università degli studi di milano

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
FACOLTÀ DI SCIENZE MM.FF.NN
DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN BIOLOGIA ANIMALE CICLO XVII
TESI DI DOTTORATO DI RICERCA
Utilizzo di biomarkers in Dreissena polymorpha (Pallas,
1771) in programmi di monitoraggio ambientale
FRANCESCO RICCIARDI
TUTOR E COORDINATORE DEL DOTTORATO
Prof. Alfredo Provini
INDICE
1
Introduzione
…………………….…………………………………….4
1.1
Valutazione del rischio ambientale (ERA) ………………………6
1.2
Monitoraggio ambientale ……………………………………….……….8
1.3
Biomonitoraggio ………………………………………………………………9
1.4
Biomarker ………………………………………………………………………14
1.4.1
I biomarker nel monitoraggio ambientale ………………………….18
1.4.2
Studio e sviluppo di nuovi biomarker ………………………………….23
1.4.3
Problemi legati all’utilizzo dei biomarker……………………………..25
1.4.4
I biomarker nel monitoraggio delle acque interne ……………..28
1.4.5
Potenziali applicazioni dei biomarker……………………………………29
1.5 Monitoraggio con Dreissena polymorpha………………………….32
1.6
1.5.1
Posizione sistematica ed anatomia………………………………………33
1.5.2
Biomarker applicati a Dreissena polymorpha………………………35
Biomarker utilizzati……………………………………………………………39
1.6.1
Il citocromo P450………………………………………………………………….39
1.6.1.1
Meccanismo molecolare di induzione del citocromo
P450 ………………………………………………………………………….43
1.6.1.2
Metodi analitici per misurare l’induzione del citocromo
P450…………………………………………………………………………..45
1.6.1.3
Fattori che influiscono sull’attività del citocromo
P450……………………………………………………………………………47
1.6.2
Acetilcolinesterasi (AChE) ………………………………………………….51
1.6.2.1
Inibizione……………………………………………………………………53
1.6.2.2
Riattivatori………………………………………………………………….55
1.7 Composti chimici ……………………….……………………………………57
1.7.1
Organofosforici e carbammati…………………………………………….57
1.7.2
Idrocarburi policiclici aromatici (IPA)………………………………….63
1.7.3
Policlorodifenili (PCB) ………………………………………………………….65
1
1.7.4
2
pp’ DDT e composti omologhi …………………………………………….67
Materiali e Metodi………………………………………………………71
2.6 Mantenimento degli animali e
condizioni di stabulazione……………………………………………….71
2.7 Prove condotte in laboratorio……………………………………………73
2.7.2
Influenza della temperatura sulle attività enzimatiche……….73
2.7.3
Esposizione agli inquinanti……………………………………………………73
2.7.4
Esposizione al 2-PAM…………………………………………………………….75
2.8 Misura dell’attività del citocromo P450…………………………….76
2.9 Misura dell’attività ChE……………………………………………………..79
2.10 Dosaggio delle proteine…………………………………………………….80
2.11 Analisi gascromatografica ……………………………………………….82
2.12 Area di monitoraggio ……………………………………………………….83
3
2.12.2
Lago di Garda ……………………………………………………………………….85
2.12.3
Lago Maggiore ………………………………………………………………………85
2.12.4
Lago di Como ……………………………………………………………………….87
2.12.5
Lago d’Iseo ……………………………………………………………………………88
2.12.6
Lago di Lugano …………………………………………………………….89
Risultati e Discussione……………………………………………91
3.1 Sviluppo delle metodiche di analisi …………………………………91
3.1.1
Misura dell’attività AChE ……………………………………………….…….91
3.1.2
Misura dell’attività del CYP450 …………………………………………….93
3.1.3
Effetto del tempo di conservazione dei campioni ……………….94
3.2 Effetto della temperatura sulle attività enzimatiche ………95
3.2.1
Influenza sull’attività del CYP450 ……………………………………….95
3.2.2
Influenza sull’attività AChE ………………………………………………….97
3.3
Analisi dei controlli stabulati……………………………………… 100
3.4
Esposizione ai contaminanti…………………………………………105
3.4.1
Effetto dei PCB sull’attività del CYP450 …………………………….106
3.4.2
Esposizione a Chlorpyrifos e bioattivazione ………………………114
2
3.4.3
Esposizione a Carbaryl.………………………………………………………119
3.4.4
Riattivazione dell’AChE mediante 2-PAM ………………………….120
3.5
3.6
4
Monitoraggio dei grandi laghi subalpini…………………….126
3.5.1
Attività EROD e MROD ……………………………………………………….129
3.5.2
Attività AChE ……………………………………………………………………..137
Valutazione del Rischio Ambientale …………………………….143
3.6.1
Utilizzo dei biomarker nella ERA ……………………………………….152
3.6.2
Misura dell’attività del CYP450 e AChE …………………………….152
Il rischio ambientale dei grandi laghi
subalpini……………………………………………….………… 156
4.1
Valutazione del rischio mediante biomarker……………… 156
4.2
Utilizzo integrato di biomarker e dati chimici……………. 159
4.3
Conclusioni ………………………………………………………………… 164
5
Bibliografia ……………………………………………………….165
3
1. INTRODUZIONE
Nell’ultimo secolo sono state prodotte notevoli quantità di sostanze chimiche di
sintesi (xenobiotici), create per l’uso industriale, agricolo o civile. Molti
composti
organici
di
sintesi,
tra
cui
policlorodifenili
(PCB),
pesticidi
organoclorurati (OC) e organofosforati (OP), idrocarburi policiclici aromatici
(IPA), policlorodibenzofurani (PCDF) e policlorodibenzodiossine (PCDD) sono
state rilasciati nell’ambiente, e già a partire dagli anni ’60 si è iniziato a
monitorare gli effetti a breve ed a lungo termine di queste molecole sulla
salute umana in primo luogo ed in seguito, con la nascita dell’ecotossicologia,
anche su quella degli ecosistemi naturali.
Il deposito finale di molti di questi contaminanti è il comparto acquatico, sia
per scarichi diretti che per processi idrologici o di trasporto atmosferico a lunga
distanza (Stageman e Hahn, 1994). Anche se la presenza di un composto
xenobiotico nell’ambiente di per sé non indica necessariamente degli effetti
dannosi, molti composti idrofobici, ed i loro metaboliti, devono essere ancora
identificati, ed il loro reale impatto sull’ecosistema deve essere determinato.
In Italia, la formulazione elle prime norme di tutela ambientale risale agli anni
’30, anche se si è dovuto attendere fino al 1976 per una legge (la n. 319/76, o
“Legge Merli”) che si occupasse in modo specifico dell’ambiente acquatico.
Questa legge, pur regolando alcuni aspetti importanti come l’assetto delle
competenze,
il
catasto
e
la
disciplina
degli
scarichi,
il
sistema
delle
autorizzazioni, i limiti di accettabilità, i piani di risanamento, le modalità di
vigilanza e di sanzione ed il censimento dei corpi idrici italiani, presentava la
grave mancanza di valutare le concentrazioni dei singoli scarichi, tralasciando
l’analisi dell’impatto globale di tutti gli scarichi sul corpo idrico. Questa legge è
stata quindi sostituita nel 1999 dalla 152/99 (“Testo Unico sulle acque”),
modificata successivamente l’anno seguente con la 258/00, anche se non in
modo sostanziale.
4
Gli obiettivi fondamentali di questa legge sono:
1. Individuazione e classificazione dei corpi idrici più rilevanti
2. Introduzione di precisi obiettivi di qualità per i corpi idrici recettori
3. Monitoraggio dei differenti corpi idrici ed applicazione di limiti più
restrittivi circa gli scarichi sul suolo o nel sottosuolo
4. Uso più razionale della risorsa idrica, al fine di proteggerla anche dal
punto di vista quantitativo.
Lo stato di qualità ambientale di un corpo idrico viene definito mediante la
caratterizzazione dello stato chimico (presenza di sostanze chimiche pericolose,
organiche ed inorganiche) e, per la prima volta, di quello ecologico,
espressione della complessità degli ecosistemi acquatici, ottenuta anche
mediate indici biotici come l’I.B.E. (Indice Biotico Esteso (Ghetti, 1995)
obbligatorio) e saggi ecotossicologici come i test di tossicità su Daphnia
magna, test di mutagenicità e teratogenesi, test di crescita algale e test con
batteri bioluminescenti (a giudizio dell’autorità che effettua il monitoraggio).
Inoltre, è stata segnalata la possibilità di effettuare test di bioaccumulo di
alcuni contaminanti prioritari (come DDT, PCB e Cd) utilizzando tessuti
muscolari di pesci, o su organismi macrobentonici.
5
1.1 Valutazione del Rischio Ambientale (ERA)
La possibilità di usare organismi per la valutazione del rischio associato ad una
contaminazione
è
parte
integrante
della
valutazione
del
rischio
ecologico/ambientale (ERA: Environmental Risk Assessment), definita come la
procedura con cui vengono valutati, con un certo grado di certezza, gli effetti
(presunti o effettivi) degli inquinanti o di altre attività antropiche sugli
ecosistemi, utilizzando procedure scientifiche (Depledge e Fossi, 1994).
L’importanza di questa pratica è diventata sempre più importante quando si è
iniziato a capire che certi tossici potevano non risultare immediatamente
dannosi sull’uomo, ma potevano portare a gravi alterazioni dell’ambiente e
delle risorse naturali. La valutazione del rischio si divide in due fasi: il processo
scientifico necessario per avere una stima della grandezza e della probabilità
degli effetti dannosi (analisi del rischio) e quello che porta a valutare tra
diverse alternative e a determinare se un rischio è accettabile (gestione del
rischio). L’intera procedura consiste di 8 passi (Van Leeuwen e Hermens,
1995):
1. Identificazione del pericolo: identificazione dei potenziali effetti negativi
che possono essere causati da un composto chimico
2. Valutazione degli effetti: stima della relazione tra dose, livello o
esposizione ad un tossico e la gravità degli effetti, al fine di identificare
la NOEL (no-effect level), che può esser convertito in PNEL (predicted
no-effect level) o PNEC (predicted no-effect concentration)
3. Valutazione dell’esposizione:
stima delle concentrazioni o dosi cui è
esposta la popolazione umana. Per nuovi composti chimici si utilizza la
stima della PEC (predicted environmental concentration)
4. Caratterizzazione del rischio: integrazione dei primi tre processi, per
stimare l’intensità e l’incidenza di effetti deleteri dovuti a composti
chimici rilasciati nell’ambiente.
6
5. Classificazione del rischio: valutazione dell’entità del rischio per decidere
se è necessaria una riduzione dello stesso. Generalmente, viene
utilizzata la stima del MPL (maximum permissible level)
6. Analisi rischi-benefici
7. Riduzione del rischio: misure atte alla riduzione dell’incidenza sull’uomo
o sull’ambiente, utilizzando standard di sicurezza come l’ADI (acceptable
daily intake)
8. Monitoraggio: definito come “la ripetitiva osservazione di uno o più
composti, o di elementi biologici, utilizzando metodi comparabili e
standardizzati” (Van der Oost et al., 2003).
La valutazione del rischio ambientale è stata impiegata principalmente per i
composti chimici di sintesi rilasciati nell’ambiente. In particolare, organizzazioni
mondiali come la World Health Organisation (WHO), la Organisation for the
Economic Cooperation and Development (OECD) e l’European Centre for
Ecotoxicology and Toxicology of Chemicals (ECETOC), hanno investito molte
risorse per lo sviluppo dell’ERA. Come altri processi di valutazione del rischio,
la
ERA
si
interessa
principalmente di
stimare
gli effetti
di
un’azione
sull’ambiente (Suter, 1990). Tuttavia, spesso è stata utilizzata anche per una
valutazione retrospettiva, ad esempio nella valutazione di azioni iniziate in
passato che possono comunque avere conseguenze anche nel futuro, come
discariche, piogge acide e rilascio di pesticidi (Suter, 1993). L’analisi
retrospettiva del rischio di composti chimici già esistenti può essere valutata
dopo la misura della concentrazione degli stessi nell’ambiente, mediante
organismi bioaccumulatori.
Ogni valutazione del rischio ambientale deve avere degli endpoint definiti. Un
endpoint è un’espressione formale dei valori ambientali che devono essere
protetti (Suter, 1993). Misure a livello di popolazione ed ecosistema possono
essere rilevanti nella valutazione degli endpoint ma, a causa dei meccanismi
compensatori ed adattativi che si possono creare, spesso sono resistenti agli
effetti dei contaminanti e non sono utili nella valutazione dell’impatto di un
inquinamento. Misure a livello di sub-organismo possono essere più utili in
7
quanto più sensibili, ma la valutazione della rilevanza di risposte biochimiche o
istologiche a livello di popolazione e comunità è ancora poco definita e
necessita di ulteriori approfondimenti.
1.2 Monitoraggio ambientale
Il monitoraggio è uno dei processi-chiave della valutazione di rischio
ambientale. Può infatti servire da controllo per verificare l’efficacia delle misure
di riduzione del rischio, per controllare che gli standard di sicurezza formulati
siano rispettati o per rilevare eventuali alterazioni nell’ambiente dovute
all’ingresso di sostanze tossiche. Il monitoraggio ambientale può essere diviso
in diverse tipologie:
Monitoraggio chimico: misura diretta dei livelli di concentrazione di una
sostanza chimica in un comparto abiotico.
Monitoraggio
del
bioaccumulo:
misura
diretta
dei
livelli
di
un
contaminante nel biota (tessuti degli organismi).
Monitoraggio degli effetti: misurazione delle alterazioni precoci causate
da
un
composto
chimico
negli
organismi,
che
possono
essere
parzialmente o totalmente reversibili
Monitoraggio della salute: misurazione dei danni provocati da composti
xenobiotici, che determinano malattie o danneggiamenti irreversibili nei
tessuti degli organismi
Monitoraggio dell’ecosistema: valutazione del grado di salute di un
ecosistema, mediante l’applicazione di indici di diversità o di ricchezza di
specie.
Tutti questi tipi di monitoraggio sono utilizzati per valutare le condizioni degli
ecosistemi
naturali,
sottoposti
a
stress
antropico,
in
particolare
a
contaminazione chimica. Oltre che per valutare lo stato di salute di un
8
ecosistema, il monitoraggio ambientale è utilizzato per valutare l’impatto di
nuove attività industriali, o per quantificare il recupero dopo interventi di
bonifica.
1.3 Biomonitoraggio
L’uso regolare di organismi per valutare eventuali cambiamenti ambientali, in
ognuno
degli
ultimi
4
punti,
è
chiamato
monitoraggio
biologico
o
biomonitoraggio. (Cairns e Van Der Shalie, 1980; De Zwart, 1995). Le analisi
chimiche “tradizionali”, effettuate su diversi comparti ambientali (aria, acqua,
sedimento o matrice biologica), presentano infatti lo svantaggio di fornire
soltanto un dato puntiforme, e quindi soggetto a notevole errore in caso di
condizioni ambientali particolari. Il dato ricavato non fornisce nessuna
indicazione sulla reale frazione di contaminazione in grado di passare nel
comparto biologico (frazione biodisponibile), valore che può variare a seconda
del tipo di composto; in più, alcune classi di contaminanti molto pericolosi
come i metalli pesanti ed i composti organici persistenti sono presenti nella
matrice ambientali spesso a concentrazioni al di sotto della soglia analitica.
Inoltre, non è in grado di fornire nessuna indicazione sugli effetti di tali
composti sugli organismi: il biomonitoraggio, al contrario, consente di valutare
lo stress effettivo a cui è sottoposta la biocenosi di un ambiente a rischio.
Il biomonitoraggio è basato sull’utilizzo di indicatori biologici, ovvero
organismi che reagiscono più o meno vistosamente a determinate variazioni
ambientali, inviando un segnale valutabile o attraverso l’osservazione diretta
oppure mediante l’impiego di attrezzature e metodologie più o meno
complesse (Bargagli et al., 1998). Le specie utilizzate come indicatori della
salute di un ecosistema devono possedere alcuni requisiti, tra cui:
Ampia diffusione nell’area di studio
Facile identificazione e semplicità di campionamento
Taglia adeguata e uniformità genetica
9
Ciclo vitale sufficientemente lungo per poter raccogliere individui di
diverse classi di età
Tolleranza agli inquinanti oggetto di indagine
Limitata
mobilità
per
poter
identificare
situazioni
puntiformi
di
inquinamento
Gli organismi indicatori si dividono in bioindicatori e bioaccumulatori, che si
differenziano tra loro in base alla diversa curva di sensibilità ad un tossico. I
bioindicatori possiedono una curva ripida, in quanto indicano rapidamente la
comparsa di uno stress (ambientale o di origine antropica), mentre per i
bioaccumulatori la curva è più graduale, e permette di monitorare un intervallo
di concentrazione più ampio (Fig.1.3.1)
Fig 1.3.1: Rette di sensibilità per organismi indicatori
Per “bioindicatori” s’intendono tutti quegli organismi (o parti di essi) che
mediante
reazioni
identificabili
(biochimiche,
fisiologiche,
morfologiche)
forniscono informazioni sulla qualità dell’ambiente (o di una parte di esso),
mentre come “bioaccumulatori” quelli che assimilano dal suolo, dall’acqua o
dall’atmosfera
quantità
misurabili
di
elementi
chimici
e/o
di
composti
xenobiotici (Bargagli et al., 1998).
I bioindicatori forniscono, quindi, un segnale valutabile in modo diretto come
una diminuzione della densità di popolazione, oppure una scomparsa di specie
o la modifica di una comunità, fornendo una risposta di tipo macroscopico. I
10
bioaccumulatori forniscono, invece, dati quali-quantitativi, accumulando nei
tessuti dell’organismo le sostanze lipofile e persistenti che possono essere
rilevate
solo
attraverso
tecniche
analitiche
complesse.
Attraverso
i
bioaccumulatori si ottengono dei risultati simili a quelli di un approccio chimicofisico, ma la differenza consiste nel fatto che, essendo le analisi
sull’organismo,
si
ottengono
informazioni
sulla
quantità
di
eseguite
inquinante
direttamente biodisponibile.
Ciò che discrimina un organismo dall’essere bioindicatore o bioaccumulatore è
la sostanza a cui viene esposto. Un classico esempio è la valutazione del
benzo-α-pirene nei molluschi e nei pesci; infatti i primi possono fungere da
bioaccumulatori, perché il contaminante si immagazzina nei lipidi, mentre i
secondi sono degli ottimi bioindicatori in quanto degradano l’inquinante
formando dei precursori tumorali.
Gli indicatori biologici vengono impiegati in diverse situazioni di monitoraggio,
tra cui:
il controllo l’efficienza degli impianti di depurazione a fanghi attivi
attraverso l’indice biotico del fango (SBI). Un indice è un mezzo atto a
ridurre in forma semplice un gran quantitativo di dati, conservandone
l’informazione essenziale (Rossaro, 1998). In particolare gli indici biotici
sono calcolati sulla base di diverse misure dirette operate sulla comunità,
finalizzate a meglio interpretare lo stato dell’ambiente (Ponti et al.,
2002);
come organismi test, tra cui il più utilizzato è il crostaceo Daphnia
magna, nei saggi ecotossicologici (inclusi nella normativa D.L. 152/99)
che evidenziano fenomeni di tossicità acuta attraverso la stima dell’EC50
(Effect Concentration 50%) e dell’LC50 (Lethal Concentration 50%) e di
tossicità cronica attraverso la valutazione del NOEL (Not-Observed-Effect
Level) e del LOEL (Lowest-Observed-Effect Level);
come indicatori vegetali per valutare l’inquinamento atmosferico: i
licheni, ad esempio, sono impiegati nel monitoraggio per l’inquinamento
11
da SO2 tramite l’applicazione dello I.A.P.(Index of Atmospheric Purity; de
Slover, 1964);
come indici saprobici e biotici; i primi sfruttano gli organismi degradatori
e analizzano la comunità di un tratto di fiume rilevandone la qualità. Gli
indici biotici, obbligatori in molte legislazioni europee (tra cui quella
italiana) e negli Stati Uniti, permettono di valutare la qualità di un corpo
idrico
e/o
l’impatto
di
uno
scarico
sul
corpo
recettore.
Quello
maggiormente utilizzato è l’Indice Biotico Esteso (I.B.E.) (Ghetti, 1995)
che, basandosi sulle modificazioni nella composizione delle comunità di
macroinvertebrati bentonici indotte da fattori di inquinamento o da
significative alterazioni fisiche dell’ambiente fluviale, serve per formulare
diagnosi sulla qualità di ambienti di acque correnti italiane. L’I.B.E. può
essere applicato a quasi tutti gli ambienti lotici stabilmente colonizzati,
poiché la procedura è stata tarata per consentire il calcolo in modo
omogeneo e comparabile (Barbaglio et al., 1998);
come organismi bioaccumulatori, tra i quali spicca l’utilizzo di molluschi
bivalvi, impiegati nei programmi di monitoraggio di ambienti acquatici
grazie alla capacità di accumulare metalli pesanti e composti xenobiotici
nei loro tessuti molli. In particolare il mollusco bivalve Dreissena
polymorpha è ampiamente usata nel biomonitoraggio delle acque interne
(Roper et al., 1996; Gundacker et al., 1999; Binelli et al., 2002; Berny et
al., 2002). In ambiente subaereo, le api sono utilizzate nella valutazione
del fall-out di metalli pesanti, prodotti fitosanitari e sostanze radioattive
(Jacomini et al., 2000). Anche i funghi possono essere utilizzati come
organismi bioaccumulatori, in particolare per i radionuclidi e i metalli
pesanti (Say et al., 2001).
L’effetto dei composti inquinanti sull’ecosistema si manifesta dal punto di vista
biologico a vari livelli: in un organismo l’effetto tossico primario si realizza in
primo luogo a livello biochimico e molecolare (modificazioni delle attività
enzimatiche, danni al DNA, ecc.) e solo successivamente gli effetti si possono
riscontrare,
con
un
meccanismo
a
cascata,
ai
livelli
superiori
12
dell’organizzazione gerarchica: organulo, cellula, tessuto, individuo, fino a
giungere al livello di popolazione e di comunità (Fig. 1.3.2). E’ per questo
motivo che la moderna tossicologia ambientale ha affiancato alle indagini di
biomonitoraggio
(valutazione
dell’esposizione)
un
nuovo
approccio
metodologico basato sulla valutazione delle risposte (biomarker) che un
organismo, una popolazione o una comunità può generare nei confronti di uno
stress chimico ambientale. Da alcuni anni l’attenzione si è quindi rivolta verso
metodiche mirate alla valutazione dello “stato di salute” degli individui
appartenenti ad una comunità o popolazione, puntando l’attenzione sullo studio
degli “early adverse effects” causati dai contaminanti e misurabili negli
organismi nel loro ambiente; uno degli approcci maggiormente applicato in
questo settore è quello basato sull’utilizzo dei biomarker (Fossi, 1998).
13
VALUTAZIONE DEL RISCHIO ECOLOGICO
GESTIONE AMBIENTALE
Successo di
popolazione
early warning
Struttura di
popolazione
Riproduzione
Crescita
Fisiologico
Bioenergetico
Biochimico
Istologico
Biomolecolare
Sub-organismo
Individuo
Popolazione
STRESS AMBIENTALE
Fig.1.3.2: successioni temporali degli effetti su un organismo, dopo uno
stress ambientale
1.4 Biomarker
La caratteristica di molti inquinanti di interagire fra loro, mutando la propria
azione tossica, complica la valutazione del rischio ecologico basata solamente
sulle misure quantitative dei livelli di contaminazione ambientale. Inoltre, gli
effetti biologici dei contaminanti (e delle loro interazioni), non possono essere
valutati attraverso una semplice analisi chimica.
L’approccio basato sui biomarker, rappresentati da tutti quei parametri
biologici le cui variazioni sono indici precoci di una contaminazione (Livingstone
14
et al., 1997; Bengston & Henshel, 1996; Roy et al., 1996), può permettere di
rilevare la presenza di un contaminante nell’ambiente prima che si manifestino
eventuali effetti negativi sull’intera comunità. I principali vantaggi di questa
metodica sono la rapidità di analisi, il fatto che può fornire una risposta
integrata anche a contaminazioni dovute a più composti, dando quindi
un’informazione biologicamente più rilevante sul loro impatto potenziale
(Mayer et al., 1992; Johnston, 1995; Van der Oost et al., 1996; den Besten,
1998; Adams & Greeley, 2000). Inoltre, la risposta biochimica è attivata
dall’organismo in tempi molto rapidi (da alcuni minuti a poche ore),
permettendo di rilevare la presenza di un contaminante prima che si possa
accumulare nei tessuti. La rilevazione precoce di una contaminazione può
aiutare ad evitare che essa si protragga nel tempo, e che quindi il danno possa
estendersi anche a livelli superiori dell’organizzazione biologica (Munkittrick e
McCarthy, 1995). Nel caso di uno screening ambientale, i biomarker
dovrebbero servire per compiere un’indagine preliminare volta a mettere in
evidenza la presenza di una sostanza xenobiotica e poter prevedere l’impatto
che questa potrebbe avere sull’ambiente (sistemi di “early warning”) (Payne et
al., 1987), utilizzando eventualmente una “batteria” di biomarker nel caso non
si conosca esattamente il tipo di inquinamento. È possibile anche utilizzare
questo metodo di indagine nel monitoraggio del trend di una contaminazione,
mostrandone l’andamento sia da un punto di vista temporale che spaziale e
valutando lo stato dell’organismo indicatore in diversi intervalli di tempo nei
vari siti. I biomarker potrebbero inoltre svolgere un ruolo importante nei
programmi di “recupero ambientale” come mezzo di controllo dell’efficacia della
tecnica applicata. Un esempio si avrebbe nel caso in cui in un determinato
ecosistema venga riscontrato l’allontanamento degli organismi di alcune specie
chiave dallo stato di equilibrio, segnale questo della necessità di applicare
un’azione di “bioremediation”, che consiste nella individuazione di aree
soggette a programmi di decontaminazione ed all’applicazione di misure di
risanamento. In queste aree potrebbero essere collocati esemplari di organismi
bioindicatori in apposite gabbie, valutando le risposte dei biomarker a diversi
intervalli di tempo per tutta la durata del programma di bioremediation. Nel
15
momento in cui i valori di una serie di biomarker tornano nel limiti dei valori
ottimali,
si
potrebbe
dichiarare
l’avvenuto
risanamento
dell’ambiente
contaminato e si potrebbe quindi proseguire con opere di reintroduzione delle
specie scomparse.
I
biomarker
sono
sempre
più
spesso
impiegati
utilizzando
organismi
direttamente esposti all’ambiente da monitorare: questa caratteristica può
però essere anche uno svantaggio, in quanto talvolta può risultare difficile
distinguere tra una risposta biochimica causata da stress ambientali (come
variazioni della temperatura, o della disponibilità di cibo) da una invece dovuta
ad uno stress causato dalla presenza di un inquinante. Per questo motivo, è
necessario
conoscere
approfonditamente
la
biologia
e
la
fisiologia
dell’organismo utilizzato, per poter minimizzare la probabilità di incorrere in
errori di valutazione ed interpretare come segnale di contaminazione una
variazione invece dovuta ad una causa interna all’organismo (crescita o
sviluppo, riproduzione, alimentazione) (Stegeman et al., 1992). Inoltre, è
necessario conoscere i dati sull’attività basale dei biomarker considerati, anche
in relazione ad i fattori abiotici cui gli organismi sono sottoposti, in modo da
poter distinguere le variazioni naturali da stress indotti dall’inquinamento. Una
volta caratterizzato anche il tipo di risposta del biomarker, la presenza di
eventuali effetti-soglia e la relazione esistente tra entità di contaminazione e
entità della risposta biochimica, è possibile utilizzare le specie scelte per il
monitoraggio (specie-sentinella) sia come sistemi di early-warning che come
predittori di effetti a lungo termine sull’ecosistema monitorato (McCarthy e
Shugart, 1990).
I biomarker sono generalmente distinti in (NRC, 1987; WHO, 1993):
1. Biomarker di esposizione: risposte che indicano esposizione ad un
composto chimico, o ad una classe di composti, che però non forniscono
nessuna indicazione dei reali effetti tossicologici sull’organismo.
2. Biomarker di effetto: risposte che indicano sia l’esposizione che l’effetto
di un composto tossico. Includono alterazioni fisiologiche o biochimiche
16
misurabili nei tessuti di un organismo, che possono essere riconosciute
ed associate ad una possibile alterazione della salute o malattia.
Non tutti i biomarker comunque, possono essere inseriti con precisione in una
di queste due categorie (de Lafontaine et al., 2000): questa terminologia
potrebbe infatti suggerire che esista una relazione tra i biomarker di
“esposizione” e quelli di “effetto”. Infatti, anche se talvolta può esistere una
relazione tra esposizione ad un contaminante ed effetto biologico, tale legame
non esiste necessariamente tra questi due tipi di biomarker, tranne se essi
condividono una stessa via metabolica (Stegeman et al., 1992).
Nel contesto del biomonitoraggio, e con lo scopo di caratterizzare i biomarker a
seconda del loro tipo di risposta, potrebbe essere più appropriato parlare di
biomarker “di difesa” (per esempio l’induzione delle metallotioneine (MT) o
delle monossigenasi a funzione mista (MFO), che sono una reazione di difesa
da parte dell’organismo esposto ad agenti contaminanti), o a biomarker “di
danno” (le modificazioni a carico del DNA o i prodotti delle perossidasi lipidiche
sono
alterazioni
dirette,
causate
da
contaminanti
tossici
nei
confronti
dell’organismo).
17
1.4.1
I biomarker nel monitoraggio ambientale
I biomarker utilizzati nel monitoraggio ambientale (Tab. 1.4.1) possono essere
ripartiti nelle seguenti categorie, in funzione della risposta a livello gerarchico
(Fossi, 1998):
Alterazioni del DNA
Risposte a livello di proteine
Variazioni a carico del sistema immunitario
Alterazioni istopatologiche
Biomarker non specifici e fisiologici
Il tempo impiegato per ottenere una risposta è dettato, in linea generale, dal
livello strutturale interessato, precoce (ore, giorni) nel caso di risposte
molecolari e ritardata (mesi, anni) nel caso di risposte cellulari e fisiologiche.
Alterazioni del DNA
Molti inquinanti ambientali, fra cui alcuni idrocarburi policiclici aromatici, sono
in grado di danneggiare il DNA, causando una serie di alterazioni a cascata del
materiale genetico, fino a mutazioni che modificano la funzionalità del gene
interessato.
Legandosi stabilmente al DNA, alcune molecole genotossiche (come il benzo-αpirene), possono formare addotti, che possono essere misurati con metodi
immunochimici (ELISA) o radiochimici (32P-postlabeling) (Savva, 1996). Questi
addotti sono in grado in seguito di causare rotture sulla doppia elica del DNA,
misurabili con il metodo della Alkaline Unwinding, mediante il quale, tramite
una analisi spettrofotofluorimetrica, è possibile quantificare il numero di
rotture. Gli addotti e le rotture sulla doppia elica sono due biomarker di tipo
precoce (Everaarts e Sarkar, 1996). Quando la generazione di modificazioni
secondarie eccede la capacità di riparazione dell’organismo, è possibile che
esso
incorra
in
fenomeni
irreversibili
come,
ad
esempio,
aberrazioni
18
cromosomiche, che possono essere valutate con test citologici come la
determinazione dei micronuclei, l’analisi cromosomica ed il “sister-chromatide
exchange” (Natarajan, 2002).
Alterazioni proteiche
L’esposizione a contaminanti può causare in un organismo un’ induzione o
un’inibizione, dell’attività di alcune proteine funzionali. Alcuni dei meccanismi
indotti sono adattativi e protettivi, coinvolti nella detossificazione di composti
xenobiotici (sistema MFO – monossigenasi a funzione mista - ed enzimi
coniugati), e quelli di difesa nei confronti dei metalli pesanti (metallotioneine).
Tra i fenomeni di inibizione è da ricordare il blocco delle esterasi causato da
insetticidi organofosforici, carbammati e piretroidi. Alcuni esempi sono riportati
di seguito.
Il sistema delle monossigenasi a funzione mista (MFO) è un sistema
multienzimatico che svolge un ruolo fondamentale nei processi iniziali (Fase 1)
della detossificazione dei composti xenobiotici (Brumley et al., 1995). Questi
enzimi hanno come nucleo funzionale l’emoproteina citocromo P-450, e
rendono reattivo il composto xenobiotico idrofobo, inserendo nella molecola
gruppi funzionali come –OH, -SH, -COOH. Ciò che caratterizza il sistema MFO è
l’inducibilità da parte del substrato, che si traduce nella sintesi di nuove
proteine
funzionali
stimolata
dalla
presenza
dei
composti
xenobiotici.
L’induzione è quindi un segnale qualitativo e semi-quantitativo della presenza
della sostanza stessa (Fossi, 1998). La specificità della risposta per il substrato
permette di discriminare tra diverse famiglie di composti xenobiotici, ad
esempio gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) inducono in modo specifico la
famiglia del citocromo P-4501A1, mentre il DDT e l’aldrina inducono la famiglia
del citocromo P-4502B (Fossi, 1998). Il marcatore più utilizzato tra le MFO è
l’EROD (etossiresorufina-O-dietilasi), che può essere indotto in seguito ad
esposizione con IPA ed alcuni policlorobifenili (PCB), oltre che diossine e furani,
(Burgeot et al., 1994; Eggens et al., 1995) ed è stato applicato con successo in
19
molti vertebrati marini (Van Veld et al., 1992; Goksoyr et al., 1992; Galgani et
al., 1992; Romeo et al., 1994).
Le metallotioneine (MT) sono una famiglia di proteine citoplasmatiche, con
un basso peso molecolare ed un alto contenuto di cisteina (30%) (Chan,
1994), che svolgono un ruolo fondamentale nei processi di regolazione dei
metalli essenziali quali zinco e rame, e di detossificazione da metalli pesanti
come cadmio (Cd) e mercurio (Hg) (Kagi e Schaffer, 1988). Le MT
rappresentano un biomarker specifico per questa classe di contaminanti anche
se, in condizioni fisiologiche particolari quali gravidanza o cambiamento di
nutrizione, si può avere induzione anche in assenza di contaminanti (Benson et
al., 1990).
Le
esterasi
dei
vertebrati
possono
essere
raggruppate
in
tre
classi
fondamentali (Aldrige, 1953): esterasi di tipo A, responsabili dei processi di
detossificazione degli organofosforati; esterasi di tipo B, inibite da composti
organofosforati e carbammati; ed esterasi di tipo C, la cui funzione è poco
conosciuta. La seconda classe, molto utilizzata nel biomonitoraggio ambientale,
comprende diversi tipi di enzimi, tra cui l’acetilcolinesterasi (AChE), specifica
per
l’acetilcolina,
presente
nei
tessuti
nervosi;
la
butirrilcolinesterasi,
relativamente non specifica, presente nel plasma e nei tessuti di molti
vertebrati; la carbossilesterasi, la cui funzione è quella di idrolizzare diversi
esteri esogeni ed endogeni, presente sia nei vertebrati che negli invertebrati; e
le esterasi neurotossiche, inibite da alcuni composti organofosfati e ritrovate
nel sistema nervoso dei vertebrati (Maroni e Bleeker, 1986; Correll e Ehrich,
1991; Husain et al., 1991).
Le proteine da stress sono proteine citosoliche che aumentano in risposta a
stress
di
varia
natura.
Determinabili
con
tecniche
immunochimiche
o
elettroforetiche, possono essere utilizzate, vista la loro scarsa specificità, per
valutare il grado di stress di un organismo (Fossi, 1998).
20
La vitellogenina è una proteina precursore della sintesi del tuorlo delle uova
nei vertebrati e in alcuni invertebrati, compresi i molluschi bivalvi (Pipe, 1987;
Suzuki et al., 1992). Questa proteina è prodotta fisiologicamente, sotto lo
stimolo dell’estradiolo ovarico, nel fegato di individui di sesso femminile
sessualmente attivi (Kime, 1998). I maschi, però, possedendo i recettori
epatici per l’estradiolo, possono produrre vitellogenina se esposti a sostanze
xenobiotiche
estrogene.
Questo
fenomeno
può
essere
utilizzato
come
indicatore di un’esposizione a sostanze tossiche, in quanto individui di sesso
maschile non possiedono gli enzimi per degradare la vitellogenina che, così, si
accumula nel sangue (Pellissero et al., 1993).
Prodotti metabolici
Alcune classi di inquinanti possono interferire col normale metabolismo di
composti endogeni e provocare un accumulo dei prodotti intermedi. Ad
esempio:
Le porfirine, metaboliti intermedi della biosintesi del gruppo eme, sono
prodotte e si accumulano in tracce nei tessuti eritropoietici, nel fegato e nei
reni, e sono espulse tramite urine o feci (Lim, 1991). La biosintesi del gruppo
eme può essere alterata da alcuni inquinanti ambientali quali PCB, metalli
pesanti e diossine, e ciò porta ad un cambiamento nell’escrezione delle
porfirine (Marks, 1985). Dato che queste molecole possono essere rilevate in
materiali biologici differenti anche a concentrazioni basse, possono essere
usate come biomarker sensibili di esposizione (De Matteis e Lim, 1994).
21
Biomarker
Risposta
biologica
Esempi
di
contaminanti
Tempo
di
risposta
Segnale
IPA, PHAH
rapido
S, D, P
IPA, PHAH
rapido
S
IPA, PHAH
medio
S, D, P
IPA, PHAH
PCB, diossine
rapido
S, D
HM
rapido
S, D
OP, CB
rapido
S, D, P
rapido
S
rapido
S
medio
S, D, P
rapido
medio
S
S
lento
S
Alterazioni del DNA:
Addotti
Rotture
Eventi irreversibili
formazione
rottura della
doppia elica
alterazioni
cromosomiche
Risposte di proteine:
MFO
Metallotioneine
Esterasi
Proteine da stress
Vitellogenina
induzione
enzimatica
induzione
proteica
induzione
enzimatica
induzione
proteica
induzione
proteica
HM, IPA,
PHAH
estrogeni
xenobiotici
Prodotti metabolici:
Porfirine
disordine
ciclo EME
HM, PHAH
Alterazioni del sistema immunitario:
Retinolo
modifica livelli
Funzioni tiroidee
alterazione
Immunotossicolog
varia
ia
PHAH
PHAH
HM, IPA
PHAH, OP
Tab. 1.4.1 – Principali biomarker per il monitoraggio ambientale (Fossi, 1998).
Legenda:
CONTAMINANTI (CB: carbammati, HM: metalli pesanti, OP: organofosforici, IPA: idrocarburi
policiclici aromatici, PHAH: idrocarburi polialogenati aromatici, PCB: policlorobifenili); SEGNALE
(S: segnale di un problema potenziale, D: definitivo indicatore di una classe di contaminanti, P:
indicatore predittivo di un effetto negativo a lungo termine); TEMPO DI RISPOSTA (rapido: da
ore a giorni, medio: da giorni a settimane, lento: da mesi ad anni).
22
1.4.2
Studio e sviluppo di nuovi biomarker
I molti progressi nel campo della biochimica e della genetica possono fornire
nuovi strumenti che possono essere molto utili nello studio dell’impatto dei
tossici sugli organismi, e contemporaneamente fornire nuovi biomarker. La
cosiddetta “ecotossicogenomica” (Snape et al., 2004) si occupa dello studio
dell’espressione di geni e proteine in seguito all’esposizione ad un tossico,
cercando di identificare i meccanismi di tossicità e di sviluppare modelli
predittivi e QSAR degli effetti tossici (Moore, 2001).
Diversi tipo di analisi vengono svolte su organismi esposti a diversi tossici,
focalizzati sullo studio dell’espressione delle proteine (proteomica) o di quella
genica (genomica), tra cui le principali sono:
o Tecniche basate su DNA-array: mediante questo approccio è possibile
identificare i trascritti che sono sovra- o sottoespressi in seguito alla
sperimentazione (Neumann e Galvez, 2002) Anche sottili differenze
nell’espressione di alcune famiglie di geni, indotte dalla presenza di
composti chimici, possono essere sufficientemente distinte da permettere
di identificare delle “firme” di contaminazione (Afshari et al. , 1999)
o Analisi
del
proteoma:
la
tecnica
più
utilizzata
per
lo
studio
dell’espressione delle diverse proteine è quella dell’elettroforesi 2-D, che
separa all’interno del gel le molecole prima secondo la carica elettrica, ed
in seguito secondo la massa. Le singole proteine separate dal gel2-D
sono quindi estratte e digerite mediante endopeptidasi, come la tripsina.
Il
set
risultante
di
peptidi
viene
quindi
analizzato
usando
uno
spettrometro di massa (MALDI-TOF: Matrix Assisted Laser Desorption
Ionisation Time-Of-Flight) (Fig. 1.4.1) che permette l’identificazione della
proteina mediante confronto con un database esistente. Questa tecnica
però non è sempre valida per singoli peptidi o frammenti proteici, per i
quali una cromatografia ad alta risoluzione può essere più indicata.
23
Una volta identificati geni o proteine che vengono sovra- o sottoespressi in
presenza di un tossico, attraverso saggi biochimici volti a misurare la loro
attività, potrebbe essere possibile ottenere nuovi biomarker da utilizzare nel
monitoraggio ambientale. Numerosi sono però i problemi nell’applicazione
pratica di queste metodiche, primo dei quali è che, spesso, per ottenere delle
risposte rilevabili le quantità di tossico da somministrare all’organismo devono
essere
molto
elevate,
molto
superiori
a
quelle
normalmente
presenti
nell’ambiente in seguito ad una contaminazione: di conseguenza tali risposte
potrebbe non essere applicabili in un programma di biomonitoraggio.
Fig. 1.4.1: procedura di identificazione di proteine espresse dopo esposizione
ad un tossico (da Ping e Gygi, 2001)
24
1.4.3
Problemi legati all’utilizzo dei biomarker
Le principali critiche che sono state mosse contro l’utilizzo dei biomarker nel
biomonitoraggio sono dovute alla variabilità presente negli organismi oggetto
di indagine. Fattori biotici come genere, stadio riproduttivo, età e dieta, ed
abiotici come la temperatura possono influenzare la risposta biochimica sia in
invertebrati che vertebrati (Hyne e Maher, 2003), rendendo possibile un’errata
interpretazione dei dati, che talvolta potrebbero suggerire la presenza di una
contaminazione quando invece l’alterazione biochimica o fisiologica potrebbe
essere
dovuta
semplicemente
a
variazione
di
parametri
ambientali,
o
rappresentare una normale fluttuazione dei parametri vitali (Fig. 1.4.2)
Fig. 1.4.2: variazioni naturali e indotte dei biomarker (Modificato da
McCarthy et al., 1990)
Inoltre, è possibile che in alcuni casi alcuni contaminanti possano avere
un’influenza opposta su alcuni biomarker (ad esempio attivazione-inibizione),
25
di conseguenza la presenza contemporanea di entrambi può rendere inutile
l’utilizzo di saggi biochimici.
In bibliografia esistono alcuni studi condotti con lo scopo di valutare le
interferenze ambientali. Alcuni esempi riguardano il citocromo P450, la cui
attività può essere influenzata da numerosi fattori:
o dallo stato ormonale; nei pesci le femmine in periodo non riproduttivo
hanno valori molto minori rispetto ai maschi e alle femmine in periodi
riproduttivi (Stegeman e Hahn, 1994). Tale influenza è stata riscontrata
anche nei mitili (Kirchin et al., 1992; Bucheli e Fent, 1995);
o dalla temperatura, che influisce sulla assunzione dei contaminanti:
maggiore è la temperatura maggiore è l’assunzione degli inquinanti e
viceversa (Jimenez et al., 1987);
o dall’alimentazione, la cui composizione nutrizionale (vitamine, proteine,
lipidi, carboidrati) influisce sul metabolismo dei pesci e può avere effetti
sull’attività EROD (Ankley e Blazer, 1998),
o dalla presenza di metalli pesanti in ambiente, che inibisce fortemente il
sistema MFO, così come molte attività enzimatiche (Viarengo et al.,
1997).
Esistono studi anche sul potenziale effetto della temperatura sull’attività
colinesterasica
(Escartìn
e
Porte,
1997)
i
cui
risultati
sono
piuttosto
controversi. Uno studio condotto sull’attività AChE del cavedano (Leuciscus
cephalus) (Flammarion et al., 2002) ha dimostrato come la lunghezza
dell’animale sia un parametro da tenere in considerazione, in quanto è stata
dimostrata un relazione inversa tra questo valore e l’attività enzimatica
misurata.
È inoltre stato evidenziato come differenze nelle caratteristiche dell’acqua (pH,
conducibilità e durezza), possono modificare le risposte dei marcatori biologici:
in generale le risposte sono maggiori quando i molluschi sono posti in acqua di
rubinetto, eccetto per le ossidasi lipidiche come l’acido tiobarbiturico (Vidal et
al., 2002).
26
Per risolvere questi problemi di interferenza può essere d’aiuto analizzare gli
organismi in laboratorio, in condizioni controllate, in modo da valutare quali
siano le alterazioni dei parametri basali in seguito all’aggiunta di sostanze
inquinanti senza ulteriori fattori di stress.
Dal momento che ci potrebbero essere sovrastime e sottostime degli effetti, le
osservazioni fatte in laboratorio devono sempre essere confermate con ricerche
in campo in modo da ottenere un’informazione completa (ECETOC, 1993).
A causa di questi problemi, la metodica per l’utilizzo dei biomarker deve essere
ulteriormente perfezionata in modo da rendere tali indicatori mezzi affidabili
per la valutazione dell’impatto ambientale e poterli inserire nel programma
legislativo che attualmente non li contempla (Testo unico sulle acque, 152/99,
e suo ampliamento 258/2000).
Molte ricerche sono ancora necessarie prima che alcuni biomarker come le
proteine da stress, le metallotioneine ed alcuni parametri ematologici possano
essere completamente valutati e validati. Inoltre, nonostante ci siano alcune
indicazioni che alcuni biomarker siano efficaci segnali di early warning, è
sempre abbastanza difficile ottenere una correlazione significativa tra tali
risposte biochimiche con gli effetti sulle popolazioni o comunità naturali. Infatti,
stress su individui singoli non è necessariamente seguito da problemi a livello
di popolazione, anche per l’insorgenza di fenomeni di adattamento. Uno stress
ambientale può infatti indurre una risposta primaria, che può portare a
cambiamenti comportamentali o a reazioni adattative ed alla compensazione
della lesione. Nel caso che lo stress persista, o se i meccanismi di
detossificazione falliscono, i processi di adattamento sono insufficienti per
prevenire fenomeni di tossicità, i cui danni potranno quindi essere identificati
tramite i biomarker (Vasseur e Cossu-Leguille, 2003).
27
1.4.4
I biomarker nel monitoraggio delle acque interne
Sebbene nel monitoraggio delle acque interne siano ormai standardizzate
molte metodiche di analisi basate sull’utilizzo di organismi, gli studi basati
sull’utilizzo di biomarker sono ancora abbastanza limitati.
Gli organismi più utilizzati sono senza dubbio i pesci, in particolare salmonidi
come la trota iridea (Oncorhynchus mykiss) (Fenet et al., 1998; Kosmala et
al., 1998; Arukwe et al., 2001, Van den Belt et al., 2003); o ciprinidi come la
carpa comune (Cyprinus carpio) (Kowk et al., 1998; Mori et al., 2002;
Sakamoto et al., 2003). L’utilizzo di invertebrati è meno diffuso, anche se
presentano numerosi vantaggi, come la scarsa o nulla mobilità, che permette
di evidenziare anche sorgenti puntiformi di contaminazione.
Il mollusco bivalve Dreissena polymorpha è stato impiegato con successo negli
ultimi anni nel biomonitoraggio di ecosistemi acquatici sia per composti
organici persistenti (Gossiaux et al., 1998; Hendricks et al., 1998; Binelli et al.,
2001 a,b) che per i metalli pesanti (Secor et al., 1993; Johns & Timmerman,
1998; Camusso et al., 2001). Ultimamente sono in aumento anche gli studi
basati su biomarker (Dauberschmidt et al., 1997; Smital e Kurelec, 1997; De
Lafontaine et al., 2000; Pain e Parant, 2003; Lecoeur et al., 2004). Altri
molluschi impiegati sono Curbicula fluminea (Mora et al., 1999a; Vidal et al.,
2001, 2002; Achard et al., 2004), Unio tumidus (Doyotte et al., 1997; Cossu
et al., 2000) e Anodonta cygnea (Riffeser e Hock, 2002; Robillard et al., 2003).
La taglia contenuta e la relativa semplicità di raccolta, oltre alla notevole
adattabilità a condizioni di laboratorio, fanno dei molluschi bivalvi degli
organismi ideali per essere utilizzati nel monitoraggio ambientale. La possibilità
di condurre test di laboratorio permette inoltre di validare le metodiche di
analisi utilizzate per la misura dei biomarker, eliminando la variabilità
ambientale presente negli ecosistemi naturali e permettendo di valutare
esattamente le risposte biochimiche agli inquinanti presenti singolarmente e in
miscela.
28
1.4.5
Potenziali applicazioni dei biomarker
Sono stati individuati almeno tre casi generali in cui l’applicazione dei
biomarker potrebbe portare numerosi vantaggi (Fossi, 1998):
Caso 1: ecosistema sottoposto ad una miscela di composti ignoti.
Dato che le fonti di contaminazione, così come la durata dell’esposizione, non
sono storicamente definiti (situazione tipica di molte aree in via di sviluppo),
l’applicazione della chimica ambientale classica, così come i modelli previsionali
di diffusione degli inquinanti, risulterebbe del tutto infruttuosa nella fase
conoscitiva.
L’utilizzo
dei
biomarker
in
questa
situazione
ambientale
permetterebbe:
o la valutazione dello stress chimico cui l’ecosistema oggetto di studio è
esposto, tramite l’utilizzo di biomarker generali;
o l’individuazione
delle
principali
classi
molecolari
responsabili
del
fenomeno di inquinamento, tramite l’impiego di biomarker specifici;
o la stima del danno potenziale causato dalla miscela di inquinanti sulla
popolazione e sulla comunità oggetto di studio, tramite l’impiego di
biomarker di effetto.
Caso 2: ecosistema sottoposto ad inquinanti parzialmente noti.
Quando l’origine e le fonti di contaminazione per certi ambienti sono solo
parzialmente note, la durata dell’esposizione allo stress chimico è storicamente
definita. L’impiego di modelli previsionali di diffusione degli inquinanti risulta
essenziale per l’individuazione dei principali comparti di accumulo, mentre le
indagini di chimica ambientale classica risultano importanti per la definizione
dei livelli di bioaccumulo dei contaminanti ai diversi livelli della catena trofica.
L’utilizzo dei biomarker in questa situazione ambientale permetterebbe:
o l’individuazione degli effetti tossicologici provocati dalla miscela di
composti inquinanti, come integrazione delle variabili “spazio” e “tempo”;
29
o la valutazione dell’esposizione delle popolazioni oggetto di studio ai livelli
di contaminazione che eccedono le normali capacità di compensazione e
riparazione dell’organismo, tramite l’utilizzo di biomarker di effetto;
o la stima del danno potenziale causato dalla miscela di inquinanti sulla
popolazione e sulla comunità oggetto di studio.
Caso 3: individuazione delle specie potenzialmente a rischio.
Lo studio e l’individuazione delle specie potenzialmente a rischio, in ambienti in
cui
si
conosce
qualitativamente
e
quantitativamente
la
natura
della
contaminazione, richiede lo sviluppo di nuovi approcci metodologici basati su
metodi non distruttivi, in modo da evitare il sacrificio degli organismi oggetto di
studio. Esempi di tali biomarker sono le esterasi di tipo B contenute nel siero di
diversi vertebrati (Sanchez e Fossi, 1996), le biopsie cutanee in alcuni cetacei
(Marsili et al., 2000; Fossi et al., 2000), le porfirine presenti nel pelo, nelle feci
e nel sangue, utilizzate in uno studio su due popolazioni di leoni marini (Otaria
flavescens) (Marsili et al., 1997; Casini et al., 2002) e in uno studio condotto in
Alaska su popolazioni di lontre (Luntra canadensis) (Taylor et al., 2000).
L’utilizzo di biomarker non distruttivi in questa situazione permetterebbe:
o la valutazione dei livelli di contaminazione delle popolazioni che occupano
posizioni a rischio nell’ecosistema, e se essi eccedono le normali capacità
di compensazione e riparo;
o l’individuazione delle specie potenzialmente a rischio, in funzione della
diversa suscettibilità ad una miscela di composti inquinanti;
o la valutazione del danno potenziale causato dalla miscela di inquinanti
sulle specie potenzialmente a rischio dell’ecosistema oggetto di studio.
Devono essere comunque fatte alcune considerazioni affinché un possibile
impiego dei biomarker nel monitoraggio ambientale sia efficace. La prima è la
possibile presenza di falsi positivi e falsi negativi (questi ultimi più gravi per la
salvaguardia ambientale, in quanto si rischia di non intervenire con opere di
recupero ambientale qualora ce ne fosse un effettivo bisogno) e la seconda è
30
che, in generale, una risposta osservata probabilmente indica l'esposizione, ma
una mancanza apparente di risposta potrebbe essere dovuta o ad un'assenza
degli inquinanti (oppure ad una presenza contenuta, tale da non indurre una
risposta) o ad un sistema efficiente di riparazione presente all'interno
dell'organismo. Queste problematiche possono essere risolte scegliendo un
organismo
adeguato
(di
cui
si
conosce
fisiologia
ed
ecologia)
per
il
biomonitoraggio che si intende eseguire, conoscendo in modo approfondito la
tipologia di biomarker che si vuole utilizzare, ed infine la relazione esistente tra
risposta ed effetti a livello dell’organismo e dell’intera popolazione. Inoltre,
dato che alcuni biomarker possono essere applicati ad una grande varietà di
specie di vertebrati, invertebrati e persino piante, si potrà effettuare un
confronto tra i diversi tipi di risposte (den Besten, 1998).
31
1.5
Monitoraggio con Dreissena polymorpha
L’organismo utilizzato per questa ricerca è stato il mollusco Dreissena
polymorpha, originaria della Russia meridionale ma oggi ampiamente diffusa:
nel 1769 Pallas per primo descrisse popolazioni di questa specie nel Mar Caspio
e nel fiume Ural. Ha poi esteso il suo areale in tutta l’Europa centro
settentrionale attraverso le reti di navigazione fluviale, attaccata al fasciame
dei natanti ed al legname stivato nelle navi provenienti dalla zona baltica
(infatti, può sopravvivere per diversi giorni fuori dall’acqua). In Italia è stata
avvistata per la prima volta nel 1969 nelle acque del Lago di Garda (Giusti e
Oppi, 1972) dove ha dato origine ad una vera e propria esplosione
demografica, raggiungendo un’elevata densità di popolazione, colonizzando poi
anche gli altri laghi subalpini. Probabilmente ha attraversato la catena alpina
attaccata
alla
carena
di
imbarcazioni
turistiche
trasportate
via
terra.
Recentemente, la presenza di questo bivalve è stata segnalata anche nel Lago
Trasimeno (Spilinga, 2000) e ormai deve essere quindi considerata come un
tipico rappresentante della malacofauna italiana.
Lo scopo di questa ricerca è stato quello di valutare l’applicabilità di alcuni
biomarker in D. polymorpha, al fine di impiegare questo mollusco come
organismo-sentinella nei sistemi di early-warning ambientale.
32
1.5.1
Posizione sistematica e anatomia
Classe:
Mollusca
Ordine:
Veneroida
Famiglia: Dreissenidae
Genere:
Dreissena
Specie:
D.polymorpha (Pallas, 1771)
La superficie esterna della conchiglia, di forma mitiloide e lunga fino a 5 cm,
presenta delle striature che hanno originato il nome inglese “zebra mussel”. La
forma è triangolare ed allungata. I
bordi
del
mantello
si
prolungano
formando due sifoni: uno di entrata
dell’acqua
munito
di
tentacoli
(inalante, Fig. 1.5.1) e l’altro di uscita
(esalante).
Dreissena
è
un
tipico
mollusco
filtratore, e la raccolta delle particelle
in
sospensione
tramite
i
particelle
all’interno
vengono
nell’acqua
filamenti
alimentari
di
un
branchiali:
le
agglutinate
cordone
convogliate
avviene
mucoso
attraverso
un
breve esofago cigliato che sbocca nello
stomaco che è circondato da
Fig.1.5.1: sifone inalante munito di
tentacoli
33
una grande massa ghiandolare a funzioni primordialmente digerenti, la
ghiandola digerente o epatopancreas. La temperatura svolge un ruolo
fondamentale sulla velocità di filtrazione di questo bivalve, che si presenta
bassa durante l’inverno, manifesta un incremento di attività in primavera con
temperature tra i 10 e i 20 °C, mentre un aumento termico al di sopra dei 20
°C sembra inibire la filtrazione e di conseguenza l’accrescimento dell’individuo
(Noordhuis et al., 1992).
Sulla linea medioventrale del piede si apre la ghiandola bissogena, che produce
dei filamenti (costituiti da aminoacidi, la loro abbondanza e resistenza dipende
dallo stato fisiologico del mollusco) uniti a formare il bisso, per mezzo del quale
Dreissena può ancorarsi ai substrati.
Vive in acque ben ossigenate, con elevata quantità di sospensione organica, ed
è in grado di tollerare valori di pH compresi fra 5 e 8 ed una salinità tra lo 0 e il
5 per mille (Nekrasova, 1971), che le permette di vivere anche in ambienti
estuariali.
Recenti studi hanno dimostrato che il sistema nervoso di questo bivalve è
colinergico (Ram et al., 1997).
Dreissena è un mollusco con riproduzione iteropara, con un elevato tasso
riproduttivo, anche se l’elevata fecondità è compensata da un’elevata mortalità
che raggiunge il 99% degli individui nello stadio larvale di postveliger, per poi
calare tra gli animali giovani e adulti fissati al substrato (Wiktor, 1963). Gli
animali hanno sessi separati. Il
suo ciclo vitale può essere suddiviso in tre
periodi: un periodo pre-riproduttivo, durante il quale si verifica la maturazione
dei gameti (dall’inverno fino al mese di maggio), un periodo di riproduzione
estiva e un periodo invernale post-riproduttivo; la temperatura e le condizioni
trofiche sono le variabili che maggiormente incidono su queste fasi (Binelli et
al., 2001b). I gameti vengono rilasciati in primavera quando la temperatura
dell’acqua raggiunge i 13 °C (Bacchetta et al., 2001). In acqua ha luogo la
fecondazione e lo sviluppo embrionale, terminato il quale dalle uova si forma
una larva trocofora e in seguito un veliger, che ha vita planctonica per 8-10
giorni. In seguito alla regressione dell’apparato ciliare locomotorio (stadio di
postveliger) la larva cade sul fondo e passa attraverso uno stadio bentonico
34
mobile. Durante questo stadio subisce una serie di cambiamenti anatomici e
fisiologici, come la formazione della conchiglia ed una crescita sensibile del
piede. L’individuo così formato può fissarsi a qualsiasi tipo di substrato duro,
grazie alla secrezione del bisso (Castagnolo et al., 1980). Il bisso e la larva
planctonica sono evidenti caratteristiche della precedente vita marina, e che lo
rendono simile al mitilo.
Il regime alimentare di D. polymorpha è costituito principalmente dal seston
(sostanza organica particellata, vivente e non vivente, sospesa in acqua),
raccolto mediante meccanismi di filtrazione. La taglia del materiale ingerito può
raggiungere i 5 mm di diametro: la selezione delle particelle filtrate avviene
attraverso l’epitelio branchiale ed i palpi labiali. Il mollusco di solito rigetta i
frustuli silicei delle diatomee, le colonie di alghe filamentose e le emulsioni di
liquidi organici. Il materiale rigettato viene raccolto nella cavità palleale ed
espulso attraverso il sifone esalante sotto forma di pseudofeci.
1.5.2 Biomarker applicati a Dreissena polymorpha
Gli organismi sessili come D. polymorpha o il mitilo Mytilus galloprovincialis
sono sempre più frequentemente utilizzati nei programmi di monitoraggio
ambientale come bioaccumulatori o organismi sentinella (Livingstone, 1992):
sono proprio le caratteristiche che li rendono adatti a questi programmi che
hanno portato ad indagare gli effetti delle sostanze xenobiotiche su risposte di
tipo biochimico e biomolecolare, valutate mediante la misura di biomarker.
La prima indagine condotta utilizzando una batteria di biomarker in D.
polymorpha è stata effettuata nel 2000 da de Lafontaine et al., in cui sono
state analizzate le risposte di cinque differenti biomarker per valutare lo stato
delle acque del fiume St. Lawrence in Canada. I biomarker applicati erano le
metallotioneine (MT), l’etossiresorufina orto-dietilasi (EROD), le alterazioni a
livello del DNA, le perossidasi lipidiche (LPO) e la vitellogenina (VG), biomarker
indici di contaminazione da diverse classi di composti. I risultati ottenuti hanno
35
dimostrato che si possono ottenere risposte significative dall’applicazione dei
biomarker anche in questo bivalve: essi infatti hanno fornito risposte differenti
nelle varie stazioni di campionamento, situazione indicativa di contaminazioni
di origine e composizione diversa. In particolare, l’attività EROD più alta è
risultata quella misurata nelle due stazioni di campionamento situate nelle aree
maggiormente
industrializzate,
e
questo
suggerisce
come
tale
attività
enzimatica (misura dell’attività di detossificazione dell’organismo da composti
planari) sia stimolato da contaminanti di tipo industriale; negli altri siti sono
state misurate attività più basse, ma estremamente variabili, più di quanto non
lo siano gli altri biomarker. La ragione di tale variabilità è risultata non
determinabile e probabilmente attribuibile a variabilità di tipo ambientale. A
differenza degli altri tre biomarker (DNA, LPO, VG), con attività basse e
probabilmente collegati metabolicamente tra loro, le MT sembrano essere
quelle con la maggiore capacità di discriminazione del grado di inquinamento
nei diversi siti.
Una ricerca condotta da Dauberschmidt et al., 1997, ha dimostrato la capacità
del mollusco D. polymorpha di biotrasformare i composti organofosfati in vitro,
rendendoli in grado di attaccarsi all’enzima acetilcolinesterasi. Nonostante
questo legame, gli autori non hanno però misurato nessuna inibizione
dell’enzima stesso.
Diversi studi hanno confermato la presenza di un sistema MXDM (MultiXenobiotic Defense Mechanism) sia in invertebrati marini (Mytilus edulis,
Crassostrea gigas, Minier et al., 1993) che in invertebrati d’acqua dolce
(Anodonta cygnea, Kerulec e Pivcevic, 1989; Dreissena polymorpha, Smital e
Kerulec, 1997; Pain e Parant, 2003) e sembra che questo sistema conferisca
una protezione contro gli effetti deleteri causati dall’esposizione di composti
tossici (McFadzen et al., 2000). Tale sistema multi enzimatico è formato da
alcune glicoproteine, in grado di trasportare attivamente all’esterno delle
cellule gli eventuali tossici presenti. Gli studi effettuati non sono comunque
riusciti a stabilire, per il momento, una chiara relazione tra l’induzione
dell’attività del sistema MXDM e l’esposizione ai contaminanti: infatti questo
biomarker è caratterizzato da una bassa specificità visto che la sua induzione si
36
verifica in seguito sia a stress di tipo chimico che a stress aspecifici, come uno
shock termico (Eufemia e Epel, 2000). L’idea è quella che la sua risposta possa
essere modulata da fattori naturali come la dieta, la disponibilità di cibo o la
temperatura. Per questa serie di considerazioni il sistema MXDM potrebbe
essere considerato come un “early warning” per un generico stress ambientale.
Il grande interesse di questo strumento è che permette di rilevare un’inusuale
attivazione del sistema di difesa, e perciò può allertare sui possibili impatti
sulla salute dell’organismo, sebbene non dia informazioni specifiche sulla
natura dell’impatto (Pain e Parant, 2003).
Alcuni studi sono stati condotti esclusivamente esponendo a contaminanti
esemplari di D. polymorpha mantenuti in laboratorio, al fine di eliminare
eventuali interferenze dovute a fattori non identificabili direttamente.
In un
recente studio Lecoeur et al. (2004) hanno esposto alcune centinaia di D.
polymorpha a cadmio e rame, sia singolarmente che in miscela, misurando
quindi l’attivazione delle metallotioneine (MT), proteine che intervengono
nell’omeostasi e nella detossificazione da metalli pesanti. A fronte di un
incremento significativo dell’attività delle MT in seguita ad esposizione a Cd,
nessuna risposta è stata invece misurata dopo l’esposizione a Cu, suggerendo
che le forme di MT presenti in D. polymorpha non siano Cu-inducibili.
Uno studio di Clayton et al. (2000) ha cercato di valutare l’induzione di due
heat shock proteins (HSP), in particolare hsp60 e hsp70, in D. polymorpha
esposta a Cu e TBT. Nonostante fosse presente una notevole variabilità tra
individui, è riportato come l’esposizione ai tossici provochi un aumento
significativo delle HSP rispetto agli individui di controllo.
Alcuni autori hanno cercato di misurare i danni al DNA utilizzando la rilevazione
dei micronuclei o comet test, in seguito ad esposizione al pentaclorofenolo
(PCP) (Pavlica et al., 2000), e in situ in un fiume contaminato (fiume Sava,
Croazia). Un aumento nell’incidenza dei micronuclei è stato osservato in
seguito ad esposizione a PCP 80 µg/l e negli individui prelevati dal fiume Sava.
Un programma analogo di biomonitoraggio attivo (Mersch e Beauvais, 1997),
effettuato trasportando delle gabbie contenenti alcune centinaia di esemplari di
D. polymorpha nei siti da monitorare, interessati da scarichi industriali, situati
37
in diversi fiumi in Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo. L’aumento della
frequenza dei micronuclei negli esemplari esposti rispetto a quelli di controllo
ha indicato la presenza nelle acque di scarico di sostanze genotossiche.
38
1.6 Biomarker utilizzati
1.6.1 IL CITOCROMO P450
Il citocromo P450 (CYP450) (Fig 1.6.1) è il nucleo funzionale enzimatico del
sistema delle monossigenasi a funzione mista (MFO). Gli enzimi del gruppo
delle MFO furono scoperti negli anni ’40: alcuni studiosi notarono che la forma
ridotta del CYP450 dava un caratteristico picco di assorbanza a 450 nm in
presenza di monossido di carbonio; in seguito, si osservò che ciò che conferiva
l’assorbimento era il componente finale di una catena di trasportatori di
elettroni, che catalizzava l’ossidazione di diversi substrati, ovvero il citocromo
P450 (Omura e Sato, 1964). Tale enzima è stato proposto da molti anni per
essere utilizzato come biomarker da esposizione a composti xenobiotici come
idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e policlorodifenili (PCB) (Whyte et al.,
2000).
Fig. 1.6.1 Struttura tridimensionale del citocromo P450
39
Gli enzimi del gruppo del CYP450 fanno parte di una famiglia di emoproteine
localizzate nella membrana del reticolo endoplasmatico liscio degli epatociti o
di altri tipi cellulari e, come tutte le emoproteine, consistono di una porzione
proteica (apoproteina) e di un gruppo eme prostetico. La superfamiglia di
proteine di cui fanno parte è antica e ampiamente distribuita tra batteri, piante
ed animali. All’interno di questa superfamiglia sono state identificate diverse
famiglie (indicate con la sigla CYPn), sottofamiglie (CYP1A, CYP1B..), e gruppi
(CYP1A1, CYP1A2…CYP1An) riuniti in base all’identità di sequenza aminoacidica
(Snyder, 2000).
Grazie a numerosi studi effettuati negli ultimi trent’anni, è emerso che il
CYP1A1 è il responsabile principale del metabolismo di composti endogeni e
xenobiotici organici, come policlorodifenili (PCB) e idrocarburi policiclici
aromatici (IPA) (Snyder, 2000). La maggior parte dei composti xenobiotici è
liposolubile, e può attraversare le membrane biologiche accumulandosi nei
tessuti adiposi o in cellule di altri tessuti, interferendo in tal modo con i normali
processi metabolici. Le sostanze tossiche, vengono biotrasformate in forme più
escretabili da parte dell’organismo, attraverso una Fase I e una Fase II di
detossificazione. Il sistema MFO riveste un ruolo determinante nei processi
iniziali (Fase I) della detossificazione dei composti xenobiotici e di molecole
endogene (steroidi e acidi grassi) e in particolare il suo nucleo funzionale, il
CYP450, è coinvolto nelle reazioni della Fase I. Il suo ruolo è quello di rendere
reattivi i composti xenobiotici, inserendo nella molecola gruppi funzionali polari
come - OH, - SH e - COOH: con tale attivazione del substrato è reso possibile
il successivo attacco da parte degli enzimi coniuganti (Fase II) e la successiva
eliminazione dall’organismo (Fossi 1998). In questo modo il sistema MFO tende
a detossificare l’organismo dai composti xenobiotici, anche se esistono
numerosi casi in cui i prodotti del metabolismo di Fase I sono più tossici del
composto parentale (Guengerich e Liebler, 1985), un esempio è costituito dagli
IPA, i cui risultati metabolici possono portare a un danno cellulare e, in alcuni
casi anche a effetti di cancerogenesi (Hong e Yang, 1997).
40
La risposta di induzione è specifica per un certo substrato: ciò significa che una
classe di composti, ad esempio gli IPA o i PCB, induce in maniera specifica una
sola famiglia enzimatica (quella del CYP1A1), mentre la classe degli insetticidi
organoclorurati è responsabile dell’induzione del CYP2B. Per questa sua elevata
specificità di induzione da parte del substrato, il sistema MFO costituisce uno
dei biomarker più specifici perché permette di identificare le diverse classi di
composti responsabili del fenomeno induttivo (Fossi, 1998).
Le relazioni tra le forme del CYP450 presenti nei mammiferi e nelle altre classi
di vertebrati e invertebrati sono indagate da molto tempo: in tutti i mammiferi
e gli uccelli esaminati fino ad oggi, la sottofamiglia CYP1A è presente in due
forme analoghe, CYP1A1 e CYP1A2, che risultano essere entrambe indotte da
composti quali IPA e PCB (Nelson et al., 1996). Diverse tecniche di
riconoscimento molecolare hanno constatato la presenza della sottofamiglia
CYP1A in più di 30 specie di pesci (Stegeman e Hahn, 1994); in particolare,
nella trota iridea, l’analisi della sequenza aminoacidica della forma riconosciuta
come CYP1A ha mostrato una corrispondenza pari al 60% con quelle isolate nei
mammiferi (William e Buheler, 1982; Heilmann et al.,1988).
Recenti purificazioni enzimatiche e studi immunochimici e biomolecolari, hanno
indicato la presenza di un citocromo P450 con caratteristiche strutturali e
catalitiche simili alla forma CYP1A anche nella ghiandola digestiva dei molluschi
del genere Mytilus, sebbene non sia ancora stato sequenziato del tutto il suo
gene, e quindi non sia possibile identificarlo come membro della sottofamiglia
CYP1A: per il mitilo è dunque meglio parlare di CYP1A-like (Wootton et al.,
1996).
Gli eventi che portano all’induzione di questo enzima da parte di composti
xenobiotici sono stati studiati a fondo nei mammiferi (Okey et al., 1994), e
questo meccanismo sembra agire in modo simile nei vertebrati e negli
invertebrati
(Hahn
e
Karchner,
1995)
oltre
alle
evidenti
relazioni
immunochimiche che sono state verificate tra le forme del CYP1A in tutti i
vertebrati acquatici e terrestri (Stegeman e Hahn, 1994).
Nei molluschi l’attività del citocromo P450 risulta essere più elevata nella
ghiandola digestiva, ma è tuttavia riscontrabile anche nelle cellule ematiche,
41
nelle branchie, nel piede e nelle gonadi (Livingstone et al., 1989). Diverse
analisi hanno evidenziato come il valore dell’attività, seppure presente, sia ben
10 volte più bassa rispetto a quella riscontrata nei mammiferi (Livingstone,
1991).
Anche se il funzionamento del sistema delle MFO nei confronti dei contaminanti
nei molluschi non è ancora del tutto chiaro, è stata dimostrata l’induzione di un
citocromo P450 riconosciuto da anticorpi policlonali epatici di tipo CYP1A1,
(ottenuti in Oncorhynchus mykiss), nella ghiandola digestiva di un chitone
esposto a β-naftoflavone (Schlenk e Buhler, 1989). In un altro mollusco,
(Mytilus galloprovincialis), è stato evidenziato un aumento dell’attività Bap
idrossilasi
nella
ghiandola
digestiva,
dopo
un’esposizione
effettuata
in
condizioni controllate di laboratorio a diversi congeneri di PCB (Livingstone et
al., 1997).
La caratteristica fondamentale di questo sistema multienzimatico è data dalla
sua inducibilità da parte del substrato: infatti, la presenza di composti
xenobiotici
stimola
la
sintesi
di
nuove
proteine
funzionali.
L’induzione
rappresenta un segnale qualitativo o semi-quantitativo della presenza di
composti xenobiotici, ed è proprio la tendenza dell’enzima ad aumentare in
concentrazione sotto esposizione chimica l’aspetto più utile che ne fa un ottimo
sistema di biomonitoraggio.
42
1.6.1.1
Meccanismo molecolare di induzione del citocromo
P450
L’utilizzo del CYP1A per le analisi di biomonitoraggio consiste nella misurazione
dell’incremento di produzione dell’enzima nelle cellule, dopo l’esposizione ad un
tossico (inducibilità). Dal punto di vista molecolare, l’induzione del citocromo
P450 è mediata attraverso un legame da parte dei composti xenobiotici ad un
recettore citosolico arilico (Ah). I ligandi specifici per tale recettore hanno
generalmente una configurazione isosterica e sono simili in struttura alla
2,3,7,8- tetraclorodibenzo-p-diossina (2,3,7,8 - TCDD), uno tra i principali
induttori del CYP450 (Fig. 1.6.2).
Fig. 1.6.2 Struttura della 2,3,7,8- TCDD
Il recettore Ah si trova aggregato con altre proteine, che includono una forma
dimerica proteica chiamata hsp90 (Coumailleau et al., 1995) e una proteina cSrc tirosina chinasi, chiamata p50 (Enan e Mmatsumura, 1996). Dopo il
legame tra il substrato e il gruppo Ah vengono rilasciate le forme proteiche
hsp90 e p50. Questo consente al recettore Ah di legarsi ad una proteina
transfer nucleare (ARNT) che media il suo ingresso nel nucleo. In questo modo
viene attivato un fattore di trascrizione specifico, che va a legarsi a specifiche
43
regioni del DNA, riconosciute come “dioxin-responsive elements” (DREs). Il
legame induce la trascrizione di parecchi geni, conosciuti come “Ah-gene
battery” e la conseguente sintesi di proteine, incluse quelle del gruppo del
CYP450 (Fig. 1.6.3) (Nebert et al., 1993).
Fig. 1.6.3 Rappresentazione del meccanismo molecolare di induzione del CYP450 (da
Whyte et al., 2000)
Una tipica reazione di ossidrilazione catalizzata dal citocromo P450 può essere
così schematizzata:
Come elettron-donatore, il CYP450 può indifferentemente usare NADH oppure
NADPH; i due elettroni devono essere trasferiti al citocromo attraverso una
proteina trasportatrice (nel caso dei citocromi microsomiali, una flavoproteina).
44
1.6.1.2
Metodi
analitici
per
misurare
l’induzione
del
citocromo P450
Esistono diverse tecniche che permettono di valutare e quantificare l’induzione
del CYP450 (Tab 1.6.1).
Tab. 1.6.1 Metodi analitici per valutare l’induzione del CYP450.
Tecniche
CYP450 catalytic activity: Etossiresorufina-O-dietilasi (EROD)
CYP450 messenger RNA (mRNA): Northern blot
CYP450 protein: Western blot, ELISA
Una tra le tecniche più rapide e più semplici è quella di misurare l’attività di
questo enzima basandosi sulla sua capacità di idrolizzare substrati quali
etossiresorufina, metossiresorufina e pentossiresorufina, in un prodotto stabile
e fluorescente, la resorufina (Fig. 1.6.4). La misura dell’attività catalitica di
idrolisi di questi substrati viene chiamata EROD (etossiresorufina-O-dietilasi),
MROD (metossiresorufina-O-dietilasi) e PROD (pentossiresorufina-O-dietilasi).
45
Fig 1.6.4 Idrolisi dell’etossiresorufina in resorufina
Un’altra metodologia è quella che si basa sulla quantificazione dell’mRNA
corrispondente al CYP450, che può essere effettuata con analisi tipo Northern
Blot. Il principale vantaggio di tale tecnica è che, a differenza della valutazione
dell’attività enzimatica del CYP450, essa non è soggetta all’inibizione causata
da composti che vanno ad interferire direttamente sulla capacità catalitica del
citocromo. Inoltre, la sua elevata sensibilità è consigliata nel caso in cui si
abbiano ridotte quantità di campione sul quale effettuare le analisi (Campbell e
Devlin, 1996). Infine, può essere direttamente misurato il contenuto di CYP450
(si quantifica la proteina CYP450), per mezzo di analisi tipo Western Blot ed
ELISA, basate sull’utilizzo di anticorpi mono- e policlonali, che in passato hanno
anche permesso di evidenziare una stretta relazione tra le forme di CYP450
presenti nei mammiferi e quelle presenti nei pesci (Stegeman e Hahn, 1994).
Anche questa metodologia non risente di problemi derivanti da agenti di tipo
inibitorio. Le ultime due tecniche hanno il vantaggio di essere estremamente
sensibili e precise, ma sono anche più costose e richiedono più tempo per
ottenere i risultati: per questa ragione, la misura dell’attività catalitica del
CYP450 risulta essere la scelta adeguata per analisi di biomonitoraggio che
prevedono l’utilizzo del biomarker (Whyte et al., 2000).
46
1.6.1.3
Fattori che influiscono sull’attività del citocromo
P450
Sono state condotte numerose ricerche per cercare di valutare possibili
interferenze di tipo chimico, fisico e biologico sull’attività del citocromo P450:
la conoscenza di tali fattori può aiutare ad evitare interpretazioni errate dei dati
misurati.
Sostanze che inducono l’attività:
Le classi di contaminanti che presentano una configurazione sterica idonea per
potersi legare al recettore Ah sono i composti con dimensioni molecolari di 12
x 14 x 5 Ǻ (Fig. 1.6.5) (Waller e McKinney, 1995).
Fig. 1.6.5 Esempio di un potenziale ligando per il recettore Ah.
È anche noto che, sebbene la geometria sia uno dei fattori determinanti per il
potenziale legame tra il recettore Ah e il composto xenobiotico, numerose altre
caratteristiche chimico-fisiche della molecola, come l’idrofobicità, la capacità di
accettare elettroni e la polarità sono molto importanti. Inoltre, esistono diversi
fattori esterni che possono influenzare la capacità di un composto a indurre
l’attività del CYP450, come la sua concentrazione ambientale, la biodisponibilità
e
la
predisposizione
alla
degradazione
(Menkenyan
et
al.,
1996).
I
47
policlorobifenili (PCB) e gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) sono le classi di
contaminanti che attivano in modo specifico il citocromo P4501A1, oltre alle
policloro dibenzo-p-diossine (PCDD) e dei dibenzofurani (PCDF).
Sostanze che inibiscono l’attività:
Alcuni composti chimici possono inibire l’attività del CYP450 in diversi modi:
legandosi al recettore citosolico Ah, e andando in tal modo a competere con lo
specifico substrato, oppure alterando la struttura molecolare del recettore
stesso. Inoltre alcuni composti ritenuti induttori dell’attività del CYP450 (come i
PCB) possono, in condizioni particolari, (come concentrazioni molto elevate, o
presenza contemporanea di altri induttori) generare un effetto opposto, di tipo
inibitorio (Whyte et al., 2000).
Alcuni fattori che possono in qualche modo inibire l’attività del CYP450 possono
essere:
o Metalli pesanti:
la presenza di metalli sembrerebbe inibire l’attività catalitica del CYP450.
Probabilmente, il meccanismo di inibizione non è dovuto ad un’azione diretta
dei metalli sul recettore Ah o del CYP450, ma piuttosto la presenza di tali
contaminanti sembrerebbe interferire con i componenti ad azione riducente del
sistema delle monossigenasi. Iniezioni di cadmio effettuate nella regione
intraperitoneale di esemplari di passera di mare (Pleuronectes platessa), hanno
ridotto la produzione di enzimi CYP450 piuttosto che la sua attività catalitica
(George, 1989), mentre l’utilizzo di metalli bivalenti come il rame e il mercurio,
legandosi ai gruppi sulfidrilici della molecola del CYP450, ne hanno inibito
l’attività catalitica (Viarengo et al., 1997).
o Miscele di contaminanti:
Studi effettuati in laboratorio su esemplari di trota iridea esposti ad elevate
concentrazioni di una miscela costituita da 2,3,7,8-TCDD e PCB 126 (oppure
PCB 156) hanno mostrato un’attività del CYP450 significativamente più bassa
rispetto a quella rilevata in seguito ad esposizione con il singolo inquinante
2,3,7,8-TCDD (Newsted et al., 1995). È stato ipotizzato che la diminuzione
dell’attività catalitica del CYP450 sia associata ad una diminuzione della sintesi
48
dell’enzima attraverso un sistema di regolazione a feed-back negativo. Questo
suggerisce che miscele di contaminanti presenti nell’ambiente possano
generare effetti non additivi, ma addirittura inibitori. Una inibizione competitiva
da substrato è confermata anche da Petrulis e Bunce (1999), che suggeriscono
che oltre una certa concentrazione di contaminante i valori di attività del
CYP450 diminuiscono sensibilmente. Una spiegazione comune di questa
inibizione è la citotossicità dei composti che attivano il CYP450, sebbene alcuni
abbiano rifiutato questa ipotesi perché non è stata osservata una perdita di
vitalità cellulare anche a livelli molto alti di composti dioxin-like (Rodman et al.,
1989, Verhallen et al., 1997). Recentemente, sono molti gli studi che
segnalano la possibilità che si tratti di inibizione competitiva da parte del
substrato (Besselink et al., 1998): la concentrazione dell’enzima aumenterebbe
con la concentrazione dell’induttore, fino a che tutti i siti di legame AhR
saranno occupati: a concentrazioni dell’induttore ancora più elevate, esso
agirebbe come inibitore del CYP450, riducendo l’attività EROD (ma non la
concentrazione dell’enzima) (Petrulis e Bunce, 1999).
o Fattori endogeni:
Alcuni studi effettuati su invertebrati marini esposti a contaminanti hanno
evidenziato un’assenza di attività da parte del CYP450 (James e Little, 1984).
Questo problema è stato attribuito alla presenza di inibitori di tipo endogeno,
presenti nelle preparazioni microsomiali sulle quali sono state condotte le
analisi. La mancanza di attività potrebbe essere attribuibile alla distruzione
dell’enzima NADPH-citocromo P450-reduttasi, responsabile del trasporto di
elettroni necessario per l’attività del CYP450. (James, 1990), oppure gli
inibitori deriverebbero dal tessuto intestinale, o dall’azione di enzimi digestivi
dell’organismo stesso sul CYP450 (Valles e Yu, 1996).
o Effetti dovuti a fattori biologici:
Uno dei fattori che sembra influenzare maggiormente l’attività del CYP450 nei
pesci è il periodo riproduttivo. È stato messo in evidenza che l’attività del
citocromo P450 rilevata negli esemplari campionati durante il periodo
49
riproduttivo, se paragonata con quella riscontrata in periodo post-riproduttivo,
diminuisce fino a 90 volte negli individui femminili e fino a 40 in quelli maschili
(Kruner e Westernhagen, 1999). Ciò che genera un abbassamento dell’attività
enzimatica così rilevante nelle femmine è la presenza dell’ormone 17-βestradiolo anche se il meccanismo della sua azione sul sistema delle MFO non è
ancora ben chiaro: i livelli dell’attività del CYP450 negli individui femminili
diminuiscono gradualmente verso il periodo dell’ovulazione, per poi ritornare a
livelli normali durante il periodo post-riproduttivo. Questi studi sono stati
condotti non solo su vertebrati, ma anche su invertebrati: il periodo
riproduttivo influisce nello stesso modo anche nei molluschi, tra cui D.
polymorpha (Dauberschmidt et al., 1997).
o Temperatura:
L’azione della temperatura sull’attività del CYP450 non è ancora del tutto
chiarita. Alcuni studi evidenziano come la temperatura possa pesantemente
influenzare l’attività del CYP450: l’assunzione dei contaminanti da parte degli
organismi acquatici è temperatura-dipendente, con un elevato accumulo a
temperature più alte e un lento rilascio dai tessuti a temperature più basse,
eventi che possono influire sulla disponibilità dei ligandi per il recettore Ah
(Jimenez et al., 1987). Altri studi sembrano mostrare una correlazione
negativa tra temperatura ambientale e l’attività enzimatica: questi studi si
basano sul fatto che l’effetto della temperatura negli organismi pecilotermi
necessita di meccanismi di compensazione per regolare le reazioni enzimatiche
che dipendono dalla temperatura; tale meccanismo di compensazione sarebbe
determinante anche per l’attività del CYP450, che quindi non risentirebbe di
effetti termici ambientali (Whyte et al., 2000).
50
1.6.2
Acetilcolinesterasi (AChE)
L’acetilcolinesterasi è un enzima presente nei tessuti nervosi, nei globuli rossi e
nel plasma di molti vertebrati, oltre che in diversi invertebrati. La funzione
principale
dell’acetilcolinesterasi
è
idrolizzare
l’acetilcolina
nelle
sinapsi
colinergiche. L’acetilcolina (ACh) è un neurotrasmettitore, la cui sintesi avviene
all’interno dei neuroni presinaptici colinergici, che consiste nel trasferimento di
un gruppo acetilico da una molecola di acetil-CoA a una molecola di colina, in
una reazione catalizzata dalla colina-acetilcolinatransferasi (ChAT). Una volta
formatasi l’ACh viene racchiusa all’interno di vescicole, e trasportata a livello
della membrana presinaptica. La depolarizzazione della membrana assonica di
questi neuroni provoca l’apertura dei canali per il Ca2+, il cui flusso facilita la
fusione delle vescicole sinaptiche con la membrana presinaptica del neurone
colinergico, con conseguente rilascio di acetilcolina nello spazio intersinaptico.
A livello dei recettori presinaptici il meccanismo di rilascio dell’ACh è regolato
tramite feedback negativo, mentre quelli postsinaptici traducono il segnale
attraverso una catena metabolica che coinvolge il diacilglicerolo (DAG),
l’inositolo-1,4,5-trifosfato e le proteine chinasiche Ca2+ dipendenti (Hamilton,
1997).
In
condizioni
dall’acetilcolinesterasi
monodimerico
normali
(Fig.
caratterizzato
l’acetilcolina
1.6.6).
dalla
è
rapidamente
L’acetilcolinesterasi
presenza
di
un
demolita
è
un
enzima
sito
di
legame
dell’acetilcolina (sito anionico) che, carico negativamente, attrae l’ammonio
quaternario dell’acetilcolina, e di un sito catalitico (sito esterasico) dal quale
viene catalizzata l’idrolisi (Nair et al., 1994). Il sito esterasico è composto da
una triade catalitica
che comprende un’istidina, una serina e un acido
glutammico (his440, ser200, glu327) (Fig. 1.6.7).
51
Fig 1.6.6
Struttura tridimensionale dell’acetilcolinesterasi
Fig 1.6.7 Schema riassuntivo dei principali siti coinvolti nella catalisi
52
La reazione catalitica può essere
suddivisa in due stadi: una trans-
esterificazione, con passaggio del gruppo acetile dal substrato al residuo
serinico ed una successiva deacetilazione della serina. Il primo stadio della
catalisi coinvolge l’attacco del gruppo ossidrilico della serina al carbonile
dell’acetilcolina. Per quanto l’ossidrile della serina non sia sufficientemente
basico, la reazione procede in quanto il protone della serina (ser200) è accettato
dall’azoto imidazolico del residuo di istidina (his440). Il protone, legato al
secondo azoto del nucleo imidazolico, passa sull’anione carbossilato del
glutammato (glu327). Contemporaneamente, la carica negativa che si forma
sull’ossigeno carbonilico della acetilcolina è stabilizzata da ponti di idrogeno
con due residui di glicina (gly118 e gly119) e uno di alanina (ala201). Dopo
l’attacco dell’ossigeno della serina sul carbonile dell’acetilcolina, la reazione
procede con la scissione del complesso tetraedrico. Si libera colina, ma
l’enzima rimane acetilato. La reazione si conclude con la deacetilazione
dell’enzima causata dall’attacco di una molecola di acqua. Anche lo stadio
idrolitico è soggetto a catalisi generale basica (l’azoto basico dell’istidina
accetta un protone dell’acqua) e stabilizzazione dell’addotto tetraedrico
attraverso legami ad idrogeno. Il rilascio della colina dal sito di legame avviene
per una riduzione dell’affinità con l’enzima (Shafferman, 1992).
1.6.2.1
Inibizione
Un composto che può legare l’acetilcolinesterasi, rendendola incapace di
demolire l’acetilcolina, è denominato “inibitore dell’acetilcolinesterasi,” o
“agente anticolinesterasico”. I composti che sono dotati di attività inibente
possono essere distinti in reversibili (edrofonio, carbammati) e in irreversibili
(organofosfati). In entrambi i casi, le molecole vanno ad occupare il sito attivo
dell’enzima, o una regione ad esso adiacente, impedendo l’accesso al substrato
naturale o la catalisi. Mentre però nel primo caso non si formano legami
covalenti tra il composto inibitore e l’enzima, nel secondo caso l’agente
anticolinesterasico, formando un legame fosfoestereo (più stabile di un legame
estereo) con la serina della triade catalitica, non può essere idrolizzato in tempi
utili e pertanto il sito catalitico viene occupato in modo irreversibile. I composti
53
che sfruttano un tale meccanismo d’azione sono altamente tossici (Sarin, DFP,
Tabun, Soman).
Il meccanismo d’azione degli inibitori reversibili può essere di due tipi: gli alcoli
ammonici quaternari (edrofonio o tensilon) si legano reversibilmente al sito
attivo o nei pressi di esso, mediante interazioni elettrostatiche che, essendo
labili, permettono al complesso di resistere per un breve periodo (da 2 a 10
minuti), mentre i carbammati carbamilano il sito esterasico dell’enzima. I
carbammati, essendo più resistenti degli esteri, vengono idrolizzati lentamente
e ciò consente di prolungare l’occupazione del sito per un periodo compreso fra
i 30 minuti e le 6 ore.
Nell’uomo, i sintomi di un’esposizione ad agenti anticolinesterasici sono, nei
casi meno gravi, stanchezza, nausea, vertigini, emicrania e vomito, mentre nei
casi più gravi ipotensione (pressione sanguigna anormalmente bassa), spasmi
addominali, diarrea, riduzione del battito cardiaco, arresto respiratorio e morte.
I tipi e la gravità dei sintomi dipendono da:
-
tossicità del composto
-
quantità di insetticida a cui l’organismo è stato esposto
-
via di esposizione (via cutanea, respiratoria o gastrointestinale)
-
durata dell’esposizione
Gli agenti anticolinesterasici trovano applicazione nel settore agricolo come
insetticidi (benomyl, carbedazim, chlorpyrifos), nel settore bellico come gas
nervini (tabun, sarin, soman e VX), e diversi impieghi nel settore medico
(fisostigmina, demecario ed ecotiopato nella cura del glaucoma, tacrina e
aricept nel trattamento sintomatico della miastenia grave e del morbo di
Alzheimer).
54
1.6.2.2
Riattivatori
Nel caso d’intossicazione da organofosforici, l’unico modo per ripristinare la
funzionalità dell’acetilcolinesterasi è somministrare un’ossima (pralidossima,
propralidossima, NIMA, trimedossima, obidossima, 2-PAM etc.) (Fig. 1.6.8)
che, nel caso in cui il legame fosfoestereo non si sia stabilizzato, può spostare
la
molecola
occupante
l’ossidrile
serinico,
sfruttando
una
reazione
di
transesterificazione.
Fig 1.6.8
Riattivatori dell’attività acetilcolinesterasica
55
La piridina 2-aldossi metaclorato (2-PAM) (Fig 1.6.9) fa parte di questo gruppo
di
molecole
“riattivatici”
dell’attività
colinesterasica,
fa
regredire
cioè
l’inibizione determinata dagli organofosforati evitando la stabilizzazione del
complesso enzima-organofosforato che consiste nella perdita di un gruppo
alchilico (Taylor, 1996).
Fig. 1.6.9
Formula di struttura del 2-PAM Cl
Le ricerche sugli ossimi sono state finalizzate soprattutto al loro utilizzo come
antidoti in ambito medico, specialmente per gli organofosforati usati nei
conflitti bellici (Moore et al., 1995) e per il meccanismo biochimico di
stabilizzazione e riattivazione (Wilson et al., 1992) persino in colture cellulari
(Funk et al., 1995). Ci sono però pochi studi di applicazione dell’ossima su
animali selvatici (invertebrati, uccelli, mammiferi), sul bestiame e sull’uomo
(Karlog e Poulsen, 1963; Martin et al., 1981; Hooper et al., 1989; Lifshitz et
al., 1994; McCurdy et al., 1994; Sanchez-Fortun et al., 1996).
Il meccanismo di riattivazione è stato utilizzato da Stanley nel 1993 per
diagnosticare il tipo di avvelenamento anticolinesterasico verificatosi in uccelli
e pesci. Con tali metodi di riattivazione si può potenzialmente confermare se il
basso livello di attività colinesterasica è attribuibile a inquinanti o ad altri
fattori: nel caso in cui l’intossicazione sia dovuta a organofosforati l’unico modo
per riportare i livelli alla normalità è trattare con un ossima (in questo caso il
2-PAM).
56
1.7
Composti chimici
In aggiunta alle analisi biochimiche volte alla misura dei biomarker, sono state
svolte analisi chimiche che hanno permesso di misurare esattamente le
quantità di alcuni composti presenti nei tessuti, sia negli esemplari prelevati in
campo, sia in quelli utilizzati in laboratorio, per valutare il tasso di bioaccumulo
del composto chimico utilizzato e la relazione esistente con la risposta
biochimica.
1.7.1
Organofosforici e carbammati
Gli organofosfati (o organofosforici) e i carbammati rappresentano due classi di
composti oggi ampiamente utilizzati in agricoltura, che hanno sostituito gli
organoclorurati grazie alla loro inferiore persistenza nell’ambiente. Entrambe le
classi presentano proprietà inibenti nei confronti del sito esterasico dell’AChE, e
di altre esterasi in genere. L’inibizione è di tipo competitivo in quanto questi
composti sono in grado di bloccare la degradazione enzimatica dell’acetilcolina.
Gravi intossicazioni da parte di organofosforici e carbammati portano a
stimolazione continua dei recettori nicotinici e muscarinici (Galloway et al.
2002) che può culminare con la morte dell’individuo, come testimoniato
dall’attentato con l’organofosforico Sarin nella metropolitana di Tokyo nel
1995, che uccise 12 persone.
o Organofosforici
I pesticidi organofosforici sono composti organici contenenti fosforo. L’elevata
variabilità strutturale, che si riflette sia sulle proprietà chimico-fisiche che
biologiche, ha consentito impieghi diversi di questi composti, permettendo ad
alcuni di essi di essere utilizzati come fumiganti, altri come tossici agenti per
contatto e ad altri ancora come composti sistemici.
Dal punto di vista chimico i composti organofosforici possono essere classificati
in relazione agli atomi direttamente legati al fosforo (Parisi, 2002a) in 7
57
diverse classi. La maggior parte dei composti organofosforici ha una bassa
volatilità (eccetto il dichlorvos), e viene degradata tramite idrolisi. L’elevata
variabilità strutturale di questi composti ha due importanti conseguenze: la
prima è la possibilità di selezionare tra gli organofosforici quelli che presentano
una certa selettività nei confronti di determinate specie di insetti, dato che la
quantità nonché l’attività degli enzimi è specie-specifica; la seconda ha
permesso, data la molteplicità dei possibili tipi e posizioni di attacco enzimatico
all’interno della molecola di tali pesticidi, di minimizzare il rischio di uno
sviluppo uniforme della tolleranza a tutti gli organofosforici nell’ambito delle
specie di insetti che devono essere controllate (Parisi, 2002b).
La
funzione
dell’enzima
insetticida
degli
acetilcolinesterasi
organofosfati
(AChE):
il
si
esplica
gruppo
tramite
fosfato
del
inibizione
composto
organofosforico è attratto dal sito esterasico dell’enzima, mentre il resto della
molecola si dispone nello spazio nel modo stabilito dalle diverse interazioni che
si vengono a creare tra i gruppi laterali degli amminoacidi formanti l’area attiva
dell’enzima. Gli organofosfati, fosforilando il gruppo -OH della serina all’interno
del sito esterasico, inattivano irreversibilmente l’AChE e, di conseguenza,
bloccano la degradazione del neurotrasmettitore acetilcolina. Protraendosi nel
tempo, l’aumento della concentrazione intersinaptica di acetilcolina porta, negli
insetti, al blocco dell’impulso nervoso con conseguente morte mentre, nei
vertebrati, ad un’eccessiva stimolazione dei recettori colinergici in tutti i
distretti del sistema nervoso centrale e periferico, che si manifesta come
perdita della coordinazione muscolare e convulsioni, fino al sopraggiungere
della morte (Parisi, 2002b).
La
maggior
parte
dei
composti
organofosforici
non
ha
un
potenziale
cancerogeno, eccetto dichlorvos e tetrachlorvinphos che inducono tumori in
ratti ed in topi. Per altri prodotti chimici, come il malathion, l’interpretazione
dei risultati non ha trovato un accordo generale (IARC, 1983; Huff et al.,
1985). Nessuna generalizzazione può invece essere fatta per il potenziale
mutageno, in quanto alcuni residui esibiscono attività mutagena, mentre altri
non ne possiedono.
58
Alcuni
organofosforati,
presentano
composti
in
particolare
parentali
fosforotionati
aventi
una
bassa
e
o
fosforotioltionati,
inesistente
attività
anticolinesterasica diretta, la quale però aumenta notevolmente in seguito al
processo di bioattivazione (Maxwell e Lenz, 1992; Ecobichon, 1996). La
bioattivazione dei composti organofosfati (OPC) è definita come trasformazione
metabolica di un OPC inattivo in un OPC attivo, o conversione di un OPC attivo
in un altro composto attivo (Jokanovic, 2001). Tra i composti che devono
essere bioattivati per esplicare la loro azione anticolinesterasica, il chlorpyrifos
(0,0-dietil 0-3, 5, 6-tricloro-2- piridil fosforotionato) è tra quelli più utilizzati sia
in campo agricolo, industriale e domestico (Rake, 1993; Barron e Woodburn,
1995; Gibson et al., 1998). Il chlorpyrifos (Fig. 1.7.1) è un insetticida
appartenente alla famiglia dei fosforotionati, con la seguente formula di
struttura:
197
100
Cl
97
P
N
314
O
O
S
O
Cl
Cl
50
258
29
109 125
47
286
208
169
65
133
81
153
244
180
276
217
306
349
0
20
40
60
(wiley7) Dursb a n
80
100
120
140
160
180
200
220
240
260
280
300
320
340
360
Fig. 1.7.1: formula di struttura e spettro di massa del chlorpyrifos
59
La bioattivazione di questo composto avviene a livello del fegato, come
dimostrato da diversi studi compiuti su ratti e topi, per mezzo di una
desulforazione citocromo P450 dipendente. Il chlorpyrifos viene trasformato nel
corrispondente analogo-ossidato (chlorpyrifos-oxon) o in desethyl-chlorpyrifos
(Fig 1.6.2), che viene rapidamente idrolizzato in TCP (3,5,6-triclor-2-piridinolo)
(Ma e Chambers, 1994). Questo processo di degradazione può avvenire anche
per via abiotica, sia in ambiente acquatico che terrestre (Rake, 1993). Il
Chlorpyrifos-oxon inibisce irreversibilmente l’AChE, secondo i meccanismi
precedentemente
citati.
Recenti
studi
hanno
dimostrato
come
anche
un’esposizione per uso domestico al chlorpyrifos possa rappresentare un grave
rischio per la salute (Lemus et al., 1997; Ott e Roberts, 1998; Davis e Ahmed,
1998).
Fig. 1.7.2 - Chlorpyrifos e suoi metaboliti
60
o Carbammati
I carbammati sono una categoria di composti ampiamente utilizzati in
agricoltura, come insetticidi, fungicidi, diserbanti, nematocidi o inibitori del
germoglio, oltre che come pesticidi per applicazioni industriali e domestiche
(WHO, 1986). (Fig. 1.7.3).
Fig. 1.7.3 Formula generale di un carbammato, dove R1 ed R2 possono essere un atomo di
idrogeno o un gruppo alchilico e R3 è un gruppo sostituente
Possono essere classificati in tre gruppi:
• Carbammati insetticidi (R1 è un gruppo metilico) derivati da esteri, sono
generalmente stabili ed hanno bassa pressione di vapore e solubilità in acqua
• Carbammati diserbanti (R1 e R2 sono parti aromatiche e/o alifatiche)
• Carbammati fungicidi (R1 è una parte del benzimidazolo)
La sintesi e la commercializzazione di questi composti è iniziata negli anni ’50,
tranne per i fungicidi al benzimidazolo, introdotti sul mercato intorno agli anni
‘70. La maggior parte dei carbammati, esclusi i fungicidi, ha attività
anticolinesterasica diretta, e non richiede bioattivazione.
L’inibizione avviene tramite carbamilazione del gruppo -OH sull’amminoacido
serina nel sito esterasico. Questa reazione è di tipo reversibile e la funzionalità
enzimatica si riattiva spontaneamente (Thompson, 1999), tramite idrolisi del
carbammato da parte dell’enzima stesso (Aldrige e Reiner, 1972; Taylor, 1990)
e il tasso di idrolisi delle esterasi è più veloce nei mammiferi che negli insetti.
L’instabilità della carbamilazione dell’acetilcolinesterasi rende i composti
carbammati meno pericolosi degli organofosforici nei confronti dell’uomo. Il
61
meccanismo principale di metabolizzazione dei carbammati è ossidativo e
associato alle monoossigenasi a funzione mista (MFO).
Il rischio di contaminazione ambientale da carbammati è limitato in quanto,
generalmente, questi composti sono poco persistenti e solitamente i metaboliti
sono meno tossici del composto parentale. In condizioni particolari però, come
in alcuni laghi canadesi con acque acide, gli amminocarbammati sono risultati
piuttosto stabili da essere così accumulati nei diversi livelli trofici (Ecobichon,
1982).
Uno dei carbammati più utilizzati è il carbaryl (1-naftilmetilcarbammato) (Fig.
1.7.4), utilizzato per il controllo di oltre 100 specie di insetti su coltivazioni di
limone, frutta, cotone e fiori ornamentali, ed anche come molluschicida ed
acaricida. Quando presente in acque superficiali, la sua evaporazione è molto
bassa, ed ha un’emivita di circa 10 giorni a pH neutro.
144
100
HN
O
O
50
115
28
57
39
0
51
63
72
89
20
30
40
50
60
70
80
90 100
(wiley7) 1-Na p htha lenol, methylc a rb a ma te (CAS)
201
127
110
120
130
140
150
160
170
180
190
200
210
Fig. 1.7.4: formula di struttura e spettro di massa del carbaryl
62
1.7.2
Idrocarburi policiclici aromatici (IPA)
Gli IPA sono un gruppo di composti formati da due o più anelli benzenici uniti
fra loro attraverso una coppia di atomi di carbonio condivisi fra anelli
condensati. Esistono fonti naturali di IPA che derivano da incendi di foreste,
eruzioni vulcaniche e petrolio grezzo, ma la contaminazione ambientale deriva
principalmente da fonti antropiche, quali la combustione incompleta di
carbone, di olio, di rifiuti industriali e urbani. Sono presenti diversi isomeri
all’interno di questa classe di inquinanti (fino a 100) che si trovano
nell’ambiente singolarmente o, più comunemente, come miscele complesse. E’
stato
osservato
che
gli
IPA
con
maggiore
peso
molecolare,
come
benzo(α)pirene e benzo(α)antracene, sono quelli maggiormente tossici e con
elevate proprietà cancerogene.
Gli IPA hanno una notevole capacità di bioconcentrare, ma poiché possono
essere metabolizzati attraverso gli enzimi della Fase I del metabolismo
(Schnitz e O’Connor, 1992), solitamente non raggiungono le concentrazioni
attese
in
base
ai
normali
modelli
di
bioaccumulo.
Per
esempio,
il
benzo(α)pirene (BaP) (Fig. 1.7.5) ha un Log Kow (coefficiente di ripartizione
ottanolo/acqua) del valore di 6,23, che suggerisce che dovrebbe bioaccumulare
nei pesci come alcuni PCB con un Log Kow simile (Metcalfe e Haffner, 1995). Il
fatto di essere metabolizzato dagli enzimi della Fase I fa sì che la quantità
realmente trovata nei pesci sia invece inferiore a quella attesa (Spacie et al.,
1983). In questo senso la misura dell’attività del citocromo P450 nei pesci è
particolarmente adatta per rilevare una possibile esposizione agli IPA, proprio
perché i composti parentali potrebbero essere non rilevabili in analisi condotte
sui tessuti (Whyte et al., 2000).
Le osservazioni sperimentali condotte sugli animali, hanno dimostrato che
alcuni IPA possono indurre l’insorgenza di effetti dannosi, tuttavia, il rischio più
evidente
è
la
documentata
cancerogenicità
di
alcuni
di
essi.
Tale
cancerogenicità è influenzata dalla presenza di altri composti emessi durante le
combustioni incomplete, a causa dell’instaurarsi di effetti sinergici o antagonisti
63
252
100
50
126
113
39
0
84
30 40 50 60 70 80
(wiley7) Benzo[a ]p yrene (CAS)
100
224
90 100 110 120 130 140 150 160 170 180 190 200 210 220 230 240 250 260 270
Fig 1.7.5 Formula di struttura e spettro di massa del benzo(α)pirene
64
1.7.3
Policlorodifenili (PCB)
I policlorodifenili (PCB), sono una classe di composti chimici aventi un numero
variabile di atomi di cloro (da 1 a 10) legati a due anelli fenilici uniti tra loro,
come mostrato in figura 1.7.6.
Il diverso numero di atomi di cloro (congeneri), o la differente posizione di uno
stesso numero di atomi (isomeri) da teoricamente origine a 209 composti.
Nell’anello fenilico, le sostituzioni con atomo di cloro possono avvenire in
posizione orto (2 - 2’, 5 - 5’), meta (3 - 3’, 1 - 1’) o para (4 - 4’, 6 - 6’).
3
2
2’
3’
4
4’
5
6
6’
5’
Fig. 1.7.6 Schema generale della struttura del nucleo difenilico
In generale i congeneri dei PCB maggiormente tossici sono quelli più clorurati,
se si escludono quelli con 8 o più atomi di cloro per molecola, dove la ridotta
mobilità all’interno degli organismi ne riduce fortemente la possibilità di
raggiungere i diversi bersagli biologici. Oltre al grado di clorazione, la tossicità
dipende anche dalla posizione degli atomi di cloro nella molecola del difenile: le
sostituzioni in posizione meta e para, in assenza di sostituzioni in orto, possono
rendere i composti ancora più tossici. Questi PCB non-orto sostituiti hanno
un’elevata probabilità di trovarsi nella condizione in cui i due anelli benzenici si
collochino, ruotando, sullo stesso piano e vengono pertanto detti coplanari.
I
PCB
coplanari
di
particolare
rilevanza
tossicologica
sono
tre:
il
tetraclorobifenile 3,3’, 4,4’, il pentaclorobifenile 3,3’, 4,4’, 5 e l’esaclorobifenile
3,3’, 4,4’, 5,5’ (nomenclatura IUPAC nell’ordine: PCB-77, PCB-126, PCB-169);
tali congeneri hanno un atomo di cloro in entrambe le posizioni para, ed
almeno uno in posizione meta e nessun atomo di cloro in posizione orto, e
65
risultano essere i più forti induttori del citocromo P450, avendo un’elevata
affinità per il recettore Ah (Whyte et al., 2000).
I PCB si ottengono dal riscaldamento del difenile in presenza di cloro e ferro, e
le prime sintesi risalgono al secondo dopoguerra. La “Monsanto Corporation”,
la maggior produttrice di PCB negli U.S.A dal 1930 al 1977, chiama le miscele
di PCB con il nome di Aroclor, identificate inoltre da un codice di 4 cifre, in cui i
primi due numeri indicano il tipo di miscela e gli ultimi la percentuale in peso di
cloro (De Voogt e Brinkman, 1989).
Le principali caratteristiche dei PCB sono l’inerzia chimica, poiché resistono
all’attacco sia di acidi che di basi, e la stabilità termica, evaporano infatti ad
una temperatura superiore agli 800 °C e si decompongono in HCl e CO2 oltre i
1000 °C. Non sono infiammabili né ossidabili, hanno una elevata costante
dielettrica, presentano una buona conducibilità al calore e non attaccano i
metalli. Grazie a queste peculiarità i PCB hanno avuto notevole impiego
industriale, soprattutto nella produzione di condensatori e trasformatori
elettrici, sia in sistemi chiusi controllabili che in sistemi aperti dissipativi.
La produzione di PCB è vietata negli Stati Uniti dal 1977, in Italia dal 1984 e il
loro utilizzo è regolamentato fino dagli anni ’70, ma le loro caratteristiche
chimiche li rendono talmente persistenti nell’ambiente che sono presenti
ancora oggi, dopo quasi vent’anni dalla sospensione del loro utilizzo.
Data la bassa degradabilità biologica e l’alta lipofilicità, i PCB tendono ad
accumularsi negli organismi attraverso la rete alimentare, incrementando la
concentrazione al crescere del livello trofico. Vengono assorbiti attraverso il
tratto gastrointestinale, l’apparato respiratorio, l’epidermide e successivamente
si distribuiscono in tutto l’organismo attraverso processi dinamici di scambio
tra i tessuti; in particolare si concentrano nei tessuti adiposi.
La tossicità dei PCB coplanari è dovuta alla possibilità di assumere una
configurazione
simile
a
quella
della
2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina
(2,3,7,8-TCDD), considerata il composto più tossico per gli organismi viventi.
Questo tipo di configurazione ha un elevata affinità per il recettore citosolico
Ah, e il legame che si verifica con composti di questo tipo può causare negli
organismi una serie di effetti tossici. Infatti, dopo il legame tra il composto e il
66
recettore Ah viene indotto il sistema delle monossigenasi a funzione mista, con
la produzione di mRNA per il CYP1A1 e di altri a risposta pleiotropica,
responsabili di svariate manifestazioni tossiche (Fossi, 1998).
1.7.4
pp’ DDT e composti omologhi
Il pp’-dicloro-difenil-tricloroetano (Fig. 1.7.7) è il più noto tra gli insetticidi
organoclorurati, caratterizzati da anelli aromatici ai quali vengono aggiunti un
numero variabile di atomi di cloro, sempre e comunque in numero superiore a
tre. E’ ottenuto attraverso la condensazione di due molecole di clorobenzene
con un aldeide tricloroacetica, catalizzata da acido solforico a temperature non
superiori a 20°C (Mosher et al. 1964). Dal processo si ottiene una miscela
composta per circa il 75% dall’isomero pp’ DDT, mentre la restante parte è
costituita da un secondo isomero (op’ DDT) e sottoprodotti dovuti a impurità
contenute nei reagenti o al successivo trattamento con composti alcalini.
235
100
Cl
Cl
Cl
Cl
73
Cl
165
50
43
36
50
88
82
147
99
93
111
176
199
193
0
212
123
221
30
50
70
90
110 130 150 170 190 210
(wiley7) Benzene, 1,1'-(2,2,2-trichloroethylid ene)b is[4-chloro- (CAS)
Fig. 1.7.7
230
246
250
268 281 297
270
290
319 332
310
330
354
350
370
Formula di struttura e spettro di massa del pp’ DDT
67
Attraverso reazioni dovute a biodegradazione primaria si ha la trasformazione
della molecola parentale in due diversi metaboliti: il DDE (dicloro-difenildicloroetilene) (Fig. 1.7.8) e il DDD (dicloro-difenil-dicloroetano) (Fig. 1.7.9),
che risultano più tossici e stabili rispetto al composto parentale.
235
100
Cl
Cl
Cl
Cl
50
165
199
36
0
75
51
30
50
(wiley7) p ,p '-DDD
88
101
69
70
Fig. 1.7.8
178
90
110
212
248
137 151
123
130
150
284
170
190
210
230
250
270
290
320
310
330
Formula di struttura e spettro di massa del pp’ DDD
68
246
100
50
318
Cl
Cl
Cl
Cl
176
105
123
75
50
87
210
140
281
79
0
50
70
90
110
130
150
170
190
210
(wiley7) Benzene, 1,1'-(d ic hloroethenylid ene)b is[4-c hloro- (CAS)
Fig. 1.7.9
230
250
270
290
310
330
Formula di struttura e spettro di massa del pp’ DDE
Durante i primi anni Sessanta, si ebbero le prime evidenze degli effetti nocivi
del DDT: Ratcliffe (1967-1970) riuscì a dimostrare un assottigliamento dei
gusci nelle uova di uccelli causato dall’esposizione a questo composto. La
mancanza di adeguate conoscenze frenò tuttavia la risposta delle istituzioni: il
DDT fu vietato in Canada solo nel 1970, seguito da USA e Germania nel 1972 e
dalla Svezia nel 1975; in Italia il DDT continuò ad essere utilizzato fino al
1978, quando, per usi agricoli, venne vietato; oggi può essere utilizzato ancora
in particolari applicazioni, come in floricultura e zootecnia (D.M. 11/10/1978),
e prodotto per essere esportato in Paesi dove viene tuttora impiegato. Un
esempio sono i Paesi in via di sviluppo, dove è ampiamente sfruttato per la
lotta contro la malaria e contro altri insetti parassiti.
Il DDT è da considerare ormai un contaminante globale, dato che la sua
presenza in aree remote è stata accertata fin dagli anni ’60 e numerosi studi
ne hanno evidenziato livelli elevati, soprattutto negli ecosistemi delle aree
polari (Bidleman et al., 1990; Calamari et al., 1991; Hinckley et al., 1991).
Questo fenomeno può essere spiegato considerando le caratteristiche chimico69
fisiche dei POP (Persistent Organic Pollutant), ai quali il DDT appartiene, e
alcune proprietà fisiche e biologiche degli ambienti polari (Wania e Mackay,
1993). L’elevata persistenza e idrofobicità sono responsabili della relativa
volatilità di questa sostanza, e fanno sì che evapori nelle regioni temperate e
tropicali per poi ricondensare negli ambienti più freddi. Inoltre l’elevato Kow è
causa dell’accumulo di DDT nei tessuti lipidici degli organismi; dal momento
che nelle regioni artiche e antartiche gli esseri viventi hanno un maggior
contenuto di grassi, si ha forte tendenza a fenomeni di bioconcentrazione nelle
reti trofiche.
Non sono molti gli studi che hanno provato ad investigare eventuali biomarker
da esposizione a DDT e congeneri. A causa del suo potenziale effetto
xenoestrogeno, la presenza di alcune proteine come le “zona radiata proteins”
e la vitellogenina negli individui maschili, potrebbe essere un indice di
esposizione a questi composti, almeno nei vertebrati (Arukwe et al., 1998). Un
recente studio svolto sul bivalve Macoma nasuta nella Baia di San Francisco
(USA) (Werner et al., 2004) ha dimostrato invece come la concentrazione di
DDT fosse correlata ad alterazioni istopatologiche, presenza di heat shock
proteins (hsp70) e stabilità delle membrane lisosomiali. E’ possibile che la
presenza di DDT possa indurre l’attivazione di una sottofamiglia degli enzimi
del CYP450, la 2B (Fossi, 1998): la presenza di questa sottofamiglia nei bivalvi
è tuttavia ancora da dimostrare.
70
2. MATERIALI E METODI
2. 1 Mantenimento e condizioni di stabulazione
Gli esemplari di Dreissena polymorpha utilizzati per i test di laboratorio sono
stati prelevati in differenti periodi dell’anno in diversi laghi subalpini italiani e
sono stati trasportati in laboratorio all’interno di borse termiche riempite con
acqua di lago, in modo da ridurre eventuali fattori di stress.
Una volta in laboratorio, i bivalvi sono stati trasferiti in vasche di stabulazione
da 50 l, riempite con acqua di rete, e mantenute alla temperatura di 20 °C, a
illuminazione naturale e a ossigenazione costante (95%) garantita dalla
presenza di aeratori. Queste condizioni sono state mantenute per circa un
mese, periodo in cui l’acqua delle vasche è stata cambiata settimanalmente e i
bivalvi sono stati nutriti regolarmente con una sospensione algale costituita da
Pseudokirchneriella subcapitata. Tale trattamento ha consentito agli organismi
di purificarsi dagli inquinanti presenti nell’acqua di lago in modo che le
successive esposizioni in laboratorio ai diversi xenobionti non siano falsate da
contaminazioni precedenti. L’assenza di contaminanti è stata confermata da
analisi gascromatografiche.
L’allestimento delle vasche per l’esposizione alle diverse sostanze inquinanti è
stato effettuato mediante il prelievo di un sufficiente numero di esemplari dalle
vasche di stabulazione, ai quali è stato reciso il bisso con un bisturi, in modo
da non danneggiare l’animale: questo procedimento è necessario per favorire
una veloce adesione al nuovo substrato. I molluschi così preparati sono stati
disposti su lastre di vetro rialzate, dal fondo, poste in vasche della portata di 8
o 12 l, anch’esse di vetro. Questi contenitori, riempiti con acqua di rete e
mantenuti a una temperatura di 20 °C, sono state posti su un agitatore
magnetico, esposti ad un fotoperiodo naturale (16 h di luce e 8 di buio)
mediante una lampada day-light munita di temporizzatore e sottoposti ad
aerazione costante (95% circa) tramite aeratore. L’agitatore magnetico aveva
come scopo quello di far ruotare un’ancoretta posta sul fondo della vasca,
producendo un movimento dell’acqua in modo da favorire la circolazione delle
sostanze disciolte in acqua, siano esse inquinanti, nutrienti o ossigeno. Gli
71
organismi sono stati posti su lastre di vetro rialzate perché il movimento
dell’acqua generato dalla rotazione dell’ancoretta non fosse troppo violento
(Fig. 2.1.1). Gli esemplari di D. polymorpha posti in queste vasche sono stati
nutriti quotidianamente con la sospensione algale di P. subcapitata.
La vasca è stata mantenuta in queste condizioni per 7 giorni, periodo nel quale
i molluschi hanno avuto il tempo di adattarsi e produrre un nuovo bisso con cui
aderire al substrato artificiale. Lo stato della vasca è stato controllato
quotidianamente e sono stati rimossi gli esemplari che non sono riusciti a
sviluppare un bisso (indice di stress), ed eventuali morti che avrebbero potuto
alterare la qualità dell’acqua della vasca. In questo modo l’esposizione è stata
effettuata con animali i cui parametri basali non sono stati alterati da stress
esterni.
Fig. 2.1.1: vasca di esposizione
72
2.2
Prove condotte in laboratorio
2.2.1
Influenza
della
temperatura
sulle
attività
enzimatiche
La temperatura è un parametro estremamente variabile sia nel tempo che
nello spazio, e potrebbe influenzare le risposte biochimiche degli animali.
Tale indagine è stata importante come supporto per lavori di monitoraggio
ambientale condotti parallelamente. L’influenza della temperatura è stata
valutata sia per l’AChE che per l’attività del CYP450.
Circa un centinaio di individui è stato prelevato dalle vasche di stabulazione e
trasferito in vasche della portata di 8 litri. La vasca è stata allestita nel modo
consueto, ed è stata posta in un frigotermostato in cui sono state raggiunte
temperature di da 8 a 30 °C in modo da coprire un ampio intervallo. Dopo una
settimana in cui gli animali sono stati mantenuti a 20 °C, in modo da
consentirne
l’adattamento,
la
temperatura
è
stata
fatta
variare
progressivamente di 1 °C al giorno fino al raggiungimento del valore
prestabilito, e tale valore è stato poi mantenuto per sette giorni al termine dei
quali è stato prelevato il campione da analizzare. L’acqua delle vasche è stata
sostituita ad intervalli regolari di 3 giorni con acqua alla stessa temperatura, in
modo da eliminare i rifiuti metabolici dei bivalvi. Si è scelto di modificare la
temperatura della vasca in modo molto graduale per evitare il rischio ottenere
valori falsati da un eventuale shock termico.
2.2.2 Esposizione agli inquinanti
Le prove di esposizione alle sostanze inquinanti sono state condotte dopo una
settimana in cui gli animali, dopo essere stati prelevati dalle vasche di
stabulazione, sono stati mantenuti in condizioni di luce, nutrizione, aerazione e
temperatura controllate, in modo da eliminare eventuali fattori di stress e per
permettere loro di adattarsi alla nuova vasca. Le misure delle attività del
73
CYP450 e di AChE misurate in tali condizioni controllate sono state assunte
come valori basali alla temperatura di 20 °C.
A partire da un tempo 0 in cui sono stati prelevati un prefissato numero di
individui e analizzati per ottenere i valori di controllo, ogni 24 h è stato
cambiato l’intero volume d’acqua presente nella vasca, ed è stata aggiunta una
quantità nota di inquinante in modo da ottenere la concentrazione desiderata.
Ciò ha permesso di evitare l’impiego delle attrezzature necessarie per allestire
esperimenti “in continuo” e contemporaneamente ha garantito un’esposizione
costante ad una certa concentrazione di contaminante. Sono state scelte
concentrazioni di inquinanti che potessero essere confrontate con situazioni
reali.
Gli esemplari di D. polymorpha (provenienti dalla vasca di esposizione e da
quella di controllo) sono stati prelevati dopo 24, 48, 72 e 96 h. Gli organismi
sono stati nutriti un’ora prima del cambio dell’acqua con una quantità di
sospensione algale nota (1 ml/l di acqua), per evitare eventuali interferenze
della componente algale che avrebbe potuto ridurre la frazione di inquinante
biodisponibile, e contemporaneamente per evitare stress dovuti a mancanza di
cibo.
Gli animali, una volta prelevati dalla vasca sono stati immediatamente posti a
una temperatura di –80 °C in attesa delle analisi, per evitare un’eventuale
degradazione proteica e per mantenere inalterati i parametri che un periodo di
stress da anossia potrebbe modificare.
Oltre all’analisi dei biomarker sono state condotte parallelamente anche analisi
gascromatografiche, a conferma dell’avvenuta assunzione delle sostanze
xenobiotiche da parte dei bivalvi.
74
2.2.3 Esposizione al 2-PAM
E’ stata valutata l’efficacia dell’utilizzo della molecola piridina 2-aldossi
metaclorato
(2-PAM)
come
detossificante,
per
contrastare
l’inibizione
dell’attività acetilcolinesterasica dovuta ad inquinanti (Hansen e Wilson, 1999).
Per condurre questo esperimento sono state allestite 2 vasche della portata di
12 litri con all’interno un numero di molluschi stabilito. In entrambe le vasche
sono state predisposte le condizioni di stabulazione precedentemente descritte.
In seguito, ad una vasca è stata aggiunta una soluzione di Chlorpyrifos Oxon
(CPO – un metabolita del Chlopyrifos, responsabile dell’inibizione dell’attività
AChE) ottenendo una concentrazione di 100 µg/l in acqua, mentre l’altra vasca
è stata mantenuta con le condizioni di stabulazione. Dopo 48 h di esposizione
sono stati prelevati da entrambe le vasche 4 gruppi di bivalvi che sono stati
posti in 4 diversi contenitori, uno con acqua di rete, gli altri tre contenenti una
soluzione con 2-PAM a 100 ng/l, a1 µg/l e a 10 µg/l. Queste condizioni sono
state mantenute 1 ora, tempo sufficiente perché il 2-PAM potesse essere
assorbito. Dopo un’ora i bivalvi sono stati prelevati e conservati ad
una
temperatura di -80 °C fino al momento dell’analisi.
I valori di AChE ottenuti dagli organismi di controllo sono stati confrontati con
quelli degli animali a cui è stato somministrato il CPO per valutare l’efficacia del
metodo di riattivazione enzimatica.
75
2.3 Misura dell’attività del citocromo P450
Al momento dell’analisi i bivalvi sono stati scongelati e divisi in 3 gruppi
composti da una decina di animali ciascuno, in modo da ottenere circa 1 g di
tessuto fresco. La misura dell’attività del citocromo P450 è stata effettuata
utilizzando l’MFO Substrate Set (Ikzus, Genova, Italia) che offre il vantaggio di
poter lavorare su organismi interi, non solo su estratti epatici: questa rapida e
semplice procedura ha permesso di ridurre sensibilmente i tempi di analisi. La
conservazione degli organismi a -80 °C e la preparazione del campione,
effettuata a 4 °C per evitare una possibile degradazione proteica, sono
operazioni molto importanti che, se non eseguite in modo corretto, possono
influenzare negativamente la misura dell’attività del CYP450. Ci sono risultati
contrastanti per quanto riguarda l’effetto della conservazione del campione a
-80 °C: da alcune ricerche emerge come i campioni possano essere conservati
a questa temperatura per più di 24 mesi senza mostrare alcuna perdita
significativa dell’attività enzimatica (Anulacion et al., 1997); altri hanno
evidenziato che l’attività del CYP450 nei campioni di fegato di trota diminuiva
del 15% dopo 3 giorni e addirittura del 25% dopo 17 giorni di conservazione
(Lindström-Seppä e Hänninen, 1988); inoltre uno studio condotto nel nostro
laboratorio recentemente ha mostrato una diminuzione dell’attività del CYP450
del 70% dopo 4 mesi di conservazione a -80 °C.
I tessuti molli dei bivalvi sono stati lavati con una soluzione 0,15 M di KCl a 4
°C per eliminare i residui ematici, asciugati dall’eccesso di liquido e pesati; ad
ogni grammo di tessuto è stata addizionata una miscela costituita da 0,960 ml
di buffer di estrazione (Tris Acetato, pH=7,6) e 40 µl di inibitore di proteasi. Gli
enzimi del gruppo delle MFO sono localizzati principalmente nella membrana
del reticolo endoplasmatico liscio: le procedure per effettuare il loro isolamento
consistono in un’operazione di omogeneizzazione dei tessuti seguita da due
cicli di centrifugazione. L’omogeneizzazione (durata circa 60 s), è stata
eseguita in ghiaccio con omogeneizzatore per tessuti a lame tipo Ultra Turrax;
il protocollo consigliava di omogeneizzare 1 g di tessuto con una volume
maggiore di buffer di estrazione (4 ml), ma poiché sono stati utilizzati
76
organismi interi e non epatopancreas, si è preferito concentrare il buffer di
estrazione a 1 ml, per evitare diluizioni eccessive che avrebbero portato a
sottostimare l’attività enzimatica. Mediante due cicli di centrifugazione della
durata di 20 e di 10 minuti a 9690 rpm a 4 °C, è stato ottenuto il surnatante
S9 sul quale sono state effettuate tutte le analisi in giornata, poiché è stata
osservata una diminuzione dell’attività del CYP450 non trascurabile già dopo 24
h (Kruner e Westernhagen, 1999).
La misura dell’attività di questo biomarker si basa sulla capacità del citocromo
P450
di
convertire
substrati
quali
etossiresorufina,
metossiresorufina
e
pentossiresorufina, attraverso una reazione di idrolisi, in un prodotto stabile e
fluorescente, la resorufina. La misura dell’attività catalitica di idrolisi di questi
substrati viene rispettivamente chiamata EROD (etossiresorufina-O-dietilasi),
MROD (metossiresorufina-O-dietilasi) e PROD (pentossiresorufina-O-dietilasi)
ed, è un indice della quantità del CYP450 presente nel campione analizzato.
L’attività del citocromo P450 è stata misurata utilizzando 50 µl di surnatante
S9, una miscela di reazione composta da 1,85 ml di buffer di reazione (TRIS
100 mM a pH 7,5, NaCl 10 mM), 100 µl di β-NADPH (attivato in una soluzione
NaOH 0,020 M) e una quantità nota di substrati quali etossiresorufina,
metossiresorufina e pentossiresorufina i quali vengono idrolizzati a resorufina
dal citocromo.
L’andamento della reazione è stato seguito mediante lettura fluorimetrica (λex
= 520, λem = 590), della durata di 40 minuti, monitorando i valori di Unità di
Fluorescenza (UFL) ad intervalli di 5 minuti; la misura della fluorescenza
corrisponde al totale di resorufina prodotta dalla reazione enzimatica, e quindi
all’attività del citocromo P450. Le lunghezze d’onda proposte dal protocollo
della Ikzus per i substrati utilizzati in questo lavoro (λex = 530 nm, λem = 585
nm) sono state modificate: sono state applicate quelle proposte nella ricerca
condotta da de La Fontaine et al. (2000) (λex = 520 nm, λem = 590 nm), più
adatte per il fluorimetro da noi utilizzato.
Il valore di UFL per pmole di resorufina (UFL/pmole) è stato determinato a
partire dalla curva standard di resorufina preparata precedentemente a partire
da concentrazioni note del composto (Fig. 2.3.1).
77
300
y = 1.37x + 0.75
R2 = 0.99
250
UFL
200
150
100
50
0
0
50
100
150
200
pmoli resorufina
Fig. 2.3.1 Retta standard resorufina
Il calcolo dell’attività EROD, MROD e PROD, normalizzata rispetto al contenuto
proteico presente nel campione è stato determinato con la seguente formula:
Attività CYP450 = (∆UFL/min) (UFL/pmole)-1 (mg proteine)-1
78
2.4 Misura dell’attività ChE
La metodica adottata per misurare l’attività AChE è quella di Ellman et al.
(1961), con alcune modifiche riguardanti la conservazione del surnatante S10,
per avere una degradazione proteica minore. La metodica originale consigliava,
infatti, di conservare il campione a -20 °C, ma è stato osservato che, dopo
24h,
si
aveva
una
degradazione
proteica
superiore
rispetto
ad
una
conservazione a 4 °C. Infine, considerato che, dopo 48h, anche quest’ultima
modalità determinava una degradazione proteica non trascurabile (15%), si è
ritenuto opportuno svolgere l’analisi in due giorni (Binelli et al., 2003a).
Il primo giorno i bivalvi sono state scongelati e suddivisi in 3 gruppi di almeno
10 animali ciascuno, al fine di ottenere almeno 2 grammi di tessuto. I tessuti
molli sono stati lavati più volte in una soluzione 0,15 M di KCl a 4 °C, asciugati
dall’eccesso di liquido e pesati. Ogni grammo di tessuto è stato omogeneizzato,
mediante un omogeneizzatore di tessuti Ultra-Turrax, con 2 ml di buffer di
estrazione (soluzione salina a pH 7,6, contenente Triton X-100 e Tris-HCl) e la
soluzione così ottenuta è stata centrifugata a 10000 rpm per 20 minuti a 4 °C.
Una volta separato dal pellet, il surnatante S10 è stato ulteriormente
centrifugato a 10000 rpm per 10 minuti, riseparato dal nuovo pellet formatosi
e conservato a 4 °C per una notte. La seconda centrifugazione è stata adottata
dopo aver notato che la lettura procedeva più linearmente.
Il secondo giorno è stata misurata l’attività enzimatica incubando 50 µl di S10
per 23 minuti a 23 °C con 920 µl di buffer di reazione contenente acido 5,5’ –
ditiobis-(2-nitrobenzoico) (DTNB), utilizzato per il dosaggio dei gruppi –SH
secondo il metodo di Sedlack e Lindsay (1968): il DNTB è ridotto dai gruppi –
SH
formando
acido
2-nitro-mercaptobenzoico
(TNB2-),
con
assorbanza
massima a 412 nm. Terminata l’incubazione, sono stati aggiunti 30 µl di
substrato (acetiltiocolina) ed è stata eseguita l’analisi spettrofotometrica,
monitorando l’assorbanza ogni minuto per 6 minuti, tempo necessario per
misurare l’attività enzimatica. Ogni gruppo è stato misurato in triplo.
79
Per ottenere una misura accurata dell’attività acetilcolinesterasica, è stata
valutata, volta per volta, l’autoidrolisi del substrato, tramite l’aggiunta di 920 µl
di buffer di reazione e 30 µl di substrato a 50 µl di buffer di estrazione.
Il calcolo dell’attività avviene tramite la seguente formula:
AChE (nmolmin-1/ mg proteine) = (True∆ODmin-1mg-1) / 0,0141OD nmol-1
True
∆OD=[(Afin-Ainiz / 5) – Asub]*ε mg proteine
dove 0,0141 è il coefficiente di estinzione del TNB2- a 412 nm, Afin, Ainiz e Asub
sono rispettivamente l’assorbanza finale, iniziale e del substrato; OD è la
densità ottica, ε è la concentrazione delle proteine e
densità
ottica
sottratto
dall’interferenza
True
∆OD è la differenza di
dell’autoidrolisi
del
substrato..
Quest’ultimo parametro viene utilizzato per normalizzare il risultato ottenuto,
al fine di evitare un errore dovuto alle diverse concentrazioni proteiche dei
diversi campioni.
2.5 Dosaggio delle proteine
La determinazione delle proteine è stata eseguita con il metodo del Blue di
Comassie (Bradford, 1976), utilizzando come standard albumina serica bovina
(BSA). Il Blue di Comassie (CBBG) è un colorante che passa da una forma
cationica della soluzione madre (assorbanza massima a 470 nm) ad una forma
anionica (assorbanza massima a 595 nm) una volta legato a specifici residui
aminoacidici. La diretta proporzionalità che lega concentrazione del CBBG in
forma anionica alla concentrazione proteica permette una valutazione semplice
e rapida della quantità di proteine, rilevabili tramite un aumento di assorbanza
a 595 nm. Per ottenere un corretto dosaggio proteico, la BSA deve avere la
stessa composizione chimica del campione, e per questo motivo gli standard
80
vengono addizionati di una quantità di tampone pari al volume di campione
utilizzato per la valutazione della concentrazione delle proteine.
Il bianco è stato preparato addizionando a 2,4 ml di soluzione di Comassie
(1:10) 90 µl di acqua bidistillata e 5 µl di buffer di estrazione. Gli standard
invece contenevano 2,4 ml di soluzione di Comassie 1:10, 5 µl di buffer
d’estrazione, acqua bidistillata fino ad un volume di 100 µl e BSA 1mg/ml a
diversi volumi (10 – 20 – 30 – 40 – 50 – 60 – 70 – 80 – 90 µl). Sono stati letti
i valori standard contro bianco a 595 nm, lunghezza d’onda alla quale il Blu di
Comassie presenta il massimo di assorbanza poiché lega le proteine in modo
proporzionale alla loro concentrazione, liberando in ambiente acido una tipica
colorazione blu. Con i valori ottenuti è stata costruita una retta di taratura
standard (Fig. 2.5.1) che in ordinata presenta i valori di assorbanza a 595 nm
ABS 595 nm
e in ascissa i valori di concentrazione delle proteine standard.
1
0.9
0.8
0.7
0.6
0.5
0.4
0.3
0.2
0.1
0
y = 0,01x + 0,16
R2 = 0,99
0
10
20
30
40
50
60
70
Concentrazione proteine
Fig. 2.5.1 Retta di taratura standard delle proteine.
Il saggio proteico dei campioni è stato eseguito in doppio: a 2,4 ml di soluzione
di Comassie sono stati addizionati 90 µl di acqua bidistillata e 5 µl del
campione stesso, la lettura dell’assorbanza è avvenuta contro il bianco a 595
nm. Utilizzando il valore medio ottenuto e la retta di taratura è stata ottenuta
la concentrazione delle proteine nei 5 µl di S9 utilizzati.
81
2.6 Analisi gascromatografica
La determinazione quantitativa delle sostanze bioaccumulate da D. polymorpha
nel periodo di esposizione è stata ottenuta mediante analisi gascromatografica.
Il gascromatografo è uno strumento utilizzato per valutare la presenza e
l’eventuale concentrazione di alcuni inquinanti organici in base ai diversi tempi
di ritenzione. I tempi di ritenzione dipendono dalle caratteristiche chimicofisiche delle molecole di studio. Il processo cromatografico ha come scopo la
separazione ordinata delle diverse sostanze contenute in una miscela,
sfruttando le proprietà che ogni composto ha di distribuirsi fra due fasi
immiscibili.
Indipendentemente dal tipo di tecnica utilizzata, gli elementi coinvolti in tale
processo di separazione sono costituiti da:
•
miscela dei composti da analizzare;
•
fase mobile (gas di trasporto) che attraversa unidirezionalmente la
colonna
di
separazione
e
rappresenta
la
forza
motrice
che
consente
l’avanzamento delle sostanze;
•
fase stazionaria fissa che contrasta il movimento dei soluti e rende
possibile la loro separazione interagendo in maniera diversa
con i vari
composti.
Le tecniche analitiche utilizzate per l’estrazione dei diversi composti utilizzati
sono ampiamente descritte in letteratura (Lazar et al., 1992; Galassi et al.,
1997; Provini et al., 1997; Binelli et al., 2004 a,b).
82
2.7
Area di monitoraggio
I due biomarker sviluppati sono stati utilizzati per una campagna di
monitoraggio svolta nel mese di maggio 2003, che ha interessato tutti i grandi
laghi subalpini (Garda, Maggiore, Como, Iseo, Lugano) (Fig. 2.7.1). La scelta
dei siti di campionamento è stata pianificata per rappresentare le varie realtà
ambientali dei corpi idrici: infatti questi laghi possono essere suddivisi in zone
con caratteristiche diverse, sia dal punto di vista morfometrico che da quello
del grado di antropizzazione (Tab 2.7.1).
Tab. 2.7.1 Tabella con le principali caratteristiche morfometriche e idrologiche dei laghi
subalpini.
PARAMETRI
GARDA MAGGIORE
COMO
ISEO
LUGANO
ALTITUDINE (m
s.l.m.)
65
193,85
198
186
271
AREA (Km2)
367,94
212,51
145,9
61,8
48,9
VOLUME (Km3)
49
37,5
22,5
7,6
6,5
PROF. MAX. (m)
350
370
410
251
288
PROF. MEDIA (m)
133,3
177,5
154
123
134
AREA BACINO
IMBRIFERO (Km2)
2260
6599
4509
1736
565,6
TEMPO TEORICO
DI RICAMBIO
(anni)
26,8
4
4,5
4,1
15
POPOLAZIONE
RESIDENTE NEL
BACINO (unità)
170000
677000
483000 180000
147000
83
Fig.2.7.1: I grandi laghi subalpini e i punti di campionamento (in rosso)
84
2.7.1
Lago di Garda
Il Lago di Garda (Benaco) si allunga in direzione NE-SW per 51,5 Km e
raggiunge una larghezza massima di 17,5 Km nella parte meridionale dove si
aprono i due golfi di Desenzano e di Peschiera.
La morfologia del fondo è caratterizzata da una dorsale subacquea che collega
la penisola di Sirmione con la punta di San Vigilio, dando luogo a due bacini,
dei quali quello orientale è il meno vasto e profondo.
Il Garda, fra tutti i laghi subalpini, è quello che ha il più elevato tempo teorico
di ricambio, e ciò lo pone in condizioni di particolare sensibilità e vulnerabilità
agli inquinanti di origine antropica. Ad una popolazione residente complessiva
di sole 175˙000 unità si aggiunge un notevole flusso di turisti durante l’anno:
la maggior parte del carico inquinante che interessa il Lago di Garda ha quindi
origine civile, ed è per questo motivo che il bacino è stato dotato di un
collettore circumlacuale con un unico impianto di depurazione a Peschiera.
I siti di campionamento scelti per il Lago di Garda sono stati Limone,
Desenzano e Peschiera: il primo rappresenta la situazione del tratto vallivo
poco abitato del Benaco, caratterizzata da un’agricoltura a base di olive e
limoni, mentre Peschiera e Desenzano sono rappresentativi di quella dell’area
pedemontana
del
bacino
lacustre,
caratterizzato
da
una
maggiore
antropizzazione e industrializzazione (sono presenti industrie meccaniche,
navali, alimentari, tessili e della ceramica). Inoltre, mentre Peschiera è situata
in prossimità dell’emissario, Desenzano si trova in una baia chiusa dove il
ricambio delle acque è più lento rispetto a quello che si verifica nelle altre
località.
2.7.2
Lago Maggiore
Occupa un solco tettonico sovraescavato dall’erosione da parte dei ghiacciai
discendenti lungo le valli del Ticino e del Toce avvenuta nel Quaternario. Si
allunga per 65 Km in direzione NE-SW e presenta il massimo sviluppo in
territorio italiano dove funge da confine tra la provincia di Novara (Piemonte) e
85
Varese (Lombardia). Solo l’estremo settore settentrionale (42 Km2) appartiene
alla Svizzera (Cantone Ticino).
Il bacino imbrifero è molto esteso, comprendendo le valli dei Fiumi Ticino e
Toce (principali immissari) oltre alla valle del Torrente Maggia; riceve anche le
acque del Lago di Lugano tramite il Fiume Tresa, del Lago d’Orta tramite il
Fiume Strona, del Lago di Varese tramite il Fiume Bardello e del Lago di
Mergozzo. Unico emissario è il Fiume Ticino, che esce dal lago presso Sesto
Calende.
Il Lago Maggiore e il suo bacino drenante, per le loro stesse dimensioni,
costituiscono un sistema di difficile gestione. Il suo bacino imbrifero, infatti,
occupa un territorio di 6600 Km2, suddiviso tra Piemonte (35%), Lombardia
(14%) e la Svizzera (51%), e contiene importanti centri urbani (come Lugano,
Varese, Verbania, Domodossola ed Arona), nonché aree industriali che
comprendono aziende chimiche, tessili e elettrogalvaniche, attività a forte
rischio ambientale che possono essere potenziali sorgenti inquinanti per le
acque del lago.
Il Lago Maggiore è interessato dal 1996 da un forte inquinamento da DDT,
originato da un insediamento industriale posto a Pieve Vergonte, che tramite il
Rio Marmazza ha scaricato nel fiume Toce notevoli quantità di tale composto e
di suoi metaboliti, che hanno contaminato l’intera Baia di Pallanza e, seppur in
quantità inferiore, anche tutto il resto del Lago. Per questo motivo, la
Commissione Italo-Svizzera per la protezione delle acque (CIPAIS) (CIPAIS,
2003) ha progettato un monitoraggio su larga scala per valutare gli effetti di
questa contaminazione sull’ecosistema lacustre
All’interno di questo programma di biomonitoraggio, sono stati campionati 14
punti lungo tutto il perimetro (Brissago e Magadino in Svizzera, Cannobio,
Giona e Luino nella zona settentrionale italiana; Intra, Caldè, Pallanza,
Laveno, Baveno e Stresa nel bacino centrale; Brebbia, Ranco e Arona
nella zona meridionale), e l’approccio dei biomarker ha permesso di monitorare
la presenza di altri composti, come gli organofosforati e alcune classi di
composti planari, non compresi nel programma organizzato dal CIPAIS.
86
Una recente analisi che aveva lo scopo di rilevare la presenza di metalli nei
grandi
laghi
subalpini
utilizzando
come
bioaccumulatore
il
bivalve
D.
polymorpha, ha messo in luce come il Lago Maggiore presentasse anche le
concentrazioni più elevate per quasi tutti i metalli presi in considerazione
rispetto agli altri laghi (Camusso et al., 2001). Inoltre, i valori misurati sono di
gran lunga più elevati rispetto a quelli riscontrati in altri laghi europei e nei
grandi laghi del nord America (Tab. 2.7.2).
Tab. 2.7.2 Confronto tra le concentrazioni dei metalli misurate nei tessuti di D. polymorpha nel
Lago Maggiore, nel Lago Oneida (USA) e nel Lago Leman (CH). (µg g-1 di peso
secco). Da Camusso et al., 2001, modificato.
Cd
Lago Maggiore
Hg
Cr
Cu
Ni
3,42-3,61 5,24-6,51 0,15-0,16 4,31-5,27 24,3-25,7 17,6-18,4
Oneida Lake
(USA)
Lake Leman (CH)
2.7.3
Pb
0,68
1,03
0,8-4,5
0,5-1,2
0,05
1,55
4,6
1-4
22-50
4,2
Zn
317-372
99,4
120-140
Lago di Como
Occupa un’antica valle plasmata dal ghiacciaio abduano, che è chiusa a sud da
ondulazioni moreniche e ha una caratteristica forma a Y rovesciata, originatasi
per la divergenza verso sud-ovest e sud-est della lingua glaciale, ostacolata nel
suo cammino verso sud dal monte San Primo (1685 m). Esso risulta così
composto da tre rami: il ramo di Colico (a nord, alto lago), il ramo di Como
(bacino occidentale, che risulta un sistema particolarmente chiuso a causa
dell’assenza di un emissario) e il ramo di Lecco (bacino orientale). I tre bacini
risultano caratterizzati da tempi di residenza delle acque molto diversi:
-
Bacino Settentrionale : 5,6-8,7 anni
-
Bacino Occidentale : 8,3- 30 anni
87
-
Bacino Orientale : 3,6-6,4 anni
Riceve le acque di una quarantina di immissari tra cui il più importante è il
fiume Adda che porta le acque della Valtellina e che è anche l’emissario nel
ramo di Lecco.
Il bacino occidentale, entro il quale è situata la città di Como, è l’area più
popolata e industrializzata dell’intero lago: la popolazione civile è il 48,8% del
totale, mentre la popolazione industriale corrisponde al 77,5% (Chiaudani e
Premazzi, 1993). Inoltre secondo un’analisi riguardante la concentrazione di
PCB nei sedimenti dei laghi subalpini, i valori riscontrati nel bacino occidentale
del Lago di Como sono risultati i più alti in assoluto (Provini et al., 1995). Nel
bacino orientale e nell’alto lago risiedono rispettivamente solo il 14% e l’8,5%
della popolazione industriale totale. Nell’alto lago, a fronte di una popolazione
residente di poco superiore al 19% di quella totale, è presente un notevole
flusso turistico pari a più del 50% delle presenze turistiche totali che
interessano l’intero lago e ciò fa sì che nei periodi di punta in questo bacino la
popolazione civile risulti più che triplicata rispetto a quella residente. Il bacino
orientale e occidentale risultano invece decisamente meno interessati dal
fenomeno del turismo.
Alla base di queste considerazioni sono state scelte come stazioni di
campionamento Domaso
nel bacino settentrionale, Argegno nel bacino
occidentale e Lecco nel bacino orientale.
2.7.4
Lago d’Iseo
Occupa il fondo di una valle prealpina che rappresenta la continuazione della
Valle Camonica, ed è sbarrato a sud dalle morene deposte dal ghiacciaio
quaternario
del
fiume
Oglio
durante
le
sue
fasi
di
ritiro.
Appartiene
idrogeograficamente al bacino del fiume Oglio, che è il suo principale
immissario ed emissario.
Sono state scelte 2 stazioni, Costa Volpino a nord e Predore a sud, situate in
aree che si differenziano per il diverso grado di sviluppo industriale (maggiore
a sud con industrie siderurgiche, nautiche e cementifici) e per il fatto di essere
88
localizzate in prossimità dell’immissario (Costa Volpino) e dell’emissario
(Predore). Il Lago d’Iseo è situato in una zona geografica con un’elevata
densità di popolazione e ricca di industrie metallurgiche la maggior parte delle
quali sono situate in Valle Camonica, a nord del bacino lacustre. Costa Volpino
si trova vicino all’immissario (il Fiume Oglio) che, prima di entrare nel lago,
attraversa la Valle Camonica e porta elevate quantità di sostanza organica
(Premazzi et al., 1998) e probabilmente è anche responsabile delle elevate
concentrazioni di metalli rilevate in questa zona (Camusso et al., 2001).
2.7.5
Lago di Lugano
Il lago giace in una valle originata dall’erosione fluviale nel periodo Terziario,
plasmata successivamente dai ghiacci dei fiumi Adda e Ticino durante l’ultimo
periodo glaciale.
Il Lago di Lugano e il suo bacino giacciono solo parzialmente in territorio
italiano: 31 Km2
della superficie del lago (pari al 63%) sono in Italia, così
come 365 Km2 del bacino imbrifero. Ha una forma articolata e presenta 2
bacini principali, con caratteristiche morfologiche e idrologiche diverse (Tab.
5.7.3), che determinano diverse qualità delle acque.
Tab. 2.7.3 Caratteristiche morfometriche e idrologiche dei bacini del Lago di Lugano.
Caratteristiche
Morfometriche idrologiche
INTERO
BACINO
BACINO
NORD
BACINO
SUD
565,6
269,7
295,9
48,9
27,5
21,4
Volume (Km3)
6,5
4,7
1,8
Prof. media (m)
134
171
85
Prof. Max (m)
288
288
89
Tempo di ricambio (anni)
8,2
11,9
2,3
Area bacino imbrifero (Km2)
Area superficie (Km2)
89
Come siti di campionamento, per il bacino settentrionale sono state scelte
Porlezza (che rappresenta la zona nord-orientale a valenza per lo più
turistica) e Pojana, che risente dell’influenza della città di Lugano, altamente
antropizzata e industrializzata (industrie alimentari, tessili e del tabacco). Per il
sottobacino meridionale è stata scelta Brusimpiano, che si trova in prossimità
dell’unico emissario, il fiume Tresa.
Secondo uno studio condotto utilizzando D. polymorpha per rilevare la
contaminazione da metalli nei grandi laghi subalpini (Camusso et al., 2001), le
concentrazioni dei metalli rilevata nei molluschi campionati a Pojana e a
Brusimpiano sono risultate molto più alte rispetto a quelle riscontrate a
Porlezza che è la zona meno popolata e meno industrializzata del lago.
90
3
RISULTATI E DISCUSSIONE
Il disegno sperimentale ha previsto 3 diverse fasi. Inizialmente sono state
messe a punto le metodiche di analisi per la misura dell’attività AChE e per
quella del CYP450, in quanto in letteratura erano presenti pochissimi dati sul
loro utilizzo in D. polymorpha. E’ quindi stato necessario trovare i substrati
ottimali e le concentrazioni più adatte. Una seconda fase è stata dedicata
all’analisi dell’influenza di alcuni parametri biotici ed abiotici (in particolare la
temperatura) sulle diverse attività enzimatiche. Sono stati quindi eseguiti
diversi test di esposizione di D. polymorpha a contaminanti di diverso tipo, per
verificare l’influenza di questi inquinanti sulle attività enzimatiche misurate.
Sulla base dei risultati ottenuti nei test in laboratorio, è stata infine effettuata
una vasta campagna di monitoraggio che ha interessato tutti i principali laghi
subalpini italiani.
3.1 Sviluppo delle metodiche di analisi
3.1.1
Misura dell’attività AChE
Per comprendere quale substrato per la misura dell’attività colinesterasica
fosse ottimale in D. polymorpha, sono stati utilizzati dei molluschi prelevati nel
Lago Maggiore e mantenuti in condizioni di stabulazione per 45 giorni, in modo
da eliminare gli eventuali contaminanti presenti nei tessuti. Sono stati testati
tre
diversi
substrati:
acetiltiocolina
(ATC),
butirriltiocolina
(BTC)
e
propioniltiocolina (PTC), utilizzati a diverse concentrazioni (da 0,5 a 10 mM).
La figura 3.1.1 dimostra come il substrato acetilico (ATC) sia quello che
possiede la maggiore affinità per l’enzima presente in D. polymorpha, mentre
sia BTC che PTC sembrano non essere in grado di legarsi all’enzima stesso
(Fig. 3.1.1).
91
attività enzimatica
6
5
4
ATC
3
2
1
BTC
0
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
mM di substrato
Fig. 3.1.1: andamento dell’attività ChE in D. polymorpha utilizzando due diversi substrati:
acetiltiocolina (ATC) e butirriltiocolina (BTC). Il terzo substrato (propioniltiocolina) non ha
mostrato nessuna affinità con l’enzima.
La curva concentrazione/attività ricavata ha un massimo dell’attività in
corrispondenza di una concentrazione di 5 mM. A concentrazioni superiori, è
stato misurato un calo dell’attività AChE: questa diminuzione è stata attribuita
ad un’inibizione da substrato, come riportato in molti casi in letteratura (Mora
et al., 1999b; de la Torre et al., 2002; Yerushalmi e Cohen, 2002). Sembra
infatti che questo enzima possieda un secondo sito catalitico meno affine al
substrato acetilico, ma che se occupato può diminuire l’efficienza catalitica
dell’enzima stesso.
L’acetiltiocolina in D. polymorpha è risultata quindi il substrato ottimale, come
nel caso di altri bivalvi come il mitilo (Mytilus galloprovincialis e M. edulis)
(Mora et al., 1999a; Talesa et al., 2001), l’ostrica (Crassostrea gigas Bocquenè et al., 1997 e Ostrea edulis - Valbonesi et al., 2003) e Elliptio
complanata (Varela e Augspurger, 1996). La propioniltiocolina è risultata
invece il substrato migliore nel caso del bivalve d’acqua dolce Curbicula
fluminea (Mora et al., 1999b).
92
3.1.2
Misura dell’attività del CYP450
L’attività del citocromo P450 è stata misurata utilizzando tre diversi tipi di
substrati: etossirosorufina (attività EROD), metossiresorufina (attività MROD)
pentossiresorufina (attività PROD).
Cinque diversi pool di esemplari, di
lunghezza media simile, sono stati analizzati contemporaneamente utilizzando i
tre diversi substrati, e i risultati sono mostrati in figura 3.1.2.
2
pmol/min mg prot.
1.8
1.6
1.4
1.2
1
0.8
0.6
0.4
0.2
0
A
B
EROD
C
D
MROD
PROD
E
Fig. 3.1.2: attività EROD, MROD e PROD misurata in 5 pool di esemplari di D. polymorpha
Il substrato dimostratosi più affine al CYP450 presente in D. polymorpha è
quindi l’etossiresorufina (EROD). Tuttavia, poiché è possibile che i diversi
substrati siano affini a diverse sottofamiglie del CYP450, è stato deciso di
utilizzarli
tutti
durante
le
analisi
effettuate.
Tuttavia,
durante
indagini
preliminari effettuate in laboratorio, è stato osservato che l’attività PROD non
subiva alcuna variazione quando il mollusco è stato esposto a diverse classi di
contaminanti: di conseguenza, e stato scelto di utilizzare soltanto i due
substrato EROD e MROD sia per le prove di esposizione in laboratorio che per
la campagna di monitoraggio in campo.
93
In letteratura, su D. polymorpha viene riportato solamente l’utilizzo dell’attività
EROD (De Lafontaine et al., 2000), sebbene non vengano segnalate prove con
altri tipi di substrato.
3.1.3
Effetto del tempo di conservazione dei campioni
I campioni d analizzare sono sempre stati conservato ad una temperatura di
-80 °C, valore ritenuto sufficiente per evitare una degradazione proteica che
avrebbe potuto alterare le misurazioni dell’attività enzimatica.
In letteratura sono riportati dati contrastanti a proposito del tempo massimo di
conservazione del campione a –80 °C: alcuni studi evidenziano come campioni
conservati fino a 24 mesi a –80 °C non mostrino variazioni delle attività
enzimatiche del CYP450 (Anulacion et al., 1997), mentre altri indicano come si
abbia una diminuzione del 25% nell’attività del CYP450 già dopo 17 giorni
(Lindström-Seppä e Hänninen, 1998).
Visto che il protocollo di analisi da noi utilizzato suggeriva un tempo massimo
di conservazione di 4 mesi, sono stati analizzati i contenuti proteici di due
campioni di D. polymorpha, prelevati in due diversi siti, subito dopo il prelievo
e dopo 4 mesi di conservazione a –80 °C. I risultati sono mostrati nella tabella
3.1.1.
Tab. 3.1.1: variazioni nel contenuto proteico per due campioni di D. polymorpha prelevati in
due siti del Lago di Lugano e mantenuti a –80 °C per 4 mesi
Contenuto proteico (mg / ml)
Campione 1
(Pojana)
Campione 2
(Brusimpiano)
Decremento
T=0
T=4 mesi
(%)
20,6
10,0
51,4
26,5
17,1
35,5
94
I risultati hanno evidenziato come dopo 4 mesi di conservazione i campioni
abbiano subito un considerevole decremento della concentrazione proteica.
Contemporanee misure dell’attività EROD eseguite sugli stessi campioni hanno
mostrato una diminuzione del 46 e del 70% rispettivamente, indicando quindi
come sia necessario effettuare le analisi entro breve periodo dopo la raccolta
degli esemplari, al fine di non sottostimare l’attività enzimatica presente negli
organismi.
3.2 Effetto
della
temperatura
sulle
attività
enzimatiche
3.2.1
Influenza sull’attività del CYP 450
Di seguito sono mostrati i parametri morfologici e i valori dell’attività del
citocromo P450 ottenuti in seguito all’esposizione di gruppi di molluschi
mantenuti a diverse temperature (8 °C, 15 °C, 20 °C e 25 °C), come
precedentemente descritto. L’attività EROD e l’attività MROD mostrano un
valore minimo a 8 °C, rispettivamente 1,06 ±0,15 pmoli/min*mg prot. e 0,87
±0,02 pmoli/min*mg prot, mentre l’attività massima risulta essere quella del
campione mantenuto a 15 °C per l’EROD e quello a 25 °C per la MROD (Tabella
3.2.1).
Nonostante non sia stato possibile reperire riferimenti bibliografici su studi
condotti su molluschi, diversi lavori effettuati sui pesci hanno dimostrato come
la temperatura dell’acqua possa influenzare notevolmente l’induzione del
CYP450. Infatti, l’accumulo e il rilascio dei contaminanti, anche quelli
direttamente coinvolti nell’induzione dell’enzima come PCB e IPA, sono
fenomeni strettamente collegati alla temperatura ambientale (Jimenez et al.,
1987). In generale questi studi dimostrano come nei pesci esista una
correlazione negativa tra l’attività EROD e la temperatura (Sleiderink et al.,
95
1995; Sleiderink e Boom, 1996), anche se altri autori hanno al contrario
dimostrato
un’elevata
induzione
dell’attività
enzimatica
in
seguito
ad
esposizione ad elevate temperature (Jimenez e Burtis, 1989; Haasch et al.,
1993). In alcuni studi, sempre su diverse specie ittiche, è stata evidenziata una
correlazione tra la temperatura dell’acqua, nell’intervallo 7,7 - 19,4 °C e la
concentrazione di PCB. Entrambi mostrano un effetto inducente sull’attività
EROD, ma il contributo della temperatura sembra essere maggiore rispetto a
quello dovuto alla presenza di PCB (Whyte et al., 2000).
I dati relativi alle nostre analisi condotte su D. polymorpha non mostrano
differenze statisticamente significative nell’intervallo di temperatura tra i 15 e i
25 °C per entrambi i substrati, EROD e MROD, mentre a temperature inferiori
(8 °C), l’attività è risultata statisticamente minore (ANOVA, Tukey HSD test,
p<0,05) a causa probabilmente di un rallentamento metabolico conseguente
alle basse temperature (Tab. 3.2.1). Poiché nei nostri corpi idrici temperature
così basse si raggiungono solo nei mesi tardo-invernali, una campagna di
monitoraggio eseguita durante i mesi primaverili non dovrebbe risentire degli
effetti della temperatura sull’attività enzimatica. Ulteriori studi saranno,
comunque, necessari per definire l’intervallo di temperatura ottimale per il
prelievo degli organismi da utilizzare per le analisi, e per chiarire come la
temperatura
influenzi
l’accumulo
di
inquinanti,
e
quindi
la
variazione
dell’attività enzimatica.
96
Tabella 3.2.1 Lunghezza media (cm), contenuto proteico (mg/ml) e attività EROD e MROD
espresse in pmoli/min/mg di proteine degli esemplari di D. polymorpha
mantenuti a diverse temperature (8 °C, 15 °C, 20 °C e 25 °C).
TEMPERATURA
(°C)
Lunghezza Contenuto
Media
proteico
Attività EROD
Attività MROD
(pmoli/min/mg prot.) (pmoli/min/mg prot.)
(cm) ± D.S
(mg/ml)
8
2,1 (±0,3)
18,7 (±1,5)
1,06 (± 0,15)
0,87 (± 0,02)
15
2,1 (±0,2)
20,5 (±3,2)
1,62 (± 0,24)
1,12 (± 0,05)
20
2,1 (±0,1)
8,8 (±0,8)
1,43 (± 0,33)
1,08 (± 0,31)
25
2,0 (±0,3)
8,5
1,45 (± 0,28)
1,36 (± 0,06)
3.2.2
Influenza sull’attività AChE
Nella tabella 3.2.2 sono riportati i parametri morfometrici, il contenuto proteico
e l’attività acetilcolinesterasica di gruppi di esemplari di D. polymorpha posti a
diverse temperature. Inizialmente è stato fatto uno screening su un’ampia
scala di temperature, considerando 4 intervalli, gli stessi scelti per l’analisi
dell’attività EROD (8 °C, 15 °C, 20 °C e 25 °C). In seguito, poiché i risultati
ottenuti con l’esperimento iniziale mostravano una certa influenza di questo
parametro sull’attività acetilcolinesterasica, è stato deciso di coprire un
intervallo di temperatura maggiore (fino ai 30 °C). Il valore più elevato è stato
misurato nel campione mantenuto a 20 °C (3,04 ± 0,45 nmoli/min*mg prot.),
gli esemplari mantenuti a temperature più basse e molto più alte presentano,
invece, un’evidente inibizione dell’attività: a 30 °C l’inibizione è del 72%,
mentre a 8 °C corrisponde al 43%.
97
Tabella 3.2.2 Lunghezza media (cm) e contenuto proteico (mg/ml) dei bivalvi mantenuti alle
diverse temperature.
TEMPERATURA
Lunghezza
Media
Contenuto
proteico
(cm) ± D.S
(mg/ml)
(°C)
N° gruppi
analizzati
7
6
1,9 (± 0,3)
8,33 (± 1,9)
8
3
2,0 (± 0,3)
11,6 (± 0,4)
10
3
1,8 (± 0,2)
4,53 (± 1,2)
11
3
2,1 (± 0,4)
8,53 (± 0,1)
15
5
2,1 (± 0,3)
4,67 (± 1,0)
17
3
1,9 (± 0,2)
5,4 (± 0,5)
18
5
2,0 (± 0,3)
9,6 (± 0,4)
20
14
1,9 (± 0,2)
7,7 (± 1,4)
22
2
1,8 (±0,1)
4,8
25
6
2,1 (±0,3)
6,13 (±1,0)
28
2
1,8 (±0,2)
3,87
30
3
1,9 (±0,2)
7,93 (±1,0)
98
AChE (nmol/min mg prot.)
4
3.5
3
2.5
2
1.5
1
0.5
0
5
10
15
20
25
30
35
Temperatura (°C)
Fig. 3.2.1 Andamento dell’attività AChE in D. polymorpha in relazione alla temperatura.
I dati ottenuti dall’esposizione dei bivalvi a diverse temperature (Fig. 3.2.1)
mostrano una stretta correlazione tra l’attività AChE e questo parametro
abiotico (ρ di Spearman = 0,73; p<0,01), almeno fino a circa 20 °C. Al di
sopra di questo valore, probabilmente per l’insorgenza di stress termici dovuti
al raggiungimento dei limiti dell’intervallo di tolleranza per D. polymorpha
(Noordhuis
et
al.,
1992),
i
valori
di
attività
AChE
sono
risultati
significativamente inferiori (ANOVA, Tukey HSD test, p<0,05).
L’andamento del grafico mostra la presenza di un intervallo ottimale di
temperatura, tra i 18 e 20 °C, prima e dopo il quale è evidente un’inibizione
dei valori di attività. A livello molecolare, le variazioni di temperatura possono
influenzare direttamente gli enzimi, modificandone la cinetica fino a giungere,
nel
caso
di
considerato),
temperature
elevate
all’inattivazione
per
(che
variano
a
denaturazione.
seconda
Il
dell’enzima
rapporto
attività
AChE/temperatura da 7 °C a 20 °C ci ha permesso di ottenere una relazione
matematica con la quale calcolare il valore massimo di attività AChE per una
certa temperatura: in questo modo è possibile confrontare il dato misurato in
campo
con
quello,
teorico,
dell’attività
massima
corrispondente
alla
temperatura di prelievo.
99
La relazione trovata, valida per temperature comprese tra 7 e 20 °C è la
seguente:
AChEt = 0,98 + 0.10 * TEMP
(dove AChEt è l’attività massima ottenibile alla temperatura TEMP, in °C).
Anche in questo caso sono disponibili pochi e controversi dati relativi
all’influenza della temperatura sull’attività enzimatica: alcuni studi eseguiti sui
pesci
identificano
in
questo
parametro
il
principale
responsabile
delle
fluttuazioni stagionali dell’attività dell’enzima (Boquenè e Galgani, 1991; Kirby
et al., 2000). Altri condotti da Mora et al. (1999b) sul mitilo Mytilus
galloprovincialis e la vongola asiatica Corbicula fluminea hanno mostrato come
l’attività AChE raggiunga i valori massimi nell’intervallo tra i 38 °C e i 45 °C,
mentre ricerche effettuate sul polichete Nereis diversicolor (Scamps e Borot,
1999) e sulle larve di Crassostrea gigas (Damiens et al., 2003) non
evidenziano
alcun
effetto
determinato
dalla
temperatura
sull’attività
acetilcolinesterasica. Di conseguenza è possibile dedurre che l’influenza della
temperatura sull’attività enzimatica sia altamente specie-specifica. Nel caso di
D. polymorpha è necessario considerare la temperatura dei punti in cui
vengono prelevati gli organismi, in modo da eliminare la componente
determinata dallo stress termico. Quindi, per poter confrontare siti differenti,
sarà necessario campionare in punti con temperature simili o, nel caso questo
non sia possibile, utilizzare la relazione ottenuta tra temperatura e attività
enzimatica sopra descritta.
3.3 Analisi dei controlli stabulati
Uno dei principali problemi da affrontare nell’utilizzo dei biomarker è la
difficoltà nel reperire dei siti o dei valori di controllo che possano essere
utilizzati per il confronto con organismi esposti ai diversi xenobiotici. Tale
confronto è necessario per capire se i valori di attività enzimatica misurati
100
siano indice di una perturbazione dovuta alla presenza di tossici nell’ambiente
o, più semplicemente, siano dovuti a normali fluttuazioni dei parametri
biologici di un organismo. Alcuni studi hanno considerato come attività basale
quella fornita da organismi campionati in siti ritenuti “non contaminati”: tale
approccio è però di difficile attuazione vista la difficoltà di ritrovare siti
realmente non inquinati da composti organici. Fenomeni di trasporto a lunga
distanza degli inquinanti potrebbero infatti portare questi composti anche a
grande distanza dal luogo di emissione: molti POP (composti organici
persistenti), grazie alla loro persistenza, sono stati ritrovati anche in zone
remote come i Poli (Barrie et al., 1992) e zone montuose come la catena
dell’Himalaya.
Nella nostra ricerca, vista l’impossibilità di reperire siti non contaminati nei
bacini lacustri e mancando in letteratura dei dati di riferimento, la scelta è
stata quella di prelevare alcune decine di esemplari di D. polymorpha e di
lasciarli in stabulazione per 30 giorni circa in condizioni controllate. L’avvenuta
depurazione
è
stata
controllata
analiticamente
mediante
tecniche
gascromatografiche, che hanno confermato la scomparsa della maggior parte
dei contaminanti presenti in origine. In condizioni di questo tipo è plausibile
che si sia potuta misurare l’attività basale del CYP450 e AChE nel mollusco
utilizzato, mantenuto in condizioni di laboratorio ideali. Si può ipotizzare che
tali valori siano i valori più bassi che si possano ottenere, indicativi della
risposta basale ottenibile in questo bivalve almeno in condizioni controllate di
laboratorio. I valori misurati ci sono serviti come riferimento per interpretare
quelli ottenuti negli esemplari prelevati nei grandi laghi.
Nella tabella 3.3.1 sono riportati i principali parametri morfometrici e fisiologici
degli organismi stabulati utilizzati come controlli per l’attività del CYP450,
ottenuti a 20 °C; nella 3.3.2 sono invece riportati quelli relativi all’attività
AChE.
101
Tabella 3.3.1
Lunghezza media, contenuto proteico medio ed attività EROD/MROD degli
esemplari di D. polymorpha utilizzati come controlli a 20 °C.
n
CONTROLLI
Lunghezza
Media
(cm) ± D.S.
EROD
Contenuto
(pmoli/min/mg
proteico (mg/ml)
prot.)
MROD
(pmoli/min/mg
prot.)
1
30
2,1 (± 0,3)
9,9
1,70
1,33
2
30
2,2 (± 0,4)
7,3
1,60
1,46
3
30
2,2 (± 0,2)
8,6
1,72
1,17
4
30
1,9 (± 0,3)
8,2
1,56
0,72
5
30
2,0 (± 0,4)
8,7
1,35
0,79
6
30
2,0 (± 0,2)
9,0
1,56
1,34
7
30
2,0 (± 0,3)
9,5
1,38
0,90
8
30
1,9 (± 0,2)
9,2
0,64
0,68
9
30
2,1 (± 0,2)
8,9
1,38
1,38
Media ± D.S.
30
2,0 (± 0,1)
8,8 (± 0,8)
1,43 (± 0,33)
1,08 (± 0,31)
Tabella 3.3.2: Parametri morfometrici e valori dell’attività AChE per i controlli analizzati
CONTROLLI
n
Lunghezza
Media
Contenuto
proteico
Attività AChE
(cm) ± D.S.
(mg/ml)
(nmoli/min*mg)
1
30
1,7 (± 0,3)
7,4
2,90
2
30
1,6 (± 0,2)
6,5
3,21
3
30
1,7 (± 0,2)
6,9
2,79
4
30
2,0 (± 0,3)
6,7
3,40
5
30
2,0 (± 0,2)
10,3
3,09
6
30
1,9 (± 0,3)
7,1
2,85
7
30
2,1 (± 0,3)
9,2
2,65
Media ± D.S
30
1,9 (± 0,2)
7,7 (± 1,4)
2,98 (± 0,26)
102
Sono stati utilizzati, in entrambi i casi, organismi con lunghezza della
conchiglia molto omogenea, per essere sicuri di considerare individui di età
simile e quindi con un’attività metabolica confrontabile. Inoltre i valori proteici
contenuti in un intervallo molto ristretto di valori (7,3 - 9,9 mg/ml per il
CYP450; 6,5 – 10,3 mg/ml per l’AChE) testimoniano un buon mantenimento
delle condizioni di stabulazione ed una mancanza di stress legati alle condizioni
di mantenimento.
L’attività del citocromo P450 è stata misurata utilizzando due substrati diversi:
etossiresorufina (attività EROD) e metossiresorufina (attività MROD). Sono
stati analizzati 9 gruppi di animali, costituiti da 10 individui ciascuno, e i
risultati sono riportati in tabella 3.3.1. I valori delle attività enzimatiche sono
stati normalizzati rispetto ai valori proteici (pmoli/min*mg proteine) così come
riportato in bibliografia (de Lafontaine et al., 2000; Lange, 1999; Brown et al.,
2002; Quabius et al., 2002), in modo da ottenere valori confrontabili tra loro.
L’attività enzimatica del CYP450 più elevata è stata ottenuta fornendo
etossiresorufina come substrato (attività EROD), con un valore minimo di 0,64
pmoli/min/mg prot. ed uno massimo di 1,70 pmoli/min*mg prot. (valore medio
di 1,43 ± 0,33 pmoli/min*mg prot.). L’attività MROD ha presentato un valore
minimo di 0,68 pmoli/min*mg prot. ed uno massimo di 1,46 pmoli/min*mg
prot. con una media di 1,08 ± 0,31 pmoli/min*mg prot. Tale attività è risultata
mediamente del 25% inferiore rispetto a quella EROD, indicando una minore
affinità di tale substrato con le famiglie del CYP450 presenti in questo bivalve.
I valori di controllo dell’AChE misurati variano da un minimo di 2,65
nmoli/min*mg proteine ad un massimo di 3,40 nmoli/min*mg proteine (Tab
3.3.2). Il fatto di avere utilizzato condizioni di mantenimento ottimali e di aver
raggiunto, probabilmente, il livello basale dell’attività AChE è confermato dalla
ridotta differenza (22%) tra il valore minimo e quello massimo misurato nei 7
gruppi di controllo.
L’attività del citocromo P450 è stata rilevata in più di 150 specie di pesci (che
rappresentano più di 10 famiglie) e in numerose specie di invertebrati,
acquatici e terrestri (Snyder et al., 2000). La maggior parte di questi studi è
103
stata eseguita con l’intento di determinare se le specie prese in esame
potessero
essere
adatte
come
“organismi-sentinella”
in
programmi
di
biomonitoraggio basati sull’utilizzo di biomarker, e in particolare sull’induzione
del citocromo P450. Dagli studi fin qui effettuati emerge come il fattore chiave
nella scelta di un organismo-sentinella in programmi di questo tipo non sia
essenzialmente l’induzione del CYP450, ma piuttosto la sua attività basale
(dovuta a fattori endogeni), e una differenza facilmente identificabile tra la
stessa attività basale e la sua induzione dovuta all’esposizione a composti
xenobiotici
(Whyte
al.,
et
2000).
Per
questo
motivo,
una
corretta
determinazione dell’attività basale del CYP450 in organismi di diverse specie, e
soprattutto dei fattori che la possono influenzare, necessita di indagini più
approfondite.
È emersa inoltre una notevole differenza tra le attività basali del CYP450
misurate in organismi appartenenti sia alla stessa specie che a specie diverse:
l’attività basale del CYP450 misurata in studi che hanno considerato la carpa
come organismo-sentinella, per esempio, varia da 0 a 4600 pmoli/min*mg
proteine (Ahokas et al., 1994, Schlenk et al., 1996), mentre ricerche eseguite
sul
pesce
Catostomus
commersoni
hanno
rilevato
un’attività
basale
costantemente inferiore a 10 pmoli/min*mg proteine (Servos et al., 1994,
Gagnon et al., 1995). Le cause di tale variabilità intra- e interspecifica sono
numerose, correlate alla biologia e fisiologia della specie stessa,
alle
caratteristiche ambientali e anche alla metodologia d’analisi utilizzata per
rilevare l’attività enzimatica del CYP450 (Whyte et al., 2000). Per tutti questi
motivi una corretta determinazione dell’attività basale del CYP450 negli
organismi considerati (e soprattutto dei fattori che la possono influenzare)
necessita
sicuramente
di
studi
maggiori
rispetto
ai
dati
disponibili
in
bibliografia, essendo il fattore che sta alla base di un’esatta interpretazione
dell’induzione del CYP450.
104
3.4 Esposizione ai contaminanti
Nelle prove di esposizione ai contaminanti sono state utilizzate alcune classi di
composti presenti nell’ambiente e potenzialmente pericolosi per gli ecosistemi.
La comprensione degli effetti dei singoli composti sugli organismi è il primo
passo da effettuare nello sviluppo di tecniche di monitoraggio basate sui
biomarker, anche se in campo è molto più comune la presenza di più inquinanti
in miscela. Tuttavia, la comprensione degli effetti dei singoli composti è
necessaria per poter capire eventuali effetti sinergici o antagonisti tra diversi
composti.
Sono stati utilizzati composti che, da analisi della letteratura esistente, si
riteneva potessero avere un effetto sui biomarker da noi utilizzati: i PCB
sull’attività del CYP450, organofosforati (Chlorpyrifos) e carbammati (Carbaryl)
sull’attività AChE.
Un riassunto delle prove condotte è rappresentato in tabella 3.4.1.
Tab. 3.4.1: Prove di esposizione condotte in laboratorio (in verde i test per l’AChE, in giallo
per l’EROD)
INQUINANTE
CONCENTRAZIONE
DURATA
ESPOSIZIONE
miscela di PCB
(Arochlor 1260)
100 ng/l
96 h
PCB congenere No126
100 ng/l
96 h
PCB congenere No153
10 ng/l
96 h
Chlorpyrifos
10 µg/l
96 h
Chlorpyrifos e
Terbutilazina
10 µg/l+10 µg/l
96 h
268 h
Carbaryl
100 ng/l
96 h
Chlorpyrifos-oxon e
2-PAM
10 µg/l+
100 ng/l – 1 µg/l – 10 µg/l
48 h
(prova riattivazione AChE)
105
3.4.1
Effetti dei PCB sull’attività del CYP450
Miscela Arochlor 1260 (100 ng/l)
Molti studi, la maggior parte dei quali condotti su vertebrati ed in particolare su
quelli acquatici, hanno indagato la capacità dei PCB di indurre un’attività
detossificante mediata dal citocromo P450. Proprio per la carenza
di
informazioni su invertebrati, e soprattutto su D. polymorpha, tale ricerca ha
preso in considerazione la sua risposta all’esposizione a PCB, tenuto anche
conto del fatto che i dati bibliografici indicano chiaramente come l’induzione
dell’attività EROD sia altamente specie-specifica, almeno per quanto riguarda
le diverse famiglie del CYP450 (Whyte et al., 2000).
Per valutare l’induzione del CYP450 in D. polymorpha da parte di una miscela
di policlorodifenili è stata utilizzata la miscela commerciale Arochlor 1260 (100
ng/l), la miscela commerciale più utilizzata in Italia fino al 1988, anno del suo
divieto di utilizzo nei sistemi aperti. Precedenti ricerche svolte dal nostro
gruppo (Provini et al., 1995; Binelli et al., 2004a) hanno, inoltre, messo in
evidenza che l’impronta di contaminazione da PCB in Italia è rappresentata da
Aroclor 1260 e 1254 in percentuale del 65 e 35% rispettivamente. Nella tabella
3.4.1 sono mostrate le lunghezze, il contenuto proteico e la il bioaccumulo dei
contaminanti nei tessuti degli organismi utilizzati in questo esperimento. Grazie
alle analisi gascromatografiche è stato verificato che l’accumulo dei PCB nei
lipidi dei bivalvi sia aumentato progressivamente, da un valore minimo
riscontrato nel campione prelevato a 24 h di 52 ng/g lipidi fino a un massimo
nel campione prelevato a 96 h di 285 ng/g lipidi (Fig. 3.4.2).
106
Tabella 3.4.2: Parametri morfologici, concentrazione delle proteine (in
concentrazioni di Arochlor 1260 (espresse in ng/g lipidi) negli organismi esposti.
mg/ml)
Lunghezza
media
Contenuto
proteico (mg/ml)
Concentrazione di
PCB
24 h
2,0 (±0,3)
8,1
168,3
48 h
2,0 (±0,3)
8,7 (±1,0)
280,2
72 h
1,9 (±0,3)
9,5 (±0,9)
285,2
96 h
2,0 (±0,3)
7,3
575,2
CAMPIONE
± D.S.
(cm) ± D.S.
e
(ng/g lip.)
Nell’esperimento di esposizione alla miscela di PCB i valori di attività più alta
per tutti i substrati (EROD e MROD) sono stati riscontrati nei campioni prelevati
a 48 h, momento in cui tali valori hanno subito un incremento di circa il 60%
rispetto ai valori più bassi trovati a 24 h, paragonabili ai controlli (Fig. 3.4.1).
700
5
4.5
600
500
3.5
3
400
2.5
300
2
1.5
ng/g lip.
Attività(pmol/min mg prot)
4
200
1
100
0.5
0
0
0
24
48
72
96
Tempo (h)
Accumulo
EROD
MROD
Fig. 3.4.1: Andamento dell’attività EROD e MROD (espressi in pmoli/min/mg di proteine) in
relazione alla concentrazione di PCB (Arochlor 1260) espressa in ng/g lipidi.
I risultati di tale esposizione mostrano un un andamento dei valori di
bioaccumulo che aumenta nelle prime 48 h per poi rimanere costante
107
nell’intervallo tra le 48 e le 72 h e subire un ulteriore incremento nelle 24 h
successive (Fig. 3.4.1). L’analisi gascromatografica dei tessuti molli dei bivalvi
esposti
ha
seguito
l’andamento
dell’attività
enzimatica
misurata:
le
concentrazioni di PCB molto simili misurate nei campioni a 48 e 72 h
potrebbero essere state determinate dall’azione del citocromo che, dopo la sua
induzione avvenuta nelle prime 24 h, trasforma i composti organoclorurati in
idrossi-PCB, metaboliti più tossici dei composti parentali, ma non più rilevabili
mediante l’approccio analitico seguito. Dopo 72 h l’accumulo dei PCB riprende,
probabilmente a seguito del raggiungimento dell’attività massima del CYP450
che non riesce più a trasformare rapidamente i PCB nei rispettivi metaboliti.
Questa ipotesi viene confermata dall’andamento dell’attività dei due substrati
testati, EROD e MROD, che ricalcano perfettamente l’andamento seguito dai
valori di bioaccumulo, mostrando una ottima correlazione (R=0,99; p<0,01)
(Fig. 3.4.1). Anche se la miscela commerciale utilizzata non presenta i tre
congeneri coplanari, sono comunque presenti altri congeneri “dioxin-like” (Van
den Berg, 1998), quali i PCB 105, 118, 156, 157, 167, 189, che potrebbero
essere in grado di attivare l’attività del CYP450, anche se in misura minore
rispetto ai coplanari veri e propri. D’altra parte, in bibliografia, esistono
esperimenti che confermano anche nel salmerino artico Salvelinus alpinus
(Jorgensen et al., 1999) un’attivazione dell’attività CYP450 da parte di questa
stessa miscela di Aroclor 1260.
Così come per le diossine e i furani, la capacità dei PCB di indurre una risposta
EROD dipende dall’affinità che la struttura dei singoli congeneri ha con il
recettore citosolico arilico (Ah). I congeneri planari (non-ortho PCB), non
sostituiti cioè con atomi di Cl in posizione 4 e 4’, e con almeno un Cl in
posizione 3, formano un legame molto stretto con il recettore arilico. L’assenza
di sostituenti in posizione ortho porta ad una struttura planare degli anelli
fenilici e ad uno stato energetico minore (McKinney e Singh, 1981; Tsuzuki e
Tanabe, 1991). La struttura planare è un requisito fondamentale per il legame
con il recettore arilico e infatti, nei pesci, i congeneri planari mostrano una
potenziale attività inducente dell’EROD (Metcalfe e Haffner, 1995). I congeneri
coplanari più importanti sono: il PCB 77 (3,3’,4,4’-tetraclorodifenile), il PBC
108
126
(3,3’,4,4’,5-pentaclorodifenile)
e
il
PCB
169
(3,3’,4,4’,5,5’-
esaclorodifenile). Questi congeneri presentano una tossicità simile a quella
della
2,3,7,8
TCDD
(tetraclorodibenzodiossina),
e
per
questo
sono
costantemente monitorati nell’ambiente (Metcalfe, 1994). Al contrario i
congeneri di PCB sostituiti in posizione ortho (es: PCB 105, 118, 138, 156)
sono meno affini al recettore Ah rispetto ai non-ortho sostituiti (Safe, 1990),
provocando una bassa induzione dell’attività EROD (Newsted et al., 1995; Van
den Berg et al., 1998). In alcuni studi è stato proposto che i congeneri monoortho sostituiti provocano una debole attività EROD in specie come la trota
iridea (Oncorhynchus mykiss), la carpa comune (Cyprinus carpio) e la passera
di mare europea (Platichthys flesus). Gli uccelli e i mammiferi, in contrasto con
i pesci, mostrano una risposta maggiore ai mono-ortho-sostituiti (Van den Berg
et al., 1998), a testimonianza del fatto che l’induzione enzimatica è altamente
specie-specifica.
Nei primi studi reperibili in letteratura è stata misurata la reazione del
citocromo P450 alle miscele di PCB commerciali. La miscela più utilizzata per
questo tipo di indagini è stata l’Arochlor 1254 (54% Cl) (Livingstone et al.,
1997) che ha dimostrato di provocare una stimolazione dell’attività enzimatica
sia nella trota iridea (Oncorhynchus mykiss) che nella carpa comune (Cyprinus
carpio) (Melancon e Lech, 1983), oltre che nel bivalve Mytilus galloprovincialis
(Livingstone et al., 1997), probabilmente a causa della presenza, anche se in
basse percentuali, di alcuni congeneri coplanari. Le altre miscele sono state
invece trascurate sebbene la loro potenziale capacità induttiva sia stata più
volte dimostrata (Elcombe e Lech, 1978; Elcombe e Lech, 1979; Focardi et al.,
1995).
In seguito a questi studi, il passo successivo è stato quello di indagare la
reazione ai singoli congeneri, poiché è stato osservato che la composizione
delle miscele dei PCB nei tessuti dei pesci non rispettavano i rapporti esistenti
nelle miscele commerciali standard (Schwartz et al., 1987). Inoltre, le
caratteristiche dei congeneri di PCB nei tessuti dei pesci presentano variazioni
dovute a differenti modalità di bioaccumulo e ai diversi processi legati al
metabolismo e all’escrezione (Oliver e Niimi,1988).
109
Esposizione a singoli congeneri
Per stabilire se l’attività CYP 450 sia stimolata da tutti i congeneri di PCB
presenti nella miscela o solamente da quelli con una struttura coplanare
(dioxin-like PCB) sono stati effettuati due saggi diversi: il primo utilizzando il
congenere più frequente nella miscela rilevata negli ecosistemi acquatici italiani
(PCB 153), il secondo esponendo il bivalve al PCB coplanare 126.
o PCB-153 (10 ng/l)
Nella tabella 3.4.3 è mostrata l’attività del CYP 450 in animali esposti al PCB153, un congenere non dioxin-like. Purtroppo, a causa di alcuni problemi
analitici, non è stato possibile ottenere la deviazione standard per molti dei
campioni. L’attività EROD massima è stata misurata nel campione prelevato a
72 h (1,36 pmoli/min/mg prot.), ed è maggiore del 44% rispetto al valore
minimo del campione a 24 h (0,76 pmoli/min/mg prot).
Tabella 3.4.3 Parametri morfometrici e contenuto proteico (in mg/ml) negli organismi esposti
a PCB-153
Lunghezza
media (cm) ±
Contenuto
proteico
24 h
2,0 (± 0,2)
8,06
48 h
2,0 (± 0,3)
10,26
72 h
1,9 (± 0,2)
9,28
96 h
1,9 (± 0,2)
9,20
CAMPIONI
D.S.
(mg/ml)
110
pmoli/min/mg prot.
2
1.5
1
0.5
0
0
24
48
72
96
Tempo (h)
EROD
Figura 3.4.2: Andamento dell’attività EROD in esemplari di D. polymorpha esposti a PCB 153
(10 ng/l) per 96 h.
I risultati ottenuti mostrano un andamento piuttosto lineare dell’attività EROD.
(Fig. 3.4.2). Il basso numero di repliche non consente di fare considerazioni
sulla significatività di tale andamento, tuttavia, questi dati preliminari
sembrano indicare che l’attività EROD non venga indotta dalla presenza di un
congenere non dioxin-like. In letteratura è riportato come l’esposizione a PCB153 provochi addirittura una inibizione dell’attività EROD nella trota iridea
(Vodicnik et al., 1981) e nella passera di mare Platichthys flesus (Besselink
1998), dati che sembrano confermare i risultati da noi ottenuti.
o PCB-126
I
risultati
ottenuti
con
un’esposizione
al
PCB
126
(Tabella
3.4.4),
a
concentrazione di 100 ng/l, mostrano un valore massimo di attività EROD dopo
48 ore di esposizione, con un aumento dell’87% rispetto alla media dei
controlli. E’ stato scelto di misurare soltanto l’attività EROD perché, come già
visto nel caso dell’esposizione ad Arochlor 1260, i valori di queste attività sono
strettamente correlati tra loro. Il bioaccumulo, misurato contemporaneamente
mediante analisi gascromatografica, ha mostrato un incremento esponenziale,
111
con un massimo di quasi 2500 ng/g lip. dopo 96 ore di esposizione. I nostri
dati hanno rivelato come un’attivazione statisticamente significativa sia stata
raggiunta dopo 48 h di esposizione (Student t-test, p<0.01), mentre nei giorni
successivi tale attività è tornata uguale ai valori di controllo (Fig. 3.4.3). Al
contrario, i valori di bioaccumulo hanno mostrato un trend crescente durante
tutti i giorni di esposizione, con un andamento lineare durante le prime 72 h,
per poi subire un notevole incremento nell’ultimo giorno.
Tab. 3.4.4: lunghezza e contenuto proteico misurati durante i 5 giorni di esposizione e
concentrazione di PCB-126 nei tessuti di D. polymorpha
Lunghezza
Media
Contenuto
Proteico Esposti
Contenuto
Proteico Controlli
(mg/ml) ± D.S.
Concentrazione
PCB 126
(ng/g lip.)
0h
1,96 ± 0,24
7,9 ± 1,4
7,9 ± 1,4
0
24 h
2,09 ± 0,32
8,5 ± 1,9
10,1 ± 2,4
143
48 h
2,23 ± 0,24
7,8 ± 1,4
8,2 ± 1,9
445
72 h
2,12 ± 0,29
9,5 ± 2,2
9,9 ± 1,4
775
96 h
1,92 ± 0,27
7,5 ± 1,1
9,3 ± 0,3
2496
(cm) ± D.S.
(mg/ml) ± D.S.
3000
1.40
2500
1.00
2000
0.80
1500
0.60
ng/g lip.
EROD (pmol/min mg)
1.20
1000
0.40
500
0.20
0.00
0
T0
T24
Accumulo
T48
Controllo
T72
T96
PCB126
Fig. 3.4.3: andamento dell’attività EROD e del bioaccumulo in seguito ad esposizione a PCB126
112
Come noto, un’attivazione dell’attività EROD è indice che l’organismo ha
attivato le misure di detossificazione. E’ possibile però che, in presenza di
concentrazioni molto elevate di composti tossici, tale attività non riesca a far
fronte alla presenza degli inquinanti. In uno studio di Newsted et al. (1995) è
stato dimostrato che trote iridee esposte contemporaneamente a 2,3,7,8-TCDD
e PCB-126 mostravano attività EROD più bassa rispetto a quelle esposte ai
singoli contaminanti. E’ stato ipotizzato che la capacità catalitica più bassa del
CYP450 fosse associata ad una riduzione della sintesi dell’enzima, oppure ad
un fenomeno di feedback negativo. Una bassa attività EROD ad alte dosi di
PCB-126 è stata misurata anche nel pesce gatto (Ictalurus punctatus) (Rice e
Schlenk, 1995), anche se non accompagnata da una diminuzione nella
concentrazione di CYP450, misurata con tecniche di Western Blot.
Esperimenti
in
vitro
condotti
su
epatociti
di
ratto
hanno
confermato
un’inibizione competitiva del CYP1A1 da parte di composti dioxin-like (Petrulis
e Bunce, 1999), che può portare alla sottostima dell’esposizione ad altri più
potenti induttori. Questa situazione potrebbe essere dovuta specialmente a
composti che hanno una relativamente bassa affinità per il recettore AhR,
come i PCB non-planari. E’ possibile quindi che l’inibizione dell’attività EROD
abbia causato nei nostri esemplari un aumento notevole nell’accumulo del PCB,
che quindi ha raggiunto i valori più elevati, essendosi interrotto il meccanismo
di detossificazione. Analisi precedenti svolte nel nostro laboratorio, utilizzando
lo stesso composto a concentrazioni inferiori (10 ng/l), hanno mostrato una
lieve attivazione dell’attività EROD dopo 72 h di esposizione: è possibile però
che i valori di bioaccumulo raggiunti in tale esperimento non fossero
sufficientemente alti da causare una inibizione del CYP450.
In
conclusione
policlorodifenili
è
possibile
inducano
ipotizzare
una
risposta
che
anche
metabolica
in
D.
come
polymorpha
tentativo
i
di
detossificazione mediato da proteine della famiglia del CYP450. Tale risposta
risulta essere dipendente dal congenere di PCB con cui l’organismo viene a
contatto: il recettore Ah infatti è in grado di legare sostanze con forma simile a
quella della TCDD, stimolando una serie di eventi cellulari che portano ad una
maggiore sintesi di proteine della famiglia del CYP1A (Metcalfe, 1994).
113
3.4.2 Esposizione a Chlorpyrifos e bioattivazione
Nell’ambiente la situazione più comune è la presenza di miscele di tossici
piuttosto che di un singolo contaminante. Nonostante questo, circa il 95% degli
studi di tossicologia ed ecotossicologia sono rivolti agli effetti di singoli
composti chimici (Cassee et al., 1998). La reciproca influenza dei composti di
una
miscela
può
avvenire
durante
l’assunzione,
la
distribuzione,
la
biotrasformazione e l’escrezione degli xenobiotici, con conseguenze spesso
difficilmente prevedibili (Viau, 2002). L’utilizzo di analisi chimiche, oltre a non
consentire quasi mai l’identificazione di tutti i componenti, non permette di
valutare proprio gli eventuali effetti sinergici antagonisti o additivi che si
possono manifestare tra i diversi composti. L’inibizione competitiva è una
causa comune di interazioni tossicologiche tra composti organici, specialmente
per quelli che stimolano la fase I dei processi di biotrasformazione (Viau,
2002). Proprio per la difficoltà di valutare queste interazioni, l’utilizzo di
biomarker può consentire di valutare il reale impatto di tali miscele sulla salute
degli organismi, in quanto essi possono dare un’indicazione dell’esposizione
globale di un organismo ai contaminanti.
Alcuni
organofosforati,
presentano
composti
in
particolare
parentali
aventi
fosforotionati
una
bassa
o
e
fosforotioltionati,
inesistente
attività
anticolinesterasica diretta (Parisi 2002a). Essa aumenta notevolmente in
seguito al processo di bioattivazione, che consiste in una desulfurazione
ossidativa del composto organofosforico, messa in atto dal sistema delle
monoossigenasi a funzione mista (MFO), in particolare dal CYP 450. E’ infatti
noto che la tossicità acuta dei fosfotionati ossidati è di tre ordini superiore
rispetto agli analoghi non metabolizzati (Forsyth e Chambers, 1989; Chambers
e Chambers, 1989). In questo esperimento è stato indagato se la presenza di
un secondo contaminante possa effettivamente accelerare l’ossidazione di un
composto organofosforico da parte del sistema MFO. In particolare è stato
deciso di valutare la bioattivazione del Chlorpyrifos (CP), largamente impiegato
anche in Italia come insetticida. In bibliografia esistono testimonianze che
descrivono una accelerazione della desulfurazione del CP al suo analogo
114
ossidato Chlorpyrifos-oxon (CPO), in larve di Chironomus tentans (Belden e
Lydy, 2000) in presenza di atrazina e, di conseguenza, un aumento della
tossicità dell’insetticida di oltre il 400%. Nel nostro caso abbiamo voluto
considerare una eventuale interazione tra il Chlorpyrifos e la Terbutilazina, un
erbicida triazinico ancora utilizzato in Italia, con una struttura molto simile
all’atrazina.
Il grafico 3.4.4 mostra l’andamento dell’attività acetilcolinesterasica negli
esemplari di D. polymorpha esposti per 264 h a Chlorpyrifos (10 µg/l), a
Terbutilazina
(10 µg/l) e alla miscela dei due composti (10 µg/l + 10 µg/l)
rispetto ai valori di controllo, mentre i valori di contenuto proteico e lunghezze
delle conchiglie degli esemplari utilizzati sono riportate in tabella 3.4.5.
Tab. 3.4.5 : contenuto proteico e lunghezza delle conchiglie degli esemplari esposti durante le
264 h (CP= Chlorpyrifos; TB= Terbutilazina)
Contenuto Proteico
(mg/ml) ± D.S.
CP
Lunghezze
(cm) ± D.S.
TB
CP+TB
CP
TB
CP+TB
7,1 ± 1,5
7,6 ± 1,6
1,7 ± 0,3
1,7 ± 0,1
1,6 ± 0,1
48 h 10,2 ± 1,2 8,3 ± 1,9
6,3 ± 1,9
2,1 ± 0,4
1,9 ± 0,2
1,8 ± 0,1
72 h 11,5 ± 1,1 9,9 ± 1,7
8,5 ± 2,0
2,1 ± 0,3
2,0 ± 0,3
1,9 ± 0,1
24 h 9,3 ± 1,1
96 h 8,7 ± 1,1
7,4 ± 1,1
10,0 ± 2,1
2,2 ± 0,3
2,2 ± 0,4
2,3 ± 0,3
168 h 8,0 ± 1,3
7,6 ± 1,2
5,9 ± 2,2
1,9 ± 0,2
1,8 ± 0,1
2,0 ± 0,4
216 h 9,6 ± 0,9
9,0 ± 1,3
8,3 ± 2,4
1,8 ± 0,1
1,8 ± 0,3
1,9 ± 0,1
264 h 6,8 ± 0,8
7,1 ± 1,4
5,6 ± 2,3
1,8 ± 0,1
1,9 ± 0,1
1,9 ± 0,1
115
nmol/min mg prot.
4.00
3.50
3.00
2.50
2.00
1.50
1.00
1
2
3
4
7
9
11
giorni
Controlli
Chlor
Chlor+Terb
Terb
Fig. 3.4.4: Andamento dell’attività AChE in esemplari di D. polymorpha esposti a Chlorpyrifos
(10 µg/l), Terbutilazina (10 µg/l) e a una miscela dei due composti (10 µg/l + 10 µg/l).
È evidente come durante i primi tre giorni ci siano notevoli differenze tra i due
andamenti: nel caso dell’esposizione al solo CP l’inibizione massima (di circa il
50%), significativamente differente rispetto ai controlli (ANOVA, Tukey HSDtest, p<0,05), viene raggiunta dopo quattro giorni, mentre la stessa inibizione
viene raggiunta solo dopo 24 h in seguito all’esposizione alla miscela, a causa
dell’attivazione del sistema di detossificazione delle MFO da parte della
terbutilazina ed al conseguente aumento dalla trasformazione del CP in CPO.
Dopo il quarto giorno l’andamento diventa simile per entrambi i gruppi di
organismi, probabilmente poiché è stato raggiunto il massimo dell’azione
anticolinesterasica. La somministrazione della sola Terbutilazina non ha invece
causato differenze significative nell’attività AChE rispetto al controllo (ANOVA,
Tukey HSD-test, p<0,05).
La figura 3.4.5 mostra, infatti, l’avvenuta bioattivazione del Chlorpyrifos nel
suo analogo ossidato solo per le prime 96 h di esposizione: la concentrazione
massima di entrambi i composti è stata misurata nei campioni prelevati a 72 h,
corrispondenti a un valore di 242 ng/g lipidi per il CP e 1517 ng/g lipidi per il
CPO, mentre le concentrazioni minori sono per il CP nel campione a 96 h (4
116
ng/g lipidi) e per il CPO a 24 h (509 ng/g lipidi). In figura 3.4.6 sono mostrati i
dati
di
accumulo
di
Chlorpyrifos
e
Chlorpyrifos-Oxon
in
presenza
di
Terbutilazina: i valori minori sono stati misurati nei campioni a 96 h per CP (45
ng/g lipidi) e a 72 h per il CPO (978 ng/g lipidi) e nel campione prelevato a 24
h per la TB (322 ng/g lipidi). Le concentrazioni sono aumentate dell’85% a 48
h per il Chlorpyrifos, del 90% per il Chlorpyrifos-Oxon nel campione prelevato
a 96h e dell’85% per il campione a 96 h esposto a Terbutilazina.
2500
ng/ g lipidi
2000
1500
1000
500
0
0h
24 h
48 h
72 h
96 h
CP
CPO
Fig. 3.4.5: Andamento della concentrazione di Chlorpyrifos (CP) e del suo analogo ossidato
Chlorpyrifos-oxon (CPO) nelle prime 96 h di esposizione nella vasca di esposizione al
solo CP.
117
2500
ng/g lipidi
2000
1500
1000
500
0
0h
24 h
48 h
72 h
96 h
CP
Fig. 3.4.6
CPO
TB
Andamento della concentrazione di Chlorpyrifos (CP), Chlorpyrifos-oxon
(CPO) e Terbutilazina (TB) nelle prime 96 h di esposizione, nella vasca di
esposizione alla miscela
Le misure del bioaccumulo hanno confermato l’ipotesi della bioattivazione del
Chlorpyrifos in presenza dell’erbicida. In assenza di Terbutilazina, infatti, è
stata misurata una bassa trasformazione del Chlorpyrifos nel suo analogo
ossidato Chlorpyrifos-oxon, che ha raggiunto il massimo di concentrazione
dopo 72 h di esposizione, periodo corrispondente all’inibizione massima
dell’attività AChE misurata (Fig. 3.4.4).
In presenza dell’erbicida, invece, il Chlorpyrifos-oxon raggiunge la sua
massima concentrazione già dopo 24 h, anche in questo caso corrispondente
alla massima inibizione dell’attività enzimatica. L’accumulo più rapido potrebbe
essere dovuto quindi alla maggiore stimolazione del sistema MFO da parte
della Terbutilazina, che, aumentando l’attività detossificante del citocromo
P450, provoca una più veloce biotrasformazione di Chlorpyrifos in Chlorpyrifosoxon.
118
3.4.3
Esposizione a Carbaryl
D. polymorpha è stata anche esposta ad un carbammato (Carbaryl), composto
in grado di inibire l’attività AChE, al fine di poter osservare eventuali differenze
rispetto all’esposizione a Chlorpyrifos. Al contrario degli organofosforati,
l’azione inibitoria dei carbammati è di tipo reversibile: il legame che formano
con l’AChE non è infatti stabile e dopo un certo periodo di tempo avviene un
distacco spontaneo.
I valori di lunghezza e contenuto proteico degli organismi utilizzati sono
elencati in tabella 3.4.6, mentre i risultati dell’esposizione a 100 ng/l di
Carbaryl sono esposti in figura 3.4.7. L’inibizione massima dell’attività AChE è
stata raggiunta già dopo 24 h (68% di inibizione), mentre i controlli hanno
mostrato un andamento piuttosto costante, seppur con un calo dopo 48 h di
circa il 30% rispetto al tempo 0, comunque non statisticamente significativo.
Tab. 3.4.6: lunghezza e contenuto proteico degli esemplari di D. polymorpha esposti a
Carbaryl
Lunghezza
Media
Contenuto
Proteico Esposti
Contenuto
Proteico Controlli
0h
2,0 ± 0,3
4,9 ± 3,8
4,8 ± 3,8
24 h
1,9 ± 0,3
4,2 ± 0,2
5,7 ± 0,1
48 h
1,9 ± 0,4
4,1 ± 0,1
4,9 ± 0,2
72 h
1,8 ± 0,4
4,1 ± 0,4
4,9 ± 0,3
96 h
1,9 ± 0,2
4,0 ± 0,3
4,7 ± 0,1
(cm) ± D.S.
(mg/ml) ± D.S.
(mg/ml) ± D.S.
L’inibizione è risultata statisticamente significativa durante tutti i giorni
dell’esposizione (Student t-test, p<0,01). L’andamento è risultato simile a
quello ottenuto esponendo i molluschi alla miscela Chlorpyrifos+Terbutilazina
precedentemente
bioattivazione,
descritto.
può
Il
esercitare
Carbaryl
la
infatti,
sua
non
azione
necessitando
di
anticolinesterasica
immediatamente dopo l’ingresso nei tessuti. L’elevata inibizione misurata non
ha portato tuttavia alla morte degli animali: è possibile quindi che siano
119
necessarie concentrazioni ancora maggiori o un tempo di esposizione superiore
per portare ad effetti letali.
AChE (nmol/min mg prot.)
4.00
3.50
3.00
2.50
2.00
1.50
1.00
0.50
0.00
T0
T24
T48
Controllo
T72
T96
Esposti
Fig. 3.4.7: andamento dell’attività AChE in esemplari di D. polymorpha esposti a Carbaryl
Non sono disponibili in letteratura dati riferiti all’effetto del Carbaryl su D.
polymorpha, tuttavia ne è stata dimostrata l’azione inibitoria nei confronti
dell’AChE in altre specie come il mitilo (M. galloprovincialis) e l’ostrica (O.
edulis) (Valbonesi et al., 2003), oltre che nel polichete Nereis diversicolor
(Scaps et al., 1998); tra i vertebrati, alcuni studi sono stati fatti sul carassio
(Carassius auratus) (Ferrari et al., 2004).
3.4.4
Riattivazione dell’AChE mediante il 2-PAM
E’ ampiamente riportato in letteratura medica che la somministrazione di un
ossima, una molecola in grado di staccare meccanicamente l’inibitore dell’AChE
dal sito attivo dell’enzima, sia in grado di riportare l’attività catalitica a valori
normali,
nel
caso
di
esposizione
a
gas
neurotossici.
Nell’ambito
del
biomonitoraggio, l’utilizzo di tali molecole potrebbe aiutare a ripristinare
l’attività dell’AChE dell’organismo utilizzato nel monitoraggio fino ai valori
basali, permettendo quindi di calcolare l’inibizione percentuale dovuta alla
presenza di composti anti-AChE (Kirby et al., 2000). In questo modo si
120
potrebbe, inoltre, distinguere tra un inquinamento da carbammati, che
mostrano
un
legame
reversibile
all’enzima
(e
quindi
non
riattivabile
dall’ossima), e uno da organofosforati. In letteratura esistono già alcuni studi
su vertebrati che sfruttano la diversa risposta all’esposizione al 2-PAM (piridina
2-aldossi metaclorato) per distinguere se l’inibizione dell’AChE sia imputabile a
composti organofosforati o ad altri fattori (Martin et al., 1981, Stanley, 1993).
A causa della mancanza di dati riferiti ad invertebrati, in particolare a
molluschi,
abbiamo
voluto
verificare
l’applicabilità
della
riattivazione
dell’enzima in D. polymorpha.
Di
seguito
verranno
mostrati
i
risultati
di
riattivazione
dell’attività
acetilcolinesterasica ottenuti tramite somministrazione del 2-PAM ad esemplari
di D. polymorpha precedentemente esposti a Chlorpyrifos-Oxon (CPO). È stata
scelta la forma ossidata dell’insetticida fosfotionato Chlorpyrifos poiché, come
precedentemente evidenziato, risulta essere il composto effettivamente in
grado di inibire l’attività acetilcolinesterasica, in modo da non rendere
necessario attendere che l’insetticida venga metabolizzato e reso attivo dal
sistema MFO.
Nella figura 3.4.8 sono riportati i valori di attività acetilcolinesterasica misurata
nei bivalvi utilizzati per condurre l’esperimento di riattivazione. Dopo 48 h di
esposizione
al
CPO,
è
possibile
notare
un’inibizione
dell’attività
acetilcolinesterasica del 43% rispetto agli organismi di controllo, che ricalca il
risultato osservato precedentemente durante l’esposizione al Chlorpyrifos
nell’esperimento di bioattivazione. Gli organismi così trattati sono stati esposti
per un’ora (in modo che la sostanza fosse completamente assorbita) a diverse
concentrazioni di 2-PAM (100 ng/l; 1 µg/l; 10 µg/l) per misurare la percentuale
di riattivazione. Inoltre, per appurare che non ci fosse una riattivazione
spontanea indipendente dall’ossima, si è provveduto anche a mantenere i
bivalvi in un becker contenente semplice acqua di rete.
121
AChE (nomol/min mg)
5
4
3
2
1
0
0
Controllo
Fig. 3.4.8
24
48
tempo (h)
CPO
Valori dell’attività AChE espressi in nmoli/min*mg con deviazione standard in
bivalvi di controllo e bivalvi esposti a Chlorpyrifos-Oxon per 48 h.
Il campione di controllo mostra una uguale attività se posto in un becker di
sola acqua o in una soluzione contenente 1 µg/l di 2-PAM, che a sua volta è
maggiore del 23% rispetto all’attività AChE del campione esposto alla soluzione
di PAM a 100 ng/l.
AChE (nmol/min mg prot)
5
4
3
2
1
10 ug/l
1 ug/l
100 ng/l
H2O
Controllo
10 ug/l
1 ug/l
100 ng/l
H2O
CPO 48h
0
Fig. 3.4.9: Valori di attività acetilcolinesterasica misurati in gruppi di bivalvi mantenuti in
diverse condizioni: in semplice acqua, a concentrazioni di 2-PAM di 100 ng/l; 1 µg/l; 10 µg/l.
122
Il campione esposto a 48 h a CPO ha mostrato, invece, una riattivazione
massima quando esposto ad una concentrazione di PAM 1 µg/l, maggiore del
62% rispetto al valore del campione posto solo in acqua. (Fig. 3.4.9).
Dal grafico è possibile evidenziare come per gli organismi mantenuti in
stabulazione per 48 h (Controllo) l’esposizione al 2-PAM non provochi
alterazioni statisticamente significative sull’attività AChE (Tabella 3.4.7).
Questo dato dimostra come la somministrazione dell’ossima non alteri i valori
di attività AChE in individui con un’attività enzimatica basale. Il gruppo di
bivalvi esposto a Chlorpyrifos-oxon per 48 h mostra, al contrario, una
variazione dei valori di attività AChE durante le diverse esposizioni al PAM. I
gruppi di individui posti a una concentrazione di 100 ng/l e 10 µg/l evidenziano
un incremento dell’attività rispettivamente del 43% e del 8% anche se non
statisticamente significativa rispetto al campione di partenza, (Tabella 3.4.7).
La concentrazione di 1 µg/l provoca, invece, una riattivazione significativa
(51%) dell’attività AChE (ANOVA, Tukey HSD test, p<0,05), e inoltre non
presenta differenze significative con il gruppo di organismi di controllo. Gli
organismi esposti a CPO e mantenuti successivamente solamente in acqua di
rete, non hanno manifestato, come atteso, nessuna riattivazione dell’enzima.
Dai risultati ottenuti in questo test si può ipotizzare come la concentrazione
ottimale di PAM per ottenere una riattivazione completa dell’enzima in D.
polymorpha nel caso di intossicazione da organofosforici sia di 1 µg/l.
Concentrazioni inferiori o superiori possono risultare inadeguate, perché o esse
non sono sufficienti per agire in tutti i tessuti dell’animale (come nel nostro
caso per la concentrazione di 100 ng/l), o, al contrario, a causa della tossicità
della molecola di PAM ad alte concentrazioni, l’animale può mettere in atto dei
processi di difesa che impediscono alla molecola di entrare nell’organismo (Es.
chiusura
delle
valve,
diminuzione
del
ritmo
respiratorio,
riduzione
del
metabolismo).
123
Tab. 3.4.7 Tabella di significatività per il test di riattivazione (ANOVA, Tukey HSD post-hoc
test). Le differenze statisticamente significative (p<0,05) sono state evidenziate in giallo.
(I) GRUPPO
CPO+H2O
CPO+PAM
100 ng/l
CPO+PAM
µg/l
1
48 h
Intervallo di confidenza 95%
CPO+H2O
0,36
0,951
CPO+PAM 100 ng/l
-1,27
0,071
-2,6
7,9*10-2
CPO+PAM 1 µg/l
-1,75
0,008
-3,1
-0,4
CPO+PAM 10 µg/l
CONTROLLO 48 h
-,14
0,999
-1,3
1,04
-1,26
0,049
-2,5
-4,3*10-2
CPO 48 h
-,36
0,951
-1,7
1,0
CPO+PAM 100 ng/l
-1,63
0,022
-3,1
-1,9
CPO+PAM 1 µg/l
-2,11
0,003
-3,6
-0,67
CPO+PAM 10 µg/l
CONTROLLO 48 h
-,50
0,806
-1,8
0,8
-1,61
0,015
-3,0
catività (p)
Limite
inferiore
1,7
-0,3
-2
CPO 48 h
1,27
0,071
-7,9*10
CPO+H2O
1,63
0,022
0,2
3,1
CPO+PAM 1 µg/l
-,48
0,886
-1,9
1,0
CPO+PAM 10 µg/l
CONTROLLO 48 h
1,13
0,105
-0,2
2,4
1,000
-1,3
1,3
1,71*10
-2
2,6
CPO 48 h
1,75
0,008
0,4
3,1
CPO+H2O
2,11
0,003
0,7
3,5
CPO+PAM 100 ng/l
0,48
0,886
-1,0
1,9
CPO+PAM 10 µg/l
CONTROLLO 48 h
1,61
0,011
0,3
2,9
0,50
0,838
-0,8
1,8
CPO 48 h
0,14
0,999
-1,0
1,3
CPO+H2O
0,50
0,806
-0,8
1,8
-1,13
0,105
-2,4
0,2
-1,61
0,011
-2,9
-0,3
-1,11
0,073
-2,3
-7,3*10-2
CPO 48 h
1,26
0,049
4,3
2,5
CPO+H2O
1,61
0,015
0,3
3,0
1,000
-1,4
1,3
CPO+PAM 10
CPO+PAM 100 ng/l
µg/l
CPO+PAM 1 µg/l
CONTROLLO 48 h
CONTROLLO
Signifi-
Limite
superiore
-9,9
(J) GRUPPO
CPO 48 h
Differenza
tra medie
(I-J)
-2
CPO+PAM 100 ng/l
-1,71*10
CPO+PAM 1 µg/l
CPO+PAM 10 µg/l
-,50
0,838
-1,9
0,9
1,11
0,073
-7,3*10-2
2,3
In conclusione, anche in D. polymorpha si può ipotizzare di utilizzare l’ossima
2-PAM per valutare il tipo di inquinamento che causa una inibizione
dell’acetilcolinesterasi o per riportare l’attività dell’enzima a condizioni basali.
124
Tale evidenza risulta essere di notevole importanza se applicata a programmi
di monitoraggio ambientale in cui questo bivalve venga utilizzato come
organismo
sentinella.
In
questo
modo
sarebbe
possibile
ottenere
una
percentuale di inibizione dell’attività AChE reale, svincolata cioè da altri fattori
non legati a contaminazioni da organofosforici. Altri studi sono necessari per
valutare l’efficacia di questa metodica anche con l’utilizzo di altri contaminanti
(singoli o in miscela), o in presenza di altri stress come ad esempio
temperature diverse da quelle ottimali.
125
3.5 Il monitoraggio dei grandi laghi subalpini
I risultati ottenuti con le prove in laboratorio sono serviti come base per
l’interpretazione dei dati rilevati in una campagna di monitoraggio che ha
interessato tutti i grandi laghi subalpini italiani (Maggiore, Garda, Como, Iseo e
Lugano), effettuata durante la primavera del 2003.
Prima di procedere con le misure dell’attività enzimatica sono stati determinati
alcuni parametri morfometrici e fisiologici, quali la lunghezza delle conchiglie,
la frazione lipidica e il contenuto proteico (Tabella 3.5.1).
Tutti i campionamenti sono stati eseguiti nel mese di maggio, riducendo così
l’eventuale
variabilità
dovuta
a
cambiamenti
fisiologici
legati
al
ciclo
riproduttivo del bivalve o a cambiamenti ambientali (come la temperatura e lo
stato trofico) che avrebbero potuto influenzare l’attività enzimatica. Le
temperature registrate nei diversi bacini lacustri risultano piuttosto simili: in
particolare il valore più elevato è stato rilevato nel Lago di Lugano, con una
media di 20 °C (valore massimo a Porlezza e Pojana, 21,5 °C), mentre quello
più basso è stata misurato nel Lago di Como, con un valore medio di 13,8 °C
(valore minimo a Domaso, 12 °C).
Le lunghezze degli esemplari di D. polymorpha analizzati si attestano tutti
attorno allo stesso valore tranne per gli esemplari prelevati a Limone (Lago di
Garda), che sono notevolmente più piccoli rispetto agli altri (1,5 cm, rispetto
ad un valore medio di 1,9 cm). Anche un altro studio condotto con l’intento di
valutare la presenza di metalli pesanti in Dreissena nei grandi laghi subalpini
ha messo in luce come gli esemplari più piccoli provenissero dalla stazione di
campionamento di Limone (Camusso et al., 2001).
Per calcolare i valori dell’attività enzimatica è stato necessario misurare la
concentrazione delle proteine presenti in ogni campione. Si può notare come le
concentrazioni proteiche risultano piuttosto costanti, attestandosi attorno a
valori di 23-26 mg/ml di estratto S9 o S10. In particolare il valore più basso è
stato riscontrato a Brebbia, Lago Maggiore, (11,4 mg/ml), mentre quello più
alto a Luino, Lago Maggiore (27,1 ± 2,0 mg/ml).
126
I
valori
di
percentuale
lipidica,
piuttosto
costanti
in
tutti
i
siti
di
campionamento, mostrano come tutti gli esemplari analizzati sono stati
prelevati durante il periodo pre-riproduttivo. Il valore di percentuale lipidica più
alto è stato misurato a Giona (Lago Maggiore), con un valore pari al 19,4 %
del peso secco, mentre la più bassa si è riscontrata a Limone (Lago di Garda)
con il 10,3 %.
Il monitoraggio intensivo del Lago Maggiore si inserisce in un progetto di
ricerca volto a determinare gli effetti causati all’ecosistema acquatico dalla
pesante contaminazione da DDT (CIPAIS, 2003), provocata già a partire dal
1996 da un impianto industriale posto nelle vicinanze del fiume Toce. Alle
analisi chimiche, necessarie per il proseguimento di tale ricerca, sono state
affiancate queste indagini basate sui biomarker, con il fine di ricercare altri
contaminanti non previsti dal progetto, e per valutare se potessero esistere
delle sinergie tra i diversi tipi di contaminazione presenti nel lago.
127
Tabella 3.5.1 Temperatura dell’acqua nei siti di campionamento, lunghezza delle conchiglie,
Stazione di
Campionamento
Temp
(°C)
Lunghezza
Media
(cm) ± D.S.
%
lipidica
su peso
secco
Contenuto
proteico
mg / ml ± D.S.
Desenzano
18,5
1,7 (± 0,2)
12,6
24,1 (± 3,6)
Peschiera
18
1,6 (± 0,2)
14,3
18,9
Limone
15
1,5 (± 0,1)
10,3
23,4 (± 2,4)
Magadino
15
2,1 (± 0,2)
18,7
25,6 (± 1,6)
Brissago
14,5
2,1 (± 0,2)
18,4
22,8 (± 1,5)
Cannobio
14
2,0 (± 0,2)
18,8
12,2 (± 0,2)
Giona
11,5
2,0 (± 0,2)
19,4
25,2 (± 1,0)
Luino
15
2,1 (± 0,2)
17,7
27,1 (± 2,0)
Caldè
14,5
2,0 (± 0,2)
19,2
25,5 (± 1,3)
Intra
17
2,0 (± 0,3)
17,3
25,1 (± 0,6)
Pallanza
18
2,1 (± 0,2)
15,9
14,3 (± 0,8)
Laveno
14
1,7 (± 0,2)
15,4
21,3 (± 2,3)
Baveno
17
2,3 (± 0,2)
17,2
19,4 (± 11,2)
Stresa
16
2,0 (± 0,2)
17,9
26,9 (± 2,4)
Brebbia
20
2,4 (± 0,3)
13,7
11,4
Ranco
18
2,1 (± 0,2)
15,5
24,5 (± 3,4)
Arona
18
2,1 (± 0,3)
14,4
14,4 (± 5,2)
Domaso
12
1,7 (± 0,2)
16,3
25,7 (± 0,6)
Argegno
15,5
1,7 (± 0,3)
15,0
25,3
Lecco
14
1,7 (± 0,2)
15,1
23,6 (± 1,3)
ISEO
Costa Volpino
16,5
1,7 (± 0,2)
14,8
26,8 (± 3,8)
Predore
16
1,7 (± 0,2)
13,6
22,8 (± 3,7)
LUGANO
percentuale lipidica su peso secco e contenuto proteico degli esemplari di D. polymorpha.
Brusimpiano
20
2,0 (± 0,1)
12,5
27,1
Porlezza
21,5
1,9 (± 0,2)
11,6
25,2
Pojana
21,5
1,9 (± 0,1)
14,0
23,9
COMO
MAGGIORE
GARDA
LAGHI
128
3.5.1
Attività EROD e MROD
L’attività del CYP450 misurata nei diversi campioni prelevati nei grandi laghi
subalpini (Fig. 3.5.1 e 3.5.2) risulta tendenzialmente più bassa rispetto a
quella rilevata da una ricerca condotta da de Lafontaine et al., (2000) su D.
polymorpha, che ha misurato valori di attività EROD pari a 40 pmoli/min/mg
proteine. In altri studi, l’attività EROD misurata in alcune specie ittiche è
risultata molto variabile; per esempio, in esemplari di Cyprinus carpio si passa
da valori di circa 2 pmoli/min/mg proteine fino a livelli di 4600 pmoli/min/mg
proteine (Ueng et al., 1992, Ahokas et al., 1994). E’ importante sottolineare
che, mentre i dati bibliografici sono tutti riferiti all’impiego di singoli organi
(branchie, epatopancreas, fegato), i nostri risultati sono stati ottenuti
utilizzando l’intero corpo dell’animale. Tale peculiarità ci ha permesso di
rendere la fase analitica più semplice e rapida, ma nello stesso tempo ha
determinato una diluizione degli enzimi delle MFO nell’estratto S9, abbassando
di conseguenza i livelli di attività misurabili. Inoltre, le dimensioni e l’anatomia
dell’epatopancreas di Dreissena non consentono di separarlo dal resto del
corpo senza rischiare di danneggiarlo e liberare gli estratti epatici.
EROD e MROD rappresentano i substrati specifici per la famiglia CYP1A1, che
viene attivata da un’ampia varietà di composti chimici con proprietà strutturali
e tossicologiche simili. Dal confronto tra l’attività EROD e MROD ottenuta nei
nostri campioni (Fig. 3.5.1 e 3.5.2.) emerge chiaramente come il primo
substrato abbia una maggiore affinità con gli enzimi della famiglia del CYP1A1
presente in tale bivalve, anche se non è possibile escludere la presenza di altre
famiglie
del
citocromo
che
possono
essere
attivate
dall’esposizione
a
contaminanti diversi. In Daphnia pulex, ad esempio, un’indagine compiuta
mediante marcatori molecolari ha messo in evidenza che i polifenoli attivano
alcune sottofamiglie del CYP4 (David et al., 2003), mentre Fossi (1998) indica
come
la
famiglia
enzimatica
CYP2B
venga
selettivamente
indotta
dall’esposizione ad insetticidi organoclorurati. Nel mitilo (M. galloprovincialis) è
stato identificato anche un gene che codifica per la isoforma CYP4Y1, oltre alla
classica famiglia CYP1A1.
129
I risultati ottenuti hanno mostrato che la distribuzione dei dati non segue una
distribuzione normale (Test di Levène significativo, p<0,05 sia per EROD che
MROD), di conseguenza è stato scelto un test post-hoc non parametrico per
controllare la significatività delle differenze rispetto ai controlli. Questo test
permette di analizzare anche dati distribuiti in modo non-gaussiano, ma risente
molto delle deviazioni standard elevate, per cui spesso risultano non
significativi dei confronti in cui, con altri tipi di test, tali differenze sarebbero
evidentemente tali.
I risultati ottenuti per il Lago di Garda (Tab. 3.5.2) mostrano un’attività EROD
significativamente più alta rispetto ai controlli nel sito di Desenzano (ANOVA,
Tamhane post-hoc test, p<0,01). L’elevata differenza riscontrata nel sito di
Peschiera è non statisticamente significativa solo a causa della elevata
deviazione standard calcolata. Nella stessa stazione infatti l’attività MROD è
invece risultata significativamente più alta rispetto al controllo (ANOVA,
Tamhane post-hoc test, p<0,01) (Tab. 3.5.3). La causa del possibile
inquinamento di questo sito potrebbe essere ricercata nella particolare zona di
campionamento, in quanto il prelievo dei molluschi è stato effettuato a non più
di 200 m dal parco di divertimenti “Gardaland”, dove il pesante traffico
veicolare, gli eventuali scarichi accidentali dovuti a emissioni di varia natura e
al dilavamento del terreno eventualmente contaminato potrebbero determinare
una diminuzione della qualità del tratto lacustre antistante, con un rilascio di
sostanze pericolose per la biocenosi acquatica, come segnalato dall’utilizzo del
biomarker considerato.
Il Lago di Lugano, invece, evidenzia una probabile sorgente puntiforme
d’inquinamento, in quanto la stazione di Brusimpiano raggiunge valori di
attività EROD quasi doppi rispetto ai controlli (Tab 3.5.2) (ANOVA, Tamhane
post-hoc test, p<0,01), confermata anche dalla misura della MROD (Fig.
3.5.1). Tale sorgente di contaminazione potrebbe essere riconducibile al
Torrente S. Pietro che sfocia tra i comuni di Porto Ceresio e Brusimpiano e che
trasporta i carichi inquinanti prodotti da una zona fortemente industrializzata.
Gli altri due siti di prelievo, al contrario, risultano praticamente identici ai
controlli, a causa del fatto che Pojana è localizzata all’inizio di un braccio chiuso
130
e piuttosto distante dall’area maggiormente antropizzata di Lugano, mentre
Porlezza
si
trova
nella
zona
più
settentrionale
del
bacino
lacustre,
caratterizzato da un basso impatto antropico e dalla scarsa presenza di scarichi
industriali. Si può osservare come tale punto di campionamento sia quello che
presenta la maggiore differenza tra l’attività EROD e MROD rispetto agli altri
siti con una situazione molto più omogenea. Nel Lago di Como (Fig. 3.5.1) si
può evidenziare una diffusa attivazione dell’attività EROD, significativamente
più alta dei controlli sia per Argegno che per Domaso (ANOVA, Tamhane posthoc test, p<0,01), mentre la MROD conferma l’andamento, ma non le
differenze con i valori di riferimento. L’attività EROD più alta misurata ad
Argegno è probabilmente legata alla maggiore stagnazione dei contaminanti
nel sottobacino comasco, caratterizzato da un elevato tempo di ricambio delle
acque. Una precedente ricerca (Binelli et al., 2001b) ha dimostrato, infatti,
come
esista
un
andamento
decrescente
della
concentrazione
di
PCB,
spostandosi dalla città di Como verso la congiunzione dei tre sottobacini e che i
livelli di tali composti sfioravano i 2 µg/g lipidi in D. polymorpha.
Il Lago d’Iseo ha presentato una contaminazione simile per entrambe le
stazioni di campionamento, anche se né l’attività EROD né la MROD sono
risultate differenti statisticamente rispetto ai controlli perché, come evidenziato
nel caso di Peschiera sul Garda, la deviazione standard è risultata piuttosto
elevata. La zona di Predore è ricca di insediamenti industriali (industrie
siderurgiche, nautiche e cementifici) che caratterizzano la zona meridionale del
bacino (Tab. 3.5.2). Esiste anche una seconda ipotesi: tenendo conto che i
metalli pesanti hanno un effetto inibitorio sull’attività del CYP450, l’attività
EROD misurata a Costa Volpino potrebbe essere ridotta, e quindi sottostimata,
dalla cospicua presenza di tali contaminanti inorganici, come rilevato da
Camusso et al. (2001).
131
Tabella 3.5.2: Differenze tra siti e controlli con valori di significatività statistica per l’attività
EROD (* p<0,05; ** p<0,01, n.s. non significativo. ANOVA, Tamhane post-hoc test).
Differenza fra
EROD
medie (I-J)
Significatività Intervallo di confidenza
(p)
95%
Sito (I)
Sito (J)
(pmol/min mg prot.)
Controlli
Desenzano
-1,1
n.s.
-9,3
7,1
Limone
-1,3
**
-2,1
-0,6
Peschiera
-2,5
n.s.
-24,3
19,4
Predore
-1,4
n.s.
-20,8
18,1
Costa Volpino
-0,8
n.s.
-11,8
10,2
Domaso
-0,8
**
-1,5
0,0
Argegno
-1,4
**
-2,1
-0,7
Lecco
-0,7
n.s.
-26,9
25,5
Pojana
-0,3
n.s.
-10,9
10,3
Brusimpiano
-1,2
**
-2,0
-0,4
Porlezza
-0,2
n.s.
-2,4
2,0
Magadino
0,9
n.s.
0,0
1,8
Brissago
-0,2
n.s.
-8,8
8,4
Cannobbio
-0,1
n.s.
-1,0
0,8
Caldè
0,8
n.s.
-0,2
1,8
Giona
0,4
n.s.
-2,0
2,8
Luino
0,9
**
0,2
1,6
Intra
-0,3
n.s.
-1,0
0,4
Pallanza
0,8
n.s.
-6,5
8,0
Laveno
0,6
n.s.
-0,6
1,8
Baveno
0,0
n.s.
-1,0
0,9
Stresa
0,2
n.s.
-1,9
2,3
Brebbia
0,6
n.s.
-7,5
8,7
Ranco
-1,1
**
-1,8
-0,3
Arona
0,2
n.s.
-2,3
2,6
132
pmol/min mg prot.
5.00
4.50
4.00
3.50
3.00
2.50
2.00
1.50
1.00
0.50
0.00
Porlezza
Como
Brusimpiano
Pojana
Lecco
Iseo
Argegno
Domaso
C. Volpino
Garda
MROD
Predore
Limone
Peschiera
Desenzano
Controlli
EROD
Lugano
Fig. 3.5.1: Attività EROD e MROD nei laghi Garda, Iseo, Como e Lugano rispetto ai valori di
pmol/min mg prot.
controllo
5.00
4.50
4.00
3.50
3.00
2.50
2.00
1.50
1.00
0.50
0.00
Arona
Ranco
Brebbia
Stresa
Baveno
Laveno
Pallanza
Intra
Caldè
Luino
Giona
Cannobio
Brissago
Magadino
Controlli
EROD
MROD
Fig. 3.5.2: Attività EROD e MROD nel Lago Maggiore rispetto ai valori di controllo
133
Una recente ricerca, effettuata con lo scopo di rilevare la presenza di metalli
nei grandi laghi subalpini utilizzando il bivalve D. polymorpha, ha messo in luce
come anche il Lago Maggiore presentasse le concentrazioni più elevate per
quasi tutti i metalli presi in considerazione (Cd, Co, Cr, Hg, Pb e Zn) rispetto
agli altri laghi (Camusso et al., 2001), situazione confermata anche da
numerose indagini svolte sui sedimenti lacustri (CIPAIS, 2003) che hanno, tra
l’altro, evidenziato una diminuzione della contaminazione da metalli pesanti
andando da nord a sud pari a 1,4 volte per il Cu, di 5 per l’As e di circa 3 volte
per Hg, mentre le concentrazioni di Cd sembrano avere un comportamento
simile tra le diverse zone del Lago Maggiore.
Il duplice effetto inibitorio dei metalli ed attivante dei composti planari
potrebbe essere la causa della situazione rilevata nel Lago Maggiore. Le attività
EROD e MROD, infatti, sono caratterizzate da un’inibizione media rispetto ai
controlli del 41,3% e 31,7% rispettivamente e da un’induzione media rispetto
ai controlli del 24% e 19,1% rispettivamente. Un'altra possibilità è che la
concentrazione di composti planari sia talmente elevata da causare una
inibizione dell'attività del CYP450, come talvolta segnalato in letteratura ed
anche negli esperimenti già discussi di esposizione di D. polymorpha al PCB126.
Il particolare comportamento di tale biomarker rilevato nel Verbano indica la
necessità di approfondire il problema dei controlli che servono come confronto
con i siti ritenuti più inquinati. Se, infatti, non avessimo utilizzato come
controllo i risultati ottenuti da organismi stabulati in condizioni di laboratorio,
ma il valore più basso rilevato a Luino, le nostre conclusioni sarebbero state
completamente diverse, evidenziando una pesante e pericolosa contaminazione
da composti planari nel Lago Maggiore, con numerose aree a forte rischio
ambientale. La scelta, quindi, di utilizzare siti di controllo non contaminati può,
a volte, rivelarsi errata, soprattutto se siamo in presenza di un inquinamento
provocato da composti con azione opposta nei confronti del biomarker scelto.
La diversa incidenza delle due azioni (attivazione e inibizione), però, non è
attualmente quantificabile, in quanto mancano completamente dei dati
bibliografici a riguardo. E’ comunque ipotizzabile che, in aree dove l’inibizione
134
misurata è particolarmente intensa, come nel caso dell’attività EROD nel sito di
Luino, in cui l’inibizione è risultata statisticamente significativa (ANOVA,
Tamhane post-hoc test, p<0,01) l’azione degli inibitori sia dominante. Al
contrario, i valori misurati statisticamente più alti rispetto ai controlli misurati a
Ranco indicherebbero la prevalenza dell’effetto dovuto ai composti planari visto
che è stata calcolata un’induzione significativa del 74,8% (ANOVA, Tamhane
post-hoc test, p<0,01). I valori MROD rispecchiano quelli dell’EROD, anche se
ci sono alcune differenze; infatti, il valore massimo di variazione rispetto al
controllo è stato riscontrato a Intra, zona di forte traffico veicolare e di natanti
che possono essere la causa di rilascio in acqua di idrocarburi. E’ noto, inoltre,
che nella zona, in corrispondenza della foce del torrente San Bernardino, è
presente uno scarico industriale che immette, tra le altre cose, acetammide e
formaldeide. Sebbene non ci siano dati relativi all’influenza di questi composti
sulle attività EROD e MROD, è possibile che essi possano stimolare l’attività
detossificante dell’organismo.
135
Tabella 3.5.3: Differenze tra siti e controlli con valori di significatività statistica per l’attività
MROD (* p<0,05; ** p<0,01; n.s. non significativo. ANOVA, Tamhane post-hoc test)
Differenza fra
MROD
medie (I-J)
Significatività
(p)
Intervallo di
confidenza 95%
(pmol/min mg
Sito (I)
Sito (J)
Controlli
Desenzano
-0,28
n.s.
-3,68
3,13
Limone
-0,10
n.s.
-10,26
10,06
Peschiera
-1,34
**
-2,01
-0,68
Predore
-0,40
n.s.
-1,46
0,66
Costa Volpino
-0,49
n.s.
-1,22
0,24
Domaso
0,08
n.s.
-1,76
1,92
Argegno
-0,71
n.s.
-5,52
4,10
Lecco
-0,24
n.s.
-3,75
3,28
Pojana
-0,18
n.s.
-1,63
1,27
Brusimpiano
-1,00
n.s.
-3,98
1,98
Porlezza
0,36
n.s.
-0,31
1,04
Magadino
0,44
n.s.
-1,13
2,01
Brissago
-0,03
n.s.
-4,88
4,81
Cannobbio
0,21
n.s.
-9,88
10,30
Giona
0,43
n.s.
-1,40
2,25
Caldè
0,50
n.s.
-0,38
1,37
Luino
0,52
n.s.
-0,18
1,21
Intra
-0,60
n.s.
-15,78
14,57
Laveno
0,41
n.s.
-0,29
1,11
Pallanza
0,08
n.s.
-1,08
1,25
Baveno
0,06
n.s.
-0,60
0,73
Stresa
0,35
n.s.
-1,32
2,01
Brebbia
0,50
n.s.
-6,36
7,35
Ranco
-0,07
n.s.
-2,91
2,77
Arona
-0,09
n.s.
-0,97
0,79
prot.)
136
3.5.2
Attività AChE
I dati dell’attività AChE ottenuti nei bivalvi prelevati nei grandi laghi subalpini
hanno evidenziato una contaminazione diffusa dovuta alla presenza di composti
organofosforici e carbammati, in grado di causare un'inibizione significativa
dell'attività di questo enzima. È stata effettuata un’analisi statistica per
evidenziare l’esistenza di differenze significative tra le attività AChE misurate in
situ e l’attività “basale”. A causa dell’effetto della temperatura, già evidenziato
nel paragrafo 3.2.2, è stata effettuata un’analisi della covarianza (ANCOVA)
utilizzando la temperatura come variabile covariata. Una volta trovate delle
differenze significative, sono stati effettuati dei test a confronti multipli
(Bonferroni) per evidenziare differenze tra i singoli siti ed i controlli.
Le figure 3.5.3 e 3.5.4 mostrano come l’inibizione dell’attività AChE degli
esemplari di D. polymorpha campionati nella maggior parte delle stazioni indichi
una preoccupante contaminazione da composti organofosforati o carbammati.
Il dato medio dell’attività AChE, calcolato per le tre stazioni del Lago di Garda, è
più di 3 volte inferiore al valore medio dei controlli stabulati (ANCOVA,
Bonferroni post-hoc; p<0,01) (Tab. 3.5.4), mettendo in luce la presenza di una
forte contaminazione legata a composti anticolinesterasici. Il livello di attività
catalitica misurato a Limone risulta leggermente superiore a quelli di Desenzano
e Peschiera, posti rispettivamente nel sottobacino occidentale ed orientale, a
maggiore valenza turistica. La contaminazione da composti organofosforici
dovrebbe effettivamente essere minore nel sottobacino settentrionale, a causa
delle sue caratteristiche morfologiche, che ne limitano l’attività agricola per la
scarsa presenza di tratti pianeggianti o terrazzamenti.
Anche per il Lago d’Iseo la situazione si presenta simile: la misura dell’AChE ha
messo in evidenza una forte contaminazione da composti organofosforici e
carbammati, in quanto i livelli di attività enzimatica, in entrambe le stazioni di
prelievo, sono inferiori di oltre il 60% rispetto al valore basale, con differenze
altamente significative (ANCOVA, Bonferroni post-hoc; p<0,01) (Tab. 3.5.4).
Il fatto che il confronto tra Costa Volpino e Predore non presenti differenze
significative, potrebbe indicare che le fonti inquinanti siano per lo più di origine
diffusa, in quanto i due punti di campionamento si trovano agli estremi opposti
137
del lago. Un’altra possibile sorgente di contaminazione di questi composti ad
attività anti-AChE potrebbe essere legata al Fiume Oglio, il maggiore tributario
al lago, che attraversa la Valle Camonica, area a forte valenza agricola. Poiché
la sua immissione si trova in corrispondenza del punto più settentrionale
dell’Iseo,
essa
potrebbe
determinare
una
omogeneizzazione
della
contaminazione nell’intero bacino.
Nei tre diversi sottobacini del Lario è stata rilevata una contaminazione
preoccupante, anche se piuttosto disomogenea in quanto, a fronte di differenze
tutte altamente significative (p<0,01) rispetto ai controlli (Tab. 3.5.4), i livelli di
attività catalitica osservati a Domaso sono inferiori di circa il 40% rispetto ad
Argegno e di quasi il 50% se confrontati con il punto di prelievo posto nel
sottobacino orientale. La zona settentrionale risulta più contaminata (Fig. 3.5.3)
in quanto, probabilmente, interessata più direttamente dal trasporto di
composti anticolinesterasici dal Fiume Adda, che riversa a lago i prodotti
utilizzati in agricoltura impiegati in Valtellina, zona in cui sono presenti
numerose serre, frutteti e vigneti.
nmol/min mg prot
7
6
5
4
3
2
1
0
Porlezza
Brusimpiano
Pojana
Como
Lecco
Argegno
Domaso
Iseo
C. Volpino
Predore
Limone
Peschiera
Desenzano
Controlli
Garda
Lugano
Fig. 3.5.3: Andamento dell’attività AChE nei laghi Garda, Iseo, Como e Lugano rispetto ai
valori di controllo
La situazione del Lago di Lugano risulta la migliore tra tutte quelle rilevate nei
grandi laghi subalpini italiani, in quanto l’attività AChE misurata nelle tre
138
stazioni di prelievo è uguale o, addirittura, superiore rispetto ai dati di controllo.
Tali differenze non risultano statisticamente significative (Tab. 3.5.4), anche nel
sito di Brusimpiano, dove è stato possibile effettuare solo 2 misurazioni e quindi
non è possibile fare considerazioni sulla significatività statistica, e addirittura
confermano l’attendibilità dei dati impiegati per ricavare l’attività catalitica
basale. In letteratura, è citato solo un esempio di aumento dell’attività AChE in
esemplari di Sparus auratus esposto a concentrazioni subletali di rame (Romani
et al., 2003): nessuna conferma è stata riscontrata in studi eseguiti sui
molluschi, e quindi questo fenomeno dovrebbe essere verificato.
Il Lago di Lugano risulta quindi il meno contaminato, almeno dalle sostanze
anti-AChE, probabilmente per il fatto che le caratteristiche morfologiche ed
idrologiche del bacino imbrifero non consentono un’intensa attività agricola e un
successivo drenaggio di composti fitosanitari nel lago. Potrebbe essere
possibile, eventualmente, utilizzare individui prelevati da questo lago come
organismi di controllo, nel caso si volesse evitare la procedura di mantenimento
in laboratorio.
Nel Lago Maggiore l’analisi dei nostri dati ha mostrato una situazione
preoccupante
per
la
contaminazione
da
organofosforati,
evidenziata
dall’inibizione dell’attività AChE, misurata in quasi tutti i punti monitorati (Fig.
3.5.4). L’inquinamento è più marcato nella regione settentrionale e mediana,
mentre l’enzima sembra non risentire dell’inibizione nel bacino meridionale, in
prossimità dell’emissario (Fiume Ticino). La contaminazione del bacino
settentrionale potrebbe essere dovuta al trasporto di sostanze fitosanitarie dal
Fiume Ticino, dal Maggia e dal Verzasca, alcuni tra i principali affluenti del
lago che attraversano zone a forte valenza agricola. La zona centrale del lago
e la Baia di Pallanza hanno presentato dei valori d’inibizione leggermente
inferiori rispetto al bacino settentrionale, dovuti probabilmente alla minore
quantità di contaminanti trasportati dal Fiume Toce, che entra nel lago a
livello della baia. Un’altra ipotesi è data dalla possibilità che la zona possa
risentire della contaminazione proveniente da nord, in quanto esistono
correnti superficiali in grado di trasportare gli inquinanti, in particolare in
presenza di venti settentrionali (Barbanti e Carollo, 1963). Il bacino
139
meridionale, corrispondente ai siti di campionamento di Brebbia e Ranco, non
ha
evidenziato
differenze
rispetto
ai
controlli,
probabilmente
a
causa
dell’assenza di composti organofosforati, di utilizzo prevalente agricolo e con
un tempo di degradazione piuttosto basso (Ohshiro et al., 1996; Parisi,
2002a). Tale risultato indica anche che i due fiumi Bardello, che proviene dal
Lago di Lugano, e Brebbia non sembrano trasportare contaminanti di questo
tipo, non rappresentando dunque sorgenti di contaminazione puntiforme. Le
elevate inibizioni rilevate in zone a forte interesse naturalistico come le Bolle
di Magadino, nei pressi dell’immissione del Ticino, e la zona di Fondotoce, in
corrispondenza dell’immissione del Toce, considerata una delle aree umide più
importanti del nord Italia, rendono sicuramente necessario un ulteriore
approfondimento sulle cause della contaminazione e sugli effetti che può
provocare
sulla
biocenosi
acquatica.
Inoltre,
in
alcuni
studi,
è
stato
evidenziato che un’inibizione dell’AChE superiore al 60%, come rilevato nelle
stazioni di Magadino, Brissago, Giona, Luino e Stresa, possa portare alla
morte di alcuni individui o danneggiare in modo significativo alcune
popolazioni più sensibili (Fuller, 1980; Fleming et al., 1995; Sibley et al.,
2000), anche se spesso è difficile prevedere gli effetti a livello di popolazione
basandosi solamente su dati derivati dalla misura dei biomarker (Hyne e
Maher, 2003). Scorporando i risultati ottenuti nelle due sponde occidentale ed
orientale del Verbano, è stato possibile rilevare una differente situazione di
contaminazione. Mentre, infatti, la sponda piemontese presenta valori di
attività decisamente variabili, che testimoniano la presenza di sorgenti
puntiformi legate alla notevole attività agricola e turistica, la sponda lombarda
evidenzia un’inibizione rispetto ai controlli decrescente andando da nord
(Magadino) a sud (Ranco). E’ da sottolineare inoltre come la U.S. E.P.A.
consideri “inibizione biologicamente significativa” una diminuzione di attività
AChE pari o superiore al 20% rispetto al livello basale, anche se sottolinea che
qualsiasi diminuzione statisticamente significativa inferiore al 20%, o non
statisticamente
significativa
superiore
allo
stesso
valore
percentuale,
andrebbe indagata con studi più approfonditi (U.S. EPA, 1998). Molti dei nostri
dati superano tale valore, rendendo quindi auspicabile continuare il controllo
140
di queste classi di contaminanti e degli effetti provocati sull’ambiente (Tab.
3.5.4).
4,00
nmol/min mg prot
3,50
3,00
2,50
2,00
1,50
1,00
0,50
0,00
Arona
Ranco
Brebbia
Stresa
Baveno
Laveno
Pallanza
Intra
Caldè
Luino
Giona
Cannobio
Brissago
Magadino
Controlli
Fig. 3.5.3: Andamento dell’attività AChE nel Lago Maggiore rispetto ai valori di controllo
E' da segnalare inoltre che la presenza di altri composti, come IPA, metalli o
erbicidi può potenziare l'effetto inibitorio di organofosforati e carbammati
sull'attività AChE. Di conseguenza, potrebbe essere utile confrontare i dati
ottenuti da altri biomarker per ottenere delle conferme di questa sinergia.
Alcuni valori di inibizione misurati raggiungono infatti i livelli ottenuti nelle
prove di laboratorio, eseguite utilizzando concentrazioni molto elevate di
contaminante, situazione presumibilmente molto peggiore di quella presente in
campo.
141
Tabella 3.5.4: Differenze tra siti e controlli con valori di significatività statistica per l’attività
AChE (* p<0,05; ** p<0,01; n.s. non significativo. ANCOVA, Bonferroni post-hoc test)
AChE
Differenza fra
Sito (I)
Sito (J)
Controlli
Significatività
medie (I-J)
Intervallo di
confidenza 95%
(nmol/min mg prot.)
(p)
Desenzano
2,05
**
0,87
3,23
Limone
1,46
**
0,30
2,63
Predore
1,65
**
0,49
2,82
Costa Volpino
1,77
**
0,61
2,94
Domaso
1,56
**
0,38
2,73
Argegno
1,54
**
0,38
2,71
Lecco
1,21
*
0,05
2,38
Pojana
-1,13
n.s.
-2,36
0,10
Porlezza
-0,67
n.s.
-1,90
0,56
Magadino
1,87
**
0,70
3,03
Brissago
1,80
**
0,63
2,96
Cannobbio
1,15
*
0,01
2,32
Giona
1,40
**
0,21
2,58
Caldè
1,36
**
0,19
2,52
Laveno
0,80
n.s.
-0,36
1,97
Intra
1,39
**
0,22
2,56
Baveno
1,54
**
0,37
2,71
Luino
1,11
n.s.
-0,06
2,27
Ranco
-0,14
n.s.
-1,32
1,03
Stresa
1,64
**
0,47
2,80
Magadino
1,87
**
0,70
3,03
Pallanza
1,60
**
0,42
2,77
Arona
1,39
**
0,20
2,57
142
3.6 Valutazione del rischio ambientale
Per poter formulare una valutazione del rischio ambientale dei grandi laghi
subalpini, parallelamente alle misure di attività enzimatica, sono state condotte
analisi chimiche volte a determinare l’effettiva concentrazione di alcuni
contaminanti nei tessuti dei molluschi prelevati nei laghi.
I composti analizzati sono stati:
pp’DDT e relativi composti omologhi
PCB
Isomeri dell’HCH (α,β,γ,δ)
HCB
Chlorpyrifos (CP) e metabolita ossidato (CPO)
Erbicidi: terbutilazina, alachlor e metolachlor
I risultati delle analisi sono rappresentati nelle figure 3.6.1 (Lugano, Como,
Iseo
e
Garda)
e
3.6.2
(Maggiore).
E’
evidente
come
la
principale
contaminazione rilevata sia quella dovuta ai PCB, particolarmente nella zona
meridionale del Lago Maggiore, nell’intero Lago di Como e nel sito di Costa
Volpino (Lago d’Iseo). Il Lago Maggiore, come noto, è stato interessato da una
preoccupante contaminazione da DDT e metaboliti, tuttora rilevata (Binelli et
al., 2004a), in particolare nella zona della baia di Pallanza e quella di Brebbia.
Gli altri inquinanti monitorati non hanno invece mostrato concentrazioni
significative in nessuno dei siti di campionamento.
143
ng/g lip.
0
500
1000
1500
2000
2500
3000
Desenzano
Peschiera
Limone
Predore
C. Volpino
Domaso
Argegno
Lecco
Pojana
Brusimpiano
Porlezza
HCB
SUMHCH
SUMDDT
SUMPCB
SUMERB
SUMCP
Fig. 3.6.1: concentrazione degli inquinanti nei tessuti di D. polymorpha prelevate nei laghi
Garda, Iseo, Como e Lugano. (SUMHCH= α, β, γ, δ HCH; SUMDDT= op’ - pp’ DDE, DDD e DDT;
SUMPCB= somma dei PCB totali;
SUMERB= terbutilazina, alachlor e metolachlor; SUMCP=
chloorpyrifos e chlorpyrifos-oxon)
144
ng/g lip.
0
500
1000
1500
2000
Magadino
Brissago
Cannobio
Giona
Luino
Caldè
Intra
Pallanza
Laveno
Baveno
Stresa
Brebbia
Ranco
Arona
HCB
SUMHCH
SUMDDT
SUMPCB
SUMERB
SUMCP
Fig. 3.6.2: concentrazione degli inquinanti nei tessuti di D. polymorpha prelevate nel Lago
Maggiore. (SUMHCH= a,b,g,d HCH; SUMDDT= op’ - pp’ DDE, DDD e DDT; SUMPCB= somma
dei PCB totali; SUMERB= terbutilazina, alachlor e metolachlor; SUMCP= Chlorpyrifos e
Chlorpyrifos-oxon)
145
Per cercare di stabilire se esistessero delle relazioni tra le concentrazioni di
contaminanti misurate e le attività enzimatiche utilizzate come biomarker, è
stata utilizzata la metodologia della PCA (Principal Component Analysis),
utilizzando come variabili le concentrazioni dei principali inquinanti, la misura
dei biomarker e alcuni variabili sia abiotiche (temperatura di prelievo) che
biotiche (Frazione lipidica e lunghezza degli organismi) (Fig. 3.6.3).
Fig. 3.6.3: PCA eseguita sui dati ottenuti da tutti i laghi campionati
Il grafico dei pesi fattoriali evidenzia che non ci sono relazioni dirette tra gli
inquinanti misurati ed i biomarker utilizzati. Lo scopo principale di questo
studio è infatti quello di evidenziare contaminazioni diverse da quelle
facilmente misurabili con procedure analitiche “classiche”.
Il gruppo dei DDT (in blu nel grafico) è infatti decisamente separato sia da
quello dei PCB (in rosso) che da quello dei biomarker (in verde). Variabili che si
pongono vicine nel grafico sono, come noto, portatrici di un’informazione
simile, e quindi correlate direttamente tra loro. Un esempio è facilmente
osservabile per la vicinanza tra il valore di temperatura di prelievo e l’attività
146
AChE che, come precedentemente dimostrato, è fortemente influenzata da
questo parametro ambientale.
Nonostante che i PCB siano potenzialmente in grado di indurre l’attività EROD
e MROD, e che quindi ci si potesse aspettare di trovare una correlazione tra i
valori di attività enzimatica e concentrazione di questi composti, dal grafico si
deduce che nel nostro caso ciò non si è verificato. Probabilmente, le
concentrazioni dei PCB dioxin-like (non essendo infatti stati rilevati i PCB
coplanari) non sono sufficientemente alte da causare un’induzione diretta del
CYP450. Le concentrazioni misurate negli esperimenti condotti in laboratorio
(paragrafo 3.2.1) hanno dimostrato un’attivazione a concentrazioni nei tessuti
fino a 500-600 ng/g lipidi per l’Aroclor 1260 e fino a circa 500 ng/g lipidi per il
PCB-126. A concentrazioni più alte, l’attività EROD mostrava invece un rapido
decremento.
I risultati in campo mostrano, effettivamente, un andamento in crescita
dell’attività EROD fino a concentrazioni di circa 800 ng/g lipidi di PCB (Fig.
3.6.4).
4.5
EROD (pmol/min mg)
4
3.5
3
2.5
R2 = 0.70
2
1.5
1
0.5
0
300
400
500
600
700
800
900
PCB (ng/g lip.)
Fig. 3.6.4: andamento dell’attività EROD in stazioni di prelievo con concentrazione di PCB
misurata fino a 800 ng/g lip.
Il coefficiente di correlazione di Spearman (ρ=0,43; p=0,097) non è
particolarmente elevato, ma il valore del p-level è vicino alla soglia di
significatività. Ciò potrebbe indicare come, aumentando il numero di campioni,
147
tale correlazione possa diventare significativa. Anche la presenza di altri
inquinanti non misurati in questa ricerca, che potrebbero influenzare l’attività
EROD, potrebbe essere alla base del basso valore di correlazione trovato. La
possibile presenza di ulteriori fattori di disturbo o inibizione (come i metalli
pesanti) rende difficile quantificare la reale presenza dei composti che attivano
il CYP450.
Le stesse considerazioni sembrano valere per l’attività MROD, con una analoga
attivazione fino a concentrazioni di PCB di circa 800 ng/g lipidi, e una
successiva inibizione a concentrazioni più elevate. Utilizzando tutti i dati,
l’andamento generale sembra confermare questa ipotesi sia per EROD che
MROD, anche se i valori di R2 sono piuttosto bassi, e quindi per il momento non
molto attendibili: ulteriori ricerche sono necessarie per confermare questo
andamento (Fig. 3.6.5 e 3.6.6).
EROD (pmol/min mg prot)
4.5
4
3.5
3
2.5
2
2
R = 0.34
1.5
1
0.5
0
0
500
1000
1500
2000
PCB (ng/g lip)
Fig. 3.6.5: andamento dell’attività EROD rispetto alle concentrazioni di PCB misurate in tutti i
siti di campionamento
148
MROD (pmol/min mg prot)
3
2.5
2
2
R = 0.25
1.5
1
0.5
0
0
500
1000
1500
2000
PCB (ng/g lip)
Fig. 3.6.6: andamento dell’attività MROD rispetto alle concentrazioni di PCB misurate in tutti i
siti di campionamento
Una situazione inattesa si ritrova se si analizzano le relazioni esistenti tra
attività EROD e MROD, e le concentrazioni di DDT e relativi metaboliti.
Osservando il grafico della PCA (Fig. 3.6.3) si può subito notare come esista
una forte simmetria rispetto all’origine degli assi tra la posizione di queste
variabili. Tale simmetria è indice di correlazione inversa, come evidenziato
nella tabella 3.6.1.
Tab. 3.6.1: correlazioni (ρ di Spearman) e valori di significatività tra i valori di attività EROD e
MROD e le concentrazioni di DDT e metaboliti. In rosso i valori di
ρ
ρ > 0,7. (N=25)
EROD
MROD
Significatività
Significatività
(p)
ρ
(p)
op' DDE
- 0.46
0.022
- 0.45
0.023
pp' DDE
- 0.63
<0.001
- 0.45
0.024
op' DDD
- 0.77
<0.001
- 0.66
<0.001
pp' DDD
- 0.78
<0.001
- 0.64
0.001
op' DDT
-0.59
0.002
- 0.44
0.028
pp' DDT
-0.69
<0.001
- 0.49
0.012
Somma DDT
- 0.77
<0.001
- 0.65
<0.001
149
I valori
di correlazione sono risultati tutti altamente significativi, con
ρ compresi tra – 0,44 e – 0,77. I valori più elevati sono indice di forte
correlazione e sono confermati dall’alta significatività statistica.
Non sono reperibili, in letteratura, dati che attestino un’azione di tal genere. Al
contrario, sembra che il DDT sia in grado di attivare la famiglia 2B del CYP450
(Fossi, 1998), mentre non abbia nessun effetto sul CYP1A1.
Tuttavia, analizzando nel dettaglio i singoli siti, è possibile osservare come
quelli più contaminati (come Baveno e Stresa, e in generale tutti quelli del
Lago Maggiore) si trovino tutti nella parte destra del grafico, corrispondente ad
attività EROD più bassa (Fig. 3.6.7). Al contrario, siti con una bassa
concentrazione di pp’ DDD si trovano nella parte sinistra del grafico,
corrispondente ad un’alta attività enzimatica. Di conseguenza, è ipotizzabile
come la presenza di DDT (e dei suoi metaboliti) non sia in grado di attivare
l’attività EROD, ma che al contrario alte concentrazioni di questi composti
possano avere un effetto di inibizione competitiva, come già dimostrato per
altre sostanze (Petrulis e Bunce, 1999).
Fig. 3.6.7: relazione tra
concentrazione di pp’ DDD
ed attività EROD, misurati in
tutti i siti di campionamento
150
Non sono state trovate relazioni significative, invece, tra l’attività AChE e gli
inquinanti monitorati. Neanche la presenza di Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-oxon
sembra
influenzare
l’attività
AChE,
nonostante
le
note
proprietà
anticolinesterasiche di questi composti. E’ probabile che la presenza di altri
inquinanti, pur non agendo direttamente sull’enzima, abbia potenziato l’azione
tossica di composti anti-AChE presenti nell’ambiente, come già verificato nelle
prove
effettuate
in
laboratorio
utilizzando
CP
e
Terbutilazina
contemporaneamente. Anche in letteratura, inoltre, sono segnalati casi di
sinergia tra composti organofosforici ed altre classi di inquinanti, come IPA
(Jett et al., 1999), atrazina (Belden e Lydy, 2000) e metalli pesanti (Lionetto
et al., 2003). E’ possibile, infine, che siano altri i composti che hanno causato
le
forti
inibizioni
misurate
in
molti
siti
di
campionamento.
151
3.6.1
Utilizzo dei biomarker nella valutazione del rischio
ambientale
3.6.1.1
Misura dell’attività del CYP450 e AChE
Dai risultati ottenuti sia nei saggi eseguiti in laboratorio che negli studi di
monitoraggio è possibile proporre un andamento teorico dell’attività del
CYP450 rispetto alla concentrazione del contaminante con struttura dioxin-like
(Fig. 3.6.8). Dopo una prima fase in cui è presente una moderata induzione
dovuta a basse concentrazioni di inquinante (zona verde A), l’attività raggiunge
un valore massimo, indice della presenza di una contaminazione ambientale
preoccupante (zona gialla B). All’aumentare della concentrazione del tossico,
l’attività scende a causa di una inibizione competitiva (Petrulis e Bunce, 1999)
fino a raggiungere valori simili a quelli di controllo (zona rossa C). Un ulteriore
aumento della contaminazione (o la contemporanea presenza di inibitori) porta
infine ad un’inibizione dell’attività enzimatica rispetto ai controlli (zona rossa
D).
Inibizione
Induzione
A
B
C
D
Concentrazione contaminante
Fig. 3.6.8: andamento dell’attività del CYP450 rispetto ai controlli, all’aumentare della
concentrazione dei tossici dioxin-like nei tessuti dell’organismo (in assenza di inibitori diretti)
152
Il problema principale quindi, nel caso di un contaminante in grado di attivare il
CYP450 (Fig. 3.6.1) è quello di riuscire a distinguere tra la fase iniziale (zona
verde A), in cui la contaminazione non è ancora elevata, da quella di inibizione
enzimatica (zona rossa C), in cui al contrario la presenza di inquinanti ha già
raggiunto livelli di allarme, ma che è caratterizzata da una attività del CYP450
simile a quella della zona A.
Una possibilità per discriminare tra una bassa contaminazione ed una
situazione ambientale preoccupante è utilizzare un secondo biomarker,
sensibile allo stesso tipo di composti, che non presenti però un comportamento
analogo. Nel nostro caso è possibile utilizzare a questo scopo l’attività AChE, il
cui valore non è direttamente influenzato da composti planari, ma può variare
grazie a dei fenomeni di sinergia che portano ad un potenziamento
dell’inibizione
dell’attività
AChE
se
l’organismo
viene
esposto
contemporaneamente a IPA, composti triazinici
E' ormai ampiamente dimostrato come l'inibizione dell'attività AChE sia un
chiaro segnale della presenza di composti organofosforici o carbammati
nell'ambiente. Una volta eliminate le variabili ambientali che potrebbero
causare un'alterazione dei valori basali di attività AChE dell'organismo utilizzato
nel monitoraggio, come la temperatura (la cui influenza per D. polymorpha è
evidenziata nel paragrafo 3.2.2), tale attività enzimatica può essere utilizzata
con successo nel monitoraggio ambientale basato sui biomarker. Alcuni
accorgimenti, come il prelievo di organismi della stessa taglia ed il controllo
dello stadio riproduttivo rimangono operazioni importanti da eseguire in attesa
che ulteriori studi chiariscano l'influenza di questi parametri sull'attività AChE.
Tuttavia, è stato dimostrato anche come la presenza di altri tipi di tossici, come
IPA (Jett et al., 1999), erbicidi (Belden e Lydy, 2000) e, anche se a tale
proposito si trovano dati discordanti, metalli pesanti (Lionetto et al., 2003;
Romani et al., 2003) possa potenziare l'azione inibitoria dei composti antiAChE: di conseguenza, l'utilizzo soltanto di questo biomarker non è in grado di
dare indicazioni definitive sul reale tipo di contaminazione presente nell'area di
monitoraggio.
153
Un'attivazione dell'attività AChE è stata segnalata dopo esposizione di
esemplari di Sparus auratus e Oncorhynchus mykiss a Cu2+ (Romani et al.,
2003; Dethloff et al., 2003), anche se non seguita da un accumulo del metallo
nei tessuti. Ulteriori approfondimenti saranno necessari per poter utilizzare
l'attivazione dell'enzima come segnale della presenza di rame nell'ambiente,
soprattutto utilizzando molluschi, per i quali questo tipo di risposta non è mai
stata segnalata.
Escludendo quei punti per cui le attività EROD o MROD sono risultate
significativamente diverse dai controlli e rappresentando graficamente anche i
valori di AChE per ogni sito di campionamento, è possibile ipotizzare lo stato di
contaminazione globale di ciascun punto (Fig. 3.6.9).
Possiamo ritenere che i punti che sono risultati statisticamente diversi dai
controlli si trovino nella zona gialla B (quelli con induzione dell’EROD o MROD:
Peschiera, Limone, Domaso, Argegno e Brusimpiano) e nella zona rossa D
(inibizione EROD: Luino). Dal grafico 3.6.9 si può dedurre invece che alcuni
punti con attività AChE prossima a quella dei controlli, ma con attività EROD
leggermente più alta (Ranco, Porlezza e Pojana) non siano interessati da una
forte contaminazione, e che quindi si trovino nella zona verde A. La situazione
di Brebbia è, al contrario, la più difficile da interpretare, in quanto potrebbe
essere interessata da una bassa contaminazione da parte sia dei composti
inibitori dell’attività AChE che degli attivatori di quella EROD, ricadendo quindi
nella zona A come le precedenti 3 stazioni, oppure essere sottoposta ad una
forte contaminazione da composti planari (zona D). Dei restanti punti, alcuni
presentano un’attività EROD decisamente più alta rispetto ai controlli (Predore,
Costa Volpino, Desenzano e Lecco) e un’attività AChE fortemente inibita: è
plausibile che essi siano interessati da una contaminazione intensa, in cui
l’attività del CYP450 è vicina ai valori massimi (zona gialla o prima parte della
rossa C).
154
Fig. 3.6.9: valori di attività AChE ed EROD per i punti di campionamento non
statisticamente differenti rispetto al controllo EROD. Le linee corrispondono ai
valori di controllo per ciascun enzima
Per i restanti punti, caratterizzati da un’attività AChE fortemente inibita e
attività EROD vicina ai controlli (Intra, Brissago, Baveno, Stresa ed Arona), si
possono ipotizzare due situazioni: una marcata contaminazione da composti
organofosforici/carbammati, e assenza di composti in grado di attivare il
CYP450 (e quindi zona verde A), oppure forte presenza anche di questi ultimi,
e quindi seconda parte della zona rossa C. Le analisi chimiche, che hanno
evidenziato una forte contaminazione da DDT e metaboliti per Baveno e
Stresa, da PCB per Arona (Fig. 3.6.2), e la presenza degli scarichi di
formaldeide e acetammide di Intra farebbero ritenere che, almeno per questi
punti, la seconda ipotesi potrebbe essere quella corretta. Per Brissago invece,
non essendo stato rilevata una contaminazione elevata per nessuno di questi
composti, potrebbe essere più corretta la prima ipotesi.
I restanti punti (Giona, Magadino, Cannobio, Laveno, Pallanza e Caldè) sono
caratterizzati invece da elevata inibizione dell’attività AChE e moderata
155
inibizione dell’EROD. Per questi punti potrebbe essere possibile ritenere che la
contaminazione abbia già portato all’inibizione del CYP450, e che quindi si
trovino nella zona rossa D. In alternativa, la possibile presenza di metalli
pesanti o di altri composti in grado di inibire direttamente il CYP450 è
un'ipotesi da tenere in considerazione.
4
Il rischio ambientale dei grandi laghi
subalpini
4.1 Valutazione del rischio mediante biomarker
Anche
se
non
è
stato
possibile
risolvere
completamente
i
dubbi
sul
monitoraggio considerando solo i dati dei biomarker, è possibile dedurre che:
Siti la cui attività EROD/MROD è risultata significativamente diversa dai
controlli,
sono
interessati
da
una
contaminazione
che
ha
livelli
preoccupanti (fase gialla B – massima attività CYP450) o molto
preoccupanti (fase rossa D – inibizione attività CYP450 dovuta ad elevate
concentrazioni di inquinanti planari, o presenza di inibitori, o di entrambi)
Per siti non statisticamente differenti dai controlli, è necessario ricorrere
almeno ad un secondo biomarker. Riassumendo, relativamente ai
composti in grado di attivare il CYP450
e utilizzando anche i risultati
ottenuti per l’AChE si potrebbero ipotizzare situazioni di contaminazione
come quelli presentati in Tab. 4.1.1.
156
Tab. 4.1.1: Valutazione dello stato di contaminazione di un sito utilizzando i 2 biomarker
considerati in questa ricerca. + : attivazione; - : inibizione; A:contaminazione leggera e non
preoccupante;
B:contaminazione
presente,
ancora
nella
fase
iniziale;
C:
marcata
contaminazione; D: contaminazione pesante.
EROD
AChE
--
-
0
-
D
B-C
A-B
0
C-D
A-B
A
+
B-C
A-B
A-B
++
B-C
B-C
B
Applicando questa tabella ai siti monitorati, il risultato è mostrato in Tab.
4.1.2.
La tabella riassuntiva 4.1.2 conferma le ipotesi formulate precedentemente. Il
lago meno contaminato è risultato il Lugano, con la sola eccezione di
Brusimpiano, sito per il quale sono mancanti purtroppo sufficienti ripetizioni
per la misura dell'AChE. Tuttavia, l'induzione statisticamente significativa
dell'attività
EROD
indica
una
probabile
contaminazione
puntiforme
in
corrispondenza di questa zona.
I laghi di Como, Garda ed Iseo mostrano una contaminazione diffusa ed
omogenea, di entità ancora non eccessivamente pesante, ma da mantenere
sotto controllo. Il Lago Maggiore presenta una situazione variabile, con due
aree fortemente contaminate: oltre alla Baia di Pallanza (Pallanza, Baveno e
Stresa), anche il bacino settentrionale in territorio svizzero mostra una
situazione fortemente compromessa. La presenza in entrambe le zone di zone
di forte interesse naturalistico (la Bolle di Magadino a nord, e la zona di
Fondotoce in corrispondenza della baia di Pallanza) richiederebbe ulteriori
accertamenti per valutare la reale entità della contaminazione presente ed i
potenziali rischi sia per l'ambiente che per la salute della popolazione residente
nell'area.
157
Tab. 4.1.2: valutazione dello stato di contaminazione dei siti monitorati sulla base delle analisi
EROD e AChE (n.d.: dato non disponibile per problemi analitici; 0 = uguale al controllo; + =
MAGGIORE
LUGANO
COMO
ISEO
GARDA
induzione; - = inibizione)
EROD
AChE
Stato
Desenzano
++
--
B-C
Limone
++
-
B-C
Peschiera
++
n.d.
B
Predore
++
--
B-C
Costa
Volpino
+
--
B-C
Domaso
+
--
B-C
Argegno
++
--
B-C
Lecco
+
-
A-B
Pojana
0
0
A
Brusimpiano
++
n.d.
B?
Porlezza
0
0
A
Magadino
-
--
D
Brissago
0
--
C-D
Cannobio
0
-
A-B
Caldè
-
-
B-C
Giona
0
-
A-B
Luino
-
-
B-C
Intra
0
-
A-B
Pallanza
-
--
D
Laveno
-
0
A-B
Baveno
0
--
C-D
Stresa
0
--
C-D
Brebbia
-
n.d.
A-B / D ?
Ranco
++
0
B
Arona
0
-
A-B
158
4.2
Utilizzo integrato di biomarker e dati chimici
L’utilizzo
di
soli
due
biomarker,
ovviamente,
allo
stato
attuale
delle
conoscenze, potrebbe portare a degli errori nella valutazione della reale
situazione ambientale, in quanto non in grado di coprire interamente lo spettro
degli inquinanti esistenti.
In attesa di poter verificare se l’utilizzo di nuovi biomarker aumenti il grado di
precisione della metodica di valutazione del rischio, è possibile utilizzare i dati
chimici in nostro possesso per raffinare l’analisi della situazione ambientale, e
creare ulteriori classi di qualità per la presenza dei principali inquinanti da noi
monitorati, PCB e DDT.
I valori della somma dei DDT per tutti i laghi considerati variano da un minimo
di 100,4 ng/g lip. (Limone – Lago di Garda) fino ad un massimo di 1417,3 ng/g
lip. (Stresa – Lago Maggiore). Per i PCB, invece, il valore minimo misurato è
stato di 365,9 (Stresa – Lago Maggiore), con un massimo di 2508,5 (Costa
Volpino – Lago d’Iseo).
Sulla base di questi valori, le classi proposte sono le seguenti (Tab. 4.2.1):
Tab. 4.2.1:classi di qualità proposte per l’impiego con i dati chimici di DDT e PCB (0=ottima;
4= pessima)
Somma DDT
(ng/g lip.)
Somma PCB
(ng/g lip.)
Classe di qualità
100-350
300-800
0
350-600
800-1300
1
600-850
1300-1800
2
850-1100
1800-2300
3
>1100
>2300
4
159
E’ ovvio che la scelta delle classi di qualità è basata su considerazioni
arbitrarie, in quanto non sono disponibili in letterature dei criteri oggettivi.
Tuttavia, anche nella valutazione di impatto ambientale (VIA) e in molte leggi
(ad esempio il D.L. 152/99, che si occupa dello stato ambientale dei corpi
idrici) scelte simili sono basate su criteri altrettanto arbitrari.
In questo caso, abbiamo scelto di basarci sull’intervallo di concentrazioni
presenti in Dreissena polymorpha, assumendo che la classe 0 sia quella
corrispondente ai valori di background dei composti misurati.
Il risultato ottenuto applicando le classi di qualità appena definite ai siti di
campionamento è elencato nella tabella 4.2.2: per tenere conto di entrambi i
tipi di contaminazione i due punteggi sono stati sommati, ottenendo un indice
di qualità complessivo per gli inquinanti misurati. Dalla tabella è possibile
notare che i valori peggiori sono stati ottenuti nel Lago Maggiore, interessato
da una forte contaminazione da DDT sommata, in alcuni siti, ad una
contaminazione non trascurabile da PCB, che rende il punteggio molto alto,
segnale quindi di una scarsa qualità ambientale.
A questo punto è possibile incrociare i valori ottenuti dall’ERA basata
solamente sui biomarker (Tab. 4.1.2) ai punteggi ottenuti mediante le classi di
qualità chimica (Tab. 4.2.2) ottenendo un valore integrato di entrambi i
metodi, espresso come giudizio di qualità (Tab. 4.2.3). Utilizzando la tabella
4.2.3 ai valori ottenuti nei siti di prelievo dei grandi laghi subalpini, la
situazione è quella mostrata in tabella 4.2.4.
Il Lago Maggiore si conferma quello a più alto rischio ambientale, presentando
infatti delle stazioni (Magadino, Brissago, Pallanza, Baveno, Stresa e Brebbia)
in cui la qualità è risultata pessima.
L’apporto dei dati chimici è risultato molto importante per poter mostrare tre
situazioni a bassa qualità ambientale (Costa Volpino – Lago d’Iseo, Brebbia e
Laveno – Lago Maggiore), che dall’analisi basata solamente sui biomarker non
sembravano essere in condizioni particolarmente preoccupanti.
160
MAGGIORE
LUGANO
COMO
ISEO
GARDA
Tab. 4.2.2: classi di qualità chimica per i siti monitorati.
DDT
PCB
Totale
Desenzano
0
1
1
Limone
0
0
0
Peschiera
0
0
0
Predore
0
1
1
Costa
Volpino
0
4
4
Domaso
0
1
1
Argegno
0
1
1
Lecco
0
1
1
Pojana
0
0
0
Brusimpiano
0
1
1
Porlezza
0
0
0
Magadino
2
0
2
Brissago
1
1
2
Cannobio
1
1
2
Caldè
2
0
2
Giona
4
0
4
Luino
3
0
3
Intra
3
0
3
Pallanza
2
0
2
Laveno
3
1
4
Baveno
4
0
4
Stresa
4
1
5
Brebbia
3
3
6
Ranco
1
1
2
Arona
2
2
4
161
Tab. 4.2.3: tabella a doppia entrata per la definizione delle classi di qualità basata sui dati
chimici e biomarker
Analisi chimica
Biomarker
A
B
C
D
0-1
ottima
buona
discreta
scarsa
2-3
buona
discreta
scarsa
pessima
4-5
discreta
scarsa
pessima
pessima
6-7
scarsa
pessima
pessima
pessima
I nostri grandi laghi subalpini possono, dunque, essere divisi in tre diverse
categorie basate sull’inquinamento da composti organici persistenti: il Lago di
Lugano presenta una buona o, addirittura, ottima qualità delle sue acque in
tutte le stazioni di campionamento analizzate. Il Lago di Garda, Como ed Iseo
(ad eccezione di Costa Volpino) mostrano una discreta condizione ambientale,
mentre la maggior parte dei siti di prelievo del Lago Maggiore rappresenta una
zona a forte rischio ambientale, dovuto non solo all’ormai conosciuto
inquinamento da parte del DDT, ma anche dalla presenza di alcune sorgenti
puntiformi di PCB.
162
Tab. 4.2.4: tabella riepilogativa della condizione ambientale dei grandi laghi subalpini. I siti in
corsivo sono quelli in cui non c’è accordo tra i dati dei biomarker e le analisi
MAGGIORE
LUGANO
COMO
ISEO
GARDA
chimiche.
Biomarker
Analisi
chimica
Totale
Desenzano
B-C
1
discreta
Limone
B-C
0
discreta
Peschiera
B
0
buona
Predore
B-C
1
discreta
Costa Volpino
B-C
4
pessima
Domaso
B-C
1
discreta
Argegno
B-C
1
discreta
Lecco
A-B
1
buona
Pojana
A
0
ottima
Brusimpiano
B?
1
buona
Porlezza
A
0
ottima
Magadino
D
2
pessima
Brissago
C-D
2
pessima
Cannobio
A-B
2
discreta
Caldè
B-C
2
scarsa
Giona
A-B
4
scarsa
Luino
B-C
3
scarsa
Intra
A-B
3
discreta
Pallanza
D
2
pessima
Laveno
A-B
4
scarsa
Baveno
C-D
4
pessima
Stresa
C-D
5
pessima
Brebbia
A-B / D ?
6
pessima
Ranco
B
2
discreta
Arona
A-B
4
scarsa
163
4.2 CONCLUSIONI
L’utilizzo dei biomarker si è rivelato un ottimo approccio per l’identificazione
dell’inquinamento dei corpi idrici esaminati. Pur utilizzando soltanto due
biomarker, la sensibilità ottenuta è stata molto elevata, come confermato
anche dalle analisi chimiche svolte in parallelo: soltanto in 3 stazioni di
campionamento su 25 la metodica non è stata in grado di rilevare una
contaminazione invece presente. Probabilmente, aumentando il numero di
biomarker, la sensibilità di questo tipo di monitoraggio biologico crescerebbe
ulteriormente, permettendo di eliminare, o almeno ridurre, la necessità di
utilizzare delle indagini di tipo chimico in contemporanea.
La presenza di diversi tipi di composti nell'ambiente e l'immissione di sempre
nuove molecole di uso industriale ed agricolo rendono il monitoraggio di tipo
puramente chimico sempre più difficile da attuare. Lo sviluppo di un
biomonitoraggio basato su biomarker, al contrario, potrebbe aiutare ad
evidenziare le aree più a rischio di contaminazione e quindi a focalizzare le
analisi in questi siti. Tuttavia, le ricerche che devono essere effettuate prima di
poter ottenere delle risposte certe sono ancora molteplici: dalla definitiva
conoscenza dei fattori naturali in grado di alterare le reazioni a livello
molecolare, fino alle possibili interazioni tra tossici che possono "mascherare"
gli effetti, come qui evidenziato a proposito delle diverse risposte del CYP450 a
classi di contaminanti differenti. L’utilizzo di questo biomarker, in ogni caso, si
è rivelato di difficile attuazione, soprattutto per la difficoltà di interpretazione
dei risultati.
164
5.
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