Biologia molecolare 2/ed
Robert F. Weaver
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Capitolo 5. Strumenti molecolari per lo studio dei geni e dell’attività genica
PER IL RIPASSO
1.
DNA nei pozzetti
1200 bp
Il DNA migra verso
il polo positivo
600 bp
150 bp
+
2. L’SDS, sodio dodecil solfato,è un detergente utilizzato nell’elettroforesi su gel in SDS (SDSPAGE). L’SDS denatura le proteine e separa le subnità di proteine complesse. In aggiunta,
ricopre tutti i polipeptidi con una carica negativa, cosicché essi migreranno in funzione delle
rispettive masse, indipendentemente dalle loro cariche naturali.
3. Sia l’SDS-PAGE che la moderna elettroforesi bidimensionale separano le proteine in funzione
delle rispettive masse molecolari. Tuttavia, nell’elettroforesi bidimensionale, le proteine sono
sottoposte ad isolelettrofocalizzazione prima della separazione su SDS-PAGE. Durante la
isoelettrofocalizzazione, le proteine migrano in un gradiente di pH. Esse arresteranno la propria
migrazione quando avranno raggiunto il loro punto isoelettrico. Il gel dopo la separazione
isoelettrica è posto alla sommità di un gel SDS-PAGE e soggetto a separazione per massa
molecolare. Quindi, l’elettroforesi bidimensionale separa le proteine in funzione del loro punto
isoelettrico e della loro massa. L’SDS-PAGE separa le proteine esclusivamente per massa
molecolare.
4. La cromatografia a scambio ionico separa le proteine in funzione della loro carica netta. In
questa procedura una miscela proteica complessa è fatta passare attraverso una resina carica.
Nel caso della cromatografia a scambio di anioni, la resina è carica positivamente. Soluzioni a
forza ionica crescente sono passate sulla colonna, e gli ioni in queste soluzioni competono con
le proteine per i siti di legame sulla resina. Le proteine meno cariche saranno eluite a più bassa
forza ionica, rispetto a quelle con una carica più forte.
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5. La cromatografia su gel filtrazione separa le proteine in funzione delle loro dimensioni fisiche.
Essa consiste nel far passare le proteine attraverso una resina porosa in una colonna. La resina è
un setaccio con pori di dimensioni definite. Le proteine piccole attraversano più lentamente la
colonna rispetto a quelle più grandi, in quanto le loro dimensioni minori consentono loro di
passare all’interno delle sferette della resina, conferendogli un percorso più lungo da
percorrere. Al contrario, le proteine più grandi non saranno in grado di permeare la resina, e
saranno eluite più rapidamente. Le proteine di dimensioni intermedie permeeranno alcune
sferette della resina, ma non altre, e quindi saranno eluite dopo un lasso di tempo intermedio.
6. Sia l’autoradiografia che il “phosphorimaging” sono tecniche che permettono la visualizzazione
di un segnale radioattivo immobilizzato su una membrana, o all’interno di un gel. Entrambe ci
fanno visualizzare particelle β emesse da isotopi comunemente utilizzati in biologia
molecolare. Nel caso dell’autoradiografia, le particelle emesse impressionano un’emulsione
depositata su una pellicola per raggi X, lasciando segnali scuri. L’autoradiografia possiede una
limitata capacità di quantificare la dose di isotopo che impressiona la pellicola. Il motivo
risiede nel fatto che la risposta della pellicola alla radiazione non è lineare, e la saturazione del
segnale è spesso un problema. Ad esempio, un campione con 10.000 dpm (disintegrazioni per
minuto) esporrà l’emulsione sulla pellicola alla sua massima capacità, e quindi un altro
campione con 50.000 dpm darà una banda con una simile intensità sulla pellicola a raggi X. Il
phosphorimaging richiede l’uso di uno schermo con molecole che sono eccitate all’esposizione
con particelle β. Queste molecole eccitate si accumulano col tempo, e rimangono in uno stato
eccitato fin quando sono scansionate con un laser. Quindi, l’energia è rilasciata e convertita in
un’informazione digitale che potrà essere accuratamente quantificata. Il segnale digitale da un
“phosphorimager” è direttamente proporzionale al numero di dpm derivante dalla specifica
regione esposta del campione.
7. Un metodo non radioattivo per evidenziare un particolare frammento di acido nucleico in un
gel elettroforetico può avvantaggiarsi della forte interazione non covalente tra molecole di
avidina e biotina. Per evidenziare no specifico frammento nel gel, quest’ultimo è trasferito su
una membrana (nitrocellulosa o nylon), il che immobilizza il frammento di acido nucleico su
un supporto solido. Tutti i siti sul filtro che non sono legati da acidi nucleici vengono bloccati
con DNA non specifico. Una sonda complementare all’acido nucleico da evidenziare è
sintetizzata in presenza di dUTP marcato con la vitamina biotina. La sonda è denaturata e
ibridizzata agli acidi nucleici sulla membrana, in corrispondenza delle regioni complementari.
Gli ibridi della sonda sono rivelati esponendo la membrana ad un reagente contenente avidina,
legato ad un enzima come la fosfatasi alcalina. La sonda è visualizzata per attività dell’enzima
su un substrato fosforilato che genera n composto chemioluminescente, che è evidenziato con
una pellicola a raggi X.
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8.
Lo schema illustra la procedura del Southern blot per evidenziare un frammento di DNA di
interesse all’interno di una miscela complessa di frammenti. In questa procedura, specifici
frammenti di DNA separati su gel sono visualizzati per ibridazione del DNA con una sonda
marcata. La procedura del Nrthern blotting è sfrttata per evidenziare un particolare RNA di
interesse all’interno di una miscela complessa di molec ole di RNA. Sia il Northern blotting che
il Southern blotting si basano sull’elettroforesi, per separare la miscela di acidi nucleici per
dimensioni. Tuttavia, per il Southern blotting dobbiamo digerire il DNA con enzimi di
restrizione per generare pezzi più piccoli di DNA per l’elettroforesi. Le molecole di RNA
caricate sl gel (RNA totale, o RNA poliadenilato) già si trovano sotto forma di frammenti di
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lunghezze discrete. Entrambe le tecniche richiedono il trasferimento dei frammenti di acido
nucleico da un gel ad un filtro, e l’ibridazione dei corrispondenti acidi nucleici con sonde
radioattive.
9. Il metodo del “DNA fingerprinting” può essere utilizzato per distinguere tra diversi individui,
in base al caratteristico numero di ripetizioni in corrispondenza di loci multipli del genoma,
denominati minisatelliti. Questi ultimi contengono sequenze ripetute, il cui numero in un
particolare locus è altamente variabile nella popolazione. Per generare l’”impronta” di un
individuo, si frammenta il DNA genomico con un enzima di restrizione, scelto tra quelli che
non hanno siti di riconoscimento all’interno della sequenza ripetuta. Quindi, si effettua un
esperimento di Sothern blot, utilizzando la sequenza ripetuta come sonda. Per ciascun individuo
si osserveranno bande multiple corrispondenti a frammenti di diversa lunghezza, corrispondenti
a diversi loci. Gli individui possono essere tipizzati in base al tipico numero di ripetizioni in
corrispondenza di loci diversi. Tuttavia, DNA fingerprint generati in questo modo possono
porre problemi di interpretazione. Ciò, a causa dell’elevato numero di bande sul blot, che
potrebbero non essere ben risolte. Perciò moderni metodi forensici utilizzano tipizzazione del
DNA che analizza polimorfismi a carico di un singolo locus alla volta. Polimorfismi di questi
loci singoli possono essere identificati mediante analisi di RFLP (polimorfismi di lunghezza dei
frammenti di restrizione). Gli RFLP sfruttano i diversi profili di restrizione che possono essere
generati da sostituzioni nucleotidiche nella sequenza di DNA. Come i fingerprint del DNA,
l’analisi RFLP tipicamente si avvale del Southern blot. In alternativa, diverse lunghezze di
frammenti in diversi individui in specifici loci possono essere identificati mediante PCR. La
PCR consente la tipizzazione di piccolissime quantità di DNA, anche di bassa qualità. Al
contrario, il fingerprinting richiede più DNA, e di più elevata qualità, per il Southern blotting,
rispetto alla tipizzazione basata su PCR. Ovviamente, per utilizzare dati di tipizzazione per
l’identificazione di persone sospettate di aver commesso crimini, si dovranno analizzare loci
multipli per fornire alta probabilità che una corrispondenza tra un campione ed un individuo
non sia dovuta al caso.
10. Un Northern blot può essere utilizzato per evidenziare uno specifico RNA all’interno di un
campione di RNA totale. Dal risultato ottenuto potremo affermare se un gene è effettivamente
trascritto in un particolare tipo cellulare, o in altri campioni. In aggiunta, esso può fornire dati
quantitativi sui livelli dello specifico RNA presenti allo stato stazionario, ed inoltre fornisce
ulteriori dettagli sulle dimensioni del trascritto di RNA.
11. L’ibridazione a fluorescenza in situ (FISH) consente l’utilizzo di una sonda marcata per
evidenziare una particolare sequenza di DNA su un cromosoma. Tutti i cromosomi di una
cellula sono sparsi e parzialmente denaturati per consentire al DNA di ibridizzare ad una sonda
a singolo filamento. La visualizzazione della sonda può dirci la localizzazione, o le
localizzazioni della sequenza di DNA sui cromosomi. Perciò, al contrario del Southern blotting,
la metodica FISH ci dà informazioni sulla posizione del gene nel cromosoma. È perciò utile
quando sono richiesti dati di mappatura.
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12.
A
T
G
C
La sequenza nucleotidica della catena di DNA sintetizzata dal primer sarà:
5’ GAT GGC TAA ATG TCT GAC TTA ATC 3’
Quindi, la sequenza nucleotidica della catena polinucleotidica usata come filamento stampo è la
sequenza complementare alla sequenza mostrata sopra:
5’ GAT TAA GTC AGA CAT TTA GCC ATC 3’
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13. Il sequenziamento del DNA secondo Sanger può essere facilmente automatizzato con 4 dideosiinucleotidi, ciascuno marcato con un diverso gruppo fluorescente. I frammenti progressivi
generati dalle reazioni di sequenziamento sono separati mediante elettroforesi su gel o
elettroforesi capillare. Man mano che i frammenti passano attraverso il gel, essi vengono
individuati sul fondo del gel da un raggio laser. Il laser può distinguere tra i quattro dideosiinucleotidi, e quindi consentire la determinazione della sequenza del filamento
neosintetizzato.
14. Per il frammento EcoRI-XbaI di 1,5 kb mostrato in basso, possiamo distinguere l’orientamento
A da quello B con una mappa di restrizione, per interpretare una doppia digestione. Un clone
con orientamento A risulterà in frammenti di 3.3 kb e 1.2 kb dopo digestione con XbaI e
BamHI. Un clone con orientamento B darà frammenti di 4.2 kb e 0.3 kb dopo digestione con
BamH1 e XbaI.
EcoRI
0
BamHI
0.2
0.4
XbaI
0.6
0.8
1.0
BamHI
1.2
1.4
kb
BamHI
XbaI
EcoRI
Orientamento A
XbaI
EcoRI
Orientamento B
Vettore
3 kb
15. La mutagenesi sito-diretta è una tecnica che può essere sfruttata per generare una sequenza di
DNA modificata ad una specifica posizione. In generale, la mutagenesi sito-diretta si realizza
progettando un primer con l’opportuno cambio nucleotidico che, nonostante il cambio
nucleotidico, si legherà al sito bersaglio sulla molecola normale. La replicazione del DNA
“target” porterà porterà alla sintesi di molecole di DNA con il nucleotide alterato, per
estensione del primer. Un approccio specifico è la mutagenesi sito-diretta basata su PCR. In
questo processo, il frammento di DNA da modificare è clonato in un vettore plasmidico e
propagato in un ceppo di E. coli che metila i residui di A nelle sequenze GATC. I primer di
mutagenesi si appaiano al plasmide purificato contenente il clone, e quindi si effettuano pochi
cicli di PCR con una polimerasi termostabile ad alta fedeltà, come la Pfu polimerasi. Ciò è
richiesto per evitare errori nelle copie del plasmide che si otterranno. Il DNA nella reazione di
PCR è quindi digerito con l’enzima di restrizione DpnI, che digerisce solo il DNA metilato o,
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con minore efficienza, il DNA emimetilato, distruggendo, quindi, il DNA stampo originario.
Infatti, il DNA prodotto in vitro con la polimerasi Pfu non è metilato, non sarà digerito con
DpnI, e può essere usato per trasformare E. coli. Il sequenziamento di un appropriato numero di
cloni identificherà quelli con la sostituzione nucleotidica desiderata.
16. L’analisi con nucleasi S1 consente di localizzare le estremità 5’ e 3’ di una trascritto naturale,
rispetto ad un sito di restrizione noto in un clone. Essa si basa sull’utilizzo della nucleasi S1, un
enzima specifico per RNA a singolo filamento in un ibrido DNA/RNA, per digerire tutto
l’RNA non appaiato di un trascritto ibridizzato ad un frammento genomico noto, marcato
radioattivamente, di cui si conoscano anche le dimensioni. L’intensità del segnale prodotta
dopo elettroforesi ed autoradiografia degli ibridi sarà proporzionale al numero di trascritti
presenti nel campione, e quindi l’esperimento fornisce dati sulle quantità relative dell’RNA
presente.
L’esperimento di “primer extension” non sfrutta l’ibridazione dell’RNA ad una sonda.
Piuttosto, si sfrutta un primer oligonucleotidico marcato per retrotrascrivere il trascritto di RNA
di interesse con un primer complementare ad una regione del gene. La lunghezza del
frammento prodotto può dirci precisamente dove termina il trascritto, a monte del sito di
legame del primer. Con lo stesso primer potremo effettuare reazioni di sequenziamento con dideossiterminatori, che saranno fatte migrare sullo stesso gel dell’analisi, che ci consentiranno di
localizzare l’estremità 5’ del trascritto al preciso nucleotide. Come nel caso dell’analisi S1, i
saggi di “primer extension” ci consentono di quantificare l’RNA presente in uno specifico
campione. L’esperimento di “primer extension” fornisce informazioni maggiormente accurate
quando si desideri mappare un trascritto, perché evita l’utilizzo di nucleasi del tipo S1. Infatti,
la nucleasi S1 potrebbe digerire in maniera inappropriata l’estremità di un ibrido DNA/RNA, o
potrebbe anche digerire occasionali strutture a singolo filamento dell’ibrido, ottenute dalla
denaturazione di regioni ricche in coppie A/T. La tendenza della nucleasi S1 alla digestione
non specifica può risultare nell’imprecisa determinazione delle estremità degli ibridi, e quindi
potrebbe fornire informazioni poco accurate sulle estremità 3’ e 5’ del trascritto. Tuttavia, solo
l’analisi S1 può localizzare l’estremità 3’ dei trascritti. L’esperimento di “primer extension”
non potrà funzionare, in questo caso, perché la retrotrascrizione procede solo in direzione
3’5’.
17. La trascrizione “run-off” è un saggio in vitro che misura la taglia e l’abbondanza di trascritti
generati da un frammento di DNA genomico. Un frammento genomico che è stato troncato a
livello di uno specifico sito di restrizione è utilizzato come stampo per la trascrizione in vitro
con un nucleotide marcato. Ciò ci consente di determinare se i trascritti prodotti sono iniziati
dal corretto sito, e anche di determinare l’efficienza relativa di trascrizione a partire da un certo
promotore. Questo saggio può quindi essere sfruttato per evidenziare l’effetto di una particolare
mutazione del promotore sulle dimensioni del trascritto e l’efficienza relativa di
trascrizione.Tuttavia, trattandosi di un metodo in vitro, non potrà fornire informazioni sui livelli
trascrizionali in vivo.
18. La marcatura dell’estremità 5’ di un frammento di DNA può essere ottenuta per rimozione del
fosfato terminale con fosfatasi intestinale di vitello (Calf Intestinal Phophatase, CIP), e quindi
con l’uso di [-32P]ATP e polinucleotide chinasi per introdurre un gruppo fosfato al 5’, marcato
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radioattivamente. La marcatura dell’estremità 3’ di una molecola di DNA a doppio filamento è
effettuata con il frammento di Klenow della DNA polimerasi e un nucleotide [32P] per
“riempire” un’estremità 3’-OH generata per digestione di una molecola di DNA con un enzima
di restrizione.
19. Un saggio di “run-on” nucleare è una tecnica che ci consente di ottenere un indice della
trascrizione di un particolare gene in vivo. In altre parole, questo saggio ci consente di
quantificare tutti i trascritti iniziati ad un dato momento. Si isolano i nuclei e si fa procedere la
trascrizione già iniziata in presenza di un nucleotide radioattivo. Il reinizio della trascrizione è
inibito dalla presenza di eparina, che si lega all’RNA polimerasi libera. I prodotti di RNA estesi
possono essere evidenziati mediante ibridazione ad una sonda complementare mediante un
esperimento di dot blot.
20. Un dot blot ci consente di identificare uno specifico acido nucleico (RNA o DNA) all’interno
di una miscela complessa mediante ibridazione del target con una sonda radioattiva. Ci
consente di quantificare gli ibridi. La differenza fondamentale tra un dot blot e un Southern blot
è che nel primo caso il DNA non è separato mediante elettroforesi, prima dell’ibridazione.
Invece, il DNA è semplicemente depositato su di un filtro. L’esperimento è perciò utile quando
la dimensione dei target è eterogenea, o quando non è importante determinare le dimensioni del
target.
21. I geni reporter possono essere sfruttati per rimpiazzare un gene quando se ne vogliono studiare
gli elementi del promotore che ne controllano l’espressione. In questo esperimento il promotore
è modificato, e un certo numero di costrutti del promotore vengono associati ad un gene
reporter, e reintrodotti in una cellula. Si misura così il livello di espressione del gene reporter
(trascrizione e traduzione) diretta dal promotore di interesse. In questo modo possiamo
identificare regioni del promotore, importanti per per il controllo dell’espressione del gene.
Questo approccio fornisce due vantaggi. Primo, la trascrizione diretta dal gene di interesse
endogenonon interferisce con la misura del tasso di trascrizione controllata dal costrutto
artificiale. Secondo, si scelgono geni reporter come lacZ, cat o luciferasi, perché le
corrispondenti attività enzimatiche possono essere facilmente dosate.
22. Un saggio di legame su filtro può essere usato per misurare il legame tra un DNA ed una
proteina. Questi studi traggono vantaggio dal fatto che il DNA a doppio filamento non si
legherà ad un filtro di nitrocellulosa, a meno che non sia associato ad una proteina. Il DNA è
marcato e fatto interagire con una proteina con cui può formare un complesso. Possiamo
misurare la quantità di complesso proteina-DNA che si forma, dosando la radioattività legata al
filtro. Possiamo anche determinare la forza dell’associazione della proteina saggiando la
capacità del DNA target non marcato di sostituirsi al DNA marcato, per competizione, nel
legame alla proteina. Le miscele vengono filtrate attraverso la nitrocellulosa a tempi diversi, e
mediante scintillazione si misureranno i complessi DNA-proteina ottenuti.
23. Un saggio di alterata mobilità su gel può evidenziare il legame specifico di una proteina ad un
piccolo frammento di DNA. Come ci indica il nome, il legame di una proteina ad un frammento
di DNA è evidenziato da un rallentamento della migrazione del DNA in corso di elettroforesi.
Mentre questa procedura può indicarci se una proteina lega o meno un frammento di DNA, non
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può fornirci informazioni su quali regioni o nucleotidi della sonda stanno interagendo con la
proteina. Al contrario, il footprinting con DNasi può indicarci dove, sul DNA, sono localizzati i
siti di legame per la proteina. La proteina è legata ad un frammento di DNA marcato
all’estremità, e i complessi proteina-DNA sono soggetti a digestione limitata con DNasi I, che
risulterà in una serie di frammenti, ciascuno tagliato (in media) una sola volta all’interno della
molecola. I siti sul DNA legati dalla proteina, al contrario, non saranno tagliati, e quando questi
frammenti saranno sottoposti ad elettroforesi sul gel si osserveranno delle “impronte”, ovvero
gruppi di frammenti mancanti sulla pellicola autoradiografica. I frammenti mancanti
corrispondono alle regioni sul DNA cui la proteina si lega. Quindi, entrambe le tecniche
possono evidenziare il legame di una proteina ad un frammento di DNA, ma il footprinting con
DNasiI ci fornisce informazioni più precise sui siti di legame della proteina sul DNA.
24. Entrambi i metodi di footprinting si basano sul fatto che, se una proteina è legata ad una
specifica regione di un frammento di DNA, essa previene il taglio del DNA in quella regione,
limitando l’accesso ad altre molecole. Ad esempio, la proteina limiterà l’accesso della nucleasi
DNasiI. Si tratta di una grossa molecola, che non è in grado di individuare piccole regioni di
DNA non coperte all’interno di complessi proteina-DNA. Inoltre, l’associazione della proteina
con il DNA può distorcere regioni vicine di DNA che non interagiscono direttamente con la
proteina, e queste potrebbero risultare inaccessibili alla DNasiI. Per avere una visione più
dettagliata di dove la proteina si leghi al DNA, possiamo usare un agente metilante come il
dimetil solfato (DMS) che, essendo una piccola molecola, penetrerà nei piccoli spazi del
complesso proteina-DNA, metilando specificamente regioni non associate con la proteina. In
queste reazioni di metilazione il tempo di reazione e la concentrazione di DMS sono limitate
cosicché, mediamente, si verifica un solo evento di metilazione per molecola. Dopo aver
rimosso la proteina, si tratta il DNA con piperidina, che taglia il DNA. La precisione con cui il
DMS accede alle regioni libere di DNA, rispetto alla DNasiI, risulta in un’impronta più
accurata.
25. La generazione di un topo knockout si basa sul riscontro di rari eventi di ricombinazione
omologa che sostituiranno un gene di interesse con un costrutto recante una sua versione
interrotta, in cellule embrionali staminali di topo. Geni marcatori possono consentirci di
distinguere tra cellule che non hanno subìto ricombinazioni, quelle in cui si sono verificati
eventi di ricombinazione non specifici, e le cellule “knockout”, in cui il gene endogeno è stato
rimpiazzato dal gene modificato. Per ottenere tutto ciò, ingegnerizziamo il nostro gene clonato
di interesse, in modo che la sua sequenza codificante sia interrottacon un gene che conferisce
resistenza all’antibiotico neomicina. Nello stesso vettore è presente il gene della timidina
chinasi. Le cellule staminali in cui non ci sono stati eventi di ricombinazione saranno sensibili
alla neomicina o al suo derivato, G418. Cellule che hanno subìto l’inserzione non specifica di
sequenze del vettore in siti casuali del genoma avranno con probabilità incorporato il gene della
timidina chinasi con il gene interrotto. Possiamo selezionare negativamente queste cellule
traendo vantaggio dal fatto che le cellule con il gene della timidina chinasi (tk+) non possono
sopravvivere in presenza di ganciclovir, mentre le cellule tk- sopravviveranno. Gli eventi
specifici di ricombinazione, in cui il gene endogeno è stato rimpiazzato dal gene interrotto
saranno resistenti sia alla neomicina (G418) che al ganciclovir. Tra queste cellule saranno
selezionate quelle che, avendo effettivamente subìto il processo della ricombinazione omologa,
possono essere usate per generare un topo knockout.
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PER L’APPROFONDIMENTO
1. a) Un frammento che ha migrato 25 mm sarà lungo 700 bp.
b) Ci si può attendere che un frammento di 200 bp abbia migrato 50 mm.
2.
neoR gene
0.4 kbp
EcoRI
EcoRI
1.4 kbp
Gene target di interesse
Frammento di
DNA genomico di
topo
sonda
Nel semplice scenario delineato in alto, la digestione del DNA genomico di topo con EcoRI e
l’ibridazione con il frammento EcoRI/HindIII di 1.4 kb produrrà un frammento di 1.4 kb in un
topo non chimerico. Un esperimento simile con un topo chimerico con il gene neoR all’interno
del gene target genererà un frammento aggiuntivo di 1.8 kbp in un esperimento di Southern
blot. Ciò assumendo che nessun sito EcoR1 sia presente nel costrutto del gene introdotto. I blot
sono mostrati nella figura in basso.
chimerico
EcoRI
non-chimerico
EcoRI
1.8 kbp
1.4 kbp
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3. Se assumiamo che è marcata l’estremità 5’ di una molecola di DNA, possiamo visualizzare le
due alternative di marcatura per il frammento del promotore come segue:
A
5’
*
32P
3’
A monte
filamento codificante/non-stampo
3’
filamento non codificante/stampo
5’
-44
-21
A valle
B
5’
filamento codificante/non-stampo
3’
filamento non codificante/stampo
A monte
-44
-21
3’
*5’
32P
A valle
Se il filamento superiore (filamento codificante/non-stampo) è marcato all’estremità 5’ come
nello schema A, ci aspettiamo che il frammento marcato più corto corrisponda alla regione più
a monte del promotore (con i numeri più negativi). Se il filamento inferiore (filamento non
codificante/stampo) è marcato al 5’ come in B, i frammenti più corti prodotti
corrisponderebbero alle regioni più a valle del promotore (numeri meno negativi). Il gel in
Figura 5.37b ci mostra la numerazione degli elementi del promotore nel frammento di DNA
soggetto a footprinting. In questo gel, i frammenti più piccoli di DNA marcato corrispondono a
regioni più a valle del promotore. Quindi il gel in Figura 5.37b è in accordo con il filamento
stampo marcato all’estremità 5’, come nell’esempio B mostrato sopra. Se, al contrario, fosse
stata marcata l’estremità al 3’ del DNA utilizzato in questo esperimento, i risultati attesi di
marcatura dei filamenti stampo e non-stampo sarebbero stati opposti a quelli descritti in alto.
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