UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI SCIENZE MM.FF.NN DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN BIOLOGIA ANIMALE CICLO XVII TESI DI DOTTORATO DI RICERCA Utilizzo di biomarkers in Dreissena polymorpha (Pallas, 1771) in programmi di monitoraggio ambientale FRANCESCO RICCIARDI TUTOR E COORDINATORE DEL DOTTORATO Prof. Alfredo Provini INDICE 1 Introduzione …………………….…………………………………….4 1.1 Valutazione del rischio ambientale (ERA) ………………………6 1.2 Monitoraggio ambientale ……………………………………….……….8 1.3 Biomonitoraggio ………………………………………………………………9 1.4 Biomarker ………………………………………………………………………14 1.4.1 I biomarker nel monitoraggio ambientale ………………………….18 1.4.2 Studio e sviluppo di nuovi biomarker ………………………………….23 1.4.3 Problemi legati all’utilizzo dei biomarker……………………………..25 1.4.4 I biomarker nel monitoraggio delle acque interne ……………..28 1.4.5 Potenziali applicazioni dei biomarker……………………………………29 1.5 Monitoraggio con Dreissena polymorpha………………………….32 1.6 1.5.1 Posizione sistematica ed anatomia………………………………………33 1.5.2 Biomarker applicati a Dreissena polymorpha………………………35 Biomarker utilizzati……………………………………………………………39 1.6.1 Il citocromo P450………………………………………………………………….39 1.6.1.1 Meccanismo molecolare di induzione del citocromo P450 ………………………………………………………………………….43 1.6.1.2 Metodi analitici per misurare l’induzione del citocromo P450…………………………………………………………………………..45 1.6.1.3 Fattori che influiscono sull’attività del citocromo P450……………………………………………………………………………47 1.6.2 Acetilcolinesterasi (AChE) ………………………………………………….51 1.6.2.1 Inibizione……………………………………………………………………53 1.6.2.2 Riattivatori………………………………………………………………….55 1.7 Composti chimici ……………………….……………………………………57 1.7.1 Organofosforici e carbammati…………………………………………….57 1.7.2 Idrocarburi policiclici aromatici (IPA)………………………………….63 1.7.3 Policlorodifenili (PCB) ………………………………………………………….65 1 1.7.4 2 pp’ DDT e composti omologhi …………………………………………….67 Materiali e Metodi………………………………………………………71 2.6 Mantenimento degli animali e condizioni di stabulazione……………………………………………….71 2.7 Prove condotte in laboratorio……………………………………………73 2.7.2 Influenza della temperatura sulle attività enzimatiche……….73 2.7.3 Esposizione agli inquinanti……………………………………………………73 2.7.4 Esposizione al 2-PAM…………………………………………………………….75 2.8 Misura dell’attività del citocromo P450…………………………….76 2.9 Misura dell’attività ChE……………………………………………………..79 2.10 Dosaggio delle proteine…………………………………………………….80 2.11 Analisi gascromatografica ……………………………………………….82 2.12 Area di monitoraggio ……………………………………………………….83 3 2.12.2 Lago di Garda ……………………………………………………………………….85 2.12.3 Lago Maggiore ………………………………………………………………………85 2.12.4 Lago di Como ……………………………………………………………………….87 2.12.5 Lago d’Iseo ……………………………………………………………………………88 2.12.6 Lago di Lugano …………………………………………………………….89 Risultati e Discussione……………………………………………91 3.1 Sviluppo delle metodiche di analisi …………………………………91 3.1.1 Misura dell’attività AChE ……………………………………………….…….91 3.1.2 Misura dell’attività del CYP450 …………………………………………….93 3.1.3 Effetto del tempo di conservazione dei campioni ……………….94 3.2 Effetto della temperatura sulle attività enzimatiche ………95 3.2.1 Influenza sull’attività del CYP450 ……………………………………….95 3.2.2 Influenza sull’attività AChE ………………………………………………….97 3.3 Analisi dei controlli stabulati……………………………………… 100 3.4 Esposizione ai contaminanti…………………………………………105 3.4.1 Effetto dei PCB sull’attività del CYP450 …………………………….106 3.4.2 Esposizione a Chlorpyrifos e bioattivazione ………………………114 2 3.4.3 Esposizione a Carbaryl.………………………………………………………119 3.4.4 Riattivazione dell’AChE mediante 2-PAM ………………………….120 3.5 3.6 4 Monitoraggio dei grandi laghi subalpini…………………….126 3.5.1 Attività EROD e MROD ……………………………………………………….129 3.5.2 Attività AChE ……………………………………………………………………..137 Valutazione del Rischio Ambientale …………………………….143 3.6.1 Utilizzo dei biomarker nella ERA ……………………………………….152 3.6.2 Misura dell’attività del CYP450 e AChE …………………………….152 Il rischio ambientale dei grandi laghi subalpini……………………………………………….………… 156 4.1 Valutazione del rischio mediante biomarker……………… 156 4.2 Utilizzo integrato di biomarker e dati chimici……………. 159 4.3 Conclusioni ………………………………………………………………… 164 5 Bibliografia ……………………………………………………….165 3 1. INTRODUZIONE Nell’ultimo secolo sono state prodotte notevoli quantità di sostanze chimiche di sintesi (xenobiotici), create per l’uso industriale, agricolo o civile. Molti composti organici di sintesi, tra cui policlorodifenili (PCB), pesticidi organoclorurati (OC) e organofosforati (OP), idrocarburi policiclici aromatici (IPA), policlorodibenzofurani (PCDF) e policlorodibenzodiossine (PCDD) sono state rilasciati nell’ambiente, e già a partire dagli anni ’60 si è iniziato a monitorare gli effetti a breve ed a lungo termine di queste molecole sulla salute umana in primo luogo ed in seguito, con la nascita dell’ecotossicologia, anche su quella degli ecosistemi naturali. Il deposito finale di molti di questi contaminanti è il comparto acquatico, sia per scarichi diretti che per processi idrologici o di trasporto atmosferico a lunga distanza (Stageman e Hahn, 1994). Anche se la presenza di un composto xenobiotico nell’ambiente di per sé non indica necessariamente degli effetti dannosi, molti composti idrofobici, ed i loro metaboliti, devono essere ancora identificati, ed il loro reale impatto sull’ecosistema deve essere determinato. In Italia, la formulazione elle prime norme di tutela ambientale risale agli anni ’30, anche se si è dovuto attendere fino al 1976 per una legge (la n. 319/76, o “Legge Merli”) che si occupasse in modo specifico dell’ambiente acquatico. Questa legge, pur regolando alcuni aspetti importanti come l’assetto delle competenze, il catasto e la disciplina degli scarichi, il sistema delle autorizzazioni, i limiti di accettabilità, i piani di risanamento, le modalità di vigilanza e di sanzione ed il censimento dei corpi idrici italiani, presentava la grave mancanza di valutare le concentrazioni dei singoli scarichi, tralasciando l’analisi dell’impatto globale di tutti gli scarichi sul corpo idrico. Questa legge è stata quindi sostituita nel 1999 dalla 152/99 (“Testo Unico sulle acque”), modificata successivamente l’anno seguente con la 258/00, anche se non in modo sostanziale. 4 Gli obiettivi fondamentali di questa legge sono: 1. Individuazione e classificazione dei corpi idrici più rilevanti 2. Introduzione di precisi obiettivi di qualità per i corpi idrici recettori 3. Monitoraggio dei differenti corpi idrici ed applicazione di limiti più restrittivi circa gli scarichi sul suolo o nel sottosuolo 4. Uso più razionale della risorsa idrica, al fine di proteggerla anche dal punto di vista quantitativo. Lo stato di qualità ambientale di un corpo idrico viene definito mediante la caratterizzazione dello stato chimico (presenza di sostanze chimiche pericolose, organiche ed inorganiche) e, per la prima volta, di quello ecologico, espressione della complessità degli ecosistemi acquatici, ottenuta anche mediate indici biotici come l’I.B.E. (Indice Biotico Esteso (Ghetti, 1995) obbligatorio) e saggi ecotossicologici come i test di tossicità su Daphnia magna, test di mutagenicità e teratogenesi, test di crescita algale e test con batteri bioluminescenti (a giudizio dell’autorità che effettua il monitoraggio). Inoltre, è stata segnalata la possibilità di effettuare test di bioaccumulo di alcuni contaminanti prioritari (come DDT, PCB e Cd) utilizzando tessuti muscolari di pesci, o su organismi macrobentonici. 5 1.1 Valutazione del Rischio Ambientale (ERA) La possibilità di usare organismi per la valutazione del rischio associato ad una contaminazione è parte integrante della valutazione del rischio ecologico/ambientale (ERA: Environmental Risk Assessment), definita come la procedura con cui vengono valutati, con un certo grado di certezza, gli effetti (presunti o effettivi) degli inquinanti o di altre attività antropiche sugli ecosistemi, utilizzando procedure scientifiche (Depledge e Fossi, 1994). L’importanza di questa pratica è diventata sempre più importante quando si è iniziato a capire che certi tossici potevano non risultare immediatamente dannosi sull’uomo, ma potevano portare a gravi alterazioni dell’ambiente e delle risorse naturali. La valutazione del rischio si divide in due fasi: il processo scientifico necessario per avere una stima della grandezza e della probabilità degli effetti dannosi (analisi del rischio) e quello che porta a valutare tra diverse alternative e a determinare se un rischio è accettabile (gestione del rischio). L’intera procedura consiste di 8 passi (Van Leeuwen e Hermens, 1995): 1. Identificazione del pericolo: identificazione dei potenziali effetti negativi che possono essere causati da un composto chimico 2. Valutazione degli effetti: stima della relazione tra dose, livello o esposizione ad un tossico e la gravità degli effetti, al fine di identificare la NOEL (no-effect level), che può esser convertito in PNEL (predicted no-effect level) o PNEC (predicted no-effect concentration) 3. Valutazione dell’esposizione: stima delle concentrazioni o dosi cui è esposta la popolazione umana. Per nuovi composti chimici si utilizza la stima della PEC (predicted environmental concentration) 4. Caratterizzazione del rischio: integrazione dei primi tre processi, per stimare l’intensità e l’incidenza di effetti deleteri dovuti a composti chimici rilasciati nell’ambiente. 6 5. Classificazione del rischio: valutazione dell’entità del rischio per decidere se è necessaria una riduzione dello stesso. Generalmente, viene utilizzata la stima del MPL (maximum permissible level) 6. Analisi rischi-benefici 7. Riduzione del rischio: misure atte alla riduzione dell’incidenza sull’uomo o sull’ambiente, utilizzando standard di sicurezza come l’ADI (acceptable daily intake) 8. Monitoraggio: definito come “la ripetitiva osservazione di uno o più composti, o di elementi biologici, utilizzando metodi comparabili e standardizzati” (Van der Oost et al., 2003). La valutazione del rischio ambientale è stata impiegata principalmente per i composti chimici di sintesi rilasciati nell’ambiente. In particolare, organizzazioni mondiali come la World Health Organisation (WHO), la Organisation for the Economic Cooperation and Development (OECD) e l’European Centre for Ecotoxicology and Toxicology of Chemicals (ECETOC), hanno investito molte risorse per lo sviluppo dell’ERA. Come altri processi di valutazione del rischio, la ERA si interessa principalmente di stimare gli effetti di un’azione sull’ambiente (Suter, 1990). Tuttavia, spesso è stata utilizzata anche per una valutazione retrospettiva, ad esempio nella valutazione di azioni iniziate in passato che possono comunque avere conseguenze anche nel futuro, come discariche, piogge acide e rilascio di pesticidi (Suter, 1993). L’analisi retrospettiva del rischio di composti chimici già esistenti può essere valutata dopo la misura della concentrazione degli stessi nell’ambiente, mediante organismi bioaccumulatori. Ogni valutazione del rischio ambientale deve avere degli endpoint definiti. Un endpoint è un’espressione formale dei valori ambientali che devono essere protetti (Suter, 1993). Misure a livello di popolazione ed ecosistema possono essere rilevanti nella valutazione degli endpoint ma, a causa dei meccanismi compensatori ed adattativi che si possono creare, spesso sono resistenti agli effetti dei contaminanti e non sono utili nella valutazione dell’impatto di un inquinamento. Misure a livello di sub-organismo possono essere più utili in 7 quanto più sensibili, ma la valutazione della rilevanza di risposte biochimiche o istologiche a livello di popolazione e comunità è ancora poco definita e necessita di ulteriori approfondimenti. 1.2 Monitoraggio ambientale Il monitoraggio è uno dei processi-chiave della valutazione di rischio ambientale. Può infatti servire da controllo per verificare l’efficacia delle misure di riduzione del rischio, per controllare che gli standard di sicurezza formulati siano rispettati o per rilevare eventuali alterazioni nell’ambiente dovute all’ingresso di sostanze tossiche. Il monitoraggio ambientale può essere diviso in diverse tipologie: Monitoraggio chimico: misura diretta dei livelli di concentrazione di una sostanza chimica in un comparto abiotico. Monitoraggio del bioaccumulo: misura diretta dei livelli di un contaminante nel biota (tessuti degli organismi). Monitoraggio degli effetti: misurazione delle alterazioni precoci causate da un composto chimico negli organismi, che possono essere parzialmente o totalmente reversibili Monitoraggio della salute: misurazione dei danni provocati da composti xenobiotici, che determinano malattie o danneggiamenti irreversibili nei tessuti degli organismi Monitoraggio dell’ecosistema: valutazione del grado di salute di un ecosistema, mediante l’applicazione di indici di diversità o di ricchezza di specie. Tutti questi tipi di monitoraggio sono utilizzati per valutare le condizioni degli ecosistemi naturali, sottoposti a stress antropico, in particolare a contaminazione chimica. Oltre che per valutare lo stato di salute di un 8 ecosistema, il monitoraggio ambientale è utilizzato per valutare l’impatto di nuove attività industriali, o per quantificare il recupero dopo interventi di bonifica. 1.3 Biomonitoraggio L’uso regolare di organismi per valutare eventuali cambiamenti ambientali, in ognuno degli ultimi 4 punti, è chiamato monitoraggio biologico o biomonitoraggio. (Cairns e Van Der Shalie, 1980; De Zwart, 1995). Le analisi chimiche “tradizionali”, effettuate su diversi comparti ambientali (aria, acqua, sedimento o matrice biologica), presentano infatti lo svantaggio di fornire soltanto un dato puntiforme, e quindi soggetto a notevole errore in caso di condizioni ambientali particolari. Il dato ricavato non fornisce nessuna indicazione sulla reale frazione di contaminazione in grado di passare nel comparto biologico (frazione biodisponibile), valore che può variare a seconda del tipo di composto; in più, alcune classi di contaminanti molto pericolosi come i metalli pesanti ed i composti organici persistenti sono presenti nella matrice ambientali spesso a concentrazioni al di sotto della soglia analitica. Inoltre, non è in grado di fornire nessuna indicazione sugli effetti di tali composti sugli organismi: il biomonitoraggio, al contrario, consente di valutare lo stress effettivo a cui è sottoposta la biocenosi di un ambiente a rischio. Il biomonitoraggio è basato sull’utilizzo di indicatori biologici, ovvero organismi che reagiscono più o meno vistosamente a determinate variazioni ambientali, inviando un segnale valutabile o attraverso l’osservazione diretta oppure mediante l’impiego di attrezzature e metodologie più o meno complesse (Bargagli et al., 1998). Le specie utilizzate come indicatori della salute di un ecosistema devono possedere alcuni requisiti, tra cui: Ampia diffusione nell’area di studio Facile identificazione e semplicità di campionamento Taglia adeguata e uniformità genetica 9 Ciclo vitale sufficientemente lungo per poter raccogliere individui di diverse classi di età Tolleranza agli inquinanti oggetto di indagine Limitata mobilità per poter identificare situazioni puntiformi di inquinamento Gli organismi indicatori si dividono in bioindicatori e bioaccumulatori, che si differenziano tra loro in base alla diversa curva di sensibilità ad un tossico. I bioindicatori possiedono una curva ripida, in quanto indicano rapidamente la comparsa di uno stress (ambientale o di origine antropica), mentre per i bioaccumulatori la curva è più graduale, e permette di monitorare un intervallo di concentrazione più ampio (Fig.1.3.1) Fig 1.3.1: Rette di sensibilità per organismi indicatori Per “bioindicatori” s’intendono tutti quegli organismi (o parti di essi) che mediante reazioni identificabili (biochimiche, fisiologiche, morfologiche) forniscono informazioni sulla qualità dell’ambiente (o di una parte di esso), mentre come “bioaccumulatori” quelli che assimilano dal suolo, dall’acqua o dall’atmosfera quantità misurabili di elementi chimici e/o di composti xenobiotici (Bargagli et al., 1998). I bioindicatori forniscono, quindi, un segnale valutabile in modo diretto come una diminuzione della densità di popolazione, oppure una scomparsa di specie o la modifica di una comunità, fornendo una risposta di tipo macroscopico. I 10 bioaccumulatori forniscono, invece, dati quali-quantitativi, accumulando nei tessuti dell’organismo le sostanze lipofile e persistenti che possono essere rilevate solo attraverso tecniche analitiche complesse. Attraverso i bioaccumulatori si ottengono dei risultati simili a quelli di un approccio chimicofisico, ma la differenza consiste nel fatto che, essendo le analisi sull’organismo, si ottengono informazioni sulla quantità di eseguite inquinante direttamente biodisponibile. Ciò che discrimina un organismo dall’essere bioindicatore o bioaccumulatore è la sostanza a cui viene esposto. Un classico esempio è la valutazione del benzo-α-pirene nei molluschi e nei pesci; infatti i primi possono fungere da bioaccumulatori, perché il contaminante si immagazzina nei lipidi, mentre i secondi sono degli ottimi bioindicatori in quanto degradano l’inquinante formando dei precursori tumorali. Gli indicatori biologici vengono impiegati in diverse situazioni di monitoraggio, tra cui: il controllo l’efficienza degli impianti di depurazione a fanghi attivi attraverso l’indice biotico del fango (SBI). Un indice è un mezzo atto a ridurre in forma semplice un gran quantitativo di dati, conservandone l’informazione essenziale (Rossaro, 1998). In particolare gli indici biotici sono calcolati sulla base di diverse misure dirette operate sulla comunità, finalizzate a meglio interpretare lo stato dell’ambiente (Ponti et al., 2002); come organismi test, tra cui il più utilizzato è il crostaceo Daphnia magna, nei saggi ecotossicologici (inclusi nella normativa D.L. 152/99) che evidenziano fenomeni di tossicità acuta attraverso la stima dell’EC50 (Effect Concentration 50%) e dell’LC50 (Lethal Concentration 50%) e di tossicità cronica attraverso la valutazione del NOEL (Not-Observed-Effect Level) e del LOEL (Lowest-Observed-Effect Level); come indicatori vegetali per valutare l’inquinamento atmosferico: i licheni, ad esempio, sono impiegati nel monitoraggio per l’inquinamento 11 da SO2 tramite l’applicazione dello I.A.P.(Index of Atmospheric Purity; de Slover, 1964); come indici saprobici e biotici; i primi sfruttano gli organismi degradatori e analizzano la comunità di un tratto di fiume rilevandone la qualità. Gli indici biotici, obbligatori in molte legislazioni europee (tra cui quella italiana) e negli Stati Uniti, permettono di valutare la qualità di un corpo idrico e/o l’impatto di uno scarico sul corpo recettore. Quello maggiormente utilizzato è l’Indice Biotico Esteso (I.B.E.) (Ghetti, 1995) che, basandosi sulle modificazioni nella composizione delle comunità di macroinvertebrati bentonici indotte da fattori di inquinamento o da significative alterazioni fisiche dell’ambiente fluviale, serve per formulare diagnosi sulla qualità di ambienti di acque correnti italiane. L’I.B.E. può essere applicato a quasi tutti gli ambienti lotici stabilmente colonizzati, poiché la procedura è stata tarata per consentire il calcolo in modo omogeneo e comparabile (Barbaglio et al., 1998); come organismi bioaccumulatori, tra i quali spicca l’utilizzo di molluschi bivalvi, impiegati nei programmi di monitoraggio di ambienti acquatici grazie alla capacità di accumulare metalli pesanti e composti xenobiotici nei loro tessuti molli. In particolare il mollusco bivalve Dreissena polymorpha è ampiamente usata nel biomonitoraggio delle acque interne (Roper et al., 1996; Gundacker et al., 1999; Binelli et al., 2002; Berny et al., 2002). In ambiente subaereo, le api sono utilizzate nella valutazione del fall-out di metalli pesanti, prodotti fitosanitari e sostanze radioattive (Jacomini et al., 2000). Anche i funghi possono essere utilizzati come organismi bioaccumulatori, in particolare per i radionuclidi e i metalli pesanti (Say et al., 2001). L’effetto dei composti inquinanti sull’ecosistema si manifesta dal punto di vista biologico a vari livelli: in un organismo l’effetto tossico primario si realizza in primo luogo a livello biochimico e molecolare (modificazioni delle attività enzimatiche, danni al DNA, ecc.) e solo successivamente gli effetti si possono riscontrare, con un meccanismo a cascata, ai livelli superiori 12 dell’organizzazione gerarchica: organulo, cellula, tessuto, individuo, fino a giungere al livello di popolazione e di comunità (Fig. 1.3.2). E’ per questo motivo che la moderna tossicologia ambientale ha affiancato alle indagini di biomonitoraggio (valutazione dell’esposizione) un nuovo approccio metodologico basato sulla valutazione delle risposte (biomarker) che un organismo, una popolazione o una comunità può generare nei confronti di uno stress chimico ambientale. Da alcuni anni l’attenzione si è quindi rivolta verso metodiche mirate alla valutazione dello “stato di salute” degli individui appartenenti ad una comunità o popolazione, puntando l’attenzione sullo studio degli “early adverse effects” causati dai contaminanti e misurabili negli organismi nel loro ambiente; uno degli approcci maggiormente applicato in questo settore è quello basato sull’utilizzo dei biomarker (Fossi, 1998). 13 VALUTAZIONE DEL RISCHIO ECOLOGICO GESTIONE AMBIENTALE Successo di popolazione early warning Struttura di popolazione Riproduzione Crescita Fisiologico Bioenergetico Biochimico Istologico Biomolecolare Sub-organismo Individuo Popolazione STRESS AMBIENTALE Fig.1.3.2: successioni temporali degli effetti su un organismo, dopo uno stress ambientale 1.4 Biomarker La caratteristica di molti inquinanti di interagire fra loro, mutando la propria azione tossica, complica la valutazione del rischio ecologico basata solamente sulle misure quantitative dei livelli di contaminazione ambientale. Inoltre, gli effetti biologici dei contaminanti (e delle loro interazioni), non possono essere valutati attraverso una semplice analisi chimica. L’approccio basato sui biomarker, rappresentati da tutti quei parametri biologici le cui variazioni sono indici precoci di una contaminazione (Livingstone 14 et al., 1997; Bengston & Henshel, 1996; Roy et al., 1996), può permettere di rilevare la presenza di un contaminante nell’ambiente prima che si manifestino eventuali effetti negativi sull’intera comunità. I principali vantaggi di questa metodica sono la rapidità di analisi, il fatto che può fornire una risposta integrata anche a contaminazioni dovute a più composti, dando quindi un’informazione biologicamente più rilevante sul loro impatto potenziale (Mayer et al., 1992; Johnston, 1995; Van der Oost et al., 1996; den Besten, 1998; Adams & Greeley, 2000). Inoltre, la risposta biochimica è attivata dall’organismo in tempi molto rapidi (da alcuni minuti a poche ore), permettendo di rilevare la presenza di un contaminante prima che si possa accumulare nei tessuti. La rilevazione precoce di una contaminazione può aiutare ad evitare che essa si protragga nel tempo, e che quindi il danno possa estendersi anche a livelli superiori dell’organizzazione biologica (Munkittrick e McCarthy, 1995). Nel caso di uno screening ambientale, i biomarker dovrebbero servire per compiere un’indagine preliminare volta a mettere in evidenza la presenza di una sostanza xenobiotica e poter prevedere l’impatto che questa potrebbe avere sull’ambiente (sistemi di “early warning”) (Payne et al., 1987), utilizzando eventualmente una “batteria” di biomarker nel caso non si conosca esattamente il tipo di inquinamento. È possibile anche utilizzare questo metodo di indagine nel monitoraggio del trend di una contaminazione, mostrandone l’andamento sia da un punto di vista temporale che spaziale e valutando lo stato dell’organismo indicatore in diversi intervalli di tempo nei vari siti. I biomarker potrebbero inoltre svolgere un ruolo importante nei programmi di “recupero ambientale” come mezzo di controllo dell’efficacia della tecnica applicata. Un esempio si avrebbe nel caso in cui in un determinato ecosistema venga riscontrato l’allontanamento degli organismi di alcune specie chiave dallo stato di equilibrio, segnale questo della necessità di applicare un’azione di “bioremediation”, che consiste nella individuazione di aree soggette a programmi di decontaminazione ed all’applicazione di misure di risanamento. In queste aree potrebbero essere collocati esemplari di organismi bioindicatori in apposite gabbie, valutando le risposte dei biomarker a diversi intervalli di tempo per tutta la durata del programma di bioremediation. Nel 15 momento in cui i valori di una serie di biomarker tornano nel limiti dei valori ottimali, si potrebbe dichiarare l’avvenuto risanamento dell’ambiente contaminato e si potrebbe quindi proseguire con opere di reintroduzione delle specie scomparse. I biomarker sono sempre più spesso impiegati utilizzando organismi direttamente esposti all’ambiente da monitorare: questa caratteristica può però essere anche uno svantaggio, in quanto talvolta può risultare difficile distinguere tra una risposta biochimica causata da stress ambientali (come variazioni della temperatura, o della disponibilità di cibo) da una invece dovuta ad uno stress causato dalla presenza di un inquinante. Per questo motivo, è necessario conoscere approfonditamente la biologia e la fisiologia dell’organismo utilizzato, per poter minimizzare la probabilità di incorrere in errori di valutazione ed interpretare come segnale di contaminazione una variazione invece dovuta ad una causa interna all’organismo (crescita o sviluppo, riproduzione, alimentazione) (Stegeman et al., 1992). Inoltre, è necessario conoscere i dati sull’attività basale dei biomarker considerati, anche in relazione ad i fattori abiotici cui gli organismi sono sottoposti, in modo da poter distinguere le variazioni naturali da stress indotti dall’inquinamento. Una volta caratterizzato anche il tipo di risposta del biomarker, la presenza di eventuali effetti-soglia e la relazione esistente tra entità di contaminazione e entità della risposta biochimica, è possibile utilizzare le specie scelte per il monitoraggio (specie-sentinella) sia come sistemi di early-warning che come predittori di effetti a lungo termine sull’ecosistema monitorato (McCarthy e Shugart, 1990). I biomarker sono generalmente distinti in (NRC, 1987; WHO, 1993): 1. Biomarker di esposizione: risposte che indicano esposizione ad un composto chimico, o ad una classe di composti, che però non forniscono nessuna indicazione dei reali effetti tossicologici sull’organismo. 2. Biomarker di effetto: risposte che indicano sia l’esposizione che l’effetto di un composto tossico. Includono alterazioni fisiologiche o biochimiche 16 misurabili nei tessuti di un organismo, che possono essere riconosciute ed associate ad una possibile alterazione della salute o malattia. Non tutti i biomarker comunque, possono essere inseriti con precisione in una di queste due categorie (de Lafontaine et al., 2000): questa terminologia potrebbe infatti suggerire che esista una relazione tra i biomarker di “esposizione” e quelli di “effetto”. Infatti, anche se talvolta può esistere una relazione tra esposizione ad un contaminante ed effetto biologico, tale legame non esiste necessariamente tra questi due tipi di biomarker, tranne se essi condividono una stessa via metabolica (Stegeman et al., 1992). Nel contesto del biomonitoraggio, e con lo scopo di caratterizzare i biomarker a seconda del loro tipo di risposta, potrebbe essere più appropriato parlare di biomarker “di difesa” (per esempio l’induzione delle metallotioneine (MT) o delle monossigenasi a funzione mista (MFO), che sono una reazione di difesa da parte dell’organismo esposto ad agenti contaminanti), o a biomarker “di danno” (le modificazioni a carico del DNA o i prodotti delle perossidasi lipidiche sono alterazioni dirette, causate da contaminanti tossici nei confronti dell’organismo). 17 1.4.1 I biomarker nel monitoraggio ambientale I biomarker utilizzati nel monitoraggio ambientale (Tab. 1.4.1) possono essere ripartiti nelle seguenti categorie, in funzione della risposta a livello gerarchico (Fossi, 1998): Alterazioni del DNA Risposte a livello di proteine Variazioni a carico del sistema immunitario Alterazioni istopatologiche Biomarker non specifici e fisiologici Il tempo impiegato per ottenere una risposta è dettato, in linea generale, dal livello strutturale interessato, precoce (ore, giorni) nel caso di risposte molecolari e ritardata (mesi, anni) nel caso di risposte cellulari e fisiologiche. Alterazioni del DNA Molti inquinanti ambientali, fra cui alcuni idrocarburi policiclici aromatici, sono in grado di danneggiare il DNA, causando una serie di alterazioni a cascata del materiale genetico, fino a mutazioni che modificano la funzionalità del gene interessato. Legandosi stabilmente al DNA, alcune molecole genotossiche (come il benzo-αpirene), possono formare addotti, che possono essere misurati con metodi immunochimici (ELISA) o radiochimici (32P-postlabeling) (Savva, 1996). Questi addotti sono in grado in seguito di causare rotture sulla doppia elica del DNA, misurabili con il metodo della Alkaline Unwinding, mediante il quale, tramite una analisi spettrofotofluorimetrica, è possibile quantificare il numero di rotture. Gli addotti e le rotture sulla doppia elica sono due biomarker di tipo precoce (Everaarts e Sarkar, 1996). Quando la generazione di modificazioni secondarie eccede la capacità di riparazione dell’organismo, è possibile che esso incorra in fenomeni irreversibili come, ad esempio, aberrazioni 18 cromosomiche, che possono essere valutate con test citologici come la determinazione dei micronuclei, l’analisi cromosomica ed il “sister-chromatide exchange” (Natarajan, 2002). Alterazioni proteiche L’esposizione a contaminanti può causare in un organismo un’ induzione o un’inibizione, dell’attività di alcune proteine funzionali. Alcuni dei meccanismi indotti sono adattativi e protettivi, coinvolti nella detossificazione di composti xenobiotici (sistema MFO – monossigenasi a funzione mista - ed enzimi coniugati), e quelli di difesa nei confronti dei metalli pesanti (metallotioneine). Tra i fenomeni di inibizione è da ricordare il blocco delle esterasi causato da insetticidi organofosforici, carbammati e piretroidi. Alcuni esempi sono riportati di seguito. Il sistema delle monossigenasi a funzione mista (MFO) è un sistema multienzimatico che svolge un ruolo fondamentale nei processi iniziali (Fase 1) della detossificazione dei composti xenobiotici (Brumley et al., 1995). Questi enzimi hanno come nucleo funzionale l’emoproteina citocromo P-450, e rendono reattivo il composto xenobiotico idrofobo, inserendo nella molecola gruppi funzionali come –OH, -SH, -COOH. Ciò che caratterizza il sistema MFO è l’inducibilità da parte del substrato, che si traduce nella sintesi di nuove proteine funzionali stimolata dalla presenza dei composti xenobiotici. L’induzione è quindi un segnale qualitativo e semi-quantitativo della presenza della sostanza stessa (Fossi, 1998). La specificità della risposta per il substrato permette di discriminare tra diverse famiglie di composti xenobiotici, ad esempio gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) inducono in modo specifico la famiglia del citocromo P-4501A1, mentre il DDT e l’aldrina inducono la famiglia del citocromo P-4502B (Fossi, 1998). Il marcatore più utilizzato tra le MFO è l’EROD (etossiresorufina-O-dietilasi), che può essere indotto in seguito ad esposizione con IPA ed alcuni policlorobifenili (PCB), oltre che diossine e furani, (Burgeot et al., 1994; Eggens et al., 1995) ed è stato applicato con successo in 19 molti vertebrati marini (Van Veld et al., 1992; Goksoyr et al., 1992; Galgani et al., 1992; Romeo et al., 1994). Le metallotioneine (MT) sono una famiglia di proteine citoplasmatiche, con un basso peso molecolare ed un alto contenuto di cisteina (30%) (Chan, 1994), che svolgono un ruolo fondamentale nei processi di regolazione dei metalli essenziali quali zinco e rame, e di detossificazione da metalli pesanti come cadmio (Cd) e mercurio (Hg) (Kagi e Schaffer, 1988). Le MT rappresentano un biomarker specifico per questa classe di contaminanti anche se, in condizioni fisiologiche particolari quali gravidanza o cambiamento di nutrizione, si può avere induzione anche in assenza di contaminanti (Benson et al., 1990). Le esterasi dei vertebrati possono essere raggruppate in tre classi fondamentali (Aldrige, 1953): esterasi di tipo A, responsabili dei processi di detossificazione degli organofosforati; esterasi di tipo B, inibite da composti organofosforati e carbammati; ed esterasi di tipo C, la cui funzione è poco conosciuta. La seconda classe, molto utilizzata nel biomonitoraggio ambientale, comprende diversi tipi di enzimi, tra cui l’acetilcolinesterasi (AChE), specifica per l’acetilcolina, presente nei tessuti nervosi; la butirrilcolinesterasi, relativamente non specifica, presente nel plasma e nei tessuti di molti vertebrati; la carbossilesterasi, la cui funzione è quella di idrolizzare diversi esteri esogeni ed endogeni, presente sia nei vertebrati che negli invertebrati; e le esterasi neurotossiche, inibite da alcuni composti organofosfati e ritrovate nel sistema nervoso dei vertebrati (Maroni e Bleeker, 1986; Correll e Ehrich, 1991; Husain et al., 1991). Le proteine da stress sono proteine citosoliche che aumentano in risposta a stress di varia natura. Determinabili con tecniche immunochimiche o elettroforetiche, possono essere utilizzate, vista la loro scarsa specificità, per valutare il grado di stress di un organismo (Fossi, 1998). 20 La vitellogenina è una proteina precursore della sintesi del tuorlo delle uova nei vertebrati e in alcuni invertebrati, compresi i molluschi bivalvi (Pipe, 1987; Suzuki et al., 1992). Questa proteina è prodotta fisiologicamente, sotto lo stimolo dell’estradiolo ovarico, nel fegato di individui di sesso femminile sessualmente attivi (Kime, 1998). I maschi, però, possedendo i recettori epatici per l’estradiolo, possono produrre vitellogenina se esposti a sostanze xenobiotiche estrogene. Questo fenomeno può essere utilizzato come indicatore di un’esposizione a sostanze tossiche, in quanto individui di sesso maschile non possiedono gli enzimi per degradare la vitellogenina che, così, si accumula nel sangue (Pellissero et al., 1993). Prodotti metabolici Alcune classi di inquinanti possono interferire col normale metabolismo di composti endogeni e provocare un accumulo dei prodotti intermedi. Ad esempio: Le porfirine, metaboliti intermedi della biosintesi del gruppo eme, sono prodotte e si accumulano in tracce nei tessuti eritropoietici, nel fegato e nei reni, e sono espulse tramite urine o feci (Lim, 1991). La biosintesi del gruppo eme può essere alterata da alcuni inquinanti ambientali quali PCB, metalli pesanti e diossine, e ciò porta ad un cambiamento nell’escrezione delle porfirine (Marks, 1985). Dato che queste molecole possono essere rilevate in materiali biologici differenti anche a concentrazioni basse, possono essere usate come biomarker sensibili di esposizione (De Matteis e Lim, 1994). 21 Biomarker Risposta biologica Esempi di contaminanti Tempo di risposta Segnale IPA, PHAH rapido S, D, P IPA, PHAH rapido S IPA, PHAH medio S, D, P IPA, PHAH PCB, diossine rapido S, D HM rapido S, D OP, CB rapido S, D, P rapido S rapido S medio S, D, P rapido medio S S lento S Alterazioni del DNA: Addotti Rotture Eventi irreversibili formazione rottura della doppia elica alterazioni cromosomiche Risposte di proteine: MFO Metallotioneine Esterasi Proteine da stress Vitellogenina induzione enzimatica induzione proteica induzione enzimatica induzione proteica induzione proteica HM, IPA, PHAH estrogeni xenobiotici Prodotti metabolici: Porfirine disordine ciclo EME HM, PHAH Alterazioni del sistema immunitario: Retinolo modifica livelli Funzioni tiroidee alterazione Immunotossicolog varia ia PHAH PHAH HM, IPA PHAH, OP Tab. 1.4.1 – Principali biomarker per il monitoraggio ambientale (Fossi, 1998). Legenda: CONTAMINANTI (CB: carbammati, HM: metalli pesanti, OP: organofosforici, IPA: idrocarburi policiclici aromatici, PHAH: idrocarburi polialogenati aromatici, PCB: policlorobifenili); SEGNALE (S: segnale di un problema potenziale, D: definitivo indicatore di una classe di contaminanti, P: indicatore predittivo di un effetto negativo a lungo termine); TEMPO DI RISPOSTA (rapido: da ore a giorni, medio: da giorni a settimane, lento: da mesi ad anni). 22 1.4.2 Studio e sviluppo di nuovi biomarker I molti progressi nel campo della biochimica e della genetica possono fornire nuovi strumenti che possono essere molto utili nello studio dell’impatto dei tossici sugli organismi, e contemporaneamente fornire nuovi biomarker. La cosiddetta “ecotossicogenomica” (Snape et al., 2004) si occupa dello studio dell’espressione di geni e proteine in seguito all’esposizione ad un tossico, cercando di identificare i meccanismi di tossicità e di sviluppare modelli predittivi e QSAR degli effetti tossici (Moore, 2001). Diversi tipo di analisi vengono svolte su organismi esposti a diversi tossici, focalizzati sullo studio dell’espressione delle proteine (proteomica) o di quella genica (genomica), tra cui le principali sono: o Tecniche basate su DNA-array: mediante questo approccio è possibile identificare i trascritti che sono sovra- o sottoespressi in seguito alla sperimentazione (Neumann e Galvez, 2002) Anche sottili differenze nell’espressione di alcune famiglie di geni, indotte dalla presenza di composti chimici, possono essere sufficientemente distinte da permettere di identificare delle “firme” di contaminazione (Afshari et al. , 1999) o Analisi del proteoma: la tecnica più utilizzata per lo studio dell’espressione delle diverse proteine è quella dell’elettroforesi 2-D, che separa all’interno del gel le molecole prima secondo la carica elettrica, ed in seguito secondo la massa. Le singole proteine separate dal gel2-D sono quindi estratte e digerite mediante endopeptidasi, come la tripsina. Il set risultante di peptidi viene quindi analizzato usando uno spettrometro di massa (MALDI-TOF: Matrix Assisted Laser Desorption Ionisation Time-Of-Flight) (Fig. 1.4.1) che permette l’identificazione della proteina mediante confronto con un database esistente. Questa tecnica però non è sempre valida per singoli peptidi o frammenti proteici, per i quali una cromatografia ad alta risoluzione può essere più indicata. 23 Una volta identificati geni o proteine che vengono sovra- o sottoespressi in presenza di un tossico, attraverso saggi biochimici volti a misurare la loro attività, potrebbe essere possibile ottenere nuovi biomarker da utilizzare nel monitoraggio ambientale. Numerosi sono però i problemi nell’applicazione pratica di queste metodiche, primo dei quali è che, spesso, per ottenere delle risposte rilevabili le quantità di tossico da somministrare all’organismo devono essere molto elevate, molto superiori a quelle normalmente presenti nell’ambiente in seguito ad una contaminazione: di conseguenza tali risposte potrebbe non essere applicabili in un programma di biomonitoraggio. Fig. 1.4.1: procedura di identificazione di proteine espresse dopo esposizione ad un tossico (da Ping e Gygi, 2001) 24 1.4.3 Problemi legati all’utilizzo dei biomarker Le principali critiche che sono state mosse contro l’utilizzo dei biomarker nel biomonitoraggio sono dovute alla variabilità presente negli organismi oggetto di indagine. Fattori biotici come genere, stadio riproduttivo, età e dieta, ed abiotici come la temperatura possono influenzare la risposta biochimica sia in invertebrati che vertebrati (Hyne e Maher, 2003), rendendo possibile un’errata interpretazione dei dati, che talvolta potrebbero suggerire la presenza di una contaminazione quando invece l’alterazione biochimica o fisiologica potrebbe essere dovuta semplicemente a variazione di parametri ambientali, o rappresentare una normale fluttuazione dei parametri vitali (Fig. 1.4.2) Fig. 1.4.2: variazioni naturali e indotte dei biomarker (Modificato da McCarthy et al., 1990) Inoltre, è possibile che in alcuni casi alcuni contaminanti possano avere un’influenza opposta su alcuni biomarker (ad esempio attivazione-inibizione), 25 di conseguenza la presenza contemporanea di entrambi può rendere inutile l’utilizzo di saggi biochimici. In bibliografia esistono alcuni studi condotti con lo scopo di valutare le interferenze ambientali. Alcuni esempi riguardano il citocromo P450, la cui attività può essere influenzata da numerosi fattori: o dallo stato ormonale; nei pesci le femmine in periodo non riproduttivo hanno valori molto minori rispetto ai maschi e alle femmine in periodi riproduttivi (Stegeman e Hahn, 1994). Tale influenza è stata riscontrata anche nei mitili (Kirchin et al., 1992; Bucheli e Fent, 1995); o dalla temperatura, che influisce sulla assunzione dei contaminanti: maggiore è la temperatura maggiore è l’assunzione degli inquinanti e viceversa (Jimenez et al., 1987); o dall’alimentazione, la cui composizione nutrizionale (vitamine, proteine, lipidi, carboidrati) influisce sul metabolismo dei pesci e può avere effetti sull’attività EROD (Ankley e Blazer, 1998), o dalla presenza di metalli pesanti in ambiente, che inibisce fortemente il sistema MFO, così come molte attività enzimatiche (Viarengo et al., 1997). Esistono studi anche sul potenziale effetto della temperatura sull’attività colinesterasica (Escartìn e Porte, 1997) i cui risultati sono piuttosto controversi. Uno studio condotto sull’attività AChE del cavedano (Leuciscus cephalus) (Flammarion et al., 2002) ha dimostrato come la lunghezza dell’animale sia un parametro da tenere in considerazione, in quanto è stata dimostrata un relazione inversa tra questo valore e l’attività enzimatica misurata. È inoltre stato evidenziato come differenze nelle caratteristiche dell’acqua (pH, conducibilità e durezza), possono modificare le risposte dei marcatori biologici: in generale le risposte sono maggiori quando i molluschi sono posti in acqua di rubinetto, eccetto per le ossidasi lipidiche come l’acido tiobarbiturico (Vidal et al., 2002). 26 Per risolvere questi problemi di interferenza può essere d’aiuto analizzare gli organismi in laboratorio, in condizioni controllate, in modo da valutare quali siano le alterazioni dei parametri basali in seguito all’aggiunta di sostanze inquinanti senza ulteriori fattori di stress. Dal momento che ci potrebbero essere sovrastime e sottostime degli effetti, le osservazioni fatte in laboratorio devono sempre essere confermate con ricerche in campo in modo da ottenere un’informazione completa (ECETOC, 1993). A causa di questi problemi, la metodica per l’utilizzo dei biomarker deve essere ulteriormente perfezionata in modo da rendere tali indicatori mezzi affidabili per la valutazione dell’impatto ambientale e poterli inserire nel programma legislativo che attualmente non li contempla (Testo unico sulle acque, 152/99, e suo ampliamento 258/2000). Molte ricerche sono ancora necessarie prima che alcuni biomarker come le proteine da stress, le metallotioneine ed alcuni parametri ematologici possano essere completamente valutati e validati. Inoltre, nonostante ci siano alcune indicazioni che alcuni biomarker siano efficaci segnali di early warning, è sempre abbastanza difficile ottenere una correlazione significativa tra tali risposte biochimiche con gli effetti sulle popolazioni o comunità naturali. Infatti, stress su individui singoli non è necessariamente seguito da problemi a livello di popolazione, anche per l’insorgenza di fenomeni di adattamento. Uno stress ambientale può infatti indurre una risposta primaria, che può portare a cambiamenti comportamentali o a reazioni adattative ed alla compensazione della lesione. Nel caso che lo stress persista, o se i meccanismi di detossificazione falliscono, i processi di adattamento sono insufficienti per prevenire fenomeni di tossicità, i cui danni potranno quindi essere identificati tramite i biomarker (Vasseur e Cossu-Leguille, 2003). 27 1.4.4 I biomarker nel monitoraggio delle acque interne Sebbene nel monitoraggio delle acque interne siano ormai standardizzate molte metodiche di analisi basate sull’utilizzo di organismi, gli studi basati sull’utilizzo di biomarker sono ancora abbastanza limitati. Gli organismi più utilizzati sono senza dubbio i pesci, in particolare salmonidi come la trota iridea (Oncorhynchus mykiss) (Fenet et al., 1998; Kosmala et al., 1998; Arukwe et al., 2001, Van den Belt et al., 2003); o ciprinidi come la carpa comune (Cyprinus carpio) (Kowk et al., 1998; Mori et al., 2002; Sakamoto et al., 2003). L’utilizzo di invertebrati è meno diffuso, anche se presentano numerosi vantaggi, come la scarsa o nulla mobilità, che permette di evidenziare anche sorgenti puntiformi di contaminazione. Il mollusco bivalve Dreissena polymorpha è stato impiegato con successo negli ultimi anni nel biomonitoraggio di ecosistemi acquatici sia per composti organici persistenti (Gossiaux et al., 1998; Hendricks et al., 1998; Binelli et al., 2001 a,b) che per i metalli pesanti (Secor et al., 1993; Johns & Timmerman, 1998; Camusso et al., 2001). Ultimamente sono in aumento anche gli studi basati su biomarker (Dauberschmidt et al., 1997; Smital e Kurelec, 1997; De Lafontaine et al., 2000; Pain e Parant, 2003; Lecoeur et al., 2004). Altri molluschi impiegati sono Curbicula fluminea (Mora et al., 1999a; Vidal et al., 2001, 2002; Achard et al., 2004), Unio tumidus (Doyotte et al., 1997; Cossu et al., 2000) e Anodonta cygnea (Riffeser e Hock, 2002; Robillard et al., 2003). La taglia contenuta e la relativa semplicità di raccolta, oltre alla notevole adattabilità a condizioni di laboratorio, fanno dei molluschi bivalvi degli organismi ideali per essere utilizzati nel monitoraggio ambientale. La possibilità di condurre test di laboratorio permette inoltre di validare le metodiche di analisi utilizzate per la misura dei biomarker, eliminando la variabilità ambientale presente negli ecosistemi naturali e permettendo di valutare esattamente le risposte biochimiche agli inquinanti presenti singolarmente e in miscela. 28 1.4.5 Potenziali applicazioni dei biomarker Sono stati individuati almeno tre casi generali in cui l’applicazione dei biomarker potrebbe portare numerosi vantaggi (Fossi, 1998): Caso 1: ecosistema sottoposto ad una miscela di composti ignoti. Dato che le fonti di contaminazione, così come la durata dell’esposizione, non sono storicamente definiti (situazione tipica di molte aree in via di sviluppo), l’applicazione della chimica ambientale classica, così come i modelli previsionali di diffusione degli inquinanti, risulterebbe del tutto infruttuosa nella fase conoscitiva. L’utilizzo dei biomarker in questa situazione ambientale permetterebbe: o la valutazione dello stress chimico cui l’ecosistema oggetto di studio è esposto, tramite l’utilizzo di biomarker generali; o l’individuazione delle principali classi molecolari responsabili del fenomeno di inquinamento, tramite l’impiego di biomarker specifici; o la stima del danno potenziale causato dalla miscela di inquinanti sulla popolazione e sulla comunità oggetto di studio, tramite l’impiego di biomarker di effetto. Caso 2: ecosistema sottoposto ad inquinanti parzialmente noti. Quando l’origine e le fonti di contaminazione per certi ambienti sono solo parzialmente note, la durata dell’esposizione allo stress chimico è storicamente definita. L’impiego di modelli previsionali di diffusione degli inquinanti risulta essenziale per l’individuazione dei principali comparti di accumulo, mentre le indagini di chimica ambientale classica risultano importanti per la definizione dei livelli di bioaccumulo dei contaminanti ai diversi livelli della catena trofica. L’utilizzo dei biomarker in questa situazione ambientale permetterebbe: o l’individuazione degli effetti tossicologici provocati dalla miscela di composti inquinanti, come integrazione delle variabili “spazio” e “tempo”; 29 o la valutazione dell’esposizione delle popolazioni oggetto di studio ai livelli di contaminazione che eccedono le normali capacità di compensazione e riparazione dell’organismo, tramite l’utilizzo di biomarker di effetto; o la stima del danno potenziale causato dalla miscela di inquinanti sulla popolazione e sulla comunità oggetto di studio. Caso 3: individuazione delle specie potenzialmente a rischio. Lo studio e l’individuazione delle specie potenzialmente a rischio, in ambienti in cui si conosce qualitativamente e quantitativamente la natura della contaminazione, richiede lo sviluppo di nuovi approcci metodologici basati su metodi non distruttivi, in modo da evitare il sacrificio degli organismi oggetto di studio. Esempi di tali biomarker sono le esterasi di tipo B contenute nel siero di diversi vertebrati (Sanchez e Fossi, 1996), le biopsie cutanee in alcuni cetacei (Marsili et al., 2000; Fossi et al., 2000), le porfirine presenti nel pelo, nelle feci e nel sangue, utilizzate in uno studio su due popolazioni di leoni marini (Otaria flavescens) (Marsili et al., 1997; Casini et al., 2002) e in uno studio condotto in Alaska su popolazioni di lontre (Luntra canadensis) (Taylor et al., 2000). L’utilizzo di biomarker non distruttivi in questa situazione permetterebbe: o la valutazione dei livelli di contaminazione delle popolazioni che occupano posizioni a rischio nell’ecosistema, e se essi eccedono le normali capacità di compensazione e riparo; o l’individuazione delle specie potenzialmente a rischio, in funzione della diversa suscettibilità ad una miscela di composti inquinanti; o la valutazione del danno potenziale causato dalla miscela di inquinanti sulle specie potenzialmente a rischio dell’ecosistema oggetto di studio. Devono essere comunque fatte alcune considerazioni affinché un possibile impiego dei biomarker nel monitoraggio ambientale sia efficace. La prima è la possibile presenza di falsi positivi e falsi negativi (questi ultimi più gravi per la salvaguardia ambientale, in quanto si rischia di non intervenire con opere di recupero ambientale qualora ce ne fosse un effettivo bisogno) e la seconda è 30 che, in generale, una risposta osservata probabilmente indica l'esposizione, ma una mancanza apparente di risposta potrebbe essere dovuta o ad un'assenza degli inquinanti (oppure ad una presenza contenuta, tale da non indurre una risposta) o ad un sistema efficiente di riparazione presente all'interno dell'organismo. Queste problematiche possono essere risolte scegliendo un organismo adeguato (di cui si conosce fisiologia ed ecologia) per il biomonitoraggio che si intende eseguire, conoscendo in modo approfondito la tipologia di biomarker che si vuole utilizzare, ed infine la relazione esistente tra risposta ed effetti a livello dell’organismo e dell’intera popolazione. Inoltre, dato che alcuni biomarker possono essere applicati ad una grande varietà di specie di vertebrati, invertebrati e persino piante, si potrà effettuare un confronto tra i diversi tipi di risposte (den Besten, 1998). 31 1.5 Monitoraggio con Dreissena polymorpha L’organismo utilizzato per questa ricerca è stato il mollusco Dreissena polymorpha, originaria della Russia meridionale ma oggi ampiamente diffusa: nel 1769 Pallas per primo descrisse popolazioni di questa specie nel Mar Caspio e nel fiume Ural. Ha poi esteso il suo areale in tutta l’Europa centro settentrionale attraverso le reti di navigazione fluviale, attaccata al fasciame dei natanti ed al legname stivato nelle navi provenienti dalla zona baltica (infatti, può sopravvivere per diversi giorni fuori dall’acqua). In Italia è stata avvistata per la prima volta nel 1969 nelle acque del Lago di Garda (Giusti e Oppi, 1972) dove ha dato origine ad una vera e propria esplosione demografica, raggiungendo un’elevata densità di popolazione, colonizzando poi anche gli altri laghi subalpini. Probabilmente ha attraversato la catena alpina attaccata alla carena di imbarcazioni turistiche trasportate via terra. Recentemente, la presenza di questo bivalve è stata segnalata anche nel Lago Trasimeno (Spilinga, 2000) e ormai deve essere quindi considerata come un tipico rappresentante della malacofauna italiana. Lo scopo di questa ricerca è stato quello di valutare l’applicabilità di alcuni biomarker in D. polymorpha, al fine di impiegare questo mollusco come organismo-sentinella nei sistemi di early-warning ambientale. 32 1.5.1 Posizione sistematica e anatomia Classe: Mollusca Ordine: Veneroida Famiglia: Dreissenidae Genere: Dreissena Specie: D.polymorpha (Pallas, 1771) La superficie esterna della conchiglia, di forma mitiloide e lunga fino a 5 cm, presenta delle striature che hanno originato il nome inglese “zebra mussel”. La forma è triangolare ed allungata. I bordi del mantello si prolungano formando due sifoni: uno di entrata dell’acqua munito di tentacoli (inalante, Fig. 1.5.1) e l’altro di uscita (esalante). Dreissena è un tipico mollusco filtratore, e la raccolta delle particelle in sospensione tramite i particelle all’interno vengono nell’acqua filamenti alimentari di un branchiali: le agglutinate cordone convogliate avviene mucoso attraverso un breve esofago cigliato che sbocca nello stomaco che è circondato da Fig.1.5.1: sifone inalante munito di tentacoli 33 una grande massa ghiandolare a funzioni primordialmente digerenti, la ghiandola digerente o epatopancreas. La temperatura svolge un ruolo fondamentale sulla velocità di filtrazione di questo bivalve, che si presenta bassa durante l’inverno, manifesta un incremento di attività in primavera con temperature tra i 10 e i 20 °C, mentre un aumento termico al di sopra dei 20 °C sembra inibire la filtrazione e di conseguenza l’accrescimento dell’individuo (Noordhuis et al., 1992). Sulla linea medioventrale del piede si apre la ghiandola bissogena, che produce dei filamenti (costituiti da aminoacidi, la loro abbondanza e resistenza dipende dallo stato fisiologico del mollusco) uniti a formare il bisso, per mezzo del quale Dreissena può ancorarsi ai substrati. Vive in acque ben ossigenate, con elevata quantità di sospensione organica, ed è in grado di tollerare valori di pH compresi fra 5 e 8 ed una salinità tra lo 0 e il 5 per mille (Nekrasova, 1971), che le permette di vivere anche in ambienti estuariali. Recenti studi hanno dimostrato che il sistema nervoso di questo bivalve è colinergico (Ram et al., 1997). Dreissena è un mollusco con riproduzione iteropara, con un elevato tasso riproduttivo, anche se l’elevata fecondità è compensata da un’elevata mortalità che raggiunge il 99% degli individui nello stadio larvale di postveliger, per poi calare tra gli animali giovani e adulti fissati al substrato (Wiktor, 1963). Gli animali hanno sessi separati. Il suo ciclo vitale può essere suddiviso in tre periodi: un periodo pre-riproduttivo, durante il quale si verifica la maturazione dei gameti (dall’inverno fino al mese di maggio), un periodo di riproduzione estiva e un periodo invernale post-riproduttivo; la temperatura e le condizioni trofiche sono le variabili che maggiormente incidono su queste fasi (Binelli et al., 2001b). I gameti vengono rilasciati in primavera quando la temperatura dell’acqua raggiunge i 13 °C (Bacchetta et al., 2001). In acqua ha luogo la fecondazione e lo sviluppo embrionale, terminato il quale dalle uova si forma una larva trocofora e in seguito un veliger, che ha vita planctonica per 8-10 giorni. In seguito alla regressione dell’apparato ciliare locomotorio (stadio di postveliger) la larva cade sul fondo e passa attraverso uno stadio bentonico 34 mobile. Durante questo stadio subisce una serie di cambiamenti anatomici e fisiologici, come la formazione della conchiglia ed una crescita sensibile del piede. L’individuo così formato può fissarsi a qualsiasi tipo di substrato duro, grazie alla secrezione del bisso (Castagnolo et al., 1980). Il bisso e la larva planctonica sono evidenti caratteristiche della precedente vita marina, e che lo rendono simile al mitilo. Il regime alimentare di D. polymorpha è costituito principalmente dal seston (sostanza organica particellata, vivente e non vivente, sospesa in acqua), raccolto mediante meccanismi di filtrazione. La taglia del materiale ingerito può raggiungere i 5 mm di diametro: la selezione delle particelle filtrate avviene attraverso l’epitelio branchiale ed i palpi labiali. Il mollusco di solito rigetta i frustuli silicei delle diatomee, le colonie di alghe filamentose e le emulsioni di liquidi organici. Il materiale rigettato viene raccolto nella cavità palleale ed espulso attraverso il sifone esalante sotto forma di pseudofeci. 1.5.2 Biomarker applicati a Dreissena polymorpha Gli organismi sessili come D. polymorpha o il mitilo Mytilus galloprovincialis sono sempre più frequentemente utilizzati nei programmi di monitoraggio ambientale come bioaccumulatori o organismi sentinella (Livingstone, 1992): sono proprio le caratteristiche che li rendono adatti a questi programmi che hanno portato ad indagare gli effetti delle sostanze xenobiotiche su risposte di tipo biochimico e biomolecolare, valutate mediante la misura di biomarker. La prima indagine condotta utilizzando una batteria di biomarker in D. polymorpha è stata effettuata nel 2000 da de Lafontaine et al., in cui sono state analizzate le risposte di cinque differenti biomarker per valutare lo stato delle acque del fiume St. Lawrence in Canada. I biomarker applicati erano le metallotioneine (MT), l’etossiresorufina orto-dietilasi (EROD), le alterazioni a livello del DNA, le perossidasi lipidiche (LPO) e la vitellogenina (VG), biomarker indici di contaminazione da diverse classi di composti. I risultati ottenuti hanno 35 dimostrato che si possono ottenere risposte significative dall’applicazione dei biomarker anche in questo bivalve: essi infatti hanno fornito risposte differenti nelle varie stazioni di campionamento, situazione indicativa di contaminazioni di origine e composizione diversa. In particolare, l’attività EROD più alta è risultata quella misurata nelle due stazioni di campionamento situate nelle aree maggiormente industrializzate, e questo suggerisce come tale attività enzimatica (misura dell’attività di detossificazione dell’organismo da composti planari) sia stimolato da contaminanti di tipo industriale; negli altri siti sono state misurate attività più basse, ma estremamente variabili, più di quanto non lo siano gli altri biomarker. La ragione di tale variabilità è risultata non determinabile e probabilmente attribuibile a variabilità di tipo ambientale. A differenza degli altri tre biomarker (DNA, LPO, VG), con attività basse e probabilmente collegati metabolicamente tra loro, le MT sembrano essere quelle con la maggiore capacità di discriminazione del grado di inquinamento nei diversi siti. Una ricerca condotta da Dauberschmidt et al., 1997, ha dimostrato la capacità del mollusco D. polymorpha di biotrasformare i composti organofosfati in vitro, rendendoli in grado di attaccarsi all’enzima acetilcolinesterasi. Nonostante questo legame, gli autori non hanno però misurato nessuna inibizione dell’enzima stesso. Diversi studi hanno confermato la presenza di un sistema MXDM (MultiXenobiotic Defense Mechanism) sia in invertebrati marini (Mytilus edulis, Crassostrea gigas, Minier et al., 1993) che in invertebrati d’acqua dolce (Anodonta cygnea, Kerulec e Pivcevic, 1989; Dreissena polymorpha, Smital e Kerulec, 1997; Pain e Parant, 2003) e sembra che questo sistema conferisca una protezione contro gli effetti deleteri causati dall’esposizione di composti tossici (McFadzen et al., 2000). Tale sistema multi enzimatico è formato da alcune glicoproteine, in grado di trasportare attivamente all’esterno delle cellule gli eventuali tossici presenti. Gli studi effettuati non sono comunque riusciti a stabilire, per il momento, una chiara relazione tra l’induzione dell’attività del sistema MXDM e l’esposizione ai contaminanti: infatti questo biomarker è caratterizzato da una bassa specificità visto che la sua induzione si 36 verifica in seguito sia a stress di tipo chimico che a stress aspecifici, come uno shock termico (Eufemia e Epel, 2000). L’idea è quella che la sua risposta possa essere modulata da fattori naturali come la dieta, la disponibilità di cibo o la temperatura. Per questa serie di considerazioni il sistema MXDM potrebbe essere considerato come un “early warning” per un generico stress ambientale. Il grande interesse di questo strumento è che permette di rilevare un’inusuale attivazione del sistema di difesa, e perciò può allertare sui possibili impatti sulla salute dell’organismo, sebbene non dia informazioni specifiche sulla natura dell’impatto (Pain e Parant, 2003). Alcuni studi sono stati condotti esclusivamente esponendo a contaminanti esemplari di D. polymorpha mantenuti in laboratorio, al fine di eliminare eventuali interferenze dovute a fattori non identificabili direttamente. In un recente studio Lecoeur et al. (2004) hanno esposto alcune centinaia di D. polymorpha a cadmio e rame, sia singolarmente che in miscela, misurando quindi l’attivazione delle metallotioneine (MT), proteine che intervengono nell’omeostasi e nella detossificazione da metalli pesanti. A fronte di un incremento significativo dell’attività delle MT in seguita ad esposizione a Cd, nessuna risposta è stata invece misurata dopo l’esposizione a Cu, suggerendo che le forme di MT presenti in D. polymorpha non siano Cu-inducibili. Uno studio di Clayton et al. (2000) ha cercato di valutare l’induzione di due heat shock proteins (HSP), in particolare hsp60 e hsp70, in D. polymorpha esposta a Cu e TBT. Nonostante fosse presente una notevole variabilità tra individui, è riportato come l’esposizione ai tossici provochi un aumento significativo delle HSP rispetto agli individui di controllo. Alcuni autori hanno cercato di misurare i danni al DNA utilizzando la rilevazione dei micronuclei o comet test, in seguito ad esposizione al pentaclorofenolo (PCP) (Pavlica et al., 2000), e in situ in un fiume contaminato (fiume Sava, Croazia). Un aumento nell’incidenza dei micronuclei è stato osservato in seguito ad esposizione a PCP 80 µg/l e negli individui prelevati dal fiume Sava. Un programma analogo di biomonitoraggio attivo (Mersch e Beauvais, 1997), effettuato trasportando delle gabbie contenenti alcune centinaia di esemplari di D. polymorpha nei siti da monitorare, interessati da scarichi industriali, situati 37 in diversi fiumi in Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo. L’aumento della frequenza dei micronuclei negli esemplari esposti rispetto a quelli di controllo ha indicato la presenza nelle acque di scarico di sostanze genotossiche. 38 1.6 Biomarker utilizzati 1.6.1 IL CITOCROMO P450 Il citocromo P450 (CYP450) (Fig 1.6.1) è il nucleo funzionale enzimatico del sistema delle monossigenasi a funzione mista (MFO). Gli enzimi del gruppo delle MFO furono scoperti negli anni ’40: alcuni studiosi notarono che la forma ridotta del CYP450 dava un caratteristico picco di assorbanza a 450 nm in presenza di monossido di carbonio; in seguito, si osservò che ciò che conferiva l’assorbimento era il componente finale di una catena di trasportatori di elettroni, che catalizzava l’ossidazione di diversi substrati, ovvero il citocromo P450 (Omura e Sato, 1964). Tale enzima è stato proposto da molti anni per essere utilizzato come biomarker da esposizione a composti xenobiotici come idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e policlorodifenili (PCB) (Whyte et al., 2000). Fig. 1.6.1 Struttura tridimensionale del citocromo P450 39 Gli enzimi del gruppo del CYP450 fanno parte di una famiglia di emoproteine localizzate nella membrana del reticolo endoplasmatico liscio degli epatociti o di altri tipi cellulari e, come tutte le emoproteine, consistono di una porzione proteica (apoproteina) e di un gruppo eme prostetico. La superfamiglia di proteine di cui fanno parte è antica e ampiamente distribuita tra batteri, piante ed animali. All’interno di questa superfamiglia sono state identificate diverse famiglie (indicate con la sigla CYPn), sottofamiglie (CYP1A, CYP1B..), e gruppi (CYP1A1, CYP1A2…CYP1An) riuniti in base all’identità di sequenza aminoacidica (Snyder, 2000). Grazie a numerosi studi effettuati negli ultimi trent’anni, è emerso che il CYP1A1 è il responsabile principale del metabolismo di composti endogeni e xenobiotici organici, come policlorodifenili (PCB) e idrocarburi policiclici aromatici (IPA) (Snyder, 2000). La maggior parte dei composti xenobiotici è liposolubile, e può attraversare le membrane biologiche accumulandosi nei tessuti adiposi o in cellule di altri tessuti, interferendo in tal modo con i normali processi metabolici. Le sostanze tossiche, vengono biotrasformate in forme più escretabili da parte dell’organismo, attraverso una Fase I e una Fase II di detossificazione. Il sistema MFO riveste un ruolo determinante nei processi iniziali (Fase I) della detossificazione dei composti xenobiotici e di molecole endogene (steroidi e acidi grassi) e in particolare il suo nucleo funzionale, il CYP450, è coinvolto nelle reazioni della Fase I. Il suo ruolo è quello di rendere reattivi i composti xenobiotici, inserendo nella molecola gruppi funzionali polari come - OH, - SH e - COOH: con tale attivazione del substrato è reso possibile il successivo attacco da parte degli enzimi coniuganti (Fase II) e la successiva eliminazione dall’organismo (Fossi 1998). In questo modo il sistema MFO tende a detossificare l’organismo dai composti xenobiotici, anche se esistono numerosi casi in cui i prodotti del metabolismo di Fase I sono più tossici del composto parentale (Guengerich e Liebler, 1985), un esempio è costituito dagli IPA, i cui risultati metabolici possono portare a un danno cellulare e, in alcuni casi anche a effetti di cancerogenesi (Hong e Yang, 1997). 40 La risposta di induzione è specifica per un certo substrato: ciò significa che una classe di composti, ad esempio gli IPA o i PCB, induce in maniera specifica una sola famiglia enzimatica (quella del CYP1A1), mentre la classe degli insetticidi organoclorurati è responsabile dell’induzione del CYP2B. Per questa sua elevata specificità di induzione da parte del substrato, il sistema MFO costituisce uno dei biomarker più specifici perché permette di identificare le diverse classi di composti responsabili del fenomeno induttivo (Fossi, 1998). Le relazioni tra le forme del CYP450 presenti nei mammiferi e nelle altre classi di vertebrati e invertebrati sono indagate da molto tempo: in tutti i mammiferi e gli uccelli esaminati fino ad oggi, la sottofamiglia CYP1A è presente in due forme analoghe, CYP1A1 e CYP1A2, che risultano essere entrambe indotte da composti quali IPA e PCB (Nelson et al., 1996). Diverse tecniche di riconoscimento molecolare hanno constatato la presenza della sottofamiglia CYP1A in più di 30 specie di pesci (Stegeman e Hahn, 1994); in particolare, nella trota iridea, l’analisi della sequenza aminoacidica della forma riconosciuta come CYP1A ha mostrato una corrispondenza pari al 60% con quelle isolate nei mammiferi (William e Buheler, 1982; Heilmann et al.,1988). Recenti purificazioni enzimatiche e studi immunochimici e biomolecolari, hanno indicato la presenza di un citocromo P450 con caratteristiche strutturali e catalitiche simili alla forma CYP1A anche nella ghiandola digestiva dei molluschi del genere Mytilus, sebbene non sia ancora stato sequenziato del tutto il suo gene, e quindi non sia possibile identificarlo come membro della sottofamiglia CYP1A: per il mitilo è dunque meglio parlare di CYP1A-like (Wootton et al., 1996). Gli eventi che portano all’induzione di questo enzima da parte di composti xenobiotici sono stati studiati a fondo nei mammiferi (Okey et al., 1994), e questo meccanismo sembra agire in modo simile nei vertebrati e negli invertebrati (Hahn e Karchner, 1995) oltre alle evidenti relazioni immunochimiche che sono state verificate tra le forme del CYP1A in tutti i vertebrati acquatici e terrestri (Stegeman e Hahn, 1994). Nei molluschi l’attività del citocromo P450 risulta essere più elevata nella ghiandola digestiva, ma è tuttavia riscontrabile anche nelle cellule ematiche, 41 nelle branchie, nel piede e nelle gonadi (Livingstone et al., 1989). Diverse analisi hanno evidenziato come il valore dell’attività, seppure presente, sia ben 10 volte più bassa rispetto a quella riscontrata nei mammiferi (Livingstone, 1991). Anche se il funzionamento del sistema delle MFO nei confronti dei contaminanti nei molluschi non è ancora del tutto chiaro, è stata dimostrata l’induzione di un citocromo P450 riconosciuto da anticorpi policlonali epatici di tipo CYP1A1, (ottenuti in Oncorhynchus mykiss), nella ghiandola digestiva di un chitone esposto a β-naftoflavone (Schlenk e Buhler, 1989). In un altro mollusco, (Mytilus galloprovincialis), è stato evidenziato un aumento dell’attività Bap idrossilasi nella ghiandola digestiva, dopo un’esposizione effettuata in condizioni controllate di laboratorio a diversi congeneri di PCB (Livingstone et al., 1997). La caratteristica fondamentale di questo sistema multienzimatico è data dalla sua inducibilità da parte del substrato: infatti, la presenza di composti xenobiotici stimola la sintesi di nuove proteine funzionali. L’induzione rappresenta un segnale qualitativo o semi-quantitativo della presenza di composti xenobiotici, ed è proprio la tendenza dell’enzima ad aumentare in concentrazione sotto esposizione chimica l’aspetto più utile che ne fa un ottimo sistema di biomonitoraggio. 42 1.6.1.1 Meccanismo molecolare di induzione del citocromo P450 L’utilizzo del CYP1A per le analisi di biomonitoraggio consiste nella misurazione dell’incremento di produzione dell’enzima nelle cellule, dopo l’esposizione ad un tossico (inducibilità). Dal punto di vista molecolare, l’induzione del citocromo P450 è mediata attraverso un legame da parte dei composti xenobiotici ad un recettore citosolico arilico (Ah). I ligandi specifici per tale recettore hanno generalmente una configurazione isosterica e sono simili in struttura alla 2,3,7,8- tetraclorodibenzo-p-diossina (2,3,7,8 - TCDD), uno tra i principali induttori del CYP450 (Fig. 1.6.2). Fig. 1.6.2 Struttura della 2,3,7,8- TCDD Il recettore Ah si trova aggregato con altre proteine, che includono una forma dimerica proteica chiamata hsp90 (Coumailleau et al., 1995) e una proteina cSrc tirosina chinasi, chiamata p50 (Enan e Mmatsumura, 1996). Dopo il legame tra il substrato e il gruppo Ah vengono rilasciate le forme proteiche hsp90 e p50. Questo consente al recettore Ah di legarsi ad una proteina transfer nucleare (ARNT) che media il suo ingresso nel nucleo. In questo modo viene attivato un fattore di trascrizione specifico, che va a legarsi a specifiche 43 regioni del DNA, riconosciute come “dioxin-responsive elements” (DREs). Il legame induce la trascrizione di parecchi geni, conosciuti come “Ah-gene battery” e la conseguente sintesi di proteine, incluse quelle del gruppo del CYP450 (Fig. 1.6.3) (Nebert et al., 1993). Fig. 1.6.3 Rappresentazione del meccanismo molecolare di induzione del CYP450 (da Whyte et al., 2000) Una tipica reazione di ossidrilazione catalizzata dal citocromo P450 può essere così schematizzata: Come elettron-donatore, il CYP450 può indifferentemente usare NADH oppure NADPH; i due elettroni devono essere trasferiti al citocromo attraverso una proteina trasportatrice (nel caso dei citocromi microsomiali, una flavoproteina). 44 1.6.1.2 Metodi analitici per misurare l’induzione del citocromo P450 Esistono diverse tecniche che permettono di valutare e quantificare l’induzione del CYP450 (Tab 1.6.1). Tab. 1.6.1 Metodi analitici per valutare l’induzione del CYP450. Tecniche CYP450 catalytic activity: Etossiresorufina-O-dietilasi (EROD) CYP450 messenger RNA (mRNA): Northern blot CYP450 protein: Western blot, ELISA Una tra le tecniche più rapide e più semplici è quella di misurare l’attività di questo enzima basandosi sulla sua capacità di idrolizzare substrati quali etossiresorufina, metossiresorufina e pentossiresorufina, in un prodotto stabile e fluorescente, la resorufina (Fig. 1.6.4). La misura dell’attività catalitica di idrolisi di questi substrati viene chiamata EROD (etossiresorufina-O-dietilasi), MROD (metossiresorufina-O-dietilasi) e PROD (pentossiresorufina-O-dietilasi). 45 Fig 1.6.4 Idrolisi dell’etossiresorufina in resorufina Un’altra metodologia è quella che si basa sulla quantificazione dell’mRNA corrispondente al CYP450, che può essere effettuata con analisi tipo Northern Blot. Il principale vantaggio di tale tecnica è che, a differenza della valutazione dell’attività enzimatica del CYP450, essa non è soggetta all’inibizione causata da composti che vanno ad interferire direttamente sulla capacità catalitica del citocromo. Inoltre, la sua elevata sensibilità è consigliata nel caso in cui si abbiano ridotte quantità di campione sul quale effettuare le analisi (Campbell e Devlin, 1996). Infine, può essere direttamente misurato il contenuto di CYP450 (si quantifica la proteina CYP450), per mezzo di analisi tipo Western Blot ed ELISA, basate sull’utilizzo di anticorpi mono- e policlonali, che in passato hanno anche permesso di evidenziare una stretta relazione tra le forme di CYP450 presenti nei mammiferi e quelle presenti nei pesci (Stegeman e Hahn, 1994). Anche questa metodologia non risente di problemi derivanti da agenti di tipo inibitorio. Le ultime due tecniche hanno il vantaggio di essere estremamente sensibili e precise, ma sono anche più costose e richiedono più tempo per ottenere i risultati: per questa ragione, la misura dell’attività catalitica del CYP450 risulta essere la scelta adeguata per analisi di biomonitoraggio che prevedono l’utilizzo del biomarker (Whyte et al., 2000). 46 1.6.1.3 Fattori che influiscono sull’attività del citocromo P450 Sono state condotte numerose ricerche per cercare di valutare possibili interferenze di tipo chimico, fisico e biologico sull’attività del citocromo P450: la conoscenza di tali fattori può aiutare ad evitare interpretazioni errate dei dati misurati. Sostanze che inducono l’attività: Le classi di contaminanti che presentano una configurazione sterica idonea per potersi legare al recettore Ah sono i composti con dimensioni molecolari di 12 x 14 x 5 Ǻ (Fig. 1.6.5) (Waller e McKinney, 1995). Fig. 1.6.5 Esempio di un potenziale ligando per il recettore Ah. È anche noto che, sebbene la geometria sia uno dei fattori determinanti per il potenziale legame tra il recettore Ah e il composto xenobiotico, numerose altre caratteristiche chimico-fisiche della molecola, come l’idrofobicità, la capacità di accettare elettroni e la polarità sono molto importanti. Inoltre, esistono diversi fattori esterni che possono influenzare la capacità di un composto a indurre l’attività del CYP450, come la sua concentrazione ambientale, la biodisponibilità e la predisposizione alla degradazione (Menkenyan et al., 1996). I 47 policlorobifenili (PCB) e gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) sono le classi di contaminanti che attivano in modo specifico il citocromo P4501A1, oltre alle policloro dibenzo-p-diossine (PCDD) e dei dibenzofurani (PCDF). Sostanze che inibiscono l’attività: Alcuni composti chimici possono inibire l’attività del CYP450 in diversi modi: legandosi al recettore citosolico Ah, e andando in tal modo a competere con lo specifico substrato, oppure alterando la struttura molecolare del recettore stesso. Inoltre alcuni composti ritenuti induttori dell’attività del CYP450 (come i PCB) possono, in condizioni particolari, (come concentrazioni molto elevate, o presenza contemporanea di altri induttori) generare un effetto opposto, di tipo inibitorio (Whyte et al., 2000). Alcuni fattori che possono in qualche modo inibire l’attività del CYP450 possono essere: o Metalli pesanti: la presenza di metalli sembrerebbe inibire l’attività catalitica del CYP450. Probabilmente, il meccanismo di inibizione non è dovuto ad un’azione diretta dei metalli sul recettore Ah o del CYP450, ma piuttosto la presenza di tali contaminanti sembrerebbe interferire con i componenti ad azione riducente del sistema delle monossigenasi. Iniezioni di cadmio effettuate nella regione intraperitoneale di esemplari di passera di mare (Pleuronectes platessa), hanno ridotto la produzione di enzimi CYP450 piuttosto che la sua attività catalitica (George, 1989), mentre l’utilizzo di metalli bivalenti come il rame e il mercurio, legandosi ai gruppi sulfidrilici della molecola del CYP450, ne hanno inibito l’attività catalitica (Viarengo et al., 1997). o Miscele di contaminanti: Studi effettuati in laboratorio su esemplari di trota iridea esposti ad elevate concentrazioni di una miscela costituita da 2,3,7,8-TCDD e PCB 126 (oppure PCB 156) hanno mostrato un’attività del CYP450 significativamente più bassa rispetto a quella rilevata in seguito ad esposizione con il singolo inquinante 2,3,7,8-TCDD (Newsted et al., 1995). È stato ipotizzato che la diminuzione dell’attività catalitica del CYP450 sia associata ad una diminuzione della sintesi 48 dell’enzima attraverso un sistema di regolazione a feed-back negativo. Questo suggerisce che miscele di contaminanti presenti nell’ambiente possano generare effetti non additivi, ma addirittura inibitori. Una inibizione competitiva da substrato è confermata anche da Petrulis e Bunce (1999), che suggeriscono che oltre una certa concentrazione di contaminante i valori di attività del CYP450 diminuiscono sensibilmente. Una spiegazione comune di questa inibizione è la citotossicità dei composti che attivano il CYP450, sebbene alcuni abbiano rifiutato questa ipotesi perché non è stata osservata una perdita di vitalità cellulare anche a livelli molto alti di composti dioxin-like (Rodman et al., 1989, Verhallen et al., 1997). Recentemente, sono molti gli studi che segnalano la possibilità che si tratti di inibizione competitiva da parte del substrato (Besselink et al., 1998): la concentrazione dell’enzima aumenterebbe con la concentrazione dell’induttore, fino a che tutti i siti di legame AhR saranno occupati: a concentrazioni dell’induttore ancora più elevate, esso agirebbe come inibitore del CYP450, riducendo l’attività EROD (ma non la concentrazione dell’enzima) (Petrulis e Bunce, 1999). o Fattori endogeni: Alcuni studi effettuati su invertebrati marini esposti a contaminanti hanno evidenziato un’assenza di attività da parte del CYP450 (James e Little, 1984). Questo problema è stato attribuito alla presenza di inibitori di tipo endogeno, presenti nelle preparazioni microsomiali sulle quali sono state condotte le analisi. La mancanza di attività potrebbe essere attribuibile alla distruzione dell’enzima NADPH-citocromo P450-reduttasi, responsabile del trasporto di elettroni necessario per l’attività del CYP450. (James, 1990), oppure gli inibitori deriverebbero dal tessuto intestinale, o dall’azione di enzimi digestivi dell’organismo stesso sul CYP450 (Valles e Yu, 1996). o Effetti dovuti a fattori biologici: Uno dei fattori che sembra influenzare maggiormente l’attività del CYP450 nei pesci è il periodo riproduttivo. È stato messo in evidenza che l’attività del citocromo P450 rilevata negli esemplari campionati durante il periodo 49 riproduttivo, se paragonata con quella riscontrata in periodo post-riproduttivo, diminuisce fino a 90 volte negli individui femminili e fino a 40 in quelli maschili (Kruner e Westernhagen, 1999). Ciò che genera un abbassamento dell’attività enzimatica così rilevante nelle femmine è la presenza dell’ormone 17-βestradiolo anche se il meccanismo della sua azione sul sistema delle MFO non è ancora ben chiaro: i livelli dell’attività del CYP450 negli individui femminili diminuiscono gradualmente verso il periodo dell’ovulazione, per poi ritornare a livelli normali durante il periodo post-riproduttivo. Questi studi sono stati condotti non solo su vertebrati, ma anche su invertebrati: il periodo riproduttivo influisce nello stesso modo anche nei molluschi, tra cui D. polymorpha (Dauberschmidt et al., 1997). o Temperatura: L’azione della temperatura sull’attività del CYP450 non è ancora del tutto chiarita. Alcuni studi evidenziano come la temperatura possa pesantemente influenzare l’attività del CYP450: l’assunzione dei contaminanti da parte degli organismi acquatici è temperatura-dipendente, con un elevato accumulo a temperature più alte e un lento rilascio dai tessuti a temperature più basse, eventi che possono influire sulla disponibilità dei ligandi per il recettore Ah (Jimenez et al., 1987). Altri studi sembrano mostrare una correlazione negativa tra temperatura ambientale e l’attività enzimatica: questi studi si basano sul fatto che l’effetto della temperatura negli organismi pecilotermi necessita di meccanismi di compensazione per regolare le reazioni enzimatiche che dipendono dalla temperatura; tale meccanismo di compensazione sarebbe determinante anche per l’attività del CYP450, che quindi non risentirebbe di effetti termici ambientali (Whyte et al., 2000). 50 1.6.2 Acetilcolinesterasi (AChE) L’acetilcolinesterasi è un enzima presente nei tessuti nervosi, nei globuli rossi e nel plasma di molti vertebrati, oltre che in diversi invertebrati. La funzione principale dell’acetilcolinesterasi è idrolizzare l’acetilcolina nelle sinapsi colinergiche. L’acetilcolina (ACh) è un neurotrasmettitore, la cui sintesi avviene all’interno dei neuroni presinaptici colinergici, che consiste nel trasferimento di un gruppo acetilico da una molecola di acetil-CoA a una molecola di colina, in una reazione catalizzata dalla colina-acetilcolinatransferasi (ChAT). Una volta formatasi l’ACh viene racchiusa all’interno di vescicole, e trasportata a livello della membrana presinaptica. La depolarizzazione della membrana assonica di questi neuroni provoca l’apertura dei canali per il Ca2+, il cui flusso facilita la fusione delle vescicole sinaptiche con la membrana presinaptica del neurone colinergico, con conseguente rilascio di acetilcolina nello spazio intersinaptico. A livello dei recettori presinaptici il meccanismo di rilascio dell’ACh è regolato tramite feedback negativo, mentre quelli postsinaptici traducono il segnale attraverso una catena metabolica che coinvolge il diacilglicerolo (DAG), l’inositolo-1,4,5-trifosfato e le proteine chinasiche Ca2+ dipendenti (Hamilton, 1997). In condizioni dall’acetilcolinesterasi monodimerico normali (Fig. caratterizzato l’acetilcolina 1.6.6). dalla è rapidamente L’acetilcolinesterasi presenza di un demolita è un enzima sito di legame dell’acetilcolina (sito anionico) che, carico negativamente, attrae l’ammonio quaternario dell’acetilcolina, e di un sito catalitico (sito esterasico) dal quale viene catalizzata l’idrolisi (Nair et al., 1994). Il sito esterasico è composto da una triade catalitica che comprende un’istidina, una serina e un acido glutammico (his440, ser200, glu327) (Fig. 1.6.7). 51 Fig 1.6.6 Struttura tridimensionale dell’acetilcolinesterasi Fig 1.6.7 Schema riassuntivo dei principali siti coinvolti nella catalisi 52 La reazione catalitica può essere suddivisa in due stadi: una trans- esterificazione, con passaggio del gruppo acetile dal substrato al residuo serinico ed una successiva deacetilazione della serina. Il primo stadio della catalisi coinvolge l’attacco del gruppo ossidrilico della serina al carbonile dell’acetilcolina. Per quanto l’ossidrile della serina non sia sufficientemente basico, la reazione procede in quanto il protone della serina (ser200) è accettato dall’azoto imidazolico del residuo di istidina (his440). Il protone, legato al secondo azoto del nucleo imidazolico, passa sull’anione carbossilato del glutammato (glu327). Contemporaneamente, la carica negativa che si forma sull’ossigeno carbonilico della acetilcolina è stabilizzata da ponti di idrogeno con due residui di glicina (gly118 e gly119) e uno di alanina (ala201). Dopo l’attacco dell’ossigeno della serina sul carbonile dell’acetilcolina, la reazione procede con la scissione del complesso tetraedrico. Si libera colina, ma l’enzima rimane acetilato. La reazione si conclude con la deacetilazione dell’enzima causata dall’attacco di una molecola di acqua. Anche lo stadio idrolitico è soggetto a catalisi generale basica (l’azoto basico dell’istidina accetta un protone dell’acqua) e stabilizzazione dell’addotto tetraedrico attraverso legami ad idrogeno. Il rilascio della colina dal sito di legame avviene per una riduzione dell’affinità con l’enzima (Shafferman, 1992). 1.6.2.1 Inibizione Un composto che può legare l’acetilcolinesterasi, rendendola incapace di demolire l’acetilcolina, è denominato “inibitore dell’acetilcolinesterasi,” o “agente anticolinesterasico”. I composti che sono dotati di attività inibente possono essere distinti in reversibili (edrofonio, carbammati) e in irreversibili (organofosfati). In entrambi i casi, le molecole vanno ad occupare il sito attivo dell’enzima, o una regione ad esso adiacente, impedendo l’accesso al substrato naturale o la catalisi. Mentre però nel primo caso non si formano legami covalenti tra il composto inibitore e l’enzima, nel secondo caso l’agente anticolinesterasico, formando un legame fosfoestereo (più stabile di un legame estereo) con la serina della triade catalitica, non può essere idrolizzato in tempi utili e pertanto il sito catalitico viene occupato in modo irreversibile. I composti 53 che sfruttano un tale meccanismo d’azione sono altamente tossici (Sarin, DFP, Tabun, Soman). Il meccanismo d’azione degli inibitori reversibili può essere di due tipi: gli alcoli ammonici quaternari (edrofonio o tensilon) si legano reversibilmente al sito attivo o nei pressi di esso, mediante interazioni elettrostatiche che, essendo labili, permettono al complesso di resistere per un breve periodo (da 2 a 10 minuti), mentre i carbammati carbamilano il sito esterasico dell’enzima. I carbammati, essendo più resistenti degli esteri, vengono idrolizzati lentamente e ciò consente di prolungare l’occupazione del sito per un periodo compreso fra i 30 minuti e le 6 ore. Nell’uomo, i sintomi di un’esposizione ad agenti anticolinesterasici sono, nei casi meno gravi, stanchezza, nausea, vertigini, emicrania e vomito, mentre nei casi più gravi ipotensione (pressione sanguigna anormalmente bassa), spasmi addominali, diarrea, riduzione del battito cardiaco, arresto respiratorio e morte. I tipi e la gravità dei sintomi dipendono da: - tossicità del composto - quantità di insetticida a cui l’organismo è stato esposto - via di esposizione (via cutanea, respiratoria o gastrointestinale) - durata dell’esposizione Gli agenti anticolinesterasici trovano applicazione nel settore agricolo come insetticidi (benomyl, carbedazim, chlorpyrifos), nel settore bellico come gas nervini (tabun, sarin, soman e VX), e diversi impieghi nel settore medico (fisostigmina, demecario ed ecotiopato nella cura del glaucoma, tacrina e aricept nel trattamento sintomatico della miastenia grave e del morbo di Alzheimer). 54 1.6.2.2 Riattivatori Nel caso d’intossicazione da organofosforici, l’unico modo per ripristinare la funzionalità dell’acetilcolinesterasi è somministrare un’ossima (pralidossima, propralidossima, NIMA, trimedossima, obidossima, 2-PAM etc.) (Fig. 1.6.8) che, nel caso in cui il legame fosfoestereo non si sia stabilizzato, può spostare la molecola occupante l’ossidrile serinico, sfruttando una reazione di transesterificazione. Fig 1.6.8 Riattivatori dell’attività acetilcolinesterasica 55 La piridina 2-aldossi metaclorato (2-PAM) (Fig 1.6.9) fa parte di questo gruppo di molecole “riattivatici” dell’attività colinesterasica, fa regredire cioè l’inibizione determinata dagli organofosforati evitando la stabilizzazione del complesso enzima-organofosforato che consiste nella perdita di un gruppo alchilico (Taylor, 1996). Fig. 1.6.9 Formula di struttura del 2-PAM Cl Le ricerche sugli ossimi sono state finalizzate soprattutto al loro utilizzo come antidoti in ambito medico, specialmente per gli organofosforati usati nei conflitti bellici (Moore et al., 1995) e per il meccanismo biochimico di stabilizzazione e riattivazione (Wilson et al., 1992) persino in colture cellulari (Funk et al., 1995). Ci sono però pochi studi di applicazione dell’ossima su animali selvatici (invertebrati, uccelli, mammiferi), sul bestiame e sull’uomo (Karlog e Poulsen, 1963; Martin et al., 1981; Hooper et al., 1989; Lifshitz et al., 1994; McCurdy et al., 1994; Sanchez-Fortun et al., 1996). Il meccanismo di riattivazione è stato utilizzato da Stanley nel 1993 per diagnosticare il tipo di avvelenamento anticolinesterasico verificatosi in uccelli e pesci. Con tali metodi di riattivazione si può potenzialmente confermare se il basso livello di attività colinesterasica è attribuibile a inquinanti o ad altri fattori: nel caso in cui l’intossicazione sia dovuta a organofosforati l’unico modo per riportare i livelli alla normalità è trattare con un ossima (in questo caso il 2-PAM). 56 1.7 Composti chimici In aggiunta alle analisi biochimiche volte alla misura dei biomarker, sono state svolte analisi chimiche che hanno permesso di misurare esattamente le quantità di alcuni composti presenti nei tessuti, sia negli esemplari prelevati in campo, sia in quelli utilizzati in laboratorio, per valutare il tasso di bioaccumulo del composto chimico utilizzato e la relazione esistente con la risposta biochimica. 1.7.1 Organofosforici e carbammati Gli organofosfati (o organofosforici) e i carbammati rappresentano due classi di composti oggi ampiamente utilizzati in agricoltura, che hanno sostituito gli organoclorurati grazie alla loro inferiore persistenza nell’ambiente. Entrambe le classi presentano proprietà inibenti nei confronti del sito esterasico dell’AChE, e di altre esterasi in genere. L’inibizione è di tipo competitivo in quanto questi composti sono in grado di bloccare la degradazione enzimatica dell’acetilcolina. Gravi intossicazioni da parte di organofosforici e carbammati portano a stimolazione continua dei recettori nicotinici e muscarinici (Galloway et al. 2002) che può culminare con la morte dell’individuo, come testimoniato dall’attentato con l’organofosforico Sarin nella metropolitana di Tokyo nel 1995, che uccise 12 persone. o Organofosforici I pesticidi organofosforici sono composti organici contenenti fosforo. L’elevata variabilità strutturale, che si riflette sia sulle proprietà chimico-fisiche che biologiche, ha consentito impieghi diversi di questi composti, permettendo ad alcuni di essi di essere utilizzati come fumiganti, altri come tossici agenti per contatto e ad altri ancora come composti sistemici. Dal punto di vista chimico i composti organofosforici possono essere classificati in relazione agli atomi direttamente legati al fosforo (Parisi, 2002a) in 7 57 diverse classi. La maggior parte dei composti organofosforici ha una bassa volatilità (eccetto il dichlorvos), e viene degradata tramite idrolisi. L’elevata variabilità strutturale di questi composti ha due importanti conseguenze: la prima è la possibilità di selezionare tra gli organofosforici quelli che presentano una certa selettività nei confronti di determinate specie di insetti, dato che la quantità nonché l’attività degli enzimi è specie-specifica; la seconda ha permesso, data la molteplicità dei possibili tipi e posizioni di attacco enzimatico all’interno della molecola di tali pesticidi, di minimizzare il rischio di uno sviluppo uniforme della tolleranza a tutti gli organofosforici nell’ambito delle specie di insetti che devono essere controllate (Parisi, 2002b). La funzione dell’enzima insetticida degli acetilcolinesterasi organofosfati (AChE): il si esplica gruppo tramite fosfato del inibizione composto organofosforico è attratto dal sito esterasico dell’enzima, mentre il resto della molecola si dispone nello spazio nel modo stabilito dalle diverse interazioni che si vengono a creare tra i gruppi laterali degli amminoacidi formanti l’area attiva dell’enzima. Gli organofosfati, fosforilando il gruppo -OH della serina all’interno del sito esterasico, inattivano irreversibilmente l’AChE e, di conseguenza, bloccano la degradazione del neurotrasmettitore acetilcolina. Protraendosi nel tempo, l’aumento della concentrazione intersinaptica di acetilcolina porta, negli insetti, al blocco dell’impulso nervoso con conseguente morte mentre, nei vertebrati, ad un’eccessiva stimolazione dei recettori colinergici in tutti i distretti del sistema nervoso centrale e periferico, che si manifesta come perdita della coordinazione muscolare e convulsioni, fino al sopraggiungere della morte (Parisi, 2002b). La maggior parte dei composti organofosforici non ha un potenziale cancerogeno, eccetto dichlorvos e tetrachlorvinphos che inducono tumori in ratti ed in topi. Per altri prodotti chimici, come il malathion, l’interpretazione dei risultati non ha trovato un accordo generale (IARC, 1983; Huff et al., 1985). Nessuna generalizzazione può invece essere fatta per il potenziale mutageno, in quanto alcuni residui esibiscono attività mutagena, mentre altri non ne possiedono. 58 Alcuni organofosforati, presentano composti in particolare parentali fosforotionati aventi una bassa e o fosforotioltionati, inesistente attività anticolinesterasica diretta, la quale però aumenta notevolmente in seguito al processo di bioattivazione (Maxwell e Lenz, 1992; Ecobichon, 1996). La bioattivazione dei composti organofosfati (OPC) è definita come trasformazione metabolica di un OPC inattivo in un OPC attivo, o conversione di un OPC attivo in un altro composto attivo (Jokanovic, 2001). Tra i composti che devono essere bioattivati per esplicare la loro azione anticolinesterasica, il chlorpyrifos (0,0-dietil 0-3, 5, 6-tricloro-2- piridil fosforotionato) è tra quelli più utilizzati sia in campo agricolo, industriale e domestico (Rake, 1993; Barron e Woodburn, 1995; Gibson et al., 1998). Il chlorpyrifos (Fig. 1.7.1) è un insetticida appartenente alla famiglia dei fosforotionati, con la seguente formula di struttura: 197 100 Cl 97 P N 314 O O S O Cl Cl 50 258 29 109 125 47 286 208 169 65 133 81 153 244 180 276 217 306 349 0 20 40 60 (wiley7) Dursb a n 80 100 120 140 160 180 200 220 240 260 280 300 320 340 360 Fig. 1.7.1: formula di struttura e spettro di massa del chlorpyrifos 59 La bioattivazione di questo composto avviene a livello del fegato, come dimostrato da diversi studi compiuti su ratti e topi, per mezzo di una desulforazione citocromo P450 dipendente. Il chlorpyrifos viene trasformato nel corrispondente analogo-ossidato (chlorpyrifos-oxon) o in desethyl-chlorpyrifos (Fig 1.6.2), che viene rapidamente idrolizzato in TCP (3,5,6-triclor-2-piridinolo) (Ma e Chambers, 1994). Questo processo di degradazione può avvenire anche per via abiotica, sia in ambiente acquatico che terrestre (Rake, 1993). Il Chlorpyrifos-oxon inibisce irreversibilmente l’AChE, secondo i meccanismi precedentemente citati. Recenti studi hanno dimostrato come anche un’esposizione per uso domestico al chlorpyrifos possa rappresentare un grave rischio per la salute (Lemus et al., 1997; Ott e Roberts, 1998; Davis e Ahmed, 1998). Fig. 1.7.2 - Chlorpyrifos e suoi metaboliti 60 o Carbammati I carbammati sono una categoria di composti ampiamente utilizzati in agricoltura, come insetticidi, fungicidi, diserbanti, nematocidi o inibitori del germoglio, oltre che come pesticidi per applicazioni industriali e domestiche (WHO, 1986). (Fig. 1.7.3). Fig. 1.7.3 Formula generale di un carbammato, dove R1 ed R2 possono essere un atomo di idrogeno o un gruppo alchilico e R3 è un gruppo sostituente Possono essere classificati in tre gruppi: • Carbammati insetticidi (R1 è un gruppo metilico) derivati da esteri, sono generalmente stabili ed hanno bassa pressione di vapore e solubilità in acqua • Carbammati diserbanti (R1 e R2 sono parti aromatiche e/o alifatiche) • Carbammati fungicidi (R1 è una parte del benzimidazolo) La sintesi e la commercializzazione di questi composti è iniziata negli anni ’50, tranne per i fungicidi al benzimidazolo, introdotti sul mercato intorno agli anni ‘70. La maggior parte dei carbammati, esclusi i fungicidi, ha attività anticolinesterasica diretta, e non richiede bioattivazione. L’inibizione avviene tramite carbamilazione del gruppo -OH sull’amminoacido serina nel sito esterasico. Questa reazione è di tipo reversibile e la funzionalità enzimatica si riattiva spontaneamente (Thompson, 1999), tramite idrolisi del carbammato da parte dell’enzima stesso (Aldrige e Reiner, 1972; Taylor, 1990) e il tasso di idrolisi delle esterasi è più veloce nei mammiferi che negli insetti. L’instabilità della carbamilazione dell’acetilcolinesterasi rende i composti carbammati meno pericolosi degli organofosforici nei confronti dell’uomo. Il 61 meccanismo principale di metabolizzazione dei carbammati è ossidativo e associato alle monoossigenasi a funzione mista (MFO). Il rischio di contaminazione ambientale da carbammati è limitato in quanto, generalmente, questi composti sono poco persistenti e solitamente i metaboliti sono meno tossici del composto parentale. In condizioni particolari però, come in alcuni laghi canadesi con acque acide, gli amminocarbammati sono risultati piuttosto stabili da essere così accumulati nei diversi livelli trofici (Ecobichon, 1982). Uno dei carbammati più utilizzati è il carbaryl (1-naftilmetilcarbammato) (Fig. 1.7.4), utilizzato per il controllo di oltre 100 specie di insetti su coltivazioni di limone, frutta, cotone e fiori ornamentali, ed anche come molluschicida ed acaricida. Quando presente in acque superficiali, la sua evaporazione è molto bassa, ed ha un’emivita di circa 10 giorni a pH neutro. 144 100 HN O O 50 115 28 57 39 0 51 63 72 89 20 30 40 50 60 70 80 90 100 (wiley7) 1-Na p htha lenol, methylc a rb a ma te (CAS) 201 127 110 120 130 140 150 160 170 180 190 200 210 Fig. 1.7.4: formula di struttura e spettro di massa del carbaryl 62 1.7.2 Idrocarburi policiclici aromatici (IPA) Gli IPA sono un gruppo di composti formati da due o più anelli benzenici uniti fra loro attraverso una coppia di atomi di carbonio condivisi fra anelli condensati. Esistono fonti naturali di IPA che derivano da incendi di foreste, eruzioni vulcaniche e petrolio grezzo, ma la contaminazione ambientale deriva principalmente da fonti antropiche, quali la combustione incompleta di carbone, di olio, di rifiuti industriali e urbani. Sono presenti diversi isomeri all’interno di questa classe di inquinanti (fino a 100) che si trovano nell’ambiente singolarmente o, più comunemente, come miscele complesse. E’ stato osservato che gli IPA con maggiore peso molecolare, come benzo(α)pirene e benzo(α)antracene, sono quelli maggiormente tossici e con elevate proprietà cancerogene. Gli IPA hanno una notevole capacità di bioconcentrare, ma poiché possono essere metabolizzati attraverso gli enzimi della Fase I del metabolismo (Schnitz e O’Connor, 1992), solitamente non raggiungono le concentrazioni attese in base ai normali modelli di bioaccumulo. Per esempio, il benzo(α)pirene (BaP) (Fig. 1.7.5) ha un Log Kow (coefficiente di ripartizione ottanolo/acqua) del valore di 6,23, che suggerisce che dovrebbe bioaccumulare nei pesci come alcuni PCB con un Log Kow simile (Metcalfe e Haffner, 1995). Il fatto di essere metabolizzato dagli enzimi della Fase I fa sì che la quantità realmente trovata nei pesci sia invece inferiore a quella attesa (Spacie et al., 1983). In questo senso la misura dell’attività del citocromo P450 nei pesci è particolarmente adatta per rilevare una possibile esposizione agli IPA, proprio perché i composti parentali potrebbero essere non rilevabili in analisi condotte sui tessuti (Whyte et al., 2000). Le osservazioni sperimentali condotte sugli animali, hanno dimostrato che alcuni IPA possono indurre l’insorgenza di effetti dannosi, tuttavia, il rischio più evidente è la documentata cancerogenicità di alcuni di essi. Tale cancerogenicità è influenzata dalla presenza di altri composti emessi durante le combustioni incomplete, a causa dell’instaurarsi di effetti sinergici o antagonisti 63 252 100 50 126 113 39 0 84 30 40 50 60 70 80 (wiley7) Benzo[a ]p yrene (CAS) 100 224 90 100 110 120 130 140 150 160 170 180 190 200 210 220 230 240 250 260 270 Fig 1.7.5 Formula di struttura e spettro di massa del benzo(α)pirene 64 1.7.3 Policlorodifenili (PCB) I policlorodifenili (PCB), sono una classe di composti chimici aventi un numero variabile di atomi di cloro (da 1 a 10) legati a due anelli fenilici uniti tra loro, come mostrato in figura 1.7.6. Il diverso numero di atomi di cloro (congeneri), o la differente posizione di uno stesso numero di atomi (isomeri) da teoricamente origine a 209 composti. Nell’anello fenilico, le sostituzioni con atomo di cloro possono avvenire in posizione orto (2 - 2’, 5 - 5’), meta (3 - 3’, 1 - 1’) o para (4 - 4’, 6 - 6’). 3 2 2’ 3’ 4 4’ 5 6 6’ 5’ Fig. 1.7.6 Schema generale della struttura del nucleo difenilico In generale i congeneri dei PCB maggiormente tossici sono quelli più clorurati, se si escludono quelli con 8 o più atomi di cloro per molecola, dove la ridotta mobilità all’interno degli organismi ne riduce fortemente la possibilità di raggiungere i diversi bersagli biologici. Oltre al grado di clorazione, la tossicità dipende anche dalla posizione degli atomi di cloro nella molecola del difenile: le sostituzioni in posizione meta e para, in assenza di sostituzioni in orto, possono rendere i composti ancora più tossici. Questi PCB non-orto sostituiti hanno un’elevata probabilità di trovarsi nella condizione in cui i due anelli benzenici si collochino, ruotando, sullo stesso piano e vengono pertanto detti coplanari. I PCB coplanari di particolare rilevanza tossicologica sono tre: il tetraclorobifenile 3,3’, 4,4’, il pentaclorobifenile 3,3’, 4,4’, 5 e l’esaclorobifenile 3,3’, 4,4’, 5,5’ (nomenclatura IUPAC nell’ordine: PCB-77, PCB-126, PCB-169); tali congeneri hanno un atomo di cloro in entrambe le posizioni para, ed almeno uno in posizione meta e nessun atomo di cloro in posizione orto, e 65 risultano essere i più forti induttori del citocromo P450, avendo un’elevata affinità per il recettore Ah (Whyte et al., 2000). I PCB si ottengono dal riscaldamento del difenile in presenza di cloro e ferro, e le prime sintesi risalgono al secondo dopoguerra. La “Monsanto Corporation”, la maggior produttrice di PCB negli U.S.A dal 1930 al 1977, chiama le miscele di PCB con il nome di Aroclor, identificate inoltre da un codice di 4 cifre, in cui i primi due numeri indicano il tipo di miscela e gli ultimi la percentuale in peso di cloro (De Voogt e Brinkman, 1989). Le principali caratteristiche dei PCB sono l’inerzia chimica, poiché resistono all’attacco sia di acidi che di basi, e la stabilità termica, evaporano infatti ad una temperatura superiore agli 800 °C e si decompongono in HCl e CO2 oltre i 1000 °C. Non sono infiammabili né ossidabili, hanno una elevata costante dielettrica, presentano una buona conducibilità al calore e non attaccano i metalli. Grazie a queste peculiarità i PCB hanno avuto notevole impiego industriale, soprattutto nella produzione di condensatori e trasformatori elettrici, sia in sistemi chiusi controllabili che in sistemi aperti dissipativi. La produzione di PCB è vietata negli Stati Uniti dal 1977, in Italia dal 1984 e il loro utilizzo è regolamentato fino dagli anni ’70, ma le loro caratteristiche chimiche li rendono talmente persistenti nell’ambiente che sono presenti ancora oggi, dopo quasi vent’anni dalla sospensione del loro utilizzo. Data la bassa degradabilità biologica e l’alta lipofilicità, i PCB tendono ad accumularsi negli organismi attraverso la rete alimentare, incrementando la concentrazione al crescere del livello trofico. Vengono assorbiti attraverso il tratto gastrointestinale, l’apparato respiratorio, l’epidermide e successivamente si distribuiscono in tutto l’organismo attraverso processi dinamici di scambio tra i tessuti; in particolare si concentrano nei tessuti adiposi. La tossicità dei PCB coplanari è dovuta alla possibilità di assumere una configurazione simile a quella della 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (2,3,7,8-TCDD), considerata il composto più tossico per gli organismi viventi. Questo tipo di configurazione ha un elevata affinità per il recettore citosolico Ah, e il legame che si verifica con composti di questo tipo può causare negli organismi una serie di effetti tossici. Infatti, dopo il legame tra il composto e il 66 recettore Ah viene indotto il sistema delle monossigenasi a funzione mista, con la produzione di mRNA per il CYP1A1 e di altri a risposta pleiotropica, responsabili di svariate manifestazioni tossiche (Fossi, 1998). 1.7.4 pp’ DDT e composti omologhi Il pp’-dicloro-difenil-tricloroetano (Fig. 1.7.7) è il più noto tra gli insetticidi organoclorurati, caratterizzati da anelli aromatici ai quali vengono aggiunti un numero variabile di atomi di cloro, sempre e comunque in numero superiore a tre. E’ ottenuto attraverso la condensazione di due molecole di clorobenzene con un aldeide tricloroacetica, catalizzata da acido solforico a temperature non superiori a 20°C (Mosher et al. 1964). Dal processo si ottiene una miscela composta per circa il 75% dall’isomero pp’ DDT, mentre la restante parte è costituita da un secondo isomero (op’ DDT) e sottoprodotti dovuti a impurità contenute nei reagenti o al successivo trattamento con composti alcalini. 235 100 Cl Cl Cl Cl 73 Cl 165 50 43 36 50 88 82 147 99 93 111 176 199 193 0 212 123 221 30 50 70 90 110 130 150 170 190 210 (wiley7) Benzene, 1,1'-(2,2,2-trichloroethylid ene)b is[4-chloro- (CAS) Fig. 1.7.7 230 246 250 268 281 297 270 290 319 332 310 330 354 350 370 Formula di struttura e spettro di massa del pp’ DDT 67 Attraverso reazioni dovute a biodegradazione primaria si ha la trasformazione della molecola parentale in due diversi metaboliti: il DDE (dicloro-difenildicloroetilene) (Fig. 1.7.8) e il DDD (dicloro-difenil-dicloroetano) (Fig. 1.7.9), che risultano più tossici e stabili rispetto al composto parentale. 235 100 Cl Cl Cl Cl 50 165 199 36 0 75 51 30 50 (wiley7) p ,p '-DDD 88 101 69 70 Fig. 1.7.8 178 90 110 212 248 137 151 123 130 150 284 170 190 210 230 250 270 290 320 310 330 Formula di struttura e spettro di massa del pp’ DDD 68 246 100 50 318 Cl Cl Cl Cl 176 105 123 75 50 87 210 140 281 79 0 50 70 90 110 130 150 170 190 210 (wiley7) Benzene, 1,1'-(d ic hloroethenylid ene)b is[4-c hloro- (CAS) Fig. 1.7.9 230 250 270 290 310 330 Formula di struttura e spettro di massa del pp’ DDE Durante i primi anni Sessanta, si ebbero le prime evidenze degli effetti nocivi del DDT: Ratcliffe (1967-1970) riuscì a dimostrare un assottigliamento dei gusci nelle uova di uccelli causato dall’esposizione a questo composto. La mancanza di adeguate conoscenze frenò tuttavia la risposta delle istituzioni: il DDT fu vietato in Canada solo nel 1970, seguito da USA e Germania nel 1972 e dalla Svezia nel 1975; in Italia il DDT continuò ad essere utilizzato fino al 1978, quando, per usi agricoli, venne vietato; oggi può essere utilizzato ancora in particolari applicazioni, come in floricultura e zootecnia (D.M. 11/10/1978), e prodotto per essere esportato in Paesi dove viene tuttora impiegato. Un esempio sono i Paesi in via di sviluppo, dove è ampiamente sfruttato per la lotta contro la malaria e contro altri insetti parassiti. Il DDT è da considerare ormai un contaminante globale, dato che la sua presenza in aree remote è stata accertata fin dagli anni ’60 e numerosi studi ne hanno evidenziato livelli elevati, soprattutto negli ecosistemi delle aree polari (Bidleman et al., 1990; Calamari et al., 1991; Hinckley et al., 1991). Questo fenomeno può essere spiegato considerando le caratteristiche chimico69 fisiche dei POP (Persistent Organic Pollutant), ai quali il DDT appartiene, e alcune proprietà fisiche e biologiche degli ambienti polari (Wania e Mackay, 1993). L’elevata persistenza e idrofobicità sono responsabili della relativa volatilità di questa sostanza, e fanno sì che evapori nelle regioni temperate e tropicali per poi ricondensare negli ambienti più freddi. Inoltre l’elevato Kow è causa dell’accumulo di DDT nei tessuti lipidici degli organismi; dal momento che nelle regioni artiche e antartiche gli esseri viventi hanno un maggior contenuto di grassi, si ha forte tendenza a fenomeni di bioconcentrazione nelle reti trofiche. Non sono molti gli studi che hanno provato ad investigare eventuali biomarker da esposizione a DDT e congeneri. A causa del suo potenziale effetto xenoestrogeno, la presenza di alcune proteine come le “zona radiata proteins” e la vitellogenina negli individui maschili, potrebbe essere un indice di esposizione a questi composti, almeno nei vertebrati (Arukwe et al., 1998). Un recente studio svolto sul bivalve Macoma nasuta nella Baia di San Francisco (USA) (Werner et al., 2004) ha dimostrato invece come la concentrazione di DDT fosse correlata ad alterazioni istopatologiche, presenza di heat shock proteins (hsp70) e stabilità delle membrane lisosomiali. E’ possibile che la presenza di DDT possa indurre l’attivazione di una sottofamiglia degli enzimi del CYP450, la 2B (Fossi, 1998): la presenza di questa sottofamiglia nei bivalvi è tuttavia ancora da dimostrare. 70 2. MATERIALI E METODI 2. 1 Mantenimento e condizioni di stabulazione Gli esemplari di Dreissena polymorpha utilizzati per i test di laboratorio sono stati prelevati in differenti periodi dell’anno in diversi laghi subalpini italiani e sono stati trasportati in laboratorio all’interno di borse termiche riempite con acqua di lago, in modo da ridurre eventuali fattori di stress. Una volta in laboratorio, i bivalvi sono stati trasferiti in vasche di stabulazione da 50 l, riempite con acqua di rete, e mantenute alla temperatura di 20 °C, a illuminazione naturale e a ossigenazione costante (95%) garantita dalla presenza di aeratori. Queste condizioni sono state mantenute per circa un mese, periodo in cui l’acqua delle vasche è stata cambiata settimanalmente e i bivalvi sono stati nutriti regolarmente con una sospensione algale costituita da Pseudokirchneriella subcapitata. Tale trattamento ha consentito agli organismi di purificarsi dagli inquinanti presenti nell’acqua di lago in modo che le successive esposizioni in laboratorio ai diversi xenobionti non siano falsate da contaminazioni precedenti. L’assenza di contaminanti è stata confermata da analisi gascromatografiche. L’allestimento delle vasche per l’esposizione alle diverse sostanze inquinanti è stato effettuato mediante il prelievo di un sufficiente numero di esemplari dalle vasche di stabulazione, ai quali è stato reciso il bisso con un bisturi, in modo da non danneggiare l’animale: questo procedimento è necessario per favorire una veloce adesione al nuovo substrato. I molluschi così preparati sono stati disposti su lastre di vetro rialzate, dal fondo, poste in vasche della portata di 8 o 12 l, anch’esse di vetro. Questi contenitori, riempiti con acqua di rete e mantenuti a una temperatura di 20 °C, sono state posti su un agitatore magnetico, esposti ad un fotoperiodo naturale (16 h di luce e 8 di buio) mediante una lampada day-light munita di temporizzatore e sottoposti ad aerazione costante (95% circa) tramite aeratore. L’agitatore magnetico aveva come scopo quello di far ruotare un’ancoretta posta sul fondo della vasca, producendo un movimento dell’acqua in modo da favorire la circolazione delle sostanze disciolte in acqua, siano esse inquinanti, nutrienti o ossigeno. Gli 71 organismi sono stati posti su lastre di vetro rialzate perché il movimento dell’acqua generato dalla rotazione dell’ancoretta non fosse troppo violento (Fig. 2.1.1). Gli esemplari di D. polymorpha posti in queste vasche sono stati nutriti quotidianamente con la sospensione algale di P. subcapitata. La vasca è stata mantenuta in queste condizioni per 7 giorni, periodo nel quale i molluschi hanno avuto il tempo di adattarsi e produrre un nuovo bisso con cui aderire al substrato artificiale. Lo stato della vasca è stato controllato quotidianamente e sono stati rimossi gli esemplari che non sono riusciti a sviluppare un bisso (indice di stress), ed eventuali morti che avrebbero potuto alterare la qualità dell’acqua della vasca. In questo modo l’esposizione è stata effettuata con animali i cui parametri basali non sono stati alterati da stress esterni. Fig. 2.1.1: vasca di esposizione 72 2.2 Prove condotte in laboratorio 2.2.1 Influenza della temperatura sulle attività enzimatiche La temperatura è un parametro estremamente variabile sia nel tempo che nello spazio, e potrebbe influenzare le risposte biochimiche degli animali. Tale indagine è stata importante come supporto per lavori di monitoraggio ambientale condotti parallelamente. L’influenza della temperatura è stata valutata sia per l’AChE che per l’attività del CYP450. Circa un centinaio di individui è stato prelevato dalle vasche di stabulazione e trasferito in vasche della portata di 8 litri. La vasca è stata allestita nel modo consueto, ed è stata posta in un frigotermostato in cui sono state raggiunte temperature di da 8 a 30 °C in modo da coprire un ampio intervallo. Dopo una settimana in cui gli animali sono stati mantenuti a 20 °C, in modo da consentirne l’adattamento, la temperatura è stata fatta variare progressivamente di 1 °C al giorno fino al raggiungimento del valore prestabilito, e tale valore è stato poi mantenuto per sette giorni al termine dei quali è stato prelevato il campione da analizzare. L’acqua delle vasche è stata sostituita ad intervalli regolari di 3 giorni con acqua alla stessa temperatura, in modo da eliminare i rifiuti metabolici dei bivalvi. Si è scelto di modificare la temperatura della vasca in modo molto graduale per evitare il rischio ottenere valori falsati da un eventuale shock termico. 2.2.2 Esposizione agli inquinanti Le prove di esposizione alle sostanze inquinanti sono state condotte dopo una settimana in cui gli animali, dopo essere stati prelevati dalle vasche di stabulazione, sono stati mantenuti in condizioni di luce, nutrizione, aerazione e temperatura controllate, in modo da eliminare eventuali fattori di stress e per permettere loro di adattarsi alla nuova vasca. Le misure delle attività del 73 CYP450 e di AChE misurate in tali condizioni controllate sono state assunte come valori basali alla temperatura di 20 °C. A partire da un tempo 0 in cui sono stati prelevati un prefissato numero di individui e analizzati per ottenere i valori di controllo, ogni 24 h è stato cambiato l’intero volume d’acqua presente nella vasca, ed è stata aggiunta una quantità nota di inquinante in modo da ottenere la concentrazione desiderata. Ciò ha permesso di evitare l’impiego delle attrezzature necessarie per allestire esperimenti “in continuo” e contemporaneamente ha garantito un’esposizione costante ad una certa concentrazione di contaminante. Sono state scelte concentrazioni di inquinanti che potessero essere confrontate con situazioni reali. Gli esemplari di D. polymorpha (provenienti dalla vasca di esposizione e da quella di controllo) sono stati prelevati dopo 24, 48, 72 e 96 h. Gli organismi sono stati nutriti un’ora prima del cambio dell’acqua con una quantità di sospensione algale nota (1 ml/l di acqua), per evitare eventuali interferenze della componente algale che avrebbe potuto ridurre la frazione di inquinante biodisponibile, e contemporaneamente per evitare stress dovuti a mancanza di cibo. Gli animali, una volta prelevati dalla vasca sono stati immediatamente posti a una temperatura di –80 °C in attesa delle analisi, per evitare un’eventuale degradazione proteica e per mantenere inalterati i parametri che un periodo di stress da anossia potrebbe modificare. Oltre all’analisi dei biomarker sono state condotte parallelamente anche analisi gascromatografiche, a conferma dell’avvenuta assunzione delle sostanze xenobiotiche da parte dei bivalvi. 74 2.2.3 Esposizione al 2-PAM E’ stata valutata l’efficacia dell’utilizzo della molecola piridina 2-aldossi metaclorato (2-PAM) come detossificante, per contrastare l’inibizione dell’attività acetilcolinesterasica dovuta ad inquinanti (Hansen e Wilson, 1999). Per condurre questo esperimento sono state allestite 2 vasche della portata di 12 litri con all’interno un numero di molluschi stabilito. In entrambe le vasche sono state predisposte le condizioni di stabulazione precedentemente descritte. In seguito, ad una vasca è stata aggiunta una soluzione di Chlorpyrifos Oxon (CPO – un metabolita del Chlopyrifos, responsabile dell’inibizione dell’attività AChE) ottenendo una concentrazione di 100 µg/l in acqua, mentre l’altra vasca è stata mantenuta con le condizioni di stabulazione. Dopo 48 h di esposizione sono stati prelevati da entrambe le vasche 4 gruppi di bivalvi che sono stati posti in 4 diversi contenitori, uno con acqua di rete, gli altri tre contenenti una soluzione con 2-PAM a 100 ng/l, a1 µg/l e a 10 µg/l. Queste condizioni sono state mantenute 1 ora, tempo sufficiente perché il 2-PAM potesse essere assorbito. Dopo un’ora i bivalvi sono stati prelevati e conservati ad una temperatura di -80 °C fino al momento dell’analisi. I valori di AChE ottenuti dagli organismi di controllo sono stati confrontati con quelli degli animali a cui è stato somministrato il CPO per valutare l’efficacia del metodo di riattivazione enzimatica. 75 2.3 Misura dell’attività del citocromo P450 Al momento dell’analisi i bivalvi sono stati scongelati e divisi in 3 gruppi composti da una decina di animali ciascuno, in modo da ottenere circa 1 g di tessuto fresco. La misura dell’attività del citocromo P450 è stata effettuata utilizzando l’MFO Substrate Set (Ikzus, Genova, Italia) che offre il vantaggio di poter lavorare su organismi interi, non solo su estratti epatici: questa rapida e semplice procedura ha permesso di ridurre sensibilmente i tempi di analisi. La conservazione degli organismi a -80 °C e la preparazione del campione, effettuata a 4 °C per evitare una possibile degradazione proteica, sono operazioni molto importanti che, se non eseguite in modo corretto, possono influenzare negativamente la misura dell’attività del CYP450. Ci sono risultati contrastanti per quanto riguarda l’effetto della conservazione del campione a -80 °C: da alcune ricerche emerge come i campioni possano essere conservati a questa temperatura per più di 24 mesi senza mostrare alcuna perdita significativa dell’attività enzimatica (Anulacion et al., 1997); altri hanno evidenziato che l’attività del CYP450 nei campioni di fegato di trota diminuiva del 15% dopo 3 giorni e addirittura del 25% dopo 17 giorni di conservazione (Lindström-Seppä e Hänninen, 1988); inoltre uno studio condotto nel nostro laboratorio recentemente ha mostrato una diminuzione dell’attività del CYP450 del 70% dopo 4 mesi di conservazione a -80 °C. I tessuti molli dei bivalvi sono stati lavati con una soluzione 0,15 M di KCl a 4 °C per eliminare i residui ematici, asciugati dall’eccesso di liquido e pesati; ad ogni grammo di tessuto è stata addizionata una miscela costituita da 0,960 ml di buffer di estrazione (Tris Acetato, pH=7,6) e 40 µl di inibitore di proteasi. Gli enzimi del gruppo delle MFO sono localizzati principalmente nella membrana del reticolo endoplasmatico liscio: le procedure per effettuare il loro isolamento consistono in un’operazione di omogeneizzazione dei tessuti seguita da due cicli di centrifugazione. L’omogeneizzazione (durata circa 60 s), è stata eseguita in ghiaccio con omogeneizzatore per tessuti a lame tipo Ultra Turrax; il protocollo consigliava di omogeneizzare 1 g di tessuto con una volume maggiore di buffer di estrazione (4 ml), ma poiché sono stati utilizzati 76 organismi interi e non epatopancreas, si è preferito concentrare il buffer di estrazione a 1 ml, per evitare diluizioni eccessive che avrebbero portato a sottostimare l’attività enzimatica. Mediante due cicli di centrifugazione della durata di 20 e di 10 minuti a 9690 rpm a 4 °C, è stato ottenuto il surnatante S9 sul quale sono state effettuate tutte le analisi in giornata, poiché è stata osservata una diminuzione dell’attività del CYP450 non trascurabile già dopo 24 h (Kruner e Westernhagen, 1999). La misura dell’attività di questo biomarker si basa sulla capacità del citocromo P450 di convertire substrati quali etossiresorufina, metossiresorufina e pentossiresorufina, attraverso una reazione di idrolisi, in un prodotto stabile e fluorescente, la resorufina. La misura dell’attività catalitica di idrolisi di questi substrati viene rispettivamente chiamata EROD (etossiresorufina-O-dietilasi), MROD (metossiresorufina-O-dietilasi) e PROD (pentossiresorufina-O-dietilasi) ed, è un indice della quantità del CYP450 presente nel campione analizzato. L’attività del citocromo P450 è stata misurata utilizzando 50 µl di surnatante S9, una miscela di reazione composta da 1,85 ml di buffer di reazione (TRIS 100 mM a pH 7,5, NaCl 10 mM), 100 µl di β-NADPH (attivato in una soluzione NaOH 0,020 M) e una quantità nota di substrati quali etossiresorufina, metossiresorufina e pentossiresorufina i quali vengono idrolizzati a resorufina dal citocromo. L’andamento della reazione è stato seguito mediante lettura fluorimetrica (λex = 520, λem = 590), della durata di 40 minuti, monitorando i valori di Unità di Fluorescenza (UFL) ad intervalli di 5 minuti; la misura della fluorescenza corrisponde al totale di resorufina prodotta dalla reazione enzimatica, e quindi all’attività del citocromo P450. Le lunghezze d’onda proposte dal protocollo della Ikzus per i substrati utilizzati in questo lavoro (λex = 530 nm, λem = 585 nm) sono state modificate: sono state applicate quelle proposte nella ricerca condotta da de La Fontaine et al. (2000) (λex = 520 nm, λem = 590 nm), più adatte per il fluorimetro da noi utilizzato. Il valore di UFL per pmole di resorufina (UFL/pmole) è stato determinato a partire dalla curva standard di resorufina preparata precedentemente a partire da concentrazioni note del composto (Fig. 2.3.1). 77 300 y = 1.37x + 0.75 R2 = 0.99 250 UFL 200 150 100 50 0 0 50 100 150 200 pmoli resorufina Fig. 2.3.1 Retta standard resorufina Il calcolo dell’attività EROD, MROD e PROD, normalizzata rispetto al contenuto proteico presente nel campione è stato determinato con la seguente formula: Attività CYP450 = (∆UFL/min) (UFL/pmole)-1 (mg proteine)-1 78 2.4 Misura dell’attività ChE La metodica adottata per misurare l’attività AChE è quella di Ellman et al. (1961), con alcune modifiche riguardanti la conservazione del surnatante S10, per avere una degradazione proteica minore. La metodica originale consigliava, infatti, di conservare il campione a -20 °C, ma è stato osservato che, dopo 24h, si aveva una degradazione proteica superiore rispetto ad una conservazione a 4 °C. Infine, considerato che, dopo 48h, anche quest’ultima modalità determinava una degradazione proteica non trascurabile (15%), si è ritenuto opportuno svolgere l’analisi in due giorni (Binelli et al., 2003a). Il primo giorno i bivalvi sono state scongelati e suddivisi in 3 gruppi di almeno 10 animali ciascuno, al fine di ottenere almeno 2 grammi di tessuto. I tessuti molli sono stati lavati più volte in una soluzione 0,15 M di KCl a 4 °C, asciugati dall’eccesso di liquido e pesati. Ogni grammo di tessuto è stato omogeneizzato, mediante un omogeneizzatore di tessuti Ultra-Turrax, con 2 ml di buffer di estrazione (soluzione salina a pH 7,6, contenente Triton X-100 e Tris-HCl) e la soluzione così ottenuta è stata centrifugata a 10000 rpm per 20 minuti a 4 °C. Una volta separato dal pellet, il surnatante S10 è stato ulteriormente centrifugato a 10000 rpm per 10 minuti, riseparato dal nuovo pellet formatosi e conservato a 4 °C per una notte. La seconda centrifugazione è stata adottata dopo aver notato che la lettura procedeva più linearmente. Il secondo giorno è stata misurata l’attività enzimatica incubando 50 µl di S10 per 23 minuti a 23 °C con 920 µl di buffer di reazione contenente acido 5,5’ – ditiobis-(2-nitrobenzoico) (DTNB), utilizzato per il dosaggio dei gruppi –SH secondo il metodo di Sedlack e Lindsay (1968): il DNTB è ridotto dai gruppi – SH formando acido 2-nitro-mercaptobenzoico (TNB2-), con assorbanza massima a 412 nm. Terminata l’incubazione, sono stati aggiunti 30 µl di substrato (acetiltiocolina) ed è stata eseguita l’analisi spettrofotometrica, monitorando l’assorbanza ogni minuto per 6 minuti, tempo necessario per misurare l’attività enzimatica. Ogni gruppo è stato misurato in triplo. 79 Per ottenere una misura accurata dell’attività acetilcolinesterasica, è stata valutata, volta per volta, l’autoidrolisi del substrato, tramite l’aggiunta di 920 µl di buffer di reazione e 30 µl di substrato a 50 µl di buffer di estrazione. Il calcolo dell’attività avviene tramite la seguente formula: AChE (nmolmin-1/ mg proteine) = (True∆ODmin-1mg-1) / 0,0141OD nmol-1 True ∆OD=[(Afin-Ainiz / 5) – Asub]*ε mg proteine dove 0,0141 è il coefficiente di estinzione del TNB2- a 412 nm, Afin, Ainiz e Asub sono rispettivamente l’assorbanza finale, iniziale e del substrato; OD è la densità ottica, ε è la concentrazione delle proteine e densità ottica sottratto dall’interferenza True ∆OD è la differenza di dell’autoidrolisi del substrato.. Quest’ultimo parametro viene utilizzato per normalizzare il risultato ottenuto, al fine di evitare un errore dovuto alle diverse concentrazioni proteiche dei diversi campioni. 2.5 Dosaggio delle proteine La determinazione delle proteine è stata eseguita con il metodo del Blue di Comassie (Bradford, 1976), utilizzando come standard albumina serica bovina (BSA). Il Blue di Comassie (CBBG) è un colorante che passa da una forma cationica della soluzione madre (assorbanza massima a 470 nm) ad una forma anionica (assorbanza massima a 595 nm) una volta legato a specifici residui aminoacidici. La diretta proporzionalità che lega concentrazione del CBBG in forma anionica alla concentrazione proteica permette una valutazione semplice e rapida della quantità di proteine, rilevabili tramite un aumento di assorbanza a 595 nm. Per ottenere un corretto dosaggio proteico, la BSA deve avere la stessa composizione chimica del campione, e per questo motivo gli standard 80 vengono addizionati di una quantità di tampone pari al volume di campione utilizzato per la valutazione della concentrazione delle proteine. Il bianco è stato preparato addizionando a 2,4 ml di soluzione di Comassie (1:10) 90 µl di acqua bidistillata e 5 µl di buffer di estrazione. Gli standard invece contenevano 2,4 ml di soluzione di Comassie 1:10, 5 µl di buffer d’estrazione, acqua bidistillata fino ad un volume di 100 µl e BSA 1mg/ml a diversi volumi (10 – 20 – 30 – 40 – 50 – 60 – 70 – 80 – 90 µl). Sono stati letti i valori standard contro bianco a 595 nm, lunghezza d’onda alla quale il Blu di Comassie presenta il massimo di assorbanza poiché lega le proteine in modo proporzionale alla loro concentrazione, liberando in ambiente acido una tipica colorazione blu. Con i valori ottenuti è stata costruita una retta di taratura standard (Fig. 2.5.1) che in ordinata presenta i valori di assorbanza a 595 nm ABS 595 nm e in ascissa i valori di concentrazione delle proteine standard. 1 0.9 0.8 0.7 0.6 0.5 0.4 0.3 0.2 0.1 0 y = 0,01x + 0,16 R2 = 0,99 0 10 20 30 40 50 60 70 Concentrazione proteine Fig. 2.5.1 Retta di taratura standard delle proteine. Il saggio proteico dei campioni è stato eseguito in doppio: a 2,4 ml di soluzione di Comassie sono stati addizionati 90 µl di acqua bidistillata e 5 µl del campione stesso, la lettura dell’assorbanza è avvenuta contro il bianco a 595 nm. Utilizzando il valore medio ottenuto e la retta di taratura è stata ottenuta la concentrazione delle proteine nei 5 µl di S9 utilizzati. 81 2.6 Analisi gascromatografica La determinazione quantitativa delle sostanze bioaccumulate da D. polymorpha nel periodo di esposizione è stata ottenuta mediante analisi gascromatografica. Il gascromatografo è uno strumento utilizzato per valutare la presenza e l’eventuale concentrazione di alcuni inquinanti organici in base ai diversi tempi di ritenzione. I tempi di ritenzione dipendono dalle caratteristiche chimicofisiche delle molecole di studio. Il processo cromatografico ha come scopo la separazione ordinata delle diverse sostanze contenute in una miscela, sfruttando le proprietà che ogni composto ha di distribuirsi fra due fasi immiscibili. Indipendentemente dal tipo di tecnica utilizzata, gli elementi coinvolti in tale processo di separazione sono costituiti da: • miscela dei composti da analizzare; • fase mobile (gas di trasporto) che attraversa unidirezionalmente la colonna di separazione e rappresenta la forza motrice che consente l’avanzamento delle sostanze; • fase stazionaria fissa che contrasta il movimento dei soluti e rende possibile la loro separazione interagendo in maniera diversa con i vari composti. Le tecniche analitiche utilizzate per l’estrazione dei diversi composti utilizzati sono ampiamente descritte in letteratura (Lazar et al., 1992; Galassi et al., 1997; Provini et al., 1997; Binelli et al., 2004 a,b). 82 2.7 Area di monitoraggio I due biomarker sviluppati sono stati utilizzati per una campagna di monitoraggio svolta nel mese di maggio 2003, che ha interessato tutti i grandi laghi subalpini (Garda, Maggiore, Como, Iseo, Lugano) (Fig. 2.7.1). La scelta dei siti di campionamento è stata pianificata per rappresentare le varie realtà ambientali dei corpi idrici: infatti questi laghi possono essere suddivisi in zone con caratteristiche diverse, sia dal punto di vista morfometrico che da quello del grado di antropizzazione (Tab 2.7.1). Tab. 2.7.1 Tabella con le principali caratteristiche morfometriche e idrologiche dei laghi subalpini. PARAMETRI GARDA MAGGIORE COMO ISEO LUGANO ALTITUDINE (m s.l.m.) 65 193,85 198 186 271 AREA (Km2) 367,94 212,51 145,9 61,8 48,9 VOLUME (Km3) 49 37,5 22,5 7,6 6,5 PROF. MAX. (m) 350 370 410 251 288 PROF. MEDIA (m) 133,3 177,5 154 123 134 AREA BACINO IMBRIFERO (Km2) 2260 6599 4509 1736 565,6 TEMPO TEORICO DI RICAMBIO (anni) 26,8 4 4,5 4,1 15 POPOLAZIONE RESIDENTE NEL BACINO (unità) 170000 677000 483000 180000 147000 83 Fig.2.7.1: I grandi laghi subalpini e i punti di campionamento (in rosso) 84 2.7.1 Lago di Garda Il Lago di Garda (Benaco) si allunga in direzione NE-SW per 51,5 Km e raggiunge una larghezza massima di 17,5 Km nella parte meridionale dove si aprono i due golfi di Desenzano e di Peschiera. La morfologia del fondo è caratterizzata da una dorsale subacquea che collega la penisola di Sirmione con la punta di San Vigilio, dando luogo a due bacini, dei quali quello orientale è il meno vasto e profondo. Il Garda, fra tutti i laghi subalpini, è quello che ha il più elevato tempo teorico di ricambio, e ciò lo pone in condizioni di particolare sensibilità e vulnerabilità agli inquinanti di origine antropica. Ad una popolazione residente complessiva di sole 175˙000 unità si aggiunge un notevole flusso di turisti durante l’anno: la maggior parte del carico inquinante che interessa il Lago di Garda ha quindi origine civile, ed è per questo motivo che il bacino è stato dotato di un collettore circumlacuale con un unico impianto di depurazione a Peschiera. I siti di campionamento scelti per il Lago di Garda sono stati Limone, Desenzano e Peschiera: il primo rappresenta la situazione del tratto vallivo poco abitato del Benaco, caratterizzata da un’agricoltura a base di olive e limoni, mentre Peschiera e Desenzano sono rappresentativi di quella dell’area pedemontana del bacino lacustre, caratterizzato da una maggiore antropizzazione e industrializzazione (sono presenti industrie meccaniche, navali, alimentari, tessili e della ceramica). Inoltre, mentre Peschiera è situata in prossimità dell’emissario, Desenzano si trova in una baia chiusa dove il ricambio delle acque è più lento rispetto a quello che si verifica nelle altre località. 2.7.2 Lago Maggiore Occupa un solco tettonico sovraescavato dall’erosione da parte dei ghiacciai discendenti lungo le valli del Ticino e del Toce avvenuta nel Quaternario. Si allunga per 65 Km in direzione NE-SW e presenta il massimo sviluppo in territorio italiano dove funge da confine tra la provincia di Novara (Piemonte) e 85 Varese (Lombardia). Solo l’estremo settore settentrionale (42 Km2) appartiene alla Svizzera (Cantone Ticino). Il bacino imbrifero è molto esteso, comprendendo le valli dei Fiumi Ticino e Toce (principali immissari) oltre alla valle del Torrente Maggia; riceve anche le acque del Lago di Lugano tramite il Fiume Tresa, del Lago d’Orta tramite il Fiume Strona, del Lago di Varese tramite il Fiume Bardello e del Lago di Mergozzo. Unico emissario è il Fiume Ticino, che esce dal lago presso Sesto Calende. Il Lago Maggiore e il suo bacino drenante, per le loro stesse dimensioni, costituiscono un sistema di difficile gestione. Il suo bacino imbrifero, infatti, occupa un territorio di 6600 Km2, suddiviso tra Piemonte (35%), Lombardia (14%) e la Svizzera (51%), e contiene importanti centri urbani (come Lugano, Varese, Verbania, Domodossola ed Arona), nonché aree industriali che comprendono aziende chimiche, tessili e elettrogalvaniche, attività a forte rischio ambientale che possono essere potenziali sorgenti inquinanti per le acque del lago. Il Lago Maggiore è interessato dal 1996 da un forte inquinamento da DDT, originato da un insediamento industriale posto a Pieve Vergonte, che tramite il Rio Marmazza ha scaricato nel fiume Toce notevoli quantità di tale composto e di suoi metaboliti, che hanno contaminato l’intera Baia di Pallanza e, seppur in quantità inferiore, anche tutto il resto del Lago. Per questo motivo, la Commissione Italo-Svizzera per la protezione delle acque (CIPAIS) (CIPAIS, 2003) ha progettato un monitoraggio su larga scala per valutare gli effetti di questa contaminazione sull’ecosistema lacustre All’interno di questo programma di biomonitoraggio, sono stati campionati 14 punti lungo tutto il perimetro (Brissago e Magadino in Svizzera, Cannobio, Giona e Luino nella zona settentrionale italiana; Intra, Caldè, Pallanza, Laveno, Baveno e Stresa nel bacino centrale; Brebbia, Ranco e Arona nella zona meridionale), e l’approccio dei biomarker ha permesso di monitorare la presenza di altri composti, come gli organofosforati e alcune classi di composti planari, non compresi nel programma organizzato dal CIPAIS. 86 Una recente analisi che aveva lo scopo di rilevare la presenza di metalli nei grandi laghi subalpini utilizzando come bioaccumulatore il bivalve D. polymorpha, ha messo in luce come il Lago Maggiore presentasse anche le concentrazioni più elevate per quasi tutti i metalli presi in considerazione rispetto agli altri laghi (Camusso et al., 2001). Inoltre, i valori misurati sono di gran lunga più elevati rispetto a quelli riscontrati in altri laghi europei e nei grandi laghi del nord America (Tab. 2.7.2). Tab. 2.7.2 Confronto tra le concentrazioni dei metalli misurate nei tessuti di D. polymorpha nel Lago Maggiore, nel Lago Oneida (USA) e nel Lago Leman (CH). (µg g-1 di peso secco). Da Camusso et al., 2001, modificato. Cd Lago Maggiore Hg Cr Cu Ni 3,42-3,61 5,24-6,51 0,15-0,16 4,31-5,27 24,3-25,7 17,6-18,4 Oneida Lake (USA) Lake Leman (CH) 2.7.3 Pb 0,68 1,03 0,8-4,5 0,5-1,2 0,05 1,55 4,6 1-4 22-50 4,2 Zn 317-372 99,4 120-140 Lago di Como Occupa un’antica valle plasmata dal ghiacciaio abduano, che è chiusa a sud da ondulazioni moreniche e ha una caratteristica forma a Y rovesciata, originatasi per la divergenza verso sud-ovest e sud-est della lingua glaciale, ostacolata nel suo cammino verso sud dal monte San Primo (1685 m). Esso risulta così composto da tre rami: il ramo di Colico (a nord, alto lago), il ramo di Como (bacino occidentale, che risulta un sistema particolarmente chiuso a causa dell’assenza di un emissario) e il ramo di Lecco (bacino orientale). I tre bacini risultano caratterizzati da tempi di residenza delle acque molto diversi: - Bacino Settentrionale : 5,6-8,7 anni - Bacino Occidentale : 8,3- 30 anni 87 - Bacino Orientale : 3,6-6,4 anni Riceve le acque di una quarantina di immissari tra cui il più importante è il fiume Adda che porta le acque della Valtellina e che è anche l’emissario nel ramo di Lecco. Il bacino occidentale, entro il quale è situata la città di Como, è l’area più popolata e industrializzata dell’intero lago: la popolazione civile è il 48,8% del totale, mentre la popolazione industriale corrisponde al 77,5% (Chiaudani e Premazzi, 1993). Inoltre secondo un’analisi riguardante la concentrazione di PCB nei sedimenti dei laghi subalpini, i valori riscontrati nel bacino occidentale del Lago di Como sono risultati i più alti in assoluto (Provini et al., 1995). Nel bacino orientale e nell’alto lago risiedono rispettivamente solo il 14% e l’8,5% della popolazione industriale totale. Nell’alto lago, a fronte di una popolazione residente di poco superiore al 19% di quella totale, è presente un notevole flusso turistico pari a più del 50% delle presenze turistiche totali che interessano l’intero lago e ciò fa sì che nei periodi di punta in questo bacino la popolazione civile risulti più che triplicata rispetto a quella residente. Il bacino orientale e occidentale risultano invece decisamente meno interessati dal fenomeno del turismo. Alla base di queste considerazioni sono state scelte come stazioni di campionamento Domaso nel bacino settentrionale, Argegno nel bacino occidentale e Lecco nel bacino orientale. 2.7.4 Lago d’Iseo Occupa il fondo di una valle prealpina che rappresenta la continuazione della Valle Camonica, ed è sbarrato a sud dalle morene deposte dal ghiacciaio quaternario del fiume Oglio durante le sue fasi di ritiro. Appartiene idrogeograficamente al bacino del fiume Oglio, che è il suo principale immissario ed emissario. Sono state scelte 2 stazioni, Costa Volpino a nord e Predore a sud, situate in aree che si differenziano per il diverso grado di sviluppo industriale (maggiore a sud con industrie siderurgiche, nautiche e cementifici) e per il fatto di essere 88 localizzate in prossimità dell’immissario (Costa Volpino) e dell’emissario (Predore). Il Lago d’Iseo è situato in una zona geografica con un’elevata densità di popolazione e ricca di industrie metallurgiche la maggior parte delle quali sono situate in Valle Camonica, a nord del bacino lacustre. Costa Volpino si trova vicino all’immissario (il Fiume Oglio) che, prima di entrare nel lago, attraversa la Valle Camonica e porta elevate quantità di sostanza organica (Premazzi et al., 1998) e probabilmente è anche responsabile delle elevate concentrazioni di metalli rilevate in questa zona (Camusso et al., 2001). 2.7.5 Lago di Lugano Il lago giace in una valle originata dall’erosione fluviale nel periodo Terziario, plasmata successivamente dai ghiacci dei fiumi Adda e Ticino durante l’ultimo periodo glaciale. Il Lago di Lugano e il suo bacino giacciono solo parzialmente in territorio italiano: 31 Km2 della superficie del lago (pari al 63%) sono in Italia, così come 365 Km2 del bacino imbrifero. Ha una forma articolata e presenta 2 bacini principali, con caratteristiche morfologiche e idrologiche diverse (Tab. 5.7.3), che determinano diverse qualità delle acque. Tab. 2.7.3 Caratteristiche morfometriche e idrologiche dei bacini del Lago di Lugano. Caratteristiche Morfometriche idrologiche INTERO BACINO BACINO NORD BACINO SUD 565,6 269,7 295,9 48,9 27,5 21,4 Volume (Km3) 6,5 4,7 1,8 Prof. media (m) 134 171 85 Prof. Max (m) 288 288 89 Tempo di ricambio (anni) 8,2 11,9 2,3 Area bacino imbrifero (Km2) Area superficie (Km2) 89 Come siti di campionamento, per il bacino settentrionale sono state scelte Porlezza (che rappresenta la zona nord-orientale a valenza per lo più turistica) e Pojana, che risente dell’influenza della città di Lugano, altamente antropizzata e industrializzata (industrie alimentari, tessili e del tabacco). Per il sottobacino meridionale è stata scelta Brusimpiano, che si trova in prossimità dell’unico emissario, il fiume Tresa. Secondo uno studio condotto utilizzando D. polymorpha per rilevare la contaminazione da metalli nei grandi laghi subalpini (Camusso et al., 2001), le concentrazioni dei metalli rilevata nei molluschi campionati a Pojana e a Brusimpiano sono risultate molto più alte rispetto a quelle riscontrate a Porlezza che è la zona meno popolata e meno industrializzata del lago. 90 3 RISULTATI E DISCUSSIONE Il disegno sperimentale ha previsto 3 diverse fasi. Inizialmente sono state messe a punto le metodiche di analisi per la misura dell’attività AChE e per quella del CYP450, in quanto in letteratura erano presenti pochissimi dati sul loro utilizzo in D. polymorpha. E’ quindi stato necessario trovare i substrati ottimali e le concentrazioni più adatte. Una seconda fase è stata dedicata all’analisi dell’influenza di alcuni parametri biotici ed abiotici (in particolare la temperatura) sulle diverse attività enzimatiche. Sono stati quindi eseguiti diversi test di esposizione di D. polymorpha a contaminanti di diverso tipo, per verificare l’influenza di questi inquinanti sulle attività enzimatiche misurate. Sulla base dei risultati ottenuti nei test in laboratorio, è stata infine effettuata una vasta campagna di monitoraggio che ha interessato tutti i principali laghi subalpini italiani. 3.1 Sviluppo delle metodiche di analisi 3.1.1 Misura dell’attività AChE Per comprendere quale substrato per la misura dell’attività colinesterasica fosse ottimale in D. polymorpha, sono stati utilizzati dei molluschi prelevati nel Lago Maggiore e mantenuti in condizioni di stabulazione per 45 giorni, in modo da eliminare gli eventuali contaminanti presenti nei tessuti. Sono stati testati tre diversi substrati: acetiltiocolina (ATC), butirriltiocolina (BTC) e propioniltiocolina (PTC), utilizzati a diverse concentrazioni (da 0,5 a 10 mM). La figura 3.1.1 dimostra come il substrato acetilico (ATC) sia quello che possiede la maggiore affinità per l’enzima presente in D. polymorpha, mentre sia BTC che PTC sembrano non essere in grado di legarsi all’enzima stesso (Fig. 3.1.1). 91 attività enzimatica 6 5 4 ATC 3 2 1 BTC 0 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 mM di substrato Fig. 3.1.1: andamento dell’attività ChE in D. polymorpha utilizzando due diversi substrati: acetiltiocolina (ATC) e butirriltiocolina (BTC). Il terzo substrato (propioniltiocolina) non ha mostrato nessuna affinità con l’enzima. La curva concentrazione/attività ricavata ha un massimo dell’attività in corrispondenza di una concentrazione di 5 mM. A concentrazioni superiori, è stato misurato un calo dell’attività AChE: questa diminuzione è stata attribuita ad un’inibizione da substrato, come riportato in molti casi in letteratura (Mora et al., 1999b; de la Torre et al., 2002; Yerushalmi e Cohen, 2002). Sembra infatti che questo enzima possieda un secondo sito catalitico meno affine al substrato acetilico, ma che se occupato può diminuire l’efficienza catalitica dell’enzima stesso. L’acetiltiocolina in D. polymorpha è risultata quindi il substrato ottimale, come nel caso di altri bivalvi come il mitilo (Mytilus galloprovincialis e M. edulis) (Mora et al., 1999a; Talesa et al., 2001), l’ostrica (Crassostrea gigas Bocquenè et al., 1997 e Ostrea edulis - Valbonesi et al., 2003) e Elliptio complanata (Varela e Augspurger, 1996). La propioniltiocolina è risultata invece il substrato migliore nel caso del bivalve d’acqua dolce Curbicula fluminea (Mora et al., 1999b). 92 3.1.2 Misura dell’attività del CYP450 L’attività del citocromo P450 è stata misurata utilizzando tre diversi tipi di substrati: etossirosorufina (attività EROD), metossiresorufina (attività MROD) pentossiresorufina (attività PROD). Cinque diversi pool di esemplari, di lunghezza media simile, sono stati analizzati contemporaneamente utilizzando i tre diversi substrati, e i risultati sono mostrati in figura 3.1.2. 2 pmol/min mg prot. 1.8 1.6 1.4 1.2 1 0.8 0.6 0.4 0.2 0 A B EROD C D MROD PROD E Fig. 3.1.2: attività EROD, MROD e PROD misurata in 5 pool di esemplari di D. polymorpha Il substrato dimostratosi più affine al CYP450 presente in D. polymorpha è quindi l’etossiresorufina (EROD). Tuttavia, poiché è possibile che i diversi substrati siano affini a diverse sottofamiglie del CYP450, è stato deciso di utilizzarli tutti durante le analisi effettuate. Tuttavia, durante indagini preliminari effettuate in laboratorio, è stato osservato che l’attività PROD non subiva alcuna variazione quando il mollusco è stato esposto a diverse classi di contaminanti: di conseguenza, e stato scelto di utilizzare soltanto i due substrato EROD e MROD sia per le prove di esposizione in laboratorio che per la campagna di monitoraggio in campo. 93 In letteratura, su D. polymorpha viene riportato solamente l’utilizzo dell’attività EROD (De Lafontaine et al., 2000), sebbene non vengano segnalate prove con altri tipi di substrato. 3.1.3 Effetto del tempo di conservazione dei campioni I campioni d analizzare sono sempre stati conservato ad una temperatura di -80 °C, valore ritenuto sufficiente per evitare una degradazione proteica che avrebbe potuto alterare le misurazioni dell’attività enzimatica. In letteratura sono riportati dati contrastanti a proposito del tempo massimo di conservazione del campione a –80 °C: alcuni studi evidenziano come campioni conservati fino a 24 mesi a –80 °C non mostrino variazioni delle attività enzimatiche del CYP450 (Anulacion et al., 1997), mentre altri indicano come si abbia una diminuzione del 25% nell’attività del CYP450 già dopo 17 giorni (Lindström-Seppä e Hänninen, 1998). Visto che il protocollo di analisi da noi utilizzato suggeriva un tempo massimo di conservazione di 4 mesi, sono stati analizzati i contenuti proteici di due campioni di D. polymorpha, prelevati in due diversi siti, subito dopo il prelievo e dopo 4 mesi di conservazione a –80 °C. I risultati sono mostrati nella tabella 3.1.1. Tab. 3.1.1: variazioni nel contenuto proteico per due campioni di D. polymorpha prelevati in due siti del Lago di Lugano e mantenuti a –80 °C per 4 mesi Contenuto proteico (mg / ml) Campione 1 (Pojana) Campione 2 (Brusimpiano) Decremento T=0 T=4 mesi (%) 20,6 10,0 51,4 26,5 17,1 35,5 94 I risultati hanno evidenziato come dopo 4 mesi di conservazione i campioni abbiano subito un considerevole decremento della concentrazione proteica. Contemporanee misure dell’attività EROD eseguite sugli stessi campioni hanno mostrato una diminuzione del 46 e del 70% rispettivamente, indicando quindi come sia necessario effettuare le analisi entro breve periodo dopo la raccolta degli esemplari, al fine di non sottostimare l’attività enzimatica presente negli organismi. 3.2 Effetto della temperatura sulle attività enzimatiche 3.2.1 Influenza sull’attività del CYP 450 Di seguito sono mostrati i parametri morfologici e i valori dell’attività del citocromo P450 ottenuti in seguito all’esposizione di gruppi di molluschi mantenuti a diverse temperature (8 °C, 15 °C, 20 °C e 25 °C), come precedentemente descritto. L’attività EROD e l’attività MROD mostrano un valore minimo a 8 °C, rispettivamente 1,06 ±0,15 pmoli/min*mg prot. e 0,87 ±0,02 pmoli/min*mg prot, mentre l’attività massima risulta essere quella del campione mantenuto a 15 °C per l’EROD e quello a 25 °C per la MROD (Tabella 3.2.1). Nonostante non sia stato possibile reperire riferimenti bibliografici su studi condotti su molluschi, diversi lavori effettuati sui pesci hanno dimostrato come la temperatura dell’acqua possa influenzare notevolmente l’induzione del CYP450. Infatti, l’accumulo e il rilascio dei contaminanti, anche quelli direttamente coinvolti nell’induzione dell’enzima come PCB e IPA, sono fenomeni strettamente collegati alla temperatura ambientale (Jimenez et al., 1987). In generale questi studi dimostrano come nei pesci esista una correlazione negativa tra l’attività EROD e la temperatura (Sleiderink et al., 95 1995; Sleiderink e Boom, 1996), anche se altri autori hanno al contrario dimostrato un’elevata induzione dell’attività enzimatica in seguito ad esposizione ad elevate temperature (Jimenez e Burtis, 1989; Haasch et al., 1993). In alcuni studi, sempre su diverse specie ittiche, è stata evidenziata una correlazione tra la temperatura dell’acqua, nell’intervallo 7,7 - 19,4 °C e la concentrazione di PCB. Entrambi mostrano un effetto inducente sull’attività EROD, ma il contributo della temperatura sembra essere maggiore rispetto a quello dovuto alla presenza di PCB (Whyte et al., 2000). I dati relativi alle nostre analisi condotte su D. polymorpha non mostrano differenze statisticamente significative nell’intervallo di temperatura tra i 15 e i 25 °C per entrambi i substrati, EROD e MROD, mentre a temperature inferiori (8 °C), l’attività è risultata statisticamente minore (ANOVA, Tukey HSD test, p<0,05) a causa probabilmente di un rallentamento metabolico conseguente alle basse temperature (Tab. 3.2.1). Poiché nei nostri corpi idrici temperature così basse si raggiungono solo nei mesi tardo-invernali, una campagna di monitoraggio eseguita durante i mesi primaverili non dovrebbe risentire degli effetti della temperatura sull’attività enzimatica. Ulteriori studi saranno, comunque, necessari per definire l’intervallo di temperatura ottimale per il prelievo degli organismi da utilizzare per le analisi, e per chiarire come la temperatura influenzi l’accumulo di inquinanti, e quindi la variazione dell’attività enzimatica. 96 Tabella 3.2.1 Lunghezza media (cm), contenuto proteico (mg/ml) e attività EROD e MROD espresse in pmoli/min/mg di proteine degli esemplari di D. polymorpha mantenuti a diverse temperature (8 °C, 15 °C, 20 °C e 25 °C). TEMPERATURA (°C) Lunghezza Contenuto Media proteico Attività EROD Attività MROD (pmoli/min/mg prot.) (pmoli/min/mg prot.) (cm) ± D.S (mg/ml) 8 2,1 (±0,3) 18,7 (±1,5) 1,06 (± 0,15) 0,87 (± 0,02) 15 2,1 (±0,2) 20,5 (±3,2) 1,62 (± 0,24) 1,12 (± 0,05) 20 2,1 (±0,1) 8,8 (±0,8) 1,43 (± 0,33) 1,08 (± 0,31) 25 2,0 (±0,3) 8,5 1,45 (± 0,28) 1,36 (± 0,06) 3.2.2 Influenza sull’attività AChE Nella tabella 3.2.2 sono riportati i parametri morfometrici, il contenuto proteico e l’attività acetilcolinesterasica di gruppi di esemplari di D. polymorpha posti a diverse temperature. Inizialmente è stato fatto uno screening su un’ampia scala di temperature, considerando 4 intervalli, gli stessi scelti per l’analisi dell’attività EROD (8 °C, 15 °C, 20 °C e 25 °C). In seguito, poiché i risultati ottenuti con l’esperimento iniziale mostravano una certa influenza di questo parametro sull’attività acetilcolinesterasica, è stato deciso di coprire un intervallo di temperatura maggiore (fino ai 30 °C). Il valore più elevato è stato misurato nel campione mantenuto a 20 °C (3,04 ± 0,45 nmoli/min*mg prot.), gli esemplari mantenuti a temperature più basse e molto più alte presentano, invece, un’evidente inibizione dell’attività: a 30 °C l’inibizione è del 72%, mentre a 8 °C corrisponde al 43%. 97 Tabella 3.2.2 Lunghezza media (cm) e contenuto proteico (mg/ml) dei bivalvi mantenuti alle diverse temperature. TEMPERATURA Lunghezza Media Contenuto proteico (cm) ± D.S (mg/ml) (°C) N° gruppi analizzati 7 6 1,9 (± 0,3) 8,33 (± 1,9) 8 3 2,0 (± 0,3) 11,6 (± 0,4) 10 3 1,8 (± 0,2) 4,53 (± 1,2) 11 3 2,1 (± 0,4) 8,53 (± 0,1) 15 5 2,1 (± 0,3) 4,67 (± 1,0) 17 3 1,9 (± 0,2) 5,4 (± 0,5) 18 5 2,0 (± 0,3) 9,6 (± 0,4) 20 14 1,9 (± 0,2) 7,7 (± 1,4) 22 2 1,8 (±0,1) 4,8 25 6 2,1 (±0,3) 6,13 (±1,0) 28 2 1,8 (±0,2) 3,87 30 3 1,9 (±0,2) 7,93 (±1,0) 98 AChE (nmol/min mg prot.) 4 3.5 3 2.5 2 1.5 1 0.5 0 5 10 15 20 25 30 35 Temperatura (°C) Fig. 3.2.1 Andamento dell’attività AChE in D. polymorpha in relazione alla temperatura. I dati ottenuti dall’esposizione dei bivalvi a diverse temperature (Fig. 3.2.1) mostrano una stretta correlazione tra l’attività AChE e questo parametro abiotico (ρ di Spearman = 0,73; p<0,01), almeno fino a circa 20 °C. Al di sopra di questo valore, probabilmente per l’insorgenza di stress termici dovuti al raggiungimento dei limiti dell’intervallo di tolleranza per D. polymorpha (Noordhuis et al., 1992), i valori di attività AChE sono risultati significativamente inferiori (ANOVA, Tukey HSD test, p<0,05). L’andamento del grafico mostra la presenza di un intervallo ottimale di temperatura, tra i 18 e 20 °C, prima e dopo il quale è evidente un’inibizione dei valori di attività. A livello molecolare, le variazioni di temperatura possono influenzare direttamente gli enzimi, modificandone la cinetica fino a giungere, nel caso di considerato), temperature elevate all’inattivazione per (che variano a denaturazione. seconda Il dell’enzima rapporto attività AChE/temperatura da 7 °C a 20 °C ci ha permesso di ottenere una relazione matematica con la quale calcolare il valore massimo di attività AChE per una certa temperatura: in questo modo è possibile confrontare il dato misurato in campo con quello, teorico, dell’attività massima corrispondente alla temperatura di prelievo. 99 La relazione trovata, valida per temperature comprese tra 7 e 20 °C è la seguente: AChEt = 0,98 + 0.10 * TEMP (dove AChEt è l’attività massima ottenibile alla temperatura TEMP, in °C). Anche in questo caso sono disponibili pochi e controversi dati relativi all’influenza della temperatura sull’attività enzimatica: alcuni studi eseguiti sui pesci identificano in questo parametro il principale responsabile delle fluttuazioni stagionali dell’attività dell’enzima (Boquenè e Galgani, 1991; Kirby et al., 2000). Altri condotti da Mora et al. (1999b) sul mitilo Mytilus galloprovincialis e la vongola asiatica Corbicula fluminea hanno mostrato come l’attività AChE raggiunga i valori massimi nell’intervallo tra i 38 °C e i 45 °C, mentre ricerche effettuate sul polichete Nereis diversicolor (Scamps e Borot, 1999) e sulle larve di Crassostrea gigas (Damiens et al., 2003) non evidenziano alcun effetto determinato dalla temperatura sull’attività acetilcolinesterasica. Di conseguenza è possibile dedurre che l’influenza della temperatura sull’attività enzimatica sia altamente specie-specifica. Nel caso di D. polymorpha è necessario considerare la temperatura dei punti in cui vengono prelevati gli organismi, in modo da eliminare la componente determinata dallo stress termico. Quindi, per poter confrontare siti differenti, sarà necessario campionare in punti con temperature simili o, nel caso questo non sia possibile, utilizzare la relazione ottenuta tra temperatura e attività enzimatica sopra descritta. 3.3 Analisi dei controlli stabulati Uno dei principali problemi da affrontare nell’utilizzo dei biomarker è la difficoltà nel reperire dei siti o dei valori di controllo che possano essere utilizzati per il confronto con organismi esposti ai diversi xenobiotici. Tale confronto è necessario per capire se i valori di attività enzimatica misurati 100 siano indice di una perturbazione dovuta alla presenza di tossici nell’ambiente o, più semplicemente, siano dovuti a normali fluttuazioni dei parametri biologici di un organismo. Alcuni studi hanno considerato come attività basale quella fornita da organismi campionati in siti ritenuti “non contaminati”: tale approccio è però di difficile attuazione vista la difficoltà di ritrovare siti realmente non inquinati da composti organici. Fenomeni di trasporto a lunga distanza degli inquinanti potrebbero infatti portare questi composti anche a grande distanza dal luogo di emissione: molti POP (composti organici persistenti), grazie alla loro persistenza, sono stati ritrovati anche in zone remote come i Poli (Barrie et al., 1992) e zone montuose come la catena dell’Himalaya. Nella nostra ricerca, vista l’impossibilità di reperire siti non contaminati nei bacini lacustri e mancando in letteratura dei dati di riferimento, la scelta è stata quella di prelevare alcune decine di esemplari di D. polymorpha e di lasciarli in stabulazione per 30 giorni circa in condizioni controllate. L’avvenuta depurazione è stata controllata analiticamente mediante tecniche gascromatografiche, che hanno confermato la scomparsa della maggior parte dei contaminanti presenti in origine. In condizioni di questo tipo è plausibile che si sia potuta misurare l’attività basale del CYP450 e AChE nel mollusco utilizzato, mantenuto in condizioni di laboratorio ideali. Si può ipotizzare che tali valori siano i valori più bassi che si possano ottenere, indicativi della risposta basale ottenibile in questo bivalve almeno in condizioni controllate di laboratorio. I valori misurati ci sono serviti come riferimento per interpretare quelli ottenuti negli esemplari prelevati nei grandi laghi. Nella tabella 3.3.1 sono riportati i principali parametri morfometrici e fisiologici degli organismi stabulati utilizzati come controlli per l’attività del CYP450, ottenuti a 20 °C; nella 3.3.2 sono invece riportati quelli relativi all’attività AChE. 101 Tabella 3.3.1 Lunghezza media, contenuto proteico medio ed attività EROD/MROD degli esemplari di D. polymorpha utilizzati come controlli a 20 °C. n CONTROLLI Lunghezza Media (cm) ± D.S. EROD Contenuto (pmoli/min/mg proteico (mg/ml) prot.) MROD (pmoli/min/mg prot.) 1 30 2,1 (± 0,3) 9,9 1,70 1,33 2 30 2,2 (± 0,4) 7,3 1,60 1,46 3 30 2,2 (± 0,2) 8,6 1,72 1,17 4 30 1,9 (± 0,3) 8,2 1,56 0,72 5 30 2,0 (± 0,4) 8,7 1,35 0,79 6 30 2,0 (± 0,2) 9,0 1,56 1,34 7 30 2,0 (± 0,3) 9,5 1,38 0,90 8 30 1,9 (± 0,2) 9,2 0,64 0,68 9 30 2,1 (± 0,2) 8,9 1,38 1,38 Media ± D.S. 30 2,0 (± 0,1) 8,8 (± 0,8) 1,43 (± 0,33) 1,08 (± 0,31) Tabella 3.3.2: Parametri morfometrici e valori dell’attività AChE per i controlli analizzati CONTROLLI n Lunghezza Media Contenuto proteico Attività AChE (cm) ± D.S. (mg/ml) (nmoli/min*mg) 1 30 1,7 (± 0,3) 7,4 2,90 2 30 1,6 (± 0,2) 6,5 3,21 3 30 1,7 (± 0,2) 6,9 2,79 4 30 2,0 (± 0,3) 6,7 3,40 5 30 2,0 (± 0,2) 10,3 3,09 6 30 1,9 (± 0,3) 7,1 2,85 7 30 2,1 (± 0,3) 9,2 2,65 Media ± D.S 30 1,9 (± 0,2) 7,7 (± 1,4) 2,98 (± 0,26) 102 Sono stati utilizzati, in entrambi i casi, organismi con lunghezza della conchiglia molto omogenea, per essere sicuri di considerare individui di età simile e quindi con un’attività metabolica confrontabile. Inoltre i valori proteici contenuti in un intervallo molto ristretto di valori (7,3 - 9,9 mg/ml per il CYP450; 6,5 – 10,3 mg/ml per l’AChE) testimoniano un buon mantenimento delle condizioni di stabulazione ed una mancanza di stress legati alle condizioni di mantenimento. L’attività del citocromo P450 è stata misurata utilizzando due substrati diversi: etossiresorufina (attività EROD) e metossiresorufina (attività MROD). Sono stati analizzati 9 gruppi di animali, costituiti da 10 individui ciascuno, e i risultati sono riportati in tabella 3.3.1. I valori delle attività enzimatiche sono stati normalizzati rispetto ai valori proteici (pmoli/min*mg proteine) così come riportato in bibliografia (de Lafontaine et al., 2000; Lange, 1999; Brown et al., 2002; Quabius et al., 2002), in modo da ottenere valori confrontabili tra loro. L’attività enzimatica del CYP450 più elevata è stata ottenuta fornendo etossiresorufina come substrato (attività EROD), con un valore minimo di 0,64 pmoli/min/mg prot. ed uno massimo di 1,70 pmoli/min*mg prot. (valore medio di 1,43 ± 0,33 pmoli/min*mg prot.). L’attività MROD ha presentato un valore minimo di 0,68 pmoli/min*mg prot. ed uno massimo di 1,46 pmoli/min*mg prot. con una media di 1,08 ± 0,31 pmoli/min*mg prot. Tale attività è risultata mediamente del 25% inferiore rispetto a quella EROD, indicando una minore affinità di tale substrato con le famiglie del CYP450 presenti in questo bivalve. I valori di controllo dell’AChE misurati variano da un minimo di 2,65 nmoli/min*mg proteine ad un massimo di 3,40 nmoli/min*mg proteine (Tab 3.3.2). Il fatto di avere utilizzato condizioni di mantenimento ottimali e di aver raggiunto, probabilmente, il livello basale dell’attività AChE è confermato dalla ridotta differenza (22%) tra il valore minimo e quello massimo misurato nei 7 gruppi di controllo. L’attività del citocromo P450 è stata rilevata in più di 150 specie di pesci (che rappresentano più di 10 famiglie) e in numerose specie di invertebrati, acquatici e terrestri (Snyder et al., 2000). La maggior parte di questi studi è 103 stata eseguita con l’intento di determinare se le specie prese in esame potessero essere adatte come “organismi-sentinella” in programmi di biomonitoraggio basati sull’utilizzo di biomarker, e in particolare sull’induzione del citocromo P450. Dagli studi fin qui effettuati emerge come il fattore chiave nella scelta di un organismo-sentinella in programmi di questo tipo non sia essenzialmente l’induzione del CYP450, ma piuttosto la sua attività basale (dovuta a fattori endogeni), e una differenza facilmente identificabile tra la stessa attività basale e la sua induzione dovuta all’esposizione a composti xenobiotici (Whyte al., et 2000). Per questo motivo, una corretta determinazione dell’attività basale del CYP450 in organismi di diverse specie, e soprattutto dei fattori che la possono influenzare, necessita di indagini più approfondite. È emersa inoltre una notevole differenza tra le attività basali del CYP450 misurate in organismi appartenenti sia alla stessa specie che a specie diverse: l’attività basale del CYP450 misurata in studi che hanno considerato la carpa come organismo-sentinella, per esempio, varia da 0 a 4600 pmoli/min*mg proteine (Ahokas et al., 1994, Schlenk et al., 1996), mentre ricerche eseguite sul pesce Catostomus commersoni hanno rilevato un’attività basale costantemente inferiore a 10 pmoli/min*mg proteine (Servos et al., 1994, Gagnon et al., 1995). Le cause di tale variabilità intra- e interspecifica sono numerose, correlate alla biologia e fisiologia della specie stessa, alle caratteristiche ambientali e anche alla metodologia d’analisi utilizzata per rilevare l’attività enzimatica del CYP450 (Whyte et al., 2000). Per tutti questi motivi una corretta determinazione dell’attività basale del CYP450 negli organismi considerati (e soprattutto dei fattori che la possono influenzare) necessita sicuramente di studi maggiori rispetto ai dati disponibili in bibliografia, essendo il fattore che sta alla base di un’esatta interpretazione dell’induzione del CYP450. 104 3.4 Esposizione ai contaminanti Nelle prove di esposizione ai contaminanti sono state utilizzate alcune classi di composti presenti nell’ambiente e potenzialmente pericolosi per gli ecosistemi. La comprensione degli effetti dei singoli composti sugli organismi è il primo passo da effettuare nello sviluppo di tecniche di monitoraggio basate sui biomarker, anche se in campo è molto più comune la presenza di più inquinanti in miscela. Tuttavia, la comprensione degli effetti dei singoli composti è necessaria per poter capire eventuali effetti sinergici o antagonisti tra diversi composti. Sono stati utilizzati composti che, da analisi della letteratura esistente, si riteneva potessero avere un effetto sui biomarker da noi utilizzati: i PCB sull’attività del CYP450, organofosforati (Chlorpyrifos) e carbammati (Carbaryl) sull’attività AChE. Un riassunto delle prove condotte è rappresentato in tabella 3.4.1. Tab. 3.4.1: Prove di esposizione condotte in laboratorio (in verde i test per l’AChE, in giallo per l’EROD) INQUINANTE CONCENTRAZIONE DURATA ESPOSIZIONE miscela di PCB (Arochlor 1260) 100 ng/l 96 h PCB congenere No126 100 ng/l 96 h PCB congenere No153 10 ng/l 96 h Chlorpyrifos 10 µg/l 96 h Chlorpyrifos e Terbutilazina 10 µg/l+10 µg/l 96 h 268 h Carbaryl 100 ng/l 96 h Chlorpyrifos-oxon e 2-PAM 10 µg/l+ 100 ng/l – 1 µg/l – 10 µg/l 48 h (prova riattivazione AChE) 105 3.4.1 Effetti dei PCB sull’attività del CYP450 Miscela Arochlor 1260 (100 ng/l) Molti studi, la maggior parte dei quali condotti su vertebrati ed in particolare su quelli acquatici, hanno indagato la capacità dei PCB di indurre un’attività detossificante mediata dal citocromo P450. Proprio per la carenza di informazioni su invertebrati, e soprattutto su D. polymorpha, tale ricerca ha preso in considerazione la sua risposta all’esposizione a PCB, tenuto anche conto del fatto che i dati bibliografici indicano chiaramente come l’induzione dell’attività EROD sia altamente specie-specifica, almeno per quanto riguarda le diverse famiglie del CYP450 (Whyte et al., 2000). Per valutare l’induzione del CYP450 in D. polymorpha da parte di una miscela di policlorodifenili è stata utilizzata la miscela commerciale Arochlor 1260 (100 ng/l), la miscela commerciale più utilizzata in Italia fino al 1988, anno del suo divieto di utilizzo nei sistemi aperti. Precedenti ricerche svolte dal nostro gruppo (Provini et al., 1995; Binelli et al., 2004a) hanno, inoltre, messo in evidenza che l’impronta di contaminazione da PCB in Italia è rappresentata da Aroclor 1260 e 1254 in percentuale del 65 e 35% rispettivamente. Nella tabella 3.4.1 sono mostrate le lunghezze, il contenuto proteico e la il bioaccumulo dei contaminanti nei tessuti degli organismi utilizzati in questo esperimento. Grazie alle analisi gascromatografiche è stato verificato che l’accumulo dei PCB nei lipidi dei bivalvi sia aumentato progressivamente, da un valore minimo riscontrato nel campione prelevato a 24 h di 52 ng/g lipidi fino a un massimo nel campione prelevato a 96 h di 285 ng/g lipidi (Fig. 3.4.2). 106 Tabella 3.4.2: Parametri morfologici, concentrazione delle proteine (in concentrazioni di Arochlor 1260 (espresse in ng/g lipidi) negli organismi esposti. mg/ml) Lunghezza media Contenuto proteico (mg/ml) Concentrazione di PCB 24 h 2,0 (±0,3) 8,1 168,3 48 h 2,0 (±0,3) 8,7 (±1,0) 280,2 72 h 1,9 (±0,3) 9,5 (±0,9) 285,2 96 h 2,0 (±0,3) 7,3 575,2 CAMPIONE ± D.S. (cm) ± D.S. e (ng/g lip.) Nell’esperimento di esposizione alla miscela di PCB i valori di attività più alta per tutti i substrati (EROD e MROD) sono stati riscontrati nei campioni prelevati a 48 h, momento in cui tali valori hanno subito un incremento di circa il 60% rispetto ai valori più bassi trovati a 24 h, paragonabili ai controlli (Fig. 3.4.1). 700 5 4.5 600 500 3.5 3 400 2.5 300 2 1.5 ng/g lip. Attività(pmol/min mg prot) 4 200 1 100 0.5 0 0 0 24 48 72 96 Tempo (h) Accumulo EROD MROD Fig. 3.4.1: Andamento dell’attività EROD e MROD (espressi in pmoli/min/mg di proteine) in relazione alla concentrazione di PCB (Arochlor 1260) espressa in ng/g lipidi. I risultati di tale esposizione mostrano un un andamento dei valori di bioaccumulo che aumenta nelle prime 48 h per poi rimanere costante 107 nell’intervallo tra le 48 e le 72 h e subire un ulteriore incremento nelle 24 h successive (Fig. 3.4.1). L’analisi gascromatografica dei tessuti molli dei bivalvi esposti ha seguito l’andamento dell’attività enzimatica misurata: le concentrazioni di PCB molto simili misurate nei campioni a 48 e 72 h potrebbero essere state determinate dall’azione del citocromo che, dopo la sua induzione avvenuta nelle prime 24 h, trasforma i composti organoclorurati in idrossi-PCB, metaboliti più tossici dei composti parentali, ma non più rilevabili mediante l’approccio analitico seguito. Dopo 72 h l’accumulo dei PCB riprende, probabilmente a seguito del raggiungimento dell’attività massima del CYP450 che non riesce più a trasformare rapidamente i PCB nei rispettivi metaboliti. Questa ipotesi viene confermata dall’andamento dell’attività dei due substrati testati, EROD e MROD, che ricalcano perfettamente l’andamento seguito dai valori di bioaccumulo, mostrando una ottima correlazione (R=0,99; p<0,01) (Fig. 3.4.1). Anche se la miscela commerciale utilizzata non presenta i tre congeneri coplanari, sono comunque presenti altri congeneri “dioxin-like” (Van den Berg, 1998), quali i PCB 105, 118, 156, 157, 167, 189, che potrebbero essere in grado di attivare l’attività del CYP450, anche se in misura minore rispetto ai coplanari veri e propri. D’altra parte, in bibliografia, esistono esperimenti che confermano anche nel salmerino artico Salvelinus alpinus (Jorgensen et al., 1999) un’attivazione dell’attività CYP450 da parte di questa stessa miscela di Aroclor 1260. Così come per le diossine e i furani, la capacità dei PCB di indurre una risposta EROD dipende dall’affinità che la struttura dei singoli congeneri ha con il recettore citosolico arilico (Ah). I congeneri planari (non-ortho PCB), non sostituiti cioè con atomi di Cl in posizione 4 e 4’, e con almeno un Cl in posizione 3, formano un legame molto stretto con il recettore arilico. L’assenza di sostituenti in posizione ortho porta ad una struttura planare degli anelli fenilici e ad uno stato energetico minore (McKinney e Singh, 1981; Tsuzuki e Tanabe, 1991). La struttura planare è un requisito fondamentale per il legame con il recettore arilico e infatti, nei pesci, i congeneri planari mostrano una potenziale attività inducente dell’EROD (Metcalfe e Haffner, 1995). I congeneri coplanari più importanti sono: il PCB 77 (3,3’,4,4’-tetraclorodifenile), il PBC 108 126 (3,3’,4,4’,5-pentaclorodifenile) e il PCB 169 (3,3’,4,4’,5,5’- esaclorodifenile). Questi congeneri presentano una tossicità simile a quella della 2,3,7,8 TCDD (tetraclorodibenzodiossina), e per questo sono costantemente monitorati nell’ambiente (Metcalfe, 1994). Al contrario i congeneri di PCB sostituiti in posizione ortho (es: PCB 105, 118, 138, 156) sono meno affini al recettore Ah rispetto ai non-ortho sostituiti (Safe, 1990), provocando una bassa induzione dell’attività EROD (Newsted et al., 1995; Van den Berg et al., 1998). In alcuni studi è stato proposto che i congeneri monoortho sostituiti provocano una debole attività EROD in specie come la trota iridea (Oncorhynchus mykiss), la carpa comune (Cyprinus carpio) e la passera di mare europea (Platichthys flesus). Gli uccelli e i mammiferi, in contrasto con i pesci, mostrano una risposta maggiore ai mono-ortho-sostituiti (Van den Berg et al., 1998), a testimonianza del fatto che l’induzione enzimatica è altamente specie-specifica. Nei primi studi reperibili in letteratura è stata misurata la reazione del citocromo P450 alle miscele di PCB commerciali. La miscela più utilizzata per questo tipo di indagini è stata l’Arochlor 1254 (54% Cl) (Livingstone et al., 1997) che ha dimostrato di provocare una stimolazione dell’attività enzimatica sia nella trota iridea (Oncorhynchus mykiss) che nella carpa comune (Cyprinus carpio) (Melancon e Lech, 1983), oltre che nel bivalve Mytilus galloprovincialis (Livingstone et al., 1997), probabilmente a causa della presenza, anche se in basse percentuali, di alcuni congeneri coplanari. Le altre miscele sono state invece trascurate sebbene la loro potenziale capacità induttiva sia stata più volte dimostrata (Elcombe e Lech, 1978; Elcombe e Lech, 1979; Focardi et al., 1995). In seguito a questi studi, il passo successivo è stato quello di indagare la reazione ai singoli congeneri, poiché è stato osservato che la composizione delle miscele dei PCB nei tessuti dei pesci non rispettavano i rapporti esistenti nelle miscele commerciali standard (Schwartz et al., 1987). Inoltre, le caratteristiche dei congeneri di PCB nei tessuti dei pesci presentano variazioni dovute a differenti modalità di bioaccumulo e ai diversi processi legati al metabolismo e all’escrezione (Oliver e Niimi,1988). 109 Esposizione a singoli congeneri Per stabilire se l’attività CYP 450 sia stimolata da tutti i congeneri di PCB presenti nella miscela o solamente da quelli con una struttura coplanare (dioxin-like PCB) sono stati effettuati due saggi diversi: il primo utilizzando il congenere più frequente nella miscela rilevata negli ecosistemi acquatici italiani (PCB 153), il secondo esponendo il bivalve al PCB coplanare 126. o PCB-153 (10 ng/l) Nella tabella 3.4.3 è mostrata l’attività del CYP 450 in animali esposti al PCB153, un congenere non dioxin-like. Purtroppo, a causa di alcuni problemi analitici, non è stato possibile ottenere la deviazione standard per molti dei campioni. L’attività EROD massima è stata misurata nel campione prelevato a 72 h (1,36 pmoli/min/mg prot.), ed è maggiore del 44% rispetto al valore minimo del campione a 24 h (0,76 pmoli/min/mg prot). Tabella 3.4.3 Parametri morfometrici e contenuto proteico (in mg/ml) negli organismi esposti a PCB-153 Lunghezza media (cm) ± Contenuto proteico 24 h 2,0 (± 0,2) 8,06 48 h 2,0 (± 0,3) 10,26 72 h 1,9 (± 0,2) 9,28 96 h 1,9 (± 0,2) 9,20 CAMPIONI D.S. (mg/ml) 110 pmoli/min/mg prot. 2 1.5 1 0.5 0 0 24 48 72 96 Tempo (h) EROD Figura 3.4.2: Andamento dell’attività EROD in esemplari di D. polymorpha esposti a PCB 153 (10 ng/l) per 96 h. I risultati ottenuti mostrano un andamento piuttosto lineare dell’attività EROD. (Fig. 3.4.2). Il basso numero di repliche non consente di fare considerazioni sulla significatività di tale andamento, tuttavia, questi dati preliminari sembrano indicare che l’attività EROD non venga indotta dalla presenza di un congenere non dioxin-like. In letteratura è riportato come l’esposizione a PCB153 provochi addirittura una inibizione dell’attività EROD nella trota iridea (Vodicnik et al., 1981) e nella passera di mare Platichthys flesus (Besselink 1998), dati che sembrano confermare i risultati da noi ottenuti. o PCB-126 I risultati ottenuti con un’esposizione al PCB 126 (Tabella 3.4.4), a concentrazione di 100 ng/l, mostrano un valore massimo di attività EROD dopo 48 ore di esposizione, con un aumento dell’87% rispetto alla media dei controlli. E’ stato scelto di misurare soltanto l’attività EROD perché, come già visto nel caso dell’esposizione ad Arochlor 1260, i valori di queste attività sono strettamente correlati tra loro. Il bioaccumulo, misurato contemporaneamente mediante analisi gascromatografica, ha mostrato un incremento esponenziale, 111 con un massimo di quasi 2500 ng/g lip. dopo 96 ore di esposizione. I nostri dati hanno rivelato come un’attivazione statisticamente significativa sia stata raggiunta dopo 48 h di esposizione (Student t-test, p<0.01), mentre nei giorni successivi tale attività è tornata uguale ai valori di controllo (Fig. 3.4.3). Al contrario, i valori di bioaccumulo hanno mostrato un trend crescente durante tutti i giorni di esposizione, con un andamento lineare durante le prime 72 h, per poi subire un notevole incremento nell’ultimo giorno. Tab. 3.4.4: lunghezza e contenuto proteico misurati durante i 5 giorni di esposizione e concentrazione di PCB-126 nei tessuti di D. polymorpha Lunghezza Media Contenuto Proteico Esposti Contenuto Proteico Controlli (mg/ml) ± D.S. Concentrazione PCB 126 (ng/g lip.) 0h 1,96 ± 0,24 7,9 ± 1,4 7,9 ± 1,4 0 24 h 2,09 ± 0,32 8,5 ± 1,9 10,1 ± 2,4 143 48 h 2,23 ± 0,24 7,8 ± 1,4 8,2 ± 1,9 445 72 h 2,12 ± 0,29 9,5 ± 2,2 9,9 ± 1,4 775 96 h 1,92 ± 0,27 7,5 ± 1,1 9,3 ± 0,3 2496 (cm) ± D.S. (mg/ml) ± D.S. 3000 1.40 2500 1.00 2000 0.80 1500 0.60 ng/g lip. EROD (pmol/min mg) 1.20 1000 0.40 500 0.20 0.00 0 T0 T24 Accumulo T48 Controllo T72 T96 PCB126 Fig. 3.4.3: andamento dell’attività EROD e del bioaccumulo in seguito ad esposizione a PCB126 112 Come noto, un’attivazione dell’attività EROD è indice che l’organismo ha attivato le misure di detossificazione. E’ possibile però che, in presenza di concentrazioni molto elevate di composti tossici, tale attività non riesca a far fronte alla presenza degli inquinanti. In uno studio di Newsted et al. (1995) è stato dimostrato che trote iridee esposte contemporaneamente a 2,3,7,8-TCDD e PCB-126 mostravano attività EROD più bassa rispetto a quelle esposte ai singoli contaminanti. E’ stato ipotizzato che la capacità catalitica più bassa del CYP450 fosse associata ad una riduzione della sintesi dell’enzima, oppure ad un fenomeno di feedback negativo. Una bassa attività EROD ad alte dosi di PCB-126 è stata misurata anche nel pesce gatto (Ictalurus punctatus) (Rice e Schlenk, 1995), anche se non accompagnata da una diminuzione nella concentrazione di CYP450, misurata con tecniche di Western Blot. Esperimenti in vitro condotti su epatociti di ratto hanno confermato un’inibizione competitiva del CYP1A1 da parte di composti dioxin-like (Petrulis e Bunce, 1999), che può portare alla sottostima dell’esposizione ad altri più potenti induttori. Questa situazione potrebbe essere dovuta specialmente a composti che hanno una relativamente bassa affinità per il recettore AhR, come i PCB non-planari. E’ possibile quindi che l’inibizione dell’attività EROD abbia causato nei nostri esemplari un aumento notevole nell’accumulo del PCB, che quindi ha raggiunto i valori più elevati, essendosi interrotto il meccanismo di detossificazione. Analisi precedenti svolte nel nostro laboratorio, utilizzando lo stesso composto a concentrazioni inferiori (10 ng/l), hanno mostrato una lieve attivazione dell’attività EROD dopo 72 h di esposizione: è possibile però che i valori di bioaccumulo raggiunti in tale esperimento non fossero sufficientemente alti da causare una inibizione del CYP450. In conclusione policlorodifenili è possibile inducano ipotizzare una risposta che anche metabolica in D. come polymorpha tentativo i di detossificazione mediato da proteine della famiglia del CYP450. Tale risposta risulta essere dipendente dal congenere di PCB con cui l’organismo viene a contatto: il recettore Ah infatti è in grado di legare sostanze con forma simile a quella della TCDD, stimolando una serie di eventi cellulari che portano ad una maggiore sintesi di proteine della famiglia del CYP1A (Metcalfe, 1994). 113 3.4.2 Esposizione a Chlorpyrifos e bioattivazione Nell’ambiente la situazione più comune è la presenza di miscele di tossici piuttosto che di un singolo contaminante. Nonostante questo, circa il 95% degli studi di tossicologia ed ecotossicologia sono rivolti agli effetti di singoli composti chimici (Cassee et al., 1998). La reciproca influenza dei composti di una miscela può avvenire durante l’assunzione, la distribuzione, la biotrasformazione e l’escrezione degli xenobiotici, con conseguenze spesso difficilmente prevedibili (Viau, 2002). L’utilizzo di analisi chimiche, oltre a non consentire quasi mai l’identificazione di tutti i componenti, non permette di valutare proprio gli eventuali effetti sinergici antagonisti o additivi che si possono manifestare tra i diversi composti. L’inibizione competitiva è una causa comune di interazioni tossicologiche tra composti organici, specialmente per quelli che stimolano la fase I dei processi di biotrasformazione (Viau, 2002). Proprio per la difficoltà di valutare queste interazioni, l’utilizzo di biomarker può consentire di valutare il reale impatto di tali miscele sulla salute degli organismi, in quanto essi possono dare un’indicazione dell’esposizione globale di un organismo ai contaminanti. Alcuni organofosforati, presentano composti in particolare parentali aventi fosforotionati una bassa o e fosforotioltionati, inesistente attività anticolinesterasica diretta (Parisi 2002a). Essa aumenta notevolmente in seguito al processo di bioattivazione, che consiste in una desulfurazione ossidativa del composto organofosforico, messa in atto dal sistema delle monoossigenasi a funzione mista (MFO), in particolare dal CYP 450. E’ infatti noto che la tossicità acuta dei fosfotionati ossidati è di tre ordini superiore rispetto agli analoghi non metabolizzati (Forsyth e Chambers, 1989; Chambers e Chambers, 1989). In questo esperimento è stato indagato se la presenza di un secondo contaminante possa effettivamente accelerare l’ossidazione di un composto organofosforico da parte del sistema MFO. In particolare è stato deciso di valutare la bioattivazione del Chlorpyrifos (CP), largamente impiegato anche in Italia come insetticida. In bibliografia esistono testimonianze che descrivono una accelerazione della desulfurazione del CP al suo analogo 114 ossidato Chlorpyrifos-oxon (CPO), in larve di Chironomus tentans (Belden e Lydy, 2000) in presenza di atrazina e, di conseguenza, un aumento della tossicità dell’insetticida di oltre il 400%. Nel nostro caso abbiamo voluto considerare una eventuale interazione tra il Chlorpyrifos e la Terbutilazina, un erbicida triazinico ancora utilizzato in Italia, con una struttura molto simile all’atrazina. Il grafico 3.4.4 mostra l’andamento dell’attività acetilcolinesterasica negli esemplari di D. polymorpha esposti per 264 h a Chlorpyrifos (10 µg/l), a Terbutilazina (10 µg/l) e alla miscela dei due composti (10 µg/l + 10 µg/l) rispetto ai valori di controllo, mentre i valori di contenuto proteico e lunghezze delle conchiglie degli esemplari utilizzati sono riportate in tabella 3.4.5. Tab. 3.4.5 : contenuto proteico e lunghezza delle conchiglie degli esemplari esposti durante le 264 h (CP= Chlorpyrifos; TB= Terbutilazina) Contenuto Proteico (mg/ml) ± D.S. CP Lunghezze (cm) ± D.S. TB CP+TB CP TB CP+TB 7,1 ± 1,5 7,6 ± 1,6 1,7 ± 0,3 1,7 ± 0,1 1,6 ± 0,1 48 h 10,2 ± 1,2 8,3 ± 1,9 6,3 ± 1,9 2,1 ± 0,4 1,9 ± 0,2 1,8 ± 0,1 72 h 11,5 ± 1,1 9,9 ± 1,7 8,5 ± 2,0 2,1 ± 0,3 2,0 ± 0,3 1,9 ± 0,1 24 h 9,3 ± 1,1 96 h 8,7 ± 1,1 7,4 ± 1,1 10,0 ± 2,1 2,2 ± 0,3 2,2 ± 0,4 2,3 ± 0,3 168 h 8,0 ± 1,3 7,6 ± 1,2 5,9 ± 2,2 1,9 ± 0,2 1,8 ± 0,1 2,0 ± 0,4 216 h 9,6 ± 0,9 9,0 ± 1,3 8,3 ± 2,4 1,8 ± 0,1 1,8 ± 0,3 1,9 ± 0,1 264 h 6,8 ± 0,8 7,1 ± 1,4 5,6 ± 2,3 1,8 ± 0,1 1,9 ± 0,1 1,9 ± 0,1 115 nmol/min mg prot. 4.00 3.50 3.00 2.50 2.00 1.50 1.00 1 2 3 4 7 9 11 giorni Controlli Chlor Chlor+Terb Terb Fig. 3.4.4: Andamento dell’attività AChE in esemplari di D. polymorpha esposti a Chlorpyrifos (10 µg/l), Terbutilazina (10 µg/l) e a una miscela dei due composti (10 µg/l + 10 µg/l). È evidente come durante i primi tre giorni ci siano notevoli differenze tra i due andamenti: nel caso dell’esposizione al solo CP l’inibizione massima (di circa il 50%), significativamente differente rispetto ai controlli (ANOVA, Tukey HSDtest, p<0,05), viene raggiunta dopo quattro giorni, mentre la stessa inibizione viene raggiunta solo dopo 24 h in seguito all’esposizione alla miscela, a causa dell’attivazione del sistema di detossificazione delle MFO da parte della terbutilazina ed al conseguente aumento dalla trasformazione del CP in CPO. Dopo il quarto giorno l’andamento diventa simile per entrambi i gruppi di organismi, probabilmente poiché è stato raggiunto il massimo dell’azione anticolinesterasica. La somministrazione della sola Terbutilazina non ha invece causato differenze significative nell’attività AChE rispetto al controllo (ANOVA, Tukey HSD-test, p<0,05). La figura 3.4.5 mostra, infatti, l’avvenuta bioattivazione del Chlorpyrifos nel suo analogo ossidato solo per le prime 96 h di esposizione: la concentrazione massima di entrambi i composti è stata misurata nei campioni prelevati a 72 h, corrispondenti a un valore di 242 ng/g lipidi per il CP e 1517 ng/g lipidi per il CPO, mentre le concentrazioni minori sono per il CP nel campione a 96 h (4 116 ng/g lipidi) e per il CPO a 24 h (509 ng/g lipidi). In figura 3.4.6 sono mostrati i dati di accumulo di Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-Oxon in presenza di Terbutilazina: i valori minori sono stati misurati nei campioni a 96 h per CP (45 ng/g lipidi) e a 72 h per il CPO (978 ng/g lipidi) e nel campione prelevato a 24 h per la TB (322 ng/g lipidi). Le concentrazioni sono aumentate dell’85% a 48 h per il Chlorpyrifos, del 90% per il Chlorpyrifos-Oxon nel campione prelevato a 96h e dell’85% per il campione a 96 h esposto a Terbutilazina. 2500 ng/ g lipidi 2000 1500 1000 500 0 0h 24 h 48 h 72 h 96 h CP CPO Fig. 3.4.5: Andamento della concentrazione di Chlorpyrifos (CP) e del suo analogo ossidato Chlorpyrifos-oxon (CPO) nelle prime 96 h di esposizione nella vasca di esposizione al solo CP. 117 2500 ng/g lipidi 2000 1500 1000 500 0 0h 24 h 48 h 72 h 96 h CP Fig. 3.4.6 CPO TB Andamento della concentrazione di Chlorpyrifos (CP), Chlorpyrifos-oxon (CPO) e Terbutilazina (TB) nelle prime 96 h di esposizione, nella vasca di esposizione alla miscela Le misure del bioaccumulo hanno confermato l’ipotesi della bioattivazione del Chlorpyrifos in presenza dell’erbicida. In assenza di Terbutilazina, infatti, è stata misurata una bassa trasformazione del Chlorpyrifos nel suo analogo ossidato Chlorpyrifos-oxon, che ha raggiunto il massimo di concentrazione dopo 72 h di esposizione, periodo corrispondente all’inibizione massima dell’attività AChE misurata (Fig. 3.4.4). In presenza dell’erbicida, invece, il Chlorpyrifos-oxon raggiunge la sua massima concentrazione già dopo 24 h, anche in questo caso corrispondente alla massima inibizione dell’attività enzimatica. L’accumulo più rapido potrebbe essere dovuto quindi alla maggiore stimolazione del sistema MFO da parte della Terbutilazina, che, aumentando l’attività detossificante del citocromo P450, provoca una più veloce biotrasformazione di Chlorpyrifos in Chlorpyrifosoxon. 118 3.4.3 Esposizione a Carbaryl D. polymorpha è stata anche esposta ad un carbammato (Carbaryl), composto in grado di inibire l’attività AChE, al fine di poter osservare eventuali differenze rispetto all’esposizione a Chlorpyrifos. Al contrario degli organofosforati, l’azione inibitoria dei carbammati è di tipo reversibile: il legame che formano con l’AChE non è infatti stabile e dopo un certo periodo di tempo avviene un distacco spontaneo. I valori di lunghezza e contenuto proteico degli organismi utilizzati sono elencati in tabella 3.4.6, mentre i risultati dell’esposizione a 100 ng/l di Carbaryl sono esposti in figura 3.4.7. L’inibizione massima dell’attività AChE è stata raggiunta già dopo 24 h (68% di inibizione), mentre i controlli hanno mostrato un andamento piuttosto costante, seppur con un calo dopo 48 h di circa il 30% rispetto al tempo 0, comunque non statisticamente significativo. Tab. 3.4.6: lunghezza e contenuto proteico degli esemplari di D. polymorpha esposti a Carbaryl Lunghezza Media Contenuto Proteico Esposti Contenuto Proteico Controlli 0h 2,0 ± 0,3 4,9 ± 3,8 4,8 ± 3,8 24 h 1,9 ± 0,3 4,2 ± 0,2 5,7 ± 0,1 48 h 1,9 ± 0,4 4,1 ± 0,1 4,9 ± 0,2 72 h 1,8 ± 0,4 4,1 ± 0,4 4,9 ± 0,3 96 h 1,9 ± 0,2 4,0 ± 0,3 4,7 ± 0,1 (cm) ± D.S. (mg/ml) ± D.S. (mg/ml) ± D.S. L’inibizione è risultata statisticamente significativa durante tutti i giorni dell’esposizione (Student t-test, p<0,01). L’andamento è risultato simile a quello ottenuto esponendo i molluschi alla miscela Chlorpyrifos+Terbutilazina precedentemente bioattivazione, descritto. può Il esercitare Carbaryl la infatti, sua non azione necessitando di anticolinesterasica immediatamente dopo l’ingresso nei tessuti. L’elevata inibizione misurata non ha portato tuttavia alla morte degli animali: è possibile quindi che siano 119 necessarie concentrazioni ancora maggiori o un tempo di esposizione superiore per portare ad effetti letali. AChE (nmol/min mg prot.) 4.00 3.50 3.00 2.50 2.00 1.50 1.00 0.50 0.00 T0 T24 T48 Controllo T72 T96 Esposti Fig. 3.4.7: andamento dell’attività AChE in esemplari di D. polymorpha esposti a Carbaryl Non sono disponibili in letteratura dati riferiti all’effetto del Carbaryl su D. polymorpha, tuttavia ne è stata dimostrata l’azione inibitoria nei confronti dell’AChE in altre specie come il mitilo (M. galloprovincialis) e l’ostrica (O. edulis) (Valbonesi et al., 2003), oltre che nel polichete Nereis diversicolor (Scaps et al., 1998); tra i vertebrati, alcuni studi sono stati fatti sul carassio (Carassius auratus) (Ferrari et al., 2004). 3.4.4 Riattivazione dell’AChE mediante il 2-PAM E’ ampiamente riportato in letteratura medica che la somministrazione di un ossima, una molecola in grado di staccare meccanicamente l’inibitore dell’AChE dal sito attivo dell’enzima, sia in grado di riportare l’attività catalitica a valori normali, nel caso di esposizione a gas neurotossici. Nell’ambito del biomonitoraggio, l’utilizzo di tali molecole potrebbe aiutare a ripristinare l’attività dell’AChE dell’organismo utilizzato nel monitoraggio fino ai valori basali, permettendo quindi di calcolare l’inibizione percentuale dovuta alla presenza di composti anti-AChE (Kirby et al., 2000). In questo modo si 120 potrebbe, inoltre, distinguere tra un inquinamento da carbammati, che mostrano un legame reversibile all’enzima (e quindi non riattivabile dall’ossima), e uno da organofosforati. In letteratura esistono già alcuni studi su vertebrati che sfruttano la diversa risposta all’esposizione al 2-PAM (piridina 2-aldossi metaclorato) per distinguere se l’inibizione dell’AChE sia imputabile a composti organofosforati o ad altri fattori (Martin et al., 1981, Stanley, 1993). A causa della mancanza di dati riferiti ad invertebrati, in particolare a molluschi, abbiamo voluto verificare l’applicabilità della riattivazione dell’enzima in D. polymorpha. Di seguito verranno mostrati i risultati di riattivazione dell’attività acetilcolinesterasica ottenuti tramite somministrazione del 2-PAM ad esemplari di D. polymorpha precedentemente esposti a Chlorpyrifos-Oxon (CPO). È stata scelta la forma ossidata dell’insetticida fosfotionato Chlorpyrifos poiché, come precedentemente evidenziato, risulta essere il composto effettivamente in grado di inibire l’attività acetilcolinesterasica, in modo da non rendere necessario attendere che l’insetticida venga metabolizzato e reso attivo dal sistema MFO. Nella figura 3.4.8 sono riportati i valori di attività acetilcolinesterasica misurata nei bivalvi utilizzati per condurre l’esperimento di riattivazione. Dopo 48 h di esposizione al CPO, è possibile notare un’inibizione dell’attività acetilcolinesterasica del 43% rispetto agli organismi di controllo, che ricalca il risultato osservato precedentemente durante l’esposizione al Chlorpyrifos nell’esperimento di bioattivazione. Gli organismi così trattati sono stati esposti per un’ora (in modo che la sostanza fosse completamente assorbita) a diverse concentrazioni di 2-PAM (100 ng/l; 1 µg/l; 10 µg/l) per misurare la percentuale di riattivazione. Inoltre, per appurare che non ci fosse una riattivazione spontanea indipendente dall’ossima, si è provveduto anche a mantenere i bivalvi in un becker contenente semplice acqua di rete. 121 AChE (nomol/min mg) 5 4 3 2 1 0 0 Controllo Fig. 3.4.8 24 48 tempo (h) CPO Valori dell’attività AChE espressi in nmoli/min*mg con deviazione standard in bivalvi di controllo e bivalvi esposti a Chlorpyrifos-Oxon per 48 h. Il campione di controllo mostra una uguale attività se posto in un becker di sola acqua o in una soluzione contenente 1 µg/l di 2-PAM, che a sua volta è maggiore del 23% rispetto all’attività AChE del campione esposto alla soluzione di PAM a 100 ng/l. AChE (nmol/min mg prot) 5 4 3 2 1 10 ug/l 1 ug/l 100 ng/l H2O Controllo 10 ug/l 1 ug/l 100 ng/l H2O CPO 48h 0 Fig. 3.4.9: Valori di attività acetilcolinesterasica misurati in gruppi di bivalvi mantenuti in diverse condizioni: in semplice acqua, a concentrazioni di 2-PAM di 100 ng/l; 1 µg/l; 10 µg/l. 122 Il campione esposto a 48 h a CPO ha mostrato, invece, una riattivazione massima quando esposto ad una concentrazione di PAM 1 µg/l, maggiore del 62% rispetto al valore del campione posto solo in acqua. (Fig. 3.4.9). Dal grafico è possibile evidenziare come per gli organismi mantenuti in stabulazione per 48 h (Controllo) l’esposizione al 2-PAM non provochi alterazioni statisticamente significative sull’attività AChE (Tabella 3.4.7). Questo dato dimostra come la somministrazione dell’ossima non alteri i valori di attività AChE in individui con un’attività enzimatica basale. Il gruppo di bivalvi esposto a Chlorpyrifos-oxon per 48 h mostra, al contrario, una variazione dei valori di attività AChE durante le diverse esposizioni al PAM. I gruppi di individui posti a una concentrazione di 100 ng/l e 10 µg/l evidenziano un incremento dell’attività rispettivamente del 43% e del 8% anche se non statisticamente significativa rispetto al campione di partenza, (Tabella 3.4.7). La concentrazione di 1 µg/l provoca, invece, una riattivazione significativa (51%) dell’attività AChE (ANOVA, Tukey HSD test, p<0,05), e inoltre non presenta differenze significative con il gruppo di organismi di controllo. Gli organismi esposti a CPO e mantenuti successivamente solamente in acqua di rete, non hanno manifestato, come atteso, nessuna riattivazione dell’enzima. Dai risultati ottenuti in questo test si può ipotizzare come la concentrazione ottimale di PAM per ottenere una riattivazione completa dell’enzima in D. polymorpha nel caso di intossicazione da organofosforici sia di 1 µg/l. Concentrazioni inferiori o superiori possono risultare inadeguate, perché o esse non sono sufficienti per agire in tutti i tessuti dell’animale (come nel nostro caso per la concentrazione di 100 ng/l), o, al contrario, a causa della tossicità della molecola di PAM ad alte concentrazioni, l’animale può mettere in atto dei processi di difesa che impediscono alla molecola di entrare nell’organismo (Es. chiusura delle valve, diminuzione del ritmo respiratorio, riduzione del metabolismo). 123 Tab. 3.4.7 Tabella di significatività per il test di riattivazione (ANOVA, Tukey HSD post-hoc test). Le differenze statisticamente significative (p<0,05) sono state evidenziate in giallo. (I) GRUPPO CPO+H2O CPO+PAM 100 ng/l CPO+PAM µg/l 1 48 h Intervallo di confidenza 95% CPO+H2O 0,36 0,951 CPO+PAM 100 ng/l -1,27 0,071 -2,6 7,9*10-2 CPO+PAM 1 µg/l -1,75 0,008 -3,1 -0,4 CPO+PAM 10 µg/l CONTROLLO 48 h -,14 0,999 -1,3 1,04 -1,26 0,049 -2,5 -4,3*10-2 CPO 48 h -,36 0,951 -1,7 1,0 CPO+PAM 100 ng/l -1,63 0,022 -3,1 -1,9 CPO+PAM 1 µg/l -2,11 0,003 -3,6 -0,67 CPO+PAM 10 µg/l CONTROLLO 48 h -,50 0,806 -1,8 0,8 -1,61 0,015 -3,0 catività (p) Limite inferiore 1,7 -0,3 -2 CPO 48 h 1,27 0,071 -7,9*10 CPO+H2O 1,63 0,022 0,2 3,1 CPO+PAM 1 µg/l -,48 0,886 -1,9 1,0 CPO+PAM 10 µg/l CONTROLLO 48 h 1,13 0,105 -0,2 2,4 1,000 -1,3 1,3 1,71*10 -2 2,6 CPO 48 h 1,75 0,008 0,4 3,1 CPO+H2O 2,11 0,003 0,7 3,5 CPO+PAM 100 ng/l 0,48 0,886 -1,0 1,9 CPO+PAM 10 µg/l CONTROLLO 48 h 1,61 0,011 0,3 2,9 0,50 0,838 -0,8 1,8 CPO 48 h 0,14 0,999 -1,0 1,3 CPO+H2O 0,50 0,806 -0,8 1,8 -1,13 0,105 -2,4 0,2 -1,61 0,011 -2,9 -0,3 -1,11 0,073 -2,3 -7,3*10-2 CPO 48 h 1,26 0,049 4,3 2,5 CPO+H2O 1,61 0,015 0,3 3,0 1,000 -1,4 1,3 CPO+PAM 10 CPO+PAM 100 ng/l µg/l CPO+PAM 1 µg/l CONTROLLO 48 h CONTROLLO Signifi- Limite superiore -9,9 (J) GRUPPO CPO 48 h Differenza tra medie (I-J) -2 CPO+PAM 100 ng/l -1,71*10 CPO+PAM 1 µg/l CPO+PAM 10 µg/l -,50 0,838 -1,9 0,9 1,11 0,073 -7,3*10-2 2,3 In conclusione, anche in D. polymorpha si può ipotizzare di utilizzare l’ossima 2-PAM per valutare il tipo di inquinamento che causa una inibizione dell’acetilcolinesterasi o per riportare l’attività dell’enzima a condizioni basali. 124 Tale evidenza risulta essere di notevole importanza se applicata a programmi di monitoraggio ambientale in cui questo bivalve venga utilizzato come organismo sentinella. In questo modo sarebbe possibile ottenere una percentuale di inibizione dell’attività AChE reale, svincolata cioè da altri fattori non legati a contaminazioni da organofosforici. Altri studi sono necessari per valutare l’efficacia di questa metodica anche con l’utilizzo di altri contaminanti (singoli o in miscela), o in presenza di altri stress come ad esempio temperature diverse da quelle ottimali. 125 3.5 Il monitoraggio dei grandi laghi subalpini I risultati ottenuti con le prove in laboratorio sono serviti come base per l’interpretazione dei dati rilevati in una campagna di monitoraggio che ha interessato tutti i grandi laghi subalpini italiani (Maggiore, Garda, Como, Iseo e Lugano), effettuata durante la primavera del 2003. Prima di procedere con le misure dell’attività enzimatica sono stati determinati alcuni parametri morfometrici e fisiologici, quali la lunghezza delle conchiglie, la frazione lipidica e il contenuto proteico (Tabella 3.5.1). Tutti i campionamenti sono stati eseguiti nel mese di maggio, riducendo così l’eventuale variabilità dovuta a cambiamenti fisiologici legati al ciclo riproduttivo del bivalve o a cambiamenti ambientali (come la temperatura e lo stato trofico) che avrebbero potuto influenzare l’attività enzimatica. Le temperature registrate nei diversi bacini lacustri risultano piuttosto simili: in particolare il valore più elevato è stato rilevato nel Lago di Lugano, con una media di 20 °C (valore massimo a Porlezza e Pojana, 21,5 °C), mentre quello più basso è stata misurato nel Lago di Como, con un valore medio di 13,8 °C (valore minimo a Domaso, 12 °C). Le lunghezze degli esemplari di D. polymorpha analizzati si attestano tutti attorno allo stesso valore tranne per gli esemplari prelevati a Limone (Lago di Garda), che sono notevolmente più piccoli rispetto agli altri (1,5 cm, rispetto ad un valore medio di 1,9 cm). Anche un altro studio condotto con l’intento di valutare la presenza di metalli pesanti in Dreissena nei grandi laghi subalpini ha messo in luce come gli esemplari più piccoli provenissero dalla stazione di campionamento di Limone (Camusso et al., 2001). Per calcolare i valori dell’attività enzimatica è stato necessario misurare la concentrazione delle proteine presenti in ogni campione. Si può notare come le concentrazioni proteiche risultano piuttosto costanti, attestandosi attorno a valori di 23-26 mg/ml di estratto S9 o S10. In particolare il valore più basso è stato riscontrato a Brebbia, Lago Maggiore, (11,4 mg/ml), mentre quello più alto a Luino, Lago Maggiore (27,1 ± 2,0 mg/ml). 126 I valori di percentuale lipidica, piuttosto costanti in tutti i siti di campionamento, mostrano come tutti gli esemplari analizzati sono stati prelevati durante il periodo pre-riproduttivo. Il valore di percentuale lipidica più alto è stato misurato a Giona (Lago Maggiore), con un valore pari al 19,4 % del peso secco, mentre la più bassa si è riscontrata a Limone (Lago di Garda) con il 10,3 %. Il monitoraggio intensivo del Lago Maggiore si inserisce in un progetto di ricerca volto a determinare gli effetti causati all’ecosistema acquatico dalla pesante contaminazione da DDT (CIPAIS, 2003), provocata già a partire dal 1996 da un impianto industriale posto nelle vicinanze del fiume Toce. Alle analisi chimiche, necessarie per il proseguimento di tale ricerca, sono state affiancate queste indagini basate sui biomarker, con il fine di ricercare altri contaminanti non previsti dal progetto, e per valutare se potessero esistere delle sinergie tra i diversi tipi di contaminazione presenti nel lago. 127 Tabella 3.5.1 Temperatura dell’acqua nei siti di campionamento, lunghezza delle conchiglie, Stazione di Campionamento Temp (°C) Lunghezza Media (cm) ± D.S. % lipidica su peso secco Contenuto proteico mg / ml ± D.S. Desenzano 18,5 1,7 (± 0,2) 12,6 24,1 (± 3,6) Peschiera 18 1,6 (± 0,2) 14,3 18,9 Limone 15 1,5 (± 0,1) 10,3 23,4 (± 2,4) Magadino 15 2,1 (± 0,2) 18,7 25,6 (± 1,6) Brissago 14,5 2,1 (± 0,2) 18,4 22,8 (± 1,5) Cannobio 14 2,0 (± 0,2) 18,8 12,2 (± 0,2) Giona 11,5 2,0 (± 0,2) 19,4 25,2 (± 1,0) Luino 15 2,1 (± 0,2) 17,7 27,1 (± 2,0) Caldè 14,5 2,0 (± 0,2) 19,2 25,5 (± 1,3) Intra 17 2,0 (± 0,3) 17,3 25,1 (± 0,6) Pallanza 18 2,1 (± 0,2) 15,9 14,3 (± 0,8) Laveno 14 1,7 (± 0,2) 15,4 21,3 (± 2,3) Baveno 17 2,3 (± 0,2) 17,2 19,4 (± 11,2) Stresa 16 2,0 (± 0,2) 17,9 26,9 (± 2,4) Brebbia 20 2,4 (± 0,3) 13,7 11,4 Ranco 18 2,1 (± 0,2) 15,5 24,5 (± 3,4) Arona 18 2,1 (± 0,3) 14,4 14,4 (± 5,2) Domaso 12 1,7 (± 0,2) 16,3 25,7 (± 0,6) Argegno 15,5 1,7 (± 0,3) 15,0 25,3 Lecco 14 1,7 (± 0,2) 15,1 23,6 (± 1,3) ISEO Costa Volpino 16,5 1,7 (± 0,2) 14,8 26,8 (± 3,8) Predore 16 1,7 (± 0,2) 13,6 22,8 (± 3,7) LUGANO percentuale lipidica su peso secco e contenuto proteico degli esemplari di D. polymorpha. Brusimpiano 20 2,0 (± 0,1) 12,5 27,1 Porlezza 21,5 1,9 (± 0,2) 11,6 25,2 Pojana 21,5 1,9 (± 0,1) 14,0 23,9 COMO MAGGIORE GARDA LAGHI 128 3.5.1 Attività EROD e MROD L’attività del CYP450 misurata nei diversi campioni prelevati nei grandi laghi subalpini (Fig. 3.5.1 e 3.5.2) risulta tendenzialmente più bassa rispetto a quella rilevata da una ricerca condotta da de Lafontaine et al., (2000) su D. polymorpha, che ha misurato valori di attività EROD pari a 40 pmoli/min/mg proteine. In altri studi, l’attività EROD misurata in alcune specie ittiche è risultata molto variabile; per esempio, in esemplari di Cyprinus carpio si passa da valori di circa 2 pmoli/min/mg proteine fino a livelli di 4600 pmoli/min/mg proteine (Ueng et al., 1992, Ahokas et al., 1994). E’ importante sottolineare che, mentre i dati bibliografici sono tutti riferiti all’impiego di singoli organi (branchie, epatopancreas, fegato), i nostri risultati sono stati ottenuti utilizzando l’intero corpo dell’animale. Tale peculiarità ci ha permesso di rendere la fase analitica più semplice e rapida, ma nello stesso tempo ha determinato una diluizione degli enzimi delle MFO nell’estratto S9, abbassando di conseguenza i livelli di attività misurabili. Inoltre, le dimensioni e l’anatomia dell’epatopancreas di Dreissena non consentono di separarlo dal resto del corpo senza rischiare di danneggiarlo e liberare gli estratti epatici. EROD e MROD rappresentano i substrati specifici per la famiglia CYP1A1, che viene attivata da un’ampia varietà di composti chimici con proprietà strutturali e tossicologiche simili. Dal confronto tra l’attività EROD e MROD ottenuta nei nostri campioni (Fig. 3.5.1 e 3.5.2.) emerge chiaramente come il primo substrato abbia una maggiore affinità con gli enzimi della famiglia del CYP1A1 presente in tale bivalve, anche se non è possibile escludere la presenza di altre famiglie del citocromo che possono essere attivate dall’esposizione a contaminanti diversi. In Daphnia pulex, ad esempio, un’indagine compiuta mediante marcatori molecolari ha messo in evidenza che i polifenoli attivano alcune sottofamiglie del CYP4 (David et al., 2003), mentre Fossi (1998) indica come la famiglia enzimatica CYP2B venga selettivamente indotta dall’esposizione ad insetticidi organoclorurati. Nel mitilo (M. galloprovincialis) è stato identificato anche un gene che codifica per la isoforma CYP4Y1, oltre alla classica famiglia CYP1A1. 129 I risultati ottenuti hanno mostrato che la distribuzione dei dati non segue una distribuzione normale (Test di Levène significativo, p<0,05 sia per EROD che MROD), di conseguenza è stato scelto un test post-hoc non parametrico per controllare la significatività delle differenze rispetto ai controlli. Questo test permette di analizzare anche dati distribuiti in modo non-gaussiano, ma risente molto delle deviazioni standard elevate, per cui spesso risultano non significativi dei confronti in cui, con altri tipi di test, tali differenze sarebbero evidentemente tali. I risultati ottenuti per il Lago di Garda (Tab. 3.5.2) mostrano un’attività EROD significativamente più alta rispetto ai controlli nel sito di Desenzano (ANOVA, Tamhane post-hoc test, p<0,01). L’elevata differenza riscontrata nel sito di Peschiera è non statisticamente significativa solo a causa della elevata deviazione standard calcolata. Nella stessa stazione infatti l’attività MROD è invece risultata significativamente più alta rispetto al controllo (ANOVA, Tamhane post-hoc test, p<0,01) (Tab. 3.5.3). La causa del possibile inquinamento di questo sito potrebbe essere ricercata nella particolare zona di campionamento, in quanto il prelievo dei molluschi è stato effettuato a non più di 200 m dal parco di divertimenti “Gardaland”, dove il pesante traffico veicolare, gli eventuali scarichi accidentali dovuti a emissioni di varia natura e al dilavamento del terreno eventualmente contaminato potrebbero determinare una diminuzione della qualità del tratto lacustre antistante, con un rilascio di sostanze pericolose per la biocenosi acquatica, come segnalato dall’utilizzo del biomarker considerato. Il Lago di Lugano, invece, evidenzia una probabile sorgente puntiforme d’inquinamento, in quanto la stazione di Brusimpiano raggiunge valori di attività EROD quasi doppi rispetto ai controlli (Tab 3.5.2) (ANOVA, Tamhane post-hoc test, p<0,01), confermata anche dalla misura della MROD (Fig. 3.5.1). Tale sorgente di contaminazione potrebbe essere riconducibile al Torrente S. Pietro che sfocia tra i comuni di Porto Ceresio e Brusimpiano e che trasporta i carichi inquinanti prodotti da una zona fortemente industrializzata. Gli altri due siti di prelievo, al contrario, risultano praticamente identici ai controlli, a causa del fatto che Pojana è localizzata all’inizio di un braccio chiuso 130 e piuttosto distante dall’area maggiormente antropizzata di Lugano, mentre Porlezza si trova nella zona più settentrionale del bacino lacustre, caratterizzato da un basso impatto antropico e dalla scarsa presenza di scarichi industriali. Si può osservare come tale punto di campionamento sia quello che presenta la maggiore differenza tra l’attività EROD e MROD rispetto agli altri siti con una situazione molto più omogenea. Nel Lago di Como (Fig. 3.5.1) si può evidenziare una diffusa attivazione dell’attività EROD, significativamente più alta dei controlli sia per Argegno che per Domaso (ANOVA, Tamhane posthoc test, p<0,01), mentre la MROD conferma l’andamento, ma non le differenze con i valori di riferimento. L’attività EROD più alta misurata ad Argegno è probabilmente legata alla maggiore stagnazione dei contaminanti nel sottobacino comasco, caratterizzato da un elevato tempo di ricambio delle acque. Una precedente ricerca (Binelli et al., 2001b) ha dimostrato, infatti, come esista un andamento decrescente della concentrazione di PCB, spostandosi dalla città di Como verso la congiunzione dei tre sottobacini e che i livelli di tali composti sfioravano i 2 µg/g lipidi in D. polymorpha. Il Lago d’Iseo ha presentato una contaminazione simile per entrambe le stazioni di campionamento, anche se né l’attività EROD né la MROD sono risultate differenti statisticamente rispetto ai controlli perché, come evidenziato nel caso di Peschiera sul Garda, la deviazione standard è risultata piuttosto elevata. La zona di Predore è ricca di insediamenti industriali (industrie siderurgiche, nautiche e cementifici) che caratterizzano la zona meridionale del bacino (Tab. 3.5.2). Esiste anche una seconda ipotesi: tenendo conto che i metalli pesanti hanno un effetto inibitorio sull’attività del CYP450, l’attività EROD misurata a Costa Volpino potrebbe essere ridotta, e quindi sottostimata, dalla cospicua presenza di tali contaminanti inorganici, come rilevato da Camusso et al. (2001). 131 Tabella 3.5.2: Differenze tra siti e controlli con valori di significatività statistica per l’attività EROD (* p<0,05; ** p<0,01, n.s. non significativo. ANOVA, Tamhane post-hoc test). Differenza fra EROD medie (I-J) Significatività Intervallo di confidenza (p) 95% Sito (I) Sito (J) (pmol/min mg prot.) Controlli Desenzano -1,1 n.s. -9,3 7,1 Limone -1,3 ** -2,1 -0,6 Peschiera -2,5 n.s. -24,3 19,4 Predore -1,4 n.s. -20,8 18,1 Costa Volpino -0,8 n.s. -11,8 10,2 Domaso -0,8 ** -1,5 0,0 Argegno -1,4 ** -2,1 -0,7 Lecco -0,7 n.s. -26,9 25,5 Pojana -0,3 n.s. -10,9 10,3 Brusimpiano -1,2 ** -2,0 -0,4 Porlezza -0,2 n.s. -2,4 2,0 Magadino 0,9 n.s. 0,0 1,8 Brissago -0,2 n.s. -8,8 8,4 Cannobbio -0,1 n.s. -1,0 0,8 Caldè 0,8 n.s. -0,2 1,8 Giona 0,4 n.s. -2,0 2,8 Luino 0,9 ** 0,2 1,6 Intra -0,3 n.s. -1,0 0,4 Pallanza 0,8 n.s. -6,5 8,0 Laveno 0,6 n.s. -0,6 1,8 Baveno 0,0 n.s. -1,0 0,9 Stresa 0,2 n.s. -1,9 2,3 Brebbia 0,6 n.s. -7,5 8,7 Ranco -1,1 ** -1,8 -0,3 Arona 0,2 n.s. -2,3 2,6 132 pmol/min mg prot. 5.00 4.50 4.00 3.50 3.00 2.50 2.00 1.50 1.00 0.50 0.00 Porlezza Como Brusimpiano Pojana Lecco Iseo Argegno Domaso C. Volpino Garda MROD Predore Limone Peschiera Desenzano Controlli EROD Lugano Fig. 3.5.1: Attività EROD e MROD nei laghi Garda, Iseo, Como e Lugano rispetto ai valori di pmol/min mg prot. controllo 5.00 4.50 4.00 3.50 3.00 2.50 2.00 1.50 1.00 0.50 0.00 Arona Ranco Brebbia Stresa Baveno Laveno Pallanza Intra Caldè Luino Giona Cannobio Brissago Magadino Controlli EROD MROD Fig. 3.5.2: Attività EROD e MROD nel Lago Maggiore rispetto ai valori di controllo 133 Una recente ricerca, effettuata con lo scopo di rilevare la presenza di metalli nei grandi laghi subalpini utilizzando il bivalve D. polymorpha, ha messo in luce come anche il Lago Maggiore presentasse le concentrazioni più elevate per quasi tutti i metalli presi in considerazione (Cd, Co, Cr, Hg, Pb e Zn) rispetto agli altri laghi (Camusso et al., 2001), situazione confermata anche da numerose indagini svolte sui sedimenti lacustri (CIPAIS, 2003) che hanno, tra l’altro, evidenziato una diminuzione della contaminazione da metalli pesanti andando da nord a sud pari a 1,4 volte per il Cu, di 5 per l’As e di circa 3 volte per Hg, mentre le concentrazioni di Cd sembrano avere un comportamento simile tra le diverse zone del Lago Maggiore. Il duplice effetto inibitorio dei metalli ed attivante dei composti planari potrebbe essere la causa della situazione rilevata nel Lago Maggiore. Le attività EROD e MROD, infatti, sono caratterizzate da un’inibizione media rispetto ai controlli del 41,3% e 31,7% rispettivamente e da un’induzione media rispetto ai controlli del 24% e 19,1% rispettivamente. Un'altra possibilità è che la concentrazione di composti planari sia talmente elevata da causare una inibizione dell'attività del CYP450, come talvolta segnalato in letteratura ed anche negli esperimenti già discussi di esposizione di D. polymorpha al PCB126. Il particolare comportamento di tale biomarker rilevato nel Verbano indica la necessità di approfondire il problema dei controlli che servono come confronto con i siti ritenuti più inquinati. Se, infatti, non avessimo utilizzato come controllo i risultati ottenuti da organismi stabulati in condizioni di laboratorio, ma il valore più basso rilevato a Luino, le nostre conclusioni sarebbero state completamente diverse, evidenziando una pesante e pericolosa contaminazione da composti planari nel Lago Maggiore, con numerose aree a forte rischio ambientale. La scelta, quindi, di utilizzare siti di controllo non contaminati può, a volte, rivelarsi errata, soprattutto se siamo in presenza di un inquinamento provocato da composti con azione opposta nei confronti del biomarker scelto. La diversa incidenza delle due azioni (attivazione e inibizione), però, non è attualmente quantificabile, in quanto mancano completamente dei dati bibliografici a riguardo. E’ comunque ipotizzabile che, in aree dove l’inibizione 134 misurata è particolarmente intensa, come nel caso dell’attività EROD nel sito di Luino, in cui l’inibizione è risultata statisticamente significativa (ANOVA, Tamhane post-hoc test, p<0,01) l’azione degli inibitori sia dominante. Al contrario, i valori misurati statisticamente più alti rispetto ai controlli misurati a Ranco indicherebbero la prevalenza dell’effetto dovuto ai composti planari visto che è stata calcolata un’induzione significativa del 74,8% (ANOVA, Tamhane post-hoc test, p<0,01). I valori MROD rispecchiano quelli dell’EROD, anche se ci sono alcune differenze; infatti, il valore massimo di variazione rispetto al controllo è stato riscontrato a Intra, zona di forte traffico veicolare e di natanti che possono essere la causa di rilascio in acqua di idrocarburi. E’ noto, inoltre, che nella zona, in corrispondenza della foce del torrente San Bernardino, è presente uno scarico industriale che immette, tra le altre cose, acetammide e formaldeide. Sebbene non ci siano dati relativi all’influenza di questi composti sulle attività EROD e MROD, è possibile che essi possano stimolare l’attività detossificante dell’organismo. 135 Tabella 3.5.3: Differenze tra siti e controlli con valori di significatività statistica per l’attività MROD (* p<0,05; ** p<0,01; n.s. non significativo. ANOVA, Tamhane post-hoc test) Differenza fra MROD medie (I-J) Significatività (p) Intervallo di confidenza 95% (pmol/min mg Sito (I) Sito (J) Controlli Desenzano -0,28 n.s. -3,68 3,13 Limone -0,10 n.s. -10,26 10,06 Peschiera -1,34 ** -2,01 -0,68 Predore -0,40 n.s. -1,46 0,66 Costa Volpino -0,49 n.s. -1,22 0,24 Domaso 0,08 n.s. -1,76 1,92 Argegno -0,71 n.s. -5,52 4,10 Lecco -0,24 n.s. -3,75 3,28 Pojana -0,18 n.s. -1,63 1,27 Brusimpiano -1,00 n.s. -3,98 1,98 Porlezza 0,36 n.s. -0,31 1,04 Magadino 0,44 n.s. -1,13 2,01 Brissago -0,03 n.s. -4,88 4,81 Cannobbio 0,21 n.s. -9,88 10,30 Giona 0,43 n.s. -1,40 2,25 Caldè 0,50 n.s. -0,38 1,37 Luino 0,52 n.s. -0,18 1,21 Intra -0,60 n.s. -15,78 14,57 Laveno 0,41 n.s. -0,29 1,11 Pallanza 0,08 n.s. -1,08 1,25 Baveno 0,06 n.s. -0,60 0,73 Stresa 0,35 n.s. -1,32 2,01 Brebbia 0,50 n.s. -6,36 7,35 Ranco -0,07 n.s. -2,91 2,77 Arona -0,09 n.s. -0,97 0,79 prot.) 136 3.5.2 Attività AChE I dati dell’attività AChE ottenuti nei bivalvi prelevati nei grandi laghi subalpini hanno evidenziato una contaminazione diffusa dovuta alla presenza di composti organofosforici e carbammati, in grado di causare un'inibizione significativa dell'attività di questo enzima. È stata effettuata un’analisi statistica per evidenziare l’esistenza di differenze significative tra le attività AChE misurate in situ e l’attività “basale”. A causa dell’effetto della temperatura, già evidenziato nel paragrafo 3.2.2, è stata effettuata un’analisi della covarianza (ANCOVA) utilizzando la temperatura come variabile covariata. Una volta trovate delle differenze significative, sono stati effettuati dei test a confronti multipli (Bonferroni) per evidenziare differenze tra i singoli siti ed i controlli. Le figure 3.5.3 e 3.5.4 mostrano come l’inibizione dell’attività AChE degli esemplari di D. polymorpha campionati nella maggior parte delle stazioni indichi una preoccupante contaminazione da composti organofosforati o carbammati. Il dato medio dell’attività AChE, calcolato per le tre stazioni del Lago di Garda, è più di 3 volte inferiore al valore medio dei controlli stabulati (ANCOVA, Bonferroni post-hoc; p<0,01) (Tab. 3.5.4), mettendo in luce la presenza di una forte contaminazione legata a composti anticolinesterasici. Il livello di attività catalitica misurato a Limone risulta leggermente superiore a quelli di Desenzano e Peschiera, posti rispettivamente nel sottobacino occidentale ed orientale, a maggiore valenza turistica. La contaminazione da composti organofosforici dovrebbe effettivamente essere minore nel sottobacino settentrionale, a causa delle sue caratteristiche morfologiche, che ne limitano l’attività agricola per la scarsa presenza di tratti pianeggianti o terrazzamenti. Anche per il Lago d’Iseo la situazione si presenta simile: la misura dell’AChE ha messo in evidenza una forte contaminazione da composti organofosforici e carbammati, in quanto i livelli di attività enzimatica, in entrambe le stazioni di prelievo, sono inferiori di oltre il 60% rispetto al valore basale, con differenze altamente significative (ANCOVA, Bonferroni post-hoc; p<0,01) (Tab. 3.5.4). Il fatto che il confronto tra Costa Volpino e Predore non presenti differenze significative, potrebbe indicare che le fonti inquinanti siano per lo più di origine diffusa, in quanto i due punti di campionamento si trovano agli estremi opposti 137 del lago. Un’altra possibile sorgente di contaminazione di questi composti ad attività anti-AChE potrebbe essere legata al Fiume Oglio, il maggiore tributario al lago, che attraversa la Valle Camonica, area a forte valenza agricola. Poiché la sua immissione si trova in corrispondenza del punto più settentrionale dell’Iseo, essa potrebbe determinare una omogeneizzazione della contaminazione nell’intero bacino. Nei tre diversi sottobacini del Lario è stata rilevata una contaminazione preoccupante, anche se piuttosto disomogenea in quanto, a fronte di differenze tutte altamente significative (p<0,01) rispetto ai controlli (Tab. 3.5.4), i livelli di attività catalitica osservati a Domaso sono inferiori di circa il 40% rispetto ad Argegno e di quasi il 50% se confrontati con il punto di prelievo posto nel sottobacino orientale. La zona settentrionale risulta più contaminata (Fig. 3.5.3) in quanto, probabilmente, interessata più direttamente dal trasporto di composti anticolinesterasici dal Fiume Adda, che riversa a lago i prodotti utilizzati in agricoltura impiegati in Valtellina, zona in cui sono presenti numerose serre, frutteti e vigneti. nmol/min mg prot 7 6 5 4 3 2 1 0 Porlezza Brusimpiano Pojana Como Lecco Argegno Domaso Iseo C. Volpino Predore Limone Peschiera Desenzano Controlli Garda Lugano Fig. 3.5.3: Andamento dell’attività AChE nei laghi Garda, Iseo, Como e Lugano rispetto ai valori di controllo La situazione del Lago di Lugano risulta la migliore tra tutte quelle rilevate nei grandi laghi subalpini italiani, in quanto l’attività AChE misurata nelle tre 138 stazioni di prelievo è uguale o, addirittura, superiore rispetto ai dati di controllo. Tali differenze non risultano statisticamente significative (Tab. 3.5.4), anche nel sito di Brusimpiano, dove è stato possibile effettuare solo 2 misurazioni e quindi non è possibile fare considerazioni sulla significatività statistica, e addirittura confermano l’attendibilità dei dati impiegati per ricavare l’attività catalitica basale. In letteratura, è citato solo un esempio di aumento dell’attività AChE in esemplari di Sparus auratus esposto a concentrazioni subletali di rame (Romani et al., 2003): nessuna conferma è stata riscontrata in studi eseguiti sui molluschi, e quindi questo fenomeno dovrebbe essere verificato. Il Lago di Lugano risulta quindi il meno contaminato, almeno dalle sostanze anti-AChE, probabilmente per il fatto che le caratteristiche morfologiche ed idrologiche del bacino imbrifero non consentono un’intensa attività agricola e un successivo drenaggio di composti fitosanitari nel lago. Potrebbe essere possibile, eventualmente, utilizzare individui prelevati da questo lago come organismi di controllo, nel caso si volesse evitare la procedura di mantenimento in laboratorio. Nel Lago Maggiore l’analisi dei nostri dati ha mostrato una situazione preoccupante per la contaminazione da organofosforati, evidenziata dall’inibizione dell’attività AChE, misurata in quasi tutti i punti monitorati (Fig. 3.5.4). L’inquinamento è più marcato nella regione settentrionale e mediana, mentre l’enzima sembra non risentire dell’inibizione nel bacino meridionale, in prossimità dell’emissario (Fiume Ticino). La contaminazione del bacino settentrionale potrebbe essere dovuta al trasporto di sostanze fitosanitarie dal Fiume Ticino, dal Maggia e dal Verzasca, alcuni tra i principali affluenti del lago che attraversano zone a forte valenza agricola. La zona centrale del lago e la Baia di Pallanza hanno presentato dei valori d’inibizione leggermente inferiori rispetto al bacino settentrionale, dovuti probabilmente alla minore quantità di contaminanti trasportati dal Fiume Toce, che entra nel lago a livello della baia. Un’altra ipotesi è data dalla possibilità che la zona possa risentire della contaminazione proveniente da nord, in quanto esistono correnti superficiali in grado di trasportare gli inquinanti, in particolare in presenza di venti settentrionali (Barbanti e Carollo, 1963). Il bacino 139 meridionale, corrispondente ai siti di campionamento di Brebbia e Ranco, non ha evidenziato differenze rispetto ai controlli, probabilmente a causa dell’assenza di composti organofosforati, di utilizzo prevalente agricolo e con un tempo di degradazione piuttosto basso (Ohshiro et al., 1996; Parisi, 2002a). Tale risultato indica anche che i due fiumi Bardello, che proviene dal Lago di Lugano, e Brebbia non sembrano trasportare contaminanti di questo tipo, non rappresentando dunque sorgenti di contaminazione puntiforme. Le elevate inibizioni rilevate in zone a forte interesse naturalistico come le Bolle di Magadino, nei pressi dell’immissione del Ticino, e la zona di Fondotoce, in corrispondenza dell’immissione del Toce, considerata una delle aree umide più importanti del nord Italia, rendono sicuramente necessario un ulteriore approfondimento sulle cause della contaminazione e sugli effetti che può provocare sulla biocenosi acquatica. Inoltre, in alcuni studi, è stato evidenziato che un’inibizione dell’AChE superiore al 60%, come rilevato nelle stazioni di Magadino, Brissago, Giona, Luino e Stresa, possa portare alla morte di alcuni individui o danneggiare in modo significativo alcune popolazioni più sensibili (Fuller, 1980; Fleming et al., 1995; Sibley et al., 2000), anche se spesso è difficile prevedere gli effetti a livello di popolazione basandosi solamente su dati derivati dalla misura dei biomarker (Hyne e Maher, 2003). Scorporando i risultati ottenuti nelle due sponde occidentale ed orientale del Verbano, è stato possibile rilevare una differente situazione di contaminazione. Mentre, infatti, la sponda piemontese presenta valori di attività decisamente variabili, che testimoniano la presenza di sorgenti puntiformi legate alla notevole attività agricola e turistica, la sponda lombarda evidenzia un’inibizione rispetto ai controlli decrescente andando da nord (Magadino) a sud (Ranco). E’ da sottolineare inoltre come la U.S. E.P.A. consideri “inibizione biologicamente significativa” una diminuzione di attività AChE pari o superiore al 20% rispetto al livello basale, anche se sottolinea che qualsiasi diminuzione statisticamente significativa inferiore al 20%, o non statisticamente significativa superiore allo stesso valore percentuale, andrebbe indagata con studi più approfonditi (U.S. EPA, 1998). Molti dei nostri dati superano tale valore, rendendo quindi auspicabile continuare il controllo 140 di queste classi di contaminanti e degli effetti provocati sull’ambiente (Tab. 3.5.4). 4,00 nmol/min mg prot 3,50 3,00 2,50 2,00 1,50 1,00 0,50 0,00 Arona Ranco Brebbia Stresa Baveno Laveno Pallanza Intra Caldè Luino Giona Cannobio Brissago Magadino Controlli Fig. 3.5.3: Andamento dell’attività AChE nel Lago Maggiore rispetto ai valori di controllo E' da segnalare inoltre che la presenza di altri composti, come IPA, metalli o erbicidi può potenziare l'effetto inibitorio di organofosforati e carbammati sull'attività AChE. Di conseguenza, potrebbe essere utile confrontare i dati ottenuti da altri biomarker per ottenere delle conferme di questa sinergia. Alcuni valori di inibizione misurati raggiungono infatti i livelli ottenuti nelle prove di laboratorio, eseguite utilizzando concentrazioni molto elevate di contaminante, situazione presumibilmente molto peggiore di quella presente in campo. 141 Tabella 3.5.4: Differenze tra siti e controlli con valori di significatività statistica per l’attività AChE (* p<0,05; ** p<0,01; n.s. non significativo. ANCOVA, Bonferroni post-hoc test) AChE Differenza fra Sito (I) Sito (J) Controlli Significatività medie (I-J) Intervallo di confidenza 95% (nmol/min mg prot.) (p) Desenzano 2,05 ** 0,87 3,23 Limone 1,46 ** 0,30 2,63 Predore 1,65 ** 0,49 2,82 Costa Volpino 1,77 ** 0,61 2,94 Domaso 1,56 ** 0,38 2,73 Argegno 1,54 ** 0,38 2,71 Lecco 1,21 * 0,05 2,38 Pojana -1,13 n.s. -2,36 0,10 Porlezza -0,67 n.s. -1,90 0,56 Magadino 1,87 ** 0,70 3,03 Brissago 1,80 ** 0,63 2,96 Cannobbio 1,15 * 0,01 2,32 Giona 1,40 ** 0,21 2,58 Caldè 1,36 ** 0,19 2,52 Laveno 0,80 n.s. -0,36 1,97 Intra 1,39 ** 0,22 2,56 Baveno 1,54 ** 0,37 2,71 Luino 1,11 n.s. -0,06 2,27 Ranco -0,14 n.s. -1,32 1,03 Stresa 1,64 ** 0,47 2,80 Magadino 1,87 ** 0,70 3,03 Pallanza 1,60 ** 0,42 2,77 Arona 1,39 ** 0,20 2,57 142 3.6 Valutazione del rischio ambientale Per poter formulare una valutazione del rischio ambientale dei grandi laghi subalpini, parallelamente alle misure di attività enzimatica, sono state condotte analisi chimiche volte a determinare l’effettiva concentrazione di alcuni contaminanti nei tessuti dei molluschi prelevati nei laghi. I composti analizzati sono stati: pp’DDT e relativi composti omologhi PCB Isomeri dell’HCH (α,β,γ,δ) HCB Chlorpyrifos (CP) e metabolita ossidato (CPO) Erbicidi: terbutilazina, alachlor e metolachlor I risultati delle analisi sono rappresentati nelle figure 3.6.1 (Lugano, Como, Iseo e Garda) e 3.6.2 (Maggiore). E’ evidente come la principale contaminazione rilevata sia quella dovuta ai PCB, particolarmente nella zona meridionale del Lago Maggiore, nell’intero Lago di Como e nel sito di Costa Volpino (Lago d’Iseo). Il Lago Maggiore, come noto, è stato interessato da una preoccupante contaminazione da DDT e metaboliti, tuttora rilevata (Binelli et al., 2004a), in particolare nella zona della baia di Pallanza e quella di Brebbia. Gli altri inquinanti monitorati non hanno invece mostrato concentrazioni significative in nessuno dei siti di campionamento. 143 ng/g lip. 0 500 1000 1500 2000 2500 3000 Desenzano Peschiera Limone Predore C. Volpino Domaso Argegno Lecco Pojana Brusimpiano Porlezza HCB SUMHCH SUMDDT SUMPCB SUMERB SUMCP Fig. 3.6.1: concentrazione degli inquinanti nei tessuti di D. polymorpha prelevate nei laghi Garda, Iseo, Como e Lugano. (SUMHCH= α, β, γ, δ HCH; SUMDDT= op’ - pp’ DDE, DDD e DDT; SUMPCB= somma dei PCB totali; SUMERB= terbutilazina, alachlor e metolachlor; SUMCP= chloorpyrifos e chlorpyrifos-oxon) 144 ng/g lip. 0 500 1000 1500 2000 Magadino Brissago Cannobio Giona Luino Caldè Intra Pallanza Laveno Baveno Stresa Brebbia Ranco Arona HCB SUMHCH SUMDDT SUMPCB SUMERB SUMCP Fig. 3.6.2: concentrazione degli inquinanti nei tessuti di D. polymorpha prelevate nel Lago Maggiore. (SUMHCH= a,b,g,d HCH; SUMDDT= op’ - pp’ DDE, DDD e DDT; SUMPCB= somma dei PCB totali; SUMERB= terbutilazina, alachlor e metolachlor; SUMCP= Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-oxon) 145 Per cercare di stabilire se esistessero delle relazioni tra le concentrazioni di contaminanti misurate e le attività enzimatiche utilizzate come biomarker, è stata utilizzata la metodologia della PCA (Principal Component Analysis), utilizzando come variabili le concentrazioni dei principali inquinanti, la misura dei biomarker e alcuni variabili sia abiotiche (temperatura di prelievo) che biotiche (Frazione lipidica e lunghezza degli organismi) (Fig. 3.6.3). Fig. 3.6.3: PCA eseguita sui dati ottenuti da tutti i laghi campionati Il grafico dei pesi fattoriali evidenzia che non ci sono relazioni dirette tra gli inquinanti misurati ed i biomarker utilizzati. Lo scopo principale di questo studio è infatti quello di evidenziare contaminazioni diverse da quelle facilmente misurabili con procedure analitiche “classiche”. Il gruppo dei DDT (in blu nel grafico) è infatti decisamente separato sia da quello dei PCB (in rosso) che da quello dei biomarker (in verde). Variabili che si pongono vicine nel grafico sono, come noto, portatrici di un’informazione simile, e quindi correlate direttamente tra loro. Un esempio è facilmente osservabile per la vicinanza tra il valore di temperatura di prelievo e l’attività 146 AChE che, come precedentemente dimostrato, è fortemente influenzata da questo parametro ambientale. Nonostante che i PCB siano potenzialmente in grado di indurre l’attività EROD e MROD, e che quindi ci si potesse aspettare di trovare una correlazione tra i valori di attività enzimatica e concentrazione di questi composti, dal grafico si deduce che nel nostro caso ciò non si è verificato. Probabilmente, le concentrazioni dei PCB dioxin-like (non essendo infatti stati rilevati i PCB coplanari) non sono sufficientemente alte da causare un’induzione diretta del CYP450. Le concentrazioni misurate negli esperimenti condotti in laboratorio (paragrafo 3.2.1) hanno dimostrato un’attivazione a concentrazioni nei tessuti fino a 500-600 ng/g lipidi per l’Aroclor 1260 e fino a circa 500 ng/g lipidi per il PCB-126. A concentrazioni più alte, l’attività EROD mostrava invece un rapido decremento. I risultati in campo mostrano, effettivamente, un andamento in crescita dell’attività EROD fino a concentrazioni di circa 800 ng/g lipidi di PCB (Fig. 3.6.4). 4.5 EROD (pmol/min mg) 4 3.5 3 2.5 R2 = 0.70 2 1.5 1 0.5 0 300 400 500 600 700 800 900 PCB (ng/g lip.) Fig. 3.6.4: andamento dell’attività EROD in stazioni di prelievo con concentrazione di PCB misurata fino a 800 ng/g lip. Il coefficiente di correlazione di Spearman (ρ=0,43; p=0,097) non è particolarmente elevato, ma il valore del p-level è vicino alla soglia di significatività. Ciò potrebbe indicare come, aumentando il numero di campioni, 147 tale correlazione possa diventare significativa. Anche la presenza di altri inquinanti non misurati in questa ricerca, che potrebbero influenzare l’attività EROD, potrebbe essere alla base del basso valore di correlazione trovato. La possibile presenza di ulteriori fattori di disturbo o inibizione (come i metalli pesanti) rende difficile quantificare la reale presenza dei composti che attivano il CYP450. Le stesse considerazioni sembrano valere per l’attività MROD, con una analoga attivazione fino a concentrazioni di PCB di circa 800 ng/g lipidi, e una successiva inibizione a concentrazioni più elevate. Utilizzando tutti i dati, l’andamento generale sembra confermare questa ipotesi sia per EROD che MROD, anche se i valori di R2 sono piuttosto bassi, e quindi per il momento non molto attendibili: ulteriori ricerche sono necessarie per confermare questo andamento (Fig. 3.6.5 e 3.6.6). EROD (pmol/min mg prot) 4.5 4 3.5 3 2.5 2 2 R = 0.34 1.5 1 0.5 0 0 500 1000 1500 2000 PCB (ng/g lip) Fig. 3.6.5: andamento dell’attività EROD rispetto alle concentrazioni di PCB misurate in tutti i siti di campionamento 148 MROD (pmol/min mg prot) 3 2.5 2 2 R = 0.25 1.5 1 0.5 0 0 500 1000 1500 2000 PCB (ng/g lip) Fig. 3.6.6: andamento dell’attività MROD rispetto alle concentrazioni di PCB misurate in tutti i siti di campionamento Una situazione inattesa si ritrova se si analizzano le relazioni esistenti tra attività EROD e MROD, e le concentrazioni di DDT e relativi metaboliti. Osservando il grafico della PCA (Fig. 3.6.3) si può subito notare come esista una forte simmetria rispetto all’origine degli assi tra la posizione di queste variabili. Tale simmetria è indice di correlazione inversa, come evidenziato nella tabella 3.6.1. Tab. 3.6.1: correlazioni (ρ di Spearman) e valori di significatività tra i valori di attività EROD e MROD e le concentrazioni di DDT e metaboliti. In rosso i valori di ρ ρ > 0,7. (N=25) EROD MROD Significatività Significatività (p) ρ (p) op' DDE - 0.46 0.022 - 0.45 0.023 pp' DDE - 0.63 <0.001 - 0.45 0.024 op' DDD - 0.77 <0.001 - 0.66 <0.001 pp' DDD - 0.78 <0.001 - 0.64 0.001 op' DDT -0.59 0.002 - 0.44 0.028 pp' DDT -0.69 <0.001 - 0.49 0.012 Somma DDT - 0.77 <0.001 - 0.65 <0.001 149 I valori di correlazione sono risultati tutti altamente significativi, con ρ compresi tra – 0,44 e – 0,77. I valori più elevati sono indice di forte correlazione e sono confermati dall’alta significatività statistica. Non sono reperibili, in letteratura, dati che attestino un’azione di tal genere. Al contrario, sembra che il DDT sia in grado di attivare la famiglia 2B del CYP450 (Fossi, 1998), mentre non abbia nessun effetto sul CYP1A1. Tuttavia, analizzando nel dettaglio i singoli siti, è possibile osservare come quelli più contaminati (come Baveno e Stresa, e in generale tutti quelli del Lago Maggiore) si trovino tutti nella parte destra del grafico, corrispondente ad attività EROD più bassa (Fig. 3.6.7). Al contrario, siti con una bassa concentrazione di pp’ DDD si trovano nella parte sinistra del grafico, corrispondente ad un’alta attività enzimatica. Di conseguenza, è ipotizzabile come la presenza di DDT (e dei suoi metaboliti) non sia in grado di attivare l’attività EROD, ma che al contrario alte concentrazioni di questi composti possano avere un effetto di inibizione competitiva, come già dimostrato per altre sostanze (Petrulis e Bunce, 1999). Fig. 3.6.7: relazione tra concentrazione di pp’ DDD ed attività EROD, misurati in tutti i siti di campionamento 150 Non sono state trovate relazioni significative, invece, tra l’attività AChE e gli inquinanti monitorati. Neanche la presenza di Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-oxon sembra influenzare l’attività AChE, nonostante le note proprietà anticolinesterasiche di questi composti. E’ probabile che la presenza di altri inquinanti, pur non agendo direttamente sull’enzima, abbia potenziato l’azione tossica di composti anti-AChE presenti nell’ambiente, come già verificato nelle prove effettuate in laboratorio utilizzando CP e Terbutilazina contemporaneamente. Anche in letteratura, inoltre, sono segnalati casi di sinergia tra composti organofosforici ed altre classi di inquinanti, come IPA (Jett et al., 1999), atrazina (Belden e Lydy, 2000) e metalli pesanti (Lionetto et al., 2003). E’ possibile, infine, che siano altri i composti che hanno causato le forti inibizioni misurate in molti siti di campionamento. 151 3.6.1 Utilizzo dei biomarker nella valutazione del rischio ambientale 3.6.1.1 Misura dell’attività del CYP450 e AChE Dai risultati ottenuti sia nei saggi eseguiti in laboratorio che negli studi di monitoraggio è possibile proporre un andamento teorico dell’attività del CYP450 rispetto alla concentrazione del contaminante con struttura dioxin-like (Fig. 3.6.8). Dopo una prima fase in cui è presente una moderata induzione dovuta a basse concentrazioni di inquinante (zona verde A), l’attività raggiunge un valore massimo, indice della presenza di una contaminazione ambientale preoccupante (zona gialla B). All’aumentare della concentrazione del tossico, l’attività scende a causa di una inibizione competitiva (Petrulis e Bunce, 1999) fino a raggiungere valori simili a quelli di controllo (zona rossa C). Un ulteriore aumento della contaminazione (o la contemporanea presenza di inibitori) porta infine ad un’inibizione dell’attività enzimatica rispetto ai controlli (zona rossa D). Inibizione Induzione A B C D Concentrazione contaminante Fig. 3.6.8: andamento dell’attività del CYP450 rispetto ai controlli, all’aumentare della concentrazione dei tossici dioxin-like nei tessuti dell’organismo (in assenza di inibitori diretti) 152 Il problema principale quindi, nel caso di un contaminante in grado di attivare il CYP450 (Fig. 3.6.1) è quello di riuscire a distinguere tra la fase iniziale (zona verde A), in cui la contaminazione non è ancora elevata, da quella di inibizione enzimatica (zona rossa C), in cui al contrario la presenza di inquinanti ha già raggiunto livelli di allarme, ma che è caratterizzata da una attività del CYP450 simile a quella della zona A. Una possibilità per discriminare tra una bassa contaminazione ed una situazione ambientale preoccupante è utilizzare un secondo biomarker, sensibile allo stesso tipo di composti, che non presenti però un comportamento analogo. Nel nostro caso è possibile utilizzare a questo scopo l’attività AChE, il cui valore non è direttamente influenzato da composti planari, ma può variare grazie a dei fenomeni di sinergia che portano ad un potenziamento dell’inibizione dell’attività AChE se l’organismo viene esposto contemporaneamente a IPA, composti triazinici E' ormai ampiamente dimostrato come l'inibizione dell'attività AChE sia un chiaro segnale della presenza di composti organofosforici o carbammati nell'ambiente. Una volta eliminate le variabili ambientali che potrebbero causare un'alterazione dei valori basali di attività AChE dell'organismo utilizzato nel monitoraggio, come la temperatura (la cui influenza per D. polymorpha è evidenziata nel paragrafo 3.2.2), tale attività enzimatica può essere utilizzata con successo nel monitoraggio ambientale basato sui biomarker. Alcuni accorgimenti, come il prelievo di organismi della stessa taglia ed il controllo dello stadio riproduttivo rimangono operazioni importanti da eseguire in attesa che ulteriori studi chiariscano l'influenza di questi parametri sull'attività AChE. Tuttavia, è stato dimostrato anche come la presenza di altri tipi di tossici, come IPA (Jett et al., 1999), erbicidi (Belden e Lydy, 2000) e, anche se a tale proposito si trovano dati discordanti, metalli pesanti (Lionetto et al., 2003; Romani et al., 2003) possa potenziare l'azione inibitoria dei composti antiAChE: di conseguenza, l'utilizzo soltanto di questo biomarker non è in grado di dare indicazioni definitive sul reale tipo di contaminazione presente nell'area di monitoraggio. 153 Un'attivazione dell'attività AChE è stata segnalata dopo esposizione di esemplari di Sparus auratus e Oncorhynchus mykiss a Cu2+ (Romani et al., 2003; Dethloff et al., 2003), anche se non seguita da un accumulo del metallo nei tessuti. Ulteriori approfondimenti saranno necessari per poter utilizzare l'attivazione dell'enzima come segnale della presenza di rame nell'ambiente, soprattutto utilizzando molluschi, per i quali questo tipo di risposta non è mai stata segnalata. Escludendo quei punti per cui le attività EROD o MROD sono risultate significativamente diverse dai controlli e rappresentando graficamente anche i valori di AChE per ogni sito di campionamento, è possibile ipotizzare lo stato di contaminazione globale di ciascun punto (Fig. 3.6.9). Possiamo ritenere che i punti che sono risultati statisticamente diversi dai controlli si trovino nella zona gialla B (quelli con induzione dell’EROD o MROD: Peschiera, Limone, Domaso, Argegno e Brusimpiano) e nella zona rossa D (inibizione EROD: Luino). Dal grafico 3.6.9 si può dedurre invece che alcuni punti con attività AChE prossima a quella dei controlli, ma con attività EROD leggermente più alta (Ranco, Porlezza e Pojana) non siano interessati da una forte contaminazione, e che quindi si trovino nella zona verde A. La situazione di Brebbia è, al contrario, la più difficile da interpretare, in quanto potrebbe essere interessata da una bassa contaminazione da parte sia dei composti inibitori dell’attività AChE che degli attivatori di quella EROD, ricadendo quindi nella zona A come le precedenti 3 stazioni, oppure essere sottoposta ad una forte contaminazione da composti planari (zona D). Dei restanti punti, alcuni presentano un’attività EROD decisamente più alta rispetto ai controlli (Predore, Costa Volpino, Desenzano e Lecco) e un’attività AChE fortemente inibita: è plausibile che essi siano interessati da una contaminazione intensa, in cui l’attività del CYP450 è vicina ai valori massimi (zona gialla o prima parte della rossa C). 154 Fig. 3.6.9: valori di attività AChE ed EROD per i punti di campionamento non statisticamente differenti rispetto al controllo EROD. Le linee corrispondono ai valori di controllo per ciascun enzima Per i restanti punti, caratterizzati da un’attività AChE fortemente inibita e attività EROD vicina ai controlli (Intra, Brissago, Baveno, Stresa ed Arona), si possono ipotizzare due situazioni: una marcata contaminazione da composti organofosforici/carbammati, e assenza di composti in grado di attivare il CYP450 (e quindi zona verde A), oppure forte presenza anche di questi ultimi, e quindi seconda parte della zona rossa C. Le analisi chimiche, che hanno evidenziato una forte contaminazione da DDT e metaboliti per Baveno e Stresa, da PCB per Arona (Fig. 3.6.2), e la presenza degli scarichi di formaldeide e acetammide di Intra farebbero ritenere che, almeno per questi punti, la seconda ipotesi potrebbe essere quella corretta. Per Brissago invece, non essendo stato rilevata una contaminazione elevata per nessuno di questi composti, potrebbe essere più corretta la prima ipotesi. I restanti punti (Giona, Magadino, Cannobio, Laveno, Pallanza e Caldè) sono caratterizzati invece da elevata inibizione dell’attività AChE e moderata 155 inibizione dell’EROD. Per questi punti potrebbe essere possibile ritenere che la contaminazione abbia già portato all’inibizione del CYP450, e che quindi si trovino nella zona rossa D. In alternativa, la possibile presenza di metalli pesanti o di altri composti in grado di inibire direttamente il CYP450 è un'ipotesi da tenere in considerazione. 4 Il rischio ambientale dei grandi laghi subalpini 4.1 Valutazione del rischio mediante biomarker Anche se non è stato possibile risolvere completamente i dubbi sul monitoraggio considerando solo i dati dei biomarker, è possibile dedurre che: Siti la cui attività EROD/MROD è risultata significativamente diversa dai controlli, sono interessati da una contaminazione che ha livelli preoccupanti (fase gialla B – massima attività CYP450) o molto preoccupanti (fase rossa D – inibizione attività CYP450 dovuta ad elevate concentrazioni di inquinanti planari, o presenza di inibitori, o di entrambi) Per siti non statisticamente differenti dai controlli, è necessario ricorrere almeno ad un secondo biomarker. Riassumendo, relativamente ai composti in grado di attivare il CYP450 e utilizzando anche i risultati ottenuti per l’AChE si potrebbero ipotizzare situazioni di contaminazione come quelli presentati in Tab. 4.1.1. 156 Tab. 4.1.1: Valutazione dello stato di contaminazione di un sito utilizzando i 2 biomarker considerati in questa ricerca. + : attivazione; - : inibizione; A:contaminazione leggera e non preoccupante; B:contaminazione presente, ancora nella fase iniziale; C: marcata contaminazione; D: contaminazione pesante. EROD AChE -- - 0 - D B-C A-B 0 C-D A-B A + B-C A-B A-B ++ B-C B-C B Applicando questa tabella ai siti monitorati, il risultato è mostrato in Tab. 4.1.2. La tabella riassuntiva 4.1.2 conferma le ipotesi formulate precedentemente. Il lago meno contaminato è risultato il Lugano, con la sola eccezione di Brusimpiano, sito per il quale sono mancanti purtroppo sufficienti ripetizioni per la misura dell'AChE. Tuttavia, l'induzione statisticamente significativa dell'attività EROD indica una probabile contaminazione puntiforme in corrispondenza di questa zona. I laghi di Como, Garda ed Iseo mostrano una contaminazione diffusa ed omogenea, di entità ancora non eccessivamente pesante, ma da mantenere sotto controllo. Il Lago Maggiore presenta una situazione variabile, con due aree fortemente contaminate: oltre alla Baia di Pallanza (Pallanza, Baveno e Stresa), anche il bacino settentrionale in territorio svizzero mostra una situazione fortemente compromessa. La presenza in entrambe le zone di zone di forte interesse naturalistico (la Bolle di Magadino a nord, e la zona di Fondotoce in corrispondenza della baia di Pallanza) richiederebbe ulteriori accertamenti per valutare la reale entità della contaminazione presente ed i potenziali rischi sia per l'ambiente che per la salute della popolazione residente nell'area. 157 Tab. 4.1.2: valutazione dello stato di contaminazione dei siti monitorati sulla base delle analisi EROD e AChE (n.d.: dato non disponibile per problemi analitici; 0 = uguale al controllo; + = MAGGIORE LUGANO COMO ISEO GARDA induzione; - = inibizione) EROD AChE Stato Desenzano ++ -- B-C Limone ++ - B-C Peschiera ++ n.d. B Predore ++ -- B-C Costa Volpino + -- B-C Domaso + -- B-C Argegno ++ -- B-C Lecco + - A-B Pojana 0 0 A Brusimpiano ++ n.d. B? Porlezza 0 0 A Magadino - -- D Brissago 0 -- C-D Cannobio 0 - A-B Caldè - - B-C Giona 0 - A-B Luino - - B-C Intra 0 - A-B Pallanza - -- D Laveno - 0 A-B Baveno 0 -- C-D Stresa 0 -- C-D Brebbia - n.d. A-B / D ? Ranco ++ 0 B Arona 0 - A-B 158 4.2 Utilizzo integrato di biomarker e dati chimici L’utilizzo di soli due biomarker, ovviamente, allo stato attuale delle conoscenze, potrebbe portare a degli errori nella valutazione della reale situazione ambientale, in quanto non in grado di coprire interamente lo spettro degli inquinanti esistenti. In attesa di poter verificare se l’utilizzo di nuovi biomarker aumenti il grado di precisione della metodica di valutazione del rischio, è possibile utilizzare i dati chimici in nostro possesso per raffinare l’analisi della situazione ambientale, e creare ulteriori classi di qualità per la presenza dei principali inquinanti da noi monitorati, PCB e DDT. I valori della somma dei DDT per tutti i laghi considerati variano da un minimo di 100,4 ng/g lip. (Limone – Lago di Garda) fino ad un massimo di 1417,3 ng/g lip. (Stresa – Lago Maggiore). Per i PCB, invece, il valore minimo misurato è stato di 365,9 (Stresa – Lago Maggiore), con un massimo di 2508,5 (Costa Volpino – Lago d’Iseo). Sulla base di questi valori, le classi proposte sono le seguenti (Tab. 4.2.1): Tab. 4.2.1:classi di qualità proposte per l’impiego con i dati chimici di DDT e PCB (0=ottima; 4= pessima) Somma DDT (ng/g lip.) Somma PCB (ng/g lip.) Classe di qualità 100-350 300-800 0 350-600 800-1300 1 600-850 1300-1800 2 850-1100 1800-2300 3 >1100 >2300 4 159 E’ ovvio che la scelta delle classi di qualità è basata su considerazioni arbitrarie, in quanto non sono disponibili in letterature dei criteri oggettivi. Tuttavia, anche nella valutazione di impatto ambientale (VIA) e in molte leggi (ad esempio il D.L. 152/99, che si occupa dello stato ambientale dei corpi idrici) scelte simili sono basate su criteri altrettanto arbitrari. In questo caso, abbiamo scelto di basarci sull’intervallo di concentrazioni presenti in Dreissena polymorpha, assumendo che la classe 0 sia quella corrispondente ai valori di background dei composti misurati. Il risultato ottenuto applicando le classi di qualità appena definite ai siti di campionamento è elencato nella tabella 4.2.2: per tenere conto di entrambi i tipi di contaminazione i due punteggi sono stati sommati, ottenendo un indice di qualità complessivo per gli inquinanti misurati. Dalla tabella è possibile notare che i valori peggiori sono stati ottenuti nel Lago Maggiore, interessato da una forte contaminazione da DDT sommata, in alcuni siti, ad una contaminazione non trascurabile da PCB, che rende il punteggio molto alto, segnale quindi di una scarsa qualità ambientale. A questo punto è possibile incrociare i valori ottenuti dall’ERA basata solamente sui biomarker (Tab. 4.1.2) ai punteggi ottenuti mediante le classi di qualità chimica (Tab. 4.2.2) ottenendo un valore integrato di entrambi i metodi, espresso come giudizio di qualità (Tab. 4.2.3). Utilizzando la tabella 4.2.3 ai valori ottenuti nei siti di prelievo dei grandi laghi subalpini, la situazione è quella mostrata in tabella 4.2.4. Il Lago Maggiore si conferma quello a più alto rischio ambientale, presentando infatti delle stazioni (Magadino, Brissago, Pallanza, Baveno, Stresa e Brebbia) in cui la qualità è risultata pessima. L’apporto dei dati chimici è risultato molto importante per poter mostrare tre situazioni a bassa qualità ambientale (Costa Volpino – Lago d’Iseo, Brebbia e Laveno – Lago Maggiore), che dall’analisi basata solamente sui biomarker non sembravano essere in condizioni particolarmente preoccupanti. 160 MAGGIORE LUGANO COMO ISEO GARDA Tab. 4.2.2: classi di qualità chimica per i siti monitorati. DDT PCB Totale Desenzano 0 1 1 Limone 0 0 0 Peschiera 0 0 0 Predore 0 1 1 Costa Volpino 0 4 4 Domaso 0 1 1 Argegno 0 1 1 Lecco 0 1 1 Pojana 0 0 0 Brusimpiano 0 1 1 Porlezza 0 0 0 Magadino 2 0 2 Brissago 1 1 2 Cannobio 1 1 2 Caldè 2 0 2 Giona 4 0 4 Luino 3 0 3 Intra 3 0 3 Pallanza 2 0 2 Laveno 3 1 4 Baveno 4 0 4 Stresa 4 1 5 Brebbia 3 3 6 Ranco 1 1 2 Arona 2 2 4 161 Tab. 4.2.3: tabella a doppia entrata per la definizione delle classi di qualità basata sui dati chimici e biomarker Analisi chimica Biomarker A B C D 0-1 ottima buona discreta scarsa 2-3 buona discreta scarsa pessima 4-5 discreta scarsa pessima pessima 6-7 scarsa pessima pessima pessima I nostri grandi laghi subalpini possono, dunque, essere divisi in tre diverse categorie basate sull’inquinamento da composti organici persistenti: il Lago di Lugano presenta una buona o, addirittura, ottima qualità delle sue acque in tutte le stazioni di campionamento analizzate. Il Lago di Garda, Como ed Iseo (ad eccezione di Costa Volpino) mostrano una discreta condizione ambientale, mentre la maggior parte dei siti di prelievo del Lago Maggiore rappresenta una zona a forte rischio ambientale, dovuto non solo all’ormai conosciuto inquinamento da parte del DDT, ma anche dalla presenza di alcune sorgenti puntiformi di PCB. 162 Tab. 4.2.4: tabella riepilogativa della condizione ambientale dei grandi laghi subalpini. I siti in corsivo sono quelli in cui non c’è accordo tra i dati dei biomarker e le analisi MAGGIORE LUGANO COMO ISEO GARDA chimiche. Biomarker Analisi chimica Totale Desenzano B-C 1 discreta Limone B-C 0 discreta Peschiera B 0 buona Predore B-C 1 discreta Costa Volpino B-C 4 pessima Domaso B-C 1 discreta Argegno B-C 1 discreta Lecco A-B 1 buona Pojana A 0 ottima Brusimpiano B? 1 buona Porlezza A 0 ottima Magadino D 2 pessima Brissago C-D 2 pessima Cannobio A-B 2 discreta Caldè B-C 2 scarsa Giona A-B 4 scarsa Luino B-C 3 scarsa Intra A-B 3 discreta Pallanza D 2 pessima Laveno A-B 4 scarsa Baveno C-D 4 pessima Stresa C-D 5 pessima Brebbia A-B / D ? 6 pessima Ranco B 2 discreta Arona A-B 4 scarsa 163 4.2 CONCLUSIONI L’utilizzo dei biomarker si è rivelato un ottimo approccio per l’identificazione dell’inquinamento dei corpi idrici esaminati. Pur utilizzando soltanto due biomarker, la sensibilità ottenuta è stata molto elevata, come confermato anche dalle analisi chimiche svolte in parallelo: soltanto in 3 stazioni di campionamento su 25 la metodica non è stata in grado di rilevare una contaminazione invece presente. Probabilmente, aumentando il numero di biomarker, la sensibilità di questo tipo di monitoraggio biologico crescerebbe ulteriormente, permettendo di eliminare, o almeno ridurre, la necessità di utilizzare delle indagini di tipo chimico in contemporanea. La presenza di diversi tipi di composti nell'ambiente e l'immissione di sempre nuove molecole di uso industriale ed agricolo rendono il monitoraggio di tipo puramente chimico sempre più difficile da attuare. Lo sviluppo di un biomonitoraggio basato su biomarker, al contrario, potrebbe aiutare ad evidenziare le aree più a rischio di contaminazione e quindi a focalizzare le analisi in questi siti. Tuttavia, le ricerche che devono essere effettuate prima di poter ottenere delle risposte certe sono ancora molteplici: dalla definitiva conoscenza dei fattori naturali in grado di alterare le reazioni a livello molecolare, fino alle possibili interazioni tra tossici che possono "mascherare" gli effetti, come qui evidenziato a proposito delle diverse risposte del CYP450 a classi di contaminanti differenti. L’utilizzo di questo biomarker, in ogni caso, si è rivelato di difficile attuazione, soprattutto per la difficoltà di interpretazione dei risultati. 164 5. BIBLIOGRAFIA Achard, M., Baudrimont, M., Boudou, A., Bourdineaud, J.P. (2004). Induction of a multixenobiotic resistance protein (MXR) in the Asiatic clam Corbicula fluminea after heavy metals exposure. Aquatic Toxicology 67, 347-357. Adams, S. M., Greeley, M.S. (2000). Ecotoxicological indicators of water quality: using multi-response indicators to assess the health of aquatic ecosystems. 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