrizione toracica, tosse e generale decadimento delle condizioni di salute. E questa è una condizione predisponente per tumore polmonare o pleurico. Il 3 giugno il processo Eternit ha concluso il suo secondo atto. In primo grado, il 13 febbraio 2012, l’imprenditore elvetico Stephan Schmidheiny era stato condannato a 16 anni di reclusione. Oggi gli sono stati aggiunti 2 anni di pena ed è stato condannato a 18 anni. La Corte d’Appello di Torino, dove si è svolto il processo, ha ritenuto il miliardario svizzero responsabile di disastro doloso e omissione dolosa di misure di sicurezza non solo per lo stabilimento di Casale Monferrato ma anche per gli stabilimenti Eternit di Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia). In primo grado gli imputati erano due, ma il secondo, il barone belga Louis De Cartier De Marchienne, è deceduto il 21 maggio scorso a 92 anni, pertanto i giudici hanno dichiarato il non luogo a procedere data la morte dell’imputato e hanno fatto estinguere ogni reato e anche ogni pretesa di risarcimento delle persone a lui collegate nel processo penale. Novanta le famiglie che sono state escluse dalle parti civili e quindi dal risarcimento. Le parti civili erano la regione Piemonte, il comune di Monferrato e numerosi ex operai o appunto famiglie di operai deceduti a seguito dell’esposizione all’amianto. I giudici hanno disposto provvisionali per 20 milioni di euro alla Regione Piemonte e oltre 30,9 milioni per il comune di Casale Monferrato. Denaro, dice il sindaco Giorgio Demezzi, che verrà utilizzato per “eseguire le bonifiche”; la stessa destinazione avrà ciò che i giudici hanno assegnato alla Regione. Per i familiari delle vittime sono stati riconosciuti 30mila euro ciascuno. Sono 932 le vittime che avranno un risarcimento, contro le 2200 che si erano costituite parte civile. Un dimezzamento dovuto in parte alla morte di Louis De Cartier e in parte all'assoluzione di Schmidheiny per il periodo precedente al 1976. Infatti, per quanto riguarda Schmidheiny, il giudice ha stabilito che il periodo in cui gestì la Eternit va dal giugno del '76, per gli stabilimenti di Casale e Bagnoli (Napoli) e dall'80 per quello di Rubiera (Reggio Emilia), e arriva fino al giugno dell'86 per Casale, fino all'85 per Bagnoli, fino all'84 per Rubiera. L'imputato è stato quindi assolto per il periodo che va dal giugno del '66 al '76 per non aver commesso il fatto. Il giudice Alberto Oggé, al suo ultimo giudicato prima della pensione, ha letto per circa un’ora la sentenza in un silenzio pieno di aspettative: complessivamente il magnate è stato condannato a risarcire 100 milioni di euro. La reazione umanissima di Stephan Schmidheiny, per bocca del suo avvocato, è stata: “A questo punto chi verrà più ad investire in Italia? Una persona che all'epoca investì 75 miliardi di lire e non ne ha incassato nemmeno uno viene considerato responsabile e condannato a 18 anni. Non mi sembra un incentivo a investire”. Ora tutti noi attendiamo il terzo grado di giudizio. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 14 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 DOVE OSANO LE IDEE. XX VI SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO Cesare Granati Le idee osano nella rete. Il salone Internazionale del Libro 2013, svoltosi a Torino dal 16 al 20 maggio, ha mostrato al mondo della cultura che gli editori, grandi e piccoli, hanno finalmente preso coscienza della profonda trasformazione mediale in atto. L’uso dei nuovi mezzi di comunicazione per diffondere letteratura non appare più come un pericoloso abbassamento dell’idea stessa di cultura, ma è considerato l’unico mezzo valido per avere un ruolo importante nella società del futuro. Gli interrogativi restano molti ma il modo per dare una risposta valida è uno solo: conoscere e innovare. Tra i problemi più spinosi da risolvere per chi edita parole in questo oceano di informazioni che è il web, c’è sicuramente la questione dei diritti d’autore. A Torino l’argomento è stato affrontato in modo chiaro ed è stato dimostrato come l’aspetto più preoccupante è la lentezza degli organi legislativi, ancora rivolti ad un sistema comunicativo superato, rispetto alle innovazioni che si susseguono rapidamente. Nascono nuove piattaforme online dove ogni individuo può creare costantemente User Generated Conent (UGC, contenuti generati dall’utente) che sfuggono spesso alle norme vigenti riguardo ai diritti d’autore. Colossi come Facebook si appropriano di scritti, immagini, informazioni senza che l’utente ne abbia consapevolezza e riutilizzano questi contenuti per ricavarne guadagno. Informarsi e leggere sempre quello che, con un semplice clic, firmiamo è l’unico modo per tutelare se stessi e quello che condividiamo in rete. Se l’utilizzo di questi social media è gratuito, non è per un’innata vocazione alla condivisione, ma perché la merce siamo noi. Le insidie nascoste tra le righe dei contratti proposti da Facebook & co. non devono intimorire chi si occupa di cultura. I social media sono un mezzo potentissimo per farsi conoscere. La difficoltà di vendere prodotti di qualità online può essere superata grazie alle conoscenze delle generazioni che si affacciano oggi nel mondo del lavoro. Una casa editrice mitica nel panorama nazionale è Minimun Fax. Una delle poche case editrici indipendenti che riesce a coniugare qualità del prodotto e bontà del profitto. Come? Oltre ad intuizioni editoriali importanti, come pubblicare per primi gli scritti di un certo Roberto Saviano, hanno da sempre puntato molto sulla interattività tra loro e il pubblico. I social media sono stati importanti per ampliare questa strategia comunicativa. Minimum Fax, grazie ai propri (giovani) esperti, non solo esiste fisicamente, ma vive un’esistenza digitale su Facebook e Twitter. Grazie al social network di Zuckerberg, porta il proprio pubblico nei suoi uffici mentre sfrutta i 140 caratteri di ogni singolo cinguettio per raccontare in tempo reale le proprie iniziative e va anche oltre. Di recente ha pubblicato una storia a Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 15 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 puntate, già edita dal New Yorker e tradotta in italiano, che la scrittrice Jennifer Egan aveva pensato proprio per questo tipo di pubblicazione. Ogni giorno durante la pausa pranzo i followers possono leggere una parte del racconto. Questo non porta un guadagno immediato ma avvicina pubblico ed editore e ingolosisce il lettore. Un'altra grande possibilità offerta dalla rete è una maggiore libertà nella modellazione di un messaggio. L’intrattenimento offerto grazie alle nuove tecnologie, e in particolare quello che si trasmette attraverso gli schermi che circondano continuamente gli esseri umani, ha confuso chi si occupa di letteratura. Un romanzo non è solo intrattenimento, la cultura può costare fatica. Guardare un film, se è di qualità effimera tanto meglio, ascoltare una canzonetta pop è semplice, costa poco e diverte. Non si può e non si deve confondere letteratura e intrattenimento, ma è possibile cambiarne l’abito per mantenere le qualità intrinseche del messaggio pur volendo giungere a diverse fasce di pubblico. L’audiolibro è un medium nuovo per comunicare la letteratura, può avvicinare alla lettura e contemporaneamente essere un modo nuovo per gli appassionati di rivivere un romanzo già letto. GoodMood Edizioni Sonore, leader del settore, ha presentato a Torino un’importante iniziativa. Quest’estate, sulle spiagge di Cervia e di Milano Marittima, sarà possibile scaricare gratuitamente due audiolibri connettendosi alla rete offerta dagli stabilimenti balneari ai turisti. In questa operazione commerciale si possono individuare due importanti elementi innovativi. Da una parte la volontà dell’amministrazione locale e degli imprenditori della zona di rendere il territorio connesso alla rete e dall’altra la capacità di una casa editrice di sfruttare appieno le possibilità date dal web per diffondere un prodotto nuovo e che trova nell’esistenza digitale la forma più adatta per diventare un medium di successo. Un’altra casa editrice che produce audiolibri è Emons: audiolibri. Molto attiva durante la fiera ha presentato diversi eventi. La forza principale di questa realtà editoriale è la qualità delle voci narranti. Emons associa ai grandi capolavori della storia letteraria le voci di attori, scrittori e cantanti. Uno di questi è Francesco De Gregori che a Torino ha presentato la versione audio di “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad. Un’occasione per parlare del suo rapporto con la letteratura e per esplorare un messaggio quanto mai attuale come quello racchiuso nel capolavoro di fine Ottocento: i demoni che dobbiamo temere non sono nascosti nel cuore della giungla ma sono dentro di noi; è l’uomo occidentale, ossessionato dalla ricchezza e dal potere, il vero demone che il mondo deve temere. Un’altra iniziativa di Emons è stata la lettura di alcuni brani da “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Emilio Gadda compiuta da Fabrizio Gifuni per presentare l’audiolibro appena uscito sul mercato. Più teatrale di De Gregori, e non potrebbe essere diversamente data la bravura di questo straordinario attore, Gifuni è stato eccezionale e ha mostrato al pubblico come forme d’arte differenti si confondono se maneggiate da un grande interprete. Gli abbiamo rivolto alcune domande per conoscere i suoi segreti di attore, la sua opinione riguardo agli audiolibri e il suo amore per Gadda. Per un attore, quali sono le differenze principali tra l’interpretazione di un copione per uno spettacolo teatrale o per un film rispetto alla lettura di un Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 16 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 grande romanzo? Le differenze sono tante. Già lavorare ad un film rispetto che ad uno spettacolo teatrale rappresenta un lavoro complessivamente diverso anche se, alla fine di tutto, quello che resta è il lavoro da attore. C’è un denominatore comune che è quello che l’attore mette in campo, che lo lega a questi testi, la sua curiosità, la sua passione. Per quello che riguarda la lettura di un audiolibro tutto sembra essere rimesso esclusivamente nella voce, in realtà tutto il corpo viene investito com’è in teatro. Io credo che leggere ad alta voce dei testi, anche non destinati al teatro, sia un’esperienza molto emozionante e ricca di sorprese. Gadda era un funambolo della lingua. A livello linguistico, cosa si guadagna ad ascoltare il romanzo e cose si perde, se si perde qualcosa, rispetto ad una lettura più intima? Cosa si perde non lo so, anzi io credo che non si perda nulla. Si può leggerlo anche con gli occhi e a bassa voce. Io credo che in testi particolarmente complessi, una lettura ad alta voce dia la possibilità di aprire le maglie del testo, comprenderlo maggiormente e inoltre io credo che sia un’operazione profondamente organica al testo. Le parole non si depositano miracolosamente su una pagina ma provengono dal corpo degli scrittori, quindi leggerle ad alta voce significa strapparle dalla pagina scritta e rimetterle in verticale, significa riportarle nella loro sede originale, farle tornare nuovamente corpo e carne. Lei ha incontrato Gadda a vent’anni. Con un autore così importante ma anche così complicato è stato amore a prima vista o ha dovuto conoscerlo? È stato amore a prima vista perché il romanzo era “Quer pasticciaccio”. Forse se avessi incontrato qualche altra opera più complessa nell’immediata fruizione le cose sarebbero andate diversamente, non lo so, fatto sta che la lettura a vent’anni del “Pasticciaccio” mi ha folgorato, è stata un’esperienza che ricordo con grande chiarezza ancora oggi, da lì è iniziata una febbre che mi ha portato a leggere tutto Gadda e fortunatamente c’è tanto, perché Gadda ha lascito tantissimo. Letteratura come folgorazione. La cultura come evento significativo nella vita dell’individuo. Perché queste siano esperienze comuni ai più, la cultura e i libri devono continuare a essere una presenza costante nella vita delle persone. Attraverso le parole è possibile istruire, comunicare la Storia, entrare in una cultura diversa dalla propria, viaggiare con la fantasia, non dimenticare mai valori quali la giustizia, la libertà e l’amore. La Rai alla fiera del libro ha presentato la creazione di un portale web perché in ogni momento qualunque utente possa risalire a discussioni letterarie avvenute in TV o in Radio, individuare un titolo sfuggito durante la diretta, conoscere un autore. Ovunque oseranno le idee è fondamentale non restare mai senza parole. Un grande scrittore italiano ci ha raccontato come di fronte alla più tremenda delle ingiustizie perpetuate dagli essere umani sui propri simili, fosse fondamentale non smettere mai di raccontare, di trovare le parole. Primo Levi Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 17 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 è oggi lo scrittore italiano più tradotto nel mondo, le sue parole sono immortali e non smetteranno mai di raccontare il dolore, l’ingiustizia, ma anche lo spirito di unione degli uomini di fronte all’abisso. Al salone internazionale del libro giovani provenienti da paesi diversi hanno letto dei brani tradotti dai maggiori scritti di Primo Levi. Questo è il più grande tesoro che ogni produzione culturale porta con sé: unire persone diverse intorno ad un sentimento comune. Le idee, ovunque ci porteranno, non dovranno mai smettere di camminare sulle gambe delle persone, che viaggino portate da un corriere piuttosto che dentro ad una mail. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 18 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 LA MOLE AL CIELO. IL GRADO ZERO DELLA ST RUTTURA Piera Melone Nasce come una sfida agli ordini della statica, come un’inarrestabile scalata verso l’alto nella costante ricerca del vuoto, il simbolo della prima capitale del Bel Paese. Veglia su Torino la Mole Antonelliana e pare farlo, nelle sue forme ricercate eppure austere, con quella riservatezza che tanto si addice alla città sabauda, svettando silenziosamente tra i palazzi nel trambusto metropolitano, dalle quiete altezze dei suoi 167,5 metri. Quasi fosse divenuta solo per caso una delle più ardite sperimentazioni costruttive in Europa; quasi non fosse uno dei modelli più esemplari e strabilianti di intuizione e sperimentazione ottocentesca. Eppure è proprio con spirito profetico ed intuitivo, nutrito dalla genialità, talvolta utopica, dall’ostinazione e dalla grandiosità che da sempre hanno caratterizzato tanto lui quanto la sua opera, che l’architetto Alessandro Antonelli (Ghemme, 1798 – Torino, 1888) inizia a concepirne il progetto nel 1862; proprio da questo momento prende vita il determinato, formidabile itinerario verso l’azzurro, risoltosi, in un primo momento, solo nel 1889, ad un anno dalla morte del suo creatore, tra continue riprogettazioni, sospensioni dei lavori, ostacoli posti dalla committenza, richieste di fondi che sembrano non essere mai abbastanza per quella che Annibale Rigotti (curatore degli interni nel triennio 1905-1908) definisce «enorme massa di tendini che s’intrecciavano ricoperti di sottili tessuti e poggianti su venti esilissimi fulcri», le cui «screpolature, strapiombi o le deformazioni non destavano grande apprensione: si sapeva bene che non erano mortali, si sapeva bene che le altre generazioni, forse molte, avrebbero ancora alzato il naso in su per guardarla ammirate passandole accanto». Una lungimiranza e consapevolezza − quella dell’immortalità, dell’alto valore architettonico e simbolico della struttura, del significato pre-moderno del progetto in sé – che in pochi addetti ai lavori possiedono negli anni sessanta dell’Ottocento. Anche per questa ragione, oltre che per il carattere intransigente, ostinato, riluttante al compromesso, a tratti anarchico, del personaggio e del suo lavoro, non si trova opera antonelliana che non abbia dato origine a contenziosi, tanto con la committenza, che spesso vede modificati, fino alla trasfigurazione , i progetti iniziali, quanto con il rigido Collegio degli Edili, all’occorrenza raggirato con espedienti tecnici di ogni natura. Già docente di architettura presso l’Accademia Albertina, dove pure ha ricevuto una prima formazione precedente all’esperienza quinquennale di Roma (1826-1831), poi deputato al Parlamento Subalpino e consigliere comunale a Torino e provinciale a Novara, dagli anni ’40 fino alla morte, fa della sua attività indefessa nell’architettura religiosa, civile, urbanistica (piani regolatori di Ferrara, 1862, Novara, 1857, Torino, solo su carta, 1854) e Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 19 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 pubblica, il luogo di uno sperimentalismo talvolta portato all’estremo, con una sincerità e una coerenza esclusivamente individuali che lo portano, negli anni, ad apparire sempre più istintivo, nebuloso, ermetico agli occhi delle committenze. Proprio dall’esigenza di realizzare edifici nei quali dare sfogo autonomamente alla propria arte, negli anni ’40 fonda la Società Costruttori e acquista i terreni di Borgo Vanchiglia, quartiere storico alla confluenza dei fiumi Po e Dora Riparia. Qui, nel centro di Torino, a pochi passi dal Po, tra Corso San Maurizio e via Giulia di Barolo si può ancora oggi ammirare una delle sue prime sfide alle forme classiche; Casa Scaccabarozzi (dal cognome della moglie, Francesca Scaccabarozzi, con la quale visse lì, per un anno, allo scopo di dimostrare alla collettività la solidità strutturale dell’edificio), o “Fetta di Polenta” per il colore giallo delle mura e la singolare planimetria, sorge su un terreno di forma trapezoidale allungata, estendendosi, con i suoi 24 metri d’altezza, per 16 metri su Via Giulia di Barolo, 4,35 metri su Corso San Maurizio e appena 54 centimetri dalla parte opposta a quella del corso. Tra le molteplici opere effettuate su commessa spicca la cupola di San Gaudenzio a Novara (1841-1878), oggi emblema della città ed incredibilmente prossima nell’esecuzione, nel metodo e nelle sorti, alle vicende della Mole; anche in questo caso seguono l’uno all’altro diversi progetti che si sovrappongono in una ricerca puntuale, con un’elaborazione stilistica complessa, mutevole, in continua evoluzione; più di una volta Antonelli desta preoccupazioni (e ostilità) nell’amministrazione comunale, disegna modifiche strutturali che accrescono le spese d’investimento, e infine aumenta gradatamente l’altezza della maestosa cupola, fino ad ottenere il risultato di 121 metri. Non deve essere semplice, per l’Antonelli di questi anni, già proiettato dal 1863 − durante i difficili lavori di Novara e innumerevoli altre committenze − nel grande sogno della Mole, perseverare senza indugi in quell’unico, grande disegno, che di tutta la sua opera diviene il filo conduttore: la spasmodica rincorsa al vuoto (nella tensione verso l’alto e nelle superfici, che il sistema antonelliano concepisce esclusivamente come chiusura o riparo, quasi cercando di giungere ad un momento essenziale, quel “grado zero” del monumento, che Roland Barthes intuisce nella Tour Eiffel) nella ricerca metodica della perfezione attraverso una sperimentazione che fa della grammatica classicista e delle scelte strutturali prettamente neomedievaliste il suo fondamento. Quando l’Università Israelitica di Torino, forte dell’emancipazione civile concessa nel 1848 da Carlo Alberto alla comunità ebraica, affida ad Antonelli l’incarico di costruire una sinagoga tra le attuali vie Montebello, G.Ferrari, F.Riberi e G.Verdi (1862), l’Architetto si trova a lavorare su un isolato dell’ampiezza decisamente ridotta (37 metri per 37), ciononostante riesce in breve tempo a risolvere le problematiche poste dall’impresa, consegnando un progetto caratterizzato da un involucro parietale quasi esclusivamente composto da elementi portanti singoli (doppio perimetro di colonne corinzie e pilastri), masse murarie limitate a pochi elementi destinati agli interni e agli interrati e un’altezza complessiva di 47 metri, in linea con le esigenze di economia e funzionalità della committenza. A partire dalla cupola, che si configura come una gigantesca volta a padiglione, sceglie di configurare l’espressione pubblica dello spirito giudaico in un’idea che si allontana figurativamente dall’iconografia ricorrente, per poi proseguire lungo una strada tutta personale, che lo conduce, attraverso un’audacia strutturale Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 20 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 nell’utilizzo di mattoni e pietra (in luogo dei nuovi materiali metallici in voga) a una flessibilità spaziale, ma anche temporale, caratteristiche del suo metodo. Deve aver messo a dura prova la pazienza dell’Assemblea dei Contribuenti Israeliti se, a nove anni dalla fase esecutiva, il Presidente del Consiglio di Amministrazione dichiara in una relazione: «Divorato dalla smania di accoppiare il suo nome ad un monumento di singolare maestria e di forma anche più singolare, faceva lentamente e quasi di soppiatto elevare un terzo ordine nei piani della costruzione col concetto di portarne la parte superiore ad una smisurata altezza e, perturbando per tal modo l’organismo di tutto il progetto dal lato dell’estetica e della costruzione, non solo ma assai più sostanzialmente, dal lato finanziario ed economico. Allarmata da questo fatto – di cui solo allora era possibile accorgersi, ma troppo tardi per poterlo pervenire – l’Amministrazione si presentò all’Antonelli per chiedergliene schiarimenti e ragione, ed egli, additando appeso alla parete del suo Studio il nuovo disegno da lui clandestinamente sostituito all’antico, ed assai inoltrato d’esecuzione, scusò con ragioni tecniche […]». In effetti, dopo innumerevoli, sostanziali modifiche architettoniche, ivi compresa l’introduzione di un nuovo, gigantesco velario di copertura molto acuto che incrementa l’altezza del Tempio (già soprannominato “mole”) dai 47 ai 113,57 metri, il progetto iniziale si trova irreversibilmente sconvolto, e reso noto solo intorno al 1867, in seguito ad un ulteriore sovvenzionamento stanziato questa volta dall’Amministrazione comunale di Torino. La Mole già si configura come un edificio eccezionale e fortemente simbolico, ma di qui a poco, nel 1870, i lavori vengono sospesi, e nel 1873, l’Università Israelitica cede la struttura (con i costi di terminazione) al Comune in cambio di un nuovo spazio nel quartiere di San Salvario. In serio dubbio viene messa anche la solidità strutturale e con essa la stabilità dell’edificio; dopo innumerevoli indagini statiche compiute da diverse Commissioni e Sottocommissioni nominate dal Comune tra il ’70 e il ‘79, un progetto alternativo esterno (demandato dal Comune ai milanesi Luigi Tatti e Celeste Clericetti) che propone di demolire la grande volta sostituendola con un bulbo di ferro e la conseguente, strenua linea difensiva dell’ Antonelli che si rifiuta categoricamente di vedere violentata la sua opera, i lavori riprendono solo nel 1878. L’ anziano Architetto, aiutato dal figlio Costanzo, continua ad apporre modifiche, stende nuovi progetti, porta l’altezza della costruzione (nel frattempo dedicata a Re Vittorio Emanuele II e destinata a sede del Museo di Indipendenza Italiana) a 149 metri, a 153 metri e infine a 163,35 metri; alla stella dorata del finimento inizialmente proposta sostituisce una statua in rame sbalzato e dorato rappresentante, come descritto da lui stesso in una lettera al Sindaco datata 1888, «un Genio alato dell’ Augusta stirpe Savoia colla Stella d’Italia sul capo, la lancia nella mano destra, la palma nella mano sinistra, ai piedi le vittoriose corone colle aquile Romane […]». La statua viene Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 21 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 innalzata sulla guglia il 10 aprile 1889, pochi mesi dopo la mote di Antonelli (18 ottobre 1888), novantenne; ai lavori di rifinitura interna ed esterna gli succede il figlio, poi sollevato dall’incarico due anni dopo. La Mole viene messa nuovamente alla prova nel 1904, quando un nubifragio rovescia la pesante statua (300 kg), che, rimasta miracolosamente in bilico sul terrazzino sottostante, viene sostituita l’anno seguente con una stella a cinque punte; nel 1953, un uragano abbatte circa 47 metri di cuspide e dà il via ad una nuova fase di restauro. La creazione di Antonelli, da allora coronata da una stella tridimensionale a dodici punte, è, dal 2000, sede del Museo Nazionale del Cinema; al piano terra è esposta la statua del Genio alato a testimonianza di un’interminabile, proprio perché umana e finita, impresa di scoperta, nell’ostinato superamento del limite, in quell’ irruente, scaltra tensione verso il cielo alla quale va il merito di aver regalato alla Mole Antonelliana, prima e dopo i nuovi grattacieli in costruzione di Massimiliano Fuksas e Renzo Piano, il primato incontrastato in altezza. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 22 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 EPIC A E SIMBOLISMO NEL LINGUAG GIO DI GU ERNICA Alice Fasano Nel gennaio del 1937 il governo spagnolo in esilio commissionò a Pablo Picasso una pittura murale per l’edificio che avrebbe rappresentato la nazione all’Esposizione internazionale di Parigi. Il 26 Aprile dello stesso anno la cittadina basca di Guernica fu bombardata e quasi completamente rasa al suolo dall’aviazione militare nazista. Rimasero illesi solo la Casa de Juntas, edificio storico nel quale si radunava il parlamento basco ed erano conservati gli archivi della regione, e la famosa quercia di Guernica. La tradizione vuole che sotto quest’albero maestoso i re di Spagna prestassero giuramento di rispettare i diritti democratici, ricevendo in cambio il titolo di Señor anziché quello più monarchico di Rey. Guernica non era una cittadina qualsiasi ma, nella mente di ogni spagnolo, rappresentava il baluardo dell’antica fierezza e della libertà. Questo raccapricciante episodio bellico ebbe effetti devastanti sotto molti punti di vista: per prima cosa non si trattava semplicemente di danni, ma della devastazione pressoché totale di una pacifica comunità umana. Inoltre, dato l’importante ruolo che la città basca ricopriva nella memoria nazionale spagnola, l’evento fu subito caricato di significati storici e umani. Il tema della guerra civile aveva sempre interessato Picasso, come ben si può capire osservando i due gruppi di incisioni Sogno e menzogna di Franco; ma il bombardamento di Guernica agì da catalizzatore per il suo estro creativo, diventando il soggetto della pittura murale che gli era stata commissionata diversi mesi prima. Così, appena una settimana dopo il terribile assalto, fu realizzato il primissimo schizzo per Guernica. Tuttavia l’opera finale non si presenta come il resoconto storico di tutto ciò che accadde quel tragico pomeriggio primaverile. La veduta globale del dipinto, infatti, è limitata ad un ambiente estremamente ristretto: l’angolo di una stanza e segmenti di una o due facciate. Nessun panorama sulle rovine carbonizzate della città; nessuna folla in preda al panico che fugge nel disperato tentativo di mettersi in salvo. Il tema è svolto esclusivamente grazie all’azione-reazione di nove figure, ognuna delle quali è espressione del dramma in maniera molto differente dalle altre. Questi personaggi sono: quattro donne, un bambino, la statua di un guerriero, un toro, un cavallo e un uccello. Piuttosto che l’immagine del popolo, Guernica rappresenta l’immagine dell’uomo, scisso nei vari aspetti delle sue reazioni. Protagoniste dell’azione sono le donne; l’unico uomo è poco più che un frammento, a metà tra una Pablo Picasso, Massacro di Corea, 1951 scultura e un essere vivente. Similmente immobile è il toro, monumento più che attore. Le donne invece urlano, spingono, fuggono e cadono. Certo è vero che nel periodo in cui si svolse l’incursione aerea Guernica era in prevalenza popolata da donne e bambini poiché molti uomini combattevano al fronte. La ragione di questa scelta, però, va ben oltre Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 23 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 il puro interesse documentario: la prevalenza dell’elemento femminile fa di quest’opera l’immagine dell’umanità innocente, indifesa e inerme. Si tratta dunque della rappresentazione simbolica di un dramma vissuto in prima persona, provocato da una rabbia feroce che colpisce la sostanza stessa dell’animo umano come un’epidemia. In Guernica l’elemento antagonista è stato omesso: sebbene molti testimoni oculari raccontino che in pochi minuti «il cielo nereggiò di aerei germanici», nella scena manca ogni riferimento ai nemici. La composizione non è basata sul contrasto di due partiti antagonisti come nel più tardo Massacro di corea, dove i robot con i loro fucili automatici sono schierati frontalmente rispetto al gruppo delle donne. Per questo motivo il murale non ha mai costituito una presa di posizione politica. Dipingendo gli effetti di una brutalità che colpisce dal nulla e ferisce il profondo dell’anima, esso parla di sofferenza ma anche di speranza. Un’ulteriore deviazione dalla storicità dei fatti va letta nella cupa oscurità della scena. La cittadina fu bombardata in un soleggiato pomeriggio primaverile, ma le strade furono ben presto avvolte dal fumo degli incendi. Tuttavia la scelta del pittore non può essere stata dettata esclusivamente da questa ragione. Le tenebre sono state preferite alla luce del sole con il chiaro intento simbolico di comunicare un momento di lutto, di morte, di buio. Soltanto due lampade, fonti di luce artificiale, diffondono bagliori erratici che illuminano i personaggi e gli squarci degli edifici. Una di esse è attratta verso il centro della scena da una forza violenta: la modesta lampada ad olio, sospinta in avanti dalla donna che si sporge attraverso la finestra, diventa l’apice del triangolo che comprende il guerriero, il cavallo e la donna in fuga, che è al tempo stesso una piramide luminosa. Paragonata alla forza di questo piccolo lume, la grande lampada appesa al soffitto sembra del tutto inutile. Non è Pablo Picasso, Minotauromachia, 1935 introdotta da alcun personaggio e la sua efficacia come fonte luminosa non è rappresentata, dato che rimane al di fuori del cono di luce. Essa acquisisce la freddezza di una volontà inefficiente, simbolo di consapevolezza distaccata, di un mondo informato ma non impegnato. L’apparente duplicazione della sorgente luminosa esprime effettivamente un contrasto significativo tra la piccola, autentica luce che illumina la scena e il potente, cieco strumento di una consapevolezza priva di coscienza morale. Guernica non rappresenta quindi un’allegoria della guerra, come spesso è stata interpretata: nel dipinto sono presenti forme e figure che acquisiscono un significato simbolico, non allegorico. Un soggetto mostruosamente deforme può identificarsi come allegoria solamente se è rappresentato in un contesto realistico di solidità materiale, come creatura significante e autosufficiente, e non in un mondo fantastico o altrettanto frammentato e deforme. Né il guerriero spezzato, né il toro, né l’uccello sono estranei all’ambiente del dipinto nel senso in cui lo è l’allegorica figura femminile che agita una bandiera nel celebre quadro di Delacroix, La libertà che guida il popolo (1830). In Guernica tutti i personaggi possiedono il medesimo status realistico poiché sono collocati in un ambiente smaterializzato in cui ogni oggetto frammenta la continuità dello spazio fisico. La statua in pezzi non avrebbe potuto assumere lo stesso ruolo del cavallo se il volume di quest’ultimo non fosse stato analogamente scomposto in frammenti secondo la tendenza cubista. Quasi tutti i personaggi che popolano questo dipinto erano già stati rappresentati nella Minotauromachia del 1935. Non solo, invertendo la lettura del dipinto dal lato destro verso quello sinistro si scopre che le due composizioni sono disposte in modo praticamente identico: prima il toro, poi il cavallo agonizzante con il/la combattente che brandisce un pugnale, quindi la figura femminile che solleva il lume ed infine le donne affacciate da un’alta finestra. Persino l’uccello e il fiore compaiono in entrambi i casi, e dagli schizzi preparatori risulta che Picasso avesse considerato di introdurre l’uomo che si arrampica per la scaletta a pioli anche nel lato destro di Guernica. Il confronto tra queste due opere dimostra che i soggetti di un artista possono essere indipendenti dal significato che egli attribuisce loro di volta in volta. Prendiamo ad esempio il caso del toro: questo ammirevole e temibile animale ha una lunga e nobile storia nella civiltà mediterranea. Nelle regioni agricole esso rappresenta la Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 24 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 potenza, la fecondità e la fierezza della natura. Nei combattimenti di tori e nelle corride invece assume il ruolo di oscuro nemico, l’avversario di un eroe umano che però, indossando il cappello a due punte del torero, istituisce una misteriosa e simpatetica somiglianza con l’animale cornuto. In Guernica tutti gli sguardi sono rivolti verso il toro maestoso che domina la scena dalla destra: l’urlo della madre, come pure il viso del bimbo morto e il muso del cavallo agonizzante. Il guerriero guarda nella sua direzione e lo sostiene con le braccia tese, come una sorta di piedistallo. Una delle donne gli spinge incontro la lampada ad olio mentre quella che fugge, correndo, fissa lo sguardo verso di lui. Solamente la donna che cade sul lato destro è, nel suo isolamento, la controparte simmetrica dell’animale. Ma un dettaglio importante differenzia simbolicamente le due figure: mentre la posizione della donna, situata quasi a mezz’aria, suggerisce l’estrema mancanza di sostegno, il toro è l’unico elemento della composizione che poggia solidamente sulla verticale delle sue zampe. L’isolamento della donna che cade simboleggia la catastrofe definitiva. Il toro invece è situato al di fuori di tale catastrofe, interessato ma non coinvolto: protegge la madre disperata come un tetto ma resta inerte non perché manchi di sentimento (la sua intima passione è rivelata dalla coda in fiamme), ma perché è materialmente assente dalla scena. Quest’animale rappresenta quindi l’immagine imperturbabile della Spagna, torreggiante come la quercia di Guernica e la Casa de Juntas che rimasero intatte nonostante il bombardamento. Se il toro avesse rappresentato il nemico, il murale sarebbe risultato soltanto come un’immagine di distruzione e desolazione, come un lamento piuttosto che un appello alla speranza, alla resistenza e alla sopravvivenza. In questo modo Picasso svincola lo spettatore dalla reale cruenza dell’evento e, obbligandolo a riflettere in maniera distaccata sulla situazione, gli instilla il pensiero rinfrancante di una riabilitazione imminente. Per quanto riguarda le caratteristiche formali, il murale è svolto esclusivamente nelle tonalità del bianco e del nero; è quindi approssimativamente monocromatico. Questa non è la necessaria conseguenza della scelta di rappresentare un momento di tenebre poiché, due anni più tardi, il pittore avrebbe dipinto la Pesca notturna ad Antibes interamente a colori. In confronto al mondo colorato della nostra esperienza quotidiana e di buona parte della pittura, la monocromia conferisce al dipinto un carattere di menomazione. Non compare il rosso del sangue, né si percepisce differenza tra il fuoco e la luce o tra la carnagione furente dei vivi e il pallore delle carni morte. L’immagine è ridotta alle pure forme espressive che sono interpretative piuttosto che narrative. Al tempo stesso la pittura monocromatica crea un’uniformità che riduce tutti gli eventi al contrasto tra luce e ombra. Nel mondo dei colori la distinzione tra luce e tenebra è solamente una lieve variazione tra molte altre; nel mondo moncromo il destino dell’oscurità rimane invariato, ma la chiarezza della luce è assoluta. Tutti gli oggetti sono dunque classificati e giudicati secondo la stessa scala cromatica, a seconda del posto che occupano rispetto al bianco e al nero, al bene e al male, alla vittoria e alla sconfitta. Il mondo di Guernica non può suggerire quel tipo di raggruppamenti e separazioni che spesso si scoprono fondamentali nelle composizioni colorate. La distinzione tra la scena del bombardamento e il toro non è rafforzata da alcuna differenza di colore. L’uso esclusivo delle molteplici tonalità del bianco e del nero sottolinea l’unità di tutto quanto è contenuto nella pittura: le figure appartengono tutte al medesimo clan, la Spagna. L’uniformità è ripresa nelle dimensioni del dipinto: un lungo rettangolo di 3,45 per 7,70 metri, con una proporzione di 1 a 2,2 marginalmente determinata dalla parete del padiglione spagnolo. Scegliendo questo formato, Picasso rinunciò deliberatamente alla possibilità di sfruttare l’altezza per ottenere un forte crescendo emotivo. Il toro infatti, pur dominando la scena, non è che di poco più alto rispetto alle altre figure, configurandosi piuttosto come parte integrante della composizione totale, in cui ogni elemento suggerisce un’emozione di eguale intensità. Come la monocromia, anche il formato allungato ha un effetto uniformante: fa sì che il dipinto descriva la tragedia con toni epici, non drammatici. Il pannello lungo inoltre crea una discontinuità complessiva nella scena. Se disposti verticalmente gli elementi risultano strettamente collegati tra di loro; orizzontalmente, invece, possono essere ampiamente distaccati. Dunque, all’uniformità di colore, forma, altezza e profondità spaziale, si contrappone un estendersi del dipinto nell’orizzontale, come fosse una veduta panoramica. Nonostante questa apparente “piattezza”, la composizione di Picasso è del tutto estranea alla monotonia. L’apice del frontone costituito dalla sommità della lampada ad olio non è situato esattamente al centro del dipinto, ma leggermente verso sinistra; la posizione del grande lume appeso al soffitto sposta l’equilibrio della massa centrale ancor più sulla sinistra. Questo movimento accentua la tendenza delle figure in direzione del toro. Tuttavia ogni movimento compositivo verso sinistra va controcorrente poiché, per motivi psicologici, lo sguardo dell’osservatore procede Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 25 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 di norma verso destra. La simmetria basilare del rettangolo pittorico è quindi contrastata da una corrente sinistrorsa che genera asimmetria e confusione. La spinta delle figure in direzione del toro è rigidamente contenuta poiché è orientata controcorrente. Se per esempio si osservasse il dipinto allo specchio, non appena destra e sinistra si trovino invertite, la scena si tramuta in una fuga precipitosa in direzione del toro. Tuttavia questa lettura costituisce una visione estremamente semplicistica: secondo la sottile concezione di Picasso il corpo del toro fronteggia le vittime ma la sua testa è distolta da esse e il suo sguardo trascende lo spazio della scena, verso l’infinito. Tutte le figure, sebbene attratte dalla potenza del toro, sono mantenute lontane da lui da un’invisibile forza che le imprigiona. La visione della salvezza, per quanto irraggiungibile, costituisce la meta cui tendono tutti i personaggi, schiavi di un obiettivo che gli è negato. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 26 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 DA GIO RGIO F RANCHETTI A GIO RGIO F RANCHETTI. COLLEZIONISMI ALLA CA’ D’O RO Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Cà d’Oro 30 maggio-24 novembre 2013 Le opere, meglio i capolavori, di due straordinari collezionisti, nonno e nipote, vengono per la prima volta riuniti alla Ca' d'Oro, la dimora che il primo, il barone Giorgio Franchetti, scelse per contenere i suoi tesori poi messi a disposizione di tutti. Accanto alle raccolte antiche del nonno, per la durata della mostra, viene esposta la non meno rara collezione di Giorgio jr che documenta, in modo esemplare, il nuovo dell'arte italiana del secondo dopoguerra. Dal 30 maggio al 24 novembre, questo accade nella mostra "da Giorgio Franchetti a Giorgio Franchetti. Collezionismi alla Ca' d'Oro" proposta dalla Soprintendenza per il Polo Museale Veneziano, Soprintendente Giovanna Damiani, nell'ambito delle iniziative istituzionali del Ministero per i Beni e le Attività culturali, promosse dal Servizio architettura e arte contemporanee della Direzione Generale PaBAAC, in occasione della 55. Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia 2013, in collaborazione con MondoMostre, a cura di Claudia Cremonini e Flavio Fergonzi. Non è ancora stato dimostrato che tra i geni trasmessi ci sia anche quello per il collezionismo d'arte. Ma questa tesi trova sicuramente una conferma nel caso di due collezionisti, nonno e nipote, uniti dalla stessa passione oltre che dal nome: Giorgio Franchetti. Diversissime le loro collezioni di opere d'arte, diversissimo del resto era anche il momento storico e le condizioni in cui vissero e operarono. Il barone Franchetti sr. amava l'arte antica, i maestri minori, le opere rare e non ancora famose. Il nipote, Giorgio jr, l'arte del suo tempo e del suo ambiente, ovvero la Roma degli anni '50 e '60 del '900, momento di innovazione e nuovi fermenti, da lui colti e persino stimolati. In entrambi emerge sempre il rapporto intimo e intuitivo con l'opera d'arte, profondamente personale, anticonformista e refrattario alle mode imposte dal mercato, che è ciò che lega geneticamente i due protagonisti della mostra. Della competente passione del primo per l'arte antica, soprattutto rinascimentale, è frutto una collezione originalissima di maestri toscani e centro italiani, veneti e fiamminghi, da Giambono a Mantegna, da Tiziano, Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 27 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Tintoretto, Paris Bordon sino a Guardi, ma anche van Eyck e van Dyck, Paul Brill o Joachim Patinier. Il nipote Giorgio Franchetti, deceduto da pochi anni (2006), collezionò Tano Festa, Cy Twombly, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Alighiero Boetti, Gino De Dominicis, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Ceroli, Fabro, Luigi Ontani... e se fece qualche concessione allo "storico" fu per Balla. Queste opere vengono riunite dopo la dispersione che è seguita alla scomparsa del collezionista, nel "portego" del secondo piano di Cà d'Oro. Ad essere coinvolti nella grande esposizione dedicata ai due Franchetti sono tutti gli spazi della Ca' d'Oro, lungo un percorso che prende avvio dalla suggestiva corte interna del palazzo, ove riposano le ceneri di Giorgio sr., e prosegue al primo piano con una sezione tutta dedicata al fondatore del Museo, alla sua famiglia (di grande interesse i ritratti di Franz von Lenbach, per la prima volta esposti) e alla munifica donazione della Ca' d'Oro e della sua collezione allo Stato, nel 1916. Cuore sacralizzato e affettivo della collezione del barone è la cosiddetta Cappella del Mantegna da lui ideata per accogliere il dolente San Sebastiano. Il capolavoro di Andrea Mantegna assurge a simbolo dell'impegno tenace e ostinato del nobiluomo di fare della Ca' d'Oro un luogo eletto di bellezza e arte, alla sua stessa vicenda umana, segnata da un "sogno di universalità del bello" spinto spesso fino alla ricerca sofferta e sfibrante della perfezione: «In basso, ai piedi del santo, il Mantegna ha dipinto un torcetto acceso che, sotto quello spasimo imprigionato in tanto poco spazio, fumiga come sotto un vento d'uragano. Franchetti lo indicò, con un mesto sorriso: - Vedi questo piccolo cero. Sono io. E m'illudo di fare un poco di luce», dice Giorgio Franchetti accompagnando in visita l'amico Ugo Ojetti. In una vita di ricerche, Franchetti sr. aveva collezionato e riunito nella rinata Ca' d'Oro una considerevole sequenza di opere d'arte. Tra le opere di maggior prestigio della pinacoteca - che vanta anche una interessante sezione di pittura fiamminga e olandese del Cinque-Seicento, il Ritratto di Marcello Durazzo di Van Dyck, la Venere allo specchio di Tiziano, le due Vedute veneziane di Francesco Guardi. Non meno importanti le sculture rinascimentali andatesi ad aggregare successivamente (tra cui spicca il Doppio ritratto di Tullio Lombardo) e le collezioni di medaglie, bronzetti, tappeti, arazzi, affreschi staccati e arredi lignei di diversa epoca e provenienza, cui si aggiunge una vasta sezione di ceramiche acclusa al museo nel 1992. La sezione, curata da Flavio Fergonzi, dedicata al nipote (secondo piano), ne evidenzia la passione, e la competenza, come collezionista di pittura moderna negli anni Sessanta e Settanta in area romana. Senza il sostegno, l'azione e la presenza stessa nel mondo degli ateliers e delle gallerie di questo insolito e geniale collezionista non sarebbe esistita, di fatto, la Scuola romana di Piazza del Popolo. Cuore di questa parte della mostra sono le opere di grande formato di Twombly Rotella, Boetti e Paolini, oltre a capolavori come La creazione dell'uomo, La grande Odalisca di Tano Festa, Futurismo rivisitato a colori di Mario Schifano. Poi opere di scultura, tra le più significative del periodo, di Pascali, Ceroli, Fabro. Un percorso preceduto dall'esposizione di autori, da Balla a Manzoni, che il Franchetti considerava come prodromi del nuovo maturato negli anni Sessanta. L'esempio del nonno e l'impegno che dedicò a Ca' d'Oro erano ben presenti nel ricordo di Giorgio jr, come testimonia un articolo di Repubblica del 1984 sulla Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 28 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 riapertura di Ca' d'Oro, dopo i pluriennali lavori di riallestimento: “ (...) l'operazione è piaciuta al nipote di Giorgio Franchetti, che porta il suo stesso nome (è figlio di Carlo, figlio del barone), ha 64 anni, vive a Roma, è ingegnere ed uno dei maggiori collezionisti di arte contemporanea. "E' un sogno che rivive, il sogno della mia famiglia, e anche un esempio che l'Italia può vantare nel mondo della potenzialità dei privati. Il risultato è affascinante: Ci sono dentro tutti i valori che erano cari a mio nonno, e ci sono anche gli oggetti del suo grande sogno dell' estetica e della bellezza". “ Ora, grazie a questa mostra, quel sogno si completa, nel segno della passione per l'arte che accomunò nonno e nipote. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 29 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 F4/ UN’IDEA DI FOTOGRAFIA . SGUARDI SUL TEMPO Parte la terza edizione di F4 / un'idea di Fotografia, il festival promosso da Fondazione Francesco Fabbri con un ampio programma di esposizioni, workshop e incontri con l'autore a Casa dei Carraresi a Treviso. Ad aprire il festival saranno le esposizioni Sguardi sul tempo. Percorsi nella fotografia d'autore e Venezia / L'eredità dei precursori, mostra personale di Francesco Jodice. La prima rassegna, curata da Carlo Sala, proporrà oltre duecento lavori dalle origini del mezzo fino ai nostri giorni provenienti dalla collezione privata di Dionisio Gavagnin, finora rimasta inedita al pubblico. La selezione qui proposta è un percorso volto a raffigurare i cambiamenti culturali e sociali della storia tramite l'occhio privilegiato della fotografia con opere tra gli altri di Henri Cartier Bresson, Robert Capa, Candida Höfer, Robert Mapplethorpe, Félix Nadar, Man Ray, Thomas Ruff e Sebastião Salgado. Ad aprire la prima esposizione un intenso dialogo tra alcuni dei maestri delle fotografia che in momenti differenti hanno raffigurato la condizione sociale dell'uomo: i ritratti l'alta borghesia di Félix Nadar si confronta con la volontà classificatoria che emerge nei volti della gente comune del tedesco August Sander, ma anche con le immagini patinate uscite dalle riviste di moda di Robert Mapplethorpe e Irving Penn. Il novecento si apre con la carica dirompente e sovversiva della avanguardie storiche: l'inconscio surrealista è testimoniato dalle distorsioni di André Kertész, i graffiti di Brassaï, le bambole di Hans Bellmer o i celebri ritratti "solarizzati" di Man Ray; ma anche l'antiaccademismo del movimento Dada con i collage di Raoul Hausmann o le visioni razionali del Bauhaus. A continuare questo ideale percorso un'ampia sezione è dedicata alla fotografia sociale e documentaria con alcuni dei grandi maestri europei e americani. Autori che hanno lavorato in contesti al limite, dalle scene del Bronx a New York di Weegee ai vari fronti di guerra come lo sbarco dei tanks in Cina raccontato da Robert Capa negli anni Trenta o la Cipro descritta da Donald McCullin. La fotografia è anche specchio del proprio tempo che narra eventi epocali: Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 30 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 ecco apparire gli scatti realizzati dalla NASA l'11 luglio 1969 per celebrare lo sbarco sulla luna; ma anche fatti che hanno segnato le coscienze collettive come l'attentato al presidente Ronald Reagan colto da Sebastião Salgado e le scene di mafia della palermitana Letizia Battaglia. Un nucleo di lavori che sanno anche tracciare i tratti identitari dei luoghi e delle genti che li popolano, dall'America di Walker Evans, all'Italia di Mario Giacomelli fino alla Francia narrata da Robert Doisneau e Henri Cartier-Bresson. La fotografia italiana è documentata come un mosaico di varie esperienze, partendo da una delle immagini simbolo del dopoguerra, "Il Tuffatore" di Nino Migliori. Un'Italia dai tanti volti che alterna immagini rurali alla Dolce Vita colta dal "paparazzo" Tazio Secchiaroli. Ma anche la stagione della mutata coscienza del paesaggio con Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Guido Guidi, Franco Fontana e Walter Niedermayr. Una parte cospicua della mostra racconta delle ricerche degli anni settanta, con un rinnovato impegno linguistico che per alcuni si traduce con l'uso delle immagini di archivio come per Franco Vaccari e Mario Cresci, con i celebri "Ritratti reali". Ma anche l'uso del corpo come forma di emancipazione e scardinamento degli assetti sociali con Vito Acconci, gli azionisti viennesi Hermann Nitsch, Günter Brus, e Arnulf Rainer, l'intimità di Gina Pane, fino ai lavori di Cindy Sherman con uno dei celebri camuffamenti della serie "Murder Mystery". Le tensioni delle contemporaneità appaiono sotto una pluralità di declinazioni come le analisi rigorose degli autori della scuola di Düsseldorf con i lavori di Thomas Ruff e Candida Höfer; ma anche le tensioni grottesche di Joel Peter Witkin e la forza simbolica di Andres Serrano. A concludere, le prospettive più attuali sull'arte italiana, specchio di un ibridazione culturale e sociale, testimoniata tra gli altri dai lavori di Vanessa Beecroft, Stefano Cagol, Silvia Camporesi e Alessadra Tesi. A concludere il percorso a Casa dei Carraresi è la mostra personale di Francesco Jodice. L'esposizione, presenta un corpus di lavori inediti legati al quarto film del ciclo Citytellers che l'autore sta realizzando proprio sulla città lagunare. Francesco Jodice, ricognitore dei fenomeni sociali e urbanistici, non si è confrontato con l'aspetto esteriore della città, ma ha mosso la sua indagine da un peculiare interrogativo: perché oltre mille anni fa è stata edificata una città proprio in un luogo così ostile? L'autore non ha potuto non lasciarsi attrarre da questa impresa costruttiva e politica che sembra infrangere le normali logiche e cautele. Le immagini che ne emergono parlano dell'essenza attuale della città attraverso i suoi caratteri archetipali negandone una iconicità strettamente contemporanea del presente. Con un giro di parole potrebbero essere definite un "film in costume", per porre una analisi profonda senza alcun intento celebrativo o nostalgico. Stupisce una fotografia sospesa tra realtà e finzione che mostra la facciata di un palazzo veneziano. E' il ritratto di un modellino trovato al Museo Fortuny che diviene imponente e nella sua "pesante" monumentalità esalta la perizia di averlo costruito sopra una serie di palafitte in legno. Un atto di ingegno, ma anche una dimostrazione di potere e forza per un'impresa che appare quasi impossibile: riuscire dal nulla ad edificare una città che in alcuni secoli diverrà una delle più popolose d'Europa e uno dei centri culturali ed economici più floridi del continente. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 31 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 Ogni immagine esposta costituisce una narrazione corale, quasi costituisse singolarmente uno storytelling complesso. Se dal punto di vista compositivo ha una apparente semplicità semiotica, dischiude in realtà una complessità narrativa che volutamente viene appena accennata. L'intento è di stimolare lo spettatore a rapportarsi con le opere quasi per completarne l'indagine. Il fruitore posto di fronte all'immagine e agli spunti che la accompagnano è quasi costretto ad assumere una presa di posizione e completarla così con le proprie risposte. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 32 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 OMA R GALLIANI. IL SOGNO DELLA PRINCIPESSA LYU JI AL FLORIAN Venezia, Stanza Cinese del Caffè Florian 30 maggio - 30 settembre 2013 Lei è l'affascinante Lyu Ji, Principessa di Xiang. Il suo volto e il suo spirito permeano il Caffè Florian che la accoglierà per l'intera estate veneziana, dal 30 maggio al 30 settembre. Tutti coloro che avranno il piacere, seduti al Caffè di Piazza San Marco, di averla accanto nei loro momenti di scoperta di uno dei più antichi caffè del mondo, non potranno che restarne affascinati: per la bellezza, innanzitutto. Ma anche per l'aura di eterno mistero e di umana, dolcissima melanconia, che emana dalla sua figura. A riportare la Nobilissima Lyu Ji a Venezia, mito nel mito, non poteva che essere un artista di grande sensibilità: Omar Galliani, un maestro che dopo innumerevoli viaggi ed esposizioni nei musei cinesi, conosce ed ama la Cina, dove è riconosciuto come l'erede della tradizione del disegno italiano tra passato e presente. Galliani ha scoperto Lyu Ji in uno dei suoi viaggi in quello che è stato il Celeste Impero. "Ho sognato, scrive Galliani a presentazione di questa sua magnifica installazione, una stanza di sogni disegnati sui muri dove una principessa d'Oriente lega il suo nome alla città che ha visto per prima in Europa accorciarsi le distanze geografiche e culturali tra oriente e occidente. Ho pensato di disegnarla interamente a matita e di offrire sui tavolini di marmo un altro segno della mia malinconica visita a Xian quando ho letto per la prima volta il nome di Lei". In posizione privilegiata sotto i portici delle Procuratie Nuove in Piazza San Marco a Venezia, il Caffè Florian fu aperto il 29 dicembre 1720 da Floriano Francesconi con il nome di "Alla Venezia Trionfante", ma ben presto la clientela prese l'abitudine di chiamarlo "Florian". Da allora il locale rappresenta un ritrovo per artisti, intellettuali, politici e personaggi illustri nonché punto di incontro di svariate realtà. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 33 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 ALLE FIA BE RUSSE DI SAR MEDE II PR EMIO ANDERSEN 2013 Sàrmede ha conquistato il Premio Andersen, massimo riconoscimento italiano per i libri illustrati destinati ai più piccoli. Il Premio ufficialmente consegnato a Genova, al Museo Luzzati, il 25 maggio, è stato conferito a "Nel bosco della Baba Jaga. Fiabe dalla Russia", progetto a cura di Monica Monachesi, con testi di Luigi Dal Cin e illustrazioni di Anna Castagnoli (Italia), Fabio Facchinetti (Italia), Artem Kostyukevich (Russia), Pep Montserrat (Spagna), Clotilde Perrin (Francia), David Pintor (Spagna), Sacha Poliakova (Russia), Valerio Vidali (Italia), Józef Wilkon (Polonia), edito da Franco Cosimo Panini, in collaborazione appunto con la Mostra Internazionale d'illustrazione per l'infanzia di Sàrmede. L'albo accompagnava l'ultima edizione della mostra, dedicata alle fiabe dalla Russia. Il volume illustrato ha conquistato il Premio di miglior libro dell'anno nella categoria ragazzi dai 6 ai 9 anni. L'assegnazione è stata motivata dalla Giuria di specialisti del Premio "Per l'indubbia e sapiente regia grafica che riesce a dare una felice omogeneità al lavoro di nove diversi maestri dell'illustrazione europea. Per la briosa piacevolezza con cui sono stati resi i testi delle fiabe della tradizione russa. Per essere un progetto a più voci che nasce dalla vivissima esperienza della Mostra Internazionale di Illustrazione di Sàrmede Le immagini della fantasia". Un riconoscimento, quindi, al libro per se stesso ma anche in quanto esempio dell'attività ormai trentennale di Sàrmede. Il libro premiato concorrerà inoltre al Super Premio Andersen 2013, assegnato da una giuria allargata di esperti che decreterà la migliore opera in assoluto, il Libro dell'Anno. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 34 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 U GO VALERI: VOLTO R EBELLE DELLA BELLE E POQUE Ugo Valeri, definito per affinità di vita e rapidità di tratto, il Toulouse Lautrec italiano, sarà protagonista della più approfondita antologica che gli sia mai stata dedicata, all'indomani del centenario della morte che ne troncò la vita a trentasette anni, quanto cadde da un balcone di palazzo Pesaro a Venezia. Commentando la sua scomparsa, Arturo Martini scriveva al fratello di Ugo, il poeta Diego Valeri, "Tuo fratello fu per noi tutti una tromba: la tromba del nuovo mattino". "Ugo Valeri, pittore, illustratore e artista di genio, anticonformista dichiarato con passioni e frequentazioni avverse al perbenismo dell'epoca, fu uno straordinario interprete ed effervescente protagonista del gusto della modernità che inebriò la nascita del XX secolo", sottolinea Andrea Colasio, Assessore alla Cultura del Comune di Padova. Dal 20 aprile al 21 luglio 2013, la Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco (sua città natale) e il Comune di Padova Assessorato alla Cultura - Musei Civici, gli dedicano una ampia antologica curata da Virginia Baradel e Federica Luser, con la direzione di Davide Banzato. In mostra oltre un centinaio di opere, tra cui diversi inediti e due "omaggi": degli artisti illustratori bolognesi e degli amici di Ca' Pesaro. Provenienti da istituzioni museali e collezioni private, le opere in mostra evidenziano come elemento principe il suo segno rapido e corsivo che suscita con formidabile destrezza i moti delle figure: la linea diventa una serpentina che costruisce i corpi, li fa volteggiare e contorcere fino al limite della caricatura, con un ritmo sfrenato che si diluisce d'un tratto, per effetto dell'acquarello, in un'atmosfera rarefatta, come in Ballo popolare: preludio e Ballo popolare: fine. Differente il risultato invece negli splendidi dipinti a olio che hanno un respiro più simbolista, più largo e pacato, anche se non cancellano la veemenza tipica del suo stile come in Autunno e Primavera, La Sagra e La Popolana. Nato a Piove di Sacco, in provincia di Padova il 22 settembre del 1873, Ugo Valeri frequentò l'Accademia di Venezia e quella di Bologna ma, incapace di sottostare a qualsiasi disciplina, fu espulso da entrambe. Caparbio e ribelle, visse al di fuori degli schemi preordinati del mondo artistico, seguendo la propria indole insofferente che lo costrinse a una vita raminga alla ricerca di quei gruppi di artisti, definiti all'epoca "scapigliati", con cui condivideva lo stesso stile di vita. Padova, Venezia, Bologna, un breve soggiorno a Napoli, poi Milano e quindi nuovamente Venezia, sono le tappe fondamentali della sua vita artistica. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 35 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 L'ambiente stimolante incontrato a Bologna e Milano, lo spirito che aleggiava allora in quelle città, permise a Valeri di maturare la propria particolare visione rispetto la realtà che lo circondava. Divenne il poeta della strada che dipinse senza veli, attingendo a un campionario di uomini e donne assolutamente variegato: le sartine, i dandies, i ricchi borghesi, i frequentatori di teatri, le ballerine, tutti immersi nel proprio mondo fatto di feste popolari, rappresentazioni teatrali, case di tolleranza. Disegnatore abilissimo si lasciò trasportare dal proprio estro, affidando alla linea il ruolo di protagonista, una linea che costruisce i corpi, li fa volteggiare e avvitare ai limiti della caricatura. Un gusto grafico che lo portò a essere uno dei maggiori illustratori italiani, sue opere apparvero nel primo decennio del 1900, su riviste quali "La Lettura", "Illustrazione Italiana", "Varietas", "Secolo XX", "Italia Ride" e libri di Marinetti, Neera, Cavicchioli, Notari. Valeri non fu solo un illustratore ma deve essere apprezzato anche per l'alto valore della sua opera pittorica, attraverso cui seppe offrire esempi di grande modernità che gli aprirono le porte a importanti esposizioni quali Premio Francia a Bologna (dove vince nel 1898), il Concorso "I sette peccati" al Circolo filarmonico e artistico di Padova (1904), l'Esposizione Internazionale per l'apertura del Sempione (1906), la Biennale (1907) e le mostre di Ca' Pesaro del 1909 e del 1910 a Venezia. La mostra sarà accompagnata da un catalogo edito dalle Edizionitrart e da Peruzzo Editoriale corredato da studi storico-critici che approfondiscono, attraverso ricerche e indagini mirate, un periodo della storia dell'arte italiana che ancora necessita di adeguate riflessioni. UGO VALERI (1873 - 1911). Volto ribelle della Belle Epoque. Padova, Civici Musei agli Eremitani (Piazza Eremitani), dal 20 aprile al 15 luglio 2013. Orario: tutti i giorni dalle 9 alle 19 (lunedì chiuso). Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 36 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 T HE GAR BAGE PATC H ST ATE Ha la profonda potenza del Mito l'idea di portare a Venezia un nuovo Stato, uno dei più estesi del pianeta, il Garbage Patch State, ovvero l'immenso Stato delle Immondizie. Nessuna carta geografica ancora lo indica, le rilevazioni satellitari non riescono a delimitarne i precisi confini, per il mondo scientifico ha una superficie che, a seconda delle rilevazioni, si estende quanto la Penisola Iberica o come due volte l'intera superficie del Texas. È uno stato che non si fa notare, eppure è pericolosissimo per l'ambiente e, in prospettiva – una prospettiva a breve, quanto brevi sono le catene alimentari che uniscono i pesci all'uomo -, anche per ciascuno di noi. Wasteland, di Maria Cristina Finucci, è un'opera complessa che comprende numerosi interventi dell'artista italiana che a Parigi, l'11 aprile scorso, nella sede centrale dell'UNESCO, con una installazione-performance, ha ottenuto dalla comunità internazionale il riconoscimento istituzionale, anche se solamente simbolico, del Garbage Patch State. Lo Stato federale che l'artista ha ideato per sintetizzare il grave problema ambientale delle isole di plastica, denominate appunto Garbage Patch, avrà una sua Costituzione oltre a una bandiera nazionale: fondo azzurro trasparente come il mare, popolato da vortici rossi, come quelli che sul Pacifico – ma anche nel Mare dei Sargassi nell'Atlantico - hanno convogliato e riunito i rifiuti portati dai fiumi o scaricati dalle navi. Come molti Stati il Garbage Patch State sarà a Venezia, in concomitanza con la Biennale d'arte, da giugno a novembre. A ospitarlo sarà, nella sua storica sede sul Canal Grande e non a caso, l'università Ca' Foscari. L'ateneo veneziano, che sta sviluppando già da alcuni anni prestigiose iniziative di carattere espositivo, è altresì il certificato punto di riferimento italiano per le politiche universitarie del rispetto ambientale, come attesta l'annuale classifica di GreenMetric, elaborata da Universitas Indonesia, sulle università sostenibili. Maria Cristina Finucci, per la rappresentazione a Venezia del nuovo Stato, ha ideato una specifica installazione: una marea di tappi di plastica colorata, imbrigliati da reti che dal padiglione trapassano verso il Gran Canal, metafora e immagine dello straripare della plastica e dei rifiuti in tutti i mari e gli oceani del pianeta. All'interno del padiglione, la sua video-opera " Dentro" , proiettata a 360°, darà allo spettatore la sensazione di essere immerso in un mare di plastica. Patrocinata dal Ministero dell'Ambiente Wasteland è un'opera pensata per sensibilizzare il mondo intorno a un problema che cresce minuto Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 37 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 dopo minuto ed è immenso: già oggi, se si potessero raccogliere tutte le immondizie che galleggiano su mari e oceani e quelle più pesanti, che ne tappezzano i fondali, si creerebbe un deposito di rifiuti più esteso dell'Himalaya e più alto dell'Everest. Nel solo gorgo tra Hawaii e Giappone, nel Pacifico, si calcola "galleggino" 3,65 milioni di tonnellate di plastica. Circa 1 milione di pesci e altrettanti gabbiani muoiono all'anno per occlusione da ingestione di oggetti di plastica. Il problema però è anche di natura organica perché i microframmenti di quella plastica buttata nei mari creano un "brodo" che è scambiato dai pesci per plancton. Così quelle sostanze, incamerate nelle carni dei pesci, arrivano a noi che a nostra volta le incorporiamo nei nostri organismi. L'opera di Maria Cristina Finucci attinge alla forza del Mito che essa stessa ha voluto creare, trasformando quegli immensi ectoplasmi ribollenti di scarti dell'umana insipienza - oggi colossali non luoghi - in mondi vivi. A popolarli saranno personaggi raccontati, per scelta dell'artista, dagli studenti di Ca' Foscari. Nella realtà, in queste lande tossiche, pesci, mammiferi marini e gabbiani sono tutti intossicati e deformati dalla plastica. Invece le nuove popolazioni create dall'artista e dagli studenti sono formate da speciali creature intelligenti, cittadini consapevoli del loro nuovo Stato cui danno regole, dove ogni abitante conta per il suo peso. Popolazioni che parlano una babele infinita di lingue, quante le nazioni da cui provengono, che sono di tutti e di nessun sesso, non solo maschi o femmine, maestri del vivere alla giornata, ma con la consapevolezza di essere quasi eterni, come le immondizie di plastica. Anche l'opera, nella volontà dell'artista, è di tutti: chiunque infatti, sul blog del sito garbagepatchstate.org, potrà rendersi protagonista di questa Azione collettiva, sentirsi cittadino responsabile di uno Stato che oggettivamente ci appartiene essendo formato anche dai sacchetti di plastica, dai giocattoli rotti, dai palloni dimenticati da ciascuno di noi. Il padiglione nazionale rappresenta solo uno dei momenti che l'artista si è data come mission: alleare l'arte all'ambiente, per sensibilizzare tutti noi attraverso la forza del linguaggio artistico su un tema così importante, dato che l'arte può toccare corde che la pura informazione scientifica stenta a far risuonare. L'avvio del progetto dell'artista lo si è avuto l'11 aprile, a Parigi, con il riconoscimento del nuovo Stato, istituzionale e fittizio, da parte dell'UNESCO, non a caso nell'Anno dell'Acqua. Nel mese di settembre seguirà un'istallazione di Maria Cristina Finucci nella piazza del MAXXI di Roma, un progetto promosso da MAXXI Educational in collaborazione con il Master in Exhibit & Public Design dell'Università di Roma La Sapienza. E' in programma anche una collaborazione con l'Università Roma Tre che ha già contribuito fornendo i tappi di plastica usati per le installazioni. Ed altro ancora, come una missione in mezzo all'Atlantico. Il progetto di Cristina Finucci non si esaurisce dunque soltanto nella produzione di sculture, video o installazioni, ma consiste in un percorso di relazioni e comportamenti e in ciò che questi ultimi producono in termini di coinvolgimento intellettuale, oltre che emotivo, degli individui. Un progetto artistico, insomma, che si svolge nel tempo e include anche un risvolto immateriale di fare arte. Una modalità che raccoglie le istanze della società relazionandosi a essa, per contribuire alla conoscenza del fenomeno in Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 38 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 questione. L'indispensabile precondizione per ogni effettivo cambiamento. Università Ca' Foscari Venezia - Servizio Comunicazione Tel: 041. 234 8368 Email: [email protected] www.thegarbagepatchstate.org Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 39 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 ALOIS BEE R: PANORA MI FOTOG RAFICI Il 13 aprile 2013 ha inaugurato negli spazi del Museo di Riva del Garda la mostra Alois Beer 1900-1910. Panorami fotografici del Garda dalle collezioni del Kriegsarchiv di Vienna, che segue le precedenti esposizioni dedicate ad Alessandro Oppi e ai Lotze. Oltre all'organizzazione della mostra, il Mag ha voluto arricchire il proprio archivio fotografico con un fondo dedicato ad Alois Beer, che consterà di 350 digitalizzazioni delle immagini acquisite dal Kriegsarchiv di Vienna, alle quali si andranno ad aggiungere circa 80 stampe vintage. Il fondo Beer del Mag sarà oggetto di un catalogo che repertoria e storicizza le opere, la cui pubblicazione è prevista per il mese di giugno 2013. La formazione della collezione Alois Beer presso il Museo di Riva del Garda rappresenta una valorizzazione importante, sia per il consistente numero di immagini acquisite che per la loro qualità, dell'archivio fotografico del Mag Museo Alto Garda. Questa mostra svela, per la prima volta dopo un secolo, un autentico tesoro: il sorprendente rilevamento fotografico del lago di Garda effettuato da Alois Beer (1840-1916), che torna alla luce a poco più d'un secolo dalla sua realizzazione. Praticamente inedita, la serie di negativi fotografici è rimasta per tutti questi anni custodita e protetta nelle collezioni del Kriegsarchiv di Vienna. Le immagini sono state riprese nei primissimi anni del Novecento, e tutt'oggi questa serie rappresenta il più consistente corpus fotografico noto di documentazione sistematica del Garda realizzato da un solo autore. Alois Beer. 1900-1910. Panorami fotografici del Garda dalle collezioni del Kriegsarchiv di Vienna è una mostra curata da Alberto Prandi, che resterà allestita al Museo di Riva del Garda dal 14 aprile al 3 novembre. Le 350 immagini furono riprese da Alois Beer nel corso dei suoi viaggi fotografici destinati a incrementare il ricco catalogo di fotografie indirizzato al pubblico austro-ungarico. Quando il fotografo carinziano giunse al lago di Garda godeva da tempo di gran fama, il suo studio di Klangenfurt era ritenuto uno dei più prestigiosi del tempo e le collezioni di vedute panoramiche e urbane contavano una varietà di soggetti che contemplava oltre i più significativi siti dell'Impero austro-ungarico anche immagini di località e territori italiani, francesi, belgi, spagnoli, greci, egiziani, palestinesi, turchi, siriani e del Nord Africa. Alois Beer, con le sue vedute panoramiche del Garda, pare volerci riproporre lo stupore di Goethe alla vista del lago, e sembra manifestare la medesima necessità di partecipazione empatica allo spettacolo imponente della natura che appartenne alla cultura romantica. Al tempo della campagna fotografica del Garda, Beer aveva maturato una lunga consuetudine di Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 40 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 viaggio, ma l'esperienza, la confidenza e la frequentazione di paesi e genti tanto differenti tra loro, non aveva spento in lui né l'originale curiosità che ha governato il suo sguardo, né la capacità di rappresentare fotograficamente con una cifra individuale assolutamente originale gli aspetti naturalistici e ambientali del Garda, enfatizzandone gli effetti atmosferici, le digradazioni prospettiche, i contrasti tra gli elementi, senza mai concedersi inflessioni pittorialiste allora tanto in voga. Alois Beer, nato a Budapest da famiglia carinziana, appena ventitreenne aprì il proprio studio fotografico a Vienna e poco dopo una filiale a Klagenfurt dove si trasferì lasciando lo studio viennese al socio Ferdinad Mayer con cui aprì una ulteriore filale a Graz. I suoi atelier erano frequentati da chi ambiva a un suo ritratto mentre crescevano i suoi impegni in ambiti esterni. A lui vennero commissionate campagne fotografiche di documentazione, ad esempio, delle nuove linee ferroviarie dell'Impero e nel 1882 gli venne conferito il titolo di Fotografo della Imperial Regia Corte, riconoscimento cui si aggiunse quello di Fotografo dell'Imperial Regia Marina. Il 1879, in particolare, fu un anno decisivo: Beer pubblicò un reportage sui danni provocati da una slavina alle cittadine carinziane di Bleiberg e Hüttendorf e, a distanza di pochi mesi, fu premiato con la medaglia d'oro per l'arte e la scienza conquistando quindi l'attenzione della scena nazionale. Egli iniziò in questo periodo ad estendere il suo repertorio fotografico oltre la regione carinziana. Nel 1885 fece il suo primo importante viaggio, in Grecia, al quale sarebbero seguiti quelli in Palestina ed Egitto, Nord Africa, Turchia, Siria, Francia, Belgio, Spagna e Italia, oltre che più brevi viaggi in varie zone dell'Impero austro-ungarico. Il catalogo di immagini del suo studio giunse a proporre 20.000 immagini di paesaggio, una mole impressionante per quegli anni. Immagini che egli vendeva ovunque, anche grazie a un rete di corrispondenti in tutta Europa. Il fondo fotografico di Alois Beer, conservato al Kriegsarchiv di Vienna, comprende le oltre 30.000 lastre appartenenti al fotografo e presenti nel suo catalogo vendite, edito nel 1910 e integrato nel 1914. Museo Alto Garda - Riva del Garda Piazza C. Battisti, 3/A - 38066 Riva del Garda – tel. 0464 573869 - fax. 0464 573868 Dal 14 aprile al 3 novembre 2013 Orari: dalle 10 alle 18. Chiuso il lunedì. www.museoaltogarda.it Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 41 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 VENETKENS VIAG GIO NELLA TE RRA DEI VENETI ANTICHI Mostra archeologica Padova, Palazzo della Ragione 6 aprile – 17 novembre 2013 Quasi 2000 oggetti per raccontare un viaggio lungo secoli Dal Delta del Po alle alture pedemontane e alpine. Dai primi insediamenti all’arrivo dei Romani. Sono queste le coordinate nell’ambito delle quali è fiorita, nel I millennio, la civiltà dei Veneti antichi. Un viaggio nel tempo e nello spazio, che si può rivivere oggi nel suggestivo percorso della mostra allestita a Palazzo della Ragione. Quasi duemila reperti – alcuni mai esposti prima – ricostruiranno la cultura, la quotidianità e i costumi dei Venetkens. Come si procuravano il cibo? Come costruivano le abitazioni? Che rapporto avevano con il sacro? Come seppellivano i defunti? A queste e ad altre domande, la mostra risponde con un allestimento di grande impatto emotivo, dove trovano spazio ricostruzioni di abitazioni, santuari e tombe di famiglia. Luoghi in cui entrare e rivivere – grazie a suoni, luci e colori – le atmosfere e le sensazioni di un passato remoto, ma che parla molto anche di noi. Vaso ossuario a bande rosse nere da Este, V sec. a.C. Le coordinate di un’epopea unica Il percorso espositivo accompagna il visitatore lungo tutte le principali tappe che hanno segnato la storia degli antichi Veneti. Questo viaggio immaginario comincia dalle coste del Delta Padano nel XII sec. a.C., un territorio dove l’acqua del mare e delle lagune si intreccia con la terra fino a confondersi; prosegue, nel tempo e nello spazio, arrivando alle pianure solcate dai fiumi, con gli insediamenti costruiti dall’uomo tra l’VIII e il V secolo a.C. e le città dei morti, Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 42 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 costellate di tumuli e monumenti; continua quindi verso le alture per esplorare gli abitati arroccati nelle aree collinari del V, del IV e del III secolo a.C, con i suggestivi santuari di montagna, sperduti e quasi inaccessibili, ma ricchi di mistero. L’assorbimento del territorio veneto da parte degli antichi Romani, nel corso del II secolo a.C, segna la conclusione del cammino percorso dal visitatore, ed il tramonto della civiltà veneta stessa. Doni nell’acqua: spada “ad antenne” da Casier, IX-VIII sec. a.C. Bronzetto raffigurante Paride arciere, V sec. a.C Frutto di un importante lavoro scientifico, la mostra mette in luce l’importanza della pratica della scrittura, l’abilità nella lavorazione del bronzo – con alcune rare situle – e l’attenzione dedicata al cavallo, animale totemico della protostoria europea e veneta in particolare, non di rado sepolto in apposite aree di necropoli e a volte addirittura accompagnatore, nel viaggio oltremondano, del suo padrone e scudiero. Laminetta con scena processionale da Vicenza, V sec. a.C Disco votivo da Montebelluna, IV sec. a.C. Un progetto di alto valore scientifico e culturale I quasi duemila oggetti che sono esposti in Mostra sono provenienti da indagini archeologiche recenti e da scavi del passato, custoditi nei Musei di diverse regioni o nei depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto. In particolare, alcuni di questi saranno presentati per la prima volta al pubblico, che potrà osservare da vicino reperti di inestimabile importanza e preziosità. Archeologia e tecnologia si incontrano e raccontano Touch screen, postazioni multimediali, video e interfacce digitali. Ad essere unico in questa mostra non è solo l’alto valore scientifico dei reperti. Anche l’allestimento è un progetto innovativo: un percorso arricchito dalle più aggiornate tecnologie disponibili. Di grande impatto sono anche alcune ricostruzioni in scala 1:1, mirate a suscitare l’attenzione, ma soprattutto Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 43 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 l’emozione del visitatore. Vedere l’interno di un’abitazione, entrare in un santuario e percepirne l’atmosfera sacrale attraverso la suggestione di una voce che invoca gli dèi, sentire il fluire dell’acqua; osservare un imponente tumulo funerario nel quale sono presenti numerose tombe a carattere familiare, cui si aggiungono una sepoltura equina da un lato, e dall’altro una sepoltura con due corpi: un uomo e un cavallo. Momenti di grande impatto emotivo, a completamento di una visita di piena e completa immersione nel mondo dell’antico Veneto. Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 44 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 LA PIETRA DI ZAFFIRO- PAR TE II- LE AR MATE DEL CIELO Luigi Soranno La Midgard ha pubblicato nella sua Collana Narrativa "La Pietra di Zaffiro, Parte II, Le Armate del Cielo" di Luigi Soranno. Una nuova e più pericolosa ombra minacciosa si allunga sempre più sulle Terre Eterne e sulle loro genti. Glìmor, Re dei Demoni, siede nuovamente sul suo nero trono ad Hàrgathàn, nel cuore del Regno Morto, finalmente libero dall’incantesimo che lo ha relegato nella dimensione infernale per quasi tre secoli. Una nuova alleanza sancita tra Uomini ed Elfi è l’ultima speranza che potrebbe salvare questo mondo dalla sconsiderata volontà del demone antico. Erionor, Re di Gazard, guiderà i due popoli in un nuovo viaggio irto di pericoli, tra una densa ed arcana oscurità, nel tentativo di fermare i loschi piani di vendetta e morte che animano le rinvigorite orde demoniache, confidando nelle mistiche visioni che la Pietra della Veggenza, incastonata nello Scettro di Kaàly, continua a mostrargli, imperterrita, guidata dalla divina volontà degli Dei. Un racconto ricco di pathos che vi condurrà in una nuova avventura piena di insidie, in una corsa contro il tempo sempre più serrata per scongiurare il pericolo imminente, regalandovi emozioni uniche ed intense. Luigi Soranno, nato il 7/5/1982 a Tricarico (MT), risiede attualmente a Verona. Con Midgard ha già pubblicato “La Pietra di Zaffiro - Lo Scettro di Kaàly”. “La Pietra di Zaffiro - Le Armate del Cielo”, parte seconda della saga, ha vinto il Premio Midgard Narrativa 2013. Per gli ordini: [email protected] Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 45 Riflessi On Line - Mensile di Approfondimenti Culturali Edizione nr. 46 del 20/06/2013 RIF LESSI ON LINE Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 Direttore Responsabile Luigi la Gloria [email protected] Vice Direttore Anna Valerio [email protected] Grafica & Web Master Claudio Gori [email protected] www.riflessionline.it Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009 pag. 46