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La qualità della vita lavorativa e delle
condizioni di lavoro in Emilia-Romagna
Quinto rapporto su salute e sicurezza in
Emilia-Romagna
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Lo stato di fatto. La necessità di riflettere sui
dati statistici dell’insicurezza sul lavoro alla
luce della responsabilità sociale ed etica
dell’impresa, del lavoro, delle istituzioni
MILVIA FOLEGANI
A fronte del fatto che il fenomeno infortunistico è rimasto
sostanzialmente stabile negli ultimi anni, la Regione
Emilia-Romagna, al fine di realizzare un efficace intervento di
riduzione del fenomeno, ha affrontato il problema attraverso un
approccio che contempla non soltanto la sicurezza e la
prevenzione, bensì anche il problema della regolarità del
lavoro. Tema, la regolarità del lavoro, che incide in maniera
cruciale sulla sicurezza e salute dello stesso. La Regione ha
scelto un modello di gestione, che sottende un approccio
orientato al miglioramento continuo delle modalità di
organizzare
il lavoro (anche nella dimensione della
promozione della salute e della sicurezza), l’occupazione e la
produzione. Questa prospettiva, che corrisponde ad una
strategia orientata alla crescita economica ed al miglioramento
delle condizioni di vita delle persone, pone al centro la qualità
e la quantità dell’occupazione, individuandole non come aspetti
separati e fra loro indipendenti, ma, al contrario, come elementi
strettamente correlati e inscindibili. In coerenza con le scelte
della Regione di promuovere e di favorire un modello di
governance attiva, il processo è, ed è stato sostenuto, da una
costante valorizzazione del principio di partecipazione e dei
metodi della "concertazione sociale e della collaborazione
istituzionale".
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Il percorso normativo e regolamentare ha preso l’avvio dal
documento presentato dal Governo, e discusso nella conferenza
di Genova del 3-5 dicembre 1999. In quell’occasione fu
sottoscritto dalle Istituzioni centrali, dalle Amministrazioni
locali e dalle Parti sociali un atto programmatico denominato
Carta 2000.
Nel corso della medesima legislatura il programma è stato
ulteriormente implementato, nel Piano straordinario per la
sicurezza del lavoro, approvato nel Consiglio dei Ministri il
12 maggio 2000, e nell’Accordo tra il Ministro del lavoro e
le Regioni e Province autonome, siglato il 21 dicembre
2000.
Il citato accordo ha sancito l'avvio della strategia di
“integrazione, cooperazione e coordinamento” tra le
istituzioni nazionali e quelle regionali “al fine di rendere più
efficace l’azione di prevenzione e vigilanza” sui fenomeni
che attengono direttamente e indirettamente la salute e la
sicurezza del lavoro e di “supporto ai processi di
emersione”. Il documento congiunto opera scelte fortemente
orientate a definire strategie di prevenzione adeguate ai
bisogni manifestati sia dalle imprese che dai lavoratori,
anche tramite le loro organizzazioni e associazioni.
Focalizza l’attenzione sulle connessioni tra la competenze
delle istituzioni nazionali e territoriali in tema di sicurezza
del lavoro e di lotta al lavoro irregolare, auspicando l’avvio
di una forte azione di coordinamento da attuarsi attraverso
specifiche modalità procedurali.
In particolare, per quanto riguarda il tema della sicurezza del
lavoro, il documento pone l’accento sui seguenti elementi:
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- il coordinamento di tutti gli enti ed istituti, che hanno
competenze dirette o indirette sulle questioni che attengono
la prevenzione dei rischi del lavoro, deve essere attuato
tramite i Comitati regionali di coordinamento previsti
dall’art. 27 del D.Lgs. 626/94. Il Coordinamento è posto “in
capo al Presidente della Giunta regionale e della Provincia
autonoma”;
- i Comitati regionali “nella predisposizione delle proposte di
politica preventiva di livello regionale tengono conto degli
indirizzi e degli obiettivi strategici individuati dal Governo
e dal Parlamento”; Governo e Parlamento a loro volta
formuleranno tali indirizzi sulla base:
- delle indicazioni della Commissione centrale di
vigilanza (per la repressione del lavoro non regolare e
sommerso) di cui all’art. 79 della legge 488 del 1998;
- della Commissione consultiva permanente di cui
all’articolo 26 del D.Lgs. 626/94;
- del Comitato e delle Commissioni di cui all’art. 78
della Legge 488 del 1998 (Comitato nazionale e
commissioni regionali per l’emersione del lavoro non
regolare)”.
- viene ribadito, ai fini del concreto funzionamento dei
Coordinamenti a livello regionale e provinciale, che alle
Aziende USL spetta il compito “di rendere operativi gli
indirizzi regionali provvedendo alla destinazione finale
delle risorse assegnate dalle Regioni in modo finalizzato
per la prevenzione nei luoghi di lavoro, potenziando tutti
gli interventi rivolti alla informazione, formazione,
assistenza, vigilanza e controllo sul rispetto delle norme di
prevenzione, poste a tutela della salute dei lavoratori”;
mentre saranno gli altri Enti o Istituti, che hanno
competenze collegate anche indirettamente con la tutela
della salute dei lavoratori, a dover ricercare e curare ”il
collegamento al momento della programmazione e della
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realizzazione degli interventi con le Aziende USL che hanno
la titolarità primaria nell’ambito della salute dei
lavoratori”.
Questo documento, siglato in sede di Conferenza
Stato-Regioni, definisce tre aspetti fondamentali e fortemente
innovativi rispetto a tutta la normativa previgente: la lotta agli
infortuni sul lavoro deve essere condotta contestualmente a
quella contro il lavoro irregolare, il coordinamento delle
iniziative è affidato alle Regioni e Province autonome; le
Aziende USL conservano integralmente il loro ruolo di soggetti
titolari delle azioni di prevenzione.
Il documento citato entra, poi, nel merito dei rapporti tra Enti; in tale
prospettiva
viene regolata:
- la reciproca messa a disposizione degli archivi dei vari Enti,
che hanno competenza sulla regolarità e sicurezza del
lavoro, al fine di poter acquisire elementi conoscitivi
finalizzati alla programmazione delle attività;
- la sistematica informazione agli altri Enti dell’attività svolta
nei confronti delle imprese da parte degli organi ispettivi in
modo da fornire elementi utili alla programmazione delle
attività;
- l’individuazione dei settori a rischio più rilevante, al fine di
programmare interventi integrati fra i vari Enti che hanno
competenze in materia, anche utilizzando archivi Inps e
Inail.
L’Assemblea consiliare dell’Emilia-Romagna, in
ottemperanza alle indicazioni provenienti dalla Conferenza
Stato-Regioni, nella seduta del 21 dicembre 2000 (oggetto
912), ha approvato una risoluzione “intesa al varo di un
pacchetto sicurezza per ridurre gli infortuni sul lavoro”,
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impegnando, inoltre, la Giunta ad assicurare il pieno
coinvolgimento delle Parti sociali e degli Enti competenti. Il
Consiglio della Regione Emilia-Romagna è poi ritornato
sullo stesso argomento pochi mesi dopo, nella seduta del 19
Aprile 2001, quando ha approvato all’unanimità un ulteriore
risoluzione che dà mandato alla Giunta di:
- adottare linee di intervento integrate per la "promozione
della sicurezza, della regolarità e della qualità sociale delle
condizioni di lavoro" in Emilia-Romagna, e di sostenere, in
particolare, il coinvolgimento delle Parti sociali e degli Enti
locali, garantendo un alto grado di integrazione e
coordinamento tra le istituzioni competenti;
- adottare misure attuative coerenti con dette linee e con gli
obiettivi fissati, anche attraverso la promozione di
specifiche intese con le istituzioni competenti, patti
territoriali e/o settoriali, accordi con le Parti Sociali;
- adottare interventi di sostegno a investimenti finalizzati alla
sicurezza del lavoro, allo sviluppo di un organico “piano
qualità”, per sostenere qualificazione e certificazione dei
processi produttivi, con la partecipazione dei lavoratori,
certificazioni ambientali e di sicurezza.
In ottemperanza alla volontà espressa dal Consiglio
regionale, la Giunta della Regione Emilia-Romagna, l’8 maggio
2001, ha adottato, così, la delibera n. 733 titolata: “Linee
regionali d’intervento per la promozione della sicurezza, della
regolarità e della qualità sociale delle condizioni di lavoro".
La Giunta, con questo documento e con le azioni che, ad esso,
sono conseguite, ha inteso corrispondere all’obiettivo di
definire una strategia istituzionale ed attuativa diretta alla
realizzazione di un programma coordinato ed integrato, a scala
regionale, per qualificare il lavoro in Emilia-Romagna, vale a
dire per rendere le condizioni di lavoro e le produzioni della
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Regione sicure, regolari, rispondenti a clausole sociali, e tali da
ridurre la precarietà delle prestazioni.
Il programma non si configura, infatti, come un’iniziativa
regionale, “ma su scala regionale”, poiché la complessità degli
obiettivi, degli ambiti di intervento, delle attività, l’insieme
articolato dei soggetti e degli attori coinvolti, l’esigenza di
assicurare un forte grado di condivisione e di fiducia da parte
delle istituzioni e dei privati, siano questi imprese, lavoratori o
consumatori richiedono la partecipazione attiva di più soggetti
e livelli istituzionali, delle parti sociali, dell’associazionismo,
dei singoli e del mondo economico e produttivo.
La lettura della comunicazione dell’Assessore al Lavoro al
Consiglio della Regione Emilia-Romagna, sull’attuazione del
programma “Chiaro, Sicuro, Regolare: azioni per la
regolarità, la sicurezza e la qualità del lavoro”, tenuta nel
mese di giugno 2003, costituisce un ulteriore documento
rilevante per descrivere le scelte di governance operate dalla
Regione e finalizzate all’implementazione della qualità del
lavoro. L’Assessore, in apertura della comunicazione, afferma
che "la finalità del programma di Giunta è quella di
promuovere ed accrescere la diffusione e promozione di
condizioni di sicurezza nel lavoro, l’emersione del sommerso
ed il supporto alle politiche per l’emersione e la qualità delle
condizioni e delle prestazioni di lavoro in Emilia-Romagna".
Le modalità di intervento previste sono così esemplificate:
- l’Assessorato alle Politiche per la Salute indirizza ed assiste
le attività di vigilanza delle Aziende USL, attua le parti di
competenza del Piano Sanitario regionale, coordina l’azione
dei Servizi di Prevenzione e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro
(SPSAL), le attività di studio, analisi, ricerca;
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- l’Assessorato al Lavoro ed alla Formazione promuove
specifiche iniziative di carattere formativo e la diffusione
dei moduli in tutte le attività corsali, garantisce la
disponibilità di un contenitore comunicazionale per le
azioni di emersione e per la sicurezza, promuove progetti
per l’introduzione del Marchio di Qualità Sociale, assicura
occasioni formative comuni fra gli operatori del sistema di
vigilanza, coordina le iniziative delle Province;
- l’Assessorato alle Attività Produttive dà attuazione al
Programma
Triennale
2000-2002
finalizzato
al
miglioramento della qualità del sistema produttivo, allo
sviluppo dei nuovi lavori, ad elevare il livello di
sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo, favorendo
in particolare la sicurezza degli ambienti di lavoro e
offrendo opportunità di lavoro ai giovani nelle attività
scientifiche e tecnologiche, culturali, informatiche e
multimediali, ambientali e sociali.
Viene inoltre raccomandata una particolare attenzione al
progetto “Marchio di Qualità Sociale del Lavoro e della
Produzione”, rientrando, questo, nell'ambito delle azioni di
politica attiva del lavoro promosse dalla Regione. Il progetto,
da una parte esplora la dimensione della qualità sociale per
analizzare il contributo che essa può apportare alla
competitività delle singole imprese e dall’altra la possibilità di
accrescere l'attenzione e l'interesse delle imprese, in particolare
di quelle aziende ad alta densità di presenza di lavoratori
immigrati, sull'adozione di politiche di sicurezza, regolarità e
qualificazione del lavoro, in modo da conferire un'ulteriore
connotazione valoriale ai loro prodotti/servizi e contribuire in
tal modo a qualificare ulteriormente l'intero sistema produttivo
regionale.
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Strutturalmente il progetto prevede l'integrazione delle attività
contenute in due distinti progetti collegati: "Marchio di Qualità
Sociale" (MQS) e "Marchio di Qualità Sociale Immigrati"
(MQSI)
Le attività contenute nel primo progetto sono finalizzate a
definire e a validare sul campo (in specifici contesti
organizzativi) gli elementi necessari per la predisposizione di
un modello di marchio di qualità sociale generale (requisiti,
criteri, procedure per l'acquisizione del marchio). Le attività del
secondo progetto sono finalizzate ad integrare i requisiti
generali identificati nel primo progetto, declinandoli nell'ottica
di aziende che impiegano un'alta percentuale di lavoratori
immigrati, e a realizzarne una validazione autonoma,
identificando a tal fine, come ambiti di sperimentazione,
imprese ad alta densità di manodopera extracomunitaria.
L'articolazione delle attività in due progetti distinti nasce
dall'esigenza di dedicare un particolare approfondimento ai
temi della salute e della sicurezza e della qualità del lavoro in
aziende con alta densità di presenza di lavoratori immigrati:
l'obiettivo è quello di identificare eventuali criticità e di rendere
trasparenti ed efficaci i dispositivi locali di incentivazione e
investimento sulle buone prassi aziendali.
In sostanza, come si può rilevare dalla presente, seppur
sintetica illustrazione, sono state realizzate politiche attive del
lavoro volte al contrasto degli infortuni sul lavoro e delle
malattie professionali, del lavoro irregolare e alla promozione
della qualità del lavoro, in accordo anche con il contestuale
processo avviato nell’Unione Europea.
La Proposta di legge regionale "Norme per la promozione
dell'occupazione, della qualità, sicurezza e regolarità del
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lavoro", ora legge della Regione Emilia-Romagna, n.
17/2005.
E' questo il “filo rosso” che congiunge le scelte normative e
regolamentari, attuate in Emilia-Romagna a partire dai primi mesi del
2000, con il recentissimo Progetto di legge titolato "Norme per la
promozione dell'occupazione, della qualità, sicurezza e regolarità
del lavoro". Il "buon" lavoro ed il "buon" lavorare sono visti in
maniera unitaria e sono individuati come la condizione di riferimento
capace di rafforzare la coesione e l'integrazione sociale, e sono
considerati come elementi fondanti la promozione dello sviluppo,
dell'innovazione e della competitività delle produzioni e dei territori.
Tutto ciò in accordo con il dettato costituzionale e con i principi e
gli obiettivi dell’Unione Europea.
In un contesto storico in cui prevalgono gli interessi personali su
quelli collettivi e solidali, il progetto di legge si muove in
controtendenza, promuovendo e sostenendo un sistema di politiche
diretto ad accompagnare le persone e le imprese nei processi di
transizione al lavoro, di inserimento e consolidamento professionale,
di stabilizzazione della condizione lavorativa.
Tra gli obiettivi che la legge regionale si prefigge di raggiungere,
trovano collocazione:
- la ricerca e nell’acquisizione del lavoro;
- la conciliazione fra i tempi di vita, di cura e quelli dedicati
all’attività professionale;
- la qualificazione e la formazione,
- l’esercizio pieno del diritto-dovere a condizioni di sicurezza e
regolarità del lavoro.
La legge trae la sua legittimità e la sua spinta innovativa dalle
competenze legislative attribuite alle Regioni dalla Legge
costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, di modifica del Titolo V°
della Costituzione. Il nuovo sistema ha reso possibile l'assunzione da
parte dell'Amministrazione Regionale di decisioni normative proprie
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nelle materie individuate come concorrenti o esclusive rispetto allo
Stato. La produzione normativa ha dovuto tenere nel debito conto
l'integrazione con le leggi rimaste di esclusiva competenza dello Stato
e con le precedenti Leggi Regionali in materia di lavoro.
La legge opera globalmente sul tema del lavoro; disciplina, infatti, il
collocamento nei suoi diversi aspetti, le modalità di erogazione degli
incentivi alle assunzioni od alla stabilizzazione di soggetti
appartenenti a fasce deboli o svantaggiate, le politiche per
l'inserimento al lavoro di soggetti disabili, l’orientamento al lavoro ed
i tirocinii, i profili formativi dei contratti di apprendistato, il sistema
dei servizi per il lavoro, le materie dell’igiene e della sicurezza del
lavoro, il sostegno alla qualità e regolarità del lavoro, la promozione
della responsabilità sociale delle imprese.
La legge sviluppa prioritariamente i temi illustrati di seguito.
- Qualificazione dei servizi per il lavoro. La legge, anche a
fronte della complessità crescente delle condizioni e delle forme
contrattuali di partecipazione al lavoro, sceglie la strada di un
efficace sistema, pubblico e privato (accreditato), a supporto
dell’intermediazione del lavoro proponendosi di migliorarne gli
interventi:
· di informazione, orientamento al lavoro;
·
·
·
·
·
di sostegno alle persone nella costruzione dei bilanci di
competenze;
di preselezione ed incrocio fra domanda ed offerta di
lavoro;
di misure personalizzate di promozione dell’inserimento
nel lavoro;
di accompagnamento nell’inserimento lavorativo delle
persone disabili, e dei soggetti in condizione di svantaggio
personale e sociale, con particolare riferimento alle azioni
di mediazione culturale.
Promozione e qualificazione dell’occupazione (anche nelle
forme del lavoro autonomo).La legge opera una scelta molto
chiara, rivolgendo gli interventi delle politiche attive verso le
persone che si trovano in condizioni di svantaggio sociale o
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individuale rispetto al mercato del lavoro. In particolare gli
interventi sono diretti verso i disabili, i soggetti che presentano
rischi di esclusione, di depauperamento professionale o per i quali
sia in corso un processo di precarizzazione della condizione
lavorativa, le persone prive di occupazione con età superiore ai
quarantacinque anni, i lavoratori interessati da processi di
riorganizzazione e di riconversione e quanti rientrano al lavoro
dopo periodi prolungati di assenza per motivi di cura familiare. E',
inoltre, ricondotta alla Giunta regionale la possibilità di definire
priorità territoriali, con riferimento alle aree con difficoltà
socioeconomiche.
L'alto tasso di partecipazione femminile al lavoro, registrato in
Emilia-Romagna, non rende necessario introdurre, tra le priorità, il
tema dell'occupazione femminile. Tuttavia, i più bassi livelli
salariali delle donne, la loro maggiore difficoltà nella conciliazione
di impegni di lavoro e di cura familiare ed il permanere di
fenomeni di segregazione di genere hanno indotto a prevedere una
priorità trasversale che operi rispetto a quelle individuate.
La definizione delle priorità delle politiche attive è stata
accompagnata dall’individuazione degli strumenti di sostegno,
costituiti dagli incentivi economici per le persone ed i datori di
lavoro, dagli assegni formativi, dagli assegni di servizio, dalle
attività di orientamento, dalla promozione di tirocinii, dall’azione
dei servizi per il lavoro.
Si tratta di strumenti finalizzati alla personalizzazione degli
interventi, allo scopo di accrescerne l’efficacia e la capacità di
agire sulle criticità. Tra i diversi tipi di intervento si ricorda, a
titolo di esempio, l’introduzione, operata dalla legge, di misure di
conciliazione, quali gli assegni di servizio; vale a dire di contributi
economici finalizzati all’acquisizione dei servizi necessari a
mantenere o costruire una condizione occupazionale attiva e
rivolti a chi è a rischio di esclusione dal mercato del lavoro per
motivi di cura familiare o propria.
· La conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro.
La legge individua le azioni volte a promuovere concretamente
pari opportunità di accesso, permanenza al lavoro e progressione
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di carriera. Si tratta di strumenti diretti di intervento, quali
l’azione mirata dei servizi per il lavoro (con l'obiettivo di
collocare il soggetto in attività sincrone con i suoi bisogni), la già
citata erogazione di assegni di servizio, l'individuazione di misure
di conciliazione in grado di agire sull’organizzazione degli orari e
delle forme di partecipazione al lavoro.
·
Formazione
La legge si sofferma sul tema della formazione, individuandolo
come uno degli strumenti fondamentali per garantire la qualità e
la stabilità del lavoro.
La strategia di valorizzazione delle competenze e dei saperi
delle persone costituisce, in coerenza con i principi e gli
obiettivi dell’Unione Europea, l'asse fondamentale per le
politiche di sviluppo economico, per l’innovazione e la
competitività.
A questo fine, la Regione ha adottato metodi di integrazione
fra gli interventi di politica del lavoro e quelli in materia di
istruzione, formazione professionale ed orientamento,
intervenendo, ad esempio, con la concessione di assegni
formativi individuali e la predisposizione di percorsi
formativi qualificati a favore di lavoratori occupati o di
lavoratori in condizioni di lavoro precario, anche al fine di
favorirne l’occupabilità attraverso il rafforzamento delle
competenze.
La legge, particolare risalto viene dato alla regolamentazione
degli aspetti formativi specifici dei contratti di apprendistato,
riconducendo i relativi interventi alla Regione, nel rispetto della
normativa dello Stato in materia, e dei contratti collettivi di
lavoro.
- L’acquisizione di condizioni lavorative stabili.
Al raggiungimento di questo obiettivo concorre l’azione
congiunta di più strumenti e servizi da impiegare in ragione degli
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specifici bisogni che le persone, le famiglie, i contesti lavorativi
propongono, anche per fasi temporanee.
L’acquisizione di una condizione lavorativa stabile, costituisce
una condizione irrinunciabile di un modello sociale, quale quello
Emiliano-Romagnolo, caratterizzato da solidità, capacità di
sviluppo e coesione.
·
·
La Qualità del Lavoro
La promozione di una migliore qualità e sicurezza del lavoro,
corrisponde ad una finalità di fondo della legge, di cui
accompagna e sottolinea il complessivo impianto. Sono previsti
specifici interventi volti, soprattutto, alla realizzazione di un
sistema integrato di sicurezza e di miglioramento della qualità
della vita lavorativa. A questo fine la Regione orienta gli
interventi di vigilanza e controllo, formazione, informazione ed
assistenza (esercitati attraverso le Unità Sanitarie Locali) e le
proprie azioni di incentivazione e di valorizzazione dirette alle
imprese.
La responsabilità sociale delle imprese
È questo uno degli ambiti di intervento più innovativi affrontati
della legge che, muovendo dagli obiettivi e dagli orientamenti in
materia dell’Unione Europea, si prefigge di favorire
l’assunzione della responsabilità sociale delle imprese, intesa
quale integrazione volontaria delle problematiche sociali ed
ambientali nelle attività produttive e commerciali e nei rapporti
con i soggetti che possono interagire con le imprese stesse. In
questa prospettiva la responsabilità sociale delle imprese si
trasforma in uno strumento attivo per l’innalzamento della
qualità del lavoro, per lo sviluppo economico e la coesione
sociale.
Le azioni previste sono, in particolare, dirette a sostenere
l’adozione da parte delle imprese, di enti ed organizzazioni, di
codici di condotta e di bilanci sociali ed ambientali e di marchi
di qualità sociale ed ambientale diffusi a livello europeo ed
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internazionale, anche attraverso specifici interventi sperimentali.
Il commento ad alcuni articoli della legge, costituisce uno strumento
di lettura prezioso per descrivere il processo politico che ha
modificato in maniera sostanziale l'approccio al tema della tutela della
salute nei luoghi di lavoro, passando dal mero contrasto agli infortuni
sul lavoro, all'avvio di politiche attive volte alla promozione del
benessere psico-fisico dei lavoratori.
L’articolo 1 enuncia i principi ispiratori della norma volti alla
promozione dell’occupazione ed alla sua qualità (tema quest'ultimo
che non era presente nella prima stesura del comma 1 del progetto di
legge., ma che è stato introdotto, con emendamento, nella
discussione consiliare), alla valorizzazione delle competenze e dei
saperi delle persone, all’affermazione dei loro diritti nelle attività
lavorative e nel mercato del lavoro, all’attuazione del principio delle
pari opportunità, quali fondamenti essenziali per lo sviluppo
economico e sociale del territorio.
L’articolo delinea altresì l’ambito di applicazione della legge
stabilendo che la Regione esercita le proprie competenze
legislative ed amministrative in materia di tutela e sicurezza del
lavoro, nel rispetto delle competenze dello Stato, in particolare
di quelle relative all’ordinamento civile e alla garanzia dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali. Si enuncia altresì la valorizzazione del ruolo degli enti
locali e la collaborazione tra livelli istituzionali.
Di particolare rilievo, sono gli articoli 41 "Sistema integrato di
sicurezza e di miglioramento della qualità della vita
lavorativa.", 42 "Interventi." e 43 "Coordinamento della
pubblica amministrazione in materia di sicurezza e salute nei
luoghi di lavoro.", nonché le modifiche che, in sede di
discussione Consiliare. sono state apportate al testo originale
del progetto di legge.
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"Art. 41 Sistema integrato di sicurezza e di miglioramento della
qualità della vita lavorativa
1. La Regione, in attuazione del decreto legislativo n. 626 del
1994, promuove la realizzazione di un sistema integrato di
sicurezza del lavoro e di miglioramento della qualità della
vita lavorativa e, a tale fine, esercita funzioni di indirizzo e
coordinamento.
2. La programmazione regionale diretta al perseguimento
degli obiettivi di cui al comma 1 è prioritariamente
orientata al sostegno del diritto-dovere alla sicurezza ed
alla salute nei luoghi di lavoro, favorendo iniziative e
progetti, anche di carattere locale, volti:
a) alla riduzione dei rischi per la sicurezza e la salute dei
lavoratori;
b) alla promozione del benessere psico-fisico dei
lavoratori, quale parte integrante della qualità del
lavoro e dell’occupazione, anche attraverso la
diffusione della cultura della salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro;
c) all’inserimento nelle misure di prevenzione degli aspetti
relativi al genere ed all’età dei lavoratori, alla presenza
di lavoratori immigrati, alle forme di partecipazione al
lavoro ed alle sue modalità di organizzazione, nonché
alle eventuali condizioni di svantaggio dei lavoratori in
relazione ai rischi per la sicurezza e la salute nei luoghi
di lavoro.
3. Il sistema integrato di sicurezza del lavoro e di
miglioramento della qualità della vita lavorativa costituisce
elemento centrale della strategia regionale di promozione
di condizioni di regolarità del lavoro e di acquisizione da
parte delle persone di condizioni lavorative stabili; si
realizza, mediante gli interventi di cui al comma 2 e di cui
all’articolo 42, le azioni della Sezione II del presente Capo
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ed attraverso le misure di stabilizzazione previste
all’articolo 12.
Art. 42 Interventi
1. La Regione e le Provincie promuovono e sostengono iniziative,
anche in collaborazione con le parti sociali, orientate alla
prevenzione, all’anticipazione dei rischi e al miglioramento
delle condizioni di lavoro e in particolare:
a) l’adozione di patti territoriali per la salute e la
sicurezza nei luoghi di lavoro, anche individuando
misure di sostegno per gli accordi, assunti dalle parti
sociali comparativamente più rappresentative a livello
territoriale, diretti a qualificare le misure per la
prevenzione dei rischi e la diffusione della cultura della
sicurezza;
b) il supporto ai rappresentanti dei lavoratori per la
sicurezza, con particolare riferimento al rafforzamento
delle competenze e ad azioni di coordinamento,
attraverso iniziative concertate con le organizzazioni
sindacali;
c) il supporto alle azioni promosse dagli organismi
paritetici previsti dagli Enti bilaterali di cui all’articolo
10, comma 4.
2. Ai fini di cui al comma 1 la Regione, promuove e sostiene:
a) la realizzazione di azioni di ricerca, individuazione e
comparazione di buone pratiche, trasferibili sul
territorio regionale;
b) il monitoraggio degli infortuni sul lavoro e delle
malattie professionali e la realizzazione di un rapporto
annuale sullo stato di salute e sicurezza dei lavoratori;
c) centri di riferimento, anche in collaborazione con
Università, associazioni, fondazioni ed altre istituzioni
di diritto privato, nonché con gli enti e le aziende di
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diritto pubblico operanti nel settore, sostenendone
l’attività con proprie risorse.
3. La Regione e le Provincie favoriscono, altresì, la diffusione della
cultura della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, attraverso:
a) campagne informative ed azioni di sensibilizzazione;
b) formazione degli operatori delle istituzioni e delle
organizzazioni competenti;
c) azioni di sensibilizzazione, informazione e formazione,
sul tema della sicurezza e dell’igiene del lavoro, da
realizzarsi anche nell’ambito dell’offerta dei Centri
territoriali permanenti per l’educazione degli adulti di
cui all’articolo 45 della legge regionale n. 12 del 2003,
con particolare riferimento ai lavoratori immigrati,
caratterizzate dall’utilizzo di specifiche metodologie,
strumentazioni didattiche e di mediazione linguistica e
culturale;
d) interventi educativi nei confronti dei giovani;
e) realizzazione di unità formative dedicate al tema della
sicurezza e dell’igiene del lavoro nelle attività formative
programmate o riconosciute dalla Regione e dalle
Provincie;
f) attività formative volte all’acquisizione di competenze
specifiche nelle materie della salute e della sicurezza
nei luoghi di lavoro, con riferimento agli aspetti sia
igienico-sanitari sia normativi e socio-organizzativi;
g) accordi con gli enti bilaterali di cui all’articolo 10,
comma 4 e con i soggetti autorizzati alla
somministrazione ed all’intermediazione di lavoro
finalizzati alla realizzazione di unità formative dedicate
al tema della sicurezza e dell’igiene del lavoro;
h) accordi con le organizzazioni dei lavoratori e dei datori
di lavoro comparativamente più rappresentative,
finalizzati a definire condizioni di tutela dei lavoratori
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migliorative rispetto ai livelli minimi stabiliti dalla
normativa nazionale;
i) l’introduzione del tema della sicurezza e della salute nei
luoghi di lavoro negli interventi di cui all’art. 44.
j) La Regione esercita funzioni di indirizzo e coordinamento
delle attività di controllo e vigilanza svolte dalle Aziende
Unità Sanitarie Locali e ne verifica la qualità e l’efficacia delle
azioni di prevenzione. La Regione promuove inoltre la
sperimentazione di audit dei luoghi di lavoro, da realizzarsi
sulla base dell’adesione volontaria delle imprese, per il
miglioramento dell’organizzazione e della gestione della
sicurezza."
Art. 43 Coordinamento della pubblica amministrazione in materia
di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro
1. La Regione promuove azioni di indirizzo e coordinamento
degli interventi della pubblica amministrazione, in materia
di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, anche attraverso
il comitato di coordinamento, istituito ai sensi dell’articolo
27 del D.Lgs n. 626 del 1994.
2. Il Comitato di coordinamento di cui al comma 1 promuove:
a) sistematici scambi di informazione in materia di
sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, anche mediante
la reciproca messa a disposizione degli archivi dei
diversi enti con competenza sulla regolarità e
sicurezza del lavoro;
b) l’elaborazione di proposte finalizzate all’uniformità
delle procedure amministrative e dei metodi di
controllo;
c) la realizzazione di piani integrati di intervento, secondo
priorità individuate sulla base dei dati elaborati,
rapportati alle effettive risorse disponibili delle diverse
amministrazioni pubbliche;
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d) campagne di sensibilizzazione e di divulgazione per la
promozione dell’adozione di mezzi e misure
prevenzionali.
L'articolo 41, come si è potuto rilevare, introduce il tema
della promozione di un sistema integrato di sicurezza e di
miglioramento della qualità della vita lavorativa, che non
mira soltanto alla riduzione dei rischi per la sicurezza e la
salute dei lavoratori, ma che è volto, in particolare, alla
promozione del benessere. Su quest'ultimo concetto vi è
stato un ampio dibattito in diversi sedi politiche, tra cui la
Conferenza Regione-Autonomie locali, la Commissione
regionale tripartita (di cui all’articolo 51 della legge
regionale n. 12 del 2003) e la competente Commissione
Consiliare. Il dibattito ha portato ad aggiungere, nella stesura
definitiva del progetto di legge, alla parola "benessere"
(come era previsto dalla prima stesura), le parole
"psico-fisico". L'art. 41, comma 2, lettera b, ha assunto, in
questo modo, i contenuti fortemente innovativi e migliorativi
a cui il legislatore mirava: gli interventi di politiche attive
della Regione sono volti "alla promozione del benessere
psico-fisico dei lavoratori," da considerarsi "quale parte
integrante della qualità del lavoro e dell’occupazione…" Il
benessere psico-fisico viene considerato, quindi, come la
finalità portante di tutte le azioni dirette alla promozione
della qualità del lavoro, che non può essere intesa come
mera qualità della produzione, ma che deve essere letta nei
suoi aspetti più nobili: qualità del lavorare, della vita delle
persone che lavorano e dell'occupazione. La finalità espressa
è ulteriormente sottolineata dal comma 3 dello stesso
articolo, che individua la qualità della vita lavorativa come
"elemento centrale della strategia regionale di promozione
di condizioni di regolarità del lavoro e di acquisizione da
parte delle persone di condizioni lavorative stabili".
21
"Il sistema integrato di sicurezza", mira altresì, (in verità per
la prima volta in maniera organica) "all'inserimento nelle
misure di prevenzione degli aspetti relativi al genere, ed
all’età dei lavoratori, alla presenza di lavoratori
immigrati,…" e, compito fortemente avversato da alcune
componenti delle rappresentanze datoriali, alle "modalità di
organizzazione" del lavoro.
Gli interventi sulle modalità di organizzazione del lavoro
prevedono forme totalmente innovative di collaborazione (la
parola concertazione, prevista nel prima stesura, è stata cassata
in sede di Commissione Consiliare) "con le parti sociali" e
devono essere "orientate alla prevenzione, all’anticipazione
dei rischi e al miglioramento delle condizioni di lavoro". E'
prevista "l’adozione di patti territoriali per la salute e la
sicurezza nei luoghi di lavoro" allo scopo utilizzando, anche,
"misure di sostegno" alle azioni intraprese sulla base degli
"accordi, assunti dalle parti sociali" o dagli organismi
paritetici e "dirette a qualificare le misure per la prevenzione
dei rischi e la diffusione della cultura della sicurezza". Allo
stesso tempo, al fine di rendere più incisivo l'intervento
sull'organizzazione del lavoro è stato previsto all'art. 2, comma
4 la previsione che le aziende su base volontaria partecipino
alla sperimentazione di audit sull'organizzazione promossi
dalla Regione stessa.
La promozione del benessere psico-fisico dei lavoratori è
ricompresa nell'ottica più ampia di una “Corporate social
responsability”, in un virtuoso collegamento tra l’agire
economico e la qualità sociale, secondo le indicazioni delle
politiche europee per il lavoro. In questa dimensione, il fare
impresa non ha l'unico fine di produrre ricchezza materiale, ma
anche ricchezza sociale: occupazione, buona occupazione,
promozione di reti sociali, tutela ambientale.
22
La finalità che la legge si propone è dunque quella di
accrescere l'attenzione e l'interesse delle imprese, in particolare
di quelle ad alta densità di presenza di lavoratori immigrati, sui
temi indicati, allo scopo di favorire l'interesse delle imprese
verso il marchio di qualità sociale, la Regione ha previsto
azioni di incentivazione e di valorizzazione delle imprese
interessate.
1 L'occupazione in Emilia-Romagna.
Negli ultimi anni anche in Emilia-Romagna, come nel resto del paese,
la crescita economica è risultata stagnante. Nonostante ciò, in
Emilia-Romagna, è stata registrata una significativa espansione
dell’occupazione, che si è tradotta in una riduzione dello stock dei
disoccupati e nell'incremento della popolazione attiva. E' questo un
andamento paradossale, che coniuga una bassissima crescita
dell’attività produttiva con una dinamica favorevole del mercato del
lavoro. L’andamento del tasso di occupazione e di quello di
disoccupazione è illustrato nei grafici successivi.
Forze di lavoro in Emilia-Romagna (valori assoluti in migliaia).
Anni Forze di Lavoro
Non Forze di
Lavoro
Occupat Person Totale in età < di > di Totale Pop. Tass Tasso Tasso di
i
e in Forze 15-6 15 64
non Totale o di
di occupazio
cerca
di
lavoro
1996 1.681
96 1.77
7
1997 1.693 105 1.79
7
1998 1.705 98 1.80
2
1999 1.743 83 1.82
4 anni anni Forze
anni
913 426 773 2.11
3
889 429 786 2.10
3
875 432 802 2.10
9
854 437 807 2.09
23
disoc attivit
c.
à*
3.89
0
3.90
1
3.91
1
3.92
ne
5,4 66,1
62,5
5,8 66,9
63
5,4 67,3
63,7
4,6 68,1
65
6
7
3
74 1.84 831 445 822 2.09 3.94
4 69
66,2
7
8
6
2001 1.794 71 1.86 819 456 834 2.10 3.97 3,8 69,5
66,8
5
9
4
2002 1.822 62 1.88 804 464 842 2.11 3.99 3,3 70,1
67,8
4
0
4
2003 1.849 58 1.90 784 464 839 2.08 3.99 3,1 70,9
68,7
8
7
4
* Il denominatore dei tassi di attività e di occupazione è costituito
dalle Forze di lavoro sommate alle Non Forze di lavoro tra i 15 e i 64
anni.
2000 1.773
Fonte: Rilevazione Istat Forze di Lavoro ed elaborazioni CNEL su dati Istat
Tasso di occupazione in Emilia-Romagna
Tasso di disoccupazione in Emilia-Romagna
24
In questo contesto economico si è
osservata una forte crescita
dell'occupazione atipica. Il rapporto
tra occupati part-time e quelli full
time è passato dal 6,70 del 1996 al
9,70% del 2003; analogo incremento
si è registrato nel rapporto tra
occupati a tempo indeterminato e a
tempo determinato, rapporto che è
passato dal 6,9% al 10,4%.
In un contesto macroeconomico caratterizzato da prevalente
sfiducia dei consumatori e degli imprenditori, l'incremento
dell'occupazione regolata da contratti atipici, sembra,
soprattutto, funzionale ai bisogni dell'impresa.
25
Occupati a tempo pieno o parziale e con occupazione permanente o temporanea.
Territorio: Emilia-Romagna (valori assoluti in migliaia).
Occupati in Complesso
Occupati Dipendenti *
Tempo Tempo TOTAL
%
Occup.
Occup. TOTAL % Occup.
Pieno Parziale
Tempo Permanen Temporan
Temporan
E
E
Parziale
te
ea
ea
1996 1.568 113 1.681 6,70% 1.050
78 1.128 6,90%
1997 1.571 121 1.693 7,20% 1.053
86 1.138 7,50%
1998 1.579 126 1.705 7,40% 1.068
93 1.160 8,00%
1999 1.603 140 1.743 8,00% 1.088
101 1.189 8,50%
2000 1.623 151 1.773 8,50% 1.113
108 1.220 8,80%
2001 1.636 158 1.794 8,80% 1.118
123 1.241 9,90%
2002 1.654 168 1.822 9,20% 1.149
135 1.284 10,50%
2003 1.670 180 1.849 9,70% 1.165
136 1.300 10,40%
* Nota: l'accezione di occupazione temporanea si applica solo al
lavoro dipendente.
Fonte: Istat, Indagine sulle Forze di lavoro ed elaborazioni CNEL su dati
Istat (valori assoluti in migliaia).
Rapporto occupati temporanei su occupati a tempo indeterminato in
Emilia-Romagna.
26
Rapporto occupati a tempo parziale su occupati a tempo pieno in
Emilia-Romagna.
27
La dinamica dell’occupazione tende dunque a rispondere piuttosto
lentamente alle variazioni dell’attività produttiva.
Le imprese, in presenza di un mutamento in senso negativo delle
condizioni economiche in cui operano, tendono a sfruttare la
flessibilità nell’impiego della manodopera già assunta prima di
modificare il numero degli addetti. Può accadere che, con crescita
media stagnante, ma significativamente differenziata sul piano
settoriale e territoriale, come si è verificato, in questi anni, in
Emilia-Romagna, si può assistere, nei settori produttivi in crisi, ad
incrementi della CIG, mentre nelle aziende non in crisi, in cui
comunque si sconta una complessiva bassa fiducia degli imprenditori,
si assiste, in genere, ad un aumento delle forme di lavoro flessibili in
quanto preferite dalle imprese.
L'incertezza dell'impiego ed il relativamente basso costo del lavoro
(la crescita dei salari, in questi ultimi anni, non è stata proporzionale
all'inflazione), individua un importante paradosso economico-sociale
del lavoro flessibile in uscita: l'incertezza dell'impiego (associato ad
una bassa fiducia dei consumatori) si traduce in una riduzione della
propensione alla spesa delle famiglie, che, a sua volta, determina una
riduzione della domanda di consumi e quindi una ripresa economica
stentata incapace di riavviare un'occupazione stabile.
28
Un ulteriore fattore che ha spinto il mercato del lavoro in
Emilia-Romagna verso forme di lavoro flessibili è stata l'aumento
dell'offerta di lavoro, dovuto sia alla crescita della partecipazione
femminile al mercato del lavoro, sia all'immigrazione.
2 L’occupazione femminile.
In Emilia-Romagna, la crescita dell’occupazione e delle forze di
lavoro di genere femminile, supera anche nel 2003, quella maschile,
ma il numero di donne disoccupate si attesta allo stesso valore
dell’anno precedente, interrompendo la dinamica decrescente
registrata negli ultimi anni.
Più in particolare, con riferimento alla dinamica dell’occupazione, il
numero delle donne occupate è aumentato nel corso del 2003 di circa
19.000 unità, pari al 2,4% del totale dell’anno precedente (da
785.000 a 804.000). Tale incremento è stato molto superiore a quello
relativo all’occupazione maschile sia in termini assoluti che relativi. Il
numero di uomini occupati è, infatti, cresciuto solo di circa 8.000
unità pari allo 0,8% (un terzo dell’incremento femminile). La forte
crescita del numero delle donne occupate genera un nuovo
incremento del tasso di occupazione femminile che si porta al 60,5%.
Emerge, tuttavia, che l’aumento, registrato nel 2003,
dell’occupazione avviene contestualmente ad un aumento uguale
delle forze di lavoro (più 19.000 unità, pari al 2,3%, contro più
5.000 unità, pari allo 0,5%, per i maschi). Il risultato è che, mentre
per i maschi l’aumento dell’occupazione in eccesso sull’aumento
delle forze lavoro riduce il già minimo tasso di disoccupazione (che
giunge all’1,9%), per le donne l’aumento dell’occupazione (più
19.000) uguale all’aumento delle forze lavoro (più 19.000), lascia
invariato il tasso di disoccupazione (4,5%).
Mercato del lavoro in Emilia-Romagna (valori assoluti in migliaia).
Forze lavoro: Maschi
Occupati Persone in Tasso di
Tasso di
cerca di
disocc.
attività*
lavoro
29
Tasso di
occupazione
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
992
996
996
1.009
1.020
1.028
1.037
1.045
32
3,1
75,5
73,2
34
3,3
76
73,5
35
3,4
76,3
73,7
28
2,7
76,7
74,6
28
2,7
77,4
75,3
28
2,7
77,8
75,7
24
2,3
78
76,2
21
1,9
78,2
76,7
Forze lavoro: Femmine
Occupati Persone in Tasso di
Tasso di
Tasso di
cerca di
disocc.
attività* occupazione
lavoro
1996
689
64
8,5
56,4
51,7
1997
697
71
9,2
57,7
52,4
1998
709
62
8,1
58,2
53,5
1999
734
55
7
59,4
55,3
2000
753
46
5,7
60,4
56,9
2001
766
43
5,3
61
57,7
2002
785
38
4,6
62
59,1
2003
804
38
4,5
63,4
60,5
Il denominatore dei tassi di attività e di occupazione è costituito dalle Forze
di lavoro sommate alle Non Forze di lavoro tra i 15 e i 64 anni. Fonte dati
CNEL
.
3 L'invecchiamento della popolazione
Negli ultimi decenni si è verificata in tutti i paesi ricchi una netta
riduzione sia del tasso di natalità sia del tasso di mortalità.
Conseguentemente è aumentata l’incidenza degli anziani sul totale
della popolazione, tale fenomeno è particolarmente rilevante in
Emilia-Romagna. Nel 1999, in Emilia-Romagna, il 20,6% della
popolazione aveva più di 65 anni, contro il 16,8% dell'Italia.
30
Distribuzione della popolazione secondo l’età. Fonte: Istat
Anno 1999
Italia
Italia Nord-Est
Emilia-Romagna
<15 anni 16 - 64 anni >65 anni
14,6
68,6
16,8
12,5
69,3
18,2
11,2
68,2
20,6
Totale
100 %
100 %
100 %
Tuttavia, negli ultimi tempi, si assiste in Emilia-Romagna ad una
inversione di tendenza dell’indice di dipendenza rispetto
all’occupazione. Il rapporto anziani (popolazione oltre i 64 anni)/
occupati, dopo aver raggiunto un valore massimo del 47% nel 1998,
si è ridotto fino al valore di 45,4% nel 2003.
E’ questa un'indicazione molto rilevante da un punto di vista
interpretativo in quanto segnala un aumento del tasso di occupazione
degli anziani. Aumento che, letto in un contesto economico sociale
più ampio, potrebbe essere attribuito ad una aumento della domanda
di lavoro attribuibile alla ricerca da parte delle famiglie di una
sostenibilità del reddito disponibile.
4 Gli immigrati stranieri
Gli immigrati soggiornanti in Emilia Romagna, alla fine del 2003,
con regolare permesso di soggiorno, erano 217.756. Se agli adulti
(unici titolari del permesso di soggiorno), si aggiungono i minori
(ipotizzati in oltre 45.000) si ottiene una stima di 263.414 stranieri
presenti regolarmente in regione; quota pari al 6,4% dei residenti.
Soprattutto a causa della regolarizzazione del 2002-2003, il numero
di permessi di soggiorno è praticamente raddoppiato negli ultimi tre
anni.
Permessi di soggiorno rilasciati nella Regione Emilia-Romagna.
31
L’immigrazione tende verso caratteristiche di stabilità comprovate da
un costante processo di ricongiunzione familiare e conseguentemente
da una crescita della componente femminile, che ha superato i
centomila permessi di soggiorno e che si avvicina al 47% del totale.
Il gruppo continentale più numeroso presente in Emilia-Romagna è
quello europeo (43,8% del totale), che supera quindi il contingente
africano (pari al 33,2%).
32
Il processo di regolarizzazione ha sottolineato un’osservazione
scontata: la ricerca del lavoro, l’offerta dello stesso costituisce il
principale fattore regolante l’immigrazione in Emilia-Romagna.
In questa fase sembrano consolidarsi due poli principali
dell’immigrazione regionale: il primo composto da donne,
prevalentemente dell’Europa dell’est, attive nei servizi alla persona,
ed il secondo di uomini, in massima parte provenienti dal continente
africano, attivi nel settore industria.
L’incremento del 6% della popolazione regionale di una quota
costituita da persone con bisogni particolari e diversi, ha reso
necessario un intervento legislativo ad hoc, che si è concretizzato
nella legge regionale n. 5 del 24 marzo 2004, in materia di politiche
per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri. La legge ha affrontato
il tema dell'immigrazione straniera secondo un approccio
universalistico, teso a garantire l'effettivo esercizio dei diritti sociali
di cittadinanza nell'ambito dei servizi pubblici esistenti, prevedendo
l’abbandono di qualsiasi approccio occasionale, temporaneo ed
emergenziale.
5 Gli infortuni sul lavoro come indicatori dello stato di
salute dei lavoratori della Regione Emilia-Romagna.
Nell’ambito di un mercato del lavoro regionale quale appena
delineato, gli infortuni sul lavoro occorsi in Emilia-Romagna, nel
periodo 2002-2004, sono esemplificati nelle tabelle seguenti. Gli
infortuni sono divisi per anno e ne è calcolata la variazione
percentuale; sono altresì divisi a seconda delle tipologie
ordinariamente individuate dall'Inail.
Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2002-2004 denunciati all'INAIL indennizzati al 30.04.2005
DENUNCE
GESTIONE
Anni
Totali
10.711
INDENNIZZI
Mortali
26
AGRICOLTURA 2002
33
Temporanea
8.107
Permanente
in capitale
431
in rendita
73
Totale
504
Morte
Totale
25
8.6
10.112
12
7.580
427
73
500
11
8.0
9.554
17
7.197
324
55
379
16
7.5
126.805
151
77.919
2.352
561
2.913
134
80.9
125.789
136
74.085
2.393
578
2.971
127
77.1
127.191
110
72.324
1.778
340
2.118
101
74.5
2.123
1
971
52
4
56
1
1.0
2.211
2
1.094
43
10
53
2
1.1
2.293
1
1.214
47
6
53
1
1.2
139.639
178
86.997
2.835
638
3.473
160
90.6
138.112
150
82.759
2.863
661
3.524
140
86.4
139.038
128
80.735
2.149
401
2.550
118
83.4
2003
2004
INDUSTRIA E
2002
SERVIZI
2003
2004
DIPENDENTI
CONTO
STATO
2002
2003
2004
TOTALE
2002
2003
2004
Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2002-2004 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il
30.04.2005 divisi per settore tariffario
SETTORE
TARIFFARIO
INDUSTRIA
DENUNCE
Anni
Totali
INDENNIZZI
Mortali
Permanente
Temporanea
38.231
64
in capitale in rendita
31.866
833
211
37.068
50
30.325
842
227
35.548
39
28.765
606
21.850
51
17.994
21.554
49
21.222
42
Totale
1.044
Morte
Totale
59
32.969
1.069
47
31.441
111
717
34
29.516
740
197
937
49
18.980
17.259
803
221
1.024
48
18.331
16.860
626
146
772
40
17.672
2002
2003
2004
ARTIGIANATO
2002
2003
2004
34
TERZIARIO
25.823
19
20.748
554
110
664
17
21.429
25.777
26
20.332
542
102
644
24
21.000
25.859
21
20.413
388
66
454
21
20.888
8.409
9
6.523
218
41
259
8
6.790
7.945
7
6.027
203
25
228
7
6.262
8.153
6
6.077
144
14
158
5
6.240
2002
2003
2004
ALTRE ATTIVITA' 2002
2003
2004
Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2002- 2004 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per settore di at
economica , anno e tipo di conseguenza - industria e servizi
Settore
di attività economica
Anni
Casi
denunciati
Temporanea
in capitale
35
di cui indennizzati
Permanente
in rendita
Totale
Morte
T
A+B
C
DA
DB
DC
DD
DE
INDUSTRIA
2002
51.259
di cui
2003
50.291
2004
47.331
2002
658
2003
640
2004
683
2002
134
2003
96
2004
111
2002
4.059
2003
3.974
2004
3.440
2002
1.191
2003
1.096
2004
961
2002
443
2003
431
2004
352
2002
1.283
2003
1.155
2004
1.111
2002
1.124
2003
1.115
Agrindustria e Pesca
Estrazione di minerali
Industria alimentare
Industria tessile e abbigliamento
Industria conciaria
Industria del legno
Industria della carta
36
42.657
1.274
334
1.608
72
40.910
1.326
357
1.683
64
38.062
944
199
1.143
45
559
21
8
29
2
524
24
7
31
2
547
17
7
24
-
101
8
2
10
-
79
3
-
3
1
89
5
1
6
1
3.456
98
14
112
6
3.294
102
14
116
4
2.879
62
9
71
2
948
28
4
32
1
870
29
8
37
-
734
23
1
24
-
387
13
2
15
1
348
7
3
10
-
275
4
2
6
-
1.090
50
7
57
1
948
50
6
56
1
893
36
7
43
1
925
29
5
34
-
918
21
6
27
3
827
DF
DG
DH
DI
DJ
DK
DL
DM
2004
1.012
2002
29
2003
17
2004
27
2002
856
2003
761
2004
737
2002
1.545
2003
1.466
2004
1.295
Industria lav. minerali non
2002
4.522
metalliferi
2003
4.161
2004
4.015
2002
8.498
2003
8.342
2004
8.058
2002
8.061
2003
7.316
2004
6.960
2002
1.859
2003
1.800
2004
1.640
2002
1.522
Industria del petrolio
Industria chimica
Industria della gomma e plastica
Industria dei metalli
Industria meccanica
Industria macchine elettriche
Industria fabbricazione mezzi
37
16
6
22
24
-
15
-
-
23
1
-
1
-
693
18
7
25
3
611
18
6
24
1
571
6
1
7
1
1.307
32
9
41
1
1.202
24
13
37
2
1.073
22
6
28
-
3.872
88
17
105
6
3.486
86
18
104
3
3.360
46
6
52
2
7.126
168
55
223
9
6.870
174
45
219
10
6.605
132
30
162
6
6.747
129
44
173
7
5.978
115
40
155
5
5.574
109
19
128
6
1.529
40
4
44
3
1.419
42
7
49
5
1.294
23
4
27
1
1.270
30
3
33
1
di trasporto
DN
D
E
F
2003
1.682
2004
1.631
2002
1.385
2003
1.324
2004
1.273
Industrie
2002
36.377
manifatturiere
2003
34.640
2004
32.512
2002
819
2003
788
2004
712
2002
13.271
2003
14.127
2004
13.313
2002
41.657
2003
41.428
2004
40.653
2002
10.124
2003
9.886
2004
9.790
2002
4.301
2003
2004
4.469
4.205
Altre industrie
Elettricità, gas, acqua
Costruzioni
SERVIZI
di cui
G
H
Commercio
Alberghi e ristoranti
38
1.369
31
8
39
1
1.270
20
2
22
1
1.164
44
9
53
1
1.108
37
10
47
-
1.040
25
3
28
-
30.538
767
180
947
40
28.436
736
184
920
35
26.418
525
96
621
20
677
15
4
19
-
652
21
4
25
1
573
16
1
17
-
10.782
463
140
603
30
11.219
542
162
704
25
10.435
381
94
475
24
33.384
1.040
215
1.255
58
32.580
1.041
213
1.254
62
31.934
748
123
871
51
8.366
254
43
297
9
7.957
240
48
288
12
7.856
172
31
203
7
3.512
110
20
130
5
3.531
119
21
140
4
3.342
82
9
91
4
I
J
K
L
M
N
O
Trasporti e comunicazioni
2002
8.928
2003
8.747
2004
8.707
Intermediazione
2002
796
finanziaria
2003
641
2004
669
Attività immobiliari e
2002
8.094
servizi alle imprese
2003
7.920
2004
7.671
Pubblica
2002
3.452
Amministrazione
2003
3.546
2004
3.458
2002
525
2003
498
2004
510
2002
2.967
2003
3.055
2004
3.081
2002
2.470
2003
2.666
2004
2.562
2002
92.916
Istruzione
Sanità e servizi sociali
Altri servizi pubblici
INDUSTRIA E SERVIZI
39
7.310
281
66
347
28
7.133
284
75
359
29
7.060
212
47
259
27
500
22
5
27
1
387
23
1
24
2
403
23
2
25
3
6.234
160
44
204
12
6.027
151
40
191
7
5.935
122
21
143
7
2.666
91
17
108
-
2.701
93
6
99
1
2.598
60
3
63
-
301
6
1
7
-
280
6
1
7
-
283
7
-
7
1
2.477
48
3
51
1
2.487
46
6
52
3
2.460
21
2
23
-
2.018
68
16
84
2
2.077
79
15
94
4
1.997
49
8
57
2
76.041
2.314
549
2.863
130
Non determinato
IN COMPLESSO
2003
91.719
2004
87.984
2002
33.889
2003
34.070
2004
39.207
2002
126.805
2003
125.789
2004
127.191
73.490
2.367
570
2.937
126
69.996
1.692
322
2.014
96
1.878
38
12
50
4
595
26
8
34
1
2.328
86
18
104
5
77.919
2.352
561
2.913
134
74.085
2.393
578
2.971
127
72.324
1.778
340
2.118
101
Infortuni sul lavoro avvenuti nell'anno 2003 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per settore di attività economica.
INDUSTRIA E SERVI
Settore di attività economica
A+B
C
DA
DB
DC
DD
DE
DF
DG
DH
DI
DJ
DK
DL
DM
DN
D
E
F
G
Totale
42.657
557
83
3.414
907
358
1.005
948
15
636
1.241
3.593
7.099
6.138
1.473
1.409
1.155
29.391
678
11.948
33.896
8.257
INDUSTRIA
Agrindustria e Pesca
Estrazione di minerali
Industria alimentare
Industria tessile e abbigliamento
Industria conciaria
Industria del legno
Industria della carta
Industria del petrolio
Industria chimica
Industria della gomma e plastica
Ind lav. minerali non metalliferi
Industria dei metalli
Industria meccanica
Industria macchine elettriche
Industria fabbr.mezzi trasporto
Altre industrie
Industrie manifatturiere
Elettricità, gas, acqua
Costruzioni
SERVIZI
Commercio
40
Addetti
Indice di Incidenza
762.453
11.209
1.926
63.483
45.720
10.158
14.286
26.019
506
23.307
18.453
52.575
96.454
129.905
48.117
24.612
20.612
574.207
17.183
157.928
815.405
239.717
5,5
4,9
4,3
5,3
1,9
3,5
7,0
3,6
2,9
2,7
6,7
6,8
7,3
4,7
3,0
5,7
5,6
5,1
3,9
7,5
4,1
3,4
H
I
J
K
L
M
N
O
Alberghi e ristoranti
Trasporti e comunicazioni
Intermediazione finanziaria
Attività immobiliari servizi imprese
Pubblica Amministrazione
Istruzione
Sanità e servizi sociali
Altri servizi pubblici
INDUSTRIA E SERVIZI
Non determinato
IN COMPLESSO
3.675
7.521
413
6.225
2.801
287
2.542
2.175
76.553
630
77.183
73.658
71.441
79.722
144.329
87.914
11.551
41.630
65.443
1.577.858
894
1.578.752
4,9
10,5
0,5
4,3
3,1
2,4
6,1
3,3
4,8
70,4
4,8
Infortuni sul lavoro avvenuti nell'anno 2003 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per settore di attività economic
presentati in ordine decrescente rispetto all’Indice Infortunistico (Numero infortuni denunciati/addetti*100
INDUSTRIA E SERVIZI.
Settore di attività economica
Non determinato
I
Trasporti e comunicazioni
F
Costruzioni
DJ
Industria dei metalli
DD
Industria del legno
DI
Ind lav. minerali non metalliferi
DH
Industria della gomma e plastica
N
Sanità e servizi sociali
DM
Industria fabbr.mezzi trasporto
DN
Altre industrie
DA
Industria alimentare
H
Alberghi e ristoranti
A+B
Agrindustria e Pesca
DK
Industria meccanica
K
Attività immobiliari servizi imprese
C
Estrazione di minerali
E
Elettricità, gas, acqua
DE
Industria della carta
DC
Industria conciaria
G
Commercio
O
Altri servizi pubblici
L
Pubblica Amministrazione
DL
Industria macchine elettriche
DF
Industria del petrolio
DG
Industria chimica
M
Istruzione
DB
Industria tessile e abbigliamento
Totale
Addetti
630
7.521
11.948
7.099
1.005
3.593
1.241
2.542
1.409
1.155
3.414
3.675
557
6.138
6.225
83
678
948
358
8.257
2.175
2.801
1.473
15
636
287
907
41
894
71.441
157.928
96.454
14.286
52.575
18.453
41.630
24.612
20.612
63.483
73.658
11.209
129.905
144.329
1.926
17.183
26.019
10.158
239.717
65.443
87.914
48.117
506
23.307
11.551
45.720
Indice di Incidenz
70,4
10,5
7,5
7,3
7,0
6,8
6,7
6,1
5,7
5,6
5,3
4,9
4,9
4,7
4,3
4,3
3,9
3,6
3,5
3,4
3,3
3,1
3,0
2,9
2,7
2,4
1,9
J
Intermediazione finanziaria
INDUSTRIA
SERVIZI
INDUSTRIA E SERVIZI
IN COMPLESSO
413
42.657
33.896
76.553
77.183
79.722
762.453
815.405
1.577.858
1.578.752
0,5
5,5
4,1
4,8
4,8
CONTATTO/AGENTE MATERIALE (VARIABILE ESAW/3) - INFORTUNI SUL LAVORO AVVENUTI NELL'ANNO 2003 E INDENNIZZA
Agente
materiale del
contatto
Tota
le
Contatto
Non
Con
Cadute, Con
codificat
elettr.,temp
Sforzi Con
Con
urti,
agente Incastra
o,
epsicofi esseri
asfissia collision contund menti
non
ratura,
sici viventi
i
ente
determin
sostanze
ato
Strutture edili e
superfici
Dispositivi di
distribuzione
51
17
15
3.493
1.307
161
598
4
2
-
77
60
33
20
-
18
-
66
41
45
21
-
48
1
379
1.213
173
130
1
55
-
228
448
220
64
-
11
-
567
298
286
308
1
6
-
2.634
118
46
116
2
1
-
31
7
2
8
-
277
3
1.508
1.308
625
724
-
213
1
14
6
1
1
-
2
Motori
Dispositivi di
convogliamento
194
-
Utensili
Macchine e
attrezzature
5.646
191
9
1.954
9
1.024
6
Veicoli terrestri
1.477
23
Altri veicoli
2.945
6
Materiali
55
19
4.464
4
Sostanze
42
240
Attrezzature particolari
3
8
-
199
157
61
99
1
4
-
83
15
16
236
167
2
-
5
13
-
8
-
29
1
2
-
1
-
-
32
3
380
178
67
999
15
723
24
9.666
5.169
1.737 3.332
191
528
5
Organismi viventi
526
Rifiuti
1
29
Fenomeni fisici
Non codificato, non
determinato
1
34
56.202
57.876
56.341
TOTALE
77.183
Infortuni sul lavoro avvenuti nell'anno 2003 e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per sede della lesione, tipo di conseguenza e
INDUSTRIA E SERVIZI
Permanente
SEDE DELLA LESIONE
Temporanea
Morte
T
in capitale
in rendita
Totale
CRANIO
OCCHI
FACCIA
COLLO
CINGOLO TORACICO
PARETE TORACICA
ORGANI INTERNI
COLONNA VERTEBRALE
BRACCIO, AVAMBRACCIO
GOMITO
POLSO
MANO
CINGOLO PELVICO
COSCIA
GINOCCHIO
GAMBA
CAVIGLIA
PIEDE
ALLUCE
ALTRE DITA
2.851
2.639
2.116
3.177
2.987
2.697
110
10.006
2.302
1.495
3.266
21.449
499
772
5.104
1.980
5.143
3.555
703
531
43
115
22
71
39
285
83
5
268
114
76
187
320
50
53
239
141
182
111
7
5
63
30
9
2
26
25
8
65
48
20
29
52
36
38
27
38
21
28
1
-
178
52
80
41
311
108
13
333
162
96
216
372
86
91
266
179
203
139
8
5
72
3
1
17
21
4
2
2
3
1
-
ALTRE E INDETERMINATE
TOTALE
703
20
12
32
1
74.085
2.393
578
2.971
127
44
Elementi di criticità legate agli infortuni:
indagine sui dati infortunistici in
Emilia-Romagna per provincia e per settore
CARLO BONORA, DAVIDE DAZZI
1 Introduzione
Il miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità della vita
lavorativa trovano strumento di sostegno nel dialogo sociale nei
luoghi di lavoro, nella coesione interna alle imprese, in forme
concrete di concertazione, a cui le istituzioni sono chiamate, nella
capacità di tutti di capire che il miglioramento delle condizioni di
lavoro e della qualità della vita lavorativa sono prerogative
indispensabili e irrinunciabili di non solo interesse dei lavoratori (che
subiscono l’infortunio) ma anche dell’impresa e, più in generale della
società. Gli infortuni sul lavoro sono causa prima di costi sociali
rilevantissimi e, da parte di tutti, dichiaratamente insostenibili ma
anche di costi economici che creano gravi difficoltà all’impresa, sul
lato della competitività e dell’immagine. Un contributo indispensabile
per affrontare in positivo il grave e irrisolto problema degli infortuni
può essere dato dall’attività di monitoraggio, quando questa assume
aspetti relazionali con l’impresa e con i lavoratori che la valorizzano
in senso positivo, ricavandone motivi di miglioramento
dell’organizzazione.
E’ necessaria una attenta e continua analisi su ciò che avviene nei
luoghi di lavoro, su come sono organizzati il lavoro e la produzione e
sul pressing causato alle imprese e quindi ai lavoratori da tutto ciò
che è espressione tecnica, tecnologica e socioeconomica nell’attuale
Società (definita da politici, sociologi ed economisti, Società
dell’Informazione e della Comunicazione - Information Society).
Tutto ciò può consentire di intervenire, anche in maniera preventiva,
per procedere sistematicamente alla risoluzione delle problematiche
insite nella gestione della sicurezza negli ambienti lavorativi. Occorre
45
cioè rigenerare quelle mentalità innovative, legate alla salute e alla
sicurezza negli ambienti di lavoro, animate da codici sociali, etici e
politici orientati alla prevalenza della “dignità” dell’uomo, nella sua
integrità psico/fisica, su tutti i parametri regolatori dell’economia.
D’altra parte, occorre “attrezzare” il lavoro di sensibilità soggettiva.
L’evento incidentale coinvolge il singolo o poche persone; quando
esso si verifica colpisce il soggetto o poche persone insieme, se non
in casi eccezionali. E’ importante allora cercare di capire che cosa
avviene nel lavoratore/lavoratrice di fronte all’evidenza del rischio,
nei luoghi di lavoro. Certamente l’ambiente operativo pone, nelle
condizioni in cui si lavora, un problema collettivo che sovrasta
l’individuo. Occorre però che si crei, tra i lavoratori, la sensibilità
necessaria per gestire il loro diritto a luoghi di lavoro organizzati,
per garantire condizioni di lavoro sicure. Il principio dell’integrità
psicofisica del lavoratore ingiunge agli operatori della sicurezza
(siano essi rappresentanti delle parti sociali o operatori istituzionali o
comunque “intermediari”) di adoperarsi, in qualità di mediatori
culturali, per far emergere i principi culturali e scientifici su cui si
basano i fattori della prevenzione; attraverso tale intermediazione
culturale si può far crescere la responsabilità dei lavoratori verso se
stessi, non tanto per spostare l’attenzione verso la cosiddetta
correzione dell’errore umano ma nel controllo di come il lavoro è
organizzato e nella richiesta ininterrotta di più benessere
nell’ambiente lavorativo e nell’ambiente circostante.
L’Istituto per il Lavoro ha dimostrato che, coinvolgendo i lavoratori
e le loro rappresentanze, è possibile creare la coscienza del diritto alla
salubrità nel lavoro e far emergere tra essi la coscienza di sé,
percependo il rischio attraverso una analisi soggettiva di dove si è e
di come si lavora (le condizioni di lavoro come fattore dipendente
dell’organizzazione del lavoro).
2 Salute e Sicurezza nel Lavoro: un sguardo allargato
Prima di addentrarci ad esplorare i dati e le statistiche degli incidenti
sul lavoro, con particolare attenzione alla situazione della Regione, è
46
utile allargare lo sguardo verso le dimensioni europea e nazionale per
avere un termine di paragone e capire quali siano le tendenze
attualmente in atto. E’ comunque necessario porre attenzione al fatto
che la complessità di una rilevazione omogenea a livello europeo
sugli andamenti infortunistici e sulla malattie professionali permette di
avvalerci di dati che comunque sono approssimativi, essendo derivati
da denunce di infortunio e dal riconoscimento del danno subito, sulla
base di differenti e, a volte divergenti, regolazioni in materia di salute
e sicurezza negli ambienti di lavoro, negli Stati membri.
1.
Lavoro e sicurezza nell’Unione Europea
“La strategia per la salute e la sicurezza in Europa deve evolversi
con i tempi. È inaccettabile che nell’Unione Europea ci siano
ancora tassi di incidenti, anche mortali, così elevati. Senza contare
che le nuove modalità occupazionali hanno creato nuove tipologie
di rischi sul posto di lavoro, quali l’aggressività e lo stress”. La
situazione era (2000) e permane grave. Anche se il tasso degli
incidenti sul lavoro in Europa si è ridotto di quasi il 10 per cento tra
il ’94 e il ’98, le cifre assolute restano elevatissime e inaccettabili: i
morti, nel quadriennio in considerazione, sono stati 5.500 e 4 milioni
e 800.000 gli incidenti con referti di oltre tre giorni, quindi con danni
sociali ed economici di estrema gravità. Come se ciò non bastasse,
dal 1999 viene registrata un’inquietante ripresa nell’aumento degli
infortuni in alcuni paesi membri e particolarmente nei settori
industriali. La situazione si presenta ancora peggiore nei paesi
candidati, soprattutto in ragione della loro maggiore specializzazione
occupazionale nei comparti tradizionalmente considerati ad alto
rischio (industria estrattiva ed edilizia, ma anche nelle attività
manifatturiere e in agricoltura). Con l’attuazione dell’allargamento e
con la graduale assunzione delle direttive europee da parte dei paesi
entrati la situazione europea, per ciò che riguarda la salute e la
sicurezza nei luoghi di lavoro, tende inevitabilmente a peggiorare . La
preoccupazione aumenta se ci si riferisce alla piccole e medie
imprese: è il caso delle costruzioni, in cui gli incidenti sono superiori
47
del 40 per cento rispetto alla media degli altri settori e dove la forbice
sale al 124 per cento nell’ambito delle piccolissime aziende e
addirittura al 130 tra le piccole. A rendere ancora più complicate le
cose è il nuovo scenario sociale ed economico: i cambiamenti nella
società e nel mondo del lavoro introducono nuove dimensioni nella
problematica della salute e sicurezza. La femminilizzazione crescente
della forza lavoro, se produce generalmente tassi di incidenti o
malattie professionali inferiori a quelli maschili, in ragione della
prevalente collocazione nel settore del terziario (83 per cento),
presenta per altri versi inquietanti dinamiche in alcuni gruppi di
patologie: le allergie (per il 45 per cento), le malattie infettive (61 per
cento), i disturbi neurologici (48 per cento). Egualmente,
l’invecchiamento della popolazione attiva comporta per i lavoratori al
di sopra dei 55 anni tassi di incidenti mortali assai superiori a quelli
della media degli occupati. Per non dire dei cambiamenti nelle
tipologie occupazionali e di lavoro, che con il crescere degli impieghi
e degli orari atipici, enfatizzano fortemente i fattori di rischio, gli
incidenti e le alterazioni psicosomatiche legate al lavoro a turni e
notturno. Ma sono gli stessi rischi che stanno cambiando: accanto a
quelli di tipo “tradizionale”, si affermano sempre più quelli legati ad
una società e ad una economia che si globalizza e deve gestite la
competitività a livello mondiale, dallo stress all’ansietà da ritmi o da
intimidazioni (violenze che si scaricano sempre più sulla psiche
dell’uomo), che sembra tocchino ormai da soli circa il 18% dei fattori
di rischio in generale. È in questo complesso e per nulla confortante
contesto che la Commissione ha elaborato e lanciato la nuova
strategia per la salute e la sicurezza, che viene affermata nel quadro
di quella più generale strategia di Lisbona, che fa della “qualità delle
condizioni di lavoro e della vita lavorativa” uno dei suoi paradigmi.
Quali sono gli assi d’intervento delineati e da realizzarsi entro il
2006? L’elaborazione europea insiste su un triplice approccio: il
“benessere” complessivo del lavoro, raccogliendo le indicazioni dell’
ILO; con l’emergere di nuovi rischi, il consolidamento di una cultura
della prevenzione, da attuare attraverso una pluralità di strumenti
(legislazione, dialogo sociale, strumenti di coesione sociale, buone
prassi, ecc.); e. infine, la realizzazione di appositi partenariati tra tutti
48
gli attori politici ed operativi impegnati nella salute e sicurezza,
coinvolgendo con grande enfasi il territorio (patti territoriali per la
salute).
La strategia formulata dalla Commissione è coerente con il
cosiddetto “processo di Lisbona”: il presupposto di fondo è relativo
ad una politica sociale ambiziosa orientata a valorizzare tutti i fattori
di competitività economica: la “qualità del lavoro” è uno di questi. Il
riferimento è l’articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali. In esso
si afferma che ogni lavoratore ha diritto “a condizioni di lavoro che
rispettino la sua salute, sicurezza e dignità”; tale diritto diventa
sempre più il riferimento generale per ogni strategia europea, mentre
un atteggiamento passivo per ciò che riguarda salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro genera pesanti costi per l’economia e la società.
La Strategia Comunitaria per la Salute e Sicurezza (2002-2006) è
progettata per rendere più agevole l'applicazione della legislazione
esistente in materia di salute e sicurezza sul lavoro e a promuovere
nuove iniziative significative nel periodo preso in esame. Muovendo
da preoccupate considerazioni sulla situazione attuale, la
Commissione richiama le tre esigenze da soddisfare per garantire un
ambiente di lavoro sicuro e sano:
· il consolidamento della cultura della prevenzione dei rischi
attraverso una valorizzazione e potenziamento della
istruzione e formazione e la sensibilizzazione verso i datori di
lavoro e attraverso azioni preventive rispetto a rischi nuovi ed
emergenti
· la migliore applicazione del diritto esistente. “A tal fine la
Commissione elaborerà, in concertazione con le parti
sociali, delle guide d'applicazione delle direttive che
terranno conto della diversità dei settori d'attività e delle
imprese. Inoltre la Commissione svilupperà azioni miranti a
favorire, grazie a una stretta collaborazione tra le autorità
nazionali, un'attuazione corretta ed uniforme delle direttive;
in tal senso, si dovranno incoraggiare l'elaborazione di
obiettivi comuni di ispezione e la costruzione di metodi
comuni di valutazione dei sistemi nazionali d'ispezione. Per
49
di più i controlli esercitati dai servizi d'ispezione degli Stati
membri devono portare a sanzioni omogenee, che siano a un
tempo dissuasive, proporzionate e applicate effettivamente”.
· l'impostazione globale «del benessere sul lavoro» inteso nella
sua accezione fisica, morale e sociale e che “non può essere
misurato soltanto dall’assenza di infortuni o di malattie
professionali”
Come si può evincere dalla riflessione precedente le considerazioni
sullo stato della salute e della sicurezza nel lavoro vanno di pari
passo con ciò che sta accadendo nel Mercato del Lavoro europeo. In
Europa si registrano, nel 2002 circa 160 milioni di lavoratori; la
maggioranza di essi e di sesso maschile (il 57%) mentre
l’occupazione femminile è attestata intorno al 43%. In particolare la
“forza lavoro” femminile risente, più degli uomini, dei periodi di crisi
per cui l’occupazione delle donne è connotata della “flessibilità”, in
questo caso da intendersi come “via vai” nel Mercato del lavoro.
Inoltre la partecipazione al mercato del lavoro evidenzia alcune
caratteristiche, riscontrabili in quasi tutti gli Stati membri “storici”
dell’Unione:
- l’invecchiamento delle popolazione;
- la “flessibilizzazione” del lavoro, particolarmente per i
giovani;
- il fenomeno dell’immigrazione.
Tali caratteristiche hanno un fattore comune, quello del “genere”:
uomini e donne, considerati come “forza lavoro” invecchiano, se
giovani sono “flessibilizzati” e sono presenti come immigrati. Il
problema che la stessa Unione pone, attraverso le “Strategie per
l’Occupazione” (SEO), è che si è ancora ben lontani dalla parità di
opportunità, sia nell’avere un lavoro, nel lavoro e nella fruizione dei
diritti. Il “deficit” di parità nel lavoro ha delle ripercussioni sulla
salute della donna e sul benessere psico-sociale.
Nel periodo 1995-2002, il numero di persone al lavoro è aumentato
di circa 0.36 milioni nella fascia di età compresa tra i 15-24, mentre è
aumentata di più (2.38 milioni) nella fascia di età compresa tra i
55-64.
50
Tra le caratteristiche più sopra enumerate, comune tra tutti gli Stati
membri, è l’inarrestabile flessibilizzazione delle forme contrattuali di
lavoro; dai dati ufficiali, elaborati da EUROSTAT, si può evincere
che nel periodo 1994-2001, il numero di lavoratori assunti con
contratti a tempo determinato è cresciuto del 29% contro un
contenuto aumento del 9% dei lavoratori assunti a tempo
indeterminato.
La frammentazione “a tempo” dell’iter lavorativo che lo rende
transitorio, anche come “luogo” tecnologico organizzato, impone
una riflessione su quali possano essere le conseguenze in termini di
sicurezza sul luogo di lavoro. Una progressiva e continua
interruzione del processo di assimilazione delle procedure
comportamentali , formali ed informali, volte ad evitare le situazioni
di rischio proprie di una produzione o di una tipologia lavorativa
sottrae, al lavoratore, la possibilità di dotarsi della necessaria
conoscenza per la tutela della qualità della propria vita lavorativa.
Qui non si sta discutendo dell’utilizzo della “dotazione individuale
antinfortunistica” ma di capacità autoregolativa di dominare l’evento
“lavoro” che si può acquisire solamente attraverso una prospettiva di
continuità tra il “fare” e l’ “essere in situazione”, e, tra l’altro, in
ambito sociale solidale e coeso con altri lavoratori più esperti .
In quest’ambito, appena accennato, è comunque possibile capire,
interpretandole, le risultanze di alcune elaborazione statistiche
relative alle condizioni di lavoro. Secondo il “Third European Survey
of Working Conditions” il 29% dei lavoratori dell’Unione Europea
considera “soddisfacente” le proprie condizioni di lavoro ed il 55%
“abbastanza soddisfacente” ed allo stesso tempo il 28% ritiene che il
proprio stato di salute sia stato compromesso dal lavoro. Dunque,
una parte non trascurabile ( il 16% della popolazione occupata)
lavora in condizioni di sicurezza non soddisfacenti. Se questa
percentuale si affianca con la percentuale di lavoratori che afferma
che il lavoro ha compromesso il loro stato di salute, emerge l’urgenza
di un intervento in maniera coordinata a livello micro e macro e
quindi sia sul piano europeo che sul piano nazionale, regionale e
locale. Al contrario se il terzo della forza lavoro che reputa la propria
salute compromessa dal lavoro corrisponde a coloro che
51
sostanzialmente valutano positivamente le proprie condizioni di
lavoro, le conclusioni sono diverse ma ancor più preoccupanti. La
mancanza di sicurezza e il danneggiamento del proprio stato di salute
sono elementi percepiti come connaturati alla attività di lavoro: chi
lavora in condizioni precarie e/o usuranti è soggetto ad un processo
psicologico che porta ad una accettazione rassegnata della
condizione lavorativa. Il rischio dietro questa possibile
interpretazione è la difficoltosa diffusione di una cultura della
sicurezza che abbia la necessaria caratteristica della “pervasività”.
Sempre in base ai dati sulla percezione dei lavoratori emersi dalla
indagine, di cui sopra, il 44% dei giorni di assenza per malattia sono
da imputare ad incidenti sul lavoro (17%) o a problemi di salute
derivanti dalla attività lavorativa (27%). Le percentuali relative ai
giorni di assenza per infortunio sul lavoro sono destinate a salire
rapidamente qualora si considerino settori produttivi altamente a
rischio, quali l’agricoltura e le costruzioni (30%). Questo significa
che su tutto il territorio dell’Unione Europea , ogni anno 210 milioni
di giorni sono persi a causa di infortuni sul lavoro e 340 milioni per
motivi di salute in qualche modo riconducibili al lavoro. Le cifre e gli
ineluttabili costi sociali che da queste derivano, inducono le
istituzioni, le aziende e le organizzazioni di lavoro ad una attenta
analisi del sistema salute e sicurezza così come strutturato
attualmente.
Sempre a proposito della evoluzione percettiva dei lavoratori rispetto
alle proprie condizioni di lavoro, è di sicuro interesse l’indagine
quinquennale condotta nel 2000 dalla Fondazione di Dublino. Tra i
mali più diffusi, il mal di schiena viene menzionato nel 33% dei casi,
lo stress nel 28%, i dolori muscolari nel 23% ed l’affaticamento
complessivo nel 23%. Le modalità di lavoro si stanno
progressivamente intensificando tant’è che il 50% degli interessati
dice di lavorare a ritmi elevati ed in tempi stretti per almeno un
quarto d’ora del proprio orario ed allo stesso tempo si riduce la
capacità di controllo sulla propria attività: un terzo afferma di non
avere nessun controllo sul proprio lavoro, soltanto i tre/quinti dicono
di essere liberi di decidere quando prendere le ferie ed il ritmo di
lavoro dipende sempre più dalle richieste dei clienti.
52
L’indagine mette in risalto:
- la relazione esistente tra cattive condizioni di salute e
difficoltose condizioni di lavoro derivanti soprattutto da un alto
grado di ripetitività e di intensità lavorativa;
- la generale flessibilizzazione dell’orario di lavoro,
dell’organizzazione del lavoro, della condizione occupazionale
- l’insistenza con cui i lavoratori cosiddetti “atipici” segnalano una
maggiore esposizione al rischio rispetto alla categoria dei “tipici”
- un preoccupante aumento di violenza, molestie sessuali ed
intimidazioni (in vari paesi si registra una percentuale di lavoratori
variabile tra il 4% ed il 15% che afferma di essere stato soggetto ad
intimidazioni).
Secondo le statistiche europee degli infortuni sul lavoro (ESAW) nel
corso del 2001 all’interno dell’Unione Europea (EU-15), si sono
registrati 4,7 milioni di infortuni sul lavoro che hanno causato più di
tre giorni di assenza. Se a questi si aggiungono anche quegli infortuni
che non hanno comportato giorni di assenza o comunque meno di tre
giorni di assenza, il numero di infortuni sale a 7,6 milioni. Nel
contempo, sempre nel medesimo anno, vi sono stati 4.900 incidenti
mortali. Espresso in altre cifre, in Europa un lavoratore è vittima di
un incidente ogni 5 secondi e ogni due ore muore per un incidente da
lavoro.
Tabella 1 – Variazione annua degli infortuni nei Paesi membri dell’Unione
Europea nel periodo 1994-2001 (variazione percentuale rispetto all’anno
precedente)
STATI MEMBRI
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
UE - 15
UE - 12
Belgio
Danimarca (*)
Germania
Grecia
Spagna
Francia
Irlanda (*)
Italia
-2%
-1%
19 %
4%
-5 %
-6 %
10 %
1%
12 %
-5 %
-1%
-2%
-12%
4%
-6 %
7%
4%
-2 %
16%
3%
-3%
-2%
-3%
21 %
-3 %
-5 %
1%
0%
14%
-6 %
1%
1%
6%
0%
-2%
-8 %
16 %
0%
0%
1%
2%
2%
1%
4%
-1 %
-13%
6%
6%
-6 %
2%
1%
1%
-7%
-7 %
-4%
-6%
7%
4%
-18 %
1%
-2%
-3%
-2%
6%
-8 %
1%
4%
-1 %
134%
-3%
53
Lussemburgo
Olanda (*)
Austria
Portogallo
Finlandia
Svezia (*)
Gran Bretagna (*)
0%
0%
5%
-7%
6%
-14%
-10%
-2 %
0%
-9%
0%
-7 %
28%
8%
1%
0%
-29%
4%
6%
-29 %
-2 %
4%
0%
-5%
-8 %
4%
28%
0%
5%
13%
1%
-5%
-0 %
10%
3%
4%
2%
-7%
8%
-1 %
4%
-1 %
8%
-10 %
-10%
3%
0%
8%
3%
(*) Paesi in cui i dati non provengono dal sistema assicurativo e presentano alti
livelli di sottodenuncia
Nonostante negli ultimi anni del periodo considerato (1994-2001), si
sia verificato una sensibile diminuzione del numero degli infortuni, la
gravità della situazione non consente un abbassamento della
attenzione. Infatti oltre al persistere di importanti e tragici eventi
infortunistici, le nuove modalità occupazionali hanno creato nuove
tipologie di rischi sul posto di lavoro, tra cui lo stress, l’ansia e
l’irritabilità. La trasformazione dell’attività lavorativa e una
competizione globale hanno spinto a riflettere non solo sulle ricadute
sul lavoratore inteso nella sua fisicità ma anche sui determinanti
sociali che inducono ad una alterazione psico-sociale dello stesso. Si
viene quindi a creare una disarmonia fra il lavoratore e il lavoro e uno
scollamento netto tra il ruolo lavorativo e ruolo sociale rendendo
difficoltoso il controllo sulla proprie azioni. Si ha quindi l’insorgere
di situazioni stressogene. Secondo l’indagine condotta dalla
Fondazione di Dublino nel 2000, come già ricordato, il 28% dei
lavoratori inserisce lo stress tra i più comuni problemi di salute legati
al lavoro.
Lo stress è un problema che interessa non solo i lavoratori ma
infierisce similmente anche sui datori di lavoro. È proprio per questa
sua trasversalità che l’8 ottobre 2004 le quattro più grandi
organizzazioni europee dei lavoratori ed imprenditori hanno firmato a
Bruxelles un accordo finalizzato alla lotta contro lo stress.
Anticipando la comunicazione della Commissione, le Parti Sociali
Europee sono così riuscite a inserire lo stress nel programma di
lavoro del Dialogo Sociale 2003-2005. L’accordo ha il pregio di
puntare su misure preventive e di definire lo stress come un disagio
54
psico-sociale non vincolato ad una particolare area lavorativa ma
estendibile a qualsiasi modalità e posizione di lavoro. Già nel 1999, in
tutti i paesi membri della Unione Europea (EU-15) fu riscontrata una
consistente diffusione dello stress e delle sue negative ripercussioni
ambientali, economiche e sanitarie. Si è infatti calcolato che in quegli
anni il fenomeno riguardava circa 40 milioni di lavoratori e
comportava costi per circa 20 miliardi di euro all’anno.
Al fine di soddisfare queste condizioni, la strategia comunitaria
propone innanzitutto un adeguamento del quadro giuridico, un
incoraggiamento degli strumenti per l’attuazione di un reale
miglioramento delle condizioni di lavoro (elaborazione di pratiche
migliori, dialogo sociale, responsabilità sociale delle imprese) e,
infine, l’integrazione delle problematiche relative alla salute e
sicurezza sul luogo di lavoro in altre politiche comunitarie,
costituendo quindi un approccio sistemico integrato.
1
Stato dell’arte a livello nazionale
Prendendo come fonte di riferimento i dati INAIL relativi all’anno
2003, risulta che gli infortuni sul lavoro denunciati sono 977.803, di
cui 881.676 infortuni avvenuti nell’Industria e Servizi, 71.098 in
Agricoltura e 25.029 tra i Dipendenti di Stato. Rispetto all’anno
2002 si registra una significativa contrazione degli infortuni
soprattutto per quanto riguarda il settore agricolo: una
riduzione
dell’1,5% nell’Industria e Servizi e del 3,5% in Agricoltura, al
contrario si riscontra un incremento del 2,1% per i Dipendenti dello
Stato. Il dato acquisisce ancor maggior positività se rapportato con il
tasso di crescita occupazionale registrato dal 2002-2003, pari all’1%.
Per quanto riguarda invece gli incidenti mortali i dati rilevano una
diminuzione di 87 casi denunciati rispetto al 2002 per un totale di
1.394, di cui 1.263 nell’area Industria e Servizi, 120 dell’Agricoltura
ed 11 dei Dipendenti dello Stato. La diminuzione è sicuramente
degna di nota ma riguarda principalmente gli uomini, per cui si
registra una flessione dell’8,3%, mentre il genere femminile sembra
non incidere in modo significativo ottenendo un calo dell’1,6%.
55
Sicuramente i dati non permettono di tirare un “respiro di sollievo” in
quanto l’alta incidenza della mortalità sul lavoro non lascia spazio ad
una rilassatezza diffusa. Mettendo, infatti, i morti sull’asse temporale
si evince che ogni giorno continuano a morire circa 4 lavoratori: un
costo ancora troppo alto per una società civile.
Il 2003 rappresenta, inoltre, un punto di svolta anche per
l’andamento degli incidenti in itinere (casa-lavoro-casa). Dalla
approvazione del D.lgs. n. 38/2000, che ne sanciva l’indennizzabilità,
si era notata una inevitabile crescita fino, per l’appunto, 2003, anno
in cui si è registrata una inversione di tendenza. Il risparmio di vite
umane è da attribuire, almeno in parte, agli effetti derivanti dalle
nuove disposizioni normative in tema di circolazione stradale e, in
particolare, dall’introduzione della cosiddetta “patente a punti”.
Come lo stesso Istituto INAIL sostiene, perché si possa affermare
con assoluta certezza di essere di fronte ad una reale e continuativo
abbassamento degli incidenti mortali in itinere è necessario
confrontarne il trend in un periodo temporale più dilatato. La
sensibilità e la suscettibilità della natura del dato impongono, quindi,
di mantenere un cauto ottimismo.
Tabella 2- Infortuni sul lavoro denunciati all’INAIL nel periodo 2002-2003
Gestione
Industria e servizi
· di cui in itinere
Agricoltura
· di cui in itinere
Dipendenti Conto
Stato
· di cui in itinere
Totale infortuni
· di cui in itinere
Fonte: INAIL
2002
894.667
67.756
73.670
1.126
2003
Variazione %
881.676
-1.5%
69.683
2.8%
71.098
-3.5%
1.161
3.1%
24.503
2.261
25.029
2.768
2.1%
22.4%
992.840
71143
977.803
73.612
-1.5%
3.5%
G
ne
Rispetto ad una logica di genere, il calo degli infortuni risulta
decisamente più marcato per gli uomini (-1,8%) che per le donne
(-0,5%). Questi dati devono comunque essere rapportati alla
56
dinamiche occupazionali di genere che nel 2003 hanno visto la
componente femminile crescere ad un tasso dell’1,6%, ossia ad una
velocità doppia rispetto alla componente maschile (0,75%). In
rapporto alla crescita occupazionale femminile nell’industria e servizi
nel periodo 1998-2002, 13,4%, si riscontra una crescita degli
infortuni pari a 21,9%, chiaro segnale che le donne sono impiegate in
attività lavorative a rischio.
Introducendo una ripartizione degli infortuni per classi di età, emerge
con chiarezza come la classe di lavoratori relativamente più giovane,
e quindi teoricamente meno esperta professionalmente, presenti la
flessione più consistente nell’area Industria e Servizi. Se da una parte
questo dato risulta in qualche modo di difficile interpretazione in
quanto non si attua una scomposizione tra infortuni in Industria e
infortuni in Servizi, dove le tipologie di lavoro implicano elementi di
rischiosità assai distanti tra loro, alcune ipotesi possono essere
azzardate. L’attività formativa ed informativa volta alla diffusione
della cultura della sicurezza e della prevenzione ha attecchito con
maggior successo per quelle figure lavorative professionalmente
ancora malleabili e adattabili. Meno efficace appare invece
l’intervento su quelle figure la cui professionalità lavorativa si è
forgiata principalmente in un contesto di cultura della produzione.
Su tutto il territorio nazionale si riscontra nel 2004 una sostanziale
contrazione degli infortuni denunciati INAIL ed in particolare nel
Centro Italia, per quanto riguarda l’attività economica Industria e
Servizi, ed il Nord Ovest, per l’Agricoltura. Nell’area geografica
Nord Est e Isole la diminuzione degli infortuni presenta dei valori
sotto la media nazionale. 2002 2003 Assoluta %
Gestione
Tabella 3- Ripartizione geografica degli infortuni 2003-2004
Ripartizione geografica
Nord Ovest
Industria e Servizi
Agricoltura
Nord Est
Industria e Servizi
Agricoltura
2003
273.013
259.419
13.594
317.274
296.235
21.039
2004
267.737
255.021
12.716
313.407
293.050
20.357
57
Variazione
Assoluta
-5.276
-4.398
-878
-3.867
-3.185
-682
%
-1,9
-1,7
-6,5
-1,2
-1,1
-3,2
Centro
Industria e Servizi
Agricoltura
Sud
Industria e Servizi
Agricoltura
Isole
Industria e Servizi
Agricoltura
Italia
187.715
173.132
14.583
124.585
108.982
15603
49.635
43.170
6465
952.222
183.439
169.063
14.376
122.535
107.664
14871
50.042
43.716
6326
-4.276
-4.069
-207
-2.050
-1.318
-732
407
546
-139
-2,3
-2,4
-1,4
-1,6
-1,2
-4,7
0,8
1,3
-2,15
937.160
-15.062
-1,6
Per il 2004 il dato è stimato
Fonte INAIL
Qualora si voglia, in una logica comparativa, depurare il dato da
possibili contaminazioni dettate dalle diverse dinamiche occupazionali
territoriali, è possibile prendere a riferimento gli indici di frequenza
ossia indicatori di rischio costruiti sul rapporto tra infortuni
indennizzati ed il numero di addetti, rilevati secondo i criteri statistici
INAIL. Le regioni italiane che presentano il più elevato indice di
frequenza sono l’Umbria con un valore superiore del 42,7% della
media nazionale, Marche con il 33,4%, Friuli Venezia Giulia con il
31,1% ed Emilia Romagna con il 30,6%. Una lettura
decontestualizzata dei dati potrebbe portare a delle conclusioni
devianti se non addirittura paradossali. Innanzi tutto maggiore
attenzione dovrebbe essere posta alle tipologie produttive prevalenti
nelle diverse regioni ed alla struttura occupazionale
(femminilizzazione, composizione in termini di Industria e Servizi ed
Agricoltura). Altro elemento che dovrebbe essere tenuto in alta
considerazione è l’incidenza dell’evasione dell’obbligo di denuncia
degli infortuni riconducibile, più o meno direttamente, al lavoro
sommerso e al contesto delle Piccole e Medie imprese. Per quanto
riguarda il primo punto è inevitabile che al crescere dell’irregolarità
del lavoro, passata tra il 2001 e 2003 dal 15,8% al 19,3%, crescano
proporzionalmente anche le mancate segnalazioni di infortunio.
Rispetto all’evasione di denunce nelle Pmi occorre introdurre alcune
considerazioni di carattere esplicativo. Nel nostro territorio, come è
ormai noto, le Pmi e soprattutto le aziende con meno di 10
58
dipendenti rappresentano una larga percentuale del tessuto
produttivo. Secondo la normativa italiana, nelle imprese con meno di
10 dipendenti, proprio per la loro natura, la valutazione dei rischi
deve essere auto-certificata, sottraendosi quindi all’obbligo di
redazione di un documento apposito. In un contesto europeo le
ricerche empiriche e le elaborazioni statistiche rilevano una relazione
inversamente proporzionale tra la dimensione aziendale e il numero di
infortuni. Ossia al crescere della dimensione e quindi della
strutturazione aziendale decresce il numero di infortuni. Tale
relazione si giustifica sostanzialmente per tre fattori:
- le aziende più strutturate presentano forme partecipative e di
controllo più stringenti che impongono il rispetto di determinate
procedure formative ed informative volte alla diffusione della
cultura della sicurezza
- nelle aziende più piccole la maggior parte del personale è
direttamente coinvolto nella lavorazione cosiddetta “sul campo”,
mentre nelle grandi imprese una consistente percentuale di
lavoratori è impiegato negli uffici
- le grandi imprese tendono ad esternalizzare molte delle loro
attività ritenute più rischiose
Questa relazione si evidenzia anche nel caso italiano ad eccezione
delle aziende con meno di 15 dipendenti. Osservando la tabella
successiva si evince come i dati statistici relativi alle aziende con
classi di addetti 0-15 sfuggano alla proporzionalità inversa
intercorrente tra frequenza relativa di infortunio e dimensione
aziendale.
Tabella 4: Frequenze relative di infortunio nelle aziende non artigiane
monolocalizzate e per classi di addetti
1-15
16-30
Classi di addetti
31-100
101-250
Oltre 250
Totale
36,07
46,83
47,571
30,65
38,75
45,98
Fonte: INAIL
59
Se ne evince che probabilmente in un contesto lavorativo ancora
fortemente radicato più su una cultura “del fare” che “del benessere”,
dove il rapporto di lavoro si risolve in un contatto umano diretto tra
lavoratore e datore di lavoro vi sia la tendenza a preferire soluzioni
informali a procedure formalizzate.
Scorporando ulteriormente i dati nazionali in funzione del settore di
appartenenza si creano le condizioni per analisi più approfondite. Il
contenimento degli infortuni appare più marcato nell’Industria
(-6,8%) che nei servizi (-3,4%). Appare comunque opportuno
sottolineare la diversa crescita occupazionale che ha interessato
l’industria in senso stretto (0,5%) e i servizi (1,1%) nel 2003.
L’industria manifatturiera è il contesto lavorativo all’interno del quale
si registra il più significativo calo di infortuni denunciati, in particolar
modo nel tessile e nel metalmeccanico. Risultati positivi si registrano
anche nel settore dei trasporti. Nella industria, le attività economiche
maggiormente a rischio infortunio risultano essere l’industria dei
metalli (59.946 nel 2003), l’industria meccanica (32.218), l’industria
alimentare (20.039) e l’industria e lavorazione minerali non
metalliferi (16.914). Nonostante una lieve flessione del 2,4% negli
anni 2002-2003, il settore delle costruzioni rimane quello con il più
elevato numero di infortuni in valore assoluto: nel 2003 si sono
registrati 103.237 infortuni solo nel settore delle costruzioni contro i
229.747 di tutto il comparto manifatturiero. È da sottolineare
comunque che il settore delle costruzione risulta tra i più dinamici
avendo uno spessore del volume occupazionale di settore lievitato
nel 2003 del 3,5%. Per quanto invece compete l’area dei servizi, gli
infortuni si concentrano soprattutto in tre attività economiche:
commercio (73.483), trasporti e comunicazioni (65.572) e attività
immobiliari e professionali (57.565).
Staticità degli infortuni
La relativa positività dei dati INAIL, che testimoniano una sostenuta
attenuazione degli infortuni, perché trovino una veridicità
comprovata devono essere collocati in una dimensione temporale.
Comparando i dati sugli infortuni registrati all’INAIL, si nota come
60
gli infortuni nel periodo considerato non siano diminuiti in modo
significativo, nonostante l’applicazione del d.lgs. 626.
Figura 1 – Infortuni Inail in Italia 1998-2003. Fonte: Rapporti Inail 2001
2002- Comunicato stampa Inail (6 marzo 2004) per le statistiche sugli anni 2002
e 2003
Se si prende infatti come contesto di riferimento il quinquennio
1998-2003, si evidenzia una sostanziale fissità delle frequenze
assolute degli incidenti, con una trend crescente nell’intervallo
1998-2001 ed un decremento considerevole solo nel 2002 (4%).
Come le stesse cifre mostrano, la variazione assoluta tra l’anno 1998
e l’anno 2003 è rimasta pressoché immutata e nell’area Industria e
Servizi è addirittura peggiorata. Le flessioni più marcate risultano
essere quelle nell’area statale.
61
Tabella 5- Andamento degli Infortuni in Italia per attività economica.
Rapporti Inail 2001 2002- Comunicato stampa Inail (6 marzo 2004) per le
statistiche sugli anni 2002 e 2003
1998
Totale
Variazione annua
(%)
Agricoltura
Variazione annua
(%)
Industria e servizi
Variazione annua
(%)
Conto Stato
Variazione annua
(%)
1999
2000
2001
2002
2003
997.914 1.010.777 1.022.693 1.034.026 992.868 951.834
96.904
1,3%
1,2%
1,1%
-4,0%
-4,1%
90.872
85.345
80.637
73.620
70.656
-6,2%
-6,1%
-5,5%
-8,7%
-4,0%
866.052 893.523 907.017 923.743 895.233 881.178
34.958
3,2%
1,5%
1,8%
-3,1%
-1,6%
26.382
30.331
29.646
24.015
n.b.
-24,5%
15,0%
-2,3%
-19,0%
n.b.
Anche per gli incidenti mortali il trend calante non sembra essere molto
convincente, segnale che i risultati conseguiti non sono il prodotto di interventi
strutturali ma piuttosto il risultato di azioni contingenti (vedi figura 2).
Figura 2: Andamento degli Incidenti mortali in Italia nel periodo 1998-2003
L’evento infortunistico e soprattutto l’incidente mortale rappresentano, come la
stessa Organizzazione Mondiale della Sanità definisce”, “il risultato del
fallimento dell’organizzazione sociale e tecnica del lavoro”. La permanenza di
un’alta incidenza degli infortuni è sintomo di una organizzazione del lavoro
impreparata ad accogliere al suo interno la cultura della sicurezza e della
prevenzione e di una strategia aziendale incentrata ancora su percorsi “low
road” dove le politiche di costo continuano ad avere un ruolo di primo piano.
Ma le statistiche e le conseguenti riflessioni e rielaborazioni sono inconfutabili.
L’evento infortunistico, oltre a rappresentare un costo umano per chi lo subisce,
costituisce un costo sociale per l’azienda e per l’intera collettività. Secondo i
dati forniti dalla Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, le
condizioni di lavoro scadenti e una mancata o non adeguata considerazione
della salute e sicurezza come investimento strategico di lungo periodo hanno un
impatto negativo sull’economia, che si traduce ogni anno in una perdita di circa
62
2,6%-3,8% del PIL. Anche in una logica di redditività la sicurezza sul lavoro
dovrebbe quindi ritornare a giocare un ruolo di primo piano.
Malattie professionali
La rilevazione dei dati relativi alle malattie professionali mostrano
sostanzialmente una stasi negli ultimi anni. A partire dal 1999 fino ad
arrivare al 2003 l’andamento non presenta variazione particolari ad
eccezione di un significativo incremento nel 2001, ossia il periodo
immediatamente successivo all’introduzione del D.lgs.38/2000. Il
periodo oggetto della nostra comparazione temporale si inserisce in
una tendenza già avviata negli anni precedenti in cui si registra il
costante aumento delle malattie non tabellate e il progressivo calo
delle malattie tabellate. Questo impone una rivisitazione delle liste di
malattie professionali, le cosiddette “”tabellate”, aggiornando le
definizioni legislative alle mutate sofferenze dei lavoratori.
Tabella 6 – Malattie professionali manifestatesi nel periodo 1999-2003
1999
2000
2001
2002
2003
Industria e
servizi
24094
24776
27133
25328
23231
tabellate
non tabellate
indeterminate
Agricoltura
tabellate
non tabellate
indeterminate
Totale
10467
13555
72
949
340
603
6
25043
9858
14492
426
941
301
630
10
25717
9523
16217
1393
958
191
727
40
28091
7287
14115
3926
999
189
687
123
26327
4991
12137
6103
1030
136
640
254
24261
Tra le malattie professionali tabellate più diffuse troviamo
nuovamente la presenza e l’incremento di neoplasie da asbesto
passati da 374 nel 1999 a 480 nel 2003 nell’area Industria e Servizi
ed ancora di un consistente incremento di tendiniti arrivate nel 2003
alla soglia di 777 casi. L’ipoacusia continua a primeggiare sia
nell’attività agricola che nell’area Industria e Servizi. Negli ultimi
anni le malattie direttamente riconducili ad una intensificazione
63
dell’attività lavorativa, ossia i dolori muscolo scheletrici, sembrano
essersi ridotte sensibilmente ma la loro persistenza indica ancora
l’esistenza di margini di miglioramento per quanto attiene alla
organizzazione del lavoro.
Punti critici: immigrazione e lavoro atipico
Sul piano nazionale si è registrato negli ultimi anni il consolidarsi di
una domanda strutturale di lavoro immigrato perlopiù per quelle
professionalità a scarso contenuto conoscitivo o per produzioni a
carattere stagionale. Principalmente sembra che in Italia i lavoratori
immigrati vengano assunti o per colmare la carenza di manodopera
locale nei contesti territoriali più sviluppati o per ricoprire lavori a
bassa qualificazione. Secondo alcune rielaborazioni statistiche INPS,
risulta che i lavoratori immigrati siano 1,9 milioni su un totale di
presenze di 2,4 milioni, ossia circa il 4% della popolazione
complessiva nazionale. Alcuni studi previsionali stabiliscono che
qualora il flusso migratorio continuasse secondo le modalità passate e
si rispettassero le procedure di regolarizzazione previste dalla recenti
normative (Legge Bossi-Fini), l’Italia diventerebbe il terzo Stato
membro dell’Unione Europea per numero di presenze regolari.
Una crescita occupazionale si riflette purtroppo inevitabilmente in
una crescita degli incidenti sul lavoro. Nel 2000 si sono registrati
107.000 infortuni e 157 casi mortali tra gli occupati extracomunitari.
Come si evince dalla tabella il dato rappresenta il culmine negativo di
un trend allarmante. Nel 2001 e quindi solo 2 anni prima il tasso
infortunistico degli immigrati incideva per il 7% sul totale. La crescita
degli infortuni è spiegata parzialmente dalla progressiva emersione di
lavoratori precedentemente irregolari o dal lievitazione del volume
occupazionale.
Lo stato dell’arte attuale mostra come il tasso di incidenza
infortunistica per i lavoratori extracomunitari sia più elevato rispetto
alla media nazionale, rispettivamente 57 e 44 su 1000. Diverse
interpretazioni possono essere addotte a giustificazione di tale
discrepanza ma due appaiono le più credibili. Innanzi tutto il
lavoratore immigrato, come già ricordato, è impiegato principalmente
in attività di lavoro altamente rischiose. Ad avallare questa ipotesi
64
interpretativa intervengono i dati infortunistici per settore: industria
manifatturiera in generale (28%) industria dei Metalli (9,8%), le
Costruzioni (14,6%)- al primo posto per l’indice di mortalità sul
lavoro con il 2,5%-, il Commercio (7,6%), i Trasporti (6,6%) e
l’Agricoltura (4,6%). Nello specifico, il tasso di incidenza nel settore
delle Costruzioni e dell’Industria dei Metalli superano la media
nazionale di circa 3 punti percentuali. Altra possibile linea
interpretativa è la scarsa esperienza e preparazione tecnica dei
lavoratori extracomunitari che hanno maturato la loro professionalità
in contesti di lavoro e legislativi non sempre ricettivi rispetto ad un
concetto di salute e sicurezza, così come promosso dalla Unione
Europea. Rispetto all’età e al genere, il tasso infortunistico presenta
una concentrazione significativa nella classe anagrafica più giovane, il
56% delle vittime di infortunio ha meno di 34 anni rispetto al 44%
della media nazionale, e tra il genere maschile, 85% degli infortuni
totali tra gli immigrati contro un 76% della media nazionale. La
composizione del tasso infortunistico è principalmente spiegata dalla
strutturazione della forza lavoro extracomunitaria, soprattutto
giovane e di genere maschile, e dalla tipologia lavorativa in cui le
donne immigrate sono comunemente occupate: circa i ¾ delle donne
prestano il loro servizio come collaboratrici domestiche.
Rispetto alla nazione di origine, si riscontra una percentuale
significativa, circa la metà, di infortuni tra i lavoratori del Marocco,
Albania (impiegati nella maggior parte dei casi nel settore delle
costruzioni) e Romania. Tra i cinesi ed i filippini, pur essendo le
comunità numericamente più consistenti, non si registrano tassi
infortunistici di un certo rilievo.
Tabella 7- Infortuni sul lavoro per area geografica. Fonte. Inail
Area geografica
Italia
Altri Paesi UE
Paesi extra UE
Totale
2001
n.
918.947
8.466
73.778
1.001191
2002
%
91,8
0,8
7,4
100
65
n.
866.845
9478
92.014
968.337
2003
%
89,5
1
9,5
100
n.
863.492
9.352
106.930
952.774
%
87.8
1
11.2
100
L’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul
Lavoro (INAIL) si è impegnata nelle sue elaborazioni statistiche a
sciogliere un nodo tematico al centro di accesi dibattiti. O
quantomeno ha avviato possibili sperimentazioni per l’individuazione
di strumenti volti a verificare la possibile correlazione tra infortuni sul
lavoro e tipologia contrattuale. È necessario premettere che i dati
presi in considerazione proprio per la loro collocazione temporale
2001-2003, non prendono in considerazione gli effetti a regime della
flessibilizzazione promossa dalla c.d Leggi Biagi. L’indagine INAIL
analizza nello specifico i parasubordinatie i lavoratori interinali. La
prima categoria si compone di un gruppo molto frastagliato al suo
interno ma rappresentato principalmente dai “white collars”, ossia da
una tipologia di lavoro poca avvezza al lavoro manuale. Proprio per
questa carattere prevalentemente impiegatizio, il tasso di incidenza
estrapolato dalle banche dati appare assai modesto: circa 20 infortuni
per 1.000 lavoratori, ossia espresso in altri numeri 7.500 infortuni su
una platea di 420.000 lavoratori parasubordinati sul territorio
nazionale.
Tabella 8- Infortuni sul relativi al lavoro parasubordinato
Totale infortuni
Ripartizioni
geografiche
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Isole
Italia
Infortuni mortali
2001
2002
2003
2001
2002
2003
1374
2128
1071
306
103
4982
2019
3265
1511
409
142
7346
1922
3514
1564
424
126
7550
4
7
1
2
1
15
11
10
5
5
6
2
1
2
28
14
Fonte: INAIL
Per quanto riguarda il lavoro interinale i dati appaiono essere assai
più allarmanti. La forza lavoro interinale raccoglie al suo interno,
oltre ad una ampia fascia di colletti bianchi, figure professionali più
66
tecniche ed operative di quanto non faccia la categoria “lavoro
subordinato”. Adottando lo stesso criterio di rilevazione usato in
precedenza, si pone in evidenza come il tasso di incidenza, pari a
70-75 per 1.000 lavoratori, presenti dei valori assoluti preoccupanti
(12.500 infortuni nel 2003 su 170.000 unità) specie per una
popolazione lavorativa costituita da impiegati in una percentuale
numericamente significativa. In conclusione a fronte dei dati illustrati
non si ha timore di affermare che la flessibilità del lavoro e del
lavoratore abbia ripercussioni negative sulle condizioni di salute e
sicurezza. Appare inoltre ovvia un’altra associazione: il numero di
infortuni per queste tipologie contrattuali aumenta laddove vengono
più utilizzati e quindi nelle regioni del Nord Italia.
Tabella 9-Infortuni relativi al lavoro interinale
Totale infortuni
Ripartizioni
geografiche
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Isole
Italia
Fonte : INAIL
2001
2002
3185
2025
632
189
15
6046
4094
3647
1147
396
36
9320
Infortuni mortali
2003 2001
5053
4740
1877
705
158
12533
3
67
2
2
1
5
2002
2003
6
1
1
2
4
6
10
1
11
Salute e sicurezza in primo piano: la regione
Emilia-Romagna in dettaglio
Restringendo il campo di indagine alla dimensione regionale, il
seguente paragrafo si propone come obiettivo quello di fornire una
fotografia dettagliata del fenomeno infortunistico in Emilia-Romagna.
Come fonte statistica di riferimento si è utilizzato la banca dati Inail,
soprattutto per quello che riguarda il periodo 1999-2003. L’intento
che si vuole seguire non è la mera elencazione di serie numeriche ma
cercare di evidenziare gli elementi di criticità per poter offrire agli
attori di goverment e governance del sistema sicurezza possibili
spunti su cui costruire elaborazioni e interventi migliorativi.
L’analisi degli eventi infortunistici prende in considerazione
principalmente gli infortuni denunciati presso l’Inail in quanto si
ritiene che sia la fonte più attendibile per misurare il fenomeno
infortunistico su scala territoriale. Lo studio procede secondo una
logica di confronto continuo tra il livello provinciale ed il livello
regionale passando poi in dettaglio a delineare le specificità per
singola provincia.
Nella prima tabella che incontriamo notiamo come il numero assoluto
di infortuni registrati in Emilia-Romagna, nell’area Industria,
Commercio e Servizi sia sensibilmente aumentato nel periodo
1999-2003, passando da 126.983 a 128.120. Agendo in un’ottica di
comparazione con il livello nazionale si possono rintracciare alcune
divergenze. Se da un lato infatti il trend nazionale per attività
economica presenta un percorso similare nei primi anni del periodo
considerato, dall’altro, si evidenzia una divergenza negli anni
2002-2003. A fronte di una diminuzione dell’1,6% dell’indice
infortunistico a livello nazionale, tra gli anni 2002-2003, in
Emilia-Romagna si registra una impennata da 126.803 a 128.120,
ossia un salto pari all’1,04% rispetto al 2002. Il divario maggiore nel
passaggio 2002-2003 si riscontra nella provincia di Bologna dove gli
infortuni sono aumentati del 13,4%, passando da 24.830 a 28.167. È
opportuno comunque registrare una significativa performance
positiva del fenomeno infortunistico in provincia di Bologna nel
2001, anno nel quale si è assistito ad una contrazione pari ad oltre il
15% rispetto all’indice del 2000.
68
Tra le province più virtuose in termini di contenimento degli indici
infortunistici è da registrare, paradossalmente, la provincia di Forlì e
Ravenna. Osservando i valori assoluti nelle due realtà provinciali, si
potrebbe infatti desumere che il fenomeno infortunistico sia assai più
modesto rispetto al contesto regionale; in realtà se si sposta
l’attenzione sulla tabella relativa alla frequenza relativa, si nota come
le due province rappresentino, in Emilia-Romagna, due elementi di
forte e persistente criticità, raggiungendo indici d frequenza relativa
molto alti: 65,23 a Forlì e 57,37 a Ravenna. Questo potrebbe essere
spiegato da una dinamicità positiva del numeratore, ossia il numero
assoluto di infortuni, inferiore alla dinamicità negativa del
numeratore, ossia il numero degli addetti. In sostanza a parità di
numero di infortuni nel tempo si registra una progressiva erosione
dell’occupazione.
Tabella 10- Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per provincia,
Emilia-Romagna. Industria, commercio e servizi. Fonte INAIL
Province e Regioni
1999
2000
2001
2002
2003
BOLOGNA
28.320
29.219
24.628
24.830
28.167
FERRARA
7.061
7.038
7.597
7.932
7.813
FORLI
10.917
11.319
11.699
11.897
11.275
MODENA
PARMA
26.299
12.406
24.827
13.171
26.785
13.088
25.941
12.616
25.360
12.697
PIACENZA
5.759
6.038
6.205
6.127
6.261
RAVENNA
11.005
11.042
11.363
11.664
11.245
REGGIO EMILIA
18.927
18.887
19.209
18.762
18.198
6.289
6.851
6.806
7.034
7.104
126.983
128.392
127.380
126.803
128.120
RIMINI
EMILIA
ROMAGNA
Volendo analizzare i valori assoluti dei dati infortunistici rispetto alla
tipologia aziendale, notiamo, data la maggiore dimensione
occupazionale, come la concentrazione infortunistica sia più
significativa nelle imprese non artigiane. In media si può vedere che
circa il 75% degli infortuni, senza comunque contare la voce “non
determinate”, si colloca tra le imprese non artigiane, mentre il
69
restante 25% tra le imprese artigiane. Uniche province che si
discostano dalla media regionale sono Bologna dove l’82,2% degli
infortuni denunciati avviene all’interno di imprese non artigiane e
Forlì dove oltre il 32% degli infortuni accade tra le mura di imprese
artigiane.
Tabella 11 – Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per provincia e
tipologia di aziende, Emilia-Romagna. Industria, commercio e servizi. Fonte
INAIL
Province e Regioni
Infortuni Denunciati dalle Aziende
Artigiane Non artigiane
BOLOGNA
FERRARA
3.367
1.254
FORLI
2.698
MODENA
3.258
PARMA
1.798
PIACENZA
RAVENNA
1.052
1.890
REGGIO EMILIA
2.653
RIMINI
EMILIA ROMAGNA
15.614
3.911
Non determinate
In complesso
9.186
2.648
28.167
7.813
5.698
2.879
11.275
10.177
11.925
25.360
5.854
5.045
12.697
3.054
5.441
2.155
3.914
6.261
11.245
7.801
7.744
18.198
1.393
3.612
2.099
7.104
19.363
61.162
47.595
128.120
L’analisi rimarca l’importanza di una cultura della sicurezza in
un’ottica di lotta al fenomeno infortunistico. Disaggregando infatti i
dati per età anagrafica si registra una notevole percentuale di
infortuni nella classe di età 18-34 per poi seguire con la classe 35-49
e scendere drasticamente tra i lavoratori più anziani. Questo dato
potrebbe essere soggetto a diverse interpretazioni. Da un lato
l’esperienza lavorativa maturata “sul campo”, ossia attraverso anni di
attività, contribuisce a sviluppare competenze e accortezze
tecno-organizzative capaci di ridurre le situazioni di rischio.
Dall’altro lato, le persone più anziane vengono inserite in percorsi
professionali più “tutelati” e vengono allontanati dal lavoro reputato
a più alto sforzo fisico o pericolo. Partendo inoltre dal presupposto,
come dimostrato prima, che la precarietà del lavoro incida sul
numero degli infortuni, è plausibile pensare che la concentrazione di
70
infortuni sia più alta proprio in quella classe di età più soggetta a
forme contrattuali atipiche, ossia i giovani.
Tabella 12 – Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per provincia ed
età, Emilia-Romagna. Industria, commercio e servizi. Fonte INAIL.
Province e Regioni
BOLOGNA
Classi di Età
Totale
Fino a 17 18-34 35-49 50-64 Oltre 64 Non determinata
13.23 10.94
246
3.555
158
36 28.167
0
2
FERRARA
64 3.454 3.051 1.178
41
25
FORLI
164 5.208 4.189 1.595
91
28 11.275
12.06
9.443 3.299
5
133
57 25.360
120 6.068 4.790 1.610
MODENA
PARMA
363
7.813
92
17 12.697
884
69
16
RAVENNA
126 5.281 4.258 1.471
91
18 11.245
REGGIO EMILIA
RIMINI
275 8.794 6.827 2.148
117 3.289 2.570 1.064
107
52
47 18.198
12 7.104
60.12 48.57 16.80
4
2
4
834
PIACENZA
EMILIA
ROMAGNA
55 2.735 2.502
1.530
256
6.261
128.12
0
Rimanendo sempre nell’attività economica “Industria, commercio e
servizi”, conformemente alle definizioni Ateco, e mantenendo la
distinzione per tipologia aziendale, si procede ora a ripartire i dati
assoluti per settori di attività economica con l’intento di evidenziare
l’ambito lavorativo più critico in termini di indici infortunistici. In
questa sorta di classifica, l’industria manifatturiera veste la “maglia
nera” con 32.209 infortuni denunciati nel 2003. La negatività del
dato deve essere mitigata comunque dagli alti tassi occupazionali
registrati nella produzione manifatturiera. In Emilia-Romagna infatti
nonostante i servizi stiano acquisendo peso in termini di forza lavoro,
l’industria manifatturiera continua a raccogliere al suo interno un
importante volume occupazionale, all’incirca un terzo della forza
lavoro regionale. Una disaggregazione più dettagliata indica il settore
metalmeccanico, con oltre 15.000 infortuni nel 2003, ed il settore
alimentare, con 3.630 infortuni, come le aree più a rischio nell’ambito
manifatturiero.
71
Altri settori in cui si riscontra un alto valore assoluto degli infortuni
sono il settore delle costruzioni, che da solo rappresenta circa il 10%
dell’aggregato complessivo, il commercio (9.532 infortuni), trasporti
(8.150) e attività immobiliari (7.402). Rapportando ora il dato
assoluto degli infortuni con gli indici occupazionali ricavati dalle
elaborazioni Inail, a fronte di un valore indice medio regionale pari a
8,11 i settori in cui si rilevano indicatori più elevati sono: il settore
dei trasporti con 11,4 e le costruzioni con 8,17. È quindi chiara
l’urgenza con cui si debba intervenire in questi settori attraverso
interventi strutturali, ergonomici di sistema e ispettivi, soprattutto per
quanto riguarda il mondo dell’edilizia.
Tabella 13 – Infortuni denunciati per attività economica e tipologia
aziendale, Emilia-Romagna, 2003. Industria, commercio e servizi. Fonte
INAIL
Settori di Attività Economica
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
Infortuni Denunciati dalle Aziende
Artigiane Non artigiane Non determinate Totale
142
465
4
611
-
1
23
24
C ESTRAZ.MINERALI
14
91
-
105
DA IND. ALIMENTARE
794
2.826
10
3.630
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
413
122
623
257
1
1.036
380
DD IND. LEGNO
524
558
-
1.082
DE IND. CARTA
203
819
1
1.023
DF IND. PETROLIO
1
19
-
20
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
42
169
710
1.252
1
752
1.422
DI IND.TRASFORMAZ.
373
3.486
3
3.862
DJ IND. METALLI
2.819
4.827
8
7.654
DK IND. MECCANICA
925
6.153
1
7.079
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
335
94
1.372
1.338
-
1.707
1.432
DN ALTRE INDUSTRIE
439
691
-
1.130
* D TOT.IND.MANIF.
7.253
24.931
25
32.209
E ELET. GAS ACQUA
3
510
-
513
72
F COSTRUZIONI
7.556
5.320
37
12.913
G50 COMM. RIP. AUTO
1.195
922
1
2.118
G51 COMM. INGROSSO
85
3.376
2
3.463
296
3.653
2
3.951
1.576
7.951
5
9.532
86
4.026
1
4.113
1.707
4.085
2.358
8.150
1
688
-
689
K ATT.IMMOBILIARI
551
4.885
1.966
7.402
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
6
3.389
320
4
128
3.393
454
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
N SANITA'
11
2.921
1
2.933
457
1.576
6
2.039
TOTALE
X NON DETERMINATO
19.363
-
61.159
3
4.558
43.037
85.080
43.040
IN COMPLESSO
19.363
61.162
47.595 128.120
O SERV. PUBBLICI
Come si evidenzia nella tabella riportante la variazione con indice
1999 (1999=100), il numero complessivo di infortuni denunciati nel
periodo il 1999-2003 in Emilia-Romagna è rimasto pressoché
immutato, anzi ha subito un innalzamento negli ultimi anni.
Nell’osservazione dei trend infortunistici per settori di attività
economica, emerge con trasparenza come nell’area industriale, in
senso stretto (ossia con l’esclusione delle costruzioni) il fenomeno
infortunistico abbia subito una significativa flessione, registrando una
diminuzione di oltre 11 punti nel periodo analizzato. Ad eccezione
infatti dell’agroindustria, che vede una crescita di oltre 13 punti, tutte
le tipologie industriali stanno assistendo ad un andamento
decrescente degli infortuni denunciati, segno che le politiche di
prevenzione e sicurezza promosse nell’ambito del d.lgs. 626 sono
state efficaci. La medesima positività dei risultati non è invece
rintracciabile nel settore dei servizi, in cui si riscontra una crescita
tendenziale diffusa sia nelle attività di commercio che nei servizi in
senso stresso. Appare particolarmente allarmante la situazione nelle
73
attività immobiliari, nella sanità e nella istruzione dove gli infortuni
sono aumentati rispettivamente di 40,35 punti, 21,5 punti e 25,75
punti. Si potrebbe quindi azzardare una interpretazione. Ossia le
politiche e gli interventi in tema di sicurezza si sono concentrate
maggiormente o sono state accompagnate da misure di controllo più
rigide nelle attività industriali. Mentre nel settore dei servizi,
probabilmente per una organizzazione ed una struttura più dispersiva
e meno “industriale”, le politiche di implementazione di misure di
sicurezza o le modalità di monitoraggio hanno avuto minore
penetrabilità e influenza. Tale lettura degli andamenti infortunistici in
Emilia-Romagna dovrebbe indurre tutte le parti in gioco ad una
maggiore attenzione al settore dei servizi, soprattutto a fronte di una
sua progressiva crescita occupazionale. Discorso a parte deve essere
riservato al settore delle costruzioni in cui, contemporaneamente ad
un aumento della forza lavoro, cresce di oltre 7 punti anche il numero
assoluto di infortuni.
Tabella 14 – Variazione di infortuni denunciati per attività economica e
variabile temporale, Emilia-Romagna, 2003. Industria, commercio e Servizi.
Indice base 1999 (1999=100)
Settori di Attività Economica
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
1999
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
2000
2001
2002
2003
94,44
108,00
99,33
97,89
105,78
109,98
98,43
101,31
103,23
98,75
104,34
98,89
103,84
102,76
115,69
106,08
91,47
102,23
104,63
76,00
81,88
98,20
105,62
125,42
99,55
106,37
67,74
104,61
104,94
103,63
102,45
106,46
112,09
105,26
98,25
103,90
116,67
108,00
89,26
95,20
97,44
104,51
94,92
104,40
90,32
106,11
102,40
98,10
99,30
100,43
108,91
103,90
100,66
99,86
113,15
96,00
70,47
85,88
85,55
90,26
80,81
95,79
64,52
93,77
94,99
84,34
89,90
88,51
100,71
97,88
82,42
88,94
74
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
98,17
103,82
89,85
103,56
82,64
109,54
52,08
107,34
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
102,48
104,02
103,16
103,28
95,13
111,03
105,34
104,72
99,74
114,22
111,80
109,60
92,09
110,43
105,95
104,00
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
109,79
106,02
109,37
109,95
102,35
118,01
110,73
101,71
110,30
106,17
121,35
128,69
108,06
130,47
117,20
114,49
108,44
108,65
120,58
151,31
104,75
144,88
122,05
119,29
105,16
100,12
105,84
140,35
104,75
125,76
121,55
99,80
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
104,01
95,21
101,11
106,82
87,08
100,31
108,22
82,84
99,86
99,93
102,87
100,90
Agendo in una logica di comparazione tra i dati assoluti e i dati
riguardanti le imprese artigiane, si nota come le distinte traiettorie
tracciate dalle variazioni nel periodo 1999-2003 siano
sostanzialmente sovrapponibili. È da notare, comunque, che nelle
imprese artigiane gli infortuni hanno subito una contrazione di circa
10 punti, a fronte della staticità del dato aggregato. Nell’industria
manifatturiera artigianale, per entrare più dettagliatamente
nell’indagine, la riduzione degli infortuni è stata ancora più marcata
rispetto al dato generale (quasi 20 punti). Per quanto riguarda il
settore del commercio e dei servizi, a differenza del dato
complessivo, nelle imprese artigiane si registra una sostanziale
diminuzione. Lo scarso peso occupazionale del comparto artigianale
nei servizi non permette, comunque, di caricare il dato rilevato di
particolare valore o significato. Anche nel comparto artigiano, il
settore delle costruzioni rappresenta un valore di forte e persistente
criticità.
75
Tabella 15- Variazione infortuni denunciati nelle imprese artigiane per anno
evento e per settore attività economica. Indice base 1999 (1999=100)
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
82,7
96,1
89,0
111,8
100
73,9
52,2
69,6
60,9
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
97,2
113,5
96,6
90,7
92,4
100,0
87,2
104,9
108,9
100,2
96,4
113,9
120,0
86,5
99,6
105,6
99,4
114,8
87,8
97,6
78,7
108,5
99,3
98,7
97,3
105,0
103,5
89,6
98,4
100,2
94,3
75,8
81,7
114,3
300,0
114,9
82,5
103,7
92,6
86,0
98,4
129,6
93,8
93,1
92,4
78,5
81,9
67,5
96,7
100,0
89,4
75,8
85,4
81,4
81,2
88,2
81,7
75,2
81,4
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
100,0
102,9
103,8
107,1
42,9
103,4
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
99,1
102,8
102,9
100,1
88,1
92,5
92,2
89,2
89,7
95,3
92,0
90,5
86,5
80,2
85,1
85,8
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
122,5
100,7
100,0
93,1
101,0
94,8
84,3
86,9
100
99,0
100,3
101,0
89,3
100
100
112,5
100,0
99,2
100,0
175,0
102,8
137,5
275,0
97,7
75,0
275,0
86,4
TOTALE
X NON DETERMINATO
100
100,8
99,1
300,0
98,2
100,0
90,3
76
IN COMPLESSO
100
100,8
99,1
98,2
90,3
In agricoltura gli infortuni denunciati sono stati, nel 2003, 10.078, di
cui 5.431 tra gli autonomi e 4.647 tra i dipendenti. Appare quindi
chiaro come tra gli autonomi la percentuale degli infortuni a livello
regionale sia sensibilmente maggiore. Una possibile interpretazione
potrebbe essere fatta risalire al fatto che il d.lgs. 626 non è applicabile
ai coltivatori diretti. Questo vuoto legislativo, anche a detta di
rappresentanti della associazioni di rappresentanza del settore, risulta
essere alquanto paradossale, in quanto esclude da una serie di
interventi una fascia di lavoratori nella quale la diffusione della
cultura della sicurezza incontra le più energiche resistenze. Le due
province in cui si registra il più alto numero assoluto di infortuni in
agricoltura sono sempre Forlì e Ravenna.
Tabella 16 – Infortuni sul lavoro in agricoltura denunciati dall’INAIL per
provincia, Emilia-Romagna, 2003. Fonte INAIL
Infortuni Denunciati per i Lavoratori
Province e Regioni
Autonomi
Dipendent
Non determinati (*) Totale
i
BOLOGNA
605
474
-
1.079
FERRARA
492
537
-
1.029
FORLI
MODENA
1.000
666
1.049
640
-
2.049
1.306
PARMA
493
395
-
888
PIACENZA
425
245
-
670
RAVENNA
899
812
-
1.711
REGGIO EMILIA
RIMINI
641
210
429
66
-
1.070
276
5.431
4.647
EMILIA
ROMAGNA
- 10.078
(*) a partire dal 1995 tutti i lavoratori in cui non era presente la qualifica sono
stati considerati come “dipendenti”.
In Emilia-Romagna, in linea con la tendenza nazionale, gli infortuni
sul lavoro in gestione Conto Stato sono in netto aumento negli ultimi
anni, passando da 1.462 nel 1999 a 2.182 nel 2003. Il maggior
77
numero di infortuni si concentrano nella provincia di Bologna, dove
risiedono molti delle sedi istituzionali statali ed amministrative.
Tabella 17 – Infortuni sul lavoro in gestione Conto Stato per provincia in
Emilia-Romagna. Fonte INAIL
Province e Regioni
1999
2000
2001
2002
2003
BOLOGNA
FERRARA
260
175
366
170
403
174
478
176
571
138
FORLI
131
148
182
220
247
MODENA
347
310
320
350
282
PARMA
196
208
255
251
256
PIACENZA
RAVENNA
97
125
120
122
116
145
122
163
137
184
REGGIO EMILIA
86
134
216
239
240
RIMINI
46
90
101
129
127
1.463
1.668
1.912
2.128
2.182
EMILIA
ROMAGNA
Le province in cui l’indice provinciale supera la media regionale
dell’indice di frequenza relativa (51,97) sono: Forlì (65,23), Reggio
Emilia (57,89), Ravenna (57,37), Parma (53,50) e Modena (52,88). Il
più alto tasso di inabilità permanente nel 2003 si è registrato nelle
province di Forlì (3,68), Reggio Emilia (3,16) e Rimini (3,01) mentre
i casi mortali sono stati più numerosi nella provincia di Ravenna e
Piacenza.
Tabella 18 – Frequenze relative di infortunio per provincia e tipo di
conseguenza, media triennio 1999-2001 (per 1000 addetti). Fonte INAIL
Province e Regioni
Tipo di conseguenza
Inabilità temporanea
Inabilità permanente
Morte Totale
BOLOGNA
42,07
1,98
0,07
44,12
FERRARA
47,05
2,21
0,05
49,31
FORLI
MODENA
61,45
50,43
3,68
2,36
0,10
0,08
65,23
52,88
PARMA
50,68
2,72
0,10
53,50
PIACENZA
43,44
2,87
0,12
46,43
78
RAVENNA
55,02
2,24
0,12
57,37
REGGIO EMILIA
RIMINI
54,62
46,67
3,16
3,01
0,11
0,06
57,89
49,74
49,32
2,56
0,09
51,97
EMILIA ROMAGNA
L’analisi della distribuzione delle frequenze relative per settori di
attività economica nel 2003 mostra particolari elementi di criticità in
quei settori già oggetto di studio nelle pagine precedenti: costruzioni,
trasporti, metalmeccanico, alimentare e sanità. Si offre però la
possibilità di cogliere alcune specificità non ricavabili da una analisi di
valori assoluti. Il settore del legno e della gomma mostrano alti
rapporti tra infortuni e volume occupazionale, elemento che era
sfuggito nelle precedenti elaborazioni. Inoltre la tabella mostra
chiaramente come il settore metalmeccanico nella sua accezione più
ampia (ossia includendo industria metalli, meccanica, elettrica e
fabbricazione mezzi di trasporto) racchiuda al suo interno tre degli
indici più alti a livello regionale.
Tabella 19 - Frequenze relative di infortunio per attività economica.
Emilia-Romagna. Media triennio 1999-2001.
Tipo di conseguenza
Settori di Attività Economica
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
Inabilità temporanea Inabilità permanente Morte
52,06
4,49
0,09
40,90
56,35
3,16
62,42
2,69
0,05
21,00
1,33
0,04
37,51
1,27
0,11
79,07
6,69
0,03
37,97
1,85
0,07
31,16
2,03
28,11
1,38
0,03
75,28
3,06
0,02
76,12
2,86
0,11
83,13
3,67
0,08
57,07
2,05
0,07
32,42
1,40
0,08
63,21
2,16
0,04
56,85
3,56
0,08
57,23
2,50
0,07
79
Totale
56,64
40,90
59,52
65,17
22,37
38,89
85,79
39,88
33,19
29,52
78,36
79,09
86,87
59,19
33,89
65,41
60,49
59,80
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
X ATT. NON DETER.
- TOTALE
46,83
71,38
46,62
33,49
32,92
35,95
52,87
57,11
11,51
32,97
34,14
21,05
57,55
28,00
75,04
49,32
2,30
5,64
2,81
1,79
1,69
1,96
2,79
4,61
0,57
1,58
1,33
0,81
2,06
1,44
0,90
2,56
0,02
0,15
0,09
0,09
0,05
0,07
0,08
0,32
0,02
0,09
0,03
0,05
0,05
0,07
0,09
49,16
77,17
49,52
35,38
34,65
37,98
55,74
62,04
12,11
34,64
35,50
21,91
59,67
29,52
75,94
51,97
Fonte INAIL
L’indice di gravità, rappresentato dalle seguente tabella, è
espressione del rapporto tra le conseguenze degli eventi lesivi
indennizzati e numero degli esposti. È importante sottolineare come
le conseguenze vengano tutte espresse in giornate di lavoro perdute,
quantificate sulla base di convenzioni internazionali recepite dall’UNI
(Ente Nazionale Italiano di Unificazione). Dall’indice di gravità è
quindi possibile ricavare il costo conseguente agli eventi
infortunistici. L’indice medio di gravità regionale è di 4,64 e i settori
di attività economica in cui si registrano i valori più elevati sono:
l’agroindustria (6,88), l’industria di estrazioni dei minerali (8,69),
l’industria del legno (9,09), l’industria dei metalli (6,45), le
costruzioni (9,42) e trasporti (9,36). È interessante soffermarci sui
diversi valori delle diverse tipologie di conseguenze. Nei settori in cui
si raggiungono gli indici più alti emerge che siano le voci “inabilità
permanente” e “morte” ad incidere in maniera più significativa
sull’indice aggregato. Infatti gli indici di inabilità temporanea sono
tutti contenuti in un range ristretto (da 0,54 a 1,74). L’indice di
inabilità permanente varia invece da 0,61 fino a 7,32 e l’indice di
morte da 0,16 a 2,39. L’indice più alto di inabilità permanente viene
registrato nell’industria di estrazioni minerali (7,32), mentre l’indice
di morte più alto si trova nel settore dei trasporti (2,39).
80
Tabella 20 – Rapporti di gravità di infortunio per settore di attività
economica e tipo di conseguenza. Media triennio 1999/2001 (per addetto).
Fonte INAIL
Tipo di conseguenza
Settori di Attività Economica
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
X ATT. NON DETER.
- TOTALE
Inabilità temporanea
Inabilità permanente
1,30
0,82
1,38
1,36
0,53
0,86
1,85
0,82
0,76
0,64
1,53
1,72
1,74
1,11
0,67
1,23
1,22
1,21
1,06
1,77
1,11
0,77
0,79
0,85
1,22
1,53
0,29
0,81
0,81
0,42
1,45
0,72
1,73
1,13
81
4,92
7,32
3,10
1,48
1,41
7,04
2,23
0,99
1,68
4,05
3,09
4,13
2,17
1,55
2,52
3,48
2,77
2,15
6,49
2,94
1,90
1,92
2,12
3,03
5,44
0,61
1,82
1,39
0,88
2,27
1,49
0,92
2,86
Morte Totale
0,65
6,88
0,82
8,69
0,40
4,87
0,30
2,32
0,82
3,09
0,20
9,09
0,49
3,55
1,74
0,25
2,58
0,16
5,74
0,85
5,66
0,59
6,45
0,55
3,83
0,60
2,82
0,31
4,05
0,63
5,33
0,51
4,50
0,18
3,39
1,16
9,42
0,64
4,69
0,71
3,38
0,34
3,05
0,55
3,52
0,64
4,88
2,39
9,36
0,18
1,07
0,68
3,31
0,26
2,46
0,34
1,64
0,41
4,13
0,56
2,77
2,65
0,65
4,64
1
Il livello provinciale
Le tabelle successive mostrano più nello specifico il fenomeno
infortunistico nelle sue articolazioni provinciali. Sono state infatti
elaborate, sempre dalla banca dati Inail, i dati provinciali relativi agli
infortuni denunciati per settori di attività. Questo permette di
inquadrare gli aspetti di criticità e di positività per singola provincia e
di fornire, contemporaneamente, indicazioni su dove gli attori del
sistema sicurezza dovrebbero rivolgere i propri sforzi e concentrare
le proprie politiche. Allo scopo di fornire una interpretazione
attendibile e realistica dei trend infortunistici nel periodo 1999-2003,
lo studio dei dati si è realizzato in parallelo con la consultazione della
tabella riportante il numero assoluto degli infortuni.
Nell’interpretazione dei dati è comunque opportuno tenere in
considerazione che a partire dall’anno 2000 molte delle imprese
assicurate all’Inail sono state riclassificate secondo i criteri definiti e
certificati dall’Istat. È quindi possibile che vi siano delle incongruenze
numeriche dovute proprio a fattori tassonomici.
La provincia di Piacenza
La prima provincia analizzata è Piacenza. Nel periodo esaminato si è
registrato un incremento di oltre 8 punti, e, ad eccezione di un
arresto nel 2002, si riscontra una crescita tendenziale. Effettuando
una osservazione per macro attività economiche si nota come
l’industria manifatturiera, in senso stretto, sia in leggero ma continuo
calo, a testimonianza di un impegno degli attori “industriali” nel
contenimento degli infortuni. Picchi di infortuni continuano a
permanere però nell’industria alimentare (+2,5), nell’industria della
carta (+12,3) e nell’industria elettrica, mentre le performance
migliori sono state realizzate nell’industria della chimica (-32,6) e
della gomma (-35,4). Le problematicità del settore delle costruzioni
in provincia di Piacenza sono in linea con l’andamento regionale, anzi
presentano un innalzamento ancor più accentuato. Dal 1999 al 2003
82
gli infortuni sono aumentati di 17,1 punti, ossia sono passati da 609
incidenti denunciati a 713.
Se da un lato la manifattura ha assistito ha una riduzione degli
infortuni, dall’altro, nella provincia di Piacenza si è assistito ad un
importante aumento degli incidenti denunciati nel settore dei servizi e
commercio. Sia il commercio all’ingrosso che il commercio al
dettaglio riportano aumenti del numero assoluto degli infortuni
denunciati, rispettivamente di 20,5 e 16,4 punti. In tutte le aree
riconducibili ai servizi gli infortuni denunciati sono aumentati nel
quinquennio considerato. Le traiettorie più interessanti sono
disegnate nell’ambito del settore dei trasporti, con un incremento di
17,2 punti, e delle attività immobiliari, con una ascesa stabile negli
anni fino a raggiungere +78,3 punti nel 2003.
Tabella 21 –Piacenza. Variazione degli infortuni sul lavoro denunciati dalle
aziende per settore di attività economica e anno evento. Indice base 1999
(1999=100). Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
78,3
134,8
160,9
134,8
100
162,5
87,5
62,5
87,5
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
102,0
103,6
140,0
104,5
107,0
100,0
65,2
81,0
95,1
102,8
114,1
95,8
103,4
69,2
101,1
108,1
85,7
80,0
66,7
101,8
50,0
56,5
89,9
102,2
101,7
108,6
85,9
92,4
87,2
98,5
98,0
96,4
20,0
93,9
105,3
89,1
63,3
82,5
104,9
101,3
97,2
83,9
107,7
95,8
102,5
78,6
80,0
74,2
112,3
100,0
67,4
64,6
80,9
92,9
94,4
115,5
70,3
92,3
89,9
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
86,8
98,7
78,9
101,0
89,5
112,6
65,8
117,1
G50 COMM. RIP. AUTO
100
108,7
122,1
98,0
108,1
83
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
96,6
94,4
99,4
100,0
110,3
110,8
100,0
105,6
101,6
120,5
116,4
115,1
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
101,5
117,4
88,2
124,0
85,7
125,0
108,6
132,7
112,9
111,8
144,1
142,3
106,1
168,8
105,3
110,6
112,4
130,8
158,8
160,6
108,2
143,8
104,3
131,0
105,7
117,2
108,8
178,3
123,1
131,3
111,5
100,0
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
103,6
107,9
104,8
105,7
112,7
107,7
108,6
101,0
106,4
106,9
113,1
108,7
La provincia di Parma
Anche nella provincia di Parma il numero complessivo di infortuni ha
subito una crescita, seppur più contenuta rispetto al caso piacentino,
di 2,3 punti. L’andamento degli infortuni ha subito una consistente
variazione verso l’alto nel 2000 (+6,2) per poi scendere fino al 2002
(+1,7) e risalire ancora di 0,5 punti nel 2003. L’industria
manifatturiera parmense dal 2000 al 2003 è stata testimone di un
importante calo degli infortuni denunciati, passando da 4.092 a
3.158, con una riduzione di 23 punti.
Le realtà manifatturiere che continuano a mantenere alti livelli di
infortuni, anche se in termini assoluti non sono molto significativi,
sono l’industria tessile e dei mezzi di trasporti.
È comunque opportuno porre attenzione all’andamento tracciato
dalla curva degli infortuni nel settore dei tessili. Una analisi più
attenta permette, infatti, di notare come il generale innalzamento del
numero degli infortuni del quinquennio si inserisca in una tendenza
decrescente iniziata nel 2000.
Anche l’area legata al commercio è in stabile calo, in generale dal
2000, raggiungendo una contrazione media di settore pari a 23,5
punti. Nel settore delle costruzioni dopo un aumento ripetuto negli
anni 1999-2002 si è verificata, nel 2003, una riduzione di 10,1
rispetto all’anno precedente. Tra i servizi è da registrare una
84
diminuzione degli infortuni nel settore dei trasporti a partire dal
2002, passando da 1.164 nel 2001 a 919 infortuni nel 2003.
Rimanendo nel settore dei servizi è da sottolineare, come in gran
parte delle province in Emilia-Romagna, il netto aumento degli
infortuni nelle attività immobiliari.
Tabella 22 Parma. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore
di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
146,2
107,7
111,5
138,5
100
141,2
105,9
117,6
105,9
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
103,6
146,5
112,5
95,7
79,3
60,0
111,7
112,3
96,4
93,1
101,1
118,7
138,2
78,4
100,2
101,8
114,0
150,0
83,8
68,6
140,0
93,3
110,3
93,2
91,2
99,3
123,3
112,7
92,2
97,5
91,9
118,6
112,5
60,7
75,7
87,8
109,3
79,2
56,4
57,9
75,0
100,7
81,4
84,8
86,9
97,3
83,6
64,7
86,3
64,2
80,1
67,4
78,8
71,2
89,3
110,9
56,9
77,2
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
94,7
102,9
94,7
106,2
68,4
106,9
81,6
96,8
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
115,6
108,1
107,7
109,6
108,8
109,1
94,0
102,3
105,4
102,7
92,0
98,6
83,4
88,3
85,8
86,1
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
100
100
100
100
100
100
108,4
103,1
172,3
114,5
93,5
122,2
101,8
105,9
144,7
136,5
105,5
155,6
82,8
91,3
131,9
135,5
89,7
151,9
92,1
83,6
125,5
129,8
84,2
125,9
85
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
131,6
91,3
143,0
102,8
132,0
83,3
104,7
64,6
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
104,0
113,7
106,2
105,1
106,8
105,5
95,7
122,0
101,7
86,9
154,8
102,3
La provincia di Reggio Emilia
Seguendo una successione geografica, passiamo ora ad esaminare gli
elementi di specificità riscontrati nella provincia di Reggio Emilia.
Quello che appare immediatamente agli occhi è la contrazione
generale del numero degli infortuni dal 1999 al 2003. In provincia di
Reggio Emilia si registra infatti la miglior performance provinciale in
Emilia-Romagna in termini di punti di decremento degli infortuni
denunciati (-3,9). Eccetto una parentesi negativa nel 2001, anno in
cui gli infortuni aumentarono di 1,5 punti rispetto al 1999, gli attori
operanti nell’ambito della provincia reggiana hanno sempre
dimostrato una capacità di intervento e politiche sulla sicurezza
capaci di migliorare le condizioni di lavoro e di vita lavorativa.
Altro dato di sicuro rilievo è la positività dei risultati raggiunti
nell’industria alimentare (-23,5) e nell’industria del legno (-19,3).
Questo è segnale dell’attenzione riscossa tra le parti sociali e gli
attori istituzionali rispetto alla centralità che dovrebbe essere
attribuita alla sicurezza del lavoro. L’industria manifatturiera, in
senso stretto, ha visto gli infortuni denunciati diminuire da 6.167 nel
1999 a 5.414 nel 2003, con una riduzione quindi di circa 12,2 punti.
Le industrie che si discostano da una linea tendenzialmente
decrescente per quanto riguarda il periodo considerato sono
l’industria elettrica (+9) e l’industria della carte (+7).
L’industria tessile ha sempre mostrato un andamento preoccupante
fino al 2003, in cui si è verificata una inversione di tendenza,
passando da 190 (2002) a 155 infortuni denunciati.
Il settore delle costruzioni riporta dati in sintonia con il dato
regionale, registrando un aumento totale di 7,8 punti. Nelle attività
commerciali, la sottovoce che sembra avere maggiori difficoltà è il
86
commercio al dettaglio, settore in cui si è verificata una costante
crescita fino ad assestarsi a + 9,4 punti nel 2003.
Nel settore dei servizi i dati più significativi sono quelli relativi al
settore dei trasporti, in cui dopo una costante crescita degli infortuni
nel periodo 1999-2002 si è verificata una diminuzione di 8,4 punti nel
2003, il settore delle attività immobiliari, con una crescita
infortunistica di 39,4 punti, la pubblica amministrazione, con un
aumento, dopo una breve parentesi nel 2002 (-39,3), di 7,7 punti, e i
servizi pubblici , in cui si è passati da 11 incidenti denunciati nel 1999
a 149 nel 2003.
Tabella 23- Reggio Emilia. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per
settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
78,7
95,1
85,2
80,3
100
73,3
56,7
106,7
73,3
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D T.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
88,3
93,7
62,5
88,1
95,8
80,2
107,4
50,0
109,9
104,2
79,7
108,6
12,5
104,9
93,4
76,5
88,6
100,0
80,7
107,8
96,6
103,2
101,4
97,6
105,1
107,0
96,8
90,5
99,3
100,0
105,7
100,8
102,6
101,2
119,1
95,2
114,6
101,0
89,9
101,8
99,2
98,6
97,5
109,0
69,4
134,3
97,7
89,9
86,4
85,2
86,3
89,4
109,0
85,5
100,7
87,8
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
75,6
99,1
51,3
101,9
51,3
108,2
83,3
107,8
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
87,6
95,3
105,1
97,5
80,8
118,1
103,9
102,6
98,8
127,2
110,9
113,1
92,0
100,0
109,4
101,9
H ALBERG. E RIST.
100
108,7
119,0
111,1
100,4
87
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
102,9
96,3
109,4
101,0
81,4
104,8
128,9
102,3
114,8
119,7
101,7
104,7
90,4
157,0
107,7
90,1
149,2
60,7
181,4
115,8
169,3
99,3
80,2
139,4
107,7
116,3
92,5
130,7
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
100,2
99,2
99,8
102,8
99,4
101,5
104,0
91,6
99,1
96,9
95,0
96,1
La provincia di Modena
Continuando lungo la via Emilia, arriviamo alla provincia di Modena,
in cui si rileva una timida diminuzione del volume degli infortuni
passando da 26.299 nel 1999 a 25.360 nel 2003, con una riduzione
complessiva di 3,6 punti. Il livello massimo di infortuni si è raggiunto
nel 2001 per poi scendere per due anni consecutivi di 4,4 punti.
Analizzando la tabella per attività economica si evidenzia una
tendenziale decrescita degli infortuni. Nella industria manifatturiera
infatti il calo infortunistico è molto importante: 22,7 punti in 5 anni.
Nell’ambito della industria manifatturiera, diversi sono settori in cui
la performance espressa risulta migliore della media generale.
Nella industria alimentare, per esempio, si è assistito ad una
progressiva erosione del numero iniziale degli infortuni ottenendo
una riduzione di oltre 300 infortuni annuali nell’arco di tempo
considerato (-32,7 punti). Anche l’industria tessile (-29,1), l’industria
chimica (- 30,1) e soprattutto l’industria dei mezzi di trasporto
(-45,2) rappresentano esempi virtuosi in quanto a contenimento del
numero degli infortuni.
Il numero di incidenti registrato nel settore delle costruzioni presenta
un andamento incerto, ossia ad anni di decrescita seguono anni di
forte ricrescita annullando sostanzialmente i risultati positivi realizzati
l’anno precedente. Negli ultimi 5 anni, il numero degli infortuni è
fondamentalmente rimasto inalterato. Il diffuso aumento
occupazionale che ha caratterizzato il settore e la persistenza del
88
lavoro nero ed irregolare non permettono di definire con chiarezza la
positività dei dati denunciati.
In una logica di comparazione a livello regionale e a parità di
condizioni di mercato del lavoro e di esposizione al lavoro irregolare,
possiamo comunque dire che la provincia di Modena, insieme a
quella di Parma, sono le uniche due realtà in cui le costruzioni hanno
visto una diminuzione degli incidenti.
In linea con i risultati della industria manifatturiera, anche il
commercio presenta un trend in discesa, portandosi da 1.760
incidenti denunciati nel 1999 a 1.548 nel 2003 (-22 punti).
Disaggregando le singole voci del commercio, si nota come solo il
commercio all’ingrosso mantenga lo stesso volume infortunistico.
L’attività dei servizi mostra al suo interno delle divergenze. Se,
infatti, da un lato nel settore dei trasporti gli incidenti denunciati
diminuiscono di 10,3, ottenendo il decremento più significativo a
livello regionale, altri settori, quali la sanità (+11,6) e le attività
immobiliari (+6,6), continuano a mostrare segni di criticità.
Tabella 24 – Modena. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per
settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
72,9
95,8
93,8
110,4
100
60,6
45,5
51,5
24,2
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
96,2
96,7
125,0
98,6
122,1
95,1
102,1
100,0
114,6
140,8
84,4
88,8
100,0
117,4
114,1
68,3
70,9
81,3
84,0
101,4
107,4
89,9
98,0
108,8
96,0
124,8
95,9
107,8
100,9
102,2
93,2
103,8
100,9
105,3
116,0
77,6
90,1
102,7
99,3
80,6
96,2
96,0
100,2
108,8
79,6
107,8
96,0
69,9
79,7
79,6
82,8
76,0
87,3
54,8
67,4
77,3
89
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
88,0
103,7
94,9
96,6
88,8
107,7
76,1
100,6
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
102,1
90,4
96,3
95,8
92,0
103,6
90,7
95,1
91,5
101,6
101,2
99,0
86,6
101,4
79,0
88,0
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
108,4
104,7
88,1
99,6
95,7
133,3
85,1
113,7
109,0
96,1
88,9
109,3
100,0
146,7
99,1
141,6
111,5
101,5
96,3
134,3
86,2
120,0
103,3
146,5
88,9
89,7
64,4
106,6
66,7
110,0
111,6
104,4
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
100,6
83,6
94,4
101,4
102,6
101,8
101,4
93,8
98,6
85,0
116,4
96,4
La provincia di Bologna
Passando ora ad analizzare la questione infortunistica nella realtà
provinciale di Bologna, appare con assoluta trasparenza il primato
del capoluogo emiliano-remognolo in termini di numero assoluto
degli infortuni nel 2003 (28.167). Il secondo posto di questa
classifica provinciale è ricoperto da Modena con 25.360 infortuni
denunciati nel 2003.
L’ingente volume di eventi infortunistici occorsi in provincia di
Bologna può essere, senza dubbio, ricondotto al maggior peso
occupazionale. Secondo le banche dati Inail, infatti, gli addetti che
prestano la propria attività in provincia di Bologna sono 420.831,
contro gli assai inferiori 270.925 occupati di Modena.
A conferma della tabella relativa agli indici di frequenza relativa
precedentemente analizzata, il numero di incidenti denunciati a
Bologna è relativamente basso rispetto al numero complessivo dei
lavoratori dichiarati. Quello che preoccupa è l’impennata rilevata nel
90
2003 dopo un biennio di performance decisamente positivi con
riduzioni anche superiori a 16 punti (2000-2001).
Diversamente dalle performance ottenute nei primi anni del periodo
esaminato, nel 2003 si è assistito ad un balzo indietro di quasi 5 anni,
assestandosi sui dati negativi del 1999. Disaggregando il dato
generale per attività economica, risulta evidente come l’incremento
registratosi nel 2003 sia un fenomeno generalizzato. Differentemente
dalle altre province e nonostante nel 2003 si sia verificata una leggera
flessione, Bologna presenta una industria manifatturiera con alti
valori di infortuni denunciati, passando a 6.470 nel 1999 per
raggiungere poi quota 7.075 nel 2002 e riscendere a 6.740 nel 2003.
Nell’ambito della industria manifatturiera, i maggiori indici di criticità
si trovano nella industria alimentare (+14,1), nella industria chimica
(+36,1), l’industria di trasformazione (+25,4) e l’industria dei mezzi
di trasporto (+24,4). Il settore delle costruzioni registra sempre
variazione positive ad eccezione dell’ultimo anno (2003) in cui si è
assistito ad una lieve inversione di tendenza, rimanendo comunque di
10 punti superiori a quelli rilevati nel 1999. L’attività del commercio
presenta un trend crescente e continuo negli ultimi 4 anni
evidenziando il rischio di una tendenza positiva difficile da arrestare.
Particolarmente nel commercio al dettaglio sembrano concentrarsi gli
eventi infortunistici (+36,9). Similmente alle altre attività
economiche, anche il settore dei servizi vede aumentare il numero
degli infortuni: meno nei trasporti con un incremento quinquennale di
3,5 punti e più negli intermediari finanziari (+83,7), attività
immobiliari (+77,5), sanità (+61,4) e servizi pubblici (30,3).
Tabella 25 – Bologna. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per
settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
76,7
81,6
115,5
120,4
100
96,8
103,2
83,9
83,9
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
100
100
100
108,1
112,3
100,0
102,4
101,8
129,8
108,4
103,5
142,1
114,1
101,2
103,5
91
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100,5
101,8
89,7
101,8
83,3
116,0
87,7
96,1
99,4
101,9
110,1
107,9
107,0
116,4
112,4
89,7
106,9
133,7
117,0
132,1
103,4
111,3
113,8
114,7
94,6
108,9
147,6
118,0
136,4
104,9
106,1
113,6
113,8
89,7
109,4
136,1
109,6
125,4
96,3
106,7
100,4
124,4
77,3
104,2
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
111,3
107,9
99,0
109,2
80,2
110,8
10,9
109,4
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
96,9
111,8
105,2
105,8
96,7
121,8
130,8
119,8
107,6
121,3
133,3
123,1
104,3
132,7
136,9
128,1
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
119,3
103,9
144,7
117,8
114,1
151,3
122,2
106,7
115,8
106,9
165,0
150,7
126,3
173,7
140,1
122,9
114,1
108,4
191,1
189,4
130,0
157,9
144,7
136,0
123,6
103,5
183,7
177,5
126,3
132,9
161,4
130,3
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
109,0
93,9
103,2
115,4
41,4
87,0
119,5
36,7
87,7
115,6
73,6
99,5
La provincia di Ferrara
Dopo Rimini, la provincia di Ferrara, è la realtà territoriale in cui
negli quinquennio 1999-2003 si è registrato il più alto aumento di
incidenti sul lavoro denunciati. Secondo i dati Inail, gli infortuni sono
infatti passati da 7.061 nel 1999 fino a raggiungere i 7.813 nel 2003,
con un rialzo netto di 10,7 punti. A contribuire maggiormente alla
formazione del dato, non è l’industria manifatturiera ma soprattutto il
settore del commercio e dei servizi. Se confrontiamo i dati a livello di
macro-attività emerge come la performance dell’industria
92
manifatturiera sia, proporzionalmente, più contenuta rispetto alle
altre due voci. Dopo tre anni di continua e rapida crescita degli
infortuni, dal 1999 al 2003, l’industria manifatturiera ha visto ridursi,
nel 2003, il numero di infortuni di 12,3 punti. La performance
positiva dell’industria manifatturiera nel 2003 non deve comunque
portarci ad escludere elementi persistenti di criticità in realtà
industriali importanti, quali l’industria dei mezzi di trasporto, in cui
dopo un picco di oltre +50 (2002) rispetto all’anno base 1999, il dato
si è assestato a +35,8 nel 2003. Preoccupante appare anche il trend
infortunistico relativo alle costruzioni, settore nel quale, dopo due
anni di stasi si è verificata una impennata a +21,3 nel 2002, per poi
scendere a +13 nel 2003. Similmente al settore delle costruzioni,
anche nel settore del commercio viene esercitata sull’andamento
infortunistico una forte pressione verso l’alto nel 2002 (+21,3) ed
ancora nel 2003 (+7,9). Nell’ambito della attività commerciale, il
comparto che presenta il volume di infortuni maggiori e la variazione
più decisa è il commercio al dettaglio, in cui si è passati da 276
infortuni nel 1999 a 310 nel 2003. Passando ora a confrontare i valori
relativi al settore dei servizi risulta evidente, tenendo conto anche del
loro peso assoluto, il considerevole aumento degli incidenti occorsi
nel settore dei trasporti, in cui dopo aver raggiunto quota +33,8 nel
2002 il livello di infortuni scende a +9,8 nel 2003, nel settore delle
attività immobiliari, con un incremento nel quinquennio del 57,6
punti, ed il settore della sanità, con un aumento di 26,6 punti.
Tabella 26 – Ferrara. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per
settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
100,0
120,7
148,3
120,7
100
250,0
150,0
175,0
75,0
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
100
100
100
100
100
100
101,4
110,8
150,0
91,0
68,6
113,5
111,8
150,0
98,9
80,4
134,5
94,6
125,0
95,5
96,1
83,8
89,2
162,5
79,8
86,3
93
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
85,3
166,7
84,9
92,9
106,4
100,0
120,3
74,3
101,0
72,1
140,5
78,3
103,9
113,4
109,6
129,1
100,0
107,6
79,4
119,0
77,4
112,2
110,7
87,4
150,0
134,3
110,0
85,3
159,5
67,9
94,9
102,3
91,1
135,8
100,0
97,7
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
128,3
101,7
117,0
101,3
128,3
121,9
124,5
113,0
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
117,4
95,4
95,3
100,3
100,0
97,7
107,6
102,9
113,6
123,1
123,9
121,3
99,2
107,5
112,3
107,9
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
97,2
114,1
136,7
100,8
86,6
147,4
91,6
76,7
103,3
120,4
140,0
134,9
64,3
121,1
104,3
82,4
120,4
133,8
166,7
157,1
74,5
194,7
109,5
89,8
122,3
109,8
150,0
157,6
76,4
152,6
126,6
92,0
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
100,6
97,5
99,7
106,1
111,3
107,6
117,1
100,8
112,3
108,8
115,2
110,7
La provincia di Ravenna
Il dato complessivo degli infortuni mostra una traiettoria crescente
dal 1999 al 2002 per poi scendere nel 2003 a 11.245 infortuni
denunciati. Questo implica che nell’ultimo anno gli sforzi degli attori
del sistema sicurezza hanno portato ad una inversione di tendenza,
spezzando un ritmo crescente che cominciava a rappresentare un
reale aspetto sfavorevole ad uno sviluppo lungo la via alta alla
competitività. Come nel caso precedente, ad incidere con maggiore
gravosità sul dato aggregato sono il settore del commercio e dei
servizi. Nella industria manifatturiera infatti, analogamente
all’andamento del dato complessivo, si registra una crescita
progressiva del volume degli incidenti denunciati fino al 2002 (+6,3)
94
e poi un calo improvviso nel 2003 (-3,3), con una variazione annuale
di 9,9 punti (280 incidenti denunciati in meno). Nell’ambito della
industria manifatturiera, il settore metalmeccanico è quella in cui si
concentra il numero più elevato di infortuni in termini assoluti.
Mentre in termini di variazione relativa nel quinquennio, i settori più
significativi sono il settore della gomma, in cui dopo un aumento di
20,4 punti nel 2002 si è ritornati nel 2003 ai valori del 1999, ed il
settore della industria elettrica con 11 punti in più rispetto all’anno
base 1999. Considerando anche il peso dei valori assoluti per settore,
la miglior performance in termini di riduzione degli infortuni è da
considerarsi quella raggiunta nell’industria alimentare con una
riduzione nei 5 anni di 17,8 punti. Il settore del commercio presenta
un trend infortunistico molto altalenante. Dopo infatti un
innalzamento dell’indice infortunistico nel 2000 è seguito un calo ed
ancora un aumento di 20,1 punti, da cui nel 2003 si è scesi a +6,4
punti rispetto all’anno base 1999. L’incremento più consistente si
verifica nel commercio all’ingrosso con un +18,5 punti dal 1999 al
2003. Il settore dei servizi presenta, similmente al settore del
commercio, una generale crescita degli infortuni. In particolare
crescono gli infortuni nel settore alberghi e ristoranti e dei trasporti,
nonostante il dato deve essere inserito in un contesto di diminuzione
tendenziale, il settore delle attività immobiliari (+43,8), testimone di
una crescita rapida e continua fin dal 1999, pubblica amministrazione
(+8,2), sanità (+25,1) e servizi pubblici (+11,8).
Tabella 27 – Ravenna. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per
settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
87,1
78,6
84,3
94,3
100
181,8
136,4
145,5
100,0
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
100
100
100
100
100
100
88,8
90,1
93,5
103,1
108,1
105,0
107,4
82,6
90,8
116,2
106,8
77,8
56,5
80,6
108,1
82,2
84,0
58,7
76,5
135,1
95
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
98,1
114,8
101,0
99,5
100,3
108,2
84,5
106,0
99,3
102,8
104,6
108,7
104,7
98,8
97,3
102,8
108,0
102,8
112,0
120,4
114,1
113,4
98,8
117,1
78,9
108,0
106,3
100,0
101,0
103,4
99,7
96,5
111,0
66,2
94,0
94,7
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
104,7
104,5
83,7
105,9
61,6
111,9
10,5
116,3
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
101,5
108,3
107,3
105,8
85,4
100,4
100,6
95,9
107,7
128,3
123,4
120,1
85,1
118,5
113,7
106,4
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
114,7
103,2
84,0
110,7
104,3
104,1
119,2
104,8
116,5
99,5
83,0
122,1
107,8
104,1
129,0
114,8
117,2
112,7
75,5
137,6
133,8
128,6
131,3
111,4
105,4
101,4
74,5
143,8
108,2
132,7
125,1
111,8
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
104,0
93,0
100,3
105,0
99,7
103,3
113,3
91,4
106,0
105,2
96,1
102,2
La provincia di Forlì-Cesena
Come abbiamo già avuto modo di riscontrare dalla analisi delle
frequenze relative la provincia di Forlì-Cesena è la realtà territoriale
con il più alto rapporto tra numero di infortuni e volume
occupazionale. In una logica di comparazione provinciale, risulta
particolarmente di rilievo una disaggregazione dei dati infortunistici
per settore, per comprendere dove sono rintracciabili gli elementi di
criticità. L’andamento dell’indice infortunistico complessivo mostra
una tendenza crescente fino al 2002, anno in cui l’indice presentava
una variazione positiva pari a +9, per poi calare fino a +3,3 nel 2003.
Diversamente da gran parte delle altre province emiliano-romagnole,
in provincia di Forlì non si assiste ad una marcata diminuzione del
96
numero di infortuni nell’industria manifatturiera. Ad eccezione del
2003, infatti, i dati indicano un livello di infortuni sempre più alto del
valore registrato nel 1999. Tra le industrie manifatturiere, quelle che
riportano variazioni maggiori nel quinquennio considerato, e quindi
incidono più pesantemente sulle presenza di elementi di criticità, sono
l’industria alimentare (+16,3), l’industria del tessile (+43,8),
l’industria della gomma (+11,4), l’industria elettrica (+37,7). Anche il
settore dell’agroindustria mostra un andamento non tranquillizzante.
I dati relativi alla industria meccanica possono essere interpretati
come punti positivi in quanto proprio nel settore si individuano le
diminuzioni complessive più alte (-19,4). Nei cinque anni considerati,
infatti, il numero assoluto degli infortuni è passato da 168 nel 1999 a
223 nel 2003 per poi calare sensibilmente a 189 nel 2003. Il settore
delle costruzioni ha continuato negli anni a mantenere alti livelli di
infortunio denunciati ma invece di avere una inversione di tendenza
nel passaggio dal 2002-2003, come altri settori in provincia, ha
invece visto il numero di infortuni passare da 1.309 a 1.388 (+6,3).
Anche il settore del commercio presenta un numero di infortuni in
aumento e soprattutto nel commercio all’ingrosso, settore nel quale
dopo il 2000 il dato sembra stabilizzarsi su valori di circa 15 punti
superiori all’indice base 1999. Similmente alle altre province, a
Ferrara si nota una generale crescita tendenziale degli infortuni nel
settore dei servizi. Il dato su cui una analisi anche superficiale si
soffermerebbe è quello relativo al settore dei trasporti, in cui rispetto
al 1999 nel 2003 si verifica un incremento di 23,7 punti, il settore
delle attività immobiliari (+25,2) e la sanità (+20,8)
Tabella 28 – Forlì. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore
di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
Settori di Attività Economica
100
103,6
123,8
132,7
112,5
100
50,0
91,7
66,7
58,3
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
DD IND. LEGNO
100
100
100
100
96,8
157,8
116,2
106,5
109,6
143,8
137,0
110,3
121,2
121,9
108,8
92,4
116,3
143,8
97,2
91,4
97
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
108,3
50,0
100,0
111,4
92,0
109,8
101,1
155,1
100,4
91,4
105,6
118,1
50,0
132,7
100,0
104,5
111,5
117,2
105,8
105,9
101,5
112,4
115,3
100,0
116,4
102,9
105,1
93,7
105,3
136,2
108,5
104,7
104,7
91,7
75,0
100,0
111,4
104,0
102,1
80,6
137,7
89,8
97,9
99,5
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
47,4
104,7
47,4
104,4
73,7
103,2
63,2
109,5
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
106,1
115,3
119,9
114,3
96,6
114,2
104,3
106,5
95,6
114,6
100,6
105,2
99,0
115,1
107,1
108,3
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
96,8
103,6
100,0
102,8
80,6
80,4
119,0
86,6
100,5
115,1
146,2
119,6
80,0
91,3
123,0
94,6
97,5
104,2
136,5
124,5
84,7
104,3
128,5
106,7
102,5
123,7
109,6
125,2
81,8
106,5
120,8
112,5
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
104,8
100,6
103,7
109,5
100,6
107,2
106,2
116,8
109,0
106,3
94,7
103,3
La provincia di Rimini
La provincia di Rimini racchiude al suo interno una particolarità
squisitamente statistica. Guardando infatti ai dati specifici per attività
economica non si spiega come il numero complessivo sia, negli anni
considerati, in continuo aumento. Prestando, infatti, attenzione alla
distribuzione degli infortuni lungo l’asse temporale si nota come
l’industria manifatturiera, il commercio ed il settore dei servizi non
abbiano subito variazioni tali da giustificare un innalzamento di 13
punti tra il 1999 e il 2005. L’incongruenza si scioglie se si
98
confrontano i trend degli infortuni totali e quelli complessivi. La voce
“totale” è infatti in linea con i dati per attività economica mente la
voce “complessivo” è fortemente influenzato dalla voce “non
indeterminato”: nel 2003 di 7.104 incidenti denunciati, 1.892 non
hanno una appartenenza settoriale definita.
La industria manifatturiera registra negli anni un considerevole calo
passando da 1.599 nel 1999 a 1.322 nel 2003 (-27,3). Ad eccezione
dell’industria dei mezzi di trasporti, in cui si registra un aumento di
27 incidenti all’anno dal 1999 al 2003, il numero di industrie
manifatturiere è in diminuzione. il settore più virtuoso, ossia quello in
cui la discrepanza tra il 1999 ed il 203 risulta maggiore, è il settore
della industria meccanica e dei metalli. In termini assoluti i due settori
hanno assistito, in cinque anni, ad una riduzione complessiva di 130
infortuni denunciati all’anno. Il comparto delle costruzioni è
cresciuto nel periodo considerato in termini di infortuni denunciati: i
916 infortuni del 1999 sono arrivati a 1005 nel 2002 per poi scendere
a 972 nel 2003. Il settore del commercio presenta invece un
andamento degli infortuni decrescente dal 2000 al 2003. A
contribuire maggiormente al contenimento del numero di infortuni è
il settore del commercio e riparazioni autoveicoli, con una riduzione
di 30 punti, e il commercio all’ingrosso, con un calo di 8,2 punti. Nel
settore dei servizi i dati relativi al settore dei trasporti è tornato ai
valori del 1999 dopo anni di forte aumento: nel 2002 si è registrato
una crescita di 31,4 punti. I settori più a rischio nel settore dei
trasporti sembrano essere la pubblica amministrazione (+33,2),
attività immobiliari (+14,2) e la sanità (+14)
Tabella 29 – Rimini. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore
di attività economica e anno evento. Fonte INAIL
Settori di Attività Economica
1999
2000
2001
2002
2003
A AGRINDUSTRIA
B PESCA
C ESTRAZ.MINERALI
100
100
100
233,3
600,0
100,0
166,7
200,0
33,3
191,7
400,0
66,7
233,3
300,0
100,0
DA IND. ALIMENTARE
DB IND. TESSILE
DC IND. CONCIARIA
100
100
100
99,2
121,3
100,0
86,7
93,3
117,1
95,0
105,3
104,9
78,3
73,3
65,9
99
DD IND. LEGNO
DE IND. CARTA
DF IND. PETROLIO
DG IND. CHIMICA
DH IND. GOMMA
DI IND.TRASFORMAZ.
DJ IND. METALLI
DK IND. MECCANICA
DL IND. ELETTRICA
DM IND.MEZZI TRAS.
DN ALTRE INDUSTRIE
* D TOT.IND.MANIF.
100
100
104,0
102,0
93,5
106,0
103,2
104,0
79,0
104,0
100
100
100
100
100
100
100
100
100
85,7
80,6
98,5
122,8
104,1
125,5
108,1
95,1
107,4
128,6
61,3
102,2
105,7
109,9
98,2
164,9
96,2
103,1
150,0
87,1
92,5
91,6
95,6
109,1
164,9
95,1
98,2
157,1
71,0
76,1
76,9
87,7
101,8
173,0
68,6
82,7
E ELET. GAS ACQUA
F COSTRUZIONI
100
100
123,4
105,5
83,0
102,7
125,5
109,7
42,6
106,1
G50 COMM. RIP. AUTO
G51 COMM. INGROSSO
G52 COMM. DETTAGLIO
* G TOT. COMMERCIO
100
100
100
100
100,5
105,1
95,0
100,1
89,5
113,3
100,4
102,1
84,2
108,2
108,1
101,7
70,0
91,8
100,4
89,0
H ALBERG. E RIST.
I TRASPORTI
J INTERM. FINANZ.
K ATT.IMMOBILIARI
L PUBBLICA AMMIN.
M ISTRUZIONE
N SANITA'
O SERV. PUBBLICI
100
100
100
100
100
100
100
100
110,4
126,4
102,3
112,4
115,8
108,0
121,9
97,5
109,1
125,0
118,6
119,7
109,5
84,0
109,7
113,0
108,6
131,4
69,8
144,2
134,0
164,0
122,6
121,1
97,5
100,2
79,1
114,2
133,2
156,0
114,8
62,7
TOTALE
X NON DETERMINATO
IN COMPLESSO
100
100
100
109,0
108,3
108,9
107,3
114,2
108,2
111,3
115,3
111,8
95,0
235,0
113,0
100
La gestione della salute e la sicurezza nel
comparto artigiano e nelle piccole imprese in
Emilia-Romagna
CARLO BONORA, SILVIA CAVICCHI; DAVIDE DAZZI;
SAMUELA FELICIONI
1 Introduzione
Uno degli obiettivi primari della strategia comunitaria adottata dalla
Commissione delle Comunità Europee è costituito dalla promozione
e dal continuo miglioramento del “benessere sul luogo di lavoro” dal
punto di vista fisico, psicologico e sociale. Eppure la strada verso
questo obiettivo sembra ancora piuttosto tortuosa, basti guardare da
un lato al persistere di dati allarmanti sugli infortuni, dall’altro
all’emergere di nuove malattie legate alle condizioni in cui si lavora,
quali lo stress e il mobbing.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro insiste fortemente
sull’efficacia degli strumenti di prevenzione esistenti e sulla reale
possibilità di ridurre incidenti e rischi professionali, previo un reale
impegno da parte degli Stati nel rispettare le convenzioni e le
strategie elaborate in materia di salute e sicurezza e nel riconoscere
un ruolo cruciale al dialogo sociale e alla concertazione. Il processo
che porta al verificarsi di un infortunio sul lavoro è infatti lungo e
composto da diversi fattori; l’infortunio ne rappresenta solo l’esito
finale, la manifestazione più evidente.
Alla luce di tali considerazioni, si è deciso di agire in una logica di
continuità e complementarietà rispetto ai contributi fino ad ora
raccolti nell’ambito della gestione della salute e sicurezza,
focalizzando l’interesse sullo stato dell’arte del sistema sicurezza
nelle piccole imprese e nel comparto artigiano nella regione
Emilia-Romagna orientando le nostre considerazioni alla
prevenzione. Il seguente capitolo si articola sostanzialmente in due
parti. La prima parte contiene una indagine documentale sul ruolo
101
esercitato dall’Ente bilaterale regionale per l’Artigianato (EBER),
quale ente di eccellenza, a livello nazionale, nella gestione della
sicurezza e promozione della cultura della prevenzione nelle micro e
piccole imprese, ed una indagine descrittiva sulle dinamiche
infortunistiche a livello regionale e provinciale. Nella seconda parte si
procede all’analisi del sistema sicurezza nelle piccole imprese
attraverso un approccio di tipo empirico intervistando parallelamente
da un lato stakeholders di rilevanza in materia e, dall’altro, i
rappresentanti provinciali delle associazioni datoriali maggiormente
radicate sul territorio e alcune piccole imprese e imprese artigiane.
2 E.B.E.R.: funzioni e struttura
Nel sottoscrivere l’Accordo Interconfederale Nazionale del 1988, le
Parti Sociali concordarono di concretizzare il modello delle relazioni
sindacali attraverso “la promozione di sedi bilaterali” che
svolgessero “un ruolo propositivo verso le istituzioni e il legislatore
in materia di occupazione e mercato del lavoro, per coniugare
flessibilità e dinamismo del sistema artigiano con la valorizzazione
del ruolo delle parti nelle sedi di governo locale del mercato del
lavoro” proclamando la necessità di “un intervento congiunto” al
fine di favorire, sia a livello nazionale che comunitario, lo “sviluppo
dell’artigianato per la valorizzazione della rappresentanza
dell’associazionismo della imprenditoria artigiana e del lavoro
dipendente nelle varie sedi istituzionali”. Per dare attuazione a tale
impegno fu costituito, il 17 luglio 1991, l’Ente Bilaterale
dell’Emilia-Romagna (E.b.e.r.) per iniziativa delle rappresentanze
sindacali dei lavoratori Cgil, Cisl e Uil e delle imprese artigiane Cna,
Confartigianato, Casaartigiani e Claai.
L’E.b.e.r. nasce perciò come risposta alla complessità, alla crescita e
alle peculiarità di un comparto, quello artigianale appunto, che riveste
un ruolo economico primario nella produzione regionale e come
strumento attuativo di un nuovo modello di relazioni sindacali basato
sul confronto e il dialogo tra le parti, con il compito di gestire gli
accordi sindacali attraverso la ricerca di elementi accomunanti in una
102
prospettiva di sviluppo, crescita e promozione della impresa
artigiana, di difesa della occupazione e di creazione di dispositivi
condivisi di tutela dell’impresa e dei lavoratori.
Lo scopo sociale dell’ente si può ricondurre a quattro azioni
principali: promozione e sviluppo delle relazioni sindacali
nell’artigianato, studi e proposte di iniziative tese ad incrementare lo
sviluppo del settore, gestione di fondi e strutture derivanti da
accordi/intese interconfederali e promozione della formazione
professionale per i lavoratori e gli imprenditori artigiani. Per espletare
tali servizi l’E.b.e.r. si è dotato di una struttura articolata, attraverso
la quale gestisce una serie di servizi e prestazioni rivolte alle imprese
artigiane aderenti (che costituiscono ben il 90% di quelle presenti sul
territorio) e ai lavoratori loro dipendenti, che comprende:
1) Fondo di Sostegno al Reddito di dipendenti ed imprese, la cui
principale funzione è intervenire con quote a favore dei
lavoratori dipendenti in situazioni di crisi congiunturali che
comportano forme di sospensione o riduzione dell’orario di
lavoro.
2) Fondo di Formazione Teorica, con la finalità di raccogliere
fondi per la formazione e predisporre l’erogazione della
stessa.
3) Fondo Relazioni Sindacali, costituito per conoscere e
sviluppare le relazioni tra le parti nel comparto attraverso la
promozione della modalità bilaterale.
4) un Sistema Salute e Sicurezza a cui si aggiunge
l’Osservatorio delle Imprese Artigiane.
Esaminiamo ora più approfonditamente le principali caratteristiche e
funzioni del Sistema di Salute e Sicurezza. Stando al D. Lgs. 626/94
e le sue successive integrazioni, le imprese sono tenute ad
organizzare la sicurezza sui luoghi di lavoro, elaborare la valutazione
dei rischi, individuare misure tali da garantire la prevenzione e la
protezione e formare ed informare i lavoratori secondo un modello
sinergico che prevede la consultazione e la partecipazione dei
103
Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls). Poiché però le
disposizioni previste dal decreto risultavano sostanzialmente
declinate per la struttura e le caratteristiche proprie delle medie e
grandi imprese, le associazioni artigiane e le organizzazioni sindacali
hanno sentito la necessità di realizzare Accordi Interconfederali, sia a
livello nazionale che regionale, al fine di adeguare l’applicazione della
legge alle specificità del comparto artigiano. Obiettivo principale di
tali accordi è quello di favorire un sistema relazionale e partecipativo
che accresca la responsabilità e la consapevolezza di tutti i soggetti
interessati al fine di rendere più sicuri e produttivi i luoghi di lavoro.
In quest’ottica sono stati costituti due organismi parititeci tra le
OO.AA e le OO.SS con lo scopo principale di orientare e
promuovere iniziative formative in materia di salute e sicurezza: il
Cpra (Comitato Paritetico Regionale per l’Artigianato) e l’Opta
(Organismo Paritetico Territoriale per l’Artigianato). Questi
organismi costituiscono una struttura a livello regionale che è
autonoma rispetto all’E.b.e.r. ma alla quale quest’ultimo fornisce un
appoggio tecnico e organizzativo attraverso il suo Sistema di Salute
e Sicurezza che ha come scopo primario quello di supportare con
attività di segreteria tecnica ed organizzativa le strutture di gestione
previste dagli Accordi Interconfederali.
Scendendo più nel dettaglio, vediamo che sostanzialmente, il Sistema
di Salute e Sicurezza dell’E.b.e.r. si articola su una rete relazionale
che ha come punti cardine il Cpra, l’Opta e gli Rls (Rlst).
Il Comitato Paritetico Regionale per l’Artigianato è composto, data
la sua natura bilaterale, da sette componenti, ciascuno per ogni
associazione di rappresentanza e opera con funzioni di orientamento
e di coordinamento a livello regionale al fine di rendere omogenei gli
obiettivi e i criteri di applicazione degli Accordi e della legge
nell’intero territorio. La sua finalità principale è quella di promuovere
la cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro e, per raggiungere tale
obiettivo, oltre a individuare i diversi fabbisogni territoriali, funge da
interlocutore e intermediatore tra i vari Enti Regionali al fine di
qualificarne le azioni favorendo l’acquisizione di modalità omogenee
di intervento (sostegno economico ad attività di promozione, attività
di vigilanza etc.) e monitora, coordina e promuove gli Opta
104
attraverso la raccolta e la verifica delle attività trimestrale di bacino.
L’Organismo Paritetico Territoriale per l’Artigianato si compone
anch’esso di sette componenti espressi pariteticamente dalle
associazioni di rappresentanza e la sua struttura organizzativa si
dispiega in undici bacini territoriali: Piacenza, Parma, Reggio Emilia,
Modena, Bologna, Imola, Ferrara, Ravenna, Forlì, Cesena e Rimini.
Gli Opta, costituiti presso gli E.b.e.r. territoriali, hanno il compito di
promozione della formazione e di sede della consultazione dei
Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriali (Rlst) sui
documenti di valutazione del rischio. L’Opta quindi, riprendendo al
livello territoriale di competenza l’attività promossa dal Comitato
Paritetico a livello regionale riguardante la diffusione della cultura
della sicurezza e della prevenzione, esercita innanzitutto attività di
promozione e iniziative, anche formative, nei confronti dei principali
attori del Sistema di Salute e Sicurezza. E’ poi anche la sede in cui si
esplicano gli obblighi di informazione e consultazione previsti dalla
legge. Inoltre può interloquire con le Ausl in merito ad attività
riguardanti la prevenzione, la sicurezza, l’igiene e la tutela della
salute in una prospettiva di divisione sinergica dei compiti.
L’organismo risulta inoltre indicato come sede dirimente delle
controversie nate tra le parti riguardanti diritti di rappresentanza,
informazione e formazione.
Infine, altra figura cardine del Sistema è rappresentata dal
Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza il cui ambito di azione
varia a seconda del numero di lavoratori impiegati dalle imprese.
Per le imprese con un numero di dipendenti inferiore a 15, il soggetto
di riferimento è, in base alle disposizioni del D. Lgs. 626/94, il
Rappresentante territoriale (Rlst), la cui attività è, come abbiamo
visto, strettamente collegata a quella dell’Opta territoriale
corrispondente. Per le imprese il cui numero di addetti è superiore a
15, il Rappresentante opera direttamente all’interno della azienda
(Rlsa) e deve ricevere, secondo gli obblighi di legge, da parte del
datore tutte le informazioni richieste e la documentazione relativa alla
valutazione dei rischi per consultarla.
Quella appena descritta è la struttura organizzativa dell’E.b.e.r così
come prevista dagli accordi tra le parti sociali e dalla legge. Il suo
105
reale funzionamento e gli obiettivi effettivamente raggiunti dalla
stessa sono stati indagati in una ricerca che il Cpra ha promosso
proprio per evidenziare le criticità e le potenzialità del Sistema Salute
e Sicurezza E.b.e.r. così come percepite dai principali attori che ne
sono coinvolti.
Dalla ricerca risulta la convinzione che solo un coinvolgimento
sinergico di tutti gli attori coinvolti sia in grado di diffondere la
cultura della prevenzione e della sicurezza soprattutto in un comparto
come quello artigiano composto per lo più da imprese di
piccole/piccolissime dimensioni in cui sindacato non ha una struttura
capillare, radicata e diffusa. Lo strumento della bilateralità si dimostra
quindi estremamente efficace perché permette di raggiungere
obiettivi condivisi tra le parti all’interno di realtà produttive spesso
trascurate a livello legislativo e che altrimenti sarebbero in difficoltà
ad ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa in materia di
sicurezza, che, tarata sulle medie/grandi imprese, difficilmente può
essere tradotta in interventi qualificanti per la cultura della sicurezza.
A questo proposito, nonostante l’intervento dell’E.b.e.r. sia ritenuto
fondamentale alla sensibilizzazione dei datori di lavoro e dei
lavoratori, per molte aziende ancora oggi la sicurezza sul luogo di
lavoro continua ad essere considerata come un costo o, al più, un
obbligo formale. Tale percezione è dimostrata dal fatto che, sebbene
il 53,9% degli imprenditori artigiani intervistati dichiari che le attività
svolte dall’E.b.e.r. siano “utili” o “molto utili” nella prospettiva di un
progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro, ben il 51,6%
dichiara di aver utilizzato “poco” o “mai” la documentazione
prodotta dallo stesso ente e, nonostante il materiale informativo sia
puntualmente distribuito ai dipendenti dal 68% delle imprese, ben il
54,2% di queste ritiene in questo modo esauriti gli obblighi
informativi e formativi previsti dalla legge quando in realtà, il
materiale E.b.e.r. viene ideato ed elaborato con la funzione di
supporto e non di strumento per assolvere a tali obblighi. Inoltre,
seppur una buona parte dei datori di lavoro (il 63,9%) ritenga che
effettivamente la normativa su salute e sicurezza abbia reso il lavoro
più sicuro e meno dannoso, molti lamentano l’eccessiva
burocratizzazione legata alla normativa e ritengono che la presenza
106
dei numerosi soggetti creati in supporto ad essa sia un aggiuntivo
costo che ricade sulla azienda.
Uno dei nodi più critici individuato nel Sistema Salute e Sicurezza
da quasi tutti gli attori coinvolti è sicuramente la figura dell’Rlst. Il
primo aspetto è sicuramente la scarsa numerosità di tali figure che
molto spesso si trovano a dover monitorare un’area estremamente
vasta di aziende con conseguenti ripercussioni sulla visibilità che
acquisiscono nei confronti dei datori e degli stessi lavoratori, a tale
problema si aggiunge quello legato alle competenze professionali
trasversali richieste agli Rlst (ciascuno dei quali deve far fronte non
solo a realtà territoriali vaste ma anche composite dal punto di vista
del gruppo di appartenenza e quindi degli interventi necessari e delle
procedure comportamentali da seguire) e quello relativo al breve o
discontinuo impegno temporale di questi soggetti, caratterizzati da
un rapido turn over e da un impegno non a tempo pieno in materia
che finisce per rendere impossibile l’instaurarsi di un rapporto
continuativo con i lavoratori, la aziende e le istituzioni.
1
Infortuni nelle aziende artigiane dell’Emilia-Romagna
Nonostante alcuni punti di debolezza, si può in generale
affermare che, assieme ad altri fattori, il Sistema Salute e Sicurezza
abbia contribuito alla riduzione degli infortuni verificatisi negli ultimi
anni in quasi la totalità delle province della regione dimostrando così
l’importanza e l’efficacia della presenza capillare delle strutture
bilaterali nel comparto artigiano del territorio. Notiamo infatti che, se
fino al 2002, il numero degli infortuni denunciati nelle aziende
artigiane dell’Emilia-Romagna non scendeva al di sotto delle 21.000
unità, con un picco di 21.603 nel 2000, nel 2003 si è finalmente scesi
a 19.363, un risultato senz’altro importante perché dimostra una
riduzione dal 1999 al 2003 del 9,7% circa, a fronte di una riduzione
nazionale del 9,2% (da 155.009 nel 1999 a 140.686 nel 2003).
Tuttavia la nostra regione si situa ancora ai vertici della classica per il
maggior numero di infortuni, sorpassata com’è solo dalla Lombardia
con 24.119 infortuni denunciati nel 2003 (ma con una riduzione dal
1999 del 11,2%) e dal Veneto con 20.768 (anch’esso con una
107
riduzione simile: 11,1%). Risulta perciò necessario continuare ad
investire nel Sistema Salute e Sicurezza e in una sempre più costante
attività di controllo e formazione non solo per confermare i buoni
risultati fino ad ora raggiunti ma per accentuarli. Nel farlo, bisogna
tener presente che l’incidenza degli infortuni interessa in maniera
diversa le province, i settori di attività economica, la dimensione in
termini di occupazionali delle aziende, così come la tipologia di
lavoratori coinvolti (per sesso, età e modalità contrattuale, ad
esempio).
Stando ai dati Inail per il 2003, la provincia che ha registrato il
maggior numero di infortuni denunciati, comprendenti sia i lavoratori
dipendenti per ogni classe di azienda che gli autonomi, è quella di
Bologna (3.367), seguita da Modena con 3.258, Forlì (2.698) e
Reggio Emilia con 2.653, ossia quelle province che rispetto alle altre
presentano una quota maggiore di imprese artigiane, al 2004,
secondo i dati dell’Osservatorio E.b.e.r, Bologna ne contava 7.167,
Modena 7.474 e Reggio 5.118.
Tabella1: Infortuni denunciati nelle aziende artigiane per anno evento
Province
Bologna
Ferrara
Forlì
Modena
Parma
Piacenza
Ravenna
Reggio Emilia
Rimini
Emilia-Romagna
2002
3.468
1.336
2.555
3.908
2.100
1.121
1.988
2.956
1.609
21.041
2003
3.367
1.254
2.698
3.258
1.798
1.052
1.890
2.653
1.393
19.363
Fonte: Inail
Nonostante le cifre siano ancora molto elevate, la tendenza alla
riduzione degli infortuni è sostenuta e, a fronte di una media
regionale di circa l’8% di denunce in meno nel 2003 rispetto al 2002,
si passa dal –16,6% di Modena al –14,4% di Parma fino al -2,9% di
Bologna. Unica provincia che registra una aumento è Forlì con il
5,6% di infortuni denunciati in più. Confrontando poi il numero degli
108
incidenti denunciati in complesso dalle aziende artigiane (19.363) con
quello totale (128.120) e tenendo conto di circa 47.595 aziende non
determinate, risulta come sia maggiore il numero di incidenti nelle
aziende non classificate come artigiane, pari a circa 61.162, con
differenze più accentuate a Bologna e Modena. Le differenze
riscontrate tra le diverse province possono essere in parte giustificate
con la differente crescita del settore artigiano in ciascuna di esse che,
seppur piuttosto trasversale, oscilla da una percentuale di variazione
massima pari al 5,25% di Forlì-Cesena, passando per il 5,13% di
Modena ad una minima dello 0,9% di Piacenza.
Cambiando adesso la prospettiva di indagine, analizziamo il
fenomeno infortunistico relativamente al settore produttivo in cui si
collocano le imprese artigiane. I due settori prevalenti in
Emilia-Romagna, considerando sia il numero di imprese che il
numero di dipendenti, sono sicuramente il metalmeccanico (14.488
imprese e 63.712 dipendenti) e l’edilizia (7.592 imprese e 22.019
addetti), come era facile aspettarsi date le caratteristiche regionali, la
crescente frammentazione aziendale, l’organizzazione del lavoro
prevalente nel comparto. E’ in questi settori che si registra il maggior
numero di incidenti denunciati dalle imprese artigiane: nel 2003 quelli
verificatisi nei due settori considerati erano circa il 73,4% del totale,
pari a 14.809: di questi 7.253 (pari al 37,4% del totale) nell’industria
manifatturiera e 7.556 (39%) nel settore delle costruzioni.
Prendendo in considerazione solo il primo tra i due settori
considerati, il maggior numero di incidenti è registrabile nell’industria
dei metalli con 2.819 infortuni denunciati, a seguire l’industria
meccanica con 925 e quella alimentare, con 794. Nonostante le cifre
rimangano sempre piuttosto elevate, l’industria manifatturiera ha
visto negli anni diminuire l’entità del fenomeno, passando da 8.908
casi nel 1999 a 7.253 nel 2003, con una variazione rispetto all’anno
precedente, il 2002, pari a –13,3%. Ancora più allarmante la
situazione nel settore delle costruzioni che, sebbene come
precedentemente osservato, si compone di un numero minore di
imprese, presenta dati circa gli infortuni che raggiungono e
addirittura superano i livelli del settore industriale. Tanto più che se
nel 1999 gli infortuni denunciati erano 7.306, nel 2003 essi erano
109
saliti a 7.556, anche se bisogna considerare una riduzione rispetto al
2002 del 3,4%, percentuale ancora ridotta ma in controtendenza con
i dati degli anni precedenti, in cui si era assistito ad un incremento
progressivo quanto inesorabile. Nel considerare questi dati è
necessario tener presente le caratteristiche proprie del settore
edilizio, il cui numero di imprese aumenta più che in altri settori (la
variazione percentuale nel 2004 rispetto al 2003 è stata del 6,54%) e
della crescente frammentazione del sistema edilizia. Quest’ultima
caratteristica verosimilmente incide sul numero di incidenti sul
lavoro, basti pensare alla moltiplicazione di contratti di appalto e
subappalto spesso incardinati in un sistema basato su un continuo
ribasso dei prezzi delle commesse con la conseguente necessità,
soprattutto per le imprese di dimensioni più ridotte, di ridurre le
proprie spese, il che avviene spesso tagliando quelle destinante alla
sicurezza. Tra gli altri, un settore che appare particolarmente
interessato dal fenomeno infortunistico è quello dei trasporti, che pur
rappresentando il 5,30% del totale delle imprese artigiane della
regione, fa registrare nel 2003 ben 1.707 infortuni, l’8,8% del totale,
e risulta anche l’unico in cui il numero delle malattie professionali,
dopo essere cresciuto più rapidamente che altrove, continua a
mantenersi costante. Il che ci riporta alla criticità tipiche di questo
settore, soprattutto in termini di controllo dello stesso e di coloro che
vi operano. È da considerare inoltre che, mentre nelle medie e grandi
imprese le relazioni industriali sono sviluppate contribuendo, quindi,
alla coesione interna e all’efficacia del dialogo sociale, nel sistema
artigiano la scarsa presenza del sindacato impone un “controllo” e
interventi sulle condizioni di vita e di lavoro dall’esterno.
Rimanendo sempre in tema di caratteristiche strutturali e
organizzative aziendali, vediamo ora come varia il numero di
infortuni a seconda della dimensione occupazionale. Come era
d’obbligo aspettarsi, esso appare inversamente proporzionale a quello
dei dipendenti impiegati. Così su un totale di 9.048 infortuni occorsi
nel 2003 tra le imprese artigiane che occupano dipendenti, ben 8.708
si sono verificati in quelle con classe di addetti da 1 a 15, 314 in
quelle da 16 a 30 e 26 laddove il numero di lavoratori risulta
superiore a 30. La maggiore incidenza di infortuni nelle imprese di
110
piccole dimensioni è spiegabile considerando la concomitante azione
di diversi fattori: la citata rara presenza di un sindacato organizzato
in modo strutturato e capillare, minore visibilità di tali realtà agli
attori istituzionali, ridotta e discontinua possibilità di essere
sottoposte a visite ispettive e di controllo e prevalenza di rapporti
informali. I dati che si erano riportati relativamente ai settori
produttivi che presentano maggiori criticità, rispecchiano, se declinati
secondo la variabile della classe di addetti, le stesse conclusioni.
Risulta infatti che una buona percentuale del totale degli infortuni ivi
riscontrati è imputabile alle aziende che impiegano un numero di
dipendenti inferiore a 15: su un totale di 4.346 infortuni denunciati
tra le imprese dell’industria manifatturiera con l’esclusione degli
autonomi, ben 4.148 sono quelli verificatisi in realtà di piccole
dimensioni, e lo stesso discorso vale per le costruzioni (su un totale
di 2.949, 2.886 sono gli infortuni nella classe occupazionale 1-15).
Spostiamo ora l’attenzione dalle caratteristiche strutturali della
azienda che si sono fin qui esaminate ossia distribuzione territoriale,
settore produttivo e classe dimensionale, per indagare quale sia
l’incidenza dell’evento infortunistico rapportata alle differenti
tipologie di lavoratori impiegati nel settore considerato, in particolare
relativamente al genere, alla modalità di impiego e alla fascia di età
alla quale il lavoratore appartiene. Confrontata con le altre regioni
italiane, l’Emilia-Romagna risulta la prima per il numero di incidenti
denunciati nel settore artigiano occorsi alle lavoratrici e, assieme al
Veneto, è l’unica che presenta una cifra al di sopra di due migliaia
con 2.105 (il Veneto 2.022) e rappresenta ben il 16,8% degli
infortuni considerati rispetto al totale nazionale.
Nel corso degli anni la quantità di donne infortunate nel settore
artigiano è andata diminuendo, e questa tendenza si verifica anche
nella nostra regione dove, facendo un confronto tra i dati del 1999 e
del 2003, si registra una riduzione del 9,3%, con punte di 11 punti
percentuali in meno tra il 2002 e il 2003, quando si passa da 2.370
casi registrati ad, appunto, 2.105 rispetto ad una riduzione a livello
nazionale, tra il 1999 e il 2003 di –6,4% e nel periodo 2002-2003 di
–8,6%.
Tra le province emiliano-romagnole, le riduzioni maggiori (nel
111
periodo 2002-2003) si sono verificate a Piacenza, che già registra il
numero minore di infortuni, con –27% e a Rimini con –22,4%. Per
contro, aumenti anche piuttosto significativi si segnalano nelle sole
province di Forlì (+6,4%) e di Ravenna (+4,2%). La provincia in cui
si riscontrano più infortuni denunciati è Modena seguita da Bologna
e Reggio Emilia che rispettivamente rappresentano il 18,6%, il 18% e
il 14,3% del totale regionale.
A livello nazionale, la maggior parte degli infortuni sul lavoro
riguarda i soggetti, dipendenti e autonomi, compresi nella fascia di
età 18-34 che costituiscono il 45,2% del totale, seguiti da quelli della
fascia 35-49, il 33,7%. Le stesse proporzioni le ritroviamo anche in
Emilia-Romagna dove, su un totale di 19.636 infortuni denunciati,
8.820 (ossia il 45,5%) coinvolgono la fascia 18-34 e 6.465 (il 33,4%)
quella 35-49. In generale i valori degli incidenti sul lavoro sono
estremamente elevati per ogni categoria di età, ma sempre inferiori a
quelli registrati in Lombardia e Veneto, a parte nel caso dei lavoratori
over 64, interessati in Emilia-Romagna più che altrove dal fenomeno,
raggiungendo valori al sopra delle 300 unità (338), non superate
invece nelle altre zone considerate. Per quanto riguarda invece la
distribuzione provinciale, Reggio Emilia registra la più alta quota di
infortuni riguardanti lavoratori al di sotto dei 17 anni, Bologna per
quelli compresi nella fascia 18-34 , 35-49 e over 64 e infine Modena
per quelli con una età compresa tra i 50 e i 64 anni. Inoltre,
considerando la distribuzione degli infortuni per classe di età
relativamente al settore di attività economica, la fascia fino ai 17,
risulta coinvolta soprattutto in infortuni occorsi nella industria
manifatturiera, mentre per le altre è il settore delle costruzioni quello
più a rischio.
Infine, se spostiamo l’attenzione sulla posizione lavorativa, notiamo
che sul totale (19.636) di infortuni sul lavoro occorsi nelle aziende
artigiane della regione, buona parte, il 47,1% pari a 9.129 casi, è
avvenuta tra i lavoratori autonomi il cui numero di incidenti è più
elevato rispetto alla totalità di quelli avvenuti tra i dipendenti,
considerati nella totalità delle classi dimensionali. Se poi i lavoratori
dipendenti risultano particolarmente colpiti nel settore dell’industria
manifatturiera, con 4.346 casi contro i 2.353 degli autonomi,
112
l’incidenza degli infortuni tra questi ultimi appare particolarmente
elevata nell’area edile, dove rappresentano rispettivamente il 54,9% e
il 59,7% del totale dei casi verificatisi.
Il generalizzato calo degli infortuni a livello regionale e più
specificamente in ciascuno degli ambiti sopra analizzati, può essere
interpretato come il risultato dell’opera di tutti gli strumenti giuridici,
strutturali, relazionali e formativi messi in atto a partire dagli anni
’90, progettati per adeguarsi alla caratteristiche specifiche del
comparto artigiano. Tuttavia, nonostante la riduzione trasversale
rilevata nelle diverse province, il fenomeno infortunistico nel
comparto si mantiene ancora su livelli preoccupanti, il che sottolinea
l’esigenza di conservare e consolidare la costante e capillare attività
di controllo e di appoggio fornita dagli attori del Sistema Salute e
Sicurezza affinché tale tendenza positiva non subisca una inversione
in futuro ma, anzi, migliori. Per potenziare ulteriormente tali attività è
necessario intervenire nei diversi ambiti del settore artigiano tenendo
conto delle specificità precedentemente indagate e attivare quindi
interventi che siano mirati ed efficaci.
Il settore industriale e quello della edilizia sono quelli più bisognosi
di intervento, assieme al settore dei trasporti che presenta nuove e
crescenti criticità specifiche che richiedono risposte pensate ed
attuate per esso. L’elevata incidenza degli infortuni nelle aziende di
piccole dimensioni, ossia in quelle realtà dove la valutazione dei rischi
è affidata alla autocertificazione e manca una rappresentanza
sindacale presente ed organica in azienda è efficacemente affrontata
dal Sistema Salute e Sicurezza dell’E.b.e.r. che cerca di porre
rimedio a tali problemi attraverso la figura dell’Rlst e della possibilità
per questo di visionare ed accertare l’autocertificazione in tema di
valutazione dei rischi pur con tutte le difficoltà analizzate
precedentemente.
Per quanto poi attiene alle tipologie dei lavoratori, differenziazioni di
interventi sono necessarie rispetto al genere, all’età e alla posizione
lavorativa. Ad esempio, particolarmente allarmante appare la
situazione delle lavoratrici nel settore artigiano per le quali
l’Emilia-Romagna presenta i valori più elevati d’Italia. Inoltre, risulta
che i lavoratori giovanissimi (sotto i 17 anni) sono soggetti
113
maggiormente ad infortuni nell’industria mentre i più anziani nel
settore delle costruzioni, il che porta a considerare la necessità di
indirizzare interventi formativi, specifici per il settore lavorativo in
cui i soggetti sono inseriti e che siano orientati nel primo caso, alla
formazione di prima istanza, nel secondo, alla educazione e/o
rieducazione dei soggetti alla cultura della prevenzione e della
sicurezza. Sempre attinente alla posizione lavorativa, particolare
attenzione deve essere prestata alla precarizzazione della stessa, che
può mettere in difficoltà le tutele previste dal Sistema Sicurezza
dell’Ente tanto più che si sta trattando di un settore, quello
artigianale, dove ampio è l‘utilizzo di contratti di apprendistato (di
cui è prevista la riforma nella Legge 30/03) e dove è fondamentale la
creazione e conservazione di una professionalità maturata, della
valorizzazione del patrimonio umano nonché di elevati livelli di
partecipazione.
3 Analisi qualitativa
1
Metodologia
Come ricordato nelle pagine introduttive, l’obiettivo del presente
contributo è quello di delineare lo stato dell’arte della salute e della
sicurezza sul lavoro nelle imprese artigiane e nelle piccole imprese
industriali della regione Emilia-Romagna. Per il raggiungimento di
tale scopo sono stati seguiti due percorsi metodologici paralleli e
contemporanei. Da una parte sono stati individuati e intervistati
diversi interlocutori privilegiati , ossia rappresentanti delle
associazioni di categoria datoriali Cna e Confartigianato e di Cgil,
Cisl, Uil a livello regionale, dall’altra sono stati coinvolti
rappresentanti delle associazioni datoriali a livello provinciale e
alcune aziende del settore metalmeccanico.
L’indagine qualitativa prende dunque inizio con la esplicitazione dei
risultati emersi dalle interviste semi-strutturate a rappresentanti delle
parti sociali che per funzione, attuale o passata, mostrano particolare
114
competenza relativamente al tema salute e sicurezza nelle piccole
imprese e soprattutto nelle imprese artigiane. La definizione degli
interlocutori è così avvenuta all’interno delle organizzazioni sindacali
a livello regionale (Cgil, Cisl e Uil) e nell’ambito delle associazioni di
categoria maggiormente rappresentative del comparto specifico, in
termini di iscritti (Cna e Confartigianato, entrambi a livello
regionale). L’intervista ha voluto condurre i diversi attori sociali nella
descrizione delle condizioni di sicurezza nel comparto artigiano e
nelle piccole imprese, mettendo in evidenza gli aspetti di criticità e
gli elementi di positività. In tal modo si è voluto offrire una fotografia
“consapevole” della realtà e individuare alcuni ambiti di intervento su
cui le parti sociali e gli attori istituzionali di controllo possano
sviluppare linee di azione.
Per approfondire l’analisi della gestione della salute e della sicurezza
si è deciso di focalizzare l’indagine su due territori, le province di
Modena e di Forlì-Cesena, nelle quali sono stati intervistati il
responsabile dell’ufficio Ambiente Sicurezza della Lapam
Federimpresa provinciale di Modena e il responsabile Ambiente e
Sicurezza della Cna provinciale di Forlì-Cesena. Ai referenti delle
associazioni a livello provinciale è stato chiesto di approfondire le
tematiche tenendo in considerazione il territorio di riferimento, sulla
base dell’esperienza con le proprie aziende associate. Nel corso di
colloqui con questi ultimi si è convenuto di scegliere il settore
metalmeccanico come settore per lo svolgimento delle interviste alle
aziende, in qualità di settore rappresentativo della realtà produttiva
nei due territori scelti e dell’intero territorio regionale.
Le interviste qualitative somministrate alle aziende ci hanno offerto la
possibilità di approfondire la tematica della salute e della sicurezza e
di avere un riscontro su come questa venga gestita concretamente in
imprese artigiane e piccole imprese regionali. Ai nostri interlocutori è
stato dunque chiesto di descrivere il percorso della propria azienda in
tema di salute e sicurezza: l’adeguamento dell’impresa alla normativa
su salute e sicurezza, la formazione e l’informazione dei dipendenti in
materia, l’eventuale utilizzo di servizi esterni, le difficoltà, anche i
risultati raggiunti.
115
2
Le interviste alle parti sociali
Nei loro interventi, i diversi rappresentanti delle parti sociali, siano
esse organizzazioni sindacali o datoriali, si sono concentrati
principalmente nella analisi del concetto di bilateralità e come questo
abbia rappresentato un punto di svolta nella gestione della salute e
sicurezza. Chiarificatrice degli sviluppi della gestione del sistema
sicurezza nelle imprese artigiane è l’intervista realizzata al
rappresentante della Cgil regionale, il quale suddivide in fasi il
percorso del mondo artigiano e delle piccole imprese in relazione ai
mutati contesti normativi e organizzativi in tema di salute e sicurezza
sul luogo di lavoro. Nella successione delle fasi, il D. Lgs. 626 funge
da discrimine:
- Prima dell’applicazione del D. Lgs. 626 era prevista una figura
non formalmente codificata, ossia il rappresentante di bacino, e
solo nei comparti tradizionalmente più a rischio erano stati
avviati interventi volti al monitoraggio e contenimento degli
agenti di rischio.
- Con l’introduzione del D. Lgs. 626 si è prodotta una profonda
trasformazione di metodo della gestione della salute e sicurezza
nel comparto artigiano, introducendo una proceduralizzazione
delle misure di analisi, valutazione, definizione degli interventi e
verifica dei risultati raggiunti. In adempimento al D. Lgs. 626 e
interpretando le peculiarità organizzative del comparto artigiano,
le parti sociali hanno convenuto sulla nomina di un
rappresentante sindacale territoriale, e non aziendale,
mutualizzando in tal modo i costi di rappresentanza attraverso la
costituzione di un fondo apposito. Tale fase è scomponibile in
due sottofasi: dal 1994 al 1996, ossia il periodo di recepimento
del decreto legislativo, e 1996-1999, ossia il periodo di
operatività bilaterale in risposta alle esigenze normative del D.
Lgs. 626, durante il quale le imprese si sono messe a norma
116
rispetto ai D.P.R. 303/56 e 547/55, con un ritardo quindi di oltre
40 anni.
- Nel periodo 1999-2001 si è assistito all’esaurirsi dell’ondata
positiva iniziale e si è avvertita la crisi del modello disegnato dal
D. Lgs. 626, dovuta prioritariamente ad “una interpretazione di
adempimento e non di fattualità della sicurezza” e ad una
mutata collocazione delle imprese artigiane lungo la catena del
valore. In un generale contesto di deverticalizzazione della
struttura industriale e di un decentramento ed esternalizzazione
produttiva, l’azienda artigiana si è vista “scaricare addosso” i
tempi di lavoro più ridotti, le lavorazioni più rischiose e una
rigida gestione dei costi. Per rilanciare il D. Lgs. 626, si diede
vita, da parte del governo di centro-sinistra, all’iniziativa
denominata Carta 2000 volta a trasferire risorse alle imprese, da
fondi Inail, e ridurre il costo del lavoro. Tale iniziativa non ha
però riscosso il successo sperato, soprattutto nel comparto
artigiano in quanto le imprese temevano i controlli di verifica
della congruità dei progetti presentati.
Le difficoltà principali incontrate nel passaggio tra la prima e la
seconda fase, afferma il rappresentante della Cgil regionale, sono
rappresentate dal superamento di alcune resistenze degli stessi
artigiani e delle associazioni di categoria. Per gli artigiani, abituati ad
“una tradizione orale” ed informale in tema di sicurezza, la
formalizzazione della valutazione dei rischi ha rappresentato una
“rivoluzione copernicana”. Per le associazioni di categoria, la figura
del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale
era vista con molta diffidenza in quanto si pensava potesse servire
come “cavallo di troia” per le organizzazioni sindacali e quindi fosse
strumentale alla rottura degli equilibri stabiliti nel contesto delle
piccole imprese. Per far fronte a tali problematicità la struttura
bilaterale, attraverso la costituzione di un organo di coordinamento
(Cpra), ha focalizzato la propria attività sulla formazione ed
informazione dei datori di lavoro, essendo loro il passaggio obbligato
per introdurre la cultura della sicurezza nelle imprese artigiane, e
sulla realizzazione di una rete di oltre 60 Rlst a livello regionale. Il
117
rappresentante sindacale afferma, inoltre, che lungo la fase del
declino della forza trasformatrice del D. Lgs. 626, le associazioni di
categoria dell’artigianato abbiano assunto delle politiche difensive,
usando, a volte, lo stesso Cpra come strategia per negoziare un
adattamento della norma (ad es. la direttiva agenti chimici) alla
esigenza di semplificazione applicativa. Sembra quindi che il
prevalere della formalità sulla fattualità abbia avuto ricadute sulla
stessa natura del Cpra, intesa più come garante di un adempimento
formale-burocratico che come facilitatore della diffusione della
cultura della sicurezza.
Le parole del rappresentante della Cgil regionale pongono comunque
la bilateralità al centro delle strategie future: l’approccio bilaterale
“va mantenuto”, sono gli strumenti a dover essere diversamente
tarati per rispondere ad una struttura produttiva in continua
trasformazione. Al momento è indispensabile procedere ad una
verifica dello stato dell’arte per comprendere il punto a cui si è
arrivati in termini di salute e sicurezza, ripercorrendo il ciclo iniziato
con le analisi di contesto del 1968, e ripartire dai settori più a rischio
(ad es. nell’artigianato la carpenteria pesante o la gomma plastica). È
importante, osserva il rappresentante della Cgil regionale, che
l’identificazione dei settori a rischio deve effettuarsi non solo sulla
base di criteri statistici ma anche conoscitivi e percettivi.
Sempre tenendo come riferimento il percorso di attuazione del D.
Lgs. 626, secondo il rappresentante della Uil regionale, è possibile
individuare due fasi, o “generazioni” come egli stesso definisce. Nel
corso della prima si è provveduto alla definizione di un sistema di
gestione della sicurezza. L’obiettivo della seconda “generazione”,
tuttora in atto, è quello di “alzare il livello di efficienza e di
diminuire la burocrazia. L’efficienza vuol dire partecipazione
condivisa e consapevole”. Per semplificazione burocratica e
procedurale si intende un sistema normativo composto da “poche
regole semplici e comprensibili per tutti”. Perché entrambi gli
obiettivi si realizzino è necessario investire sulla formazione dei
lavoratori, elemento su cui si è spinto con poca continuità negli ultimi
anni e prevalentemente in modo informale: “la formazione è come la
pioggia, se arriva come un temporale estivo è dannosa, se è più
118
continua e misurata allora riesce a entrare nel corpo sociale”.
Maggior sforzo dovrebbe essere volto verso una formazione meno
dispersiva e più mirata alle diverse esigenze di settore e di territorio.
La formazione, afferma infatti il rappresentante della Uil regionale,
diviene alquanto complicata e frammentata in un ambito lavorativo
flessibile o irregolare, dove la discontinuità lavorativa impedisce una
reale accumulazione di saperi.
Oltre ad esprimere la propria visione sistemica rispetto alla
evoluzione del D. Lgs. 626, il rappresentante della Uil regionale ne
individua i limiti in relazione alla concreta applicazione. Il D. Lgs.
626, essendo modellato sul pre-esistente aspetto socio-economico,
non riesce a rispondere con tempestività e piena aderenza alle
domande di sicurezza attuali. Inoltre, se il D. Lgs. 626 impone, da un
lato, una gestione regolata tra “le 4 mura aziendali” , dall’altro,
risulta alquanto inefficace nel normare una dimensione lavorativa
estranea al più tradizionale posto di lavoro. Non è infatti un caso che
oltre il 50% degli incidenti mortali occorsi in Emilia-Romagna siano
avvenuti su strada, o in itinere (casa-lavoro) o nel regolare
espletamento delle proprie mansioni. Il settore dei trasporti ha visto,
negli anni, crescere rapidamente il numero di imprese a fronte di una
progressiva deverticalizzazione e terziarizzazione della produzione.
Molte di queste imprese, proprio per garantire la maggior flessibilità,
sono piccole imprese, anche a carattere artigianale, che per rimanere
competitive si muovono secondo una logica di subappalto al massimo
ribasso, causando “una catena di effetti perversi” sulla sicurezza dei
lavoratori.
Concordemente a quanto espresso dal rappresentante Uil, il
rappresentante della Cisl regionale sostiene che si sia diffuso “un
concetto sbagliato di miglioramento di rete viaria”: ad un aumento
quantitativo di strade non corrisponde un deflusso del traffico ma,
diversamente da quanto si crede, un suo incremento. Altro fattore
che incide notevolmente, sempre secondo il rappresentante della Cisl
regionale, sull’aumento degli incidenti stradali è lo stress psico-fisico,
dovuto tra l’altro ad una accelerazione dei ritmi di lavoro, ad una
riduzione del sistema di protezioni e ad un contesto in cui spesso il
lavoro autonomo nasconde un rapporto di subordinazione
119
economica. È il caso dei “padroncini” che nel corso di un anno
emettono 12 fatture per lo stesso committente.
Il punto di vista di vista del rappresentante della Confartigianato, in
merito all’applicazione del D. Lgs. 626, appare piuttosto critico. Si
dice infatti consapevole che una regolazione della gestione del
sistema salute e sicurezza in azienda sia necessario ma non ritiene gli
strumenti legislativi vigenti adeguati alle esigenze reali. In un
contesto di piccole imprese, inoltre, le spese in procedure
burocratiche volte all’adempimento dei termini di legge risultano
eccessive per un sistema dotato di capitali minimi. Per di più, sempre
secondo il rappresentante della Confartigianato regionale, la piccola
impresa è, per sua stessa natura, più portata al rispetto della salute e
sicurezza in quanto spesso i titolari partecipano attivamente alle fasi
produttive, esponendosi quindi ai rischi in prima persona.
Della stessa opinione appare la posizione del rappresentante della
Cna regionale che critica la complessa burocratizzazione e
l’eccessivo ricorso a misurazioni dei rischi presenti nelle normative in
materia, a cui vorrebbe si sostituisse il concetto di buone prassi
costruite “su una gamma di casi su cui tutti si conviene che il rischio
si manifesti in modo elevato”. Secondo il medesimo interlocutore, le
resistenze maggiori sono state mostrate più dalle Aziende Usl che
dalle organizzazioni sindacali, per timore di una consequenziale
riduzione dei controlli.
Relativamente all’introduzione del concetto di bilateralità, il
rappresentante della Uil regionale afferma di aver assistito ad una
evoluzione da un sistema in cui le parti sociali recepivano con
disinteressato distacco le problematiche degli altri ad un sistema
coeso, in cui si è sviluppata una comune responsabilizzazione dei
ruoli: “il governo della bilateralità ha permesso ad entrambi [parte
datoriale e sindacale] di farsi interprete delle esigenze dell’altro”. La
trasformazione implicita nella bilateralità che il rappresentante della
Uil preme sottolineare è il passaggio da un atteggiamento formale
rispetto alla sicurezza ad un atteggiamento fattuale inserito in una
logica preventiva e di continuità. Anche il rappresentate della
Confartigianato regionale esprime un giudizio positivo rispetto al
funzionamento dell’E.b.e.r. e dello strumento della bilateralità,
120
soprattutto per quanto riguarda la funzione di integrazione al reddito
dei lavoratori per sospensione dal lavoro, ma reputa tale ruolo ormai
esaurito. Per quanto attiene al Fondo sostegno al reddito, infatti, si
parla di un prosciugamento in seguito alle continue crisi aziendali, nel
tessile (Carpi), calzaturificio (Forlì) e nel metalmeccanico, e di un
superamento del funzionamento attuale dell’E.b.e.r., cercando di
individuare nuove soluzioni possibili e sostenibili. La bilateralità non
ha solo prodotto effetti positivi sulla gestione della salute e sicurezza
o nel sostegno al reddito ai lavoratori, ma, come si intuisce dalle
parole del rappresentante della Cisl regionale, ha favorito una
maggior tutela del lavoro, mantenendo il comparto artigiano estraneo
ad un utilizzo diffuso del lavoro atipico e avviando iniziative di
supporto a casi critici, quali il reinserimento di lavoratrici over 45 di
aziende in crisi. Il concetto di bilateralità è difeso strenuamente anche
dal rappresentante della Cna regionale in quanto è l’unico strumento
che permette “di coniugare la moltitudine del settore di piccole
imprese con l’attenzione e adozione di soluzioni praticabili” ed
inoltre “solo la bilateralità può creare quel clima a livello di massa
in questa materia [salute e sicurezza] che può portare tutti i soggetti
a farsi carico della situazione ed affrontarla”. Solo attraverso un
approccio bilaterale si è riusciti a sviluppare idee ed iniziative
originali per la riduzione, fattualmente realizzata, degli infortuni sul
luogo di lavoro. All’ipotesi di un superamento dello strumento
bilaterale, il rappresentante della Cna regionale mostra qualche
dubbiosità in quanto il ritornare a percorsi individuali porterebbe ad
“una schizofrenia di sistema” e romperebbe l’equilibrio di sintesi, da
cui ha poi preso avvio una trasformazione culturale rispetto al tema
della sicurezza. Sulla base di alcune ricerche condotte direttamente
dalle associazioni di categoria, risulta infatti, secondo il
rappresentante della Cna regionale, che le temute ostilità iniziali tra
Rlst e imprese artigiane non abbiano avuto forma, se non nelle fasi
iniziali. Mutuando direttamente dalle parole del rappresentante della
Cna regionale, sembra che “l’impresa si sia abituata a vedere la
sicurezza non come un onere ma come una questione seria da
affrontare per far sì che la propria impresa produca al meglio in
condizioni adeguate”. Ad oggi, il reale problema della bilateralità è il
121
supporto finanziario soprattutto per quel che riguarda il Fondo
sostegno al reddito prosciugato, come già ricordato, dalle numerose
crisi aziendali che hanno caratterizzato il contesto artigiano negli
ultimi anni. Relativamente alla sostenibilità del sistema e sicurezza
promosso dall’E.b.e.r., il rappresentante della Cna regionale si dice
preoccupato non tanto della dimensione finanziaria, essendo previsto
un finanziamento specifico e separato dal Fondo sostegno al reddito,
quanto di quella organizzativa, essendo l’attenzione delle parti sociali
spostatasi, in un contesto di ristrutturazione, più verso le politiche
industriali che verso la sicurezza dei lavoratori.
Rimanendo nell’ambito del funzionamento della bilateralità, con
particolare riferimento alla gestione della salute e sicurezza, gli
interlocutori hanno espresso anche le proprie considerazioni rispetto
al ruolo dei rappresentati dei lavoratori alla sicurezza (Rls e Rlst). Il
rappresentante della Cisl regionale, sulla base di una ricerca condotta
in passato, afferma che vi sia una correlazione positiva tra presenza
dell’Rls e contenimento dell’andamento infortunistico. Nonostante
l’emergere di tale correlazione statisticamente significativa, una
successiva indagine qualitativa ha mostrato come spesso, soprattutto
all’interno delle piccole imprese artigiane a conduzione familiare,
l’Rls venisse eletto tra gli stessi membri della famiglia, vanificando,
quindi, la logica partecipativa implicita nel sistema di gestione
introdotto dal D. Lgs.626. C’è quindi stata una interpretazione
puramente formale della normativa. La figura dell’Rlst è comunque
stata assimilata dal contesto artigiano, tant’è che sono, a volte, le
stesse aziende a richiedere l’intervento dell’Rlst, in qualità di
facilitatore della cultura della sicurezza. Altro elemento, che il
rappresentante della Cisl nazionale pone in evidenza, è l’accezione
associativa datoriale che le imprese attribuiscono agli Rlst; tale
accezione è però il risultato di un errato atteggiamento dell’E.b.e.r. in
quanto nelle visite aziendali gli Rlst sono spesso accompagnati dai
rappresentati provinciali dell’Opta che rivestono spesso mansioni
simili per la associazione di categoria, non evidenziando quindi, agli
occhi delle imprese, una discontinuità operativa. Questo consente ad
alimentare un rapporto di fiducia e reciprocità tra la figura del
rappresentante dei lavoratori e i titolari d’azienda: “non abbiamo casi
122
di situazioni territoriali in cui sia diffusa la diffidenza rispetto ai
rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”. Per ovviare ad una
percezione distorta di rappresentanza, alcuni Rlst hanno proposto di
promuovere iniziative che diano visibilità all’E.b.e.r. in quanto tale: si
sta infatti analizzando la possibilità di dotare gli Rlst di un tesserino e
di un logo E.b.e.r. che certifichi la loro connotazione bilaterale (tale
iniziativa ha già avuto una concretizzazione in alcuni territori). Nella
sua descrizione del funzionamento degli Rlst, il rappresentante della
Cisl regionale, trovando poi conferma nell’intervento del
rappresentante della Cgil regionale, pone l’accento sulla scarsa
agibilità di cui godono tali figure e sulla necessità, per le stesse
imprese e per le aziende Usl territoriali, di avere dei referenti precisi.
È proprio secondo questa logica di “riconoscibilità” che sarebbe più
funzionale una ripartizione degli Rlst per aree territoriali. In alcune
province, invece, si è preferito ricorrere ad una assegnazione
nominale, “ossia una volta che un Rlst fa una visita ad una azienda
se la imputa” e questa rimane, per tutta la durata del mandato, di sua
competenza. In una logica di prosecuzione tematica, il rappresentante
della Cna regionale individua nella mutualizzazione dei costi della
rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza un tratto distintivo
della struttura bilaterale per il comparto artigiano. In un contesto di
piccole imprese sarebbe stato impensabile l’imposizione di un obbligo
di nomina di una persona interna al perimetro aziendale che si
occupasse esclusivamente di gestione della sicurezza. Le parti sociali
hanno quindi optato per una rappresentanza esterna (Rlst) e per un
rafforzamento del rapporto di fiducia e di reciprocità tra quest’ultima
e l’impresa. A tal proposito, il rappresentante della Cna regionale
ritiene che l’eccessivo turn over, o rotazione degli Rlst, non giochi a
favore di un consolidamento fiduciario con le imprese ma, anzi,
contribuisca a sgretolarlo. Prima della scadenza del mandato di due
anni è infatti possibile, come conferma il rappresentante della Cisl
regionale, che l’Rlst venga cambiato in funzione di dinamiche
intercategoriali sindacali. Oltretutto il ruolo dell’Rlst non gode di una
esclusività funzionale, ossia, come aggiunge il rappresentante della
Cgil regionale, chi è nominato Rlst non svolge “esclusivamente”
quell’incarico ma è costretto a dividere tale attività con altri incarichi
123
di natura sindacale.
Dalla intervista al rappresentante della Confartigianato, si delinea una
nitida fotografia di quelli che, direttamente o indirettamente, sono i
servizi formativi forniti dalla Associazione datoriale di appartenenza:
la società di formazione operativa a livello regionale con sede a
Bologna, la società di servizi alle imprese Pas (Progetto ambiente
sicuro), con sede a Modena. Relativamente alla formazione, il
rappresentante della Confartigianato regionale offre, inoltre, una
analisi che va oltre la formazione professionale ed aziendale ed
intercetta quelli che sono i reali fabbisogni formativi della realtà
sociale ed economica, con particolare attenzione alla realtà del
secondario, dell’Emilia-Romagna. Si critica, infatti, un numero
eccessivo di laureati in materie umanistiche e un numero insufficiente
in ingegneria, per esempio. Nonostante le stesse istituzioni siano a
conoscenza di queste carenze formative, le risposte non appaiono
efficaci. A tal proposito è emblematico come né Modena né Bologna,
dove il metalmeccanico gioca un ruolo importante, abbiano
costituito una facoltà universitaria per lo studio dei metalli,
attualmente presente solo a Milano. La situazione delle scelte
universitarie riflette, secondo il rappresentante della Confartigianato
regionale, una dimensione sociale in cui le materie
tecnico-scientifiche hanno subito uno svilimento ed un declassamento
rispetto al passato. Per il rilancio della meccanica è quindi necessario
restituire valore alle discipline tecnico-scientifiche e promuovere un
nuovo spirito imprenditoriale. A tal proposito esiste, a suo parere,
una prospettiva positiva, attualmente in corso, legata alla ricerca di
una maggior qualificazione dei presidenti provinciali di categoria che
cominciano ad essere non solo imprenditori ma anche persone con
una sviluppata cultura di valore tecnico-industriale. In tema di
formazione, il rappresentante della Cisl regionale ritiene che si debba
provvedere con maggior continuità alla formazione degli Rlst, non
solo al momento del rinnovo del mandato, ma organizzare anche
corsi di specializzazione, in corso di mandato, che permettano lo
sviluppo di un sapere trasversale incentrato sulla cultura della
prevenzione. È infatti importante, sostiene il rappresentante della Cisl
regionale, che l’Rlst, o Rls, non assuma esclusivamente un ruolo
124
tecnico per evitare la confusione tra “rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza e responsabile dei lavoratori per la sicurezza”.
Della stessa opinione è il rappresentante della Cgil regionale che
considera l’attività principale dell’Rlst quella di “impegnare le
associazioni a diffondere e distribuire” la cultura della prevenzione.
La formazione, aggiunge inoltre, non dovrebbe essere destinata solo
agli oltre 60 Rlst ma a tutti i lavoratori in una forma continuativa
poiché solo con una “modalità consecutiva” si arricchisce
“l’accumulazione conoscitiva”, soprattutto in un contesto di salute e
sicurezza.
La interazione raggiunta nella realizzazione delle pubblicazione dei
materiali informativi, come vedremo successivamente, si manifesta,
secondo il rappresentante della Cna nazionale, anche nella definizione
dei percorsi formativi. In alcune realtà territoriali, come Imola e
Reggio, l’E.b.e.r. e le aziende Usl hanno sviluppato condivisi percorsi
formativi per i lavoratori e si vorrebbe che tale approccio si
estendesse anche al livello regionale. In tal modo si avrebbe la
certezza di una congruità dei contenuti formativi rispetto al sistema
azienda e alla intelaiatura normativa. Come reazione ad un rapido
aumento di imprenditori stranieri iscritti, la Cna fornisce “diversi
strumenti per l’avvio di impresa, per aiutarli nello svolgimento di
tutte le pratiche necessarie …e naturalmente” nel pacchetto
formativo-informativo rientra anche il tema salute e sicurezza.
Anche rispetto alla interazione con i funzionari degli enti deputati al
controllo e al monitoraggio della salute e sicurezza nel luogo di
lavoro, il rappresentante della Uil regionale vede una trasformazione
in atto. Un tempo, tali funzionari erano più inclini ad una rigida e
burocratica osservazione dei regolamenti vigenti in materia, non
ponendo alcune distinzione per dimensione aziendale o settore di
appartenenza. Ad oggi, grazie all’intervento dei funzionari delle Ausl
e dell’Assessorato alla sanità e all’implementazione del modello
bilaterale si è impostato un approccio non più ispettivo ma
preventivo, in cui il dialogo e la corretta comunicazione giocano un
ruolo di primo piano. Diversamente, il rappresentante della
Confartigianato regionale non considera vi sia stata una radicale
trasformazione dell’approccio degli addetti al controllo sicurezza.
125
Molto spesso essi assumono un atteggiamento ispettivo e repressivo
quando invece sarebbe più opportuno mantenere un rapporto
incentrato sul dialogo e sullo scambio costruttivo con i datori di
lavoro. Il funzionario dell’ente di controllo dovrebbe, in sostanza,
trasmettere le proprie conoscenze all’imprenditore e interagire con
quest’ultimo, anche in un’ottica dei costi. Si ritiene infatti che alcuni
strumenti, come ad esempio quelli per la misurazione dell’acidità
dell’olio, debbano essere acquistati e utilizzati dagli enti di controllo
e non dalle singole aziende.
Per quanto riguarda l’andamento infortunistico nel comparto
artigiano e nelle piccole imprese, il rappresentante della Uil regionale
ha percezione di un contenimento del numero assoluto, in generale,
pur in presenza di alcuni dinamiche in controtendenza. Tra queste
emerge con decisione, oltre al settore dei trasporti, anche il settore
delle costruzioni caratterizzato negli ultimi anni da una crescita nel
numero assoluto di imprese “deboli”, ossia formate da poche unità
lavorative e molto spesso sotto-capitalizzate. La polverizzazione del
lavoro nel settore delle costruzioni, unitamente ad intrecciate pratiche
del subappalto, rende alquanto difficoltosa l’attività sindacale e
soprattutto un effettivo controllo e monitoraggio della sicurezza sul
luogo di lavoro. Pur concordando con l’aumento del fenomeno
infortunistico nel settore dei trasporti e dell’edilizia, il rappresentante
della Confartigianato individua due territori a rischio: il territorio
reggiano in cui generalmente si svolgono lavorazioni pesanti e a
Ravenna a causa del lavoro nell’area portuale. Altro aspetto su cui gli
interlocutori soffermano la loro attenzione è il fenomeno
dell’incremento della occupazione straniera a cui segue il sorgere di
nuove problematiche inerenti anche alla gestione della salute e
sicurezza, quali la diversità linguistica. A crescere, conferma il
rappresentante della Cna regionale, non è solo la componente
lavorativa straniera ma anche la componente imprenditoriale (anche
se in un contesto artigiano la distinzione è più formale che
sostanziale): secondo recenti censimenti sarebbero all’incirca 5.000
gli imprenditori iscritti alla Cna. A questa nuova esigenza, l’E.b.e.r.,
sostiene il rappresentante della Cisl regionale, ha già provveduto e
continua a provvedere con la pubblicazione di materiale informativo
126
in lingue diverse, tarando la scelta della lingua alle specifiche
caratteristiche demografiche di un dato territorio o settore
merceologico. In generale tutti esprimono parere favorevole rispetto
alla utilità e alla fruibilità delle pubblicazioni E.b.e.r. in tema di salute
e sicurezza, dimostrando, come sottolinea il rappresentante della Cisl
nazionale, che “la cultura della deterrenza basata sulla crescita
della parti congiunte è meglio dell’ispezione e della sanzione”. Per
la realizzazione della documentazione del materiale informativo e di
diversi strumenti di lavoro, come si rileva dall’intervista al
rappresentante della Cna regionale, il Cpra ha beneficiato dello
stretto rapporto sinergico con Aziende Usl e l’Assessorato alla Sanità
della regione Emilia-Romagna. In tal modo entrambe le parti hanno
potuto trarne vantaggio. Da un lato il Cpra ha ottenuto una sorta di
certificazione di qualità dei materiali prodotti e, dall’altro lato,
l’Assessorato alla Sanità e le Aziende Usl hanno potuto “prendere
contatto con una realtà imprenditoriale che immaginavano diversa,
la piccola impresa”. Sempre dal punto di vista infortunistico, il
rappresentante della Cgil regionale ammette una diminuzione degli
indici, dovute principalmente al metodo partecipativo e
all’introduzione, in seguito alla direttiva macchine, di strumentazioni
più moderne e sicure.
La figura del consulente trova una convergenza di opinioni tra gli
attori interpellati. Tutti infatti attribuiscono al consulente un ruolo
significativo nella gestione della sicurezza, a meno che non guidi
l’azienda verso una progressiva sottrazione di responsabilità rispetto
agli obblighi di legge sulla sicurezza o verso una chiusura dei canali
comunicativi con le parti sociali ed enti di controllo. Il rappresentante
della Cisl regionale riporta, a tal proposito, la propria esperienza di
controllo dei primi documenti di valutazione in cui non era insolito
trovare molti copie uguali con il medesimo modulo grafico e
intestazione del consulente. È inoltre opinione condivisa che il ruolo
del consulente dovrebbe essere ricoperto da persone qualificate, per
impedire il proliferare di professionalità scarsamente competenti. Il
rappresentante della Cna, infatti, vorrebbe che ci fossero dei percorsi
definiti per il riconoscimento della professionalità dei consulenti e tale
richiesta è già stata posta all’attenzione dell’Assessorato alla sanità
127
della Emilia-Romagna.
3
Le interviste nei territori di Modena e Forlì-Cesena
Descrizione del campione
Come già anticipato nella parte metodologica, nei due territori scelti
per l’approfondimento sulla gestione della salute e della sicurezza
sono stati intervistati un rappresentante della associazione Cna
provinciale di Forlì-Cesena e un rappresentante della Lapam
Federimpresa provinciale di Modena. Grazie al contributo dei due
rappresentanti territoriali è stato possibile procedere con la
somministrazione di interviste semi-strutturate ai titolari di sette
aziende. Nello specifico, in Provincia di Forlì-Cesena sono state
intervistate quattro aziende di cui tre sono piccole imprese nate come
imprese artigiane e che ora contano una media di 35 lavoratori,
comprendendo in questo numero anche i titolari e soci direttamente
occupati nella produzione, mentre la quarta azienda intervistata è
un’impresa artigiana che conta tre titolari e tre dipendenti. Le attività
prevalenti di queste imprese consistono nella lavorazione della
lamiera (in tre casi) e nella fabbricazione di meccanismi per divani
letto (un caso). Per ciò che concerne la provincia di Modena, sono
state intervistate tre aziende artigiane che contano una media di 14
lavoratori; anche in questo caso nel conteggio vengono considerati i
soci e i titolari, occupati anch’essi nella produzione. In questo caso le
attività prevalenti consistono rispettivamente nella meccanica di
precisione, nelle lavorazioni in ferro e nella costruzione di molle per
diversi tipi di settori. L’occupazione nelle imprese intervistate è
prevalentemente maschile; la quota di donne occupate è piuttosto
bassa e in genere si ripartisce fra i ruoli di impiegate e di titolari e
socie. Poche le donne occupate direttamente in produzione, mentre in
questo reparto si assiste ad un aumento della presenza di lavoratori
extracomunitari.
In generale il mercato locale riveste una notevole rilevanza per le
aziende intervistate. La maggioranza delle vendite è destinata infatti a
128
clienti della stessa regione Emilia-Romagna, ad eccezione di una delle
aziende intervistate nel territorio di Forlì-Cesena, che lavora per circa
il 50% con clienti esteri. Il lavoro con l’estero sarebbe interessante
anche per una delle imprese artigiane del territorio modenese ma allo
stato attuale la gestione degli scambi con l’estero (ossia l’assunzione
di una persona ad hoc per svolgere tale mansione) peserebbe
notevolmente sul bilancio economico ed organizzativo dell’impresa.
In riferimento alla possibilità, per una piccola impresa artigiana, di
lavorare con l’estero, il nostro interlocutore lamenta una mancanza
da parte dell’associazione di categoria nel ruolo di mediatrice fra
l’impresa associata e i possibili clienti esteri. Il titolare aziendale
riferisce difatti di aver più volte suggerito la creazione di una sorta di
“ufficio centrale” dell’associazione che aiuti le piccole imprese ad
intraprendere i primi contatti con le imprese estere. Questo “ufficio
centrale” non dovrebbe tuttavia esistere solo a livello regionale ma
articolarsi in sedi operative a livello provinciale in modo da
rispondere con prontezza alle esigenze delle proprie associate.
L’associazione Lapam Confartigianato in realtà ha iniziato a lavorare
in questa direzione e già alcuni mesi prima dell’intervista si era resa
promotrice di un incontro tra imprese metalmeccaniche della
provincia di Modena e imprese russe; eppure il titolare aziendale che
ci riferisce di questo incontro lamenta una scarsa convinzione, da
parte dell’associazione, di proseguire in tale direzione poiché, ad
esempio, non ha pubblicizzato abbastanza tale evento né altri simili
che dovrebbero aver luogo in settembre.
Le risultanze
Una volta descritto il campione degli intervistati, il focus
dell’indagine si sposta sull’approfondimento degli aspetti legati alla
gestione della salute e della sicurezza nelle imprese. Dalle interviste
emerge che tale gestione nelle aziende ha subito un notevole
cambiamento con l’introduzione del D. Lgs. 626/94. Secondo il
referente della Lapam Federimpresa provinciale di Modena l’impatto
della nuova normativa è stato molto duro sulle piccole imprese e sulle
imprese artigiane che hanno dovuto certificare “nero su bianco” la
messa a norma delle strutture, l’adeguamento degli impianti e degli
129
utensili, i corsi di formazione in tema di salute e sicurezza, ecc.
Inizialmente, dunque, la preoccupazione principale dell’associazione
è stata quella di aiutare e supportare le imprese al mero adeguamento
formale alle prescrizioni normative, al fine di evitare sanzioni da parte
degli organismi di controllo. Dalle testimonianze delle imprese
intervistate nei due territori emerge che i cambiamenti connessi alla
normativa su salute e sicurezza sono stati notevoli ed onerosi: essi
hanno riguardato, ad esempio, la messa a norma dei macchinari e in
alcuni casi una successiva sostituzione, l’introduzione di impianti di
traspirazione, l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Il
titolare di un’azienda modenese ci riferisce inoltre che negli anni
1995-1996 la spesa connessa a tali adeguamenti sia stata intorno ai
100 milioni di lire e ricorda che a questa cifra iniziale occorre
aggiungere i costi connessi alla revisione e al controllo periodico dei
macchinari. Gli intervistati ricordano altresì che alle spese di
adeguamento alla normativa occorre aggiungere anche i costi dei
servizi esterni, ossia delle diverse figure di cui spesso le piccole
imprese e le imprese artigiane si avvalgono per via della mancanza di
tempo da dedicare alla gestione della salute e della sicurezza, del suo
continuo aggiornamento. Una delle aziende intervistate nel territorio
modenese ad esempio, racconta di essersi avvalsa inizialmente di un
consulente e di un ingegnere e, insieme alle altre imprese intervistate,
racconta di usufruire di diversi servizi offerti dalle associazioni di
categoria.
Solo in un secondo momento, dopo questa prima fase di
adeguamento formale, l’associazione Lapam Federimpresa ha potuto
intervenire sulla sensibilizzazione delle imprese in merito al vero
spirito del decreto legislativo e sulla rilevanza della prevenzione.
Nonostante i costi, difatti, i titolari aziendali intervistati riconoscono
la necessità della normativa in questione al fine di avere riscontri in
termini di riduzione degli infortuni. Le visite mediche a cui i
lavoratori si sottopongono periodicamente (ad esempio controlli
audiometrici) hanno sempre attestato delle buone condizioni fisiche e
gli stessi referenti aziendali sembrano concordare nel ritenere
migliorate le condizioni di lavoro. Uno dei titolari intervistati sostiene
che nel corso del 2004, ad esempio, si sono verificati “solo” tre
130
infortuni e si è trattato di tagli molto superficiali, mentre nel 2005
non si è verificato nessun incidente. L’andamento positivo in termini
di assenza di infortuni, viene riscontrato anche all’interno di un’altra
azienda che ha cambiato stabile nel 2000, rinnovando così numerosi
macchinari, seppure non esclusivamente per ragioni di adeguamento
alla normativa su salute e sicurezza. In questo caso l’intervistata
racconta che è proprio dal 2001 che in azienda non si verificano più
incidenti e che l’ultimo incidente aveva comportato 10 giorni di
infortunio. La tutela della salute e della sicurezza ha rappresentato da
sempre una prerogativa dell’impresa intervistata, tanto che neanche
in passato si sono mai verificati incidenti particolarmente gravi: “il
più grave ha riguardato un pezzo di ferro caduto sul piede di un
lavoratore”.
Anche per il referente della Cna provinciale di Forlì-Cesena
l’introduzione del decreto 626 ha rappresentato uno spartiacque nelle
modalità di gestione della salute e della sicurezza. Dalla sua entrata in
vigore nel comparto metalmeccanico e non solo, si è assistito ad un
generale miglioramento delle condizioni di lavoro. Tale
miglioramento è stato il risultato sia dell’ammodernamento delle
stesse aziende sia del naturale aggiornamento del parco macchine,
sia, nei casi dei settori più specializzati, del ricorso a macchine
automatiche o semiautomatiche. A conferma di tale riguardo nei
confronti dei macchinari utilizzati, una delle aziende forlivesi sostiene
di sostituire i macchinari circa ogni nove anni e porta ad esempio il
recente acquisto di un impianto laser per la lavorazione della lamiera.
Le migliori condizioni di lavoro hanno portato, secondo i referenti
aziendali intervistati, ad una diminuzione della gravità degli infortuni,
anche se i numeri e la natura degli infortuni restano a nostro avviso
importanti. Per ciò che concerne le tre aziende specializzate nella
lavorazione della lamiera, una delle imprese ha denunciato, nel corso
dell’ultimo anno, due infortuni in itinere, un infortunio per
schiacciamento, un taglio, un infortunio per una scheggia in un
occhio; mentre l’infortunio più grave occorso negli ultimi anni ha
riguardato la perdita dell’anulare e della falange da parte di uno dei
titolari dell’azienda. Il taglio e lo scivolamento della lamiera
(schiacciamento) sono stati tra gli infortuni più comuni dell’ultimo
131
anno anche per la seconda delle aziende specializzate nella
lavorazione della lamiera. L’impresa ha contato 10 infortuni nel corso
del 2004 e 3 nei primi sette mesi del 2005. L’ultima fra queste tre
aziende fa infine riscontrare una migliore situazione, in quanto
ricorda che l’ultimo infortunio si era verificato quindici anni addietro
ed aveva visto un ragazzo schiacciarsi un dito con un macchinario.
L’azienda che produce meccanismi per divani letto denuncia una
media di 5 infortuni ogni anno, escludendo in tal numero gli infortuni
in itinere che l’intervistato non sa quantificare. L’intervistato
racconta altresì che recentemente una dipendente si è schiacciata un
dito con un macchinario ed ha avuto 15 giorni di infortuni.
Nonostante la persistenza degli infortuni, la salute e la sicurezza sono
considerate elementi imprescindibili per l’intervistato che riconosce
un netto miglioramento delle condizioni di lavoro rispetto al passato,
anche grazie all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale.
Racconta difatti che, grazie ai numerosi cambiamenti ed investimenti,
ora non si verificano più infortuni come quelli che accadevano
qualche decennio fa quando, ad esempio, un ragazzo aveva perso due
dita.
Nessuna delle imprese intervistate dispone di un budget predefinito
annualmente per gli investimenti da realizzare in materia di salute e
sicurezza sul lavoro. Poiché i titolari sono impegnati direttamente nel
reparto produzione, dichiarano di riuscire a monitorare prontamente
la situazione in azienda e di decidere sulla necessità di interventi. Il
rapporto confidenziale tra i lavoratori e i datori di lavoro e la
consapevolezza della necessità di lavorare in sicurezza da entrambe le
parti porta a decisioni congiunte ed immediate, senza dovere
attendere la convocazione di riunioni annuali organizzate con i
responsabili dei lavoratori per la sicurezza presenti in molte delle
aziende intervistate.
Le interviste nei due territori testimoniano dunque un reale impegno
profuso dalle imprese sia in termini economici che di comprensione
della rilevanza della prevenzione in materia. Per tali ragioni la totalità
degli intervistati richiede incentivi economici e di facile fruizione, non
presenti al momento. Pochi degli intervistati hanno ricevuto aiuti
finanziari in questi anni (solo uno degli intervistati ad esempio ha
132
usufruito del fondo Inail) mentre più aziende hanno usufruito di
finanziamenti agevolati. Molti degli intervistati non sono a
conoscenza dell’ente bilaterale per l’artigianato e dei suoi servizi a
sostegno delle imprese; inoltre, per ciò che concerne alcune delle
aziende che dichiarano di pagare la quota associativa all’E.b.e.r.,
queste si limitano a riferire di ricevere “qualche pubblicazione”,
senza però riuscire a specificarne l’argomento trattato, e in ogni caso
non sono a conoscenza degli altri servizi offerti.
Pur riconoscendo la rilevanza della normativa su salute e sicurezza,
un referente aziendale intervistato a Forlì ipotizza tuttavia uno scarso
coordinamento fra coloro che progettano i nuovi macchinari e i
lavoratori che dovranno utilizzarli, denunciando “una scarsa
interazione tra teoria e pratica”: spesso i dispositivi di protezione
individuale rallentano la produzione e soprattutto i lavoratori più
anziani lamentano la mancanza di praticità nell’utilizzarli. Tutti i
referenti aziendali intervistati ritengono inoltre che la maggioranza
degli infortuni occorsi negli ultimi anni siano imputabili alla mera
distrazione e al non corretto utilizzo dei dispositivi di protezione
individuale da parte dei lavoratori. Concorda con le aziende
intervistate anche il responsabile Ambiente e Sicurezza della Cna di
Forlì-Cesena secondo il quale molti degli infortuni che si continuano
a verificare “sono dovuti prevalentemente a disattenzioni, procedure
di lavoro sbagliate, non osservanza delle disposizioni relative
all’obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (Dpi),
piuttosto che a mancati adeguamenti dei datori di lavoro”. A tal
proposito mette in evidenza che la mancanza di una cultura della
sicurezza sul lavoro è anche il frutto della scarsa sensibilità verso
questo tema nel nostro Paese nel quale, a differenza di altri Stati, la
sicurezza sul lavoro non viene trattata nelle scuole. Emerge con
chiarezza l’esigenza di intraprendere queste attività già a livello
scolastico in modo da favorire il cambiamento culturale necessario
per affrontare il tema della salute e della sicurezza.
Tali considerazioni portano il referente della Cna provinciale di
Forlì-Cesena a ritenere ancora lontano il raggiungimento del vero
spirito alla base del decreto 626, pur riconoscendo ed insistendo nel
sottolineare l’effettivo rispetto della normativa e miglioramento delle
133
condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Ciò che manca
ancora è una visione del decreto 626 come concreto mezzo per
raggiungere un alto livello di sicurezza in azienda, un livello che
sottintenda una specifica e dinamica organizzazione interna, con un
più diretto e constante coinvolgimento dei lavoratori mediante le
attività di formazione ed informazione: “l’applicazione della 626
vista non solo come adeguamento normativo della sicurezza di
macchine, impianti, locali ma come un mezzo teso a raggiungere
adeguati livelli di sicurezza nelle aziende ed al mantenimento o
meglio al miglioramento degli stessi mediante una specifica
organizzazione interna che preveda, tra l’altro, il coinvolgimento
diretto dei lavoratori mediante informazione e formazione (non solo
una tantum) ritengo sia ancora molto lontana nella quasi totalità
delle aziende”. Si riscontra dunque ancora una certa difficoltà ad
introdurre e gestire un sistema sinergico; inoltre occorre lavorare
ancora molto sulla diversa cultura della sicurezza sul lavoro nelle
aziende con dipendenti e titolari più anziani che mostrano una
maggiore diffidenza agli obblighi derivanti dalla legislazione in
materia.
Nell’esprimere questa critica, il referente provinciale della Cna è
tuttavia pronto a ricordare che ciò è particolarmente legato alla
specificità del tessuto produttivo cui si sta facendo riferimento e che
potrebbe essere generalizzato anche all’esterno nel territorio
forlivese, data la diffusa prevalenza di piccole e piccolissime imprese
anche nel resto del territorio regionale. In queste imprese il datore di
lavoro non si limita a gestire il rapporto con clienti, fornitori, etc., ma
partecipa al lavoro in produzione e tale impegno limita moltissimo la
possibilità di un continuo aggiornamento sulla gestione della salute e
della sicurezza in azienda. In questo contesto è inoltre difficile
pensare di assumere un tecnico dedicato alla gestione della salute e
sicurezza; è per tutte queste motivazioni che le piccole aziende fanno
spesso riferimento a consulenti esterni o alle associazioni di categoria
al fine di espletare gli obblighi derivanti dalla normativa e non avere
l’onere di tenersi aggiornati sui cambiamenti nella legislazione. Le
associazioni di categoria Cna e Lapam Confartigianato intervistate in
occasione del presente rapporto forniscono, difatti, numerosi servizi
134
alle imprese associate. La Cna provinciale di Forlì-Cesena dal 1995
offre servizi di consulenza sulla normativa mediante convegni,
pubblicazioni, incontri, ecc. Tramite il proprio ente di formazione
offre inoltre corsi di formazione per i lavoratori, per i datori di lavoro
con l’incarico di Rspp nella propria azienda, per addetti al servizio di
prevenzione e protezione da incendi, per addetti al servizio di pronto
soccorso, per rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza (Rls). La
Lapam Confartigianato di Modena allo stesso modo ha elaborato
soluzioni e servizi mirati per settore. Dopo aver determinato lo stato
dell’arte in materia di salute e sicurezza mediante un questionario
somministrato all’azienda all’inizio del rapporto associativo, la
Confartigianato provvede a inviare materiale informativo sia sui corsi
obbligatori che su quelli che vanno oltre gli adempimenti normativi.
Sulla base delle criticità riscontrate, inoltre, la Lapam Confartigianato
e gli altri attori protagonisti del coordinamento provinciale modenese
sulla sicurezza sul lavoro si fanno promotori delle strategie per gli
anni successivi. A tal riguardo qualche anno fa è stato realizzato un
percorso congiunto fra i diversi attori e mirato al settore
metalmeccanico per approfondire le cause degli incidenti sul lavoro,
anche con l’ausilio delle imprese coinvolte. L’associazione fornisce
inoltre informazione sulla salute e la sicurezza mediante un proprio
periodico, riunioni sul territorio, riunioni specifiche di comparto. Ha
altresì deciso di internalizzare il servizio della consulenza per
approfondire e monitorare al meglio tutti gli aspetti su cui aggiornare
le aziende. In provincia di Modena i corsi di formazione obbligatori
di carattere tecnico sulla sicurezza sono gestiti dalla società di
formazione regionale dell’associazione mentre a Modena il resto dei
corsi obbligatori sulla sicurezza in azienda vengono gestiti da Pas
(Progetto Ambiente Sicuro). Questa società di servizi alle imprese è
stata fondata nel 2000 ma è operativa dal 1997 sulle tematiche della
sicurezza e dell’igiene in ambiente di lavoro, dell’ambiente esterno,
della qualità degli appalti pubblici.
Da parte delle associazioni di categoria intervistate si insiste molto
sulla rilevanza di diffondere in modo concreto e capillare una reale
cultura della sicurezza e un sistema sinergico tra lavoratori e titolari.
In quest’ottica la formazione e l’informazione dei lavoratori e degli
135
stessi datori di lavoro sono viste come un tassello molto importante
per la creazione di un ambiente ricettivo; come sostiene il referente
Cna provinciale: “Il ruolo della formazione e dell’informazione non
è un aspetto solo formale. L’informazione e formazione dovrebbero
iniziare già a livello scolastico al fine di procedere ad un
cambiamento culturale che ponga i futuri datori di lavoro e i
lavoratori nelle condizioni di approcciare correttamente i temi
legati all’organizzazione della sicurezza”. La maggioranza delle
aziende si affida ai referenti salute e sicurezza dell’associazione di
categoria per lo svolgimento della formazione iniziale, mentre in
alcuni casi sono i titolari aziendali che si recano in prima persona ai
corsi di formazione e in un secondo momento trasmettono le nozioni
acquisite ai propri dipendenti. Alcuni intervistati riferiscono che dopo
la visita da parte dei referenti dell’associazione di categoria l’azienda
provvede ad organizzare un’assemblea per illustrare i cambiamenti
apportati. Nei casi in cui vengano assunti nuovi lavoratori alcune
aziende aspettano di raggiungere un numero minimo di lavoratori per
organizzare un unico ciclo di formazione della durata di circa un paio
d’ore e durante il quale di solito ai lavoratori viene consegnata una
dispensa con i contenuti della formazione sulla sicurezza. A volte, in
occasione delle visite periodiche del referente dell’associazione
presso l’azienda, si realizzano momenti di incontro informativi con i
lavoratori e in alcuni casi le aziende distribuiscono anche materiale
informativo sui rischi più rilevanti, ad esempio il rischio elettrico e la
movimentazione dei carichi. Diversa è invece la formazione sulla
salute e la sicurezza per i lavoratori internali: una delle aziende
intervistate racconta difatti che la formazione per questi lavoratori
viene svolta direttamente dall’agenzia interinale che “si limita a
mostrare qualche slide”.
Il riferimento all’utilizzo di lavoro interinale offre l’occasione per
approfondire una questione non direttamente connessa alla salute e
alla sicurezza ma che, allo stesso tempo, ne complica la gestione.
Le aziende intervistate sono caratterizzate dalla presenza di un
gruppo di lavoratori che hanno maturato un’esperienza consolidata.
Tuttavia, nel momento in cui si sono trovate a fronteggiare
l’inevitabile ricambio generazionale, le aziende hanno incontrato una
136
enorme difficoltà nel reperire manodopera, sia specializzata che non:
da un lato ciò le ha portate ad un ricorso massiccio a lavoratori
extracomunitari, dall’altro, ad un turn over molto elevato. In
riferimento alla prima questione, si pensi ad esempio alla difficoltà di
comunicare fra diversi idiomi, alle differenti tradizioni culturali, alla
diversa concezione del lavoro. Dalle interviste emerge una certa
difficoltà di gestione dei lavoratori stranieri, a questo occorre
aggiungere che spesso, dopo qualche anno passato in Italia, questi
lavoratori maturano la decisione di tornare nel Paese di origine. Al
contempo vi è il problema di reperire manodopera italiana; a tal
riguardo dalle interviste è emersa una generale flessione di
“appetibilità” del lavoro nell’industria nel corso degli ultimi decenni.
Le aziende intervistate, pur dichiarandosi pronte a formare
internamente i lavoratori, trovano molte difficoltà per via del generale
distacco dei giovani al lavoro manuale, al quale attribuiscono un
minore riconoscimento sociale. Emblematiche a tal riguardo sono le
parole dei titolari di due aziende, la prima modenese, la secondo
forlivese. L’intervistato modenese dichiara al riguardo che: “fino a 15
anni fa la possibilità di imparare un mestiere in azienda era motivo
di orgoglio, ora non più, si assiste ad uno svilimento del mestiere
della metalmeccanica. A Bologna non ci sono più tutte le aziende
metalmeccaniche che c’erano negli anni 70-80. Occorre fare
qualcosa per far rinascere la cultura della meccanica manuale. Le
scuole ci sono ancora ma occorre far capire agli studenti che se è
bello poter disegnare un pezzo, occorre anche che ci sia qualcuno
che poi lo voglia realizzare manualmente”. D’altro canto, la titolare
dell’azienda forlivese conferma quanto sopra riconoscendo la
difficoltà delle scuole professionali: “sono le stesse scuole a non
trovare dei ragazzi da formare e, inoltre, mancano i fondi. Per
questo, poiché dalle scuole non si riescono più a trovare nuovi
ragazzi da assumere, ormai ci si rivolge sempre più spesso alle
agenzie interinali. Dal punto di vista pratico i nuovi assunti hanno
conoscenze pari a zero ed è indicativo sapere che a Forlì non c’è
nessun lavoratore in grado di coprire il ruolo di “piegatore””. In
entrambi i casi dunque (lavoratori extracomunitari e giovani italiani),
le aziende denunciano il verificarsi di un forte turn over perché questi
137
lavoratori, seppure per motivazioni diverse, non ambiscono a
continuare la propria attività in azienda e si licenziano dopo pochi
mesi. Il verificarsi di un turn over piuttosto frequente non solo
comporta dei problemi per lo sviluppo dell’azienda, ma apre anche
serie problematiche legate alla gestione della salute e della sicurezza.
È alla luce di queste difficoltà che si può comprendere come mai,
dopo un primo ricorso a tipologie dei rapporti di lavoro cosiddetti
atipici (interinale, rapporti a termine, ecc) utilizzati nel momento di
ingresso del lavoratore in azienda, quest’ultima tenda, dopo pochi
mesi di prova, a trasformare il rapporto di lavoro in un rapporto
stabile a tempo indeterminato.
Prima di concludere l’analisi qualitativa sulla gestione della salute e
della sicurezza nelle aziende, occorre ricordare che sia alle aziende
che ai referenti delle associazioni intervistati è stato chiesto di
descrivere il rapporto con gli organismi di controllo e la sua
eventuale evoluzione in seguito all’entrata in vigore del decreto 626.
In generale le aziende hanno risposto riportando esempi di alcune
visite ispettive da parte dell’Ausl. Nella maggior parte dei casi si è
trattato di visite che non hanno riscontrato anomalie, mentre in altri,
a seguito di alcune segnalazioni su cambiamenti necessari da
apportare, l’Ausl ha effettuato una seconda visita di controllo. Molti
meno i referenti aziendali che riportano di visite svolte da parte
dell’Ispettorato del lavoro e che comunque non hanno comportato
conseguenze per l’azienda. In riferimento al rapporto tra le
associazioni e gli organismi di controllo, il referente Cna provinciale
intervistato sottolinea come, a seguito dell’emanazione del decreto
626, i rapporti con l’Ausl siano cambiati in termini di “metodo”.
Mentre in precedenza l’Ausl si concentrava su un compito
meramente ispettivo e di controllo, attualmente si propone anche
come referente in merito ad interpretazioni normative e alla loro
applicazione pratica. L’intervistato ritiene difatti che la posizione
dell’Ausl si sia aperta ad una più utile collaborazione per un concreto
miglioramento della salute e della sicurezza nella piccola impresa,
cercando di gravarla meno, ove possibile, con obblighi più burocratici
che sostanziali.
138
4 Conclusioni
In un contesto di profondi cambiamenti (evoluzione dei mestieri,
nuove modalità organizzative, progresso tecnologico, crisi
economica, ecc.), l’analisi qualitativa ha delineato un quadro visibile
da una duplice prospettiva: da un lato l’impegno delle parti sociali e
delle aziende per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro
soprattutto attraverso azioni preventive; dall’altro la difficoltà, per
una reale cultura della sicurezza, di permeare e diffondersi
capillarmente nel mondo del lavoro.
Gli interlocutori intervistati sembrano concordare nel ritenere
l’introduzione del D. Lgs. 626/94 come momento di importante
cambiamento nella gestione della salute e della sicurezza aziendale, in
termini di procedure da seguire, verifiche, adempimenti burocratici,
ecc. Le associazioni datoriali hanno supportato le imprese
nell’affrontare gli onerosi cambiamenti richiesti dalla normativa ma
riconoscono, d’altro canto, la difficoltà degli imprenditori ad entrare
nella logica partecipativa e sinergica del decreto. La prevenzione sul
lavoro, infatti, non può essere perseguita mediante schemi isolati ma
deve rappresentare un tassello del più ampio circolo virtuoso di
relazioni, controlli, facilitazioni. Soprattutto si dovrebbe operare a
tutti i livelli per integrare cultura del lavoro, cultura tecnica, cultura
della prevenzione e del benessere nei luoghi di lavoro. Solo seguendo
questo percorso la tutela dei lavoratori potrà divenire il punto di
partenza per parlare concretamente di benessere sul lavoro.
Su questa visione concordano gli interlocutori intervistati, gli
obiettivi di miglioramento della salute e della sicurezza nelle aziende
si possano ottenere solo ove esiste una cultura specifica dei datori di
lavoro e dei lavoratori, mentre ciò che cala dall’esterno in un
ambiente pregiudizialmente non ricettivo non attecchisce realmente.
Il momento formativo assume dunque un’importanza vitale perché
rappresenta un’opportunità per valorizzare l’interiorizzazione della
prevenzione e un confronto partecipato sui rischi relativi alla
specifica attività lavorativa.
Su questa base si è mossa in questi anni la struttura bilaterale in
139
Emilia-Romagna, insistendo molto sulla formazione e informazione
dei datori di lavoro, essendo soprattutto questi ultimi il passaggio
obbligato per introdurre la cultura della sicurezza in azienda. Le parti
sociali a livello regionale sottolineano ripetutamente la rilevanza della
bilateralità nella gestione della salute e della sicurezza e nella tutela
del lavoro in senso più ampio. L’essere riusciti attraverso la
valorizzazione del dialogo sociale a mutualizzare un costo, altrimenti
insostenibile per le piccole imprese, e l’implementazione di un
sistema, ancorché migliorabile in una direzione fattuale, di gestione
della sicurezza rappresentano per tutte le parti coinvolte il reale
carattere innovativo e vantaggioso della struttura bilaterale, per il cui
mantenimento vi è una sostanziale convergenza. Se da un lato
l’insieme di strumenti giuridici, strutturali, relazionali e formativi
messi in campo nel corso dell’ultimo decennio hanno contribuito ad
una sensibile riduzione degli infortuni a livello regionale, i dati
restano ad ogni modo preoccupanti. Per tali ragioni i nostri
interlocutori concordano sulla necessità di continuare ad investire sul
sistema salute e sicurezza aziendale in termini di formazione e di
controllo, ma anche di incentivi e facilitazioni per le piccole imprese.
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tm
141
La responsabilità sociale nelle imprese
dell’Emilia Romagna: oltre la sicurezza e la
qualità del lavoro
CIDOSPEL
Un’impresa che fa null’altro che
soldi è un’impresa veramente
modesta (intervista ad Henry
Ford, 1919)
Salute, sicurezza e qualità del lavoro sono temi sui quali, ormai da
anni, il Cidospel ha concentrato la propria attenzione sviluppando
studi e ricerche finalizzate ad analizzare le condizioni lavorative
all’interno del sistema produttivo in specie della regione Emilia
Romagna. Nei precedenti Rapporti sono stati esaminati, di volta in
volta, diversi settori e comparti produttivi (agroalimentare, grande
distribuzione, metalmeccanico, telecomunicazioni, edilizia, ecc.) nei
quali si sono condotte analisi empiriche che hanno sperimentato
sistemi di valutazione di grandezze, difficilmente quantificabili
oggettivamente, quali il benessere dei lavoratori e la qualità del
lavoro. L’approccio privilegiato in tali analisi ha avuto origine dal
lavoro fondativo compiuto da Luciano Gallino che ha individuato
quattro dimensioni della qualità del lavoro (dimensione ergonomica,
del controllo, dell’autonomia e della complessità) successivamente
maggiormente specificate, empiricamente comprovate oltreché
integrate da una quinta non meno rilevante (quella economica) frutto
del contributo di Michele La Rosa e dei percorsi di ricerca intrapresi
dal Centro da lui diretto.
Un’analisi condotta sulla base di tali criteri deve tuttavia oggi tenere
conto di un sistema socio-economico interessato da profonde
142
trasformazioni (finanziarizzazione dell’economia, mondializzazione
dei
mercati,
globalizzazione,
innovazione
tecnologica,
terziarizzazione, esternalizzazione, ecc.) che si sta interrogando sulle
proprie capacità di garantire congiuntamente benessere, sviluppo,
ricchezza, tutela dell’ambiente e dei diritti dell’uomo.
Se a ciò si aggiunge che l’impresa, attraverso le proprie scelte ed i
propri comportamenti, ha capacità di influenzare molteplici aspetti
della vita delle persone ben si comprende come sia divenuto urgente
chiarire quali siano i termini del rapporto fra etica ed economia e
quale dunque responsabilità l’impresa stessa sia chiamata ad
assumersi nei confronti della società nel suo complesso.
Cogliendo l’attualità di un tale dibattito si è perciò ritenuto
opportuno dedicare questo contributo alla responsabilità sociale di
impresa che, seppure analizzata nei suoi aspetti più generali e
complessivi, viene da noi privilegiata con gli occhi di chi “centra” la
sua attenzione sul tema del lavoro, della sua sicurezza e della sua
qualità. Per questo ad una prima parte in cui si fornisce un quadro del
tema della responsabilità sociale di impresa nelle sue linee più
generali (senza alcuna pretesa di esaustività) ne segue una seconda in
cui attraverso un’analisi empirica condotta in 15 aziende (la totalità
delle imprese certificate SA8000 in Emilia Romagna) e gli
approfonditi studi di caso svolti in cinque di queste si è voluto
indagare come pratiche di gestione attente alla certificazione RSI
possano contribuire a migliorare salute, sicurezza e qualità del
lavoro.
143
Parte prima
1 La responsabilità sociale di impresa
1
Impegno sociale o responsabilità sociale?
Nell’affrontare il tema centrale di questo contributo riteniamo da un
lato specificare subito che daremo per nota l’ampia e complessa
letteratura, non solo sociologica, sul rapporto fra etica ed economia;
dall’altro utile preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco
che spesso inquina le discussioni su ciò che si deve intendere per
responsabilità sociale di impresa confusa spesso con il concetto di
impegno sociale dell’impresa.
Charles Derber, ripercorrendo storicamente l’evoluzione del tema
nella realtà statunitense, ritiene che il principale fattore che ha spinto
nelle diverse epoche le imprese all’impegno sociale sia,
fondamentalmente, il tentativo di fornire una risposta alla avversione
dei cittadini nei confronti di quelle grandi corporate che, oltre ad
assumere posizioni dominanti all’interno dei propri mercati,
attraverso il proprio potere economico - e talvolta anche mediatico hanno la capacità di influenzare la stessa vita democratica. Il più
diffuso strumento per esercitare tal influenza è costituito da una
attività di lobbying per la quale le grandi imprese impegnano
consistenti investimenti retribuendo loro incaricati cui è affidato il
compito di tutelare gli interessi dei propri datori di lavoro presso
organismi governativi nazionali e sovranazionali. Nel 1996 è stato
calcolato che, per ciascun membro del Congresso americano, vi
erano 125 occupati regolarmente retribuiti a questo scopo (erano
solo 31 nel 1964) ed un fenomeno analogo riguarda gli organi di
governo dell’Unione Europea sui quali le imprese tentano di
esercitare la propria influenza attraverso un esercito di 15.000
addetti.
A ciò si aggiunge che nell’economia mondiale pare prevalere un
modello di sviluppo nel quale l’obiettivo quasi esclusivo della
massimizzazione del profitto (ovvero della massimizzazione del
valore per gli azionisti che Luciano Gallino individua quale elemento
144
centrale nel dominante “capitalismo manageriale azionario”) viene
perseguito in un contesto globale nel quale le capacità regolative
delle politiche pubbliche nazionali divengono sempre più limitate.
“Capitale e conoscenza si sono entrambi emancipati dalla loro
dimensione locale” determinando, “tra le altre cose, separazione del
potere dalla politica” (Bauman, 2000).
Tutto ciò è aggravato dalla tendenza del sistema economico
neoliberista ad accentuare le disuguaglianze fra una ridotta quota di
popolazione che detiene gran parte delle risorse economiche (ed il
conseguente potere di deciderne l’impiego in un contesto sempre
meno vincolato) e la crescente percentuale di fasce di popolazione
più povera.
Tenendo conto di tali elementi Derber tenta di chiarire il rapporto fra
CSR (corporate social responsibility) ed impegno sociale attraverso
l’analisi di quattro fasi (dall’Autore definite “waves”: onde) che
hanno visto grandi corporate statunitensi realizzare iniziative
riconducibili all’una o all’altro in diverse epoche storiche a partire dal
XIX secolo.
La prima “onda” viene fatta risalire all’ultimo ventennio dell’800 nel
quale, per reazione allo strapotere esercitato dalle principali imprese i
cui uomini di vertice divenivano Presidenti degli Stati Uniti e in un
contesto in cui la crescente disparità economica divideva la
popolazione in un 10% di ricchi ed un 90% di poveri, nacque, per la
prima volta nella storia americana, un movimento radicale (il Populist
Movement) che puntò a conquistare il Governo del Paese. Ciò, a
parere dell’Autore, spinse il mondo economico dominante ad
arginare tali spinte sociali dando origine a quella che egli definisce
appunto la “prima onda”. Tale reazione fu prevalentemente orientata
ad un comportamento filantropico riconoscibile, ad esempio, nella
condotta di Rockefeller che, in quegli anni, oltre a fondare
l’Università di Chicago, finanziò con consistenti capitali altre
università e fondazioni tentando di dare in questo modo una risposta
alla crescente insoddisfazione pubblica.
La seconda “onda” Derber la colloca intorno agli anni venti del
secolo successivo. L’elevato grado di corruzione ed i numerosi
scandali che investirono il mondo degli affari fecero emergere lo
145
strapotere delle grandi corporate nelle quali condotte di
comportamento irresponsabili generarono elevate e diffuse tensioni
sociali. In questo caso la risposta fu il cosiddetto Plan America nel
quale le imprese cominciarono a farsi carico della salute e della
previdenza dei loro lavoratori ed, in alcuni casi, anche delle loro
necessità abitative. Si parla in questo caso di atteggiamenti di natura
paternalistica da parte delle imprese che vennero però radicalmente
messi in discussione dalla Grande Depressione conseguente alla crisi
del 1929 che in molti casi determinò l’insostenibilità economica di tali
iniziative.
La terza “onda”, viene collocata negli anni sessanta del secolo
scorso. Più che riguardare un intero sistema questa fase è basata su
specifiche realizzazioni di singole imprese globali (Pfizer, Glaxo,
General Motors) che cominciarono a tenere conto degli interessi di
un più vasto panorama di soggetti coinvolti nell’impresa
(stakeholder) oltre a quelli tradizionali dei propri azionisti
(shareholder). Ciò fu determinato dalla considerazione che farsi
carico delle necessità e della soddisfazione dei propri lavoratori ed
adottare comportamenti corretti nei confronti dei propri clienti e della
società nel suo complesso avrebbe avuto come conseguenza da un
lato un aumento della produttività e, dall’altro, un’accresciuta
reputazione dell’impresa all’interno della comunità in cui si trovava
ad operare. A titolo di esempio l’Autore cita fra le principali
realizzazioni di questo tipo la General Motors che negli anni settanta
adottò una serie di iniziative per aumentare la partecipazione dei
propri lavoratori alla attività dell’impresa introducendo il lavoro in
team ed alcuni elementi di autonomia nell’organizzazione del lavoro
tratti dal modello giapponese.
Un ulteriore esempio riguarda una grande impresa americana (Stride
Rite) con sede in una delle zone più povere e violente di Boston.
Dopo che le finestre della direzione aziendale furono bersaglio di
colpi di arma da fuoco, invece di pensare ad un trasferimento, un alto
dirigente decise di aprire un centro sociale diurno dove non solo gli
impiegati ma tutti i componenti della comunità potevano portare
quotidianamente i propri figli.
146
Inizialmente tali realizzazioni rivolte nel primo caso ai lavoratori e nel
secondo alla comunità contribuirono a generare un incremento dei
profitti per la General Motors ed una maggiore integrazione della
Stride Rite nel suo contesto ambientale ma il modello entrò in crisi a
causa di valutazioni di natura economica. Nel primo caso
l’incremento di produttività del lavoro implicò il licenziamento di
numerosi dipendenti e nel secondo, dopo circa un decennio di
attività, il centro sociale fu chiuso a causa del trasferimento
dell’impresa verso aree logisticamente più vantaggiose nelle quali si
sarebbero abbattuti i costi di distribuzione.
In entrambi i casi i conseguenti costi sociali furono elevatissimi.
Inoltre la considerazione che, nonostante le nobili intenzioni, le
iniziative dalle imprese non sarebbero state economicamente
sostenibili nel lungo periodo determinò un generalizzato clima di
sfiducia sulle capacità delle corporate di tutelare interessi diversi da
quelli dei propri azionisti.
La quarta ed ultima “onda”, diversamente dalle precedenti in cui
prevaleva un atteggiamento di semplice impegno sociale, ha un
approccio macro e sistemico che può a ragione rientrare in ciò che
oggi definiamo responsabilità sociale di impresa. In questo caso il
farsi carico di aspetti sociali più ampi non è più semplicemente una
opzione scelta da vertici aziendali dotati di particolare sensibilità, ma
diviene una necessaria risposta del mondo produttivo ad istanze di
masse crescenti di cittadini e consumatori che, grazie all’elevato
livello di informazione cui hanno accesso, sono in grado di valutare
l’operato delle corporate influenzandone le politiche e le strategie
attraverso le proprie scelte di consumo e la propria capacità di
mobilitazione sociale. Soddisfare le istanze e le esigenze espresse da
tutti gli stakeholder diviene quindi un fattore competitivo e strategico
indispensabile a garantire ad ogni organizzazione produttiva la
propria salute economica immediata e la propria sopravvivenza nel
lungo periodo.
Questa nuova visione renderebbe necessario l’adeguamento di ogni
impresa a stili di gestione socialmente responsabili ed al rispetto di
standard sempre più elevati indispensabili per mantenere la propria
posizione nel mercato e nel proprio contesto ambientale generando in
147
tal modo un cambiamento a livello di intero sistema: “un’impresa
nella quarta onda può permettersi di essere responsabile poiché tutte
le imprese con le quali compete sono esse stesse concordi sul ruolo
della responsabilità” (nostra traduzione da Derber, 2003).
In tale contesto il ruolo degli stakeholder e delle organizzazioni non
governative viene ulteriormente potenziato dalla loro partecipazione,
a fianco delle imprese, ad organismi internazionali deputati a stabilire
cosa significa essere socialmente responsabili definendo altresì gli
standard ed i relativi criteri di rendicontazione.
Derber, spiegando in conclusione il senso della metafora relativa
all’onda del mare, conclude con la considerazione che essa non può
essere “comprata” o “ingannata”, come parevano fare imprenditori
filantropi o paternalisti, pena il fallimento dovuto alla non
sostenibilità economica ed il conseguente aumento di un clima
generalizzato di sfiducia ma, al contrario, l’onda può e deve essere
“cavalcata” da stakeholder e cittadini che entrano realmente a far
parte della governance e del controllo democratico di un intero
sistema produttivo.
In conclusione il social commitment o l’impegno sociale
dell’impresa sono alla base di iniziative messe in atto fin dalla
seconda metà dell’ottocento da parte di imprenditori e manager in
alcuni casi “illuminati” o più spesso da dirigenti obbligati da pressioni
sociali e dalla volontà di migliorare la reputazione della propria
impresa. Oggi, in un contesto caratterizzato dall’accresciuto potere
dell’impresa all’interno della società, ciò che invece sostanzia la
responsabilità sociale è, come meglio vedremo nel paragrafo
seguente, la necessità di implementare un nuovo modello di
governance dell’impresa in grado di contemperare gli interessi degli
azionisti/proprietari e le “pretese legittime” di tutti gli altri soggetti le
cui esistenze sono direttamente o indirettamente influenzate dai
comportamenti e dalle scelte dell’impresa. “Le decisioni economiche
influenzano la vita delle persone in molti modi, quali le condizioni di
lavoro, lo sviluppo delle comunità locali, la reale qualità della vita.
Esercitare un potere d’impresa responsabile significa acquisire la
capacità di vedere le imprese non solo dall’interno o dal mercato;
significa anche imparare ad osservarle dall’esterno, formarsi un
148
quadro di quanto contribuiscano alla società e non solo nel breve
periodo” (Lozano, 2001).
2
Una ricostruzione di contributi teorici alla definizione
della responsabilità sociale di impresa: cenni
Insieme alle realizzazioni concrete di esperienze quali quelle appena
citate nei decenni si è andato sviluppando un dibattito molto vivace
centrato sul rapporto fra etica ed economia e, più in particolare, su
quelle che dovrebbero essere le finalità ultime dell’impresa. Lo spazio
a nostra disposizione non ci consente una puntuale ricostruzione di
questo percorso teorico per il quale rinviamo ai numerosi testi
recentemente prodotti; in questa sede pertanto ci limiteremo a
delinearne alcune tappe significative del dibattito contemporaneo in
coerenza con gli obiettivi del presente scritto.
Una prima suddivisione - necessariamente schematica per le ragioni
appena ricordate ma dalla quale, dal nostro punto di vista, pare
opportuno intraprendere il percorso citato - può essere operata
distinguendo fra i sostenitori della stockholder view che ritengono
che la finalità dell’impresa sia esclusivamente quella di aumentare il
valore finanziario posseduto dagli azionisti/investitori (stockholder
appunto o shareholder) ed i sostenitori della stakeholder view che
ritengono che gli interessi degni di considerazione e di tutela debbano
essere, invece, quelli relativi alla più ampia platea di soggetti che, a
diverso titolo, hanno interesse e partecipano alla attività dell’impresa
o la cui vita è in qualche modo influenzata dalle scelte di business da
essa operate (stakeholder).
Fra gli esponenti più autorevoli del primo approccio possiamo
annoverare il premio Nobel Milton Friedman mentre, alla seconda,
possono essere ricondotti i contributi di William Evan e Edward
Freeman.
Friedman in particolare parte dal presupposto che sia il mercato il più
efficiente strumento di regolazione dell’attività economica e sia la
“mano invisibile” che lo governa a fare in modo che l’obiettivo
esclusivo dell’impresa a perseguire la massimizzazione dei profitti e
l’incremento del valore del capitale detenuto dalla proprietà comporti
come automatica conseguenza anche la promozione del benessere
149
generale. Egli rifiuta la responsabilità sociale ritenendola uno
strumento in grado di sovvertire il sistema capitalista conducendolo
verso il socialismo. Friedman sostiene che “c’è una e solo una
responsabilità sociale dell’impresa: usare le sue risorse e dedicarsi ad
attività volte ad aumentare i propri profitti a patto che essa rimanga
all’interno delle regole del gioco, il che equivale a sostenere che
competa apertamente e liberamente senza ricorrere all’inganno e alla
frode” (Friedman, 1962). Egli tuttavia non esclude che le scelte dei
manager possano richiamarsi a principi etici o favorire il benessere
sociale generale (che, come detto, è anzi automaticamente garantito
dalla creazione di nuova ricchezza) ma ciò solo nel quadro del patto
fiduciario che lega gli stessi manager agli azionisti dell’impresa ed in
nome della tutela privilegiata degli interessi di questi ultimi.
In contrapposizione alle tesi sostenute da Milton Freedman, Wiliam
Evan ed Edward Freeman propongono il cosiddetto approccio
multi-fiduciario in base al quale i manager dell’impresa devono
tenere conto, oltre che degli interessi degli azionisti/proprietari (i cui
diritti di proprietà non possono essere considerati assoluti), anche di
quelli di tutti coloro che abbiano “un interesse legittimo o una pretesa
legittima sull’impresa”. Questi ultimi nella definizione classica fornita
da Freeman nel 1984 sono così individuati: “gli stakeholder primari,
ovvero gli stakeholder in senso stretto, sono tutti gli individui o
gruppi ben identificabili da cui l’impresa dipende per la sua
sopravvivenza: azionisti, dipendenti, fornitori e agenzie governative
chiave. In senso più ampio, tuttavia, stakeholder è ogni individuo ben
identificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività
dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi
lavorativi. In questo più ampio significato, gruppi di interesse
pubblico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo,
associazioni imprenditoriali, concorrenti, sindacati e la stampa sono
tutti da considerare stakeholder” (Freeman, 1984).
Evan e Freeman in un successivo articolo del 1988 esplicitano i due
principi che stanno alla base del loro approccio.
Il primo è il principio di legittimità aziendale secondo cui “l’impresa
deve essere gestita per il bene dei suoi stakeholder: consumatori
fornitori, proprietari, dipendenti e comunità. I diritti di questi ultimi
150
devono essere garantiti, e, inoltre, tali gruppi devono partecipare alle
decisioni che in modo significativo toccano il loro benessere”.
Il secondo è il principio fiduciario in base al quale “il management
intrattiene un rapporto fiduciario con gli stakeholder e con la
corporation come entità astratta. Esso deve agire nell’interesse degli
stakeholder in qualità di loro agente, e nell’interesse della
corporation per assicurarne la sopravvivenza salvaguardando gli
interessi di lungo termine di ogni gruppo”.
Rispetto alla massimizzazione dei profitti ed all’incremento del valore
per gli azionisti come obiettivi esclusivi dell’impresa si ha, in questo
caso, una radicale ridefinizione delle finalità ultime dell’impresa
stessa quale organizzazione che deve esercitare una funzione di
coordinamento e di mediazione degli interessi dei diversi stakeholder.
Un analogo tentativo di ridefinizione viene compiuto da Freeman ad
un livello ancora più generale quando sostiene che “il capitalismo
funziona perché imprenditori e manager si uniscono e mantengono
accordi o rapporti tra consumatori, fornitori, dipendenti, finanziatori
e comunità. Il sostegno di ogni gruppo è vitale per il successo
dell’iniziativa […]. Poiché questo principio è radicato negli interessi
degli stakeholder, la corporation diventa una camera di
compensazione o rete di attività in cui gli stakeholder soddisfano i
loro desideri” (Freeman, 2000).
3
La responsabilità sociale di impresa nel Libro Verde della
Commissione Europea
Il dibattito teorico cui ci si è più sopra riferiti, sviluppatosi fin dal
secolo scorso, sul ruolo dell’impresa nella società e sul rapporto tra
etica ed economia non ha tardato ad esercitare la sua influenza su
istituzioni nazionali ed internazionali che, recependone la rilevanza,
hanno intrapreso iniziative e prodotto documenti che affrontano il
tema in termini pragmatici.
In questa direzione si muovono i principi generali formalizzati in
documenti quali la “Dichiarazione tripartita” dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro relativa a libertà d’associazione,
abolizione del lavoro forzato, non-discriminazione ed eliminazione
del lavoro infantile, le “Linee guida dell’Ocse” destinate alle imprese
151
multinazionali ed il “Global Compact” promosso nel 1999 dal
Segretario Generale delle Nazioni Unite nel quale sono formalizzati
dieci principi cui le imprese sono tenute ad attenersi per garantire la
tutela dei diritti umani, dei diritti del lavoro e dell’ambiente.
In Europa il Consiglio di Lisbona svoltosi nel 2000 ha individuato
nella responsabilità sociale un importante strumento di governance
che le imprese dell’Unione dovrebbero adottare per contribuire alla
costruzione di un’economia della conoscenza dinamica e competitiva
basata sulla coesione facendo, in particolare, appello al senso di
responsabilità delle imprese nel settore sociale per le buone prassi
collegate all’istruzione ed alla formazione lungo tutto l’arco della
vita, all’organizzazione del lavoro, alla parità delle opportunità,
all’inserimento sociale ed allo sviluppo durevole.
Analogamente il Consiglio Europeo di Göteborg, del giugno 2001,
ha esplicitato il principio secondo il quale una strategia di sviluppo
sostenibile nel lungo termine deve necessariamente andare di pari
passo con la crescita economica, la coesione sociale e la tutela
dell’ambiente.
In base a tali obiettivi ed in continuità con i principi enunciati la
Commissione Europea diffonde nel luglio del 2001 il Libro Verde
Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle
imprese che, per la sua rilevanza merita, un seppur breve esame.
Innanzitutto in esso si definisce la responsabilità sociale dell’impresa
come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed
ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro
rapporti con le parti interessate”. Inoltre vi si afferma che “essere
socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli
obblighi giuridici applicabili ma anche andare al di là investendo ‘di
più nel capitale umano nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti
interessate”.
Immediatamente dopo tali definizioni il Libro Verde punta a
sottolineare come l’adozione di tali pratiche responsabili da parte
delle imprese costituisca anche uno strumento per “aumentare la
propria competitività in un contesto economico e sociale sempre più
influenzato da alcuni elementi rilevanti quali:
152
1) le nuove preoccupazioni e attese dei cittadini, dei consumatori,
delle pubbliche autorità e degli investitori in vista della
mondializzazione e delle trasformazioni industriali di grande
portata;
2) i criteri sociali che influiscono sempre più sulle decisioni di
investimento e di consumo degli individui e delle istituzioni;
3) le inquietudini crescenti suscitate dal deterioramento dell’ambiente
provocato dall’attività economica;
4) la trasparenza arrecata dai mezzi di comunicazione e dalle
tecnologie moderne dell’informazione e della comunicazione
nell’attività delle imprese”.
Il Libro Verde assegna un ruolo di rilievo ai consumatori ed agli
investitori i quali attraverso i moderni strumenti di comunicazione
sono in grado di conoscere e valutare i comportamenti delle imprese
e di orientare conseguentemente i propri acquisti o i propri
investimenti favorendo organizzazioni produttive che incorporano nei
propri prodotti o nei propri servizi ‘plusvalori’ socio-ambientali. Va
tuttavia sottolineato che, come approfondiremo in seguito, fra tutte le
“parti interessate” all’attività dell’impresa, il Libro Verde colloca in
una posizione centrale i lavoratori e l’organizzazione del lavoro
dedicando ad essi ampio spazio.
Pur riconoscendo come responsabilità principale dell’impresa quella
di generare profitti, il Libro Verde ritiene l’adozione di pratiche di
gestione socialmente responsabili un investimento in grado di
coniugare gli obiettivi finanziari e commerciali dell’azienda con
l’attenzione agli aspetti sociali ed ambientali. Proprio in funzione
della necessità di garantire redditività e competitività dell’impresa il
documento condivide l’approccio “sistemico” alla responsabilità
sociale auspicandone la diffusione non solo all’interno del sistema
produttivo europeo ma anche a livello planetario.
Per rendere più efficace l’implementazione di tali pratiche da parte
dell’impresa il Libro Verde assegna alla Commissione Europea il
compito di agire affinché si creino delle partnership che vedano
coinvolte, insieme alle aziende, le organizzazioni non governative, le
parti sociali, le autorità locali e gli organismi che gestiscono servizi
sociali. Al fianco del ruolo che deve essere svolto dalla Commissione
153
si auspica, inoltre, una analoga attività di sensibilizzazione al tema
della responsabilità sociale da parte di tutte le istituzioni pubbliche
soprattutto nei riguardi delle piccole e medie imprese che
costituiscono un pilastro fondamentale dell’intera economia europea.
La Commissione e le altre istituzioni pubbliche sono di conseguenza
chiamate ad operare per conseguire i seguenti obiettivi:
1) instaurare un quadro globale europeo destinato a favorire la
qualità e la convergenza delle procedure osservate nel settore
della responsabilità sociale delle imprese, grazie all’elaborazione
di principi, approcci e strumenti generici e alla approvazione di
nuove prassi e idee innovative;
2) sostenere le buone prassi destinate a garantire una valutazione
efficiente in termini di costi ed una verifica indipendente delle
procedure di responsabilità sociale delle imprese garantendo in
questo modo la loro efficacia e la loro credibilità.
La realizzazione di tali obiettivi implica la necessità per le imprese di
dotarsi di codici di condotta, contenenti valori, principi e
responsabilità nei confronti dei propri stakeholder, relativamente alle
condizioni di lavoro, ai diritti dell’uomo ed alla tutela dell’ambiente
applicabili a livello dell’intera catena organizzativa e produttiva. Tali
codici di condotta, secondo il Libro Verde, possono essere più o
meno efficaci in funzione delle modalità di applicazione e delle
verifiche cui sono sottoposti.
La stessa Commissione Europea nel Libro Verde non nasconde,
tuttavia, le difficoltà legate ai criteri utilizzati dalle imprese per la
predisposizione dei propri codici di condotta. Per questo suggerisce
che la definizione dei principi possa basarsi sulle Convenzioni
fondamentali predisposte dall’OIL, quali quelle contenute nella
Dichiarazione del 1998 relativa ai principi e diritti fondamentali nel
lavoro, e sui principi dell’OCSE destinati alle imprese multinazionali.
La Commissione considera il rispetto delle prescrizioni raccolte in
detti documenti solamente un obiettivo minimo da raggiungere e
sostiene, altresì, che una condotta di comportamento socialmente
responsabile presuppone che si avvii un processo progressivo di
miglioramento continuo sia del codice di condotta sia delle
normative.
154
Una volta definiti i valori sui quali fondare i codici di condotta,
assume però altresì rilevanza la necessità di valutare l’effettiva messa
in pratica dei principi in essi contenuti e la possibilità di verifica dei
comportamenti enunciati. Ciò impone la necessità di predisporre un
insieme di strumenti che possano, da un lato, fornire il supporto
informativo per la gestione integrata dell’impresa (gestione, cioè, che
unisca gli aspetti economici, sociali ed ambientali) e, dall’altro,
garantire a tutti gli stakeholder e, più in generale a tutta la società
civile, l’accesso alle informazioni per valutare il comportamento
dell’impresa in termini di trasparenza, credibilità e coerenza con i
principi fissati.
4
Volontarietà o discrezionalità autoreferenziale: il
dibattito europeo fra le parti sociali
Dopo avere delineato i contenuti essenziali del più organico
documento prodotto a livello europeo sul tema ci pare opportuno
(anche per la stessa impostazione del volume in cui il presente saggio
è inserito) rendere conto del dibattito che si è andato sviluppando fra
le parti sociali relativamente al significato da attribuire alla
responsabilità sociale, al rilievo che deve essere dato ai lavoratori
nell’adozione di modalità di gestione più attente agli interessi degli
stakeholder e, soprattutto, riguardo al tema dell’“integrazione
volontaria” come peculiarità della Rsi.
L’Unione delle confederazioni dell’industria e dei datori di lavoro
d’Europa (Unice), difende fermamente un’adesione libera e
volontaria alla Rsi e ritiene che il dialogo sociale sia un proficuo
strumento per la realizzazione di buone prassi progressivamente
estendibili e generalizzabili attraverso strumenti di benchmarking;
valuta altresì importante che ciò non debba implicare l’imposizione di
nuovi vincoli normativi che influenzerebbero negativamente le
potenzialità competitive di imprese che operano in un contesto
globale non altrettanto regolamentato.
La Confederazione europea dei sindacati (Ces), da parte sua, pone,
invece, l’attenzione sul rischio che la responsabilità sociale possa
divenire un sostituto della regolazione o della legislazione sociale. In
particolare individua tre aspetti critici:
155
1) la responsabilità sociale non può essere uno strumento che miri
all’abolizione del conflitto sociale teso alla ricerca di un consenso
delle parti interessate che diluisca la responsabilità concrete del
management;
2) azionisti e manager detengono, comunque, il potere di prendere le
decisioni ultime sulle strategie aziendali e non sempre sono
propensi a garantire ai lavoratori elevati livelli di informazione,
consultazione e partecipazione;
3) la diffusione di pratiche di responsabilità sociale non può avvenire
solamente su base volontaria ma necessita di un ampliamento del
quadro normativo di tutela dei diritti dei lavoratori (Telljohann,
2004).
Nella visione del Sindacato Europeo l’adesione volontaria da parte
delle imprese ai principi della responsabilità sociale dovrebbe essere,
quindi, considerata solo una fase di passaggio, propedeutica alla
introduzione di un sistema di regole in grado di elevare
progressivamente gli standard minimi di tutela dei diritti dei
lavoratori nonché di salvaguardia dell’ambiente.
Riguardo a questa differenziazione fra il punto di vista
imprenditoriale e quello sindacale europeo ci può soccorrere, fra gli
altri, in termini almeno di migliore definizione un contributo di
Giuseppe Acocella il quale tenta di fornire un chiarimento sul
principio di volontarietà di adesione ai principi della RSI affermando
che questo “non può coincidere con l’unilateralità dell’atto, perché
esso è atto volontario ma contrassegnato dalla ‘reciprocità’ delle
volontà di tutti gli attori del sistema (gli stakeholder). L’atto
volontario non segnato da alcuna obbligazione morale si configura
come ‘dono’, ma il dono è cosa diversa dalla responsabilità. (…).
Pertanto se la scelta della CSR non può né essere imposta
dall’esterno (…) né essere tutta interna, autoreferenziale e
determinata dalle mere convenienze della proprietà e del management
aziendale, essa deve comunque valorizzare le potenzialità implicite
nella CSR di sperimentare forme avanzate di democrazia economica
come estensione dei diritti fondamentali (…)” (Acocella, 2004).
L’Autore poi, riprendendo l’approccio della stakeholder view
suggerisce di cominciare “a fondare la necessità etica della
156
responsabilità sociale dell’impresa e delle politiche pubbliche relative,
attraverso una contrattazione sociale capace di definire i beni
primari cui i contraenti restino vincolati. La stipulazione del
contratto rispetta la volontarietà (che non è unilateralità
paternalistica) della responsabilità che stockholder e stakeholder si
assumono ciascuno per la propria parte, ma la definisce rendendo i
contenuti degli impegni comunemente assunti vincolanti”. Di qui il
conseguente impegno delle politiche pubbliche di promuovere la
legislazione di sostegno alla partecipazione aziendale o alle pratiche
di trasparenza e controllo dei bilanci, “senza alterare la libera e
volontaria adesione che distingue il livello delle opzioni morali da
quello obbligatorio dell’osservanza delle norme giuridiche in materia
di ambiente o tutela del lavoro”.
5
Il Progetto CSR-SC del Ministero del Lavoro e della
Politiche Sociali e la Responsabilità sociale di impresa in Italia
In Italia il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, facendo
propria la definizione di responsabilità sociale di impresa formulata
nel Libro Verde e condividendone la rilevanza quale strumento in
grado di coniugare tutela ambientale, sviluppo sociale e competitività
delle imprese, ha presentato nel dicembre 2002 il “Progetto
CSR-SC” (Corporate Social Responsibility – Social Commitment).
In esso, oltre a riaffermare i principi di volontarietà, credibilità e
trasparenza, il Ministero si impegna a promuovere il progetto CSR, a
contribuire a diffondere la cultura della CSR e delle relative buone
pratiche, a definire indicatori efficaci in accordo con i diversi
stakeholder, le imprese ed il mondo accademico ed a sviluppare un
sistema di regole condivise per tutelare i consumatori.
Il Ministero registra l’incertezza determinata dal proliferare di
standard di valutazione delle performance ambientali e sociali che
rendono, da un lato, troppo complessa la scelta da parte delle
imprese degli strumenti e delle metodologie più appropriati per
implementare modalità di gestione socialmente responsabili e,
dall’altro, determinano la difficoltà per gli stakeholder di analizzare
ed apprezzare i risultati raggiunti. Per queste ragioni Esso ha avviato,
con la collaborazione di esperti e stakeholder qualificati, un percorso
157
di approfondimento, ricerca e sperimentazione finalizzato ad
elaborare uno standard rispondente a criteri di semplicità, modularità
e flessibilità in grado di garantirne l’adozione sia nelle grandi aziende
che nelle PMI e di facilitare rilevazione, misurazione e comunicazione
delle performance di CSR.
Nello standard di CSR proposto dal Governo il documento attraverso cui
l’impresa comunica agli stakeholder le proprie performance sociali,
ambientali e di sostenibilità è definito Social Statement. Questo si basa su
un set modulare e flessibile di indicatori, la cui struttura si articola, in
particolare, in funzione della classe dimensionale di appartenenza
dell’azienda che lo adotta.
Tali indicatori sono organizzati in un framework articolato su tre livelli.
Il primo livello è costituito da otto categorie o gruppi di stakeholder e
precisamente:
1) risorse umane;
2) soci/azionisti e comunità finanziaria;
3) clienti;
4) fornitori;
5) partner finanziari;
6) Stato, Enti locali e pubblica amministrazione;
7) comunità;
8) ambiente.
Per ciascuna di queste categorie il secondo livello prevede l’analisi di alcuni
aspetti e aree tematiche (specifici per ciascuna categoria) monitorati
attraverso gruppi di indicatori.
Il terzo livello è costituito, infine, dagli indicatori veri e propri che possono
avere natura quantitativa o qualitativa in funzione delle caratteristiche degli
aspetti cui si riferiscono e che hanno la funzione di controllare e valutare le
performance di un’organizzazione rendendole comparabili con quelle di
altre organizzazioni.
Il set di indicatori è, a sua volta, suddiviso in indicatori comuni, che devono
essere utilizzati da tutte le imprese (PMI o grandi aziende) per la
realizzazione del Social Statement e indicatori addizionali, che si possono
applicare alle imprese di maggiore dimensione (a partire da 50 dipendenti)
in base a specifici criteri, affiancando e integrando gli indicatori comuni.
Per ragioni di spazio non è possibile in questa sede fornire un’analisi
approfondita dell’insieme degli indicatori proposti, tuttavia, essendo il
lavoro argomento centrale di questo contributo, nel successivo paragrafo
158
verrà fornita una sintetica analisi degli elementi considerati nel Social
Statement relativamente alla categoria delle risorse umane.
Una volta definiti gli strumenti, la procedura predisposta dal Ministero per
l’implementazione della responsabilità sociale prevede, in una fase iniziale,
un processo di autovalutazione da parte dell’impresa fondato sul set di
indicatori proposti che si conclude con la predisposizione del Social
Statement. Questo viene poi proposto all’esame-valutazione di un gruppo di
stakeholder che forniscono commenti, pareri e valutazioni che saranno poi
sottoposti alla valutazione del “Forum Italiano Multistakeholder per la
CSR” (organismo nazionale rappresentativo di tutti gli stakeholder
presieduto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). In caso di
valutazione positiva l’impresa viene inserita in un apposito data base.
L’impresa che ha superato con successo tale iter di valutazione può
beneficiare delle agevolazioni predisposte dal Ministero (agevolazioni
fiscali, campagne mirate sostenute dal Governo, premi ad ampia visibilità
ed, eventualmente, incentivi previdenziali, incentivi finanziari e forme di
semplificazione amministrativa ancora allo studio) e può decidere - sempre
su base volontaria - di andare oltre il livello CSR e partecipare in maniera
attiva alle priorità di intervento sociale, finanziando un apposito Fondo SC.
Quest’ultimo, costituito nell’ambito del Bilancio dello Stato, raccoglie le
risorse stanziate dalle imprese utilizzandole per supportare i progetti definiti
da un’apposita Conferenza Unificata e dalle ONG e contenuti nel Piano di
Azione Nazionale.
Quest’ultima parte del progetto sostanzia l’aspetto del Social
Commitment che punta a “favorire la partecipazione attiva delle
imprese al sostegno del sistema di welfare nazionale e locale secondo
una moderna integrazione pubblico-privato”. Ciò ha indotto alcuni
osservatori ad evidenziare una possibile problematicità. Unire la
“responsabilità” (responsibility) e l’“impegno” (commitment) può
portare a confondere “la CSR con la beneficenza aziendale e con
l’obiettivo di canalizzare le donazioni delle imprese sui programmi
sociali stabiliti dal Governo” con il rischio di manomettere il
“fisiologico meccanismo di finanziamento via donazioni delle attività
del settore no profit dell’economia” e di distorcere “uno dei
meccanismi strutturali che alimentano lo sviluppo del terzo settore e
che correggono le inefficienze dell’offerta globale di servizi di
Welfare” (Sacconi L., 2004).
159
6
Responsabilità sociale e lavoro
1.6.1. Il tema del lavoro nel Libro Verde
Alla luce degli obiettivi privilegiati dal presente contributo e pur
consapevoli dei limiti di un tale parziale approccio, incentreremo ora
la nostra attenzione prevalentemente su quella parte della
responsabilità sociale che ha come protagonisti principali lavoratori e
collaboratori dell’impresa.
Il Libro Verde, facendo proprio l’impegno assunto nel Consiglio
Europeo di Lisbona, attribuisce un notevole rilievo al tema del lavoro
quale elemento fondamentale per la realizzazione di uno sviluppo
economico di qualità. In particolare afferma che l’adozione di buone
prassi nella gestione responsabile dell’attività di impresa abbia “in
primo luogo” riflessi sui lavoratori. Per questo suggerisce l’adozione
di politiche adeguate relativamente ai seguenti aspetti:
· istruzione e formazione per tutto l’arco della vita;
· responsabilizzazione del personale;
· miglioramento del circuito d’informazione nell’impresa;
· migliore equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero;
· applicazione del principio di uguaglianza per le retribuzioni e le
prospettive di carriera delle donne;
· partecipazione dei lavoratori ai benefici ed all’azionariato;
· incremento della capacità di inserimento professionale;
· sicurezza sul posto di lavoro;
· assunzione di persone sfavorite nel mercato del lavoro
(minoranze etniche, donne, anziani, disoccupati di lunga durata).
Nell’articolazione dei temi trattati nel Libro Verde un fondamentale
aspetto è dedicato proprio alla salute e sicurezza del lavoro tema in
questo saggio da noi privilegiato. Qui si segnala preliminarmente
come le misure legislative e coercitive di regolamentazione in tema di
salute e sicurezza sul lavoro risultino di più difficile applicazione in
un contesto caratterizzato da esternalizzazioni e subappalti a fornitori
anche di piccolissime dimensioni a volte collocati in paesi lontani su
cui l’impresa non sempre riesce ad esercitare il proprio controllo. Per
rispondere a tale difficoltà diviene importante che le imprese
utilizzino criteri di selezione dei propri fornitori richiamandosi a
160
“forme complementari”, cioè integrative rispetto a quanto previsto
dalla legge, di promozione della salute e della sicurezza. Tale
adesione, di tipo volontario, secondo la prospettiva del Libro Verde
contribuirà “a sviluppare una cultura della prevenzione ed un migliore
livello di sicurezza e di protezione sul luogo di lavoro”. Ciò tornerà a
vantaggio della competitività dell’impresa quando nelle proprie
politiche di marketing potrà documentare e rendere conto ai propri
clienti, attraverso appositi strumenti di controllo e certificazione,
dell’impatto positivo delle proprie scelte. Questo atteggiamento potrà
essere ulteriormente incentivato nel caso in cui le organizzazioni,
private o pubbliche, privilegino nelle proprie gare d’appalto coloro
che abbiano adottato comportamenti improntati al progressivo
miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei propri
lavoratori.
Un secondo aspetto, sempre del Libro Verde, prende in
considerazione il problema dell’adattamento alle trasformazioni. Si
intende in questo caso porre l’accento sul fenomeno delle radicali
ristrutturazioni a cui le imprese devono sottoporsi per rispondere alle
sollecitazioni esterne, agli andamenti del mercato o alle condizioni
della competizione nazionale o internazionale. Tali processi di
riorganizzazione comportano sempre conseguenze che ricadono sugli
stakeholder nel loro complesso e sui lavoratori in particolare. Per
questo la Commissione ritiene utile che i processi di ristrutturazione
siano affrontati “in un’ottica socialmente responsabile” che, tenendo
conto degli interessi dei soggetti coinvolti garantisca “la
partecipazione ed il coinvolgimento delle persone interessate
attraverso una procedura aperta di informazione e consultazione.
(…). Questo tipo di procedura dovrebbe cercare di proteggere i
diritti dei lavoratori e di proporre loro, se necessario, una
riconversione professionale, modernizzando gli strumenti e le
procedure di produzione per sviluppare le attività del sito, una
strategia di mobilitazione dei fondi pubblici e privati e procedure di
informazione, di dialogo, di cooperazione e di partnership”.
Un terzo elemento strettamente collegato ai processi di
internazionalizzazione e globalizzazione, riguarda i diritti dell’uomo.
I processi di delocalizzazione delle attività produttive ed il
161
commercio internazionale pongono in relazione imprese collocate in
contesti molto differenziati in termini di tutele, garanzie e diritti
acquisiti dai lavoratori (ed in senso più esteso dai cittadini). Ciò pone
un problema molto complesso che associa elementi di tipo giuridico,
politico e morale sui quali molto spesso la capacità di azione delle
singole imprese resta molto limitata. Per questo la Commissione non
manca di evidenziare la necessità di adottare politiche pubbliche in
grado di incidere su tali fenomeni quando afferma che “la stessa
Unione Europea ha l’obbligo, nel quadro della sua politica di
cooperazione, di vigilare sul rispetto delle norme di lavoro, della
tutela dell’ambiente e dei diritti dell’uomo”. Ciò non esclude,
comunque, la necessità che le imprese responsabili si dotino di codici
di condotta che siano, anche in questo caso, complementari ed
integrativi della legislazione e delle disposizioni vincolanti di livello
nazionale, europeo o internazionale.
Un quarto aspetto rilevante per quanto attiene il presente contributo
su cui il Libro Verde pone l’accento riguarda la qualità sul lavoro. A
questa viene dedicata una specifica parte nella quale, oltre a ribadire
che “i dipendenti sono i principali interlocutori delle imprese”, si
auspica che nell’ambito della adozione di prassi socialmente
responsabili le imprese si impegnino a garantire una stretta
partecipazione del personale e dei suoi rappresentanti. Il dialogo
sociale con i rappresentanti del personale (che, si specifica, debbano
essere lungamente consultati) diviene uno strumento indispensabile
per definire i rapporti fra le imprese ed i loro dipendenti, per
individuare le questioni più rilevanti e per determinare,
conseguentemente, gli “strumenti volti a migliorare le prestazioni
sociali e ambientali dell’impresa”. Da ciò deriva che la formazione
debba essere ritenuta uno strumento utile per sensibilizzare la
direzione ed i dipendenti alle tematiche sociali ed ambientali in modo
che queste ultime si integrino con scelte strategiche finalizzate alla
sostenibilità economica dell’impresa.
1.6.2. Il tema del lavoro nel Progetto CSR-SC del
Governo Italiano: gli indicatori proposti
Come anticipato in precedenza nel predisporre il sistema di indicatori
contenuto nel Progetto CSR-SC il Ministero del Lavoro e delle
162
Politiche Sociali del nostro paese ha individuato otto categorie di
stakeholder la prima delle quali è costituita dalle risorse umane.
Per chiarire quali dimensioni siano ritenute rilevanti per la valutazione
del livello di responsabilità sociale nei confronti del lavoro nella
tabella che segue sono raccolti, suddivisi in 14 aree tematiche, i 35
indicatori specifici che il Ministero ha individuato.
Di questi 35 indicatori solamente 5 sono considerati indicatori
comuni (politica verso le persone con disabilità e le minoranze in
genere, ore di formazione per categoria, agevolazioni per i
dipendenti, infortuni e malattie, tutela dei diritti dei lavoratori)
ovvero implementabili anche dalle aziende con meno di 50
dipendenti. Tutti gli altri indicatori sono rivolti di preferenza alle
imprese di dimensioni maggiori.
Infine 19 sono gli indicatori di natura esclusivamente quantitativa, 7
quelli esclusivamente qualitativi ed i restanti 9 si prestano a
misurazioni sia dell’una che dell’altra natura.
163
Tab.1. – Elenco dei indicatori relativi alle risorse umane predisposto nel Progetto
CSR-SC del Governo Italiano
Indicatore
1.
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
1.6.
1.7.
2
2.1.
2.2.
2.3.
3.
3.1.
3.2.
3.3.
4
4.1.
4.2.
Composizione del personale
Categorie
Età
Anzianità
Provenienza territoriale
Nazionalità
Tipologia contrattuale
Titolo di studio
1
Turnover
Politiche occupazionali
Dipendenti e non dipendenti
Cessazioni per tipologia
Pari opportunità
Personale maschile e femminile (a livello di quadri e dirigenti)
Relazione tra salario maschile e femminile (per categorie e anzianità)
Politica verso le persone con disabilità e le minoranze in genere
Formazione
Progetti di formazione (tipologia)
Ore di formazione per categoria (al netto della formazione obbligatoria
prevista per legge o per contratto)
4.3. Stage
5.
Orari di lavoro per categoria
6.
Modalità retributive
6.1. Retribuzioni medie lorde
6.2. Percorsi di carriera
6.3. Sistemi di incentivazione
7.
Assenze
7.1. Giornate di assenza
7.2. Causale
8
Agevolazioni per i dipendenti
9
Relazioni industriali
9.1. Rispetto dei diritti di associazione e contrattazione collettiva
9.2. Percentuale di dipendenti iscritti al sindacato
9.3. Altro (ore di sciopero, partecipaz. dei lavoratori al governo aziendale, ecc.)
10
Comunicazione interna
11.
Sicurezza e salute sul luogo di lavoro
Infortuni e malattie
Progetti
12.
Soddisfazione del personale
12.1 Ricerche di customer satisfaction rivolte all’interno
.
12.2 Progetti
.
13
Tutela dei diritti dei lavoratori
13.1 Lavoro minorile
.
13.2 Lavoro forzato
164
Tipologia
C/A* X** Y**
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
A
C
A
C
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
A
A
A
A
A
A
A
C
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
●
A
A
A
A
●
C
A
●
●
●
A
●
●
A
●
C
A
●
●
A
●
●
●
●
●
●
●
.
14.
Provvedimenti disciplinari e contenziosi
Legenda
*: C: indicatori comuni; A indicatori addizionali
** X indicatori qualitativi; Y indicatori quantitativi
A
●
Fonte: Progetto CSR-SC Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
7
Gli strumenti per la gestione della responsabilità sociale
Il Social Statement con il relativo sistema di indicatori predisposto
dal Ministero del Lavoro definisce una procedura percorribile dalle
imprese italiane che vogliono aderire dal Progetto CSR-SC del
Governo. Tuttavia, più in generale, molteplici sono gli strumenti che
possono essere adottati dall’impresa che intende implementare
processi di gestione socialmente responsabili. Luciano Hinna (2005)
ne propone una classificazione in quattro categorie:
1) strumenti strategici;
2) strumenti operativi di relazione;
3) strumenti operativi di supporto;
4) strumenti accessori.
Due sono i principali strumenti strategici che costituiscono l’ossatura
di un processo finalizzato alla realizzazione di prassi socialmente
responsabili:
a) il manifesto dei valori e/o la carta dei valori nei quali sono
definiti i principi etici ed i valori che sovrintendono ogni decisione
assunta nella gestione dell’impresa;
b) il codice etico, documento in cui l’azienda dichiara i diritti, i
doveri e le responsabilità dell’impresa in tutte le sue componenti
nei confronti degli stakeholder.
Gli strumenti operativi di relazione sono, invece, finalizzati a
costruire, sviluppare e consolidare il rapporto dell’impresa con gli
stakeholder e, più in generale, con l’ambiente in cui essa opera. Tali
strumenti costituiscono la parte visibile a tutti delle azioni intraprese
dall’azienda per l’implementazione del processo di RSI. In
particolare essi sono costituiti da:
a) le relazioni, il dialogo ed il coinvolgimento degli stakeholder;
b) i documenti di rendicontazione (bilancio, relazione, rapporto /
sociale, ambientale e di sostenibilità).
165
Gli strumenti operativi di supporto costituiscono invece la parte che,
pur non essendo visibile a tutti, costituisce elemento indispensabile
affinché l’assunzione di responsabilità non si riduca semplicemente a
generiche dichiarazioni di intenti o semplici campagne informative
finalizzate al miglioramento della reputazione aziendale. Fra questi
Hinna individua:
a) un sistema informativo in grado di monitorare nel tempo,
accanto alle prestazioni economiche, il raggiungimento degli
obiettivi prefissati in ambito sociale ed ambientale;
b) un sistema di indicatori di performance finalizzato a fornire
misure il più possibile oggettive per la predisposizione degli
strumenti di rendicontazione;
c) la formazione del personale e la sensibilizzazione di tutti gli
altri stakeholder;
d) la gestione del patrimonio umano ed intellettuale interno al
quale si collegano gli elementi relativi alla salute, alla
sicurezza ed alla qualità del lavoro intesa nelle sue diverse
dimensioni;
e) gli altri standard utilizzabili in riferimento ad elementi quali
la qualità dei prodotti (Iso), la tutela ambientale (Emas), la
qualità e la tutela del lavoro (Ilo, SA8000 o AA1000), .
Sono, infine, considerati strumenti accessori:
a) il social auditing (interno ed esterno) ed il social rating;
b) le azioni di responsabilità sociale;
c) il comitato etico.
L’Autore, pur ritenendoli importanti, definisce accessori questi ultimi
strumenti poiché ritiene che la loro mancanza non vada ad inficiare
l’efficacia dell’intero processo.
In effetti il dibattito sull’efficacia delle procedure di social auditing,
social rating e certificazione è oggi ancora aperto.
Da un lato si ritiene auspicabile predisporre un’attività di verifica da
parte di organismi terzi e indipendenti che attestino l’effettivo
raggiungimento degli impegni volontariamente assunti e la
correttezza della rendicontazione fornita agli stakeholder. Ciò anche
in ragione del fatto che questi ultimi non sempre hanno la possibilità
di accedere ad informazioni complete (a volte ritenute sensibili dalle
166
imprese e, per questo, mantenute riservate) e che, anche nei casi in
cui esse siano liberamente accessibili, richiedono spesso capacità
interpretative e di analisi non banali.
Dall’altra parte si costata che le procedure di certificazione, di
auditing e di rating fino ad oggi applicate (non solo riferite all’ambito
sociale o ambientale ma anche a quello economico o alla qualità dei
prodotti) sono, a volte, divenute semplici adempimenti
formal-burocratici in grado di coniugare gli interessi economici di
enti certificatori con quelli delle imprese interessate a migliorare la
propria reputazione esibendo un semplice “marchio”. Un tale
approccio alla certificazione ha recentemente manifestato tutti i suoi
limiti nel momento in cui grandi aziende di ottima reputazione sia
nazionale che internazionale (non è neanche più il caso di citare
esempi ormai universalmente noti), in possesso di tali formali
attestazioni di affidabilità su ogni genere di aspetti rilasciate da
organismi terzi di controllo, sono improvvisamente crollate con
grande sorpresa di tutti i loro stakeholder.
Tenendo conto di queste due posizioni e con l’intento di fornire un
quadro sugli orientamenti internazionali sul tema già affrontato
riguardo alla realtà italiana, riteniamo opportuno, di conseguenza,
proporre in questa sede - fra i tanti esistenti – un modello di
rendicontazione sociale (Human Development Enterprise Index) ed il
più diffuso standard di accreditamento (SA8000) che specifica i
requisiti di responsabilità sociale che permettono ad un’azienda di
sviluppare, mantenere e rafforzare politiche e procedure per gestire le
situazioni che essa può controllare o influenzare e dimostrare alle
parti interessate che le politiche, le procedure e le prassi sono
conformi a tali requisiti. Essendo entrambi centrati su problematiche
legate al lavoro, sono stati assunti come riferimenti per lo
svolgimento della nostra analisi empirica, anche se non possono
identificarsi con la RSI intesa in senso pieno e complessivo così come
delineato in precedenza.
8
Lo Human Development Enterprise Index
In base alla convinzione che il rapporto fra impresa e collaboratori sia
un elemento cruciale per ogni sistema di rendicontazione sociale, Guy
167
Standing, economista dell’International Labour Office, alla fine degli
anni novanta ha predisposto uno specifico modello denominato
Human Development Enterprise Index. Tale indice, riprendendo il
concetto di human capabilities di Amartya Sen, si fonda sul
presupposto che ogni impresa socialmente responsabile dovrebbe
perseguire l’efficienza dinamica e la sostenibilità economica,
promuovendo allo stesso tempo lo sviluppo delle “capacità umane”
dei propri collaboratori ed una migliore giustizia distributiva. Per
questo l’impresa che punta allo sviluppo delle proprie risorse umane
“ha al suo interno meccanismi che assicurano lo sviluppo dei
collaboratori, in termini di sicurezza delle capacità di riproduzione
delle abilità (skills) dei lavoratori, salute e sicurezza sul lavoro, equità
sociale (non discriminazione), equità economica (sicurezza ed equità
del reddito) e democrazia (sicurezza della rappresentanza, presenza
di meccanismi di voice da parte dei lavoratori” (Standing, 1996).
Standing costruisce il suo indice sulla base di un sistema di quattro
indicatori scomposti ciascuno in una serie di sotto elementi.
1) Hde1: promozione di abilità (skills) dei lavoratori.
- Presenza di corsi di formazione professionale per i nuovi
assunti.
- Organizzazione di corsi di aggiornamento per i lavoratori
anziani per migliorare la performance e assicurare la
trasferibilità delle loro abilità nel mercato del lavoro.
- Gratuità dei corsi di formazione per i lavoratori.
- Presenza di strutture dedicate alla formazione o ricorso a
strutture esterne qualificate.
2) Hde2: salute e sicurezza sul lavoro ed equità sociale (non
discriminazione).
- Istituzione di un comitato o nomina di una persona
responsabile per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro.
- Numero annuo di incidenti sul lavoro inferiore al 50% della
media del settore.
- Numero annuo di giorni di lavoro persi per malattia inferiore al
50% della media del settore.
- Assenza di pratiche discriminatorie in base al sesso, razza e
disabilità.
168
- Impegno ed azioni positive da parte dell’impresa nelle pratiche
di selezione del personale.
3)
Hde3: equità economica.
- Meno del 5% dei lavoratori pagati al minimo salariale.
- Livello del salario minimo superiore al 50% del salario medio
pagato nell’impresa.
- Livello medio del salario corrisposto dall’impresa superiore alla
media del settore.
- Presenza di almeno dieci tipi di fringe benefit.
4)
Hde4: democrazia.
- Più del 50% della forza lavoro sindacalizzata e il management
escluso dal sindacato.
- Esistenza di un contratto collettivo.
- Più del 30% delle azioni dell’impresa posseduto da lavoratori e
dipendenti.
- Nomina del top management da parte dei dipendenti.
- Riconoscimento di uno schema di partecipazione ai profitti
nella determinazione dello stipendio.
Per ciascuno di tali indicatori viene definita una soglia minima di
soddisfacimento e si attribuisce il valore ‘1’ quando è raggiunta o
superata o il valore ‘0’ nel caso contrario.
In questo modo si ottiene un indice numerico variabile da un minimo
di zero ad un massimo di ventiquattro che costituisce un semplice
metodo di valutazione di facile applicazione nella comparazione di
realtà imprenditoriali collocate in un eterogeneo contesto
internazionale.
È importante sottolineare il fatto che le sperimentazioni di tale indice
compiute dall’ILO hanno evidenziato una certa correlazione positiva
(seppur limitata) fra il suo elevato livello e le performance
economiche dell’impresa.
9
Il Social Accountability8000
Lo standard SA8000 si sviluppa per iniziativa del Council of
Economic Priorities Accreditation Agency (CEPAA) che ne
predispone la pubblicazione nell’ottobre del 1997. Successivamente,
169
nel 2001, il Social Accountability International (SAI) ne compie un
aggiornamento predisponendone la versione attualmente utilizzata.
Lo standard ha origine dalla necessità di valutare su scala
internazionale il grado di tutela del lavoro ed il rispetto di requisiti
minimi in termini di diritti umani e diritti sociali dei lavoratori.
Esso è basato sulle prescrizioni dei principali documenti
internazionali (Dichiarazione Internazionale dei Diritti Umani
dell’Onu, Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia
dell’Onu, Convenzione Onu per l’eliminazione di ogni
discriminazione contro le donne e numerose altre Convenzioni
dell’Ilo) e prevede in particolare che l’azienda rispetti i requisiti
minimi relativi ad otto diversi aspetti.
1) Relativamente al lavoro infantile l’azienda:
- non deve usufruire o favorire l’utilizzo di lavoro infantile;
- deve stabilire procedure per il recupero dei bambini trovati a
lavorare in situazioni che ricadono nella definizione di lavoro
infantile, fornendo, in particolare, il supporto per la frequenza
scolastica;
- deve stabilire procedure per la promozione dell’educazione dei
bambini e dei giovani lavoratori soggetti a istruzione
obbligatoria (i bambini ed i giovani lavoratori non devono
essere impiegati al lavoro durante le ore scolastiche e la somma
giornaliera delle ore di scuola, lavoro e trasporto non deve
essere superiore alle 10);
- non deve esporre bambini e giovani lavoratori a situazioni
pericolose, insicure o nocive alla salute.
2) Relativamente al lavoro obbligato l’azienda:
- non deve usufruire o favorire l’utilizzo del lavoro obbligato;
- non deve richiedere al personale di lasciare depositi o
documenti di identità all’inizio dell’impiego.
3) Riguardo alla salute ed alla sicurezza l’azienda deve:
170
- garantire un luogo di lavoro salubre e sicuro, realizzando le
misure per la prevenzione di incidenti e danni alla salute, sia nel
corso del lavoro che in conseguenza di esso;
- nominare un rappresentante della direzione per la salute e la
sicurezza di tutto il personale, responsabile dell’attuazione di
tale punto della norma;
- assicurare che tutto il personale, anche di nuova assunzione,
riceva una formazione regolare e documentata in materia di
salute e di sicurezza;
- stabilire sistemi per individuare, evitare e affrontare potenziali
rischi per salute e sicurezza;
- garantire servizi igienici puliti, accesso ad acqua potabile,
strutture igieniche per la conservazione degli alimenti;
- garantire che i dormitori, se forniti al personale, siano puliti,
sicuri e idonei alle esigenze.
4) Riguardo alla libertà di associazione ed al diritto alla
contrattazione collettiva l’azienda deve:
- rispettare il diritto dei lavoratori di aderire e di formare
sindacati di propria scelta e il diritto alla contrattazione
collettiva;
- facilitare mezzi di alternativi di associazione sindacale e
contrattazione collettiva, nei casi in cui tali diritti siano limitati
per legge;
- garantire che i rappresentanti sindacali non siano discriminati
sul luogo di lavoro e che possano comunicare con i propri
associati.
5) Riguardo alla discriminazione l’azienda:
- non deve attuare discriminazioni in relazione a: razza, ceto,
origine nazionale, religione, invalidità, sesso, età, orientamento
sessuale, appartenenza sindacale o affiliazione politica;
- non deve interferire con il diritto del personale di seguire
principi e pratiche legate a razza, ceto, origine nazionale,
religione, invalidità, sesso, età, orientamento sessuale,
appartenenza sindacale o affiliazione politica;
171
- non deve permettere comportamenti, inclusi gesti, linguaggio o
contatto fisico, che siano sessualmente coercitivi, minacciosi,
offensivi o volti allo sfruttamento.
6) Riguardo alle pratiche disciplinari l’azienda non deve utilizzare
né favorire:
- punizioni corporali;
- coercizione mentale e fisica;
- violenza verbale.
7) Riguardo all’orario di lavoro l’azienda deve:
- adeguarsi all’orario lavorativo previsto dalle leggi in vigore del
Paese e dagli standard dell’industria;
- attenersi, nel caso di legislazione nazionale meno restrittiva del
requisito SA8000 ai seguenti parametri.
· Lavoro ordinario: non più di 48 ore settimanali con un
giorno di riposo settimanale.
· Lavoro straordinario: non più di 12 ore settimanali, con
remunerazione superiore e con adesione volontaria.
· Lavoro straordinario: se l’azienda è parte di una
contrattazione collettiva, la richiesta di straordinario deve
avvenire nel rispetto di tale accordo, che deve risultare
conforme ai criteri precedentemente esposti per far fronte
ad una domanda del mercato di breve periodo.
8) Relativamente agli aspetti retributivi l’azienda deve:
- garantire il rispetto dei minimi retributivi legali, il salario deve
comunque soddisfare i bisogni essenziali e deve essere
disponibile una parte di reddito aggiuntiva;
- garantire che le trattenute sul salario non siano dovute a scopi
disciplinari e che la busta paga sia chiara e comprensibile per
tutti (composizione del salario e benefici retributivi);
- garantire che la retribuzione sia elargita secondo le prescrizioni
legali e comunque nella maniera più conveniente per i
lavoratori;
172
- garantire che non siano stipulati contratti che evidenziano un
abuso della tipologia del rapporto di collaborazione, al fine di
non regolare la posizione contributiva del lavoratore;
- garantire che non siano applicati schemi di falso apprendistato,
per evitare l’adempimento degli obblighi in materia di lavoro.
Il Social Accountability 8000 definisce standard minimi relativi agli
aspetti ora elencati che sono applicati a livello internazionale anche
laddove le singole legislazioni contemplino tutele di ordine inferiore.
Allo stesso modo, in un’ottica di miglioramento continuo, ulteriori
requisiti vengono richiesti nei contesti in cui la normativa nazionale
già garantisce il raggiungimento di soglie più elevate. La norma,
infatti, oltre ad essere soggetta a revisioni periodiche, si evolverà di
pari passo con i miglioramenti proposti dalle parti interessate e con
tutte le correzioni che si renderanno necessarie, anche a fronte del
mutare del contesto di riferimento.
Il rispetto delle prescrizioni previste da SA8000 è verificato da un
ente esterno, indipendente e accreditato per il rilascio delle relative
certificazioni dal Social Accountability International (SAI).
La principale peculiarità della certificazione consiste nell’imporre
all’organizzazione non solo il rispetto dei requisiti al proprio interno
ma anche, ove possibile, nelle organizzazioni fornitrici e
subappaltatrici per un controllo della filiera nel suo complesso.
La procedura di certificazione prevede diverse fasi.
Nella fase preliminare tramite il coinvolgimento di ONG, sindacati e
associazioni di categoria vengono raccolte informazioni e dati critici
sull’azienda riguardo a: condizione economica, sociale, politica e
culturale dell’area territoriale in cui è collocato il sito da certificare;
la principale legislazione di riferimento (compresi i contratti collettivi
di categoria); le aree problematiche caratteristiche del settore di
attività.
Successivamente una prima parte della visita di certificazione ha lo
scopo di conoscere e valutare il sistema di responsabilità sociale
pianificato dall’organizzazione da certificare, di verificare la
conoscenza delle leggi applicabili, di raccogliere informazioni utili
(dimensione del sito, organizzazione logistica, caratteristiche degli
173
spazi di lavoro ecc.) per la pianificazione della seconda parte della
visita.
Nella seconda parte della visita di certificazione si valuta, attraverso
un sistema complesso di strumenti di analisi (interviste e focus group
con dirigenti e lavoratori, analisi del clima interno ecc.), l’effettiva
applicazione di prassi di responsabilità sociale e la capacità di
garantirne il miglioramento continuo. Nel caso in cui questa fase
abbia dato esito positivo l’ente accreditato provvede a rilasciare la
certificazione di conformità a SA8000 che avrà durata triennale.
Nel corso del triennio l’impresa è oggetto di visite ispettive
periodiche (solitamente semestrali) da parte dell’ente certificatore
finalizzate a verificare il rispetto dei requisiti per il mantenimento
della certificazione. Alla scadenza del triennio l’impresa può scegliere
di sottoporsi a nuove visite ispettive per il rinnovo della
certificazione.
174
Parte seconda
2 La ricerca
1
2.1. Oggetto, metodologia e strumenti dell’indagine
Come già avvenuto per i Rapporti annuali precedenti si è, anche in
questo caso, inteso approfondire i temi collegati con la salute, la
sicurezza e la qualità del lavoro, questa volta però andando ad
analizzare l’impatto su queste dimensioni nelle realtà aziendali che
hanno implementato strumenti e metodologie per l’adozione di una
gestione socialmente responsabile del proprio business.
Proprio in funzione della centralità che si è voluta attribuire al lavoro
si è stabilito di coinvolgere le 15 aziende che in Emilia-Romagna
possedevano, all’epoca della definizione del contesto da analizzare
(ottobre 2004), la certificazione SA8000. Due di queste aziende nel
periodo immediatamente successivo alla definizione del campione
non hanno rinnovato la certificazione e sono state, per questo,
escluse dall’indagine.
Le aziende così selezionate ed i rispettivi ambiti di attività sono i
seguenti.
1) Autolinee dell’Emilia S.p.a. di Reggio Emilia – Fornitura
trasporti pubblici locali.
2) Bolzoni S.p.a. di Piacenza – Produzione di attrezzature per
carrelli elevatori, piattaforme elevatrici e transpallet manuali.
3) Bormioli Luigi S.p.a. di Parma – Produzione e
commercializzazione di materiali in vetro.
4) Chicom Iga S.p.a. di Ravenna – Azienda che commercializza
prodotti e detergenti chimici per uso industriale e domestico.
5) Coop Italia/Coop Adriatica di Bologna – Cooperative
operanti nel settore della grande distribuzione.
6) Fondazione Aldini Valeriani di Bologna – Ente privato senza
scopo di lucro interessato allo sviluppo della cultura tecnica e
di eccellenza operante nel settore della formazione e della
consulenza.
175
7) Formula Servizi S.c.a.r.l. di Forlì-Cesena – Azienda operante
nel comparto dei servizi di pulizia.
8) Granarolo S.p.a. di Bologna – Azienda operante nella
produzione e commercializzazione di prodotti lattiero-caseari.
9) Gruppo Technogym di Forlì-Cesena – Produzione e
commercializzazione di attrezzature per il fitness e la
riabilitazione biomedica
10) Linea Sterile S.p.a. di Forlì-Cesena – Azienda operante nel
comparto dei servizi di pulizia e della gestione, lavaggio,
noleggio e sterilizzazione di biancheria.
11) Mollificio Fratelli Ballotta di Calderaia di Reno (Bologna) –
Azienda operante nel settore delle produzioni metalliche.
12) Piacenza ‘74 S.c.a.r.l. di Piacenza – Cooperativa operante nel
settore edile e immobiliare.
13) T&D S.p.a. di Bologna – Azienda operante nel settore della
consulenza (servizi di assistenza tecnica nell’area della
programmazione e attuazione di politiche pubbliche, della
valutazione dei progetti, del controllo della gestione).
Preliminarmente è stata predisposta una scheda di rilevazione
finalizzata a raccogliere le informazioni più significative sulle singole
realtà aziendali riguardo a:
a) aspetti economici (fatturato, utile, distribuzione del valore
aggiunto);
b) risorse umane (numero dei dipendenti per età, sesso, anzianità di
servizio, titolo di studio, tipologia contrattuale, retribuzione ecc.);
c) attività formative svolte;
d) strumenti utilizzati per la realizzazione di prassi socialmente
responsabili ed eventuali certificazioni relative alla qualità dei
prodotti, alla tutela ambientale, all’autocontrollo igienico, alla
sicurezza ed al commercio elettronico;
e) realizzazione di iniziative a favore della comunità;
f) esperienze significative ed innovative in tema di responsabilità
sociale.
La somministrazione è avvenuta per via postale (per posta
tradizionale o tramite posta elettronica) previo invio di una lettera,
indirizzata al Responsabile aziendale per la certificazione SA8000
176
che, oltre ad illustrare obiettivi e finalità dell’indagine, richiedeva la
disponibilità dell’azienda a collaborare.
Dieci sono state le aziende che hanno fornito la loro collaborazione
restituendo la scheda compilata (anche se in alcuni casi solo
parzialmente). Nella fase successiva, sulla base dell’analisi dei dati
raccolti tramite le schede pervenute, fra le dieci aziende coinvolte ne
sono state individuate cinque nelle quali si sono riscontrate
realizzazioni di particolare interesse relativamente al rapporto fra
adozione di pratiche di responsabilità sociale e salute, sicurezza e
qualità del lavoro. Per la scelta di tali aziende si è utilizzato un
criterio che rendesse il campione rappresentativo della realtà
economico-produttiva emiliano-romagnola nella quale, al fianco di
realtà economiche di grandi dimensioni con una storia ormai
consolidata in termini di tutela dei consumatori e di sensibilità sui
temi socio-ambientali, vanno emergendo interessanti esperienze
messe in atto da quelle piccole o medie imprese che restano la realtà
nettamente prevalente nel tessuto produttivo regionale. Per questo al
fianco delle esperienze di Coop Italia/Coop Adriatica e Granarolo si è
ritenuto opportuno approfondire i casi di Chicom Iga, Formula
Servizi e T&D, tutte hanno accettato sia di collaborare nella indagine
si di consentire poi la pubblicazione delle principali risultanze.
Una precisazione specifica deve essere compiuta riguardo alla scelta
di effettuare uno studio di caso presso Coop. In questo caso titolare
della certificazione SA8000 (e quindi dotata della caratteristica
necessaria per essere inserita nel campione) è Coop Italia che funge
da centrale d’acquisto e marketing al servizio delle numerose
cooperative ad essa associate. Essa, con oltre 360 occupati distribuiti
nelle sedi di Bologna e Firenze (esclusivamente dirigenti, quadri e
impiegati) ha la funzione di selezionare i fornitori, stipulare contratti
e protocolli di fornitura e garantire che le merci ed i servizi acquistati
per conto delle cooperative associate giungano a queste ultime nei
tempi e secondo le modalità prestabilite.
Poiché tale attività è strettamente collegata con quella dei propri soci
e ritenendo necessario fornire un quadro più esaustivo del ‘sistema
Coop’ nel suo complesso si è pensato fosse opportuno integrare
l’analisi di Coop Italia con quella di una delle più grandi
177
organizzazioni ad essa associate ed operante in Emilia Romagna. Di
qui la scelta di estendere lo studio a Coop Adriatica che, pur non
essendo ancora titolare della certificazione SA8000, per le sue
dimensioni e per le molteplici realizzazioni nell’ambito della
responsabilità sociale costituisce un contesto di analisi utile per
comprendere appieno la complessa realtà di una delle maggiori
organizzazioni della grande distribuzione in Italia.
In ciascuna delle cinque aziende prescelte sono stati, quindi, condotti
veri e propri studi di caso seguendo la metodologia ormai
consolidata a livello sociologico, peraltro già adottata nelle
rilevazioni effettuate per i rapporti precedenti.
Preliminarmente è stata compiuta un’analisi documentale utile a
definire il contesto dell’analisi e sono stati raccolti ed esaminati, ove
esistenti, i codici di condotta, le carte dei valori ed ogni altro
eventuale strumento di rendicontazione (bilancio sociale, bilancio di
sostenibilità, ecc.).
Successivamente si è proceduto ad effettuare lo studio di caso vero e
proprio adottando un approccio metodologico di tipo
quali-quantitativo.
In particolare l’analisi di ciascun contesto è stata condotta con
l’ausilio di due strumenti: uno di natura qualitativa, costituito da
una griglia di temi da sottoporre tramite intervista semistrutturata
a testimoni significativi; l’altro di tipo quantitativo costituito da un
questionario somministrato ad un campione casuale di lavoratori
di dimensione non inferiore al 10% del totale dei dipendenti.
Nella prima fase di carattere qualitativo si è provveduto ad
individuare almeno tre testimoni significativi per ciascuna azienda
con l’obiettivo di rendere conto sia del punto di vista della direzione
aziendale sia del punto di vista dei lavoratori. Per questo, ove
possibile, si sono effettuate interviste con:
1) il Responsabile per la Direzione aziendale della certificazione
SA8000;
2) il Rappresentante dei lavoratori per la certificazione SA8000 o,
in alternativa, rappresentanti delle organizzazioni sindacali
(quest’ultimo è il caso di Coop Adriatica che, non essendo
178
ancora titolare della certificazione SA8000, non prevede la
specifica figura del Rappresentante dei lavoratori);
3) almeno un altro testimone significativo di volta in volta
individuato fra coloro che per ruolo o per competenze
possedessero una approfondita conoscenza del tema oggetto di
indagine.
Ad essi è stata somministrata un’intervista condotta dal rilevatore
sulla base di una griglia semi-strutturata di domande riconducibili alle
seguenti macroaree tematiche:
a) descrizione dell’impresa;
b) significato attribuito al tema della responsabilità, motivazioni che
hanno indotto alla sua implementazione, strumenti e modalità
adottate;
c) criteri adottati per la suddivisione dei profitti ed il rapporto con
gli azionisti;
d) rapporto fra azienda e lavoratori/collaboratori;
e) rapporto fra azienda e fornitori;
f) rapporto fra azienda e clienti/consumatori/utenti;
g) rapporto fra azienda comunità e ambiente;
h) rapporto fra azienda ed istituzioni pubbliche.
Pur esaminando le modalità di relazione dell’azienda con tutti i suoi
principali stakeholder l’elemento maggiormente sviluppato nel corso
delle interviste è stato, ovviamente, quello riferito al lavoro. Si sono
in particolare approfonditi i temi ed i problemi collegati a: salute,
sicurezza e qualità del lavoro, conflittualità nei rapporti di lavoro,
partecipazione, formazione, discriminazione e pari opportunità. Le
interviste sono state audio-registrate e successivamente sbobinate
nella loro interezza.
La seconda fase di indagine ha, invece, utilizzato strumenti di tipo quantitativo.
In tre dei cinque casi analizzati (Chicom Iga, Formula Servizi e T&D), è stato
somministrato ad un campione di lavoratori dell’azienda un questionario del
tutto analogo (seppure ridotto e sintetizzato) a quelli utilizzati per le simili
analisi pubblicate nei precedenti Rapporti annuali, nel quale, dopo una prima
parte finalizzata a conoscere le proprietà oggettive del campione di indagine
(età, genere, titolo di studio, qualifica professionale), si sono invitati gli
interessati a fornire le loro valutazioni (secondo una scala compresa fra il
valore 0 corrispondente alla valutazione minima e 5 corrispondente alla
179
valutazione massima) riguardo ad alcuni elementi riconducibili alle cinque
dimensioni della qualità del lavoro:
1) dimensione economica (retribuzione, incentivi economici, previdenza,
sicurezza del posto di lavoro, ecc.);
2) dimensione della complessità (rapporti con capi e colleghi, soddisfazione
ricavata dal lavoro, riconoscimento del merito, prospettive e opportunità di
carriera, varietà e ricchezza del lavoro, ecc.);
3) dimensione dell’autonomia (libertà organizzativo-gestionale dei tempi di
lavoro, assunzione di responsabilità, accesso ad informazioni aziendali,
gestione di ferie e permessi, ecc.);
4) dimensione del controllo (partecipazione alle decisioni, possibilità di incidere
sui processi lavorativi, sulle tipologie di prodotto/servizio offerto, sulle
tecnologie e gli strumenti utilizzati nella produzione, rappresentanza dei
lavoratori, ecc.);
5) dimensione ergonomica così articolata:
- ergonomia legata all’ambiente di lavoro (presenza di rumori, polveri,
fumi o esalazioni, qualità delle tecnologie utilizzate, illuminazione,
ecc.);
- ergonomia legata all’intensità di lavoro (fatica fisica, ripetitività, stress
mentale o cognitivo, ecc.).
I dati così raccolti sono stati codificati e trasferiti su supporto
informatico tramite database per poi essere successivamente elaborati
statisticamente con SPSS (Statistical Package for the Social
Sciences).
Nei due studi di caso restanti, in luogo della somministrazione diretta
del questionario ad un campione di lavoratori, si è ritenuto opportuno
utilizzare le analisi sul clima aziendale già effettuate nelle singole
aziende (Granarolo e Coop Adriatica) cortesemente forniteci. Tale
scelta è stata motivata da un triplice ordine di ragioni.
In primo luogo si è riscontrata una buona corrispondenza fra la
metodologia adottata, gli strumenti e, soprattutto, l’oggetto di dette
analisi interne e metodologie, strumenti ed obiettivi dell’indagine da
noi condotta.
In secondo luogo, tenendo conto delle dimensioni degli organici delle
due realtà analizzate (Granarolo alla fine del 2003 contava 820
dipendenti e Coop Adriatica circa 8.000), le analisi effettuate
internamente hanno coinvolto un numero di lavoratori molto più
elevato di quello realisticamente ottenibile attraverso una
somministrazione condotta con risorse più ridotte ed in tempi
ristretti.
180
In terzo luogo l’èquipe di ricerca ha convenuto con le due Direzioni
aziendali sulla non opportunità di coinvolgere i rispettivi lavoratori in
due rilevazioni ravvicinate nel tempo e con oggetto analogo.
Nonostante la parziale disomogeneità della metodologia e degli
strumenti adottati, la qualità e la completezza delle informazioni
raccolte attraverso tali analisi di clima aziendale hanno, comunque,
garantito all’èquipe di ricerca di raggiungere gli obiettivi conoscitivi
prefissati.
I dati e le informazioni raccolte tramite i questionari, le interviste e le analisi di
clima costituiscono la base informativa dei cinque studi di caso contenuti nei
paragrafi che seguono.
È doveroso, qui, esplicitare il nostro sentito ringraziamento a tutte le imprese ed
alle persone che hanno collaborato all’indagine fornendo con cortesia e
disponibilità i materiali e le informazioni che costituiscono la base informativa
della presente ricerca. Un particolare riconoscimento va a Chicom Iga, Coop
Italia, Coop Adriatica, Granarolo, Formula Servizi e T&D che, nel pieno
rispetto del principio di trasparenza, hanno concesso ai ricercatori di compiere
presso le loro aziende gli studi di caso.
2
L’analisi di sfondo: le aziende certificate SA8000
In una prima fase dell’indagine empirica, come già anticipato, si è
provveduto a somministrare alle aziende che costituiscono il nostro
campione (pari alla totalità delle imprese certificate SA8000 in Emilia
Romagna) una scheda di rilevazione, al fine di raccogliere
informazioni per delineare un profilo delle realtà in oggetto dal punto
di vista della dimensione economica, delle risorse umane presenti,
degli strumenti adottati per la promozione di pratiche socialmente
responsabili e delle eventuali certificazioni conseguite. Le 13 aziende
individuate costituiscono un campione di imprese molto eterogeneo,
in termini di natura giuridica, grado di complessità, dimensione e
settore di intervento.
Più in particolare, per quanto concerne la natura giuridica,
prevalgono le Società per Azioni seguite dalle Cooperative, tra i cui
valori fondanti rientra la mutualità e il miglioramento delle condizioni
economiche e lavorative dei soci.
Considerando l’ampiezza dell’organico aziendale emerge una equa
presenza di imprese di piccole, medie e grandi dimensioni, a
dimostrazione del fatto che la sensibilità verso la responsabilità etica
181
e sociale non riguarda esclusivamente grosse realtà economiche, ma
anche PMI, il cui impegno gode tuttavia di minor notorietà, in quanto
tendenzialmente operanti su mercati locali e non sempre propense a
dare una comunicazione formale alle proprie iniziative. Rientrano in
quest’ultima tipologia, per altro caratteristica del tessuto produttivo
emiliano romagnolo, aziende quali il Mollificio Fratelli Ballotta (con
tredici dipendenti), Chicom.Iga (con quattordici operatori), T&D
(con un organico di cinque lavoratori a tempo indeterminato e 42
collaboratori), la Fondazione Aldini Valeriani (con 15 dipendenti e 30
collaboratori), Linea Sterile (con 137 lavoratori). Ad esse si
affiancano imprese di maggiori dimensioni, come Autolinee
dell’Emilia S.p.a. (252 operatori), Bolzoni S.p.a. (250 dipendenti),
Bormioli S.p.a. (oltre 900 dipendenti), Formula Servizi (1291
lavoratori), e realtà aziendali più note e con un percorso ormai
consolidato in termini di attenzione ed impegno verso le tematiche
etico-sociali, quali Technogym, Granarolo e Coop.
Un’estrema diversificazione si evidenzia anche in riferimento al
settore merceologico: quattro aziende operano nel comparto dei
servizi (più in particolare, due si occupano di pulizie, due di
consulenza, programmazione e formazione), quattro sono attive nel
settore dell’industria (più precisamente: una produce e
commercializza materiali in vetro, una attrezzature per il fitness e la
riabilitazione biomedica, una attrezzature per carrelli elevatori,
piattaforme elevatrici e transpallet manuali, una realizza produzioni
metalliche), una opera nella grande distribuzione, una esercita nel
comparto del commercio (o meglio commercializza prodotti e
detergenti per uso industriale e domestico), una si occupa di forniture
di trasporti pubblici locali, una lavora nel settore alimentare (più
propriamente produce e commercializza prodotti lattiero-caseari),
una opera nel settore edile ed immobiliare. Quest’ultima è la prima
azienda attiva nel settore delle costruzioni ad aderire allo standard
internazionale SA8000, che presuppone la diffusione e il
consolidamento lungo tutta la catena di fornitura della cultura della
responsabilità sociale d’impresa, valutando l’ottemperanza di alcuni
requisiti minimi in termini di diritti umani/sociali e stimolando piani di
miglioramento. Un atteggiamento particolarmente apprezzabile in un
182
settore come quello edile, contraddistinto da una notevole
frammentazione delle attività e da un ampio ricorso alla pratica del
sub-appalto, elementi che rischiano di pregiudicare la qualità della
vita lavorativa, nonché il livello minimo di tutela sul lavoro.
La differenziazione riscontrata in merito all’ambito produttivo
sembra avvalorare ulteriormente l’idea che la sensibilità verso le
tematiche sociali, etiche ed ambientali stia divenendo un requisito
sempre più imprescindibile per un’azienda capitalistica moderna,
estendendosi pertanto nella pratica a molteplici comparti
occupazionali. La stessa introduzione di SA8000 nel nostro paese ha
promosso un rafforzamento del dibattito pubblico sul tema della
responsabilità d’impresa: un ruolo fondamentale è stato giocato in tal
senso da Coop Italia, la prima azienda in Europa a conseguire la
certificazione in oggetto (nel 1999) ed a coinvolgere alcune imprese
fornitrici nel proprio progetto etico, come accaduto ad esempio nel
caso di Granarolo e Chicom.Iga.
D’altronde, il rispetto e l’adesione al sopraccitato standard implica
una responsabilità sociale ed etica che risale all’origine del processo
produttivo, rendendo partecipi tutte le figure sociali impegnate
nell’attività di fornitura. Una simile sensibilità appare discretamente
radicata sul territorio regionale, con una distribuzione piuttosto
capillare che comprende, nel 2004, quasi tutte le province emiliano
romagnole, con le sole eccezioni di Ferrara, Modena e Rimini. In
particolare, Bologna, con cinque aziende certificate (Coop Italia,
Fondazione Aldini Valeriani, Granarolo, Mollificio Fratelli Ballotta,
T&D), risulta la provincia più impegnata dal punto di vista etico e
sociale, anche grazie alla presenza di grosse realtà economiche come
Coop Italia e Granarolo, seguita da Forlì-Cesena e Piacenza,
rispettivamente con tre e due esperienze significative in questo senso.
Tutte le restanti province (Parma, Ravenna, Reggio Emilia)
presentano un unico caso di impresa che abbia conseguito, entro
ottobre 2004, la certificazione etica secondo lo standard
internazionale SA8000.
Oltre a questo riconoscimento, è patrimonio comune delle imprese
considerate l’adesione al Sistema di qualità Iso 9001, che stabilisce
delle direttive di base per la promozione e l’attivazione di un
183
management di qualità nell’ambito dello sviluppo, della produzione,
del montaggio e dell’assistenza ai clienti. Alcune realtà coniugano
questi aspetti con un’attenzione alla tutela ecologica e al controllo
dell’impatto ambientale, venendo ad ottenere al contempo la
certificazione ambientale degli impianti secondo la normativa
internazionale Iso 14001 o il regolamento Emas. Questa dimensione
non appare egualmente importante per tutte le aziende: nel settore
del commercio l’impatto sull’ambiente è sicuramente minore
piuttosto che nell’industria o nei servizi di pulizia, dove l’impegno
per la salvaguardia e la tutela dell’ecosistema e delle risorse naturali
diventano parte integrante di un percorso più ampio di responsabilità
etica e sostenibilità sociale. È il caso di Formula Servizi e di Linea
Sterile che, occupandosi, in generale, di pulizie, e, più in particolare,
di servizi di pulizia in strutture socio-sanitarie la prima e di lavanderia
industriale la seconda, si impegnano a avviare azioni concrete di
ricerca di soluzioni eco-compatibili, tese al risparmio o alla buona
gestione delle risorse naturali, alla prevenzione o, se non altro, alla
limitazione dell’inquinamento. Nonché di Granarolo e Technogym,
realtà di ampie dimensioni che hanno da tempo intrapreso la strada
verso la responsabilità sociale.
Inoltre, alcune delle aziende considerate fanno ricorso a strumenti di
valutazione del comportamento aziendale quali il Bilancio sociale,
ambientale e di sostenibilità, mezzi di rendicontazione del
comportamento aziendale nei riguardi dell’intera realtà in cui essa è
attiva, che permettono ai diversi interlocutori di verificare la coerenza
e la validità dell’azione sociale avviata dall’impresa. D’altronde, gran
parte delle realtà oggetto di analisi hanno posto in essere attività tese
a sostenere le comunità in cui operano, consistenti in donazioni
elargite ad associazioni, organizzazioni o istituzioni locali, in
sponsorizzazioni di eventi sportivi, iniziative culturali ed interventi in
favore della salute-qualità della vita. A queste iniziative si affiancano
vere e proprie “forme di investimento nella comunità”, che
presuppongono un’impostazione a carattere strategico, pianificata in
stretta collaborazione con le istituzioni locali e le controparti. Non
mancano infine azioni umanitarie in favore dei Paesi del Terzo mondo
o delle collettività recentemente colpite da guerre.
184
Brevi e più approfonditi profili delle aziende che costituiscono il
campione esaminato, delineati sulla base delle informazioni raccolte
mediante la scheda di rilevazione somministrata e attraverso
documenti pubblici, si possono trovare in appendice al contributo.
3 3. Gli studi di caso
1
3.1. Una premessa
Come abbiamo evidenziato in precedenza non sono, ad oggi, ancora
stati predisposti metodi e strumenti omogenei e condivisi
universalmente per valutare oggettivamente le prestazioni
dell’impresa per riferimento alla RSI. Contrariamente a quanto
avviene per gli aspetti economici (utile, profitto, tasso di redditività)
e nonostante le iniziative avviate internazionalmente in questa
direzione non si è ancora dato vita ad un sistema di indicatori che
possano permettere di valutare comparativamente le performance
aziendali ed il livello di efficacia delle loro scelte responsabili.
Per questo senza alcun intento comparativo l’approccio adottato
dall’equipe di ricerca ha inteso affrontare l’indagine sul campo
attraverso una modalità di analisi che, seppure fondata su criteri e
dimensioni largamente condivisi (tratti appunto dai modelli di cui si è
dato conto in precedenza), fosse al contempo adatta a cogliere le
eterogenee peculiarità dei diversi contesti osservati. In questo senso
l’adozione del metodo dello studio di caso ha permesso di fare
emergere dati “peculiari” di natura quantitativa ed elementi qualitativi
che, dialogando fra loro, hanno consentito di fornire per ciascuna
realtà presa in considerazione un quadro d’insieme ampio, articolato
e significativo anche per le esigenze della nostra analisi.
2
3.2.
Il caso di Chicom S.p.A
3.2.1. L’azienda
Chicom.Iga S.p.a. è una piccola impresa commerciale che distribuisce
prodotti di largo consumo appartenenti ad imprese terze (in
particolare prodotti per la detergenza, per la casa, per il barbecue ed
il caminetto, per la cura e l’igiene della persona, avvolgenti per
alimenti e guanti in lattice) ai canali della grande distribuzione come
185
Carrefour, Conad, Coop, Esselunga ed altre forme della distribuzione
organizzata. L’azienda è stata fondata a Russi nell’anno 1981 da due
società al 50% ciascuna, la Chimicom S.r.l. (oggi Gruppo Chimicom
S.p.a.) e la Giesse S.r.l. Nel 1989 la società Giesse fu acquisita da
ALCAN, uno dei due maggiori gruppi mondiali per la produzione di
alluminio, e trasformata in Alcanital Service S.r.l. Nel frattempo
Chimicom Commerciale S.r.l. si trasformò in Chicom S.p.a.,
acquisendo nuove linee di prodotto, nuovi marchi e focalizzandosi su
nicchie di mercato. Una simile intuizione non completamente
condivisa dalla componente societaria che faceva capo ad ALCAN
portò ad una separazione consensuale: il Gruppo Chimicom S.p.a.
acquisì pertanto il pacchetto azionario di Chicom S.p.a. posseduto da
Alcanital S.r.l., compreso il marchio Rollopack. Era il 1994 ed
iniziava il nuovo corso della commerciale Chicom S.p.A, che
successivamente acquisiva il ramo d’azienda della società Iga S.r.l.
produttrice di guanti in lattice, trasformandosi in Chicom.Iga S.p.a.
L’azienda ha raggiunto nel 2003 un fatturato pari a 23.233.658 di
euro ed un utile netto di 76.446 euro, entrambi in lieve diminuzione
rispetto all’anno precedente quando ammontavano rispettivamente a
24.011.823 di euro e 91.444 euro. Il valore aggiunto si stanzia invece
attorno a 10.096.867 di euro.
L’organico aziendale è composto da 14 operatori, di cui 5 di sesso
femminile, pari al 36% del totale. Il personale si concentra
prevalentemente nelle due classi di età più alte, più precisamente il
43% in quella superiore ai 45 anni ed il 36% in quella compresa tra i
33 ed i 45 anni. Percentuali significativamente inferiori di lavoratori
hanno invece un’età compresa tra i 26 ed i 32 anni (il 14%) e tra i 18
ed i 25 anni (il 7%). Solo un lavoratore risulta assunto in azienda da
meno di 2 anni, mentre il 21% del personale è presente in azienda da
un periodo compreso tra 3 e 5 anni, il 36% tra 5 e 10 anni, il 21% tra
11 e 20 anni ed il 15% tra 21 e 30 anni.
Relativamente al titolo di studio posseduto, il 72% dell’organico ha
conseguito il diploma di scuola superiore, mentre il restante 28% è
equamente distribuito tra coloro che hanno conseguito la licenza
media e coloro che hanno ottenuto la laurea.
186
Considerando la tipologia contrattuale, solo un lavoratore, inserito
nel 2003, è impiegato con un contratto a tempo determinato, mentre i
restanti 13 sono assunti con contratto a tempo pieno ed
indeterminato. Il 79% del personale è assunto con la qualifica
impiegatizia, solo il 14% invece con quella di dirigente e il 7% con
quella di quadro.
3.2.2. La politica di responsabilità sociale
Chicom, dopo aver conseguito la certificazione secondo la norma Iso
9001:1994, nel 2001 ha integrato il proprio Sistema di gestione per la
qualità con la norma SA8000. Una scelta dettata dal coinvolgimento
dell’azienda nel progetto etico di Coop Italia, di cui è fornitrice di un
prodotto a marchio (i guanti in lattice), mediante la condivisione di
un codice di condotta comune, nonché dalla volontà di formalizzare
un impegno orientato alla tutela dei dipendenti. “Diciamo – afferma il
portavoce aziendale - che le tematiche della SA8000 erano già
presenti all’interno dell’azienda e la certificazione è stato uno
sforzo che l’azienda ha fatto per renderle più evidenti. Quindi essere
un’impresa responsabile vuol dire mettere il lavoratore al centro
dell’azienda, non serve la certificazione SA8000 per vendere di più
o per appenderla al muro, ma per fare un discorso di responsabilità
e di qualità, che non riguarda solo il prodotto, ma anche tutte le
persone che lavorano dentro l’azienda” (dirigente).
L’azienda identifica i vantaggi della certificazione ottenuta in due
direzioni: “la prima verso il cliente ed il consumatore che possono
apprendere attraverso tale certificazione che il prodotto
commercializzato risponde a taluni requisiti etici; la seconda
riguarda il miglioramento delle condizioni di lavoro, sia interne
all’azienda - come si evince dall’analisi delle interviste effettuate sia dei fornitori”. In riferimento a questi ultimi, infatti, l’impresa
risulta adottare una duplice selezione, in base alla qualità del
servizio-prodotto fornito e alla rispondenza ai requisiti minimi
imposti dalla norma SA8000. In quest’ottica al fornitore viene
sottoposto un questionario di auto-valutazione e richiesta la
condivisione del codice etico aziendale: “due tipi di criteri, quello
inerente alla qualità, cioè qualità del servizio-prodotto e consegne,
187
ossia quello tipico del sistema qualità Iso e una valutazione vera e
propria in base a quelle che sono le richieste di SA8000, quindi
l’attenzione sui lavoratori... Comunque la prima selezione viene
fatta dalla direzione generale che è anche la responsabile degli
acquisti in occasione del primo contatto del fornitore, poi gli
mandiamo un questionario di auto-valutazione in cui gli chiediamo
la condivisione del codice etico, quindi vediamo se ci sono delle
aree carenti di possibile miglioramento” (dirigente).
Per quanto riguarda invece la clientela, l’azienda effettua periodiche
analisi sulla soddisfazione del compratore, quest’anno misurata
mediante l’individuazione di 4 indicatori: “il numero dei contratti
con i clienti, il contenimento/aumento del listino dei prodotti, il
fatturato e il miglioramento della redditività del cliente”, dalla cui
osservazione emerge un generale apprezzamento verso Chicom.
Infine, relativamente all’attenzione rivolta verso la comunità,
l’azienda da anni sponsorizza una manifestazione culturale locale, la
mostra “Libri mai mai visti”, in precedenza finanziata dalla Pubblica
Amministrazione. Mentre, in tema di tutela ambientale l’azienda si
impegna nella raccolta differenziata di carta e nel riutilizzo dei
raccoglitori.
3.2.3. Qualità e sicurezza del lavoro
La certificazione SA8000 sembra dare visibilità e concretezza ad un
impegno diretto prevalentemente dall’azienda verso il personale
interno, soddisfacendone le richieste e creando un clima positivo in
grado di stimolarne l’attività professionale.
Gli stessi collaboratori interni riconoscono una simile attenzione e
muovono apprezzamenti verso l’ambiente di lavoro in cui operano.
Tra le variabili che concorrono a qualificare in senso positivo il
lavoro, risultano particolarmente rilevanti le variabili organizzative
cosiddette “soft”, quali le relazioni interpersonali maturate, sia con i
colleghi che con i superiori. La ridotta dimensione di Chicom ha
certamente favorito l’instaurarsi di un buon clima interno: più volte
nel corso delle interviste l’azienda è stata definita come “una grande
famiglia”. Una simile immagine può, tuttavia, risultare un’arma a
doppio taglio: da un lato, infatti, sicuramente il delinearsi di un
188
gruppo di lavoro armonioso e collaborativo è una componente
rilevante per accrescere la motivazione e la soddisfazione negli
operatori coinvolti; dall’altro il fatto di essere una grande famiglia
rischia di portare ad un atteggiamento troppo rilassato e perciò a
volte poco professionale. In quest’ottica si orientano le parole del
rappresentante aziendale intervistato: “a volte questo clima così
molto familiare paradossalmente può essere un limite, perché si
rischia di dire, come a casa, questa cosa qui posso farla più tardi,
oppure me la hai chiesta tu la farò dopo, io parlo della mia
esperienza che comprende anche un compito di controllo sul lavoro
degli altri, io a volte ho riscontrato questo aspetto, invece le cose
vanno fatte, non dico acriticamente, però se il tuo superiore ti dice
di farle tu le fai, al massimo puoi non essere d’accordo e faglielo
notare, però il fatto di essere una grande famiglia non deve
giustificare un tuo lassismo o una tua rilassatezza”.
Pur essendo le principali strategie aziendali definite dalla direzione
aziendale, viene comunque garantita un’azione informativa estesa a
tutti i dipendenti, in questo modo resi partecipi delle scelte adottate,
mediante momenti istituzionali come riunioni o incontri. La
circolazione dell’informazione non è tuttavia limitata alla direzione
top-down, ma assicurata anche dalla base verso i livelli superiori, che
vengono così messi a conoscenza di eventuali problematiche legate
alle attività operative o di possibili richieste. “Le decisioni le prende
la direzione però ogni qual volta prendono una decisione strategica
vengono riuniti i dipendenti per informarli di questo(..) Se le
decisioni sono prese dai superiori però poi viene ascoltato il parere
dei dipendenti perché poi sono i dipendenti ad essere in diretto
contatto con i fornitori o con i clienti, quindi viene chiesto un loro
parere. In che modo vengono informati i dipendenti e chiesto il loro
parere?Per le decisioni importanti con riunioni ed incontri che
coinvolgono tutto il personale, oppure per compartimenti, in base
agli uffici interessati” (lavoratore).
Anche il flusso di informazioni attinenti le tematiche sindacali risulta
garantito, pur mancando all’interno dell’azienda la figura del
rappresentante sindacale dei lavoratori, informalmente sostituto da un
operatore particolarmente attento a questi aspetti: “un
189
rappresentante sindacale formale non c’è, comunque i contatti
informali ci sono, c’è una persona che informalmente rende
partecipi i lavoratori. La sua presenza non è mai stata ostacolata, il
motivo della sua assenza credo sia prevalentemente numerico ed
anche il fatto che i sindacati non hanno mai sollecitato una loro
rappresentanza interna ” (dirigente). In seguito alla certificazione
SA8000 è stata inoltre allestita un’urna per raccogliere le eventuali
lamentele ed osservazioni sollevate dai dipendenti, quale ulteriore
strumento per consentire un effettivo scambio di opinioni.
Il grado di autonomia lasciato ai lavoratori dipende ovviamente dalle
singole mansioni; comunque, i soggetti interpellati constatano in
generale un discreto livello di indipendenza nella gestione delle
proprie commesse o dei propri clienti. Non mancano tuttavia direttive
di base, azioni di coordinamento e sistematici controlli: “abbiamo un
capo ufficio che coordina inizialmente i vari lavori, al di là di
questo svolgiamo il lavoro tutti insieme muovendoci liberamente”
(lavoratore).
Una discreta autonomia viene riscontrata anche in riferimento alla
gestione di orari e ritmi di lavoro, nonché alla gestione dei permessi o
degli accordi con i colleghi. A detta del portavoce aziendale, infatti,
pur essendovi obiettivi da concretizzare manca quella frenesia e
quella continua pressione legata al raggiungimento del risultato che
spesso in tante aziende è causa dell’insorgere di uno stato di stress ed
ansia nei lavoratori.
Un sufficiente apprezzamento viene inoltre registrato in riferimento
alle caratteristiche ergonomiche dell’ambiente di lavoro: i testimoni
interpellati valutano soddisfacente la dotazione strumentale delle
postazioni, fornite di computer piuttosto recenti, se pur non di ultima
generazione, di sedie confortevoli e poggiapiedi ergonomici.
Focalizzando infine l’attenzione sulla dimensione economica-materiale, la
retribuzione di base facente riferimento al contratto collettivo nazionale del
commercio non soddisfa pienamente i lavoratori impiegati. L’azienda non ha
introdotto alcun sistema premiante, né previsto particolari benefit per i propri
dipendenti, che lamentano l’assenza di simili forme di incentivazione, pur
riconoscendo in parte la difficoltà ad individuarne criteri omogenei di
attribuzione: “si applica il contratto nazionale che effettivamente è basso, se ci
fossero premi sarebbe stimolante, ma forse è difficile anche per il settore e il tipo
190
di mansioni svolte, calcolare in base a quali criteri o quali modalità attribuire
benefit o premi” (lavoratore).
A questo aspetto si associa l’insoddisfazione di parte dei lavoratori
intervistati riguardo alle limitate opportunità di crescita professionale
o di avanzamento di carriera, ascrivibili principalmente al fatto che i
livelli gerarchici sono molto ridotti. Variabili che contribuiscono a
determinare la diffusa percezione di un generale livellamento verso il
basso: “un aspetto negativo è quello di essere un po’ livellati verso
il basso, in riferimento alla questione del differenziale retributivo
aziendale, ci si trincera, ci si nasconde sempre dietro al discorso
che il contratto collettivo prevede una retribuzione tale per il tuo
livello, che è un discorso valido ma fino ad un certo punto, perché
anche se non c’è un accordo interno però c’è la possibilità di dare il
super minimo, di dare gratifiche (..) la parte economica va un po’
rivista, cioè proprio l’inquadramento, non so introducendo benefit,
oppure faccio un esempio che è una mia fissa, ma poi direi che è
una richiesta anche molto banale, il buono pasto, che alcuni hanno
ed altri no, e che viene dato in base al livello. Paradossalmente qui
il livello più alto, dal primo livello, ha anche il buono pasto, mentre
dal secondo in giù non lo hai, è paradossale, nelle altre aziende è il
contrario, è chi prende meno che ha la necessità del buono pasto
non chi prende di più” (dirigente).
Dal punto di vista della sicurezza, azioni di sensibilizzazione
sull’argomento sono state effettuate nei confronti dei dipendenti,
relativamente alle procedure previste dalla normativa vigente (D.Lgs.
626) e soprattutto al corretto utilizzo del videoterminale. Questa
attenzione verso la salute dei lavoratori sembra essere premiata
dall’assenza di incidenti sul lavoro. Alle iniziative realizzate sul tema
della sicurezza si affiancano inoltre attività formative concernenti il
miglioramento del bagaglio di conoscenze, soprattutto relativamente
ai programmi informatici (ad esempio corsi di Excel), e, di recente,
riguardanti lo sviluppo/potenziamento delle capacità relazionali e del
lavoro di gruppo. Quest’ultima iniziativa è stata promossa sotto
sollecitazione degli stessi lavoratori che hanno sollevato, in occasione
dell’analisi di clima interno, la necessità di migliorare le proprie
modalità di rapportarsi con altre figure e le proprie capacità di
interazione.
191
3.2.4. Il questionario. Principali risultanze
Per garantire una più approfondita analisi sulla qualità del lavoro, si è
proceduto alla somministrazione di un questionario ai lavoratori
dipendenti impiegati in azienda. Complessivamente i questionari
raccolti sono stati 8, cifra corrispondente ad una percentuale di
ritorno del 57% rispetto ai 14 lavoratori di Chicom.
Pur tenendo conto del numero limitato di questionari raccolti
collegato alle ridotte dimensioni dell’impresa le caratteristiche sociali
del campione, rilevate nella prima parte del questionario, riflettono
quasi perfettamente la precedente descrizione concernente la totalità
dell’organico aziendale: prevale il personale impiegatizio di sesso
maschile con un livello di istruzione medio-alto. L’87,5% dei soggetti
coinvolti è, infatti, assunto con la qualifica di impiegato/funzionario,
mentre solo il 12,5% con quella di quadro intermedio. Il 62,5% del
campione è rappresentato da uomini e il 37,5% da donne. Percentuali
analoghe si registrano in riferimento al titolo di studio: in particolare,
la quota più alta degli interpellati dichiara di essere diplomata e quella
restante di essere laureata.
Relativamente alla distribuzione per classi di età, la maggior parte
degli intervistati si colloca nelle due fasce centrali (tra i 33 ed i 45
anni, tra i 26 ed i 32 anni), che raggiungono rispettivamente il 50%
ed il 25%, seguite dalla classe dei più anziani (il 12,5% degli
intervistati ha un’età superiore ai 46 anni) e da quella dei più giovani
(il 12,5% ha un’età inferiore ai 25 anni).
Infine, prevale nettamente fra coloro che hanno compilato il
questionario il lavoro a tempo pieno ed indeterminato.
Il questionario registra, in merito alle diverse dimensioni della qualità
del lavoro, valutazioni che sembrano confermare le considerazioni
sopra riportate, evidenziando un grado di soddisfazione generale
piuttosto elevato, comprovato da un valore medio complessivo di
3,49 su di una scala che va dal valore minimo pari a 1 al valore
massimo pari a 5. In particolare, le categorie che raccolgono i giudizi
medi più positivi sono la dimensione ergonomica, in entrambe le sue
sottoclassi (qualità ergonomica dell’ambiente di lavoro e qualità
ergonomica dell’intensità del lavoro, i cui valori medi sono
192
rispettivamente pari a 4,05 ed a 3,82), e la dimensione dell’autonomia
(valore medio pari a 3,82). Opinioni di natura più negativa, o
comunque, seppur positive al di sotto della valutazione media
complessiva di 3,49, sono emerse in riferimento alla dimensione
economica, dell’autonomia e del controllo.
Tab. 2 - Le dimensioni della qualità del lavoro.
Dimensioni della qualità del lavoro
Dimensione ergonomica/intensità
Dimensione ergonomica/ambiente
Dimensione dell’autonomia
Dimensione della complessità
Dimensione del controllo
Dimensione economica
Valutazione media complessiva
Punteggio medio
4,05
3,82
3,82
3,34
3,31
2,59
3,49
Analizziamo ora più specificatamente le singole dimensioni. Per
quanto riguarda la qualità ergonomica relativa all’intensità di
lavoro, gli indicatori che sembrano soddisfare maggiormente i
lavoratori interpellati concernono la fatica fisica (4,50),
l’organizzazione dei turni (4,50) e la flessibilità del lavoro (4,29).
Ottengono invece giudizi meno positivi in quanto situati al di sotto
del valore medio di dimensione di 4,05, le voci relative alla ripetitività
e noiosità dei compiti (3,80) ed alla fatica e stress cognitivo (3,14),
anche in considerazione della prevalenza di personale con mansioni di
tipo impiegatizio.
Anche nel caso della dimensione ergonomica relativa all’ambiente
di lavoro emergono giudizi piuttosto positivi (valore medio 3,82): il
luogo di lavoro risulta non connotato da polveri e assimilati (valore
medio 4,14), né da rumori e vibrazioni (4,00), né da vapori-fumi ed
esalazioni (4,00). L’ambiente è luminoso e dotato di finestre (3,88).
Gli aspetti su cui vengono espresse maggiori criticità sono invece
quelli inerenti la presenza di radiazioni e assimilati (3,57) e la qualità
delle tecnologie (3,38).
193
In riferimento alla dimensione dell’autonomia, gli elementi
mediamente più apprezzati risultano la possibilità di gestione delle
ferie (4,57) e dell’orario di lavoro (4,38), nonché la possibilità di
accordarsi direttamente con i colleghi (4,13) e la libertà organizzativa
dei ritmi di lavoro (4,13). Al contrario, appaiono inferiori alla soglia
media le valutazioni espresse in merito alla possibilità di assumersi
responsabilità (3,71 - al di sotto della media della dimensione),
all’accesso alle informazioni aziendali (3,14) e, soprattutto, alle
opportunità formative offerte per incrementare la propria
professionalità (2,71).
Passando alle dimensioni che hanno ottenuto una valutazione media
al di sotto del valore medio complessivo, emerge che la dimensione
della complessità, pur avendo ricevuto dai lavoratori giudizi positivi
in relazione ai rapporti con i colleghi (4,38) e con i capi (4,25), che
confermano le opinioni emerse nel corso delle interviste
semi-strutturate, registra valutazioni più critiche rispetto alla
soddisfazione derivante dal lavoro (3,29), al riconoscimento della
professionalità (3,29), alla varietà e ricchezza del lavoro svolto
(3,25), al riconoscimento del merito (3,14) ed al livello di
condivisione della cultura aziendale (3,14). Ancora maggiori livelli di
insoddisfazione sono ascrivibili alla scarsità di opportunità di carriera,
unico aspetto della dimensione a raggiungere un valore medio
negativo, pari a 2,00.
Relativamente alla dimensione del controllo le soddisfazioni maggiori
sono generate dal livello di partecipazione alle decisioni del contesto
di lavoro (3,75), dalla possibilità di proporre modifiche riguardo al
prodotto-servizio erogato (3,63) oppure al processo produttivo
(3,50). All’interno della stessa dimensione troviamo però anche
valutazioni più critiche riguardo alla rappresentatività del sindacato in
azienda (3,29), alla possibilità di suggerire cambiamenti alle
tecnologie e agli strumenti (3,00) e soprattutto alla rappresentatività
del lavoratori all’interno del sindacato, il cui punteggio medio si
attesta attorno a 2,67.
Gli aspetti che, infine, generano i maggiori livelli di insoddisfazione
sono ascrivibili alla dimensione economica, che raccoglie il valore
medio più basso rispetto a tutte le altre (2,59), assemblando sei
194
indicatori tutti giudicati dal campione interpellato negativamente
rispetto alla media complessiva. Una simile valutazione critica è
riconducibile principalmente alla limitata differenziazione retributiva,
variabile che in assoluto raggiunge il livello più alto di criticità (1,67),
immediatamente seguita da quella concernente la partecipazione
economica ai risultati aziendali (1,83). Giudizi meno negativi sono
espressi in merito alla retribuzione legata all’anzianità (2,71), alla
retribuzione globale (2,88), e soprattutto in riferimento alle garanzie
di previdenza sociale (3,17) e alla sicurezza del posto di lavoro
(3,29).
3
3.3.
Il sistema Coop: il caso di Coop Adriatica
3.3.1. L’azienda
“Non è un’impresa come le altre, non è una società per azioni. E’
qualcosa di molto speciale, regolata da principi che uniscono le
cooperative di tutto il mondo”. Sono queste le parole che Coop, la
più grande cooperativa di consumatori in Italia, ha scelto per
presentarsi nelle pagine del suo sito web. Frutto di progressive
fusioni ed acquisizioni a livello territoriale, ma soprattutto di una
storia - quella della cooperazione e dei suoi valori - che ripercorre
più di un secolo e mezzo, il “sistema Coop” è infatti una realtà
variegata fatta di tante “singole cooperative, (che) pur conservando
autonomia giuridica e gestionale, hanno adottato strategie, politiche e
strumenti operativi unitari, nell’ambito di una comune adesione ai
valori fondanti – mutualità e solidarietà – della cooperazione dei
consumatori”.
Il riferimento va ad una realtà sul territorio nazionale alla fine del
2003 di oltre 5.505.000 soci, 1.260 punti vendita, 52.000 addetti, ma
al contempo ad una mission aziendale costruita attorno alla tutela e
rappresentanza dei diritti dei soci e dei consumatori, alla difesa dei
loro interessi economici e della loro salute. Tutela del potere di
acquisto e della sicurezza dei consumatori concretizzata, tra le altre
cose, in un una linea di prodotti a marchio Coop, in un sistema di
certificazione di filiera e di qualità, nel rifiuto di coloranti e Ogm e
nella realizzazione di prodotti equo solidali: “noi sviluppiamo 195
dichiara un dirigente - una serie di presidi che attengono alla
sicurezza, alla protezione alla bontà, alla convenienza e alla qualità
dei prodotti e che attengono alla protezione delle categorie dei più
deboli. Quindi c’è una domanda che ci siamo formulati spesso
anche in passato: tutelare l’interesse dei consumatori significa
acquisire prodotti sempre, comunque, dovunque sia e comunque
sia? Certamente no. Quindi noi dobbiamo cercare di declinare
qualità, sicurezza e rispetto dei diritti degli altri” (dirigente Coop
Italia).
In tale direzione, infatti, qualità e sicurezza dei prodotti si associano
per Coop ad una politica della convenienza attraverso sconti,
vantaggi economici e convenzioni per i soci; ad una politica
trasparente, di informazione e partecipazione realizzata in un portale
informativo e-coop, in un mensile rivolto ai soci ed in oltre 460
assemblee nel corso del 2003 con il coinvolgimento di circa 65.000
soci; ad una politica, inoltre, di educazione al consumo consapevole
attraverso l’organizzazione di progetti rivolti a studenti di vari ordini
scolastici ed alle loro famiglie; ad un’attenzione all’ambiente, ancora,
e quindi alla realizzazione di studi di impatto relativi ai prodotti ed ai
processi, di progetti di tutela ambientale e di educazione alla
salvaguardia dell’ambiente; ad iniziative, infine, rivolte o in
collaborazione con la società civile, di solidarietà sociale ed a
sostegno del sud del mondo.
E’ in questo quadro generale del “Sistema Coop” che si inseriscono
le due realtà da noi considerate: Coop Italia e Coop Adriatica. La
prima prende definitivamente forma nel 1967 come centrale di
acquisto e marketing al servizio dell’intero sistema cooperativo
associato. I compiti principali di Coop Italia, infatti, attengono alla
selezione e stipula di contratti con i fornitori, così come alla fornitura
di merci e servizi alle cooperative associate. In quest’ottica, appare
significativa la certificazione SA8000 di Coop Italia, la prima
concessa a livello nazionale nel 1998, volta appunto ad un controllo
dell’intero processo produttivo e soprattutto dei canali di fornitura.
La politica di responsabilità si concretizza nella stesura di un codice
di condotta per i fornitori, in periodiche ispezioni e controlli, così
come nella definizione di piani di miglioramento.
196
Se questo è il ruolo rivestito da Coop Italia, essendo la nostra analisi
concentrata sul versante “interno” della politica di responsabilità
sociale, si è tuttavia ritenuto opportuno, come già precisato nella
nota metodologica, fornire un quadro più esaustivo del “Sistema
Coop” nel suo complesso effettuando lo studio di caso presso Coop
Adriatica che rappresenta una delle più grandi Cooperative associate
a Coop Italia.
Coop Adriatica, è per dimensioni la seconda più grande cooperativa
del sistema Coop. Formalmente nasce all’inizio del 1995
dall’integrazione di altre due cooperative di consumatori, Coop
Emilia Veneto e Coop Romagna Marche: più di 8.000 dipendenti,
circa 760.000 soci consumatori ed una rete di 13 ipercoop e 115
supermercati in Emilia-Romagna, Veneto, Marche ed Abruzzo sono
solo alcuni numeri che ne descrivono la realtà.
I soci, come dichiarato nella mission aziendale, costituiscono non
solo il patrimonio più importante della cooperativa, ma anche la sua
stessa base decisionale. Sono i soci, infatti ad approvare attraverso
assemblee ordinarie o straordinarie il bilancio, le modifiche nello
statuto o nel regolamento interno, ad eleggere il Consiglio di
amministrazione, il Collegio Sindacale e la Commissione etica.
Approfondendo più in specifico la dimensione economica, dall’analisi
dei bilanci di esercizio degli ultimi 3 anni si evidenzia nel 2003 un
utile netto diminuito, in seguito ad investimenti, da 53 a 16 milioni di
euro, ma un fatturato in aumento (da 1.406 a 1.702 milioni di euro)
così come il valore aggiunto (da 444 a 469 milioni di euro); il valore
aggiunto, è stato ridistribuito nel 2003 nella misura del 43,3% ai
lavoratori, per il 20,9% ai soci, il 13,9% ai consumatori, il 17% al
sistema impresa, il 3,7% alla pubblica amministrazione e
rispettivamente per lo 0,5 e 0,4% al sistema cooperativo ed alla
comunità locale. Le quote destinate ai lavoratori, alla pubblica
amministrazione ed alla comunità locale registrano inoltre un
aumento rispetto agli anni precedenti; stabile rimane invece la quota
destinata ai consumatori ed in leggera diminuzione quelle destinate ai
soci, ma soprattutto al sistema azienda ed al sistema cooperativo.
L’apertura di nuovi punti vendita e lo sviluppo di nuovi servizi hanno
inoltre visto crescere anche l’organico di Coop Adriatica rispetto
197
all’anno precedente (+4%), arrivando a contare oltre 8.100
dipendenti alla fine del 2003. Di questi, il 51% si situa nella fascia di
età tra i 36 e 55 anni, il 39% tra i 26 ed i 35, mentre solo l’8% ha una
età inferiore ai 25 anni ed il 2% superiore ai 55. Le donne, in
generale, rappresentano il 74,4% dell’organico di Coop Adriatica,
mentre l’1,7% dei lavoratori sono migranti, prevalentemente non
comunitari. In una analisi complessiva delle qualifiche,
successivamente, lo 0,4% dei collaboratori sono dirigenti, il 5,9%
quadri ed il 93,7% addetti o impiegati. Per ciò che concerne le donne
ed osservando il solo livello manageriale, emerge una loro incidenza
pari al 25%, in forte crescita negli ultimi 3 anni (+10,9%).
Analizzando i rapporti di lavoro instaurati, circa l’80% dei
collaboratori possiede un contratto a tempo indeterminato full o
part-time, con a fianco un alto utilizzo di contratti a tempo
determinato ed un numero di contratti interinali o di collaborazione
invece piuttosto limitato; quasi ottocento, triplicati rispetto all’anno
precedente, sono i passaggi di livello registrati nel 2003. Osservando
il sistema di retribuzione, inoltre, Coop evidenzia gli stipendi più
elevati caratterizzanti l’intero settore distributivo: la differenza tra il
minimo del contratto collettivo e quello integrativo aziendale è del
6,7%, mentre il rapporto tra lo stipendio più elevato e quello minore
tra i dipendenti è del 8,68.
In generale, per concludere questa prima descrizione, occorre
registrare un 44,5% di lavoratori iscritto al sindacato; dato che sale al
55,7% considerando i soli dipendenti a tempo indeterminato. Quasi
7.000, infine, le ore richieste per permessi sindacali o assemblee, in
aumento del 13% circa rispetto all’anno precedente.
3.3.2. La politica di responsabilità sociale di Coop
Adriatica
I primi passi verso una politica di responsabilità sociale compiuti da
Coop Adriatica, si realizzano attraverso la stesura, fin dal primo anno
di attività, del Bilancio Sociale; la definizione della mission sociale,
l’adozione di un codice etico e l’istituzione di una commissione etica
di controllo avvengono quasi contemporaneamente.
198
Il bilancio sociale, in particolare, sorto come forma di
rendicontazione della politica aziendale, ma anche del suo impegno in
attività sociali, viene tuttavia percepito, anche in relazione ad un suo
utilizzo esclusivamente interno, come uno strumento poco dinamico
ed incisivo sulla realtà circostante. Dall’introduzione di un bilancio
sociale preventivo, volto appunto ad integrare al suo interno una
funzione di programmazione, si passa così nel 2001 all’attuale
Bilancio di Sostenibilità (preventivo e consuntivo). La sostenibilità,
infatti, maggiormente corrispondente al carattere cooperativo ed
intergenerazionale del patrimonio Coop, diviene sinonimo di un
approccio che riesca ad andar oltre alla rendicontazione, in un’ottica
strategica tesa ad integrare aspetti economici, sociali ed ambientali
nella politica di responsabilità.
Questo percorso, al contempo, viene affiancato da un coinvolgimento
sempre più sistematico degli stakeholder, laddove fornitori,
organizzazioni sociali e di volontariato, esperti di responsabilità
sociale, ma soprattutto soci, vengono progressivamente resi partecipi
nella definizione del bilancio di sostenibilità e nella sua valutazione.
Nascono in quest’ottica, inoltre, anche i gruppi “Archimede”, uno
degli strumenti forse più significativi ed incisivi per il coinvolgimento
dell’organico aziendale: si tratta di gruppi di lavoro, infatti, composti
in un primo momento da dirigenti che, identificate delle aree di
intervento in linea con il bilancio di sostenibilità, si allargano poi
successivamente a quadri ed impiegati per l’elaborazione di un
progetto specifico e delle possibili azioni positive. E’ dai gruppi
“Archimede”, in particolare, che sono nati negli anni scorsi la
valorizzazione
promozionale
di prodotti sostenibili,
la
commercializzazione in alcune zone di prodotti tipici e locali, la
necessità di rendere ambientalmente sostenibili alcuni centri
commerciali o ipercoop, così come di migliorare l’accesso al punto
vendita alle persone diversamente abili.
Il percorso descritto fino ad ora, inoltre, è stato verificato
esternamente da un organismo internazionale indipendente secondo
lo standard AA1000: standard teso a valutare le modalità con cui il
Bilancio di sostenibilità si integra con i processi aziendali,
199
constatando al contempo l’effettivo coinvolgimento degli stakeholder
nei diversi momenti di rendicontazione.
Nei confronti della comunità, diverse sono le iniziative, i progetti, le
campagne di sensibilizzazione o sponsorizzazioni a cui Coop
Adriatica partecipa in maniera diretta od indiretta, devolvendo nel
complesso una quota di quasi 2.000.000 di euro. Anzitutto, infatti,
Coop Adriatica ha attivato più di 500 collaborazioni o partnership
con istituzioni, enti, associazioni nel corso del 2003. Significativa,
inoltre, la realizzazione da alcuni anni del progetto “Centro anch’io”:
un bando rivolto ad associazioni di volontariato o cooperative sociali
per il finanziamento di progetti di intervento sociale o umanitario.
Come parte integrante del sistema Coop, successivamente, anche
Coop Adriatica porta avanti progetti di solidarietà internazionale e di
educazione al consumo consapevole.
A queste attività, inoltre, si affianca il progetto “ausilio per la spesa”:
22 gruppi costituiti da oltre 600 volontari sul territorio con oltre
1.000 anziani coinvolti: “volontari soci Coop, che portano la spesa a
casa alle persone bisognose, che non vuol dire solo portare il
prodotto, come potrebbero fare i dipendenti, senza farsi pagare (..).
Il fatto è che questi volontari vanno tutte le settimane da questi
signori, sono sempre gli stessi, e gli fanno compagnia” (consulente
esterno). La riuscita del progetto ne ha visti sorgere al suo fianco
altri due con le medesime finalità: Ausilio per la cultura, volto alla
consegna di libri, e Ausilio per il divertimento, “un gruppo di soci,
che ha iniziato a girare le case di accoglienza degli anziani, con un
gruppetto, e suona. E da questo sono nate altre esperienze… A
questo punto il concetto è: i soci Coop trasferiscono del loro tempo
a vantaggio degli anziani” (consulente esterno).
Con il “Progetto Eureka”, ancora, realizzato nell’Ipercoop
CentroLame di Bologna, Coop Adriatica ha infine espresso la
volontà di ripensare i punti vendita come spazi culturali e di socialità:
“Eureka - infatti - è questo spazio, che è in area vendita, dove si fa
formazione, educazione al consumo, ascolto dei soci, approvato dai
soci, degustazione di prodotti, iniziative di cultura, presentazione
dei libri, presentazione dei cartelloni teatrali … dentro all’area
vendita. Questo è un modo per ripensare lo spazio portando la
200
piazza nel punto vendita. Se le persone hanno abbandonato le piazze
proviamo almeno a ricostruirle…” (consulente esterno).
Rispetto all’ambiente, in linea con il più complessivo sistema Coop,
Coop Adriatica realizza progetti di tutela ambientale e di educazione
alla salvaguardia dell’ambiente. Da rilevare, a questo proposito, la
menzione speciale ricevuta nell’edizione appena conclusa del premio
Era “Emilia-Romagna per l’Ambiente”, per la sezione
“Responsabilità, etica e consumo consapevole”.
E’ tuttavia ai consumatori, ed in particolare ai soci, che Coop
Adriatica dedica maggiore attenzione. Una attenzione che si riflette,
anzitutto, in una politica di convenienza attraverso un incremento
delle promozioni, dei servizi e delle convenzioni attivate sul
territorio, che hanno fatto registrare un risparmio per i soci di circa
48.000.000 euro ed una quota di ristorno di oltre 8.000 migliaia di
euro (pari allo 0,7% della spesa effettuata dai soci). A questo si
aggiunge, inoltre, una politica di contenimento dei prezzi che ha
visto, rispetto ai dati Istat del 3,1%, una inflazione interna dei prezzi
limitata allo 0,9%. Da considerare, inoltre, che circa il 73% del
volume delle vendite di Coop Adriatica concerne i soci, rispetto ad
un 67% del 2001.
La politica di qualità e convenienza portata avanti da Coop trova
inoltre conferma ed approvazione in un’ulteriore estensione della
base sociale di Coop Adriatica: solo a Bologna, infatti, nell’ultimo
anno il numero dei soci è incrementato di 20.000 unità, andando a
contare in totale circa 280.000 associati sul territorio. Per tutta Coop
Adriatica, ad un aumento di oltre 70.000 unità, corrisponde una
realtà di circa 760.000 associati alla fine del 2003. A questo
proposito, significativo l’aumento di donne e di migranti non
comunitari.
L’attenzione verso i soci, come già anticipato, si riflette anche in
politiche di informazione e partecipazione, realizzate in particolare in
un giornale interno, in 79 assemblee separate ed obbligatorie di
Bilancio di sostenibilità ed in 16 volontarie sul preventivo di
sostenibilità, con una partecipazione complessiva nel corso del 2003
di quasi 18.000 soci (circa 1.300 per ciò che concerne le assemblee di
preventivo).
201
3.3.3. Qualità e sicurezza del lavoro
Un primo elemento utile per addentrarci in ciò che va a
contraddistinguere la politica di qualità e sicurezza di Coop Adriatica
è rintracciabile nella dimensione contrattuale. Al Ccnl relativo alla
categoria della distribuzione cooperativa, si vanno infatti ad
aggiungere nella regolazione dei rapporti di lavoro tre specifici
contratti integrativi, corrispondenti alle tre aree territoriali cui Coop
Adriatica fa riferimento. In questa direzione, per ciò che concerne
l’Area Emilia, di nostro specifico interesse, il contratto integrativo
firmato nel 2003 contiene diversi elementi qualificanti.
Sono tre, in particolare, le politiche e le linee di differenziazione
introdotte. Anzitutto, all’interno di una dichiarazione di Coop a
livello nazionale, l’impegno di non impiegare alcuni strumenti
introdotti con la “Legge Trenta”; secondariamente, un impegno verso
il consolidamento dell’occupazione, attraverso la conversione dei
contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato;
terzo, un insieme di politiche ed interventi volti a favorire la
conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita.
Mentre su quest’ultimo aspetto, come vedremo, interventi ben
delineati, concreti ed innovativi trovano ampia approvazione nei
giudizi dei lavoratori e dei sindacalisti coinvolti nell’indagine, le
prime due linee di indirizzo tendono da un lato, a scontrarsi con
quelle che sono le esigenze di flessibilizzazione richieste da una
organizzazione che voglia porsi come concorrente ma anche
conveniente sul mercato, dall’altro ad inserirsi, soprattutto per l’Area
Emilia, in clima che comunque rimane di forte sindacalizzazione e a
volte critica della politica aziendale.
Come anticipato, anzitutto Coop Adriatica aderisce alla dichiarazione
a livello nazionale Coop manifestatasi contraria all’utilizzo di alcune
formule contrattuali introdotte con la Legge Trenta. Effettivamente, i
dati riportati precedentemente confermano un utilizzo limitato di
formule contrattuali quali le collaborazioni a progetto o il lavoro
interinale,
laddove
le
esigenze
di
flessibilizzazione
dell’organizzazione del lavoro vengono gestite da Coop Adriatica
unicamente attraverso contratti a tempo determinato. Come spiega
202
anche un dirigente, “tutta una serie, alcuni strumenti previsti dalla
Legge Trenta, (..) diciamo, di flessibilità spinta, o per meglio dire,
di precarizzazione del lavoro, noi ci siamo impegnati a non usarli”
(dirigente Coop Adriatica). Anche i rappresentanti dei lavoratori
intervistati riconoscono l’impegno di Coop Adriatica in questo senso
ma, tuttavia, rilevano un possibile rischio di processi di
precarizzazione del lavoro collegato a contratti già previsti dalla
normativa precedente all’entrata in vigore della Legge trenta quali
quelli a tempo determinato. In particolare viene fatto rilevare come
tale rischio sia tanto maggiore quanto più la condizione di lavoratore
a tempo determinato si protrae a lungo nel tempo.
Considerazioni in un certo modo confermate dalla stessa dirigenza,
laddove, come si legge di seguito, a fianco di una politica volta al
consolidamento dell’occupazione realizzata attraverso la conversione
dei contratti a tempo determinato, dapprima a part-time a tempo
indeterminato ed in un secondo momento ad un impiego a tempo
pieno, si dichiara necessaria una flessibilizzazione degli orari di
lavoro, realizzabile tuttavia anche attraverso nuove modalità di
conciliazione tra tempi di vita e di lavoro: “nell’ultimo contratto, qui
dell’area Emilia, c’è stato un impegno della cooperativa, in
direzione del consolidamento dell’occupazione, che vuol dire la
trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo
indeterminato, a fronte di impegni verso, per esempio, una
maggiore flessibilità (..) Stabilizziamo l’occupazione a fronte del
fatto che tu mi garantisci una maggiore flessibilità dell’orario di
lavoro, oppure faccio operazioni, come quelle delle isole, che sono
funzionali a garantirti una flessibilità, che parte però dalle tue
esigenze” (dirigente Coop Adriatica).
A contraddistinguere e qualificare in positivo il contratto integrativo
dell’Area Emilia, è però indubbiamente il terzo aspetto della politica
di Coop Adriatica, vale a dire l’introduzione di un “protocollo per lo
sviluppo di azioni positive nel campo delle pari opportunità, della
solidarietà e della conciliazione dei tempi di lavoro e di vita”.
Integrando i dispositivi già previsti in materia (in particolare la legge
53/00 sui congedi parentali), infatti, il protocollo definisce all’interno
di alcune linee di principio, specifiche azioni positive. Anzitutto,
203
interventi a sostegno della maternità e dell’assistenza ai figli (fino agli
otto anni di età), mediante l’introduzione per entrambi i genitori di
periodi di aspettativa aggiuntivi della durata massima di 18 mesi,
congedi non retribuiti in caso di malattia del bambino, assieme alla
possibilità di passare a formule a tempo parziale con la garanzia di
una riconversione futura; l’aspettativa, inoltre, viene concessa per un
periodo di sei mesi anche ai nonni, mentre per la madre sono previsti
permessi retribuiti per controlli prenatali. Congedi non retribuiti per
una durata massima di due anni, inoltre, possono essere richiesti
anche per motivi familiari, per periodi di riabilitazione di
tossicodipendenti ed etilisti. Il protocollo, successivamente, prevede
un monte annuo complessivo di 4.000 ore di permessi retribuiti
utilizzabili per situazioni di grave difficoltà personale o familiare, per
attività di volontariato o nel campo della solidarietà nazionale ed
internazionale.
Altri strumenti, inoltre, a fianco di quelli previsti nel protocollo,
vanno a comporre il quadro delle politiche di Coop Adriatica volte
alla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, in particolare per ciò
che concerne le donne. Innovativo, e particolarmente apprezzato da
sindacalisti e collaboratori, è anzitutto il “Progetto Isole”. Un
progetto di autogestione degli orari di lavoro rivolto alle cassiere, che
coinvolge, su adesione volontaria, 5 punti vendita e 370 dipendenti e
che progressivamente vuole essere esteso a tutti gli iper. Le
lavoratrici, dunque, hanno la possibilità di scegliere in base alle
proprie esigenze personali le fasce orarie di lavoro, laddove le
eventuali modifiche vengono decise tra colleghe di lavoro, con la
supervisione di una CapoIsola, anch’essa partecipante al progetto:
“c’è l’orario appeso lì, per ciascuna isola, tu ti posizioni nell’orario
che vorresti fare giorno per giorno; ogni settimana hai la possibilità
di riaggiustarlo se succede qualcosa, a fronte di ritrovare
l’equilibrio con qualcun’altra, e lei (la CapoIsola) ha semplicemente
l’onere di essere sicura che poi siano coperte tutte le necessità: cioè
se in quel turno lì mi servono sei persone ce ne devono essere sei. Se
non ce ne sono sei le richiama attorno a un tavolo e dice: “ragazze,
ce ne manca una. Chi è disponibile a venire…. Quindi è chiaro che
cambia la vita delle cassiere” (consulente esterno).
204
Un progetto, come anticipato, valutato positivamente anche dalle
sindacaliste contattate: “il progetto isole, credo, se fosse per me,
dovrebbe essere il futuro, ecco, per il nostro settore, perché
comunque tu imposti gli orari di lavoro in base a quelle che sono le
tue esigenze personali. Invece, per quanto riguarda, diciamo, gli
altri reparti e supermercati, il lavoratore deve impostare la propria
vita in base a quelli che sono gli orari di lavoro. Quindi c’è proprio
un ribaltamento culturale. Secondo me è positiva questa cosa. Spero
che si estenda a tutti i reparti e a tutti i lavoratori di Coop
Adriatica” (delegata sindacale). Sempre in tema di politiche di
genere, inoltre, da molti anni Coop ha in attivo il reinserimento di
donne in età avanzata espulse dal mercato del lavoro.
Un insieme di politiche e di strumenti, dunque, che non solo
mostrano una attenzione particolare di Coop alla dimensione di
genere, ma che si riflettono in un’alta percentuale di donne impiegate
in Coop Adriatica, e sopratutto in un forte aumento negli ultimi anni
della loro incidenza a livello dirigenziale: “sicuramente c’è
un’altissima percentuale di donne manager, nel senso che tra
dirigenti e quadri con responsabilità direttive, (..) il 25 % è donna,
quindi una quota significativa. E tra i dirigenti sono stati attribuiti
alle donne incarichi importanti, non fosse altro che il direttore
commerciale è donna” (consulente esterno).
Nel protocollo, infine, una attenzione particolare viene posta anche
nei confronti dei lavoratori migranti, introducendo, nello specifico, la
possibilità di usufruire di quattro settimane di ferie consecutive.
In un’ottica più generale di sintesi, dunque, diverse novità introdotte
nel contratto integrativo dell’Area Emilia, hanno indubbiamente una
valenza positiva: “sicuramente - conclude a tale proposito una
sindacalista coinvolta nell’indagine - il nostro contratto integrativo è
uno dei contratti, diciamo, del commercio, penso uno dei migliori,
ecco, non dico il migliore, ma sicuramente è buono” (delegata
sindacale).
La qualità e lo spazio dedicato alla formazione rappresentano un
ulteriore elemento ‘centrale’ per l’analisi delle politiche di
responsabilità sociale rivolte ai collaboratori di Coop Adriatica. In
generale, 2,7 sono stati in media i giorni di formazione per
205
dipendente nel 2003, in leggero calo rispetto all’anno precedente. Per
ciò che concerne la formazione su tematiche inerenti la sostenibilità,
le ore dedicate e gli strumenti impiegati si differenziano per categoria
professionale. Le problematiche poste in rilevo dai rappresentanti
sindacali intervistati fanno riferimento alla necessità di una
formazione maggiormente orientata e “funzionale” rispetto ai ruoli da
ricoprire, in particolare attraverso un rafforzamento degli strumenti
iniziali di affiancamento per ciò che concerne i nuovi inserimenti
lavorativi.Circa il 5% della formazione, successivamente, è dedicata
alle tematiche della salute e della sicurezza, registrando nei fatti un
numero di infortuni gravi più o meno stabile negli ultimi anni, ma una
netta riduzione delle ore di lavoro perse per questi motivi, ed una
lieve diminuzione anche dell’indice di gravità e di frequenza.
L’attenzione di Coop Adriatica per questa dimensione, inoltre, si
riflette anzitutto nell’aver attivato, dal 2004, uno specifico progetto
Archimede denominato “lavorare in sicurezza”, con la volontà
espressa di individuare azioni positive in questo campo che vadano
oltre alle ore di formazione sopra descritte; secondariamente,
nell’inclusione dei parametri concernenti la salute e sicurezza dei
lavoratori all’interno del progetto “Mystery shopper”, volto a
valutare la pulizia, la cortesia e la competenza del personale dei
diversi punti vendita.
Riconoscendo questo impegno, una delegata intervistata mette in
evidenza come, considerata la natura stessa della maggior parte delle
mansioni lavorative, rimane centrale la questione della salute dei
lavoratori
Ciò fa sì che, nel confronto tra direzione e
sindacato,l’organizzazione del lavoro sia uno dei temi centrali:
“credo - afferma una sindacalista - che l’azienda dovrebbe ragionare
meglio sull’organizzazione del lavoro dei vari reparti, dei vari
negozi, supermercati, perché credo che delle possibilità ce ne
potrebbero essere, per far lavorare meglio tutti” (delegata
sindacale). Una riorganizzazione del lavoro, in particolare, che
rimanda sia a modifiche necessarie all’ambiente di lavoro che ai tempi
ed all’intensità del lavoro stesso. Aspetti su cui Coop Adriatica, dal
canto suo, dichiara di aver posto sempre attenzione: “adesso i nuovi
iper avranno le casse sfalsate, perché il problema è che tu utilizzi
206
sempre la stessa mano per strisciare. Invece se ne metti una così e
un’altra così, e alterni i turni, cioè crei la rotazione nei turni che
fanno, riesci a ridurre questa cosa. (..). Sui macchinari hanno
sempre mantenuto un livello di massima avanguardia, cioè quando
esce una macchina ancora più sicura, si cambia e si mette la
macchina ancora più sicura e ci si adegua” (consulente esterno).
Informazione e partecipazione dei lavoratori, in conclusione, sono le
due dimensioni rimaste da indagare in una analisi della cosiddetta
politica di responsabilità interna di Coop Adriatica. A questo
proposito, diversi sono gli strumenti individuati da Coop Adriatica
volti a coinvolgere i dipendenti: strumenti volti a diffondere le scelte
aziendali, anzitutto, quali il periodico Noicoop ed un sistema intranet;
strumenti di aggregazione, ancora, quali l’organizzazione di feste o
eventi aziendali e l’istituzione di un circolo per i dipendenti, a cui
attualmente sono iscritti circa 500 lavoratori; strumenti di
partecipazione, infine, attraverso l’introduzione dei Gruppi
Archimede e di una serie di incontri per discutere dell’organizzazione
del lavoro. I gruppi Archimede, come abbiamo già visto, sono gruppi
di lavoro composti da quadri e impiegati direttivi, volti ad identificare
interventi specifici in linea con il bilancio di sostenibilità,
coinvolgendo l’organico aziendale nella loro realizzazione. A questo
strumento vanno ad aggiungersi, come già accennato, riunioni nei
singoli reparti per discutere di questioni organizzative e delle scelte
aziendali: “facciamo due incontri, oltre a quelli, diciamo, che si
fanno per ragioni squisitamente del funzionamento dell’azienda, nel
senso che i lavoratori, cioè i loro capi nei reparti, eccetera, fanno
incontri di lavoro, ovviamente. Su aspetti organizzativi,
essenzialmente. Poi però c’è un’attività, questa istituzionale,
semestrale, per cui noi, a giugno, dopo le assemblee di bilancio con
i soci, quella istituzionalmente spetta ai soci, facciamo incontri in
ogni punto vendita, con i lavoratori, per illustrare l’andamento
della cooperativa, per chiedere suggerimenti, insomma, gli diamo la
parola. Ci sono tutti i dirigenti, i quadri, specificatamente
individuati, vanno appunto a fare il giro dei punti vendita, per
informare e attivare dei feed-back rispetto all’andamento
dell’impresa” (dirigente Coop Adriatica). La partecipazione a queste
207
iniziative, generalmente organizzate al di fuori dall’orario di lavoro, è
di natura volontaria e tocca in generale per tutta Coop Adriatica
quote del 60%, con una leggera flessione nell’area bolognese.
Da parte dei rappresentanti sindacali, tuttavia, è emersa una richiesta
di maggiore informazione e coinvolgimento nelle scelte aziendali,
considerando anche la difficoltà sempre più forte espressa dal
sindacato di raggiungere e coinvolgere i lavoratori a partire dai più
generali processi di frammentazione del mercato del lavoro.
In conclusione, dunque, le considerazioni approntate fino ad ora
sembrano confermare una sensibilità particolare nelle politiche
adottate da Coop Adriatica, realizzata concretamente negli strumenti
introdotti con l’ultimo contratto integrativo, nell’attenzione rivolta al
tema della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, alla tutela
dei soggetti più deboli, così come della salute e sicurezza dei
lavoratori; una sensibilità, tuttavia, che va ad inserirsi in un momento
di difficoltà e di forti cambiamenti, che, a parere dei delegati
intervistati, potrebbero essere più efficacemente affrontati con un
maggiore coinvolgimento dei lavoratori ed incrementando le
occasioni di confronto con il sindacato.
3.3.4. L’indagine di clima: alcune risultanze
Le considerazioni che di seguito riportiamo fanno riferimento ad una
indagine di clima condotta da Coop Adriatica di cui ci è stata data
disponibilità ad illustrarne in questa sede le principali risultanze. Una
indagine rivolta ad un campione rappresentativo dei suoi
collaboratori (14%), che ha raggiunto supermercati, ipermercati e
sedi, dando centralità alle dimensioni dell’organizzazione, della
qualità del lavoro ed in generale al grado di soddisfazione dei
collaboratori. In particolare, dunque, sono stati raggiunti 993 addetti,
di cui il 43% nell’area Emilia, il 20% in Romagna, il 17,5% nel
Veneto, il 6% nelle Marche ed il 2,4% in Abruzzo. Analizzando le
tipologie contrattuali, inoltre, il 77,7% è assunto con contratto a
tempo indeterminato, il 19,7% a tempo determinato ed il 2,6% con
contratti di formazione-lavoro; in maniera trasversale alle tipologie
contrattuali, il 54,2% è full-time ed il restante part-time. L’analisi dei
livelli di inquadramento evidenzia inoltre un 74% di soggetti inserito
208
in mansioni operaie o impiegatizie di base (da 4’S a 5’) ed un 25,6%
di impiegati (da 1’ a 3’). Il 40% degli intervistati, infatti, possiede al
massimo il titolo di scuola media, a cui si aggiunge un 18% con
diploma professionale; il gruppo più rappresentativo (38,4%) ha
invece terminato gli studi di scuola superiore di secondo grado,
mentre circa il 4% possiede un diploma di laurea. Complessivamente,
inoltre, nel campione raggiunto solo il 6% dei partecipanti ha meno di
24 anni, mentre la maggioranza si concentra nelle fasce di età tra i 25
e 34 anni (38,2%) e 35 e 54 anni (54,4%). Dati confermati anche dal
fatto che l’anzianità di lavoro media nel 10% dei casi è minore di un
anno, nel 36,6% dei casi va da 1 a 5 anni, nel 14,2% da 5 a 10 anni e
per circa il restante 40% oltre i 10 anni.
Di seguito cercheremo dunque di tracciare un quadro delle principali
risultanze emerse concernenti soprattutto qualità e sicurezza sul
lavoro, specificando, dove possibile, alcuni parametri per l’Area
Emilia.
Entrando nello specifico, 6,9 è il giudizio medio complessivo di
soddisfazione espresso dai collaboratori di Coop Adriatica (su una
scala che va dal valore minimo 1 al valore massimo 10), in aumento
dello 0,7 rispetto all’indagine condotta nel 1999; giudizio che
nell’Area Emilia evidenzia una media del 6,7, andandosi a
differenziare con un valore del 6,63 negli Iper, 6,33 nella sede e 6,92
nei supermercati.
Considerando complessivamente i dati, l’indagine sembra mettere in
evidenza un buon grado di soddisfazione e valutazioni più che
positive delle politiche aziendali rispetto a quello che può essere
definito il versante “esterno” dell’organizzazione, laddove toni più
critici emergono invece in relazione al versante “interno”, e quindi
alle questioni legate all’organizzazione del lavoro. Da una prima
analisi del grado di priorità assegnato dai dipendenti agli elementi
costitutivi della mission aziendale, e dalla parallela valutazione del
grado effettivamente assegnato da Coop Adriatica agli stessi
elementi, valori elevati e con un buon grado di corrispondenza tra
“desiderato” e “percepito”, si rilevano infatti rispetto alle azioni
rivolte ai soci, alla qualità dei prodotti ed allo sviluppo della
democrazia cooperativa. In particolare, il 74% circa degli intervistati
209
ritiene che priorità di Coop sia offrire ai soci prodotti e servizi sicuri
e convenienti e che Coop corrisponda a tale requisito per il 67,1%
dei soggetti intervistati; realizzare sviluppo ed innovazione di impresa
è inoltre importante per il 64% dei collaboratori e percepito nelle
scelte aziendali per il 51,3% degli stessi. Il maggior scollamento tra
ciò a cui i lavoratori attribuiscono un grado alto o altissimo di
priorità e ciò a cui Coop Adriatica assegna effettivamente la stessa
importanza, si registra infatti, come già accennato, sul versante
interno: a fronte di un 66,4% di soggetti che attribuisce importanza al
miglioramento degli ambienti fisici ed umani in cui la cooperativa
opera, solo il 39,1% percepisce questo elemento come costitutivo
della politica in atto; a fronte, ancora, di un 64,7% che ritiene
fondamentale valorizzare il lavoro e l’impegno dei dipendenti, questo
si realizza solo per il 25,8% degli intervistati. Nell’area Emilia, in
particolare, emergono i giudizi più negativi rispetto alla
valorizzazione del lavoro ed al miglioramento degli ambienti fisici del
lavoro, dove rispettivamente solo il 21,3% ed il 31,8% dei soggetti
raggiunti individuano tali valori come elementi con un alto od
altissimo grado di priorità per Coop Adriatica.
Tendenze che in un certo modo vanno a confermarsi anche
analizzando la percezione che i lavoratori hanno dei cambiamenti
avvenuti in Coop Adriatica: in generale, infatti, il 37% ritiene che la
cooperativa sia cambiata in meglio ed il 20% nella direzione opposta.
Percentuali che anche in questo caso per l’area Emilia assumono toni
più critici, con una quota del 35% di intervistati che riscontra in
Coop dei peggioramenti e del 29% che avverte invece un
miglioramento. Si conferma, inoltre, un’attenzione di Coop
soprattutto verso l’esterno laddove, nelle valutazioni dei dipendenti,
le dimensioni che hanno subito miglioramenti sono in particolare la
qualità dei prodotti (76%), i vantaggi per i soci (65,4%), le azioni ed
i progetti rivolti alla società (63,4%) e l’immagine di Coop (53,8%).
Sono peggiorate, invece, le dimensioni attinenti l’organizzazione del
lavoro: i carichi di lavoro (40,1% in generale e 46,5% in Area
Emilia), l’efficienza dell’organizzazione interna (32,7% in generale e
47,6% in Area Emilia) ed il coinvolgimento per la risoluzione di
problemi (32% in generale e 40% in area Emilia).
210
Le critiche apportate verso la cosiddetta dimensione interna, tendono
tuttavia ad attenuarsi in un confronto con le altre realtà lavorative,
laddove valutando ciò che per i collaboratori differenzia in positivo
Coop Adriatica, rientrano nei primi cinque posti della “graduatoria”
anche aspetti relativi l’organizzazione del lavoro. Coop, infatti, si
contraddistingue per la qualità dei prodotti (72%), per i valori sociali
realizzati in azioni e progetti rivolti alla società (67,3%), per la tutela
dei diritti dei lavoratori (62%), per l’immagine esterna (54,7%) e per
l’organizzazione del lavoro (49,7%). Significativo come, a tale
proposito, l’Area Emilia attribuisca una valenza inferiore alla qualità
dei prodotti (64,3%), continuando ad essere critica rispetto
all’organizzazione del lavoro (43,7%), ma esprimendo una
valutazione positiva rispetto alle tutele dei diritti dei lavoratori
(68,8%). Nell’immaginarsi Coop tra tre anni, inoltre, circa il 60%
prevede un miglioramento della qualità del lavoro (50% in Emilia),
mentre l’81% ritiene che Coop Adriatica si impegnerà a rendere più
visibile la propria distintività.
Entrando nel merito dell’organizzazione del lavoro, in generale i
collaboratori intervistati danno un giudizio positivo pari a 7,56 (su
10) del loro posto di lavoro in Coop Adriatica. Per indagarne alcune
dinamiche, nel questionario è stata anzitutto utilizzata la metafora
della scuola: significativo, infatti, come il 62,2% (73,1% in Emilia)
ritenga che in classe ci sia molta confusione, il 68,1% che ci siano
sezioni privilegiate, l’80,6% che i programmi cambino di classe in
classe, ed un 58,4% (52,1% in Emilia), in ogni caso, che alla fine le
cose imparate siano molte.
Tab. 3 - Grado di priorità (da 1 a 10) desiderato dai lavoratori e da loro percepito
nella politica aziendale relativo ad alcuni elementi dell’organizzazione del
lavoro.
Dialogo e confronto tra colleghi e capi
Avere un capo di riferimento
Retribuzione adeguata alle mansioni
Orari e turni adatti alle proprie esigenze
Incentivi che facciano sentire appartenenza
Formazione del personale
211
Desiderato
9,33
9,18
8,93
8,81
8,50
8,28
Percepito
6,78
7,13
5,56
6,45
5,38
5,75
Individuando, successivamente, il grado di priorità attribuito dai
collaboratori a determinati aspetti dell’organizzazione del lavoro, ed
il relativo grado di soddisfazione, in ordine di importanza emergono
elementi relazionali, di dialogo e confronto, seguiti alla dimensione
economica e da quella organizzativa. Sono in particolare gli incentivi
volti a sviluppare un senso di appartenenza e le retribuzioni di merito
ad evidenziare i livelli di scollamento più elevati tra “desiderato” e
“percepito”, seguiti dai giudizi sui rapporti tra colleghi e sulla
formazione. Il desiderio, inoltre, di un maggiore riconoscimento non solo economico - del proprio ruolo lavorativo si rileva anche in
una analisi complessiva degli items, laddove le valutazioni più basse
si registrano rispetto al sistema di premi basati sui meriti individuali
(4,33) e collettivi (5,03) ed all’avere una valutazione delle proprie
capacità lavorative (5,08).
Osservando le valutazioni relative alla formazione, invece, la
prevalenza di giudizi sufficienti o positivi si registra in merito alle
competenze dei formatori, agli strumenti utilizzati ed alla formazione
sulla sicurezza. Sufficiente, inoltre, il grado di omogeneità della
formazione erogata tra colleghi e la verifica del grado di
apprendimento. In negativo, invece, il tempo dedicato, la tempestività
della formazione rispetto alle necessità operative e l’affiancamento
sul campo nel periodo iniziale.
Per ciò che concerne i criteri di selezione ed inserimento di nuovo
personale, essi sono in generale percepiti come accettabili, laddove
tuttavia la qualità delle persone assunte negli ultimi due anni riceve
un giudizio pari a 5,99 su 10 (5,7 in Emilia). Rispetto alla possibilità
di avanzamento, invece, l’11,6% ritiene che ci siano buone
opportunità di carriera, il 33,8% qualche opportunità, il 31,4% poche
e l’8,8% nessuna. Sono in particolare la richiesta di trasferimenti,
ruoli superiori non ben retribuiti e la non conoscenza delle possibilità
a rendere difficoltosa la possibilità di fare carriera. Circa il 70% del
campione ritiene comunque sufficiente o più che sufficiente il
riconoscimento verbale del proprio lavoro e l’assegnazione di
212
responsabilità; in negativo, invece, l’avanzamento di ruolo (51,5%),
la retribuzione (62%) e gli incentivi non in denaro (61,2%).
Analizzando i rapporti con i superiori, per gli addetti Coop i loro capi
sono soprattutto persone “dotate di cultura”, che sanno riconoscere i
meriti, trasmettere la cultura cooperativa ed informare correttamente
e per tempo; giudicate in negativo, invece, le loro competenze
professionali, la capacità di “dare buon esempio” e di conseguire
obiettivi di produttività.
Rispetto al grado di comunicazione interna, emerge in generale una
sorta di instabilità/incostanza nello scambio di informazioni: i soggetti
intervistati, infatti, dichiarano che solo “a volte” sanno a chi
rivolgersi, ricevono le informazioni in maniera puntuale, tutti quanti e
con il medesimo contenuto; sempre solo “a volte” il capo tiene in
considerazione i consigli degli addetti. Nel 41% dei casi, inoltre,
l’incostanza della comunicazione è attribuita ad una mancanza di
momenti dedicati al dialogo, nel 25% alla mancanza di tempo e nel
18% ad una scarsa attitudine all’ascolto da parte del capo. Infatti,
riunioni periodiche, datori di lavoro più attenti al dialogo, ma anche
addetti più partecipi sono gli strumenti consigliati per migliorare i
livelli di comunicazione; in particolare, viene in evidenza l’esigenza di
discutere maggiormente dell’organizzazione del lavoro (68%), delle
novità introdotte sul lavoro (35,5%), della gestione del personale
(29,6%) e dell’andamento del proprio reparto/ufficio (28,3%).
Considerazioni che si confermano nei giudizi attribuiti al livello di
informazione in Coop, laddove l’individuazione dei referenti, la
puntualità e l’omogeneità evidenziano anche in questo caso una certa
incostanza. Le motivazioni vengono individuate, in particolare, in una
non trasmissione da parte dei capi nel 39% dei casi, nella mancanza
di interesse da parte degli addetti nel 26,9%, in una mancanza di
trasparenza nel 25% e solo per l’8,4% in una inadeguatezza dei
mezzi di informazione.
Infine, rispetto alle attività extralavorative, ciò che viene apprezzato
maggiormente sono convenzioni o sconti (47%), viaggi (38%) e
momenti collettivi di incontro (31,9%). Solo il 7% degli intervistati,
infatti, è iscritto al circolo aziendale. In merito, invece, alla
valutazione dei progetti in atto, solo il 55,8% dei soggetti coinvolti
213
nell’indagine è a conoscenza del progetto Isole e di questi il 76,8%
parteciperebbe se venisse attivato nel suo reparto.
Nel commentare, in conclusione, l’analisi delle risultanze relative
all’indagine di clima, piuttosto significativo appare come, pur di
fronte a livelli di clima indubbiamente suscettibili dei processi di
riorganizzazione aziendale e dello specifico contesto sindacale, nelle
valutazioni complessive e nel confronto con altre realtà, i lavoratori
riconoscano a Coop Adriatica una sensibilità che va a
contraddistinguerla in positivo.
4
3.4.
Il caso di Formula Servizi S.c.a.r.l.
3.4.1. L’azienda
La società cooperativa Formula Servizi si costituisce ufficialmente il
24 ottobre del 1975 con il nome di Pulix Coop-Forlì per volontà di
nove lavoratrici attive nel campo delle pulizie e direttamente assistite
dalla Lega delle Cooperative, dove viene situata la prima sede legale
ed amministrativa. Diviene rapidamente una solida realtà
imprenditoriale, capace di ampliare e differenziare la gamma delle
prestazioni offerte. Agli originari servizi di pulizia si affiancano infatti
le attività di disinfestazione, di manutenzione delle aree verdi, di
facchinaggio, di manutenzione degli impianti di riscaldamento e
condizionamento. Negli anni ‘90 la cooperativa conosce un ulteriore
sviluppo: aumenta notevolmente il proprio fatturato e subisce una
radicale riorganizzazione interna. Inoltre, grazie all’acquisizione di
lavori nelle regioni Marche, Basilicata ed Abruzzo assume la
connotazione di cooperativa operante sul territorio nazionale. Per
questo motivo e per rappresentare maggiormente l’insieme dei servizi
che è in grado di erogare, nel 2001 l’impresa cambia denominazione
sociale assumendo quella di Formula Servizi. Con l’avvio del nuovo
millennio infatti l’azienda diversifica ulteriormente il panorama dei
servizi proposti, con l’erogazione di prestazioni di logistica
industriale, ristorazione, accompagnamento turistico, vigilanza e
trasporto alunni. La cooperativa sperimenta così il cosiddetto global
service, ossia la gestione integrata di tutte le attività all’interno delle
strutture socio-sanitarie e delle case di riposo in cui opera.
214
L’andamento del fatturato presenta valori costantemente positivi nel
periodo considerato, passando da 22.704.660 di euro nel 2001 a
27.752.423 di euro nel 2003. In questo arco temporale si osserva
anche un incremento dell’utile netto che raggiunge il valore di
3.434.289 euro e del valore aggiunto che si attesta sui 24.766.354
euro.
I dati relativi alla distribuzione del valore aggiunto mettono in
evidenza come la quota più rilevante di esso sia destinata al
personale, 21,09 milioni di euro, pari ad una percentuale dell’85,2%.
Al rafforzamento della Cooperativa stessa è riservato il 9,2% della
ricchezza prodotta. La terza componente per entità del valore
monetario è costituita da Stato, enti ed istituzioni, sotto forma di
imposte dirette, per un ammontare complessivo di circa 1 milione di
euro, pari al 4,0%. La parte destinata ai finanziatori ammonta a 170
mila euro, pari allo 0,7%, mentre quella riservata al movimento
cooperativo raggiunge circa 180 mila euro, pari ad oltre lo 0,7%.
Infine, nei confronti del territorio sono stati complessivamente
destinati 53 mila euro, attraverso la sponsorizzazione di iniziative di
solidarietà sociale, la promozione di progetti di carattere culturale e
sportivo, il sostegno ad enti ed associazioni.
L’organico di Formula Servizi, alla fine del 2003, è composto da
1.291 operatori, di cui 834 concentrati nella regione
Emilia-Romagna. In particolare, nel corso dell’anno si sono avute
316 assunzioni e 247 dimissioni, che hanno garantito una crescita
della popolazione aziendale rispetto al 2002 riconducibile
esclusivamente al personale operaio. Inoltre, 154 lavoratori hanno
usufruito di passaggi di livello.
Relativamente alla distribuzione per classi di età, la maggior parte dei
lavoratori si colloca nella fascia compresa tra i 33 ed i 45 anni che
raggiunge una percentuale pari al 45%, immediatamente seguita dalla
classe successiva (il 40% ha un’età superiore ai 45 anni).
Significativamente inferiori appaiono invece le quote di lavoratori che
si situano nelle classi di età comprese tra i 26 ed i 32 anni e tra i 18
ed i 25 anni (rispettivamente il 12% ed il 3%). L’età media dei
lavoratori si attesta dunque ai 43 anni.
215
Dalla suddivisione dell’organico in base all’anzianità lavorativa
media, emerge come il 65% dei lavoratori operi per Formula Servizi
da meno di 2 anni, dato in gran parte influenzato dal notevole
sviluppo conosciuto dalla cooperativa negli ultimi anni e dall’ingresso
di lavoratori socialmente utili ex-ata. Nonostante questo dato,
comunque il livello di turn-over appare diminuito nel corso degli
ultimi 3 anni (da 14,40 a 12,80): il 16% degli operatori lavora in
cooperativa da un periodo compreso tra 3 e 5 anni, il 10% tra 5 e 10
anni, l’8% tra 11 e 20 anni e l’1% tra 21 e 30 anni.
Significativa è la presenza di personale femminile, che rappresenta
l’82% dell’organico: più in particolare, le donne inserite nel settore
operaio sono 1.032, nel settore impiegatizio 26, mentre 1 è assunta, a
partire dal 2003, nel comparto quadri, che comprende un totale di 5
unità; dato che dimostra una certa attenzione rivolta dalla
cooperativa alle politiche tese a garantire alla popolazione femminile
percorsi professionali con potenziali sbocchi anche ai massimi livelli
aziendali, seppure siano auspicabili ulteriori miglioramenti in merito.
Altrettanto rilevante risulta la presenza di lavoratori migranti, in
prevalenza originari del Nord-Africa e dell’Est europeo, che
passando da 68 a 104 unità, con un incremento del 52,94%, si attesta
attorno all’8%.
Infine, prendendo in considerazione la variabile relativa al titolo di
studio, si evince come la maggioranza degli operatori, pari al 57,5%,
abbia conseguito la licenza media, quote significativamente inferiori il
diploma superiore e la licenza elementare (rispettivamente il 20,9% e
il 20,5%). Mentre solo 11 lavoratori risultano laureati e 3 sono privi
di qualsiasi titolo di studio.
3.4.2. La politica di responsabilità sociale
A partire dal 2002 Formula Servizi redige un Bilancio sociale come
relazione annuale e rendicontazione sull’attività svolta. Tale
strumento evidenzia le iniziative realizzate dall’impresa per la tutela
dell’ambiente, per la crescita delle risorse umane, per la promozione
di principi quali le pari opportunità per le donne, l’integrazione e la
coesione sociale, dando così visibilità ai comportamenti che
maggiormente impattano sul contesto sociale e locale in cui l’azienda
opera.
216
Il bilancio sociale rappresenta il primo passo di una politica di
responsabilità e di sostenibilità etica divenuta nel tempo sempre più
consistente. Nell’estate del 2003, infatti, la sensibilità manifestata
dalla cooperativa verso le tematiche sociali sfocia nell’adesione allo
standard internazionale SA8000, come risultato di uno sforzo
costante nell’applicazione integrale della legislazione incentrata sul
lavoratore, nonché di un impegno concreto ed attivo al
miglioramento della società e dell’ambiente. Essere un’impresa
socialmente responsabile, riprendendo le parole della portavoce
aziendale, “significa fondamentalmente trattare i lavoratori come
persone, per cui rispettando tutta quella che è la sfera della
persona, quindi non ci deve essere solo un rapporto del tipo tu
lavori per me azienda ed io ti do uno stipendio, ma qualcosa di
diverso, l’azienda si deve preoccupare di tutta una serie di aspetti
legati alla sfera della persona, compreso il fatto che vive in una
città ed ha dei figli. L’azienda deve fare il possibile per tutelare tutti
questi aspetti” (dirigente).
Il conseguimento della certificazione SA8000 sembra garantire un
riscontro in termini di consolidamento della immagine e della
reputazione agli occhi della clientela della cooperativa, in questo
modo resa consapevole del fatto che “l’azienda lavora in un certo
modo, si preferisce comprare un prodotto, nel nostro caso un
servizio, sapendo che le persone che lo fanno vengono trattate in un
certo modo, che l’azienda è corretta da questo punto di vista”
(dirigente). La soddisfazione del cliente rappresenta un elemento
fondamentale per l’azienda che, in conformità con la normativa Iso
9001, realizza periodiche indagini su questa dimensione registrando
in generale un buon apprezzamento verso i servizi erogati. Al di là di
questo specifico strumento, la cooperativa quotidianamente si
interfaccia con la clientela attraverso specifiche figure aziendali, i
coordinatori, che hanno il compito di seguire l’evoluzione del
rapporto cliente/fornitore, fungendo da canali di comunicazione per
un passaggio di informazioni puntuale e preciso, teso al monitoraggio
di reclami e/o segnalazioni e all’eliminazione tempestiva di eventuali
incomprensioni: “i responsabili dei vari cantieri sono fissi e sono in
stretto contatto con i clienti, hanno un rapporto diretto, per cui se
217
c’è qualcosa lo riferiscono subito ai lavoratori che possono così
intervenire in tempi brevi o anche magari se il cliente richiede un
lavoro non previsto generalmente dal contratto, che comunque non
porta via un tempo troppo elevato. Si cerca di venire incontro alle
esigenze del cliente e di soddisfarlo in toto, in modo da garantire e
salvaguardare il rapporto con esso anche in futuro, (ndr da
fidelizzarlo)” (rappresentante lavoratori SA8000).
La strategia adottata da Formula Servizi ne condiziona fortemente la
politica di acquisto, orientata a ricercare nei propri fornitori dei
partner che sviluppino innovazione ed affidabilità, dimostrando al
contempo un’affine sensibilità verso le tematiche etico-sociali:
“privilegiamo aziende che ad esempio sono anch’esse certificate
SA8000 o che comunque stanno lavorando su questi aspetti, per cui
incontriamo anche i loro responsabili per capire quelle che sono le
idee dell’azienda in merito. Mandiamo a tutti quanti i nostri
fornitori un questionario di auto-valutazione e chiediamo
l’autorizzazione a fare anche verifiche sul campo, (..) parliamo con
le persone che ci lavorano per capire ad esempio come vengono
trattate, se ci sono delle irregolarità” (dirigente).
Anche relativamente alla salvaguardia dell’ambiente e delle risorse
naturali la cooperativa manifesta una forte attenzione:“sempre sul
tema della responsabilità sociale, perché consideriamo
responsabilità sociale anche questa, noi stiamo adesso lavorando
sulla certificazione ambientale: anche relativamente all’ambiente
Formula Servizi si è mossa da diversi anni nella direzione della
tutela e del rispetto. Siamo convinti che il discorso di tutela
dell’ambiente faccia parte in pieno della responsabilità sociale, per
cui dobbiamo fare tutto il possibile per tutelare l’ambiente in cui
lavoriamo e in cui viviamo” (dirigente). L’obiettivo della
certificazione ambientale, secondo la norma Iso 14001:1996, è stato
raggiunto nella primavera del 2005, a dimostrazione della
sistematicità di un comportamento aziendale orientato alla tutela del
territorio in cui opera. Proprio nell’ottica di ridurre gli impatti
sull’ambiente derivanti dalla propria attività, dal 1999 Formula
Servizi utilizza mezzi alimentati con olio di colza, un carburante
vegetale con il pregio di produrre un quantitativo di polveri fini
218
nettamente inferiore rispetto al gasolio tradizionale e di abbattere le
emissioni di zolfo, e a partire dall’anno 2000 ha adottato all’interno
delle strutture sanitarie ed assistenziali un sistema di pulizia basato
sull’utilizzo delle microfibre, che consente un minor uso di prodotti
detergenti e contribuisce pertanto a ridurre l’inquinamento
atmosferico, oltre ad attenuare la fatica fisica dei dipendenti.
Inoltre, la cooperativa, individuando nell’integrazione territoriale uno
degli elementi di forza per il proprio sviluppo, pone in essere
numerose iniziative a sfondo collettivo: “ci sono tutta una serie di
piccole attività, le collaborazioni con l’Istituto Oncologico
Romagnolo o con l’Associazione Donatori del Midollo Osseo; le
sponsorizzazioni a mostre o eventi culturali fatti a Forlì, Cesena,
Rimini, Ravenna, insomma sui territori dove siamo più presenti;
tutti gli anni sponsorizzavamo un calendario realizzato da una
struttura di assistenza per disabili di Pesaro” (dirigente). Il
profondo e costruttivo legame che nel tempo si è venuto ad
instaurare con le istituzioni ed il valore solidaristico, caratterizzante
lo spirito cooperativo, porta spesso l’azienda a rispondere
positivamente alle diverse “segnalazioni e richieste di aiuto da parte
dei Servizi sociali, degli Assessori sociali per realizzare
l’inserimento di persone che hanno alle spalle situazioni di grave
disagio” (dirigente). In linea con questo orientamento, Formula
Servizi ha siglato un accordo con il carcere di Forlì in base al quale è
stata assunta una persona in semi libertà che, grazie all’intervento
dell’azienda, ha potuto usufruire del periodo estivo di ferie con
l’unico vincolo di rientrare in carcere al termine della giornata.
Anche quest’anno, poi, l’azienda ha rinnovato la sua partecipazione
alle missioni umanitarie in Bosnia, in collaborazione con
l’associazione Croce Verde di Meldola, “mettendo a disposizione i
mezzi ed un magazzino per raccogliere i vari materiali e prodotti da
portare, oltre ovviamente a risorse economiche” (dirigente). Infine,
sta attivando un’attività in collaborazione con la Protezione Civile di
Forlì, per identificare la propria sede “come punto di forza della
Protezione Civile, con la messa a disposizione di attrezzature, mezzi
e persone in caso di necessità o calamità” (dirigente).
219
Formula Servizi può dunque essere considerata un valido esempio di
impegno attivo in ambito etico, come dimostra la politica di
sostenibilità sociale ed ambientale avviata e il consistente numero di
iniziative promosse.
3.4..3. Qualità e sicurezza sul lavoro
Riprendendo un’affermazione contenuta nel Bilancio sociale, “le
persone sono le risorse più importanti all’interno della cooperativa”,
pertanto attenta alla qualità del lavoro dei propri soci e dipendenti.
La portavoce aziendale individua in questa forte “attenzione alle
persone” una delle caratteristiche dominanti di Formula Servizi,
riscontrabile “anche in riferimento alla ricerca sull’innovazione
tecnologica per consentire un miglioramento della qualità del
lavoro di persone che fanno comunque un lavoro faticoso perché
fare pulizie è abbastanza pesante, di certo non è come una comune
attività di ufficio” (dirigente).
Infatti, nella consapevolezza delle peculiarità che connotano il lavoro
di pulizia, attività gravosa, intensa, spesso ripetitiva e condotta a
ritmo serrato, la politica della cooperativa si contraddistingue per una
costante ricerca di innovativi sistemi di lavoro maggiormente
ergonomici e rispondenti alle esigenze dei dipendenti. Basti pensare
al ricorso al sistema di pulizie con panni in microfibra, un particolare
tessuto che trattiene lo sporco senza la necessità di grandi quantitativi
di detergente e di acqua, garantendo una riduzione dello sforzo fisico
del personale impiegato e, al contempo, una maggiore rapidità di
svolgimento delle proprie mansioni. Lo dimostrano chiaramente le
affermazioni di una lavoratrice intervistata: “io vengo da una
dimensione diversa, quella della Usl, per anni nei periodi estivi ho
fatto delle sostituzioni del personale in ferie, e la situazione era
totalmente diversa, molto peggiore, già questo è un lavoro in sé
impegnativo, stancante, a volte stressante (..) Formula Servizi ha
fornito nuove attrezzature, introdotto nuovi sistemi di lavoro che lo
hanno agevolato moltissimo, hanno ridotto la fatica fisica (..)
Diciamo che il lavoro di pulizia è sicuramente migliorato dal punto
di vista dell’intensità” (delegata sindacale). La volontà di
concretizzare queste strategie nelle migliori modalità ha spinto gli
220
stessi responsabili aziendali “a verificare presso strutture ospedaliere
in Europa realtà di eccellenza di gestione dei servizi”, con l’intento di
divenire in prima persona un esempio di eccellenza.
Un simile impegno vuole, in parte, attenuare le insoddisfazioni dei
lavoratori derivanti dalla dimensione economico-materiale: Formula
Servizi applica il contratto nazionale collettivo delle cooperative di
pulizia multiservizi, riconosciuto dalla stessa direzione, come
“povero” in termini di retribuzione corrisposta alle mansioni svolte.
Lavorare in prevalenza mediante gare d’appalto con soggetti
pubblici, sempre orientate al ribasso, non consente inoltre “grandi
margini per aumentare la remunerazione”. La solidità
economico-finanziaria raggiunta negli anni dall’azienda assicura
comunque ai lavoratori un posto sicuro, regolare e garantito, nonché
una puntualità nel recepimento della remunerazione, nonostante i
committenti pubblici spesso saldino i loro fornitori con ampio ritardo.
A proposito della dimensione economica, a destare particolare
apprezzamento è stata la scelta di destinare ai soci lavoratori, che
rappresentano oltre la metà del personale della cooperativa (una
quota pari a 699), parte dell’utile a titolo di ristorno, redistribuito in
base al contributo lavorativo prestato annualmente. Sempre in termini
vantaggiosi per i soci lavoratori vanno interpretati elementi quali il
superamento del DPR 602/70, in base al quale la cooperativa
provvede a versare i contributi sul salario reale anziché
convenzionale, come avveniva fino all’anno 2001, e l’adesione al
fondo pensione Cooperlavoro mirante a garantire, alla luce delle
riforme degli anni ‘90, un’integrazione della pensione Inps. Non
bisogna inoltre dimenticare che, nel rispetto della natura cooperativa,
ogni socio ha la possibilità di partecipare direttamente alla gestione
dell’impresa e pertanto alla definizione delle decisioni strategiche,
secondo il principio “una testa, un voto”. Ai soci spetta infatti
l’elezione del Consiglio di amministrazione, la nomina del Collegio
sindacale, l’approvazione dei bilanci e dei regolamenti.
Se la base sociale può prendere parte in prima persona alle principali
scelte aziendali, viene comunque garantita una circolazione delle
informazioni estesa all’intero organico. Oltre ad una comunicazione
verbale riconosciuta dai testimoni intervistati come “molto diretta”
221
ed assicurata in entrambe le direzioni top-down e bottom-up, la
cooperativa per veicolare le informazioni istituzionali ricorre a diversi
canali: le comunicazioni scritte in allegato alla busta paga e i due
giornalini annuali, redatti in occasione delle assemblee di bilancio (a
dicembre ed a maggio), contenenti “tutte le informazioni sia sul
bilancio, sempre per una questione di trasparenza, per cui è
importante che tutti i lavoratori siano aggiornati anche su questo,
sia relative ad esempio alla sperimentazione del telelavoro o del job
sharing e così via” (dirigente).
L’adesione alla norma SA8000 ha inoltre comportato l’elezione di 3
Rappresentanti dei lavoratori SA8000 (uno per la zona di
Forlì-Cesena, uno per quella di Rimini/Marche ed uno per quella
della Basilicata), scelti dagli stessi dipendenti mediante votazione
anonima, con il ruolo di “far presenti alla direzione eventuali
segnalazioni di soprusi o discriminazioni subite dai lavoratori
(mantenendo l’anonimato del lavoratore se ciò viene richiesto dallo
stesso) e assicurarsi che a seguito della segnalazione il problema
venga affrontato e risolto”. In quest’ottica sono state introdotte nelle
rispettive sedi apposite cassette per la posta indirizzata ai
rappresentanti, in cui far pervenire osservazioni, comunicazioni e
lamentele.
Focalizzando l’attenzione al clima di lavoro, si coglie una sostanziale
apertura nei rapporti tra operatori e superiori, siano essi coordinatori
o dirigenti aziendali, quindi l’instaurarsi di un propizio dialogo e di
buone interazioni. A conferma di questo, l’analisi di clima condotta
dall’azienda mediante questionari anonimi, tesa ad indagare la
percezione dei dipendenti in merito ad alcune caratteristiche peculiari
della cooperativa ed a raccoglierne i giudizi in riferimento alla
struttura tecnico-amministrativa, richiedendo ai lavoratori di
attribuire una votazione (da un minimo di 0 ad un massimo di 10) alle
diverse figure che rientrano in essa (presidente, direttore generale,
direttore amministrativo, responsabile del personale, responsabile di
produzione, coordinatori, ecc), mette in evidenza valutazioni positive
per tutto il personale considerato: “il vertice aziendale ne è uscito
molto bene, i coordinatori discretamente, considerando che sono le
persone che ti vengono a controllare e ti danno ordini” (dirigente).
222
Non sempre positivi e collaborativi appaiono invece i rapporti tra i
colleghi, o meglio, se nelle squadre composte da un numero ridotto
di lavoratori il clima risulta favorevole e armonioso, nei cantieri
connotati da un elevato numero di operai, quali quelli delle strutture
ospedaliere, è invece spesso difficile riscontrare la medesima capacità
di cooperare in tutto il personale impiegato e possono pertanto
sorgere problemi, divergenze e malumori: “dipende dalle persone
con cui interagisci, con i superiori direi buoni, poi è chiaro che ti
rivolgi per la maggior parte a loro per chiedere dei permessi, dei
cambi, per cui a volte mostrano una maggiore disponibilità e a volte
minore se sono presi o preoccupati per qualcosa, però
personalmente direi buoni. Con i colleghi dipende dalle persone,
con alcune molto buoni, sono persone disponibili, in grado di
ragionare sulle cose, mentre in altre ho notato molto
menefreghismo, molto egoismo su molti aspetti, cosa che poi
purtroppo incide su tutto il rapporto generale di lavoro perché se tu
ti comporti bene e sei disponibile, quando ti chiedono un cambio
cerchi di andare incontro alle richieste, poi questo viene
contraccambiato (..) Comunque questo capita in tutti gli ambienti di
lavoro quando si ha a che fare con tante colleghe e qui siamo oltre
il centinaio” (delegata sindacale).
Una buona interazione viene riconosciuta inoltre tra la direzione
aziendale ed i sindacati, curata in prima persona dal responsabile del
personale e garantita da periodici incontri, come dimostrano le parole
del rappresentante dei lavoratori SA8000: “il rapporto tra azienda e
sindacato è tranquillo, sereno, non problematico, so che in alcune
aziende guardano male i dipendenti per il fatto di essere iscritti al
sindacato, qui la situazione è diversa”. Ed infatti il tasso di
sindacalizzazzione è piuttosto elevato, attestandosi nel 2003 attorno
al 46%, anche se come afferma la delegata sindacale interpellata
“come categoria non abbiamo molta forza, per cui più di tanto non
si riesce ad ottenere in sede di contrattazione sindacale” (delegata
sindacale).
La tipologia di attività offerta dalla cooperativa sicuramente non
sempre garantisce ampi margini di autonomia e discrezionalità agli
operatori coinvolti: l’attività di pulizia, soprattutto se realizzata in
223
ambienti pubblici quali le strutture sanitarie o socio-assistenziali,
risulta piuttosto ripetitiva, con orari rigidi, ritmi di lavoro stringenti
ed una limitata possibilità di gestire liberamente il lavoro. Diversa è la
situazione del personale impiegatizio che gode di un maggiore grado
di indipendenza. Sembra tuttavia doveroso precisare che anche i
lavoratori di alcune particolari squadre di pulizia straordinaria
constatano una discreta possibilità di gestire ed organizzare in
autonomia la propria attività, al punto da, riprendendo le parole di un
testimone intervistato, sentirsi quasi come “artigiani, lavoratori
autonomi, perché ti organizzi tu, non hai qualcuno che ti dà ordini
una volta che svolgi bene il tuo lavoro e il cliente è soddisfatto, per
cui c’è abbastanza autonomia” (rappresentante lavoratori SA8000).
In conseguenza dell’elevato peso assunto dall’occupazione femminile
in azienda, che si attesta attorno all’82%, Formula Servizi rivolge
particolare attenzione alle specificità del personale di questo sesso,
promuovendo una serie di iniziative tese a tutelare la condizione di
donna e sostenere la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
In questa direzione si orientano l’implementazione di contratti a
part-time, che riguardano il 53,7% dell’intero organico, la
sperimentazione del contratto di job-sharing (lavoro condiviso), che
consente a due o più dipendenti di assumere la stessa obbligazione
lavorativa, e l’introduzione del telelavoro per quanto concerne il
personale impiegatizio, come testimoniano le parole della portavoce
aziendale:“per venire incontro alle esigenze delle lavoratrici
abbiamo sperimentato il telelavoro e lo strumento del job sharing.
Per quanto riguarda il telelavoro, che ovviamente riguarda il
personale impiegatizio, siamo partiti con una delle nostre
coordinatrici che segue la zona di Cesena: è stata installata la
postazione di lavoro direttamente a casa, per cui per tutta la parte
di registrazione di quella che è la sua attività, spostamenti,
coperture di ferie, orari, ordini di prodotti, cose che lei
normalmente avrebbe fatto in ufficio e che invece adesso svolge da
casa connettendosi, ovviamente a spese della cooperativa, al server
(..) Mentre il contratto tradizionale per il telelavoro è piuttosto
rigido, stabilendo le ore precise in cui si deve lavorare, noi abbiamo
scelto di non avere un controllo sull’attività della persona in termini
224
di rigidità di orario, ovviamente a fine mese la persona deve
arrivare a dei risultati, e fino ad ora stiamo andando benissimo. Lo
stesso tipo di attività ci piacerebbe realizzarlo per tutte le nostre
coordinatrici, in modo che possano organizzarsi più liberamente e
meglio la giornata. (..) Inoltre abbiamo applicato il job sharing in
diverse occasioni, anche se il caso più particolare è quello di due
lavoratrici, madre e figlia, che hanno entrambe contratti part-time e
svolgono le pulizie all’interno del piccolo ospedale locale, hanno un
contratto di questo tipo per cui autonomamente loro coprono il
servizio gestendosi da sole, in modo molto familiare. Un altro
esempio, quello più eclatante, è quello di San Sepolcro dove un
gruppo di sette lavoratrici si organizza in completa autonomia,
decidono i propri turni di lavoro liberamente, si sostituiscono in
caso di necessità e sono contentissime” (dirigente).
Ad un atteggiamento non discriminatorio nei confronti del personale
di sesso femminile si coniuga un comportamento allo stesso modo
non discriminatorio verso i lavoratori migranti, che rappresentano
oggi circa l’8% dell’organico aziendale. Attualmente è in progetto la
realizzazione di un corso di mediazione culturale, al fine di potenziare
la loro capacità relazionale, di garantirne una maggiore integrazione
ed una più facile comunicazione. Inoltre, per permettere ai lavoratori
migranti di rientrare nel paese di provenienza e ricongiungersi con il
nucleo familiare di origine la cooperativa ha introdotto la possibilità
di usufruire di 4 settimane consecutive di ferie e per consentire loro
una perfetta ricezione delle informazioni sulla sicurezza la
cooperativa ha provveduto a stampare il fascicolo informativo sulla
legge 626 in diverse lingue.
D’altronde, un aspetto su cui l’azienda da sempre concentra il
proprio impegno è quello della formazione, intesa quale momento di
stimolo e crescita delle singole capacità professionali. Notevoli
risorse sono state infatti investite nell’attività formativa, differenziata
a seconda delle tipologie di attività svolte. Complessivamente le ore
di formazione in aula nel 2003 sono state 2043, suddivise tra corsi
sulla comunicazione, finalizzati al miglioramento dei rapporti tra i
diversi livelli aziendali, soprattutto con il personale operativo, e
rivolti a tutto il personale impiegatizio, i coordinatori, i
225
vice-coordinatori e la direzione aziendale; corsi sul nuovo software
introdotto al fine di garantire una maggiore tempestività nelle
elaborazioni necessarie all’azienda; corsi inerenti la sicurezza sul
lavoro e rivolti prevalentemente ai neoassunti e agli operatori
coinvolti in attività a maggior rischio; corsi dedicati
all’aggiornamento e all’approfondimento per il personale
tecnico-amministrativo. Ai corsi in aula si affianca l’attività formativa
mirante all’apprendimento delle singole mansioni e del corretto
utilizzo degli specifici prodotti e/o attrezzature, che “viene definita
con l’affiancamento e l’addestramento da parte del coordinatore al
lavoratore” (dirigente).
L’attenzione rivolta alla formazione del personale, unita alla costante
ricerca di nuovi e più confortevoli dispositivi di protezione (come il
dispositivo per l’ancoraggio in fase di pulizia dei vetri) ed al ricorso
ad innovativi sistemi di lavoro più ergonomici, ha contribuito a
mantenere costante il numero di infortuni (159 nel 2002 e 160 nel
2003) nonostante l’aumento della popolazione aziendale: “rispetto ai
tassi medi dell’INAIL per questo settore di attività siamo
ampiamente al di sotto, questo significa che il nostro personale ha
qualche vantaggio in più” (dirigente). In lieve diminuzione risulta
inoltre la durata media dell’infortunio e quindi la gravità del danno
subito: pari a 22,6 nel 2002 e scesa a 20,4 nel 2003.
In estrema sintesi, la cooperativa dimostra nella gestione aziendale
una discreta attenzione verso le esigenze dei lavoratori, riconosciuta
da questi ultimi, come si evince chiaramente dalla testimonianza della
delegata sindacale intervistata: “con loro si parla e si discute bene,
magari le cose vanno ricordate e ribadite, comunque tutte le volte
che ci sono dei problemi o delle esigenze si può parlare, i superiori
sono contattabili direttamente. Si lavora meglio, con più
soddisfazione e gratificazione, perché già il nostro è un lavoro
faticoso, poco considerato da molti, per cui il fatto di essere
ascoltati, di vedere che l’azienda cerca di venirti incontro e rendere
il lavoro più agevole aiuta a lavorare più volentieri (..) Si può
ancora migliorare ma già qui ci sono molti aspetti positivi”
(delegata sindacale).
226
3.4.4. Il questionario. Principali risultanze
L’analisi intende incentrarsi ora su quelle che paiono essere le
principali risultanze emerse dalla somministrazione di un questionario
(così come specificato nelle note metodologiche), teso a valutare le
molteplici dimensioni della qualità del lavoro, ad un campione di 85
lavoratori della cooperativa, cifra corrispondente ad una percentuale
pari al 10,2% dell’organico aziendale occupato nel contesto
regionale.
La composizione del campione sembra rispecchiare le principali
caratteristiche del personale di Formula Servizi, in cui prevale
un’occupazione femminile ed una qualifica operaia. Infatti, l’80% dei
lavoratori coinvolti nell’indagine è di sesso femminile. Tra essi,
inoltre, una quota pari al 71,8% è assunta con qualifica operaia (più
precisamente il 61,2% come operaio generico e 10,6% come operaio
specializzato) mentre il 20% con quella impiegatizia.
Significativamente inferiori risultano invece le percentuali di
lavoratori appartenenti alle categorie di quadro intermedio, tecnico
altamente specializzato e dirigente, che raggiungono rispettivamente
quote pari al 5,9%, all’1,2% ed ancora all’1,2%.
Il 17,6% dei dipendenti interpellati è di nazionalità extracomunitaria,
a conferma della discreta presenza di personale migrante all’interno
della cooperativa. Per quanto concerne la distribuzione per classi di
età, gli operatori del campione esaminato si collocano per la maggior
parte nelle tre fasce di età superiori ai 26 anni, in particolare il 24,6%
in quella compresa tra i 26 ed i 32 anni, il 37,6% in quella inclusa tra
i 32 ed i 45 anni ed il 28,2% in quella superiore ai 46 anni, mentre
solo l’8,2% ha un’età inferiore ai 25 anni. Considerando la variabile
relativa al titolo di studio, si registra il prevalere di un livello medio di
istruzione: il 42,4% dei soggetti coinvolti dichiara di aver conseguito
il diploma ed, ancora, il 35,3% la licenza media, percentuali seguite
da un 12,9% di dipendenti con licenza elementare, un 8,2% di
lavoratori laureati ed un 1,2% di operatori privi di titolo di studio.
Infine, relativamente alla tipologia contrattuale, predomina
nettamente tra coloro che hanno compilato il questionario il lavoro a
tempo pieno ed indeterminato, che raggiunge una quota pari al
91,8%, mentre risultano significativamente inferiori le percentuali
227
degli assunti con un contratto a part time e tempo indeterminato o a
tempo determinato (rispettivamente il 4,7% e il 3,5%).
Dalle valutazioni espresse nel questionario in riferimento alle
dimensioni della qualità della vita lavorativa emerge un quadro affine
a quello sopra tratteggiato: il livello di qualità del lavoro raggiunto
nella cooperativa Formula Servizi appare abbastanza soddisfacente
per gli operatori interpellati, come si evince chiaramente da una
valutazione media complessiva di 3,34. In particolare, a pareri
ampiamente positivi in merito agli aspetti concernenti le dimensioni
ergonomiche (sia dell’ambiente che dell’intensità) ed organizzative, si
affiancano giudizi di natura più critica in relazione a quelle
economico-materiali e del controllo (i cui valori medi si attestano sul
3,19 e 3,04).
Tab. 4. - Le dimensioni della qualità del lavoro.
Dimensioni della qualità del lavoro
Dimensione dell’autonomia
Dimensione ergonomica/ambiente
Dimensione ergonomica/intensità
Dimensione della complessità
Dimensione economica
Dimensione del controllo
Valutazione media complessiva
Fonte: nostra elaborazione.
Punteggio medio
3,59
3,57
3,35
3,32
3,19
3,04
3,34
Passando più in specifico all’analisi delle singole dimensioni
considerate, emerge come la dimensione dell’autonomia, che registra
una valutazione media di 3,59, soddisfi i lavoratori coinvolti
nell’indagine soprattutto in riferimento alla gestione delle ferie (3,83),
alla possibilità di assumersi responsabilità (3,73) e di prendere
accordi direttamente con i colleghi (3,71). Opinioni, se pur positive,
al di sotto del valore medio di dimensione vengono invece espresse in
merito alla libertà organizzativa dei ritmi di lavoro (3,54), alle
opportunità formative offerte per valorizzare la propria
professionalità (3,51), all’accesso alle informazioni aziendali (3,44)
ed infine alla gestione dell’orario di lavoro (3,37).
228
Nel caso della dimensione ergonomica relativa all’ambiente di
lavoro, a buoni apprezzamenti mossi verso la luminosità del luogo di
lavoro (4,02), la qualità delle tecnologie utilizzate (3,96) e l’assenza
di radiazioni e assimilati (3,58), si affiancano giudizi più critici,
comunque positivi, che constatano la presenza di vapori, fumi ed
esalazioni (3,33), di polveri ed assimilati (3,27), nonché di rumori e
vibrazioni (3,26).
Mentre relativamente alla dimensione ergonomica concernente
l’intensità del lavoro, gli indicatori che sembrano soddisfare
maggiormente i lavoratori considerati riguardano l’organizzazione
dei turni (3,78) e la flessibilità del lavoro (3,45). Più negativi, in
quanto al di sotto del punteggio medio di 3,35, risultano invece i
giudizi manifestati in merito alla fatica fisica (3,21), alla ripetitività e
noiosità dei compiti (3,21) ed ancora alla fatica e stress cognitivo
(3,08). In particolare, relativamente a questo aspetto occorre
puntualizzare il fatto che il campione considerato svolge
prevalentemente un lavoro di pulizia in grandi strutture
socio-sanitarie, prestazione fisicamente pesante, intensa e non
particolarmente varia, o un lavoro impiegatizio, anch’essa
connotabile come attività ripetitiva e faticosa da un punto di vista
prettamente cognitivo.
Proseguiamo ora con l’analisi delle dimensioni che pur raggiungendo
valutazioni positive si collocano al di sotto della media complessiva.
Per quanto concerne la dimensione della complessità, la cui
valutazione media si attesta attorno a 3,32, i maggiori apprezzamenti
vengono evidenziati dagli operatori considerati in merito alle
relazioni interpersonali intessute, sia con i capi e superiori (4,13) che
con i colleghi (3,77), nonché al livello di condivisione della cultura
aziendale e della politica posta in essere (3,65) ed al grado di
soddisfazione derivante dal lavoro (3,45), confermando così le
risultanze precedentemente esposte. Ottengono invece giudizi al di
sotto del valore medio di dimensione, le variabili relative al
riconoscimento del merito (3,11), della professionalità (3,05) e,
soprattutto, alla scarsa varietà e ricchezza del lavoro (3,0), anche in
considerazione della tipologia di attività svolta dai lavoratori
interpellati, prevalentemente dediti a mansioni di pulizia o affini,
229
spesso considerate dall’ambiente circostante, riprendendo
un’affermazione della delegata sindacale, “di serie b” e quindi
scarsamente riconosciute e valorizzate.
A destare maggiori livelli di insoddisfazione risultano infine la
dimensione economico-materiale e quella del controllo, che
raccolgono valutazioni medie pari a 3,18 e 3,04. In particolare, nel
primo caso i dipendenti coinvolti nell’indagine giudicano
positivamente le tutele di previdenza sociale garantite (3,88),
provano un elevato senso di sicurezza relativo al mantenimento del
posto di lavoro (3,96), avvalorato dalla solidità oggi raggiunta dalla
cooperativa in oggetto, e si dichiarano partecipi economicamente ai
risultati aziendali, aspetto riconosciuto prevalentemente dai soci
lavoratori, per i quali, come riportato nelle pagine precedenti, è
prevista una redistribuzione degli utili a titolo di ristorno. Al
contrario le maggiori criticità si riscontrano in merito alle voci
relative alla componente prettamente economica, quali la presenza di
differenziali retributivi aziendali, il livello retributivo globale e la
retribuzione legata all’anzianità, che raccolgono rispettivamente i
punteggi medi negativi di 2,87, 2,45 e 2,19.
Mentre in riferimento alla dimensione del controllo, gli aspetti che
generano maggiori livelli di insoddisfazione sono ascrivibili ad una
impossibilità di proporre modifiche alle tecnologie o strumenti di
lavoro utilizzati, al prodotto-servizio ed al processo produttivo (i cui
valori medi sono rispettivamente 2,89, 2,94 e 3,02), indicatori che
raccolgono tra l’altro un più alto livello di non risposte soprattutto
riconducibile al personale operaio, che d’altronde, anche in
considerazione dell’attività svolta, non riconosce simili caratteristiche
come proprie. Più positivi appaiono invece i giudizi manifestati in
relazione alla possibilità di prendere parte alle decisioni concernenti il
contesto di lavoro (3,18), nonché alla rappresentatività dei lavoratori
nel sindacato (3,11) ed alla rappresentatività del sindacato in azienda
(3,07).
230
5
3.5.
Il caso Granarolo S.p.A
3.5.1. L’azienda
Il marchio Granarolo nasce nel 1959 con la creazione del Consorzio
Bolognese Produttori Latte. Da una prima fusione con la
Cooperativa Felsinea Latte prende successivamente vita il C.e.r.p.l. –
Consorzio Emiliano-Romagnolo Produttori Latte – che, attraverso
una serie di piccole e grandi acquisizioni si estende nell’intero
territorio regionale durante gli anni ‘70 e nel centro Italia e sul
litorale adriatico nel decennio successivo. Una espansione che rende
necessaria, agli inizi degli anni ‘90, una riorganizzazione dell’intero
gruppo: il C.e.r.p.l, con il nome di Consorzio Granlatte, diviene così
la “cassaforte” finanziaria, convogliando al suo interno tutta la rete di
produttori di latte, mentre Granarolo S.p.a., concentrando gli aspetti
produttivi e di mercato, diviene capogruppo industriale e
commerciale di diverse società direttamente o indirettamente
controllate, quali Sail S.p.a., Centrale del Latte di Milano,
Calabrialatte S.p.a., Vogliazzi Specialità Gastronomiche S.p.a.,
Agriok S.p.a. e Centrale del latte di Vicenza.
Il Gruppo Granarolo, definito la “centrale del latte d’Italia”,
rappresenta oggi a livello nazionale uno dei principali leader del
settore alimentare operanti nel comparto lattiero-caseario, con una
presenza sul territorio di 10 stabilimenti produttivi, 40 centri
distributivi diretti e 68 indiretti. Sul latte, attività core dell’intero
gruppo rispetto a cui Granarolo detiene la leadership a livello
nazionale, si concentra circa il 70% del giro d’affari, a cui si affianca
una produzione nel settore caseario e gastronomico.
L’analisi dell’andamento economico degli ultimi tre anni conferma la
continua crescita ed espansione di Granarolo S.p.a.: un fatturato
aumentato da 667 a 731 milioni di euro, un utile netto passato da un
valore negativo a oltre 10 milioni di euro ed un valore aggiunto che
da 123 arriva a contare quasi 150 milioni di euro; quest’ultimo,
ripartito nel 2003 per il 77% ai collaboratori, il 6,5% all’interno
dell’azienda, il 6% allo Stato e lo 0,5% sia ai soci azionisti che alla
comunità locale.
231
Su un organico di oltre 1.300 dipendenti concernente l’intero
Gruppo, inoltre, alla fine del 2003 la sola Granarolo S.p.a. conta 820
lavoratori, in incremento rispetto agli anni precedenti. In una prima
descrizione socio-anagrafica, il 6,3% dei dipendenti ha una età
inferiore a 25 anni, il 20% compresa tra 26 e 32, mentre circa il 44%
si situa nella fascia di età compresa tra 33 e 45 anni ed il 30% oltre i
45 anni. Il 36% circa, inoltre, lavora in Granarolo da meno di 2 anni,
il 24% da 3 a 5 anni ed il 50% dai 5 ai 10 anni. Per ciò che concerne
il grado di istruzione, l’8% dei dipendenti possiede al massimo la
licenza elementare, il 30% la licenza media, il 50% un diploma di
scuola superiore e l’11% un diploma di laurea. Analizzando le
qualifiche il 52% dei dipendenti sono operai, il 37% impiegati, il 6%
quadri ed il 3,4% dirigenti. In una analisi di genere, successivamente,
il 24% dei dipendenti sono di sesso femminile: in particolare, a livello
dirigenziale si conta una donna su 28 e tra i quadri 7 donne su 52; il
64% delle donne, infatti, è inquadrata a livello di impiegata ed il 31%
di operaia. Nell’organico di Granarolo S.p.a. ci sono inoltre 26
lavoratori migranti non comunitari, di cui due con la qualifica di
impiegato e nove di operaio.
Agli 820 lavoratori dipendenti sopra descritti, se ne aggiungono 133
con formule contrattuali differenti. Infatti, i dipendenti con contratto
a tempo indeterminato rappresentano l’82% del totale collaboratori
(percentuale che scende al 76% per le donne) ed i lavoratori con
contratto part-time a tempo indeterminato il 3,7% (percentuale che
sale all’11% per le donne); il 3,6% possiede invece un contratto a
tempo determinato, il 6% interinale o di collaborazione e circa il 4%
di formazione lavoro.
Analizzando le assunzioni nel 2003, inoltre, su un totale di 150, più
di un terzo sono avvenute con contratti a tempo indeterminato,
concernendo ventidue donne (4 con contratti part-time) e 3 migranti.
Il 10% delle assunzioni è avvenuto con contratti a tempo
determinato, il 28% interinali, il 4% con collaborazioni ed il 19% con
contratti di formazione. Al contempo, le cessazioni concernono 44
rapporti a tempo indeterminato (in 15 casi relativi a donne), 11 a
tempo determinato, 42 interinali, due collaborazioni ed un contratto
di formazione. Nel 2003, ancora, si sono registrati 68 passaggi di
232
livello, di cui 21 concessi al personale femminile. Infine, da rilevare
un 57% di dipendenti iscritto al sindacato, con circa 6.200 ore di
sciopero effettuate nel 2003.
3.5.2. La politica di responsabilità sociale
La politica di responsabilità sociale adottata da Granarolo comincia a
fare i suoi primi passi agli inizi degli anni ‘90 con l’elezione del
Presidente Luciano Sita, definito dai dirigenti intervistati “la persona
che ci crede, che ha trainato dietro di sé tutto il management su
questi temi, su questi percorsi” (dirigente).
Il Presidente, infatti, oltre ad aver coordinato e diretto la
riorganizzazione del gruppo, ha condotto la politica aziendale
contemporaneamente su due binari paralleli: “la rimodernizzazione
del prodotto, quindi l’investimento sull’innovazione di prodotto, e
l’altro è la valorizzazione delle risorse, nel tentativo di creare clima
di appartenenza” (consulente esterno). E’ con l’introduzione dei
cosiddetti “Laboratori di Creatività”, che nel concreto comincia a
definirsi una politica di valorizzazione e partecipazione dei
collaboratori: “gruppi - infatti - di miglioramento interni che
coinvolgevano tutti, dall’addetto alla macchina al dirigente,
facendoli partecipare ad un corso di creatività,grazie al quale loro
dovevano sviluppare la loro creatività. Questi gruppi hanno portato
a dei risultati concreti, dei progetti…” (consulente esterno). Negli
stessi anni, inoltre, sempre cercando di promuovere la partecipazione
dei dipendenti, vengono definite attraverso differenti modalità di
coinvolgimento la mission aziendale e la bussola dei valori: gli otto
valori chiave volti ad identificare e differenziare lo “stile” Granarolo.
Un percorso che sfocia nel 1998 nella produzione del primo Bilancio
Sociale e nell’organizzazione della prima Convention rivolta a tutti i
dipendenti.
I passi successivi compiuti da Granarolo sono andati soprattutto nella
direzione di coinvolgere progressivamente ed in maniera sempre più
sistematica i diversi stakeholder aziendali. E’ in quest’ottica, infatti,
che vengono lanciate e portate avanti annualmente indagini di clima
interno rivolte ai lavoratori, Consumer satisfaction audit su campioni
di circa 500 consumatori, ma soprattutto un’indagine sull’opinione
233
degli stakeholder e dei workshop di valutazione e confronto tra il
management aziendale ed i principali stakeholder (clienti, fornitori,
banche, associazioni di difesa dei consumatori, istituzioni, ong., ..),
volti a valutare la politica di Granarolo ed individuare possibili
scenari futuri di intervento.
Nel 2001, inoltre, il Bilancio sociale diviene Bilancio di sostenibilità
(preventivo e consuntivo), integrando dunque gli aspetti economici,
sociali ed ambientali nella politica aziendale. Lo stimolo di Coop,
come cliente Granarolo, per l’adesione al suo codice di condotta
applicato ai fornitori, ed il percorso descritto fino ad ora, portano
infine alla adesione alla norma SA8000; una adesione, che si inserisce
in un sistema preesistente di certificazione ambientale e di qualità
applicato all’intera filiera, “dalla fattoria alla tavola del consumatore”,
realizzato attraverso certificazioni ambientali (Iso 14001 ed Emas),
del sistema di rintracciabilità di filiera (in conformità alla norma Uni
10939:01) e di filiera agroalimentare controllata. L’intero Gruppo
Granarolo, infatti, possiede oggi 31 certificazioni, su quaranta
massime che ne potrebbe ottenere.
L’ultimo passo, nel dicembre 2004, si realizza con l’adozione di un
codice etico e nella costituzione di un Ethical Officer volto a
verificarne l’applicazione; tra gli obiettivi futuri, infine, l’idea di
definire un bilancio preventivo pluriennale, “diciamo un piano
triennale o biennale di sostenibilità, con degli obiettivi ben precisi,
a cui poi seguano l’assegnazione di risorse, di tempi e di budget di
spesa conseguenti” (dirigente).
Rispetto ai fornitori, inoltre, sulla scia di Coop anche Granarolo ha
adottato un codice di condotta contenente una serie di requisiti
minimi relativi alla gestione del personale, avviando al contempo una
serie di attività di controllo rivolte ai fornitori potenzialmente più
critici; inoltre, le attività di sensibilizzazione si sono concretizzate
nell’assunzione della certificazione SA8000 come criterio prioritario
nella scelta di futuri fornitori. Strategia che ad oggi ha portato alla
certificazione un unico fornitore: “la difficoltà principale – nota
infatti un dirigente intervistato - è quella che ci rivolgiamo verso
fornitori non di grosse aziende, e la piccola e media impresa ha
difficoltà a innescare un processo a catena sui suoi fornitori,
234
soprattutto quei fornitori che sono semplicemente degli intermediari
commerciali che hanno magari la fornitura all’estero, soprattutto
nei paesi asiatici. Quindi hanno uno scarso, se non nullo controllo
sulla fase di produzione, quindi dovrebbero garantire a Granarolo
una conformità della catena di fornitura che di fatto non riescono a
confermare perché non conoscono” (dirigente).
Sono 1.941.000 euro, invece, i fondi destinati nel 2003 da Granarolo
alla comunità: circa un quarto in attività di promozione sociale (premi
e iniziative), il 20% in beneficenza ad enti non profit, il 13% come
sponsorizzazioni ed il 38% in partnership con Onlus per la
realizzazione di progetti sociali. Le associazioni a cui devolvere tali
contributi vengono scelte attraverso un referendum tra i lavoratori
del Gruppo; questi ultimi, ancora, scegliendo di versare singole
offerte ad altre associazioni in detrazione alle loro buste paga,
vedono raddoppiata la somma in beneficenza da parte di Granarolo.
Rispetto all’ambiente, infine, Granarolo persegue una politica
eco-sostenibile, attraverso il sistema di certificazione cui abbiamo già
accennato, il bilancio di sostenibilità, ma anche puntando a
“minimizzare l’impatto dei processi e dei prodotto, a rispettare i
requisiti di legge in materia ambientale e ad introdurre nel mercato
prodotti ideati e distribuiti in modo compatibile con l’ambiente”. Da
rilevare, in quest’ottica, periodiche valutazioni dell’impatto
ambientale dei processi e dei prodotti, l’introduzione della linea
“Prima natura Bio” di agricoltura Biologica e la realizzazione del
progetto “Lolagame”, volto a sensibilizzare, attraverso un
videogioco, il mondo dell’infanzia al valore dell’agricoltura
responsabile. L’attenzione per l’ambiente si concretizza inoltre nella
ricerca di imballaggi riciclabili o biodegradabili ed in corsi di
sensibilizzazione rivolti ai dipendenti: “ci hanno anche messo in
condizione di tenere divisa la carta dalla plastica, ci hanno
aggiornato e sensibilizzato anche nei comportamenti di tutti i giorni,
come spegnere la luce quando si esce dall’ufficio, rispettare la
raccolta differenziata … insomma ci hanno detto che i nostri
comportamenti influiscono sull’impatto ambientale” (dirigente).
Concludendo, al di là di alcune retoriche che caratterizzano oggi la
responsabilità sociale e le politiche di partecipazione dei lavoratori,
235
ciò che appare significativo in Granarolo è il suo farsi promotore di
un approccio di “filiera”, un modello di cooperazione tra allevatori e
grande industria nell’ambito agro-alimentare: “questo tipo di scelta
ha comunque orientato sempre l’azienda, dal punto di vista
culturale, nel guardare sempre a una serie di soggetti, il non
pensarsi da sola, e il non pensare di costruire il proprio valore
sottraendolo a qualcun altro, ma cercando sempre delle opzioni
concertate con gli altri attori della filiera. Questo adesso è diventato
un modello che si cerca di governare anche allargando ancora di
più la platea degli interlocutori, quindi mettendo dentro ambiente,
le associazioni consumatori” (dirigente)
Un approccio che, per Granarolo deve realizzarsi al contempo in
relazioni improntate al confronto ed al dialogo con enti, istituzioni,
allevatori ed agricoltori nelle differenti realtà locali in cui si trova ad
operare: “non andiamo a colonizzare un territorio, ma cerchiamo di
esportare un modello di filiera – dichiara un dirigente – (..) Molti
allevamenti zootecnici magari non chiudono perché in un certo
territorio noi abbiamo messo insieme gli allevatori, li abbiamo fatti
diventare associati del Consorzio Granlatte. Prendendosi l’impegno
di stare ai nostri standard di produzione, quindi di fare investimenti
sulla loro azienda, in cambio hanno la possibilità di lavorare con
un’azienda che dà loro certe garanzie in termini di remunerazione,
in termini di crescita” (dirigente).
3.5.3. Qualità e sicurezza del lavoro
Una prima valutazione della politica in tema di qualità del lavoro
caratterizzante Granarolo, si può desumere andando ad analizzare le
tipologie contrattuali utilizzate. Come riportato precedentemente,
alla fine del 2003 il 14% dei collaboratori sono caratterizzati da
formule contrattuali cosiddette “atipiche”. Nel corso dello stesso
anno, inoltre, il 40% delle assunzioni sono avvenute con contratti
diversi da quello a tempo indeterminato, con un forte utilizzo, in
particolare, di lavoro interinale e di contratti di formazione-lavoro.
I contratti a tempo determinato, nell’ottica delle dirigenza, vanno in
particolare a ricoprire le esigenze di lavoro stagionale caratterizzanti
la produzione di Granarolo, laddove, “solitamente tutti gli anni
236
cercano di richiamare le stesse persone, che quando si aprono
posizioni hanno la precedenza. Di solito è quasi automatico, cioè
l’offerta viene subito fatta a chi ha già lavorato, infatti negli ultimi
anni non sono stati fatti colloqui di lavoro per assumere a tempo
indeterminato operai non precedentemente già coinvolti”
(consulente esterno). Mentre i contratti di formazione vengono
gestiti dalla dirigenza come strumenti per testare, formare ed inserire
successivamente a tempo indeterminato nuovi giovani collaboratori
in azienda, il forte utilizzo di lavoro interinale appare legato ad altre
dinamiche. In seguito a forti problemi di smaltimento di ferie e
straordinari registrati negli ultimi anni rispetto ai lavoratori
dipendenti, ed all’impossibilità di fermare la produzione soprattutto
in determinati comparti produttivi, infatti, Granarolo ha optato per il
ricorso al lavoro interinale come forma di sostituzione nei periodi
estivi, festivi così come nel caso di picchi di produzione.
Passando ad una analisi di genere dell’organico di Granarolo, dai dati
quantitativi emerge una sottorappresentazione del personale
femminile, legato, a parere della direzione, ad una offerta di lavoro
prevalentemente di qualifica operaia, ma soprattutto a turni: “era
vietato che le donne lavorassero nei turni notturni. (..) Da quando
poi anche le donne, diciamo, possono tranquillamente lavorare, un
po’ nel pastorizzato non c’è mai stata la richiesta, perché sono
comunque dei turni un po’ svantaggiati rispetto a qui, al caseificio,
dove comunque turni abbastanza .. , e in genere le donne non fanno
proprio il turno notturno; al massimo, presto che arrivano, arrivano
alle cinque” (dirigente). I dati sopra riportati mettono tuttavia in
evidenza una certa sottorappresentazione delle donne anche ai livelli
più elevati: lo 0,5% delle donne contro il 3,4% degli uomini è
inquadrato in una qualifica di dirigente e il 3,5% delle donne contro il
6% degli uomini detiene la qualifica di quadro; le donne, infatti, nel
64% dei casi (contro il 37% degli uomini) hanno la qualifica di
impiegate e nel 30% (contro il 52%) di operaie. Una
sottorappresentazione, dunque, che sembra richiedere nel prossimo
futuro una maggiore attenzione verso politiche o strumenti particolari
volti ad una migliore conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita.
237
Andando ad analizzare nel merito le retribuzioni, in generale i
collaboratori di Granarolo percepiscono mediamente una somma
dell’11% superiore rispetto a quella stabilita dal contratto collettivo
nazionale. Alla retribuzione di base si aggiunge inoltre un sistema
premiante diversificato per livelli di inquadramento, ma rivolto
soprattutto alle qualifiche più elevate: per i dirigenti, infatti, un
sistema di incentivazione basato sulla redditività del gruppo, per i
quadri incentivi legati al raggiungimento di determinati obiettivi,
mentre per impiegati ed operai un salario variabile concordato di
anno in anno assieme ai sindacati. Un dirigente, in particolare, con
una retribuzione media lorda di 6.990 euro, percepisce una somma
4,7 volte più alta di un operaio, 3,9 volte rispetto ad un impiegato ed
1,9 volte ad un quadro.
Entrando nel merito del clima aziendale, uno dei primi elementi messi
in evidenza a più voci è, in positivo, l’informalità dei rapporti e di
conseguenza la familiarità dell’ambiente di lavoro: “sostanzialmente
una politica della porta aperta, perché non è insomma difficile
raggiungere le varie persone” (dirigente). Una informalità che
soprattutto per le mansioni impiegatizie, si riflette anche in un buon
grado di autonomia e flessibilità degli orari di lavoro: “la familiarità
dell’ambiente di lavoro, il fatto che qui si lavora abbastanza in un
clima sereno, ecco, non vorrei dire poco controllo, però c’è poca
fiscalità negli orari, ovvio, nei limiti delle otto ore, c’è abbastanza
flessibilità a venire incontro al dipendente” (dirigente). La flessibilità
oraria in entrata di un’ora introdotta per la categoria impiegatizia,
non concerne naturalmente la maggior parte degli operai, inseriti
all’interno di turni di lavoro che in determinati comparti produttivi
vanno a coprire l’intero arco della giornata.
Uno degli aspetti di maggiore insoddisfazione vissuto di
collaboratori, invece, è legato alle scarse possibilità di avanzamento
di carriera, intese in termini di prospettive di crescita e valorizzazione
personale: “essendo noi un’azienda che deriva dal mondo
cooperativa, c’è poco invece di costruzione di percorsi di crescita
delle persone. Cioè non sono strutturati, o meglio, non sono
strutturati come sarebbe opportuno per un’azienda di queste
dimensioni. Questo soprattutto per quanto riguarda i ruoli
238
impiegatizi, cioè quello che avviene negli stabilimenti è più o meno
ipotizzato, è tracciato, è previsto. Dai luoghi impiegatizi in su
insomma c’è un po’ di disorientamento … nelle analisi precedenti, i
valori negativi sono tutti quelli riguardanti la formazione,
l’avanzamento di carriera, le prospettive di crescita, la
valorizzazione, sono tutti valori al di sotto della media” (dirigente).
Un aspetto su cui invece Granarolo ha lavorato molto negli ultimi
anni, e che indubbiamente è stato influenzato dalla decisione di
aderire a SA8000, concerne la formazione dei lavoratori. Da un lato,
infatti, in tutto il gruppo Granarolo l’83% dei dipendenti, un po’ a
tutti i livelli, è stato coinvolto in attività di formazione relativa a
SA8000: “la prima formazione – come spiega la dirigenza - in
assoluto è stata fatta a tutti, mettendo in aula insieme dal dirigente
all’addetto, non so, un’ora e mezza di formazione su SA8000. Poi
c’è stato un secondo passaggio che è stata la formazione mirata”
(consulente esterno). Formazione che ora si sta cercando di estendere
anche rispetto alle tematiche inerenti il codice etico.
Dall’altro, al di là dell’aspetto etico ed informativo relativo alla
norma SA8000, la formazione è stata prima di tutto formazione in
materia di salute e sicurezza. La decisione di aderire ed adeguarsi ai
diversi standard previsti dalla norma, infatti, ha reso prioritarie due
differenti tipologie di interventi in tale ambito: “primo elemento:
copertura al 100% della formazione salute e sicurezza, perché la
gente precedentemente non era formata in modo adeguato e
tempestivo. Si era fatto il grosso della formazione nel 1996, poi
qualcuno era stato un po’ più fortunato ed era stato coinvolto anche
successivamente, ma a scaglioni casuali, a macchia di leopardo, in
funzione di a chi fosse delegato il controllo della sicurezza per
quello stabilimento (..) Bene, secondo elemento: infrastruttura. Si
sono proprio messi a posto gli stabilimenti: quindi grossissimo
lavoro di rimodernamento degli stabilimenti, dall’aggiornamento
della segnaletica alla revisione di tutti i sistemi antincendio, alla
messa a norma delle scale, proprio da un punto di vista
infrastrutturale (..). E poi anche l’arredamento è stato migliorato,
quindi anche internamente sono state sostituite tutte le sedie che non
erano a norma, sono stati cambiati tutti i video. Sono state effettuate
239
le prove antincendio, di evacuazione. Perché c’erano sedi presso le
quali non erano mai state effettuate le prove di evacuazione, e sono
state effettuate dappertutto. Diciamo che negli ultimi tre anni hanno
lavorato al 100% su questo tema” (consulente esterno).
Interventi a livello formativo e strutturale, dunque, che si
rispecchiano, per ciò che concerne il solo stabilimento di Bologna, in
un numero di incidenti sul lavoro stabile attorno alle 30 unità, ma in
una diminuzione rispetto agli anni precedenti del loro indice di
frequenza e di gravità. A questo proposito, da rilevare come nel
2003, sempre nella sede di Bologna, si siano dedicate oltre 10.000
ore alla formazione, coinvolgendo circa 2.000 lavoratori.
Un altro aspetto della politica di Granarolo che, nell’ottica
dirigenziale, appare influenzato in maniera positiva dall’adesione alla
norma SA8000, concerne la questione della comunicazione interna,
dell’informazione e partecipazione dei lavoratori. Anzitutto, infatti,
subito dopo aver ottenuto la certificazione, nelle diverse sedi
aziendali sono state messe in atto procedure per eleggere i
Rappresentanti dei lavoratori SA8000 ed un “portavoce” dei
rappresentanti: “la scelta è stata quella, nonostante la norma non ci
obblighi in questo senso, di nominare un rappresentante per ciascun
stabilimento o filiale. Ci siamo poi dati dei criteri, non so, la filiale
che presenta più di dieci dipendenti, si prevedeva l’elezione di un
rappresentante, mentre per filiali molto piccole, non so, inferiori a
dieci, o comunque è possibile trovare filiali con due dipendenti
soltanto, abbiamo scelto un unico rappresentante che le accorpasse
un po’, in genere” (dirigente). Anche se fino ad ora non è stato
realizzato, annualmente è previsto che il responsabile del sistema di
gestione SA8000 riunisca tutti i rappresentanti dei lavoratori per la
SA8000 per informare ed aggiornare i lavoratori sulla normativa,
sulle principali novità e dare l’opportunità a ciascuno di scambiare
pareri ed esperienze.
La certificazione e l’elezione dei rappresentanti SA8000 a cui
rivolgere segnalazioni, hanno in ogni caso, a parere della dirigenza,
innalzato sotto diversi punti di vista le aspettative dei lavoratori. Il
primo anno le segnalazioni hanno infatti superato la centinaia,
attestandosi attorno alla quarantina nel 2004: “normalmente, poiché
240
l’azienda si portava dietro comunque un approccio di etica e
responsabilità sociale intrinseca ai suoi comportamenti, queste
operazioni non fanno altro che alzare il livello delle aspettative, per
cui ci si aspetta che l’azienda, in quanto autodichiarantesi etica, sia
quella che risolve qualunque tipo di problema del dipendente.
Quindi in questo modo l’azienda si è posta in qualche modo come
punto di riferimento per tutto ciò che erano anche segnalazioni che
non avevano attinenza con l’SA8000. Adesso c’è una situazione di
stabilizzazione. Mi sembra insomma che la gente abbia capito a
cosa può servire” (dirigente). Segnalazioni principalmente inerenti al
tema della salute e della sicurezza, che non sempre passavano
attraverso il neoeletto Rappresentante dei lavoratori, giungendo
come in passato direttamente alla dirigenza. Come nota un dirigente,
infatti, “SA8000 ha più che altro accelerato un iter che magari
sarebbe stato un po’ più lento. Quindi ci sono più persone che
‘punzecchiano’, e quindi il problema viene risolto diciamo più
celermente” (dirigente).
A fianco dei Rappresentanti dei lavoratori, inoltre, dal 2005
Granarolo ha introdotto un nuovo strumento di ascolto rivolto ai
lavoratori. L’entrata in vigore, infatti, del codice etico, ha
comportato anche la costituzione di un Ethic Officer: “quindi,
praticamente, ci saranno questi due strumenti che potranno in
qualche modo rispondere, e attraverso i quali si potrà convogliare il
proprio vissuto aziendale, o tutto ciò che si ritiene non allineato ai
criteri etici che ha dato l’azienda” (dirigente).
Aspetti che, nell’ottica del portavoce dei rappresentanti hanno creato
“un migliore dialogo tra chi dirige e chi opera”, anche attraverso la
creazione di diversi strumenti periodici di informazione rivolti ai
collaboratori. In allegato alla busta paga dei dipendenti viene infatti
distribuito Granarolonews, un mensile di informazione a diffusione
interna del Gruppo Granarolo. E’ stato inoltre attivato un portale
intranet e sono stati organizzati incontri con lavoratori o convention
tra dirigenti in occasione della presentazione del bilancio o del codice
etico.
L’aspetto più significativo, tuttavia, per favorire la partecipazione dei
lavoratori, sembra far riferimento al progetto “cantieri”: “gruppi di
241
lavoro che stanno ridefinendo i processi di business, ciascuno con la
propria funzione, proprio ridisegnando l’azienda. Va da alcuni
impiegati, non tutti, ai quadri e ai dirigenti. Sono gruppi di lavoro,
sono 17-18, ciascuno composto da quattro o cinque persone; quindi
coinvolgono ottanta persone, alla fine. Quindi resta comunque una
fetta, per quanto importante, perché, non tutte le aziende quando
ridefiniscono i processi di business chiamano le loro persone a
lavorarci direttamente. Magari lo fanno con i consulenti, varano il
piano di riorganizzazione, decidono dove tagliare, dove mettere,
cosa fare e basta, e gli altri si adeguano. Qui invece sono le persone
che sono artefici del cambiamento della loro area. Questo non vuol
dire che siamo nella democrazia totale economica. Abbiamo dei
meccanismi di democrazia economica interni, che però investono
sempre una quota di persone; non si può pensare che questa sia
un’azienda con una grossa autogestione, dove ognuno decide quello
che vuole” (dirigente).
3.5.4. L’indagine di clima: alcune risultanze
Anche nel 2005 Granarolo ha effettuato un’indagine di clima volta ad
indagare, nell’intero Gruppo Granarolo, percezioni e valutazioni dei
lavoratori dipendenti relativamente alle caratteristiche distintive
attribuite all’Azienda ed al livello di applicazione dei valori. I dati
emersi, confrontabili con le risultanze dell’anno precedente, sono
stati pubblicati sul numero di maggio del 2005 di Granarolonews, ed
inviati tramite busta paga all’insieme dei dipendenti.
In particolare, nel 2005 l’indagine ha coinvolto il 35% dei lavoratori;
percentuale che si stanzia al 41% considerando la sola sede di
Bologna. L’analisi della composizione del campione per categorie
professionali,
evidenzia,
a
livello
di
gruppo,
una
sovrarappresentazione delle qualifiche più elevate, laddove i quadri
corrispondono al 45,3% del totale dei rispondenti, gli impiegati al
43,2%, gli operi al 27% ed infine i dirigenti al 25%.
Entrando nel merito, e confrontando le risultanze relative alla
percezione del clima interno con quelle dell’anno precedente, si
registra una diminuzione dei giudizi positivi dal 45 al 30,1%, ed un
242
conseguente aumento delle valutazioni negative dal 16 al 26% e di
quelle indifferenti (dal 40 al 43,6%).
Tale dato, disponibile anche per la singola sede di Bologna, evidenzia
proprio in tale stabilimento la maggior incidenza di giudizi negativi
(28,4%), registrando inoltre un 29,1% di giudizi positivi ed un 41%
di indifferenti. Un clima destinato inoltre a peggiorare nelle previsioni
del 29% dei dipendenti dell’intero gruppo Granarolo; per il 34%,
invece, non si registreranno variazioni nel prossimo futuro, mentre
solo il 18,5% prevede un miglioramento. Anche in questo caso i
“pessimisti” si concentrano nella sede di Bologna, con una
percentuale del 34,3% nettamente superiore al 17,4% di “ottimisti”.
Nonostante queste valutazioni, circa il 65% di soggetti intervistati
(contro un 73,7% del 2004) si immagina ancora in Granarolo tra due
anni, inserito nella medesima area di lavoro; il 18,1% (contro il
12,2% dell’anno precedente) potendo scegliere rimarrebbe in
Granarolo, ma in un’area operativa differente.
Per ciò che concerne, successivamente, l’immagine trasmessa
dall’azienda al suo interno, Granarolo è anzitutto “prestigiosa” e
“leader di mercato” (con un giudizio per entrambi gli items di 4 punti
su 5), attenta alla salvaguardia dell’ambiente (3,7), dinamica (3,4) ed
innovativa (3,3); meno positivi, invece, i giudizi in merito alle
garanzie offerte per il futuro (3,1), alla correttezza (3,0), ma
soprattutto al dialogo con i dipendenti (2,4).
Confrontando i dati correnti con gli stessi punteggi emersi
nell’indagine di clima del 2002, vengono inoltre in evidenza trend
positivi rispetto ad attributi quali la dinamicità (+0,2), il prestigio
(+0,2); andamenti piuttosto stabili si registrano invece per ciò che
concerne la capacità di instaurare dialogo con i dipendenti e
l’attenzione rivolta alla salvaguardia dell’ambiente, mentre, in lieve
diminuzione, si trovano i giudizi relativi all’essere leader di mercato,
alla correttezza (entrambi diminuiti dello 0,1), all’innovazione (-0,2),
ma soprattutto alle garanzie offerte per il futuro (-0,3).
Infine, a partire dall’analisi combinata di una settantina di items, è
stata ricostruita la percezione dei collaboratori della cosiddetta
“bussola dei valori” di Granarolo. E’ l’etica, in particolare, con un
valore del 73%, a ricevere maggiori consensi, seguita dallo “spirito di
243
squadra” e dal “clima positivo”, entrambi con un valore del 69%
relativo alla valutazione delle relazioni tra colleghi, al loro carattere
informale e liberale. Se sullo stesso piano troviamo la “crescita
personale”, considerata in termini di talento e spirito di iniziativa,
valori significativamente minori si registrano rispetto alla “crescita
professionale” (58%), attribuita dagli intervistati “maggiormente agli
sforzi messi in campo personalmente dai singoli individui piuttosto
che ad un impegno sistematico profuso dall’azienda”. Al penultimo
posto, con un giudizio del 57%, la dimensione della “partecipazione”,
valutata soprattutto rispetto al livello di comunicazione interna;
infine, la dimensione “creatività ed innovazione”.
Le risultanze dell’indagine di clima sembrano dunque confermare le
considerazioni emerse precedentemente nei termini di una certa
insoddisfazione per le scarse garanzie offerte ai dipendenti, per ciò
che concerne le possibilità di avanzamento di carriera o di crescita
professionale; se viene confermato, inoltre, un clima informale e
positivo caratterizzato da “spirito di squadra” tra colleghi, in
controtendenza con le considerazioni precedenti emergono invece i
giudizi rispetto al carattere partecipativo della politica di Granarolo.
6
3.6.
Il caso T&D S.p.a.
3.6.1. L’azienda
Con la sede legale a Castel Maggiore in provincia di Bologna ed una
sede operativa a Roma, T&D s.r.l. nasce nel 2001 come società
partner di Performer, azienda attiva nell’area della progettazione e
realizzazione di sistemi informativi integrati. Divenuta S.p.a. nel
2004, T&D si caratterizza per l’offerta di servizi di assistenza tecnica
rivolti soprattutto alla Pubblica Amministrazione. In particolar modo,
l’azienda si specializza infatti nell’ambito delle politiche attive del
lavoro, offrendo servizi di supporto alla programmazione ed
attuazione di politiche pubbliche, di ricerca e analisi nell’ambito
sociologico, economico e statistico, di progettazione e gestione di
banche dati e call center, di valutazione delle attività finanziate con
contributi comunitari e di realizzazione di sistemi integrati per il
controllo di gestione, la privacy, la qualità e SA8000. In quattro anni
di attività, T&D annovera così tra i suoi principali clienti le Regioni
244
Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Campania, le Province di Terni,
Pisa, Forlì-Cesena e Pistoia, e diversi istituti di formazione
professionale. T&D, inoltre, già certificata dalla fine del 2003 per il
Sistema Gestione Qualità in base alla norma Uni En Iso 9001:2000,
da giugno 2004 ottiene anche la certificazione del suo Sistema di
Responsabilità Sociale, in conformità alla norma SA8000:2001.
Considerando i bilanci di esercizio dal 2000 al 2003, T&D si presenta
oggi come una realtà aziendale giovane, ma in forte crescita. Il
fatturato evidenzia infatti un aumento da 63.000 euro ad oltre
2.300.000 euro e l’utile netto da circa 1.700 euro a quasi 70.000
euro; il valore aggiunto, registrato per la prima volta nel 2003 e pari
a circa 45.000 euro, è stato interamente ridistribuito tra soci ed
azionisti.
Nel descrivere la struttura e l’organico aziendale di T&D S.p.a.,
troviamo anzitutto il consiglio di amministrazione composto dai due
azionisti di riferimento, a cui spettano le decisioni in ambito
strategico, e da un Comitato Organizzativo, con compiti più
operativi, cui fanno parte quattro dipendenti con contratto a tempo
indeterminato ed un lavoratore autonomo con partita Iva.
Considerando la sola sede di Bologna T&D conta 29 collaboratrici e
18 collaboratori. Complessivamente, ed in maniera piuttosto
equilibrata rispetto al genere, solo cinque lavoratori hanno un
contratto a tempo pieno ed indeterminato corrispondente alla
qualifica impiegatizia; dei restanti, infatti, nove hanno un rapporto di
lavoro a tempo determinato e 23 di collaborazione a progetto o con
Partita Iva. Andando a descrivere l’insieme dei lavoratori, inoltre, la
quasi totalità possiede un diploma di laurea e solo sei persone il
diploma di scuola superiore; rispetto all’età, cinque lavoratori hanno
meno di 25 anni, trentuno, un’età compresa tra i 26 e 32 anni e 11
superiore ai 33 anni, ma inferiore a 45. Considerando che T&D è
nata nel 2001, e nonostante il forte utilizzo di contratti a termine,
infine, da rilevare come 35 soggetti collaborano con l’azienda da
oltre tre anni e solo 12 da meno di due anni, mettendo in evidenza,
quindi, una relativa stabilità nei rapporti di lavoro.
245
3.6.2. La politica di responsabilità sociale
La certificazione SA8000 appare nel percorso di T&D uno strumento
volto a formalizzare determinate attività ed una sensibilità che T&D
metteva in atto da tempo soprattutto nei confronti dei suoi
collaboratori. La decisione di aderire a tale norma, infatti, è nata ed è
stata realizzata principalmente in ambito direttivo, laddove il
rappresentante SA8000 dei lavoratori dichiara di aver collaborato
“abbastanza”, definendo tuttavia la certificazione una scelta “quasi
esclusivamente della direzione” che è andata a confermare “una
sensibilità un pochino maggiore” rispetto ad altre aziende.
Nell’ottica della direzione, ancora, SA8000 rappresenta un valore
aggiunto che le pubbliche amministrazioni apprezzano ed
apprezzeranno sempre più in futuro: “da una parte diventa un
fattore competitivo e dall’altra, secondo la politica che ha questa
direzione, fa la differenza ..” (dirigente).
Nel rapporto con i fornitori la certificazione non sembra infatti aver
apportato dei grossi cambiamenti, anche se la dirigenza ha sviluppato
delle procedure per monitorare la loro capacità di soddisfare i
requisiti posti dagli standard SA8000, esercitando al contempo
attività di sensibilizzazione nei confronti dei propri fornitori. Rispetto
alla comunità, invece, l’attenzione di T&D si limita ad attività di
beneficenza verso alcune organizzazioni non profit; oltre ai premi di
produttività non ridistribuiti ai lavoratori, l’azienda destina infatti
annualmente una quota di utile a due associazioni scelte di volta in
volta dalla direzione stessa, e comunque non legate nello specifico al
proprio territorio di riferimento. Rispetto all’ambiente, infine,
l’attenzione di T&D si realizza attraverso la raccolta differenziata di
carta e toner.
3.6.3. Qualità e sicurezza sul lavoro
Da una prima analisi dei dati sopra riportati emerge un forte utilizzo
di contratti di lavoro a termine o di collaborazione. La variabilità
dell’attività economica, legata ad una realtà presente da pochi anni
sul mercato, ma soprattutto ad una sostenibilità vincolata a bandi ed
appalti con determinate scadenze temporali, è nella visione della
dirigenza la principale motivazione del ricorso a tali tipologie
246
contrattuali: “l’unica motivazione per cui non siamo in grado di
assumere le persone a tempo indeterminato è perché a nostra volta
abbiamo delle scadenze di mandati, ad esempio abbiamo dei progetti che
durano due o tre anni ed oltre a questo arco temporale non riusciamo ad
andare” (dirigente). La dirigenza pare tuttavia consapevole delle
problematiche legate all’utilizzo di contratti “atipici”, puntando,
attraverso
delle
specifiche
integrazioni
contrattuali,
a
contraddistinguersi da quello che è un uso indiscriminato e
strumentale dei contratti a termine. Da un lato, infatti, la
valorizzazione delle risorse umane in termini di formazione e
accrescimento delle competenze come processo fondamentale e
necessario per offrire servizi adeguati e di qualità in un settore in
continua evoluzione è estesa alla totalità dei collaboratori; dall’altro,
l’acquisizione di competenze sembra andar oltre alla mission
aziendale, puntando ad un coinvolgimento dei collaboratori su
progetti diversi, e quindi ad un arricchimento del loro curriculum e
delle loro esperienze professionali: “la nostra politica è quella di far
lavorare le persone su più progetti per aumentare le competenze, ed è
molto impegnativo per una persona però assicura una crescita e
soprattutto permette di acquisire più competenze, quindi anche per la
persona stessa è un investimento” (dirigente).
Punto più significativo che contraddistingue la politica di T&D, in un
processo di responsabilizzazione nei confronti dei propri dipendenti,
è tuttavia l’introduzione di alcune tutele aggiuntive per gli stessi
collaboratori a progetto. Cercando di parificare tali formule
contrattuali con quelle a tempo indeterminato, infatti, oltre a
garantire alcune tutele fondamentali quali malattia, ferie, congedi
matrimoniali, pre e post parto retribuiti, dal 2004 T&D stipula per
ogni collaboratore una assicurazione privata integrativa volta a
fornire una copertura completa per le malattie più gravi, ma anche
delle spese medico sanitarie sostenute in caso di controlli preventivi e
periodici presso le strutture convenzionate con la compagnia
assicuratrice stessa. Dal 2005, inoltre, per dipendenti e collaboratori
a progetto è prevista l’erogazione di buoni pasto per ogni giornata
lavorativa effettivamente svolta.
247
Tutele che, dal punto di vista dei lavoratori, attutiscono determinate
problematiche legate all’individualizzazione e precarizzazione del
mercato del lavoro, ma che rimanendo ancorate alla temporalità dei
rapporti di lavoro non riescono comunque a garantire la sicurezza e
la stabilità da molti ricercata. Come dichiara il Rappresentante dei
lavoratori per SA8000 infatti, “la stabilità gioca un ruolo importante
nel tempo, ed anche ciò che ti viene riconosciuto al di fuori dal
lavoro. Con un contratto come il nostro nel caso specifico di questa
Azienda sei anche abbastanza tutelato, ma quando vai al di fuori i
problemi cominciano a sorgere in maniera assolutamente evidente.
Ad esempio quando vai a chiedere un credito di 2000 euro per
comprarti un motorino, e ti viene rifiutato perché hai questo tipo di
contratto” (rappresentante lavoratori SA8000).
Un altro punto significativo che va a definire la politica e l’approccio
di T&D, è la volontà di rendere più chiari e regolamentati per gli
stessi collaboratori i differenti profili aziendali, e quindi i passaggi di
carriera ed i livelli retributivi corrispondenti: da junior di primo,
secondo e terzo livello, a senior di primo, secondo e terzo livello,
equivalente alla figura dirigenziale. Livelli a cui corrispondono
determinate competenze e caratteristiche, ed un tempo minimo di
inquadramento necessario per l’accesso al livello superiore, che
tuttavia non riescono a sfuggire completamente alla logica
dell’individualizzazione dei contratti di lavoro. Soprattutto a livello
retributivo, infatti, a partire da determinati range corrispondenti ai
vari livelli, si va ad aggiungere una contrattazione individuale legata
al profilo specifico ed alle esperienze precedenti della persona.
A fianco della retribuzione di base facente riferimento al contratto
collettivo nazionale del commercio, è stato inoltre introdotto un
sistema premiante collegato ad ogni singolo progetto per un valore,
di norma, pari all’1,5% del fatturato finale; premio che viene
ridistribuito tra i lavoratori coinvolti nel progetto indipendentemente
dal loro contratto a fronte del raggiungimento di determinati obiettivi
prefissati, o che in alternativa viene destinato sotto forma di
beneficenza ad alcune associazioni di volontariato. I premi aziendali
ed altri eventuali bonus, inoltre, vengono accreditati dalla fine del
2004 in una carta di credito ‘etica’ prepagata che T&D ha fornito a
248
tutti i suoi lavoratori, in modo tale da devolvere una percentuale di
ogni commissione ad alcune associazioni di volontariato prescelte.
Per ciò che concerne il livello di autonomia accordato ai
collaboratori, pur variando naturalmente a seconda dei singoli livelli,
a parere della direzione è piuttosto elevato rispetto alle altre realtà
aziendali: “dal terzo livello senior in su è richiesto un livello di
autonomia molto alto, secondo me più alto della media delle
aziende, e questo è dovuto anche al fatto che non abbiamo una
direzione che è sempre presente in Azienda, e quindi ti trovi
costretto a prendere decisioni quotidianamente per poter svolgere la
tua attività” (dirigente). Aspetto, questo, confermato dal
rappresentante dei lavoratori, che apprezza l’ampia autonomia
decisionale lasciata ai lavoratori rimarcando piuttosto un’assenza
della dirigenza in alcuni momenti: “non ho particolari pressioni,
anzi, se ti devo dire la mia, in certi casi è anche troppo assente”
(rappresentante lavoratori SA8000).
L’ampia autonomia decisionale non pare tuttavia riflettersi in
un’autonomia gestionale concernente orari, ritmi o gestione di ferie e
permessi, nemmeno per ciò che concerne i collaboratori a progetto.
Tali aspetti, infatti, a prescindere dal tipo di contratto, variano
fortemente a seconda degli specifici progetti in cui il collaboratore è
inserito. Anche escludendo mansioni quali gli addetti ai call center,
dove naturalmente presenza e reperibilità sono ancorate all’orario di
fornitura del servizio, in generale almeno il 70% delle attività
richiedono la presenza fissa in ufficio, vuoi per software specifici
disponibili solo nei terminali interni, vuoi per riunioni o incontri con il
gruppo di lavoro. La possibilità, nel tempo restante, di lavorare da
casa, è inoltre legata alla necessità dei collaboratori di rendersi
sempre reperibili attraverso il cellulare, comunicando la loro
operatività o meno. Settimanalmente, inoltre, indipendentemente da
ruolo o contratto di lavoro, ogni lavoratore deve rendicontare le
giornate di lavoro svolte.
La regolamentazione interna di ritmi ed orari di lavoro è dunque
piuttosto rigida anche per gli stessi collaboratori a progetto, laddove
non solo quasi sempre è richiesta la presenza in sede, ma la stessa
possibilità di usufruire di permessi o giorni di ferie varia molto a
249
seconda dei progetti in cui di volta in volta si è coinvolti: “se si
prende una o due giornate di permesso all’interno di una settimana,
non succede niente. L’unico fatto è che bisogna concordarlo prima
a livello di organizzazione di lavoro tra il team (rappresentante
lavoratori SA8000). Per ciò che concerne la retribuzione di
straordinari, ancora, laddove spesso i contratti di collaborazione sono
annuali computando 220 giornate lavorative, è prevista la possibilità
di pagare le giornate aggiuntive attraverso delle integrazioni
contrattuali.
Passando ad un’analisi della politica aziendale rispetto alle dimensioni
della qualità e della sicurezza del lavoro, T&D sembra porre
attenzione non solo alla questione della sicurezza, adeguando i propri
locali alle normative vigenti e prevedendo corsi di formazione in
materia, ma anche agli aspetti ergonomici ed estetici dei luoghi di
lavoro. Ad oggi, infatti, non si sono verificati infortuni sul lavoro,
laddove i rischi sono più che altro legati all’utilizzo dei
videoterminali, definiti dalla direzione “di ultima generazione” oltre
che “dotati di schermo piatto a protezione della vista” (dirigenza).
In questa realtà come in molte altre, infine, ad un forte utilizzo di
contratti di collaborazione si associa l’assenza di una rappresentanza
sindacale in azienda, aprendo considerazioni da parte degli stessi
lavoratori su quelle che sono le difficoltà di rappresentanza connesse
ad una contrattazione sempre più individualizzata: “questo tipo di
contratto non favorisce, non si viene a creare l’esigenza, nel senso
che è un contratto che ha nei limiti quello di una contrattazione
molto individuale/individualistica” (rappresentante lavoratori
SA8000).
In questo senso, l’introduzione di un rappresentante dei lavoratori
per ogni singola sede prevista da SA8000, è stata interpretata dai
lavoratori come una necessaria chiarificazione dei meccanismi e delle
figure di riferimento a cui rivolgere determinati reclami: “ho
l’impressione – dichiara una collaboratrice di T&D - che ci siano dei
meccanismi più formali che possiamo usare per essere ascoltati, se
ci sono per esempio dei problemi o dei reclami .. adesso
formalmente possono essere portati avanti.. nel senso che (prima)
250
non sapevi bene da chi poter andare per reclamare qualche cosa, e
invece adesso si stanno chiarendo maggiormente le funzioni e le
figure a cui riferirsi” (collaboratrice). Il percorso aziendale di
adeguamento alla norma SA8000, inoltre, è coerente con lo
svolgimento di analisi periodiche del clima aziendale; analisi che
T&D ha deciso di effettuare annualmente, discutendone i risultati
collettivamente tra lavatori e direzione. In seguito alla certificazione,
ancora, ai lavoratori sono stati messi a disposizione nelle ore
d’ufficio, locali dove svolgere delle riunioni interne. Ad oggi sono
state svolte tre riunioni, con una partecipazione che nell’ultimo caso
ha raggiunto circa una ventina di persone, dove tuttavia, a parere del
rappresentante SA8000, le discussioni ed i reclami vertono
esclusivamente su condizioni e problematiche inerenti il rapporto di
lavoro.
3.6.4. Il questionario. Principali risultanze
Il questionario finalizzato a raccogliere le valutazioni dei lavoratori
della T&D sulle cinque dimensioni della qualità del lavoro, ha
coinvolto un campione di 17 soggetti. Se non per una minima
sovrarappresentazione di intervistati di sesso maschile (9 su 17), le
caratteristiche del campione rispecchiano la precedente descrizione
relativa alla totalità dei collaboratori: i soggetti coinvolti, infatti, si
collocano principalmente nella fascia di età tra i 26 e 32 anni e sono
in possesso di un titolo di laurea; per ciò che concerne
l’inquadramento, inoltre, sono stati raggiunti due quadri e 15
impiegati, di cui 3 con contratto a tempo indeterminato, uno a tempo
determinato e 13 con contratti di collaborazione.
Le risultanze, inoltre, sembrano confermare le considerazioni sopra
riportate, evidenziando un grado di soddisfazione generale molto
elevato, giudizi molto positivi rispetto agli aspetti ergonomici del
luogo di lavoro, l’autonomia decisionale e tutela della salute, ed un
po’ meno positivi rispetto alla questione della sicurezza del posto di
lavoro o della rappresentanza, connessi all’utilizzo di determinate
formule contrattuali. Considerando, infatti, la valutazione delle
cinque dimensioni individuate per definire la qualità del lavoro, in
251
generale è emerso un valore medio più che soddisfacente, pari quasi a
3,5.
La dimensione ergonomica riferita alla qualità dell’ambiente riceve,
confermando la volontà espressa dalla direzione, il giudizio
complessivo più positivo (4,05), in particolare rispetto alla luminosità
(4,18) ed all’assenza di rumori, vibrazioni o polveri (4,06); il valore
inferiore registrato all’interno di questa classe, relativo alla qualità
delle tecnologie (3,94), ottiene comunque una valutazione molto
positiva e superiore alla media complessiva.
Confermando le risultanze precedenti, inoltre, particolarmente
positivo si conferma anche il giudizio concernente la dimensione
dell’autonomia (3,81), in particolar modo rispetto alla possibilità di
prendere accordi direttamente con i colleghi (4,35) e di assumersi
responsabilità (4,06). Al di sotto della media della singola
dimensione, ma comunque con giudizi positivi, si situano infatti solo
le valutazioni concernenti l’aggiornamento e la formazione (3,53),
l’accesso alle informazioni aziendali (3,53) e la possibilità di gestirsi
le ferie (3,29).
252
Tab. 5 - Le dimensioni della qualità del lavoro.
Dimensioni della qualità del lavoro
Dimensione ergonomica/ambiente
Dimensione dell’autonomia
Dimensione della complessità
Dimensione ergonomica/intensità
Dimensione economica
Dimensione del controllo
Valutazione media complessiva
Punteggio medio
4,05
3,81
3,66
3,45
2,93
2,91
3,46
Per ciò che concerne la dimensione della complessità, al terzo posto
tra i giudizi complessivi espressi con un valore medio pari a 3,66,
molto positive sono le valutazioni relative ai rapporti con colleghi e
datori di lavoro (4,24 e 4,18); attorno alla media la soddisfazione
ricavata dal proprio lavoro ed il riconoscimento del merito e della
professionalità, mentre con valori inferiori, ma sempre piuttosto
positivi, la varietà del lavoro (3,35), la condivisione di una cultura
aziendale (3,35) e le prospettive future di carriera (3,29).
Analizzando successivamente la dimensione ergonomica relativa
all’intensità del lavoro, e considerando che la maggior parte delle
mansioni sono di tipo impiegatizio, non sorprende che a partire da un
giudizio medio piuttosto positivo di 3,44, i valori più elevati si
riscontrino rispetto alla fatica fisica richiesta per svolgere il lavoro
(4,0), mentre i valori inferiori rispetto alla ripetitività dei compiti
(3,06) ed allo stress congnitivo (3,12). Infine, solo la dimensione
economica e quella del controllo presentano dei valori complessivi
che pur positivi si situano al di sotto della media. Rispetto alla prima,
in particolare, si confermano le considerazioni sopra riportate, vale a
dire un apprezzamento della retribuzione globale (3,18), ma giudizi
meno positivi rispetto alla partecipazione economica ai risultati
(2,82) ed alla sicurezza di mantenere il posto di lavoro (2,59). I
valori in generale più bassi si registrano tuttavia nella dimensione del
controllo, con una media generale ancora positiva e poco inferiore a
3. Se piuttosto elevati sono i giudizi attorno alla possibilità di
proporre modifiche nel processo produttivo (3,47) e nei servizi
253
erogati (3,18), così come sulla possibilità di partecipare alle decisioni
concernenti il contesto di lavoro (3,18), più bassi, ed unici due valori
negativi nel complesso degli items analizzati sono la rappresentatività
del sindacato nell’impresa (2,08) e dei lavoratori nel sindacato (2,23).
7
3.7. Alcune riflessioni conclusive sugli studi di caso
Tracciare conclusioni trasversali alle cinque realtà aziendali indagate
significa prima di tutto essere consapevoli che la diversità
riconducibile alle loro dimensioni, ai settori di inserimento ed alla
natura giuridica aziendale, si rispecchia in politiche di responsabilità
sociale che pur rifacendosi ai medesimi valori etici o sociali si
concretizzano in modalità e pratiche differenti.
I cinque casi osservati, infatti, scelti, come già specificato, a partire
da un campione costruito sull’adesione alla norma SA8000 e operanti
nel contesto territoriale emiliano-romagnolo, mettono anzitutto in
evidenza la multidimensionalità delle politiche di responsabilità
sociale, così come il loro carattere complesso ed “in itinere”; laddove
ciò che sembra possibile valutare sono quell’insieme e quella
coerenza di pratiche, in un percorso fatto di ostacoli quotidiani, di
contraddizioni ed incongruenze, e spesso anche di scelte che solo a
lungo temine mostrano risultati concreti.
La stessa certificazione SA8000, infatti, appare in generale una tappa
significativa, volta tuttavia a riconoscere e formalizzare un impegno
precedente; un impegno che pare ricollegarsi nei casi analizzati ad
una sensibilità particolare verso tematiche etiche e sociali,
all’adozione di strumenti di rendicontazione volti ad integrare gli
aspetti economici con quelli sociali ed ambientali, ed a precedenti
sistemi di certificazione etica e di qualità. Un percorso, ancora,
portato avanti con ritmi e tempi diversi nelle singole realtà osservate,
e teso a declinarsi con peso differente nelle varie dimensioni della
responsabilità sociale di impresa.
Dall’analisi dei casi, infatti, per Chicom.iga S.p.a. la politica di
responsabilità sociale risulta essere particolarmente mirata alla
valorizzazione delle risorse umane concernente gli investimenti nel
capitale umano, nella salute e sicurezza dei lavoratori.
254
Di fronte ad una realtà complessa e variegata come il sistema Coop,
invece, si riscontra indubbiamente una forte attenzione, in linea con la
sua natura cooperativa, alla tutela dei diritti dei soci e dei
consumatori, del loro potere di acquisto così come della loro salute e
sicurezza. Centrale, inoltre, anche l’attenzione dedicata ai soggetti
più deboli, all’ambiente ed alla comunità in generale. Soprattutto sul
versante “esterno”, infatti, il percorso di responsabilizzazione sociale
intrapreso da Coop Adriatica sembra aver imboccato la strada giusta;
un percorso, tuttavia, che potrebbe forse svilupparsi ed arricchirsi
attraverso un ulteriore coinvolgimento dei propri stakeholder, interni
ed esterni.
Formula Servizi, dal canto suo, sembra mostrare un vivo interesse
per una gestione coerente con i principi dell’etica e della solidarietà.
La politica di responsabilità sociale si declina in questa particolare
realtà sia all’interno, verso i soci ed i dipendenti, con l’attivazione di
meccanismi di partecipazione ai profitti, l’investimento nella
formazione e nel miglioramento della salute-sicurezza delle risorse
umane impiegate e l’implementazione di strumenti a favore dei
soggetti deboli, sia verso l’esterno, come testimonia l’attenzione
rivolta alla tutela dell’ambiente ed al miglioramento del contesto
sociale nel suo complesso.
Granarolo, ancora, appare portatrice di un approccio di filiera attento
alla qualità, all’ambiente ed ai contesti sociali in cui si trova ad
operare. I limiti del percorso intrapreso “verso la sostenibilità”,
infatti, si riscontrano forse sul versante “interno”, laddove una
politica più attenta alle categorie deboli ed alla conciliazione tra
tempi di vita di lavoro, potrebbe forse rendere più efficaci gli stessi
strumenti di partecipazione introdotti. Significativo, in ogni caso, il
coinvolgimento progressivo e sistematico degli stakeholder esterni.
La politica di responsabilità sociale di T&D, infine, appare orientata
soprattutto sul versante interno, vale a dire alla gestione dei
collaboratori e ad una valorizzazione delle risorse umane in termini di
formazione e di tutele aggiuntive.
In uno sguardo di insieme, dunque, le realtà più piccole paiono
declinare maggiormente le politiche di responsabilità sociale verso
l’interno, mentre processi di coinvolgimento sempre più sistematici e
255
periodici dei vari stakeholder, uno sviluppo rispettoso dell’ambiente e
del territorio, ed un’attenzione, quindi, all’impatto ambientale dei
propri prodotti e processi, pare caratterizzare maggiormente le realtà
di grande dimensione (responsabilità sociale verso l’esterno).
Significativo, tuttavia, nei cinque casi studiati, è rilevare, a fianco di
una centralità assegnata a temi quali la qualità, la formazione, la
salute e sicurezza dei lavoratori, l’adozione di alcuni strumenti
innovativi volti a coinvolgere maggiormente i lavoratori, ma
soprattutto a mettere al centro le loro esigenze e la loro
soddisfazione sul luogo di lavoro.
Il riferimento, infatti, va all’adozione di nuove formule contrattuali,
ad azioni positive volte a conciliare tempi di vita e di lavoro,
all’attenzione dedicata alle categorie più deboli ed al tentativo di
attivare politiche di partecipazione dei lavoratori alle decisioni ed agli
utili aziendali; il riferimento va, ancora, a quelle politiche che,
attraverso l’inserimento di tutele e dispositivi aggiuntivi, cercano di
attenuare quei processi di frammentazione e di individualizzazione
nell’attuale contesto di trasformazione del mercato del lavoro.
Politiche e strumenti significativi che non sono certo privi di rischi e
di contraddizioni e che, considerando la forte e rapida variabilità dei
contesti, abbisognano di processi di monitoraggio continui,
permanenti e flessibili, di cui forse solo un continuo processo di
coinvolgimento e confronto con i vari stakeholder interni ed esterni
può garantirne la coerenza.
Come nota in conclusione un dirigente coinvolto nell’indagine,
infatti, possiamo chiamare questi processi di “responsabilità sociale,
etica, o comunque governo delle relazioni e dell’impresa, ma il
punto resta sempre quello. Cioè senza avere un approccio
multilaterale, che tenga conto di tutti i soggetti che sono investiti,
secondo me non si va avanti. Prima o poi i nodi vengono al pettine,
e per qualcuno sono già venuti”.
8
4. Conclusioni
Diverse ragioni, al di là delle normative previste, inducono le imprese
odierne ad adottare comportamenti etici. A volte è la sensibilità della
proprietà o del management che compie le proprie scelte sulla base di
256
principi morali superiori; altre volte è la pressione esercitata dai
consumatori e dagli investitori che modificano il proprio
comportamento sulla base di valutazioni relative ai comportamenti
delle imprese. Altre ancora è un modo per l’azienda di distinguersi da
quelle realtà che negli ultimi anni si sono imposte agli onori della
cronaca per la loro condotta “irresponsabile”. Resta il fatto che il
perseguire obiettivi di profitto, imprescindibili per qualsiasi impresa,
deve sempre più coniugarsi con la considerazione degli interessi di
tutte le “parti coinvolte”, con l’attenzione alle problematiche sociali
ed ambientali su cui l’impresa esercita la propria influenza e con
l’equità dei criteri di distribuzione della ricchezza. Un sotto-sistema
economico (l’impresa) dunque pienamente “embedded” (incorporato)
nel sotto-sistema sociale al quale non può non fare riferimento.
Parallelamente va diffondendosi la consapevolezza che il governo
dell’impresa secondo principi etici non è solo una cosa “giusta” ma è
anche una cosa “utile” per garantire redditività e sviluppo nel lungo
periodo.
Per ottenere ciò non è sufficiente formalizzare principi o ottenere
apposite certificazioni ma occorre che a tali elementi si associno il
riferimento a valori condivisi in grado di qualificare le prassi
gestionali e le azioni quotidiane in un contesto economico-produttivo
caratterizzato da elevata complessità e crescenti margini di
incertezza. A questo occorre affiancare strumenti di auto-valutazione
e sistemi di rendicontazione che, in base al principio di trasparenza,
permettano all’opinione pubblica di verificare la corrispondenza fra i
valori e gli obiettivi enunciati ed il loro effettivo rispetto.
Il comportamento etico diviene, così, una nuova modalità di governo
dell’impresa che implica da un lato l’assunzione di responsabilità
riguardo agli effetti generali delle proprie scelte e dall’altro l’apertura
di un dialogo ed un confronto continuo - e qui forse sta la maggiore
difficoltà - con una ampia platea di soggetti a diverso titolo
interessati.
257
Appendice
Breve descrizione delle aziende del campione
non coinvolte negli studi di caso
Autolinee dell’Emilia S.p.a.
Autolinee dell’Emilia S.p.a è la principale società di trasporto pubblico su
gomma nel territorio reggiano, con una rete di servizi urbani ed extraurbani.
Certificazioni: oltre a SA8000 possiede la certificazione di qualità Iso 9001:00.
Fatturato, utile e valore aggiunto: ha un fatturato che pur in lieve diminuzione
negli ultimi tre anni oscilla attorno ai 19.000.000 di euro, un utile netto di circa
5.000 euro ed un valore aggiunto di quasi 14.000.000 di euro.
Collaboratori: su un totale di 252 lavoratori, dieci sono donne. Per il 53% essi si
collocano nella fascia di età tra i 33 e 45 anni, per il 30% oltre i 45 anni e solo il
14% ha un’età inferiore ai 32 anni. Pochi sono infatti i lavoratori assunti in
azienda da meno di 5 anni, mentre il 35% è presente già da 5 a 10 anni, il 28%
da 11 a 20 anni, ed il 30% da oltre vent’anni.
Qualifiche e contratti: il 94% dei lavoratori è assunto con la qualifica di operaio
e solo il 5% con quella impiegatizia. La retribuzione media lorda corrispondente
alla categoria dirigenti è 4,8 volte superiore rispetto a quella corrisposta agli
operai, 4,2 volte superiore rispetto agli impiegati e 2,6 rispetto ai quadri. Inoltre,
quasi la totalità dei dipendenti (96%) ha un contratto a tempo pieno ed
indeterminato, mentre 7 persone fra cui 5 donne hanno un contratto part-time.
Due donne, ancora, hanno un contratto di formazione lavoro. Nel corso del 2003
non vi è stata alcuna nuova assunzione, mentre otto dipendenti a tempo pieno ed
indeterminato sono usciti dall’organico e 26 soggetti hanno usufruito di un
passaggio di livello.
Formazione: 24 è il numero di ore medie di formazione per dipendente, ed un
unico corso è stato organizzato nel 2003 su tematiche etiche o sociali.
Sindacalizzazione: il 70% dei lavoratori è iscritto ad un sindacato. Il numero di
ore di sciopero, notevolmente diminuito rispetto al 2002, si attesta attorno alle
1.800 nel 2003.
Sicurezza: fra il 2000 e il 2003 gli incidenti sul lavoro sono aumentati, passando
da 21 a 28; è tuttavia diminuito il loro grado di gravità.
Bolzoni S.p.a.
Bolzoni S.p.a. nasce nel 1945 a Piacenza, specializzandosi nella produzione di
attrezzature per carrelli elevatori, piattaforme elevatrici e transpallet manuali.
Nel tempo Bolzoni S.p.a. si espande a livello internazionale, creando filiali
dirette in Francia, Spagna, Inghilterra e negli Stati Uniti, oltre che una rete di
distributori in tutta Europa e nel resto del mondo. Nel 2001, in seguito
258
all’acquisizione della ditta finlandese Auramo Oy, Bolzoni S.p.a. crea il gruppo
Bolzoni-Auramo, oggi uno dei maggiori produttori mondiali di attrezzature per
carrelli elevatori. Il Gruppo, infatti, detiene cinque stabilimenti produttivi a
livello internazionale, 13 filiali dirette, un organico di circa 550 persone ed un
fatturato di circa 80 milioni di euro.
Certificazioni: nel 1994 consegue la certificazione del Sistema di Qualità Iso
9001; nel 2003 Bolzoni S.p.a. è la seconda azienda metalmeccanica in Italia ad
ottenere la certificazione del Sistema di Responsabilità Sociale secondo le norme
SA8000:2001 e, sempre nel 2003, la certificazione En-729-2 relativa alla qualità
della saldatura.
Fatturato, utile e valore aggiunto: Bolzoni S.p.a ha un fatturato che negli ultimi
tre anni si aggira attorno ai 50.000.000 di euro, un utile netto che, invece, in
diminuzione si stanzia attorno a 1.150.000 euro ed un valore aggiunto piuttosto
stabile attorno ai 19.000.000 di euro.
Collaboratori: sui 550 dipendenti del gruppo Bolzoni-Auramo circa 250 fanno
parte di Bolzoni S.p.a. Il 20% ha un’età compresa tra i 26 e i 32 anni, il 50% tra
i 33 ed i 45, ed il 24% oltre i 45 anni. Nonostante l’età media piuttosto elevata,
un 40% è alle dipendenze della società da meno di 5 anni, il 22% da 5 a 10 anni,
ed un 36% da oltre 11 anni. Il livello di istruzione dei dipendenti è per il 65% al
massimo di licenza media, mentre il 33% è diplomato e solo il 4,8% laureato.
Contratti e qualifiche: l’organico della Bolzoni S.p.a è costituito da 6 dirigenti,
91 impiegati e 146 operai; le donne, rappresentando quasi il 20% dell’organico,
sono quasi equamente distribuite tra ruoli impiegatizi ed operai. Quasi la totalità
dei dipendenti è assunta con contratto a tempo pieno ed indeterminato, 2 uomini
e 4 donne con un contratto part-time. Le altre formule contrattuali sono pressoché
irrilevanti. Nel 2003, tuttavia, osservando le assunzioni si registra un utilizzo di
formule contrattuali diversificato. Su 33 nuove assunzioni, solo 7 sono avvenute
con contratto a tempo pieno ed indeterminato, mentre 10 persone hanno usufruito
di contratti a tempo determinato (successivamente trasformati a tempo
indeterminato), 13 di contratti interinali e 2 di formazione lavoro. Su 19
cessazioni di lavoro, inoltre, 14 concernevano lavoratori a tempo pieno ed
indeterminato, 5 lavoratori a tempo determinato, 12 contratti interinali ed un
contratto di formazione lavoro. Nel corso del 2003, inoltre, si sono registrati
trenta passaggi di livello, di cui 7 riconosciuti a personale femminile e 4 a
lavoratori extracomunitari. Per ciò che concerne la retribuzione, infine, i
dirigenti percepiscono in media uno stipendio 3,31 volte superiore rispetto agli
operai e 2,16 volte maggiore rispetto agli impiegati.
Formazione: 10 è il numero medio di ore di formazione per dipendente, 8
considerando unicamente le donne e 6 rispetto ai lavoratori extracomunitari; tre è
il numero di corsi organizzati su tematiche etiche o sociali.
Sindacalizzazione: il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori a tempo
determinato è diminuito negli ultimi 3 anni dal 42 al 37,5% e le ore di sciopero
da 4.000 a circa 2.800.
259
Qualità e sicurezza: il livello di turnover è passato in un anno dal 10,37%
all’8,13% ed il livello di assenteismo registra un tasso del 3,88%. Per ciò che
concerne gli incidenti sul lavoro, essi sono in notevole diminuzione nei tre anni
considerati, così come in diminuzione è il loro grado di gravità.
Comunità locale: nel corso del 2003 Bolzoni S.p.a. ha devoluto 11.000 euro in
attività di beneficenza, per la sponsorizzazione di iniziative sociali e per il
sostegno di progetti umanitari in paesi in via di sviluppo.
Fondazione Aldini Valeriani
La Fondazione Aldini Valeriani, ente di formazione e consulenza, nasce nel 1997
in seguito ad una serie di riflessioni avanzate dal Comune e dalle associazioni
imprenditoriali bolognesi. Opera principalmente sul territorio comunale e
regionale, proponendo servizi di supporto e consulenza, attività corsuali e
progetti formativi personalizzati per aziende, Pubbliche Amministrazioni e
privati.
Certificazioni: la Fondazione ha ottenuto la certificazione SA 8000:2001 ed Uni
En Iso 9001 per la progettazione ed erogazione di servizi finanziati di ricerca,
orientamento e formazione professionale nonché per l’erogazione di attività
formative a diretta richiesta aziendale o interaziendali a mercato.. Risulta,
inoltre, un Centro di formazione accreditato dalla Regione Emilia Romagna.
Qualifiche e contratti: l’ente ha 15 dipendenti, di cui 12 (pari all’80%) di sesso
femminile. Tra essi dodici lavoratori (9 donne e 3 uomini) sono assunti con la
qualifica di impiegato, solo due lavoratrici con quella di operaio ed una
lavoratrice con quella di dirigente. Per quanto riguarda la tipologia contrattuale,
la maggior parte del personale, una percentuale pari all’87%, ha un contratto a
tempo pieno ed indeterminato, mentre solo il 13% (ossia 2 lavoratrici) ha un
contratto a tempo determinato. Completano l’organico 30 lavoratori a progetto o
collaboratori occasionali, di cui 19 di sesso femminile. Nel corso del 2003 vi sono
state sei cessazioni contrattuali riguardanti esclusivamente lavoratori a
progetto/collaboratori occasionali ed un’unica nuova assunzione con contratto a
tempo determinato.
Formazione: il numero medio di ore di formazione realizzato durante l’anno
2003 per dipendente è pari a 5. L’attività formativa è stata finalizzata alla
creazione di competenze trasversali utili per l’attività lavorativa (comportamento
organizzativo e project management), nonché alla sensibilizzazione dei
lavoratori sul D. Lgs. 626/94 e sui rischi derivanti dall’uso dei videoterminali.
Un unico corso è stato organizzato nel medesimo anno su tematiche sociali e/o
etiche.
Sicurezza: nessun infortunio sul lavoro è avvenuto nel 2003, dato che dimostra
un miglioramento delle condizioni di salute dei lavoratori rispetto all’anno
precedente quando si era verificato un incidente della durata di 90 giorni.
Linea Sterile S.p.a.
260
Linea Sterile S.p.a. è un’azienda di Gatteo operante nel settore della lavanderia
industriale, fornitrice di servizi a favore di strutture sanitarie. In particolare, si
occupa di dotare i presidi ospedalieri di tutto il materiale tessile necessario alla
normale attività (i dispositivi tessili per i reparti di degenza, per la vestizione e la
protezione del personale medico e paramedico e dei dispositivi medici sterili per
l’allestimento del campo operatorio) e ripristinarlo quotidianamente attraverso un
servizio integrato di noleggio, ricondizionamento e logistica dei dispositivi tessili
e di quelli medici sterili, effettuato tramite il ritiro del materiale ed un processo di
lavaggio, disinfezione, sanitizzazione e sterilizzazione dei dispositivi usati e
riutilizzabili, nonché consegna del materiale e gestione dei guardaroba o dei
depositi all’interno delle strutture sanitarie.
Certificazioni: oltre ad aver conseguito la certificazione in conformità con la
norma SA8000:2001, l’azienda ha realizzato un sistema di gestione integrato in
materia di qualità, ambiente e sicurezza del lavoro (in base alle norme Uni En Iso
9001:2000, Uni Cei En Iso 13488:2002 e Uni En Iso 14001:1996). In quest’ottica
si è dotata di un audit etico ed un bilancio sociale, entrambi verificati da enti
esterni. L’attenzione rivolta alla dimensione etico-sociale è in parte dimostrata
dalle attività a sfondo collettivo poste in essere nel 2003, consistenti in
sponsorizzazioni ad iniziative pubbliche, donazioni benefiche e contributi alla
ricerca per un totale di circa 58.868 euro.
Fatturato, utile e valore aggiunto: l’azienda ha raggiunto nel 2003 un fatturato
di 9.846.990 di euro, in graduale aumento rispetto agli anni precedenti
(9.520.721 di euro nel 2002 e 9.088.264 di euro nel 2001). Nel lasso di tempo
considerato risultano ugualmente in crescita l’utile netto, che nel 2003 si stazia
attorno a 330.789 euro, e il valore aggiunto, che nello stesso anno ammonta a
4.106.950 di euro.
Collaboratori: l’organico di Linea Sterile al 31 dicembre 2003 è costituito da 137
operatori, prevalentemente di sesso femminile (110 operatrici, pari all’80%). La
maggior parte dei lavoratori si colloca nella fascia di età compresa tra i 33 ed i 45
anni che raggiunge una percentuale pari al 59%, seguita dalla classe successiva
(il 20% ha un’età superiore ai 45 anni) e da quella immediatamente precedente
(il 17% ha un’età compresa tra i 26 ed i 32 anni), mentre solo 6 lavoratori si
situano nella classe di età compresa tra i 18 ed i 25 anni. Relativamente alla
anzianità media degli operatori, si riscontra una distribuzione piuttosto equa
nelle varie categorie inferiori ai 20 anni: infatti, il 26% dei lavoratori è assunto
da meno di 2 anni, il 23% da un periodo compreso tra 3 e 5 anni, il 26% da un
periodo compreso tra 5 e 10 anni ed il restante 25% da un periodo compreso tra
11 e 20 anni. Considerando invece la variabile relativa al titolo di studio, la
maggioranza dell’organico, pari al 63%, ha conseguito la licenza media, mentre
quote significativamente inferiori il diploma superiore o solo la licenza
elementare (rispettivamente il 29% e l’8%).
261
Qualifiche e contratti: significativo è l’utilizzo di contratti a part-time, che
riguarda 89 lavoratori (pari al 65%) di cui 86 di sesso femminile. Tra i restanti
dipendenti, 24 sono assunti con un contratto a tempo pieno e indeterminato, 20
con un contratto a tempo determinato e 4 con altre tipologie contrattuali non
specificate. Più in particolare, il 91% del personale è assunto con la qualifica di
operaio, mentre solo il 7% con quella di impiegato ed il 2% con quella di quadro.
La retribuzione di questi ultimi presenta una maggiorazione del 19% rispetto a
quella degli impiegati, del 38% rispetto a quella degli operai full-time e del 45%
rispetto a quella degli operai part-time. Nel corso dell’anno 2003 si sono avute 35
assunzioni, 11 uscite e 23 passaggi di livello che hanno riguardato
principalmente personale femminile (il 91%).
Sindacalizzazione: nel 2003 risulta iscritto al sindacato il 78% dell’organico, in
aumento rispetto agli anni precedenti in cui si registravano tassi di
sindacalizzazione del 67% nel 2001 e del 76% nel 2002. Il numero di ore di
sciopero si attesta attorno alla decina.
Sicurezza: dal 2001 il numero di incidenti sul lavoro è diminuito, passando da 15
a 10 infortuni, così come si è ridotto il loro grado di gravità.
Luigi Bormioli S.p.a.
La vetreria “Ingegner Luigi Bormioli” nasce a Parma nel 1946 per dedicarsi alla
produzione e commercializzazione di flaconi in vetro per la profumeria. Dal
1973 ha esteso la produzione ad articoli per la casa, presentando oggi 15 diverse
linee produttive. Fin dal 1985 comincia a rivolgersi anche al mercato
internazionale, che oggi rappresenta i tre quarti del suo fatturato. Ha oltre 900
dipendenti.
Certificazioni: è certificata Iso 9001 dal 1996 (oggi Iso 9001:2001 Vision) e
SA8000 dal 2003.
L’azienda non ha reso la scheda di rilevazione compilata, e non sono quindi
disponibili ulteriori informazioni.
Mollificio Fratelli Ballotta S.r.l.
Il Mollificio F.lli Ballotta opera dal 1959 a Calderara di Reno in provincia di
Bologna con una produzione di molle utilizzate in un’ampia gamma di settori
civili e industriali, rivolta prevalentemente al mercato nazionale.
Certificazioni: dopo aver ottenuto nel 1996 la certificazione del sistema di qualità
Uni En Iso 9002, nel 2001 il Mollificio Ballotta diviene la prima azienda italiana
del settore metalmeccanico certificata SA8000, ottenendone il rinnovo nel 2004.
Nel corso della sua attività ha ricevuto diversi premi per la qualità dei suoi
prodotti, tra i quali la targa d’oro decennale 1968-1978 ed il premio nel 1998
entrambi per qualità e cortesia. Il mollificio Ballotta ha inoltre redatto un codice
etico e il Bilancio SA8000. Quest’ultimo contiene sia indicazioni di principio
262
contro l’utilizzo di lavoro minorile, discriminazioni di genere, religione o
nazionalità, che alcune linee di condotta concernenti l’azienda ed i lavoratori.
Fatturato, utile e valore aggiunto: ha un fatturato che si stanzia attorno a
1.346.000 euro ed un utile netto di circa 1.600 euro.
Collaboratori, qualifiche e contratti: ha un totale di 13 dipendenti,
prevalentemente nella fascia di età tra i 33 e 45 anni, con una anzianità media di
circa 11 anni; di questi, uno ha la qualifica di dirigente, due donne hanno la
qualifica di impiegate, 10 di operai (di cui quattro donne). Impiegati ed operai
hanno la medesima retribuzione lorda. In particolare, l’azienda aderisce al
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro stipulato tra UnionMeccanica-Confapi e
Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil, applicando tuttavia una retribuzione oraria di
media superiore rispetto a quella prefissata. In base a quanto dichiarato nel
Bilancio SA8000, inoltre, l’azienda si prefigge come obiettivo, laddove possibile,
il non ricorso a straordinari e l’utilizzo, a fianco di contratti a tempo
indeterminato, di soli contratti di apprendistato o formazione-lavoro con
l’effettivo obiettivo futuro di inserimento nell’organico. Attualmente, infatti, tutti
i dipendenti sono assunti con contratto a tempo pieno ed indeterminato.
Formazione: nel Bilancio SA8000 l’azienda dichiara di dare centralità alla
formazione dei suoi dipendenti, organizzando annualmente corsi di
aggiornamento anche sulla norma SA8000 e su tematiche etiche. Tre è il numero
di ore di formazione medio per dipendente nel 2004.
Sindacalizzazione: la quasi totalità dei lavoratori è iscritta al sindacato, con un
numero di ore complessivo di sciopero pari a 412 totale nel corso del 2003,
relative a scioperi di livello nazionale.
Sicurezza: nel 2003 sono avvenuti due incidenti sul lavoro, con una durata media
di 4,5 giorni.
Comunità locale: nel 2003 il Mollificio Ballotta non ha destinato risorse alla
comunità locale.
Piacenza ‘74 S.c.a.r.l.
Piacenza ‘74 S.c.a.r.l. è una cooperativa di abitazione costituita nel territorio
piacentino nel 1974. Si tratta di un’impresa, a responsabilità limitata, formata da
cittadini associatisi per realizzare insieme immobili da assegnare a sé stessi in
proprietà o in godimento, a condizioni più favorevoli di quelle presenti sul
mercato e finanziandone la costruzione, almeno in parte, con i propri risparmi.
Fin dalla sua fondazione, infatti, l’obiettivo prefissato dalla cooperativa è stato
quello di acquistare terreni, costruire, permutare e ristrutturare fabbricati o
porzioni di essi, da assegnare in proprietà divisa o indivisa, anche a mezzo di
contratto di locazione, con patto di futura vendita, senza fine di lucro,
avvalendosi di tutte le disposizioni di legge a favore dell’edilizia economica e
popolare. In trent’anni la cooperativa ha raccolto circa 6.200 soci, di cui 2.700
attivi e realizzato oltre 2.000 alloggi.
263
Certificazioni: Piacenza ‘74 ha intrapreso un percorso verso la qualità e la
responsabilità sociale con l’adozione di un sistema di gestione integrato Iso 9001
e con l’adesione allo standard internazionale SA8000.
Non avendo la cooperativa restituito la scheda aziendale compilata, non sono
disponibili ulteriori informazioni.
Technogym
Technogym è un’azienda leader nel mondo nella produzione di attrezzature per
il fitness e la riabilitazione biomedica, fondata nel 1983 a Gambettola. Oggi il
gruppo Technogym impiega circa 1.000 collaboratori diretti in Italia e all'estero,
la cui età media è di 29 anni, e conta 10 filiali, dislocate in tutto il mondo (USA,
Gran Bretagna, Germania, Francia, Benelux, Spagna, Portogallo, Asia, Giappone
ed Italia). Esporta oltre l'80% della produzione in più di 60 paesi.
Certificazioni: l’azienda, da sempre impegnata a promuovere il benessere delle
persone e lo sviluppo del territorio, alla fine del 2000 si è dotata di un sistema di
gestione per la qualità, aderendo alla norma Iso 9001. In linea con questa sua
politica, nel 2003 ha conseguito le certificazioni del Sistema di Responsabilità
Sociale, in conformità con lo standard internazionale SA8000, e del Sistema di
Gestione Ambientale (S.G.A.), secondo i requisiti della norma Uni En Iso 14001.
Inoltre, la coerenza e l'impegno costante dimostrato anche in ambito interno,
verso il proprio organico, promuovendo un clima di lavoro positivo, ha portato
nel 2003 al riconoscimento internazionale di “Great Place to Work”, in base al
quale Technogym entra fra le prime aziende italiane ed europee per la qualità
dell'ambiente di lavoro.
L’azienda non ha reso la scheda compilata, pertanto non sono disponibili
ulteriori informazioni.
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266
La buona pratica ergonomica per migliorare la
qualità del lavoro: contributo alla
responsabilizzazione dell’impresa e dei
lavoratori nella prevenzione del cosiddetto
“errore umano”
PAOLA CENNI
1 Introduzione
Per introdurre questo saggio è opportuno ricordare ancora
una volta il contributo dell’ergonomia al benessere lavorativo, basato
sull’apporto di differenti discipline che interagiscono fra loro per
contrastare opportunamente una cultura omai superata che ancora
oggi, nell’affrontare il problema della qualità del lavoro, adotta la
logica sterile della separatezza delle competenze. Questa premessa è
necessaria per sciogliere alcuni dubbi che potrebbero sorgere,
soprattutto in ambito accademico, quando si tratta di “accogliere”
l’ergonomia come vera scienza autonoma, con paradigmi e obiettivi
propri, alla stregua delle già affermate e autorevoli scienze umane,
biomediche e politecniche che la sostengono e le consentono di
esistere.
Durante il recente conferimento, da parte dell’Università di
Bologna, della laurea ad honorem in psicologia a Jean-Claude
Sperandio (uno dei più importanti studiosi europei di ergonomia),
sono emerse dalla sua lezione dottorale considerazioni teoriche ed
operative estremamente interessanti sulle attività umane, da studiare
e gestire nel loro proprio contesto /1/. Attraverso il suo concetto di
“ergonomia situata” presuppone, infatti, che tanto le attività fisiche
quanto le attività mentali debbano essere studiate efficacemente solo
nei luoghi reali di lavoro, nella loro quotidianità e, soprattutto,
attraverso il coinvolgimento dei lavoratori. Si tratta di un criterio che
va oltre un semplice approccio metodologico perché sottende una
teoria in sé, nella misura in cui fornisce gli orientamenti per stimolare
la costruzione di paradigmi di ricerca specifici, in grado di
evidenziare meccanismi e rapporti di causalità già sperimentati
267
nell’ambito di ciascuna disciplina di riferimento. Il legame che si
stabilisce fra competenze non è sufficiente per valutare e capire il
lavoro: occorre coinvolgere le persone che operano nei diversi
contesti organizzati per dar voce anche a quel “senso comune” che,
in questi casi, non va stigmatizzato come superficiale o incoerente
rispetto ai materiali di prova forniti dalle teorie più affermate.
L’ergonomia rivendica così il suo diritto di cittadinanza in un
contesto scientifico dove le discipline che si occupano di salute,
sicurezza e performance (dalle politecniche, alle biomediche e
psicosociali) non sono in grado di produrre, in autonomia, una sintesi
conoscitiva dell’intero sistema lavorativo. Al contrario, il suo
modello concettuale articolato e flessibile si pone l’obiettivo di capire
le dinamiche complesse che condizionano la qualità del lavoro, a
partire dalla centralità della persona, attraverso varie tecniche di
misura e strumenti di valutazione oggettiva e soggettiva.
In particolare, le buone pratiche per prevenire o ridurre il
rischio di “errore umano”, applicate alla progettazione di sistemi e
processi lavorativi, contribuiscono a contrastare il timore, spesso
manifestato dagli ingegneri, circa la presunta fragilità dell’uomo
all’interno di una rete di sicurezza. A fronte di decisioni che agiscono
su una sola variabile, tentando di sostituire la persona con qualche
componente tecnico considerato più affidabile, viene contrapposta la
possibilità di percorrere più strade per valorizzare appieno il fattore
umano. Se da un lato occorre agire a livello di qualità e quantità della
mansione, di adeguamento delle postazioni lavorative, di
presentazione delle informazioni da elaborare, diminuendo sia le
costrizioni ambientali che temporali; dall’altro, la sicurezza viene
intesa come condizione strettamente legata sia allo sviluppo delle
risorse umane (attraverso un’adeguata formazione ed un sufficiente
addestramento), sia all’eventuale utilizzo di ausili tecnologicamente
avanzati.
Infine, sui temi della Responsabilità Sociale d’Impresa e sugli
standard normativi già elaborati in tal senso (vedi, ad esempio, la
norma internazionale SA800 per la certificazione etica della gestione
del personale), è confortante verificare che tali problematiche
rientrano nel “rispetto dei diritti umani”, attraverso un’ottica di
268
governance che chiama in causa, oltre ai rappresentanti del
management aziendale, le amministrazioni pubbliche e le
organizzazioni sindacali.
2 Il ruolo dell’ergonomia in un’impresa eticamente
orientata
Alcune riflessioni del sociologo Giuseppe Fortuna del Trinity
College di New York /2/ sul ruolo dell’ergonomia in un’impresa che
intende essere etica, portano ad una domanda interessante: “si può
considerare un’impresa che si apre alle buone pratiche
ergonomiche, un’impresa socialmente responsabile e quindi
eticamente orientata ?”.
Senza pretendere di assimilare l’etica all’ergonomia, è
plausibile ritenere che se una realtà lavorativa assume i principi
ergonomici a fondamento della propria organizzazione interna, può
considerare realizzata una parte della sua mission etica.
Questo dibattito molto attuale e non ancora sufficientemente
approfondito, ha il pregio ed il significato di aprire la riflessione su un
percorso di ricerca che, in un momento di prepotente bisogno di
valori, sappia coniugare e ritrovare “legami forti” fra principi di
ergonomia e principi di etica economica e sociale sollecitando la
responsabilità dell’impresa, a partire da un cambiamento di relazioni
fra i soggetti al suo interno e, successivamente, nei confronti
dell’utenza esterna.
Josep M. Lozano, Direttore dell’Instituto Persona, Empresa
y Sociedad di Esade (IPES), organo consultivo del Ministero del
Lavoro spagnolo, propone alcune definizioni di Responsabilità
Sociale d’Impresa (RSI) coerenti con la vision ergonomica /3/.
Un primo punto di contatto si ritrova laddove viene
considerata “un’opportunità per creare un’identità corporativa e di
differenziazione nei confronti della società”. Ciò significa pensare
all’impresa come ad un sistema integrato con una fisionomia originale
e ben strutturata, alla cui definizione contribuisce la capacità di
attribuire importanza alla dimensione comunicativa e al
coinvolgimento di tutte le persone che vi operano. Al riguardo, è ben
269
nota l’importanza che la buona pratica ergonomica attribuisce agli
aspetti partecipativi e relazionali del lavoro.
Un secondo punto di contatto lo si apprezza quando la
Responsabilità Sociale d’Impresa viene considerata “un impegno e
un processo (e non un insieme sconnesso di iniziative)”. Definizione
che richiama il modello “organicistico” (per obiettivi) raccomandato
dall’ergonomia quando, a proposito di organizzazione del lavoro, fa
riferimento ad una vision del sistema non solo differenziata e
collaborativa ma anche integrata ed armonica, in grado di scegliere la
cultura dinamica dei processi, piuttosto che quella statica degli atti
intesi come iniziative isolate, divergenti o, comunque, incapaci di
favorire la condivisione di significati e di obiettivi.
Un terzo punto di contatto risiede nelle opportunità di
innovazione che, in entrambi i casi, vengono accolte e gestite
tenendo conto della centralità della persona.
L’impresa orientata alla responsabilità sociale decide di
accettare le sfide del nostro tempo, compensando gli eccessi della
globalizzazione con strategie organizzative sempre più propense a
ricorrere ad una sussidiarietà circolare che comporta
un’amministrazione condivisa (Zamagni, 2004) /4/. Pertanto, in
assenza o carenza di stato nazionale, l’atteggiamento innovativo
consiste nell’aderire alla triade territoriale di base costituita di:
istituzioni locali (comuni, province, regioni, etc.); associazionismo
sociale ed economico (organizzazioni sindacali, associazioni non
profit, etc.); imprese. Dal suo canto l’ergonomia contrasta il possibile
disagio psicosociale indotto dall’economia planetaria, favorendo un
ritorno all’etica che ha la sua fonte originaria nel legame sociale
(rapporto fra gli esseri umani), a monte della dimensione economica.
Infine, un’impresa eticamente orientata condivide con la
vision ergonomica la tendenza ad integrare i propri principi nelle
pratiche corporative e nelle attività da svolgere. Se da un lato ciò
favorisce un senso di appartenenza comunitaria, finalizzata allo
sviluppo di una funzione realmente utile in una società i cui scopi
economici dovrebbero essere considerati soprattutto come mezzi per
raggiungere altri fini; dall’altro, l’ergonomia si propone di rafforzare
il senso di responsabilità e partecipazione nell’uomo, a fronte di un
270
ruolo “anonimo” che gli farebbe perdere autonomia e dignità
professionale.
Tutte le convergenze sopra riportate presuppongono una
leadership aziendale in grado di stabilire ed alimentare un clima di
fiducia che rappresenta, inequivocabilmente, una parte importante del
valore di un’impresa. Sul piano organizzativo, ciò viene spesso
attribuito alla buona articolazione strutturale dei sistemi lavorativi ed
alla trasparenza dei processi operativi che aiutano le persone a
riconoscersi come “attori” in grado di identificare con chiarezza il
loro ruolo e i confini delle proprie competenze.
1
L’interpretazione dei concetti di rischio ergonomico e
psicosociale in un’ottica di qualità del lavoro
Nuove normative e nuove tematiche di formazione, destinate
agli attori che nei contesti lavorativi si occupano di salute e sicurezza,
hanno richiamato l’attenzione su alcuni rischi non ancora percepiti
con sufficiente chiarezza. Viene quindi naturale il riferimento al
D.Lgs. 195/03 laddove, a proposito della formazione dei responsabili
aziendali in tema di salute e sicurezza, richiama l’attenzione sui
“…..rischi, anche di natura ergonomica e psicosociale, di
organizzazione e gestione delle attività tecnico-amministrative e di
tecniche della comunicazione in azienda e di relazioni sindacali”.
Senza approfondire questioni di tipo “gestionale” o sindacale,
gli aspetti più innovativi da interpretare e capire sono appunto i rischi
“trasversali” (ergonomici, psicosociali e di comunicazione) per
acquisire informazioni utili ad una valutazione esaustiva delle
problematiche che attengono alla qualità del lavoro.
Il rischio di natura ergonomica
Con il termine “ergonomia” si definisce, tra l’altro, “un modo
nuovo di studiare e gestire i rapporti che l’uomo stabilisce
all’interno del suo ambiente di lavoro”. Il suo contributo si ritrova
nella progettazione di molte strumentazioni e arredi: l’esempio più
diffuso e banale è rappresentato dal design di sedie o piani di lavoro,
pensati e realizzati per evitare disturbi muscoloscheletrici alle
271
persone. Ovviamente tale approccio sarebbe troppo riduttivo se non
avesse dato seguito anche ad uno sviluppo di natura psicosociale che
riguarda sia l’ergonomia di correzione che quella preventiva (di
concezione).
L’ergonomia di correzione si caratterizza soprattutto perché,
a fronte di errori dell’uomo ed errori della macchina, si pone
l’obiettivo d’intervenire per cercare un miglior adattamento delle
attrezzature alla persona laddove, fino alla metà del secolo scorso,
accadeva il contrario. In linea con questi due diversi orientamenti, lo
psicologo del lavoro è stato coinvolto inizialmente con il compito
preciso di individuare, attraverso la selezione del personale “l’uomo
giusto per il posto giusto”. Ciò significa adattare l’uomo alla
macchina e a certe mansioni, piuttosto che l’opposto. In seguito,
l’ergonomia ha avuto il merito di chiedere alla psicologia un
contributo ben diverso: quello di fornire ai progettisti informazioni
sul funzionamento dell’apparato cognitivo dell’uomo quando si
rapporta al suo contesto operativo.
La concezione centrata sulle relazioni che il lavoratore
stabilisce con gli artefatti tecnologici, con gli altri componenti del
gruppo di lavoro e con l’organizzazione produttiva nel suo
complesso, va così a sostituire quella atomistica basata sulla
contrapposizione fra l’uomo e la macchina. Tale evoluzione, oltre a
vanificare il distinguo fra errore “umano” ed errore “tecnologico”,
auspica anche un approccio sistemico al problema dell’affidabilità
affinché si vada oltre il “corretto funzionamento di un impianto, un
apparecchio, un dispositivo, sulla base delle caratteristiche tecniche
e di fabbricazione” (come da progetto e da certificazione). Occorre
rafforzare l’interesse per il contesto in cui operano persone, con
peculiarità e obiettivi che il progettista di sistemi non può trascurare
se ha compreso l’importanza di creare rapporti di compatibilità fra le
molte variabili presenti in una realtà lavorativa.
Al riguardo, non è possibile disconoscere il contributo
dell’ergonomia cognitiva al lavoro che cambia. Infatti, nei paesi
industrializzati è sempre più diffusa la tendenza ad affiancare o,
addirittura, a sostituire gli aspetti “hard” (fisici) delle attività con
quelli “soft” (mentali e relazionali). Ciò significa incidere anche sul
272
ruolo del lavoratore che si trova sempre più spesso a dover gestire il
passaggio da operazioni materiali a compiti di controllo svolti davanti
a display che inviano informazioni da percepire ed interpretare
correttamente.
Un’ulteriore tendenza riguarda il crescente bisogno di
semplicità d’uso delle attrezzature, con particolare riferimento alle
tecnologie informatiche che, più di altre, hanno tratto vantaggio
dall’applicazione dei principi dell’ergonomia cognitiva alla
progettazione dell’interfaccia uomo-computer (usabilità del
software).
Inoltre, si può affermare che la centralità dell’uomo e la
complessità dei contesti sociali hanno favorito, oltre al cognitivismo,
la teoria dei sistemi (aderendo ad una visione integrata di tutte le
variabili presenti sul lavoro) e la pragmatica, per enfatizzare gli
effetti della comunicazione sui comportamenti dell’uomo
(Watzlawick et al., 1971) /5/.
L’evoluzione in queste discipline di riferimento, ha contribuito
a rendere sempre meno praticabile il tentativo di individuare regole
generali sull’affidabilità di un sistema e sulla qualità delle interfacce,
dal momento che ogni situazione lavorativa è diversa dall’altra.
Pertanto, eventuali “generalizzazioni” sulle caratteristiche funzionali
di assetti, strumenti o processi non sono opportune soprattutto in
sede di valutazione dei rischi. Al riguardo anche Mantovani (2000)
/6/, come Sperandio, ribadisce l’importanza di “situare” l’ergonomia,
nel senso di applicare i suoi principi dopo aver attentamente
analizzato la tipologia aziendale e i bisogni delle persone che vi
operano, sia riguardo alle variabili di tipo hard che agli aspetti
psicosociali.
Soltanto la specificità e l’integrazione di tali conoscenze può
dare un giusto significato e molte probabilità di successo a iniziative
di valutazione, diagnosi ed intervento.
Il rischio di natura psicosociale
Per interpretare correttamente il senso attribuito al termine
“psicosociale” dal legislatore, interessato a tutelare la salute e la
sicurezza dei lavoratori, occorre circoscriverne con chiarezza il
campo d’interesse e di applicazione. In questo ambito non si fa certo
273
riferimento a problematiche esistenziali della persona o a certi suoi
particolari comportamenti “fuori norma”. Il rischio di natura
psicosociale va correttamente ricondotto ad una condizione dinamica
che, all’interno di un’organizzazione, rapporta i lavoratori alle sfide
ambientali da affrontare.
Questo stato d’instabilità può rappresentare sia un rischio che
un’occasione unica di sviluppo e, al fine di volgere in positivo tale
condizione, viene chiamata in causa la prospettiva interazionista
sostenuta con grande enfasi da uno psicologico importante come
Kurt Lewin che già all’inizio del secolo scorso, formulando la sua
“teoria di campo”, sottolineò il bisogno di una relazione significativa
dell’uomo con le attività da svolgere. I suoi principi anticipano la
“teoria sistemica” dell’ergonomia che riconosce agli apporti
multidisciplinari la peculiarità di capire le relazioni fra le molte
variabili presenti sul lavoro. In assenza di questa prospettiva
interazionista il rischio psicosociale si identifica con l’incapacità di
“adattamento attivo” del sistema (nel senso di trovare soluzioni alle
sfide ambientali), indispensabile per raggiungere un equilibrio
dinamico fra i problemi da risolvere e le risorse umane disponibili al
suo interno.
A questo proposito, Albert Bandura /7/ fa riferimento alla
necessità di rafforzare le convinzioni di autoefficacia del lavoratore,
nel senso di riconoscergli la dignità professionale che nasce dalle
capacità di gestire il rapporto personale con la realtà e dall’esperienza
che gli consente di trarre vantaggio dalle proprie “lezioni di vita” e
dalle opportunità presenti nell’ambiente. Queste considerazioni
enfatizzano ulteriormente il ruolo centrale dell’uomo e l’importanza
di acquisire nuove competenze dal momento che si agisce meglio
quando si possiede la sicurezza che deriva dalla pratica, dalla
convinzione del “saper fare” e dalla fiducia che l’organizzazione
aziendale ha saputo trasmettere.
Dare spazio agli aspetti psicosciali significa anche
preoccuparsi di capire che cosa pensa un lavoratore nel momento in
cui formula un giudizio di autoefficacia (ad esempio, quando dice a
se stesso: “sono certo di riuscire a svolgere questo compito entro la
fine della giornata”), perché ciò comporta attenzione sia per le fasi
274
intermedie che gli consentono di raggiungere il risultato finale, sia per
gli eventuali ostacoli o aiuti interni ed esterni che potrebbero
contrastarlo o favorirlo, rispettivamente.
Quando si affrontano i temi della sicurezza, attribuire la giusta
importanza a queste caratteristiche psicologiche significa tenere
conto che l’autoefficacia, capace di rendere l’uomo più consapevole
dei propri mezzi e più “produttivo”, non è una condizione stabile e
generale: occorre considerare l’informazione, l’addestramento e la
formazione come “agenti preventivi” in continua evoluzione,
indispensabili a fronte del disagio che può derivare
dall’imprevedibilità di certe situazioni o eventi. In sintesi, contrastare
il rischio psicosociale a livello organizzativo significa programmare
iniziative in grado di valorizzare l’uomo, informandolo sulle
caratteristiche del proprio contesto e sui processi lavorativi;
addestrandolo a governare i gesti e le operazioni richiesti dalle
mansioni da svolgere; formandolo ad una cultura della sicurezza che
tenga realmente conto di tutti i potenziali rischi presenti sul lavoro
(anche nel medio e nel lungo termine).
3 La prevenzione degli incidenti sul lavoro attraverso
l’analisi degli errori
1
L’ergonomia che corregge e l’ergonomia che previene gli
errori
In un’ottica di “correzione”, gli errori commessi dall’uomo o
dalla macchina durante il lavoro, vengono considerati come fonti di
rischio da tenere sotto controllo. In entrambi i casi il focus è centrato
su aspetti che, se mantenuti volutamente “distinti”, separano i
comportamenti individuali dalle disfunzioni tecniche del sistema: un
modo di concepire l’affidabilità assai distante dallo spirito sistemico e
relazionale dello stesso D.Lgs. 626, ancor più allineato alla cultura
europea attraverso le recenti integrazioni normative. Al di là degli
aspetti di salute e sicurezza tradizionalmente intesi e, quindi,
direttamente riconducibili ai fattori “hard” (gli agenti fisici), non si
può disconoscere a questa legge l’originalità - rispetto al pregresso di riservare attenzione anche ai fattori “soft” (aspetti mentali e
275
psicosociali) che inducono negli attori preposti alla sua applicazione
nuovi bisogni formativi.
Al riguardo, è bene far passare il messaggio sull’importanza di
non rapportarsi in modo “semplicistico” alla realtà lavorativa
evitando, ad esempio, di correlare un singolo evento ad una sola,
possibile causa. Si tratta invece di capire le relazioni fra tutte le
variabili che caratterizzano un sistema, considerando con attenzione
l’opportunità di migliorare la competenza comunicativa, per rendere
più efficaci la dialettica e il confronto, non solo all’interno del
management aziendale ma anche nel rapporto con gli stessi lavoratori
e i loro rappresentanti, da coinvolgere e responsabilizzare sulle
strategie organizzative e sulla gestione del contesto operativo di
appartenenza.
Anche in un’ottica di “concezione”, gli errori vanno ricondotti
all’insieme delle relazioni che si stabiliscono fra l’uomo, i suoi
comportamenti, i compiti da svolgere, le procedure in uso e
l’ambiente di lavoro. Ciò significa che, a livello preventivo, la
progettazione di oggetti e processi lavorativi, dovrà comportare la
consapevolezza che non si può intervenire su una sola variabile o
situazione pensando di risolvere il problema della sicurezza e del
benessere. Il messaggio è chiaro: sul rischio di natura ergonomica
incidono tutti gli eventi o le variabili che - all’interno di un sistema turbano le relazioni fra le parti che lo costituiscono, siano esse
riconducibili all’uomo o alla tecnologia.
Gli esperti impegnati seriamente sui temi della qualità del
lavoro sanno che l’ergonomia ha da tempo individuato l’oggetto delle
sue ricerche nel lavoro umano che cambia e che ciò implica il ricorso
a teorie e metodi di provata solidità scientifica e rilevanza sociale. Lo
scopo da raggiungere è la comprensione profonda dei
comportamenti dell’uomo a cui occorre dare grande priorità per
poter seguire, al contempo, l’evoluzione del concetto di affidabilità.
2
Definire gli errori, la loro evoluzione e le diverse tipologie
A supporto della definizione strettamente letteraria che lo
qualifica come “azione inopportuna e svantaggiosa”, l’errore è
considerato non solo come qualcosa da evitare ma anche come
276
evento legato a sbagli commessi da soggetti distratti, maldestri o
addirittura in preda ad alterazioni psicomotorie per cattive abitudini
comportamentali (in particolare, abuso di alcolici o farmaci). Per
contro, l’ergonomia considera l’errore un evento a causalità “non
lineare”, nel senso che a determinarlo concorrono generalmente più
variabili in interazione fra loro. Negli ultimi venti anni, alcuni studiosi
hanno proposto modelli di analisi del comportamento umano per
cercare di capirne l’insorgenza e le diverse tipologie, a partire dai
processi cognitivi che li sottendono.
Al riguardo, è opportuno ricordare il contributo di J. Reason
(1987) che, riprendendo le teorie di J. Rasmussen (1983), ha
differenziato gli errori in base al livello di attenzione richiesto dalle
azioni da compiere: si va da processi cognitivi inconsci che
producono gesti automatici, ad atti isolati o in sequenza che
richiedono un costante controllo attentivo. Attraverso la sua
impostazione metodologica, Rasmussen ha individuato tre tipologie
di comportamento: a) basato su “abilità” (skill-based behaviour); b)
basato su “regole” (rule-based behavior); c) basato su “conoscenze”
(knowledge-based behavior) /8/.
La prima tipologia di comportamento (basato su “abilità”)
comprende operazioni o gesti lavorativi compiuti secondo tempi e
modalità costanti, con la mediazione di processi cognitivi automatici.
Una volta stabilite le condizioni adatte, l’azione avrà inizio e non
potrà essere bloccata fino al suo compimento (un classico esempio è
rappresentato da un concertista al pianoforte: quando sbaglia una
nota non ha più la possibilità di rimediare).
La seconda tipologia di comportamento (basato su “regole”),
si riferisce ad una serie di azioni che si svolgono seguendo
determinate procedure, sulle quali un operatore è stato addestrato. Il
controllo cognitivo è necessario ed è rivolto non tanto ad ogni
singola azione, quanto alla più generale sequenza temporale che ne
regola il corso.
Infine, il comportamento basato sulle “conoscenze” richiede il
controllo attentivo più elevato perché riguarda attività pilotate da una
pianificazione che deve tenere conto di condizioni reali e contingenti.
Le conoscenze richieste fanno riferimento alla capacità di
277
rappresentarsi correttamente il contesto lavorativo in tutte le sue
articolazioni strutturali e funzionali. Specialmente a livello di
management aziendale, è importante possedere conoscenze e
competenze adeguate per affrontare il problem solving (capacità di
superare adeguatamente le difficoltà che si presentano) e soprattutto
il problem setting, nel senso di saper proporre ed elaborare, in modo
creativo e consapevole, le strategie organizzative più opportune e
lungimiranti.
Reason, combinando il proprio modello con quello di
Rasmussen, ha offerto un grosso aiuto anche agli analisti che si sono
affidati al metodo degli incidenti critici come approccio indiretto per
valutare la sicurezza di un sistema, attraverso le sue caratteristiche di
affidabilità, errori commessi, comportamenti a rischio, successi
parziali, quasi-errori ed incidenti /9/.
In sostanza, l’interessante evoluzione del loro modello
concettuale consiste nell’aver individuato errori caratteristici per
ciascuna delle tre tipologie di comportamento sopra indicate. A
livello di azioni basate su abilità, vengono collocati i cosiddetti “slip”
cioè gli errori che nonostante la coerenza fra pianificazione ed
intenzione e fra intenzione e scopo perseguito, vengono commessi al
momento dell’esecuzione dell’azione. A livello di comportamento
basato su regole, vengono distinti tre tipi di errore: il primo (definito
lapse) è dovuto alla perdita di controllo sulla sequenza temporale che
regola il corso dell’azione per cui, anche in questo caso, nonostante
premesse congruenti fra intenzione e pianificazione, ad essere
sbagliata è l’esecuzione della sequenza prevista, a causa di azioni
omesse, anticipate o posposte. La seconda tipologia si riferisce ad
errori, definiti capture, riconducibili alla messa in atto di una
procedura con caratteristiche molto simili a quella prevista (corretta)
e tali da “catturare” il controllo dell’operatore, fino a spostarlo su
prassi familiari ma fuori contesto. La terza tipologia di errore
(definita mistake) si riferisce alla scelta di una procedura attivata sulla
base di indicazioni iniziali che non vengono interpretate
correttamente dall’operatore, anche se la pianificazione e
l’esecuzione delle azioni sono corrette.
278
Infine, a livello di comportamento basato sulle conoscenze,
Reason individua errori ad elevato potenziale di rischio perché legati
ad attività mentali complesse, impegnative e riconducibili al fatto che
la persona, per capire lo stato del sistema, formula ipotesi sbagliate.
Questo accade in assenza di conoscenze-competenze adeguate.
Quando a commettere errori simili sono i vertici aziendali, il
fallimento (failure) può essere totale ed irreversibile o perché i
problemi non vengono risolti oppure perché le iniziative prese (anche
se giuste di per sé) sono sbagliate, rispetto al contesto o alla scelta
del momento.
Nel lavoro che cambia, a fronte dell’usabilità che l’ergonomia
auspica per i prodotti informatici, il modello di Reason distingue fra
slip e mistake per capire le difficoltà legate al loro utilizzo. Se
l’utente commette accidentalmente qualcosa di sbagliato, pur avendo
imparato a svolgere il compito, si tratterrà di errore “slip”, se invece
l’utente si è formato un modello mentale sbagliato circa il
funzionamento del prodotto, la diagnosi sarà “mistake”. Entrambe le
tipologie, oltre a diagnosticare problemi di usabilità, aiutano a
prescrivere le soluzioni più appropriate.
Nell’interazione uomo-computer lo slip è spesso legato alla
progettazione dell’interfaccia per cui si commettono facilmente degli
errori quando, ad esempio, i comandi sono troppo ravvicinati o
quando un pulsante o un dispositivo è difficilmente accessibile
all’operatore. L’eventuale mistake è invece attribuito ad una mancata
applicazione dei principi ergonomici, nel senso che la struttura di un
prodotto o il funzionamento di un processo non sono abbastanza
intuitivi da soddisfare le esigenze di “analogia” dell’uomo,
ostacolandone i comportamenti.
Come considerazione finale va sottolineata ancora una volta
l’importanza di diagnosticare correttamente errori e disfunzioni,
affinché sia più facile intervenire per evitarli o ridurne gli effetti.
3
L’ “errore umano”nel senso comune: responsabilità
individuale o fatalità ?
In genere, di fronte a incidenti e infortuni sul lavoro si
cercano le cause più evidenti da ricondurre ad azioni o gesti
279
“insicuri” che, superando le barriere tecniche di protezione,
provocano questi imprevedibili eventi negativi. Al riguardo, viene
spesso spontaneo ricorrere ad un giudizio superficiale e sbrigativo
che il senso comune fa proprio nel dare maggior credito alla cultura
“meccanicistica” dell’atto, piuttosto che alla cultura del processo.
Così facendo, si tende a ricercare le cause di un incidente o di un
infortunio nelle azioni compiute da un operatore, nel luogo e nel
momento in cui accadono; inoltre, nell’analizzare l’accaduto, ci si
limita a rilevarne la dinamica focalizzando subito attenzione e
“sospetti” sull’agente materiale, sulla vittima e sulla presenza di
compagni di lavoro quando si verifica l’evento. Nel caso di disastri
così gravi da sensibilizzare l’opinione pubblica, è possibile che gli
inquirenti tengano in considerazione altri aspetti, spesso senza entrare
con sufficiente convinzione in una logica capace di valutare tutte le
variabili presenti in quel determinato contesto o scenario operativo.
In questi casi, trattandosi di analisi molto complesse, è facile
semplificare pervenendo a giudizi basati su una sorta di
responsabilità distribuita fra l’uomo e il destino “avverso e
incontrollabile”.
L’approccio multifattoriale dell’ergonomia vuole essere di
aiuto a coloro che, nell’esaminare i fatti, abbiano gli strumenti per
distinguere immediatamente fra i cosiddetti errori attivi, legati alla
mera esecuzione di gesti o alla più complessa pianificazione di
procedure, e gli errori latenti che non emergono all’istante ma si
identificano con i cosiddetti errori organizzativi. Tali incongruenze o
costrittività posseggono, fra l’altro, la caratteristica di sopravvivere a
lungo all’interno di un sistema lavorativo prima di manifestarsi,
talvolta in maniera subdola o parziale, attraverso i quasi-incidenti.
Queste sono le ragioni che invitano a considerare
l’organizzazione del lavoro sia da un punto di vista strutturale, con
riferimento agli aspetti sistemici di base (ambientali e gestionali) che
la caratterizzano, sia da un punto di vista funzionale (i processi che la
rendono dinamica), ricordando che il fattore umano e quello tecnico
non sono aspetti separati ma in costante interazione e che le influenze
fra “struttura” e “processi” sono reciproche e continue.
280
Per ogni specifica realtà operativa si possono così ipotizzare
precondizioni di macrocontesto (la vision e la mission del sistema,
caratterizzate da cultura, valori e strategie a lungo termine) che
interagiscono con il microcontesto lavorativo, circoscritto alle
pratiche di lavoro quotidiane e alla decisionalità locale. Questo
sistema, graficamente e sinteticamente descritto in figura 1, auspica la
reciprocità e la continuità delle informazioni di ritorno (feedback) fra
i due livelli organizzativi considerati, nel tentativo di comprendere in
modo reattivo e partecipato le dinamiche che possono generare
eventi imprevedibili.
Figura 1. L’interazione fra livelli organizzativi: il contesto culturale
di riferimento e la specificità aziendale
Pertanto, di fronte ad un incidente sarà possibile riflettere
sulla portata delle variabili che influenzano l’ambiente di lavoro, fino
ad arrivare all’eziologia dell’evento stesso. In particolare, sono due le
ragioni che rendono adeguato un simile approccio: a) avviare
281
valutazioni che, vincendo i pregiudizi culturali sappiano far emergere
gli errori organizzativi e la tipologia delle disfunzioni che li
generano; b) trovare le giustificazioni corrette per l’accaduto e
predisporre le necessarie iniziative di cambiamento.
Se il modo migliore per rendere realmente affidabile un
sistema è quello di riconoscere e gestire in maniera attiva errori e
pratiche scorrette, è necessario che l’analisi di ogni specifico
ambiente lavorativo sia condotta da persone esperte, dotate delle
competenze necessarie nell’utilizzo delle loro basi teoriche e,
soprattutto, nella fedele interpretazione dei risultati. Al riguardo, le
buone pratiche ergonomiche hanno il pregio di fornire indicazioni
utili sia per comprendere la correttezza di un criterio di valutazione,
piuttosto che di un altro, sia per definirne il livello di accuratezza.
Riguardo ai modelli organizzativi raccomandati, quello per
obiettivi (organicistico) basa l’affidabilità su una vision del sistema:
differenziata (più variabili da considerare);
collaborativa (la componente psicosociale va
enfatizzata per favorire supporto sociale e
comunicazione);
integrata (per trovare convergenze e congruenze su
comuni obiettivi);
permeabile, per consentire che “modelli di successo”
già sperimentati in realtà lavorative simili e buone
pratiche vengano accolte al suo interno.
Se, al contrario, in un’organizzazione “chiusa” e rigida
(modello meccanicistico) la gestione degli errori viene delegata a
meccanismi di difesa automatici ed “invisibili” (nel senso che viene
impedita la loro trasparenza e comprensione), tutti i potenziali
elementi patogeni continueranno a trovare spazio sufficiente per
attentare alla sicurezza del sistema.
4
Progettare in funzione di potenziali errori o difetti del
sistema
Anche Donald Norman, considerato uno dei più autorevoli
ergonomi cognitivi del nostro tempo, critica la superficialità della
cultura corrente che tende a definire l’errore come “qualcosa da
282
evitare o qualcosa che possono commettere solo persone inabili o
non motivate” /10/.
Purtroppo tale convinzione è spesso condivisa anche da
progettisti che inavvertitamente finiscono così per favorire certe
disfunzioni o impedire che vengano individuate. Al contrario, essi
dovrebbero rispettare alcune regole fondamentali:
capire le cause che generano errore e progettare in
modo da evitarle o ridurle;
rendere reversibili le azioni (possibilità di annullare il
già fatto) o rendere estremamente difficili quelle
irreversibili;
consentire la rapida individuazione degli eventuali
errori commessi, facilitandone la correzione;
non pensare pregiudizialmente all’uomo come
soggetto che sbaglia ma come persona che svolge il
suo compito attraverso azioni che lo avvicinano
gradualmente a quanto gli viene richiesto.
Tali raccomandazioni rappresentano anche un invito a non
minimizzare situazioni considerate, a torto, irrilevanti allo scopo di
evitare sbagli dovuti ad un’interpretazione soggettiva della realtà
(mancata razionalizzazione degli eventi). Sono problemi ricorrenti e
naturali nel senso che, al di là delle apparenze, accadono talvolta fatti
cui si dovrebbe prestare attenzione e dei quali sarebbe opportuno
preoccuparsi. Nella maggior parte dei casi si ha ragione a non
drammatizzare ma quando non è così, i timori espressi da chi sta
intuendo qualcosa di pericoloso non devono mai rimanere inascoltati
come se fossero sciocche sensazioni. L’esperienza insegna che, di
fronte ad errori che hanno generato incidenti anche molto gravi, le
spiegazioni date dalle persone che non hanno saputo o voluto
cogliere i segni di un disastro imminente suonano spesso assai banali
e poco plausibili. Infatti, è facile cadere nella tentazione di ricondurre
l’accaduto al cosiddetto “errore umano” e nei resoconti si possono
leggere commenti del tipo: “come hanno potuto quei lavoratori
essere così stupidi ?” oppure “serve un test per stabilire il tasso
alcolico nel sangue dell’operatore che ha provocato il disastro”.
Dopo l’attribuzione di responsabilità, i provvedimenti auspicati
potrebbero chiedere addirittura il licenziamento dell’uomo sotto
283
accusa oppure leggi più rigorose (“si devono vietare certi
comportamenti superficiali e insicuri sul lavoro”) che rispondano
all’esigenza di “una preparazione del personale tutta da rifare”.
Invece di ricorrere a diagnosi superficiali, si può trarre
vantaggio da addestramenti condivisi sulla comprensione/correzione
degli errori, attraverso canali di comunicazione condivisi da tutte le
persone che operano in un contesto “a rischio” o su situazioni
“critiche”, per uniformare e mantenere alto il loro livello di expertise.
Poiché, in chiave sistemica non si può legare l’errore ad un semplice
atto ma occorre ricondurlo ad un processo da capire in tutta la sua
complessità, gli operatori meno esperti apprenderanno qualcosa da
un errore osservando le attività intraprese per correggerlo dai
compagni più competenti, in grado di insegnare loro anche a
selezionare le informazioni di ritorno più efficaci ed a tralasciare
quelle controproducenti.
Questa semplice osservazione dovrebbe condizionare i
programmi di formazione e addestramento perché richiama
l’attenzione sulla natura sociale del lavoro e sulla necessità di
condividere i processi comunicativi. Donald Norman (1995) ritiene
che i comportamenti dell’uomo ne siano così “sottilmente”
condizionati da non renderlo consapevole delle ragioni che fanno di
un lavoro svolto in comune un evento relazionale più positivo che
stressante /11/. Soprattutto quando si affrontano i cambiamenti, il
valore di tali esperienze consente di confermare le procedure
lavorative più efficaci, eliminando quelle meno adeguate in un’ottica
di evoluzione naturale che contribuisce a salvaguardare l’affidabilità
di un sistema.
Inoltre, il progettista non dovrebbe essere tentato di
introdurre troppa tecnologia pensando che sia in grado di
“svecchiare” antiche prassi operative, ritenute inefficienti al primo
sguardo. Nonostante sia evidente l’importanza dell’innovazione,
occorre essere molto prudenti laddove si va ad intaccare la natura
sociale e distribuita del lavoro. La “spontaneità” dei rapporti umani
va preservata anche quando si basa su modalità relazionali
all’apparenza ovvie e poco significative: la valenza di questi canali di
comunicazione appare, infatti, evidente solo quando vengono
284
eliminati e sostituiti con “perfetti“ dispositivi elettronici. Ad esempio,
l’ascolto condiviso di messaggi provenienti dalla torre di controllo di
un aeroporto tiene aggiornati i piloti circa la situazione di tutti gli
aerei che stanno percorrendo la stessa rotta. Se si decidesse di inviare
soltanto messaggi computerizzati a ciascun aereo direttamente
interessato, le informazioni sarebbero efficaci e puntuali ma i singoli
perderebbero la possibilità di avere consapevolezza della situazione
nel suo insieme. Ciò significa che progettare sistemi, prevedendo
esclusivamente procedure e controlli automatizzati, può ostacolare
quei processi di comunicazione informale di cui si può avere bisogno
quando vanno prese certe decisioni operative. L’aspetto umano che
l’ergonomia considera prioritario consente così di “vegliare” anche
sui problemi tecnici, presenti in ogni attività lavorativa, per
salvaguardare l’affidabilità dell’intero sistema.
Un attento esame di realtà ed una corretta valutazione degli
incidenti critici potrebbe far emergere proprio una difficile
convivenza fra eccesso di automatismi e assenza di comunicazione
umana informale, troppo spesso ritenuta inutile, inefficiente o
“superata” dalla tecnologia. Pertanto, un progettista troppo
precipitoso nell’introdurre il “nuovo”, cambiando radicalmente
vecchie prassi lavorative, potrebbe creare problemi che, all’interno di
un sistema industriale complesso, si traducono talvolta in disastri.
4 Il modello SHEL: un approccio sistemico allo studio
degli “incidenti organizzativi”
Innanzitutto occorre precisare che il miglioramento della
sicurezza di un sistema va attribuito, in prima istanza, all’innovazione
culturale e solo successivamente a quella tecnologica. Ciò significa
che solo dopo aver compreso l’importanza di condurre indagini
accurate sugli incidenti già accaduti, è stato possibile sviluppare le
qualità professionali e le strategie organizzative più adatte allo scopo.
All’Italia, ancora restia ad adottare in tal senso modelli concettuali
più evoluti in chiave sistemica, non resta che augurare un maggior
allineamento all’Europa, con particolare riferimento agli importanti
contributi innovativi della Gran Bretagna e della Francia.
285
Al riguardo occorrerà prendere atto che, di solito, le
conclusioni di un’inchiesta condotta a seguito di un grave evento
accidentale, producono raccomandazioni per interventi di correzione
che attengono a quello specifico evento, mentre la responsabilità di
mettere in pratica le misure suggerite spetta ai vertici gestionali del
sistema. Tali misure, a prescindere dall’aspetto reattivo che le
caratterizza, potranno essere introdotte sia in successivi progetti
all’interno dello stesso contesto, sia in altre organizzazioni che, per
similarità di operazioni ed obiettivi, abbiano interesse a considerare i
fattori causali legati all’evento negativo in questione.
Tuttavia, il vantaggio che si trae da un approccio valutativo
come questo (definito anche “metodo degli incidenti critici”) è
insufficiente dal momento che un sistema operativo presenta altri
aspetti in grado di condizionarne la sicurezza; in ogni caso, nel
periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà
degli anni ’80, la sua applicazione ha contribuito ad abbattere
sensibilmente il tasso di incidenti.
286
Figura 2. Il modello SHEL di Elwin Edwards evidenzia gli elementi che
interagiscono
in un sistema operativo
L’aver intuito l’importanza di prendere in considerazione più
aspetti come, ad esempio, le inadeguatezze dell’ambiente, le carenze
delle strumentazioni e i limiti dell’uomo, ha consentito ed avviato una
riflessione sul fattore umano che la Conferenza della IATA
(International Air Transport Association), tenutasi ad Istanbul nel
1975, ha accolto favorevolmente fornendo ampia documentazione
287
sulle problematiche di interfaccia fra l’uomo, le macchine, l’ambiente
e gli altri uomini coinvolti in un determinato contesto operativo.
In quella occasione Elwin Edwards propose il suo modello
concettuale SHEL (vedi figura 2) che facilita, fra l’altro,
l’individuazione degli human factors da considerare come problemi
di interfaccia tra i vari elementi di un sistema di lavoro, a prescindere
dalla sua specificità.
L’acronimo (SHEL) utilizzato da Edwards va spiegato in
questo modo:
S = Software (norme, procedure, simbologie, tipologia dei compiti,
etc.)
H = Hardware (macchine in uso)
E = Environment (ambiente di lavoro)
L = Liveware (per omogeneità fonetica, sta ad indicare l’uomo).
Il modello fu successivamente modificato in SHELL da Frank
Hawkins, attraverso la forma grafica presentata in figura 3. Questa
integrazione ha il pregio di sottolineare la sintonia (o interfaccia) tra i
vari blocchi considerata importante quanto, se non più, delle
caratteristiche di ogni singolo elemento. Il modello di Hawkins
focalizza l’attenzione sull’uomo (L) dotato di capacità-competenze
adeguate al compito assegnato e posto in posizione centrale (front
line). Le “aree critiche” di collegamento sono state individuate
laddove la persona comunica con gli altri elementi del sistema,
compreso l’uomo (L) posto in periferia a rappresentare le altre
persone presenti nel contesto (collaboratori e superiori).
288
Figura 3. Il modello SHELL integrato da Frank Hawkins
Inoltre, il progetto di queste interfacce soddisfa la necessità di
trattare le varie problematiche relazionali attraverso il CRM
(Customer Relationship Management), finalizzato a valorizzare la
gestione dell’utenza, in base a principi che molto hanno da
condividere con l’ergonomia (oltre alla dichiarata centralità
dell’uomo nel sistema). In tal senso, le raccomandazioni invitano a:
disporsi favorevolmente nei confronti di una filosofia del
cambiamento e dell’integrazione dei processi;
non cercare soluzioni facili;
usare un approccio strutturato nella selezione delle
tecnologie;
implementare le strategie processuali “per fasi”;
289
-
valorizzare competenza comunicativa e partecipazione,
sviluppando la consultazione interna;
valutare operatività e sicurezza del sistema, utilizzando
soprattutto
lo
“studio
di
casi”.
In questo modello, anche l’interazione con la macchina (H) è
affrontata in chiave ergonomica, nel senso di adattare le
strumentazioni in uso alle caratteristiche fisiche e mentali dell’uomo.
Lo stesso approccio va certamente generalizzato anche alle variabili
definite Software (S) che rappresentano i supporti funzionali e
procedurali, attraverso i quali il sistema diventa dinamico. Ci si
riferisce a manuali, checklist, pubblicazioni, standard operativi,
programmi, etc., ai quali l’uomo fa riferimento per svolgere le
proprie attività. Infine, restando nel campo dell’aeronautica,
emblematico per la potenziale gravità degli incidenti, il modello
SHELL considera l’Environment (E) costituito sia di ambienti interni
(ancora una volta oggetto di analisi e soluzioni ergonomiche), sia di
ambiente esterno caratterizzato da condizioni operative molto
complesse come: meteo, controllo del traffico aereo, strutture
aeroportuali e situazione politica, sociale ed economica del Paese di
appartenenza.
Queste sono le chiavi di lettura delle interfacce indicate nello
SHELL che, pur lasciando impliciti altri aspetti da valutare con
attenzione, si propone come utilissimo modello concettuale di
riferimento. Fra l’altro, l’integrazione proposta da Hawkins ha il
pregio di considerare, in un’ottica squisitamente ergonomica, gli
effetti di eventuali inadeguatezze del sistema sull’elemento centrale
più importante (l’uomo) ed il rischio che le loro conseguenze
negative rappresentino i “prodromi dell’incidente”.
Negli Stati Uniti, queste considerazioni furono sufficienti a
giustificare la posizione di un esperto importante come Gerrard
Bruggink, alto dirigente del Bureau of Accident Investigation del
National Transportation Safety Board (NTSB) che individuò nel
“fattore organizzativo” la componente intrinseca del meccanismo
causale degli incidenti. Bruggink ne attribuì la responsabilità al top
management di case costruttrici, compagnie di trasporto,
290
organizzazioni professionali e sindacali, enti istituzionali preposti alla
regolamentazione e gestione delle strutture aeronautiche. A suo
avviso, veniva favorita l’insorgenza di eventi negativi ignorando, ad
esempio, la predittività legata a disastri simili accaduti in passato;
tollerando compromessi pericolosi per ragioni di “immagine
personale” o per fini economici; facendo prevalere l’inettitudine sulla
volontà di affrontare responsabilmente la complessità del problema.
Dopo quasi un ventennio dalla prima Conferenza IATA sugli
human factors, la seconda Conferenza di Montreal (1993) sulle
strategie di contenimento degli incidenti attribuibili ad human factors,
nel riportare i risultati degli studi sugli incidenti avvenuti negli anni
precedenti, individuò le root causes (le cause alla radice) di questi
eventi nei fattori strategici (policy factors), confermando
l’importanza che Gerrard Bruggink aveva già riconosciuto nel 1985
agli aspetti organizzativi.
Nel corso della Conferenza, uno dei contributi più interessanti
venne dall’Europa con James Reason, docente di psicologia
all’Università di Manchester. I suoi studi, apparsi sugli atti,
supportavano le convinzioni di Bruggink attraverso i dati emersi dalle
analisi condotte su alcuni recenti disastri avvenuti in differenti
contesti (impianti nucleari e chimici, aviazione commerciale, marina
mercantile, trasporto ferroviario, etc.).
Reason dimostrò che l’uomo è coinvolto nelle dinamiche che
portano ad eventi negativi attraverso due modalità distinte: le
disfunzioni attive e le disfunzioni latenti. Per disfunzioni attive
s’intendono le mancanze o i difetti che alla fine di un processo
appaiono come direttamente correlate alle azioni destinate ad avere
conseguenze pericolose. A tutt’oggi, sembrano ancora quelle che
catturano l’interesse pressoché esclusivo di coloro che indagano sulle
dinamiche degli incidenti.
Le disfunzioni latenti vanno invece correlate, a vari livelli di
decisionalità interna ed esterna, al contesto operativo di riferimento.
Le loro conseguenze possono rimanere a lungo inespresse,
manifestandosi solo quando intervengono fattori scatenanti (ad
esempio, errori tecnici, condizione atipiche, etc.) che intaccano le
difese del sistema.
291
L’equazione fattori strategici = disfunzioni latenti è
supportata dall’analisi di quegli incidenti accaduti in sistemi ad
elevata e complessa tecnologia, definiti come “gravi incidenti
organizzativi”. In particolare, i catastrofici “breakdown” non vanno
certo ricondotti ad errori isolati o a singole avarie bensì al pericoloso
accumularsi di carenze a livello politico, organizzativo e manageriale
che, a dispetto di un’apparente stato di “normalità”, ne hanno
determinato in modo subdolo le premesse.
1
Esempi di comportamenti lavorativi che portano a
diagnosi errate
Se si prendono ad esempio alcuni importanti incidenti
industriali come quelli accaduti nelle centrali nucleari, nei trasporti
aerei, ferroviari o navali, l’approccio sistemico indicato
dall’ergonomia, oltre a considerare le disfunzioni organizzative latenti
che attengono in particolare a strategie di macro e microcontesto,
raccomanda di individuare la responsabilità di funzione legata ai
comportamenti degli uomini. Una prevenzione efficace richiede che a
livello operativo siano verificate alcune condizioni: l’addestramento,
la preparazione, l’educazione professionale e la capacità di svolgere i
compiti front line. Al di là della preparazione tecnica specifica,
occorre che la persona sia formata a capire e diagnosticare in modo
corretto le situazioni critiche che si presentano alla sua valutazione. Il
problema reale non si limita al semplice errore dell’uomo che sbaglia
la lettura di un display o schiaccia inavvertitamente un certo pulsante:
la responsabilità di un disastro è quasi sempre circoscritta alla
diagnosi che corrisponde all’interpretazione degli eventi, sulla base
di un assetto cognitivo che non dovrebbe essere rigido o uniformato
a stereotipi tesi a liquidare velocemente informazioni nuove o
“discrepanti”.
Pertanto, ogni operatore andrà messo in guardia anche dai
pericoli legati a certi meccanismi di errore psicologico che chiamano
in causa variabili che attengono al “mentale” come accade, ad
esempio, quando si sbaglia per ragioni da ricondurre ad un fenomeno
definito in vari modi: fissità funzionale, limitazione cognitiva e
292
“visione a tunnel”. Secondo Donald Norman l’uomo tende a
concentrarsi su un’ipotesi attiva che, una volta fissata (come accade
per un’informazione stabilizzata attraverso una sorta di
magnetizzazione cognitiva), non si modifica facilmente anche di
fronte ad evidenze contraddittorie.
Al riguardo, viene riportato come esempio il comportamento
di un pilota di un aereo da carico che presentò spontaneamente un
rapporto su una sua particolare esperienza pericolosa all’Aviation
Safety Reporting System della NASA. Il pilota in questione era molto
esperto e l’incidente che lo aveva turbato si era verificato in fase di
atterraggio: manovra che assieme al decollo rappresenta un momento
difficile, specie se in cabina di pilotaggio si è soli e, quindi, non si
possono prendere decisioni condivise.
La sintesi del suo rapporto mise in evidenza che, dopo aver
ricevuto l’autorizzazione ad avvicinarsi ad una certa pista a lui nota
per averla usata più volte in precedenza, pensò di esservi sopra
nonostante si fosse accorto che non c’era la solita illuminazione e
mancavano anche le barre luminose poste a bordo pista (a distanza di
50 metri, lungo la zona di atterraggio), per aiutare il pilota ad
individuarla e ad assumere l’inclinazione e l’orientamento corretti.
Nonostante tutto ciò apparisse “fuori norma” il pilota era sicuro di
essere sulla pista autorizzata, attribuendo la mancanza di luci e
segnalazioni ad un guasto: ipotesi che sembrava accreditata da una
conversazione ascoltata poco prima sulla frequenza radio della torre
di controllo, fra addetti alla manutenzione che lamentavano problemi
di illuminazione in aeroporto. Le sue convinzioni (rivelatesi
irrazionali) non gli consentirono il “principio del dubbio” che gli
avrebbe fatto controllare la girobussola, evitandogli di atterrare su
una pista di rullaggio, con tutti i rischi del caso.
La diagnosi dell’errore fatta dallo stesso pilota, a posteriori,
chiama in causa due aspetti: il primo organizzativo (situazionale), per
essere stato messo nella condizione di affrontare un viaggio
stressante in mezzo a temporali (senza radar) e il secondo
psicologico (soggettivo) per aver mantenuto un atteggiamento di
“fissità funzionale” che nemmeno la presenza di segnalazioni
luminose diverse dal solito o la mancanza di luci ai bordi della pista e
293
barre luminose lungo la zona di atterraggio, avevano minimamente
scalfito.
Altri incidenti molto gravi si sono verificati a causa di una
falsa attribuzione di colpa. Ciò può accadere, ad esempio, quando
persone molto qualificate e competenti stanno usando delle
strumentazioni complesse e, all’improvviso, succede qualcosa che
apparentemente non sembra legato alla rottura o al danneggiamento
di un dispositivo. In questo caso, il problema risiede nel pregiudizio
che ogni oggetto tecnologicamente avanzato sia affidabile per
definizione. Al contrario, di fronte a danni o avarie evidenti, il
problema va risolto considerando ogni variabile coinvolta, comprese
le possibili disfunzioni delle attrezzature in uso. Norman sostiene che
è molto facile riscontrare la mancanza di tali valutazioni soprattutto
negli incidenti industriali di grande rilevanza.
Ad esempio, nel disastro nucleare di Three Miles Island
trascorse troppo tempo prima che ci si rendesse conto che era stata
formulata una diagnosi errata: ciò accadde solo alla fine di un turno
di lavoro, quando entrò in funzione una nuova squadra di tecnici. Gli
operatori precedenti avevano premuto il tasto per chiudere una
valvola, dopo averla mantenuta aperta per consentire il deflusso
dell’acqua in eccesso dal nocciolo del reattore. In realtà la valvola era
difettosa e, quindi, non si era chiusa nonostante una spia luminosa sul
quadro di controllo segnalasse il contrario. In ogni caso, i tecnici
dovevano sapere che la spia non monitorava il funzionamento della
valvola ma soltanto il segnale elettrico inviato alla valvola stessa.
Ciononostante non venne loro in mente di ipotizzare il guasto, anche
quando verificarono che la temperatura nel condotto di uscita della
valvola era elevata al punto da confermare che l’acqua continuava a
scorrere attraverso la valvola “chiusa”. I tecnici preferirono ritenere
che ciò fosse dovuto a una semplice perdita, limitata e, quindi, non
così significativa o rischiosa da influire sulla manovra principale.
Purtroppo le cose andarono diversamente e l’acqua defluita dal
nocciolo del reattore contribuì a produrre il grave incidente.
Nonostante la valutazione degli operatori apparisse in qualche
modo “ragionevole”, le cause andavano ricercate proprio nella
294
tecnologia, vale a dire nel progetto dell’apparecchiatura e delle spie
luminose.
Un’analisi “esemplare” sul caso Chernobyl
L’esempio dell’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl
ripropone con puntualità e ricchezza di particolari interessanti, la
convergenza di aspetti che attengono sia ad errori dovuti a
disfunzioni organizzative latenti, sia a difetti nella formazione degli
operatori che avrebbe dovuto orientare correttamente i singoli
comportamenti lavorativi front line, a livello di prestazione
psicofisica.
La circostanza che determinò l’incidente fu la seconda prova
di un esperimento sull’alternatore, condotto durante la notte del 26
aprile 1986. L’esperimento, di per sé banale ed innocuo, richiedeva di
abbassare la potenza del reattore, impedire per pochi secondi
l’ingresso di nuovo vapore nelle turbine e verificare se, in quel breve
lasso di tempo, il vapore già contenuto nell’impianto alimentava
ancora turbina ed alternatore.
Innanzi tutto, della Commissione d’inchiesta sull’incidente alla
Centrale Elettronucleare di Chernobyl (Chaes-4) non facevano parte
esperti psicologi anche se la Commissione esaminò, oltre agli aspetti
tecnici ed organizzativi, l’influenza del “fattore umano” sulle
decisioni prese dagli operatori, sulle azioni messe in atto per attuare
quelle decisioni nonché sul rapporto fra i requisiti delle norme da
osservare e il comportamento reale del personale di esercizio. La
Commissione concluse che le principali responsabilità della catastrofe
ricadevano sull’uomo, come risulta dall’informativa preparata per
l’IAEA (International Atomic Energy Agency) e pubblicata su
Atomnaya Energiya (61, n. 5, 1986), i cui ripetuti errori avevano
causato l’esplosione del reattore.
Su quest’analisi concordò sostanzialmente anche la stessa
IAEA nel senso che, un anno dopo l’incidente, il suo Direttore
Generale l’attribuì agli errori estremamente imprevedibili commessi
dagli operatori della Centrale. Più tardi, altri studiosi commentarono
sia il rapporto degli esperti sovietici, presentato all’IAEA, sia altri
documenti e articoli pubblicati nei mesi immediatamente successivi,
295
cercando di focalizzare gli errori commessi ed una loro eventuale
motivazione psicologica.
Le prime ipotesi formulate furono messe in discussione da
altri esperti che si riservarono conclusioni più circostanziate nel lungo
termine, data la particolare complessità dell’evento. In ogni caso
l’analisi del “fattore umano”, basata sia sui preliminari che sulla
sequenza operativa dell’incidente, sollecitava delle riflessioni
interessanti. Secondo le fonti russe, i problemi iniziavano già dal
prologo, cioè dal “piano di test” ritenuto di scarsa qualità dal
momento che le misure di sicurezza erano state considerate soltanto
formalmente.
Il permesso per la sua esecuzione fu concesso al personale
della Centrale senza l’approvazione ufficiale del Gruppo Tecnico di
Sicurezza, laddove vi erano prove che in altri impianti con
caratteristiche simili (a Leningrado, Kursk e Smolensk), questo
genere di test era stato rifiutato per motivi di sicurezza. Inoltre,
secondo il resoconto russo, gli analisti principali erano degli ingegneri
elettronici provenienti da Mosca così come il responsabile-capo,
peraltro non specializzato in neutronica e controllo del reattore.
Questa premessa poteva già consentire di individuare una
prima tipologia di errori da ricondurre a violazioni e carenze
istituzionali e gestionali. Ma perché furono commessi? Sono state
fatte due ipotesi. La prima attribuisce questi errori iniziali ad una
sorta di “conflitto fra i documenti da rispettare” nel senso che gli
operatori, supposta la serietà e la correttezza del test, presumevano
che il programma sperimentale fosse in accordo con le Norme
Generali di Sicurezza per cui è molto probabile che non abbiano
voluto analizzare l’eventuale presenza di un conflitto oppure che non
fossero abbastanza preparati a farlo. In realtà il programma delle
prove era in palese disaccordo con il Regolamento di esercizio. La
seconda ipotesi attribuisce gli errori iniziali ad una “rappresentazione
soggettiva del contesto operativo”, da ritenersi incongruente per la
mancata sovrapposizione (compatibilità) con le caratteristiche
oggettive dell’ambiente di lavoro e del compito da svolgere. Gli
esperti di ergonomia sanno bene che delle istruzioni scritte, affidate
agli operatori, non sono altro che un’area di supporto per
296
l’“immagine” del mondo professionale che viene via via elaborata a
livello mentale e che una corretta formazione di base serve anche ad
eliminare le possibili contraddizioni fra i documenti normativi da
rispettare, colmando quelle lacune di conoscenza che non
favoriscono una chiara e coerente percezione della realtà. Nel caso
considerato, appariva evidente una netta divergenza fra le
rappresentazioni mentali dell’uomo e il suo ambiente di lavoro,
rispetto alla direzione indicata da questo modello.
La successiva tipologia di errore venne correlata ad un’azione
pericolosa e volontaria che comportava l’esclusione della regolazione
automatica, durante l’abbassamento di potenza iniziato alle 23 e 10 di
quel 25 aprile. Al riguardo, sorsero spontanei degli interrogativi
inquietanti. L’operatore presente in quel momento poteva essere
considerato responsabile dello sbilanciamento che si verificò ? Un
altro operatore avrebbe potuto evitarlo ? Può esservi stato un
rapporto uomo-automazione non risolto dal punto di vista
psicologico ? Perché, in seguito, quando la potenza del reattore
oscillava pericolosamente, all’operatore non venne in mente, né gli
sembrò opportuno proteggere la Centrale inserendo il “sistema di
raffreddamento di emergenza" ?
Risposte possibili sono state tentate in un articolo apparso
sulla Pravda il 5 ottobre 1987 che, dopo aver riportato e analizzato i
resoconti di molti operatori, ipotizzò che alla base degli errori rilevati
c’era soprattutto la volontà di portare a termine l’esperimento come
se si trattasse di un “punto d’onore professionale”. La responsabilità
complessiva poteva essere tranquillamente distribuita anche fra
coloro che avevano messo a punto un programma sperimentale
lacunoso e privo delle approvazioni dovute.
Dal punto di vista psicologico fu di estremo interesse aver
capito che il motivo delle azioni pericolose compiute dagli operatori
fosse da ricercare nell’onore professionale, al punto da voler
padroneggiare a tutti i costi una crescente complessità,
sottovalutandone i rischi reali.
Altre azioni pericolose e volontarie furono compiute alle ore 1
del 26 aprile, quando gli operatori tentarono di far uscire il reattore
dal “pozzo di iodio”, elevando la potenza da 30 MWt a 200 MWt e
297
pagando per questo un prezzo troppo alto in termini di sicurezza:
l’abbassamento del margine operativo di reattività, al di sotto di
quello regolamentare. Il personale di esercizio avrebbe avuto ancora
il tempo di cambiare il programma, interrompere le prove e fermare
l’Unità. Fu presa, invece, l’imprudente decisione di completare le
prove. Tra le ore 1 e 3 minuti e le ore 1 e 7 minuti, gli operatori
compirono una serie di azioni che, pur non essendo di per sé errate o
vietate dal regolamento, richiedevano la capacità di analizzare la
situazione reale e di prevedere l’evoluzione degli eventi.
Dal punto di vista psicologico fu possibile verificare che il
modello del mondo professionale degli operatori era inadeguato,
diffuso e statico laddove sarebbe stata necessaria una
rappresentazione mentale dinamica, in grado di valutare
precocemente le difficoltà che potevano compromettere l’affidabilità
del sistema. Per questi motivi non sembrava corretto addossare agli
operatori l’intera responsabilità dell’accaduto: andavano verificati
preparazione, mantenimento e verifica della prontezza del personale
di esercizio che andava orientato con cura alla prevenzione sia degli
errori diretti (intesi come deviazione dalle prescrizioni contenute nei
documenti normativi), sia degli errori di decisione prevalentemente
provocati da difetti nell’immagine del mondo professionale o da
errate deduzioni. Per incongruenze di questo tipo, doveva essere
riconsiderato il sistema lavorativo di appartenenza nell’ambito del
quale l’assegnazione di compiti così delicati sarebbe dovuta avvenire
soltanto dopo accurata preparazione e verifica delle abilità e
competenze di coloro deputati a svolgerli.
Lo sviluppo dell’incidente fu accompagnato dalle oscillazioni
della pressione e del livello nei separatori di vapore che gli operatori
invano tentarono di regolare manualmente. Si verificò una caduta di
pressione e, in particolare, del livello dell’acqua nei separatori. Gli
operatori commisero un errore volontario diretto perché, dopo la
riduzione del carico oltre il 50%, non trasferirono - come prescritto
con chiarezza dal regolamento - il set-up del livello dell’acqua nei
separatori di vapore da 600 mm a 1100 mm. Tuttavia, questa
“infrazione” non sembrò influire sull’incidente. Quanto alla barriera
di protezione per la pressione nei separatori di vapore fu difficile
298
supporre che, mantenendo la protezione per il livello d’acqua, il
personale avesse disinserito la protezione per l’eccesso di pressione.
Queste azioni potevano riguardare lo psicologo interessato a valutare
il comportamento degli operatori nei confronti dei sistemi di
emergenza, per due ragioni: non esistevano divieti assoluti nella
gestione di queste protezioni; gli operatori avevano bloccato altre
volte le protezioni di emergenza ben sapendo che le barriere di
protezione rappresentavano un impedimento alle prove che dovevano
essere portate a termine ad ogni costo.
L’ultimo avvertimento giunse alle ore 1, 22 minuti e 30
secondi: consultando il tabulato del programma e dopo una veloce
valutazione del margine operativo di reattività, l’operatore si rese
conto che tale margine equivaleva all’inserimento di 6-8 barre di
controllo, circa la metà rispetto a quelle ammesse dal regolamento.
L’unica decisione giusta da prendere era fermare il reattore
immediatamente.
Il passaggio successivo vide gli operatori togliere l’ultima
barriera di protezione, impedendo così la protezione del reattore che
entrava in funzione quando venivano chiuse le valvole di blocco e
regolazione di entrambe le turbine. Questa azione, secondo i
documenti ufficiali, non rientrava nel programma delle prove per cui
poteva considerarsi un’azione pericolosa volontaria che causava
errore di violazione. Gli operatori disinserirono la protezione,
dimostrando particolare accortezza nel farlo perché avevano in mente
esclusivamente il completamento soddisfacente della prova in atto. In
questo caso, ribadire l’aggettivo “soddisfacente” è molto appropriato
perché non bastava concludere ma occorreva ottenere i dati
sperimentali sull’esercizio dei sistemi alimentati dal turbogeneratore
fermato, in rotazione per inerzia. Dal punto di vista psicologico, è
plausibile ipotizzare che abbia giocato un ruolo decisivo la simpatia
nei confronti degli sperimentatori che avevano aspettato molto
tempo prima d poter realizzare le prove.
Alle ore 1, 23 minuti e 4 secondi, l’operatore chiuse la valvola
di blocco e regolazione della seconda turbina (la prima era già stata
staccata il giorno precedente), dando avvio alla rotazione per inerzia
del rotore. I sistemi ausiliari entrarono in funzione, alimentati solo
299
con l’energia prodotta dalla rotazione per inerzia. Il reattore si trovò
così in un regime non regolamentare a meno di un minuto dal
disastro. Anche in questa fase va nuovamente ricordato che lo scopo
principale degli operatori non era quello di terminare rapidamente la
prova bensì di ottenere un esito soddisfacente (altrimenti non
avrebbero previsto una seconda prova, violando le disposizioni del
programma). Dopo il distacco della seconda turbina, la potenza
termica del reattore iniziò spontaneamente ad aumentare, anche se
lentamente. Alle ore 1,23 minuti e 40 secondi, di fronte a questo
evento allarmante il capo-turno dell’Unità 4 (Chaes-4) schiacciò il
pulsante Az-5 (protezione di emergenza). Dopo le ore 1 e 24 minuti
del 26 aprile, esistono pochissime testimonianze sugli ultimi istanti
che precedettero l’esplosione causata paradossalmente da un’azione
operativa corretta, consistente nell’azionamento del pulsante della
“salvezza” (il pulsante del sistema di emergenza).
Infine, per quanto riguarda i meccanismi di errore psicologico dai
quali far dipendere decisioni e comportamenti “critici” messi in atto
dagli operatori di Chernobyl, ne possono essere chiamati in causa
almeno tre:
1. Assunzione (supposizione), nel senso che gli operatori, nel riporre
“cieca fiducia” nell’infallibilità dei progettisti dell’impianto, non
dovevano estendere la stessa “convinzione” nei confronti del
programma delle prove, ritenute arbitrariamente in accordo con le
“norme generali di sicurezza” e con il “regolamento di esercizio”.
Quest’ultima opinione finì per alimentare un’immagine
prevalentemente soggettiva del mondo professionale, ostacolando
i necessari esami di realtà.
2.
Non considerare con la dovuta attenzione circostanze
particolari. Nel caso specifico, tale meccanismo sostenne la
volontà di portare a termine comunque l’esperimento, chiamando
in causa l’onore professionale da salvaguardare ad ogni costo.
Ciò fece dimenticare agli operatori il peso dei numerosi eventi
“fuori routine”, inducendoli ad una pericolosa sottovalutazione
dei rischi reali.
3.
Assunzione di stereotipo (emotivo), nel senso che le azioni
tendono ad essere dirottate emotivamente lungo un percorso
300
considerato “abituale” o “familiare”, anche quando non viene
scelto con cognizione di causa. Nel caso in questione fu la
simpatia nei confronti degli sperimentatori che avevano aspettato
molto tempo prima di poter realizzare le prove, ad impedire che
prevalesse la ragione. Tale meccanismo supportò la motivazione
principale degli operatori che non era quella di terminare
rapidamente la prova ma il desiderio di un esito soddisfacente
nella raccolta dei dati sperimentali.
Questa analisi “esemplare” sul caso Chernobyl, volutamente
ricca di particolari anche tecnici e attenta ai meccanismi e alle
tipologie degli errori commessi, sollecita una riflessione sulla
tendenza a trovare delle spiegazioni facili quando accadono incidenti
in sistemi molto complessi come può essere quello di una centrale
nucleare o di altro impianto industriale simile per complessità. La
maggior parte dei disastri accade per una serie di guasti ed errori, di
problemi che si susseguono e che si potenziano reciprocamente.
Come si è già detto ripetutamente, è molto difficile che un incidente
di grandi proporzioni si verifichi in modo lineare: c’è quasi sempre il
concorso di molte variabili e di varie circostanze anche se ciascuna di
queste, presa isolatamente, non appare particolarmente pericolosa.
Probabilmente è questa la ragione che giustifica i meccanismi
psicologici tesi a minimizzare certi episodi, a liquidarli con
spiegazioni superficiali oppure a trovare delle giustificazioni
“logiche” per fatti oggettivamente anomali.
Queste osservazioni valgono sia per il caso Chernobyl che per
il caso Three Miles Island dove, nonostante le diverse tipologie di
errore e le diagnosi errate, si è visto che le azioni compiute sul
momento apparivano agli operatori coinvolti come logiche e
ragionevoli.
Le decisioni prese e gli eventi drammatici che ne sono seguiti
hanno confermato l’ipotesi che l’immagine del mondo professionale
in questi operatori non fosse sufficientemente formata come sistema
organizzato di variabili, da considerare nella sua completezza,
piuttosto che la somma di elementi da trattare singolarmente. E’
questa idea sistemica, propria dell’ergonomia, ad impedire che analisi
superficiali e frammentarie possano basarsi su aspettative prevedibili,
301
in realtà più pericolose del disinserimento delle protezioni
d’emergenza. Inoltre, poiché nella gestione di impianti così complessi
è più che mai indispensabile le stretta osservanza delle procedure di
sicurezza è bene che, oltre ad essere considerate al momento della
sua progettazione e costruzione, vengano imposte all’operatore
attraverso momenti formativi molto accurati.
Una rappresentazione ben consolidata e congruente del
contesto operativo sarà un’ulteriore garanzia per sostenere e
accrescere al contempo la sua capacità di analisi indipendente. Su
questa linea si collocano anche le raccomandazioni contenute nel
documento
di
S.A.
Chachko
/12/:
1. Lavorare per la sicurezza. La massima priorità va data alla
sicurezza degli impianti che vanno mantenuti sempre al massimo
livello. Questa raccomandazione deve rappresentare per gli
operatori il vero obiettivo da perseguire, ancor più importante
della produzione continua di energia elettrica o dell’efficienza
della loro stessa performance.
2. La preparazione degli operatori va seguita con attenzione, nel
senso che l’addestramento non deve avvalersi dei soli metodi di
routine ma prevedere anche l’uso di simulatori. La scelta accurata
del personale d’esercizio deve presupporre una seria valutazione
delle caratteristiche psicologiche degli operatori, della loro
disposizione ad elaborare un’immagine nuova e congruente del
mondo professionale, da controllare e gestire attraverso strategie
razionali che consentono la formulazione e la soluzione di
problemi
(knowledge
based);
l’uso
di
circuiti
automatici/automatizzati, basati su abilità acquisite (skill based) e
di sistemi informatici dotati di verifica temporale delle azioni da
compiere in sequenza, con la possibilità di intervenire per evitare
o correggere errori di procedura (rule based). In particolare, va
recepita come lungimirante e realistica l’affermazione che “uno
dei principali requisiti per la qualificazione sarà, in futuro, la
capacità di padroneggiare situazioni eccezionali”.
3. La completezza del modello informativo, disponibile nelle sale di
controllo, da dotare di dispositivi e display progettati
302
ergonomicamente. A proposito dell’industria elettronucleare si
può aggiungere che, pur avendo fatto - negli anni - un buon
lavoro di analisi delle situazioni critiche, non è stata altrettanto
sollecita nell’intervenire su sale di controllo inadeguate dal punto
di vista ergonomico (tenendo conto che è pressoché impossibile
rifare una sala di controllo preesistente). In ogni caso va detto
che allestire una sala di controllo sulla base di criteri progettuali
scorretti, può portare all’errore e al rischio di vederlo poi
addebitato tout court al tecnico di turno. Quanto alla sala di
controllo dell’Unità 4 della Centrale di Chernobyl viene citata
come esempio per inadeguatezze da non imitare, fra cui quella
della mancanza di uno schermo unico che avrebbe consentito di
visualizzare chiaramente la situazione delle barriere di protezione.
4. L’elaborazione di un metodo oggettivo di analisi degli errori del
personale di esercizio (in gran parte computerizzabile), per
valutare imparzialmente gli eventi ed il loro legame con il fattore
umano (cause, motivi e conseguenze di ogni azione). Il metodo
dovrebbe considerare l’affidabilità del sistema come un processo
in continua evoluzione che si arricchisce attraverso le esperienze
già acquisite per ridurre gli errori e il rischio di ripeterli in futuro.
Per concludere, sono opportuni alcuni commenti sulla
gestione socio-politica del caso Chernobyl (Loizzo, 1994) /13/. Sono
soprattutto due le conseguenze da sottolineare: la prima è il grande
tempismo con cui Gorbaciov colse l’occasione per liberarsi dei
responsabili dell’energia nucleare e della programmazione, cogliendo
l’occasione per affermare con forza i principi della trasparenza
(glasnost) e della ristrutturazione economica (perestroika); la
seconda riguarda la vivace reazione dei responsabili tecnico-politici
degli enti nucleari degli altri paesi, volta a rassicurare che il reattore
di Chernobyl era tutt’altra cosa, rispetto ai loro, per cui gli studi
necessari per capire il disastro (salvo alcune eccezioni mal
sopportate) tardarono pericolosamente.
Per contro, è doveroso ricordare anche le iniziative promosse
nel dopo Chernobyl. Esse rappresentano un esempio positivo della
disciplina e competenza dimostrate nel tentativo di neutralizzare il più
303
possibile le conseguenze della contaminazione radioattiva ambientale
e nei controlli sanitari alla popolazione. La strategia politica,
finalmente risvegliata dal timore di una grave battuta d’arresto nello
sviluppo dell’energia nucleare, cercò di limitare i danni migliorando la
sicurezza dei sistemi, l’affidabilità degli impianti e gli aspetti
organizzativi. L’ingegneria impiantistica ha introdotto negli anni
importanti modifiche come, ad esempio, quella di ricorrere a sistemi
sempre più avanzati di diagnostica, di informatizzare al massimo le
mansioni di routine, di provvedere ad una miglior formazione
professionale dei suoi addetti.
Probabilmente, le conseguenze più positive del caso
Chernobyl vanno nel senso di una maggior disponibilità ad affrontare
il problema della sicurezza (pur non assicurando, come sperato,
quella intrinseca del reattore), attraverso un approccio coerente e
sistemico fondato su standard di buona tecnica che comprendono
anche le raccomandazioni e i principi ergonomici da applicare ad un
sistema, considerato nella sua complessità (aspetti fisici ed aspetti
organizzativi) /14/.
5 Conclusioni
Le considerazioni finali sul ruolo dell’ergonomia nelle diverse
realtà lavorative (di qualsivoglia tipologia e dimensione), pongono
ancora una volta l’accento sui suoi legami con la responsabilità
sociale d’impresa, da intendersi non solo come politica aziendale di
“immagine” ma come qualcosa di ben altra importanza: un insieme di
responsabilità e di doveri che ogni organizzazione ha verso tutti
coloro che in qualche modo gravitano attorno ad essa.
Oggi si usa diffusamente il termine stakeholder
quando si fa riferimento ai clienti/consumatori, alla comunità
circostante fatta di investitori, partner commerciali e
collaboratori/dipendenti: tante persone coinvolte e
condizionate, a diverso titolo e misura, dalla progettualità
strategica messa in atto da vertici aziendali e istituzionali. Tali
decisioni non dovrebbero comportare soltanto la
responsabilità di produrre utili per titolari o azionisti ma,
304
soprattutto, quella di promuovere lo sviluppo sostenibile ed
altre iniziative a tutela dei diritti dei lavoratori.
Al riguardo, salute e sicurezza rappresentano priorità
indiscutibili che presuppongono la negazione di
comportamenti caratterizzati da mancanza di etica
manageriale, esclusiva ricerca del profitto, carenze strutturali
e semplificazioni gestionali capaci di alterare un’adeguata
distribuzione dei carichi di lavoro e la possibilità di farvi
fronte, all’interno di un sistema affidabile.
Riconsiderando il rischio di errore e le sue
conseguenze in termini di incidenti ed infortuni sul lavoro, il
pensiero conclusivo corre all’ultimo grande disastro
ferroviario accaduto nella provincia di Bologna, all’altezza di
Crevalcore, nel gennaio 2005. Senza entrare nella dinamica
degli eventi che lo hanno provocato, quello che preme
sottolineare in questo momento è l’importanza attribuita, dal
“Coordinamento 12 gennaio” (costituitosi a seguito
dell’incidente) ad una gestione realistica, integrata e condivisa
della sicurezza, in un’ottica di responsabilità sociale che
sembra aver già stimolato (ed in parte ottenuto) anche
l’adesione di Istituzioni locali: Province di Bologna, di
Modena e di Mantova e della Regione Emilia-Romagna. Se
per la fine del 2006 pare garantito per Crevalcore il doppio
binario, per il 2008 le previsioni assicurano il completamento
dell’intera tratta (Bologna-Verona). Pur apprezzando la
rilevanza di questi interventi, l’approccio sistemico che
sembra oggi caratterizzare le reiterate e precise richieste degli
stessi lavoratori, anche in questo caso comporta il
soddisfacimento di altri bisogni ed aspettative. In particolare,
viene richiamata con forza l’attenzione sui locomotori
antiquati o non attrezzati e su altri disservizi considerati ormai
“storici” che, se non vengono sanati, continuano a mantenere
inaffidabile l’intero sistema. Non è infatti sufficiente realizzare
il raddoppio se non vengono risolte gravi carenze strutturali e
strumentali. La domanda che ci si pone nasce da una
constatazione evidente: a che cosa servono i sistemi di
305
sicurezza sulla tratta del disastro se i treni “non sanno
leggerli” ?. Tutto questo fa risaltare l’utilità della
partecipazione e del coinvolgimento dei lavoratori, impegnati
a contrastare sia il disimpegno dei vertici, sia gli adempimenti
formali o parziali che continuerebbero a rappresentare fonti di
rischio e di frustrazione.
Inoltre, l’aiuto degli stessi operatori, adeguatamente
formati a percepire e riconoscere i problemi, altrimenti
destinati a trasformarsi in rischi latenti per la sicurezza delle
persone e delle strutture, può contribuire a rendere realistici
ed efficaci i cosiddetti controlli di qualità (audit).
Nonostante i tempi per un adeguamento degli assetti
organizzativi ai principi dell’ergonomia e dell’etica non
sembrano essere del tutto maturi, a causa di una penetrazione
culturale ancora insufficiente, alcuni segnali positivi emergono
soprattutto dopo il disastro all’aeroporto di Linate, nel giugno
2002. In quell’occasione esperti autorevoli denunciarono la
mancanza di un adeguato sistema di gestione della sicurezza
(Safety Management System), basato su alcuni criteri
ineludibili che è opportuno ricordare:
alla sicurezza va assegnata, sempre e comunque, la
priorità più alta;
il rischio d’incidente va ridotto al minimo o
quantomeno al livello ragionevolmente più basso
possibile;
l’organizzazione del lavoro deve impegnarsi ad
adottare una gestione attiva ed efficace della
sicurezza;
all’interno di ogni realtà operativa occorre, da un lato,
identificare e dichiarare le responsabilità riguardanti le
problematiche della sicurezza e, dall’altro, verificare la
conformità di tutte le prescrizioni e gli standard da
seguire, al riguardo.
Come ultima considerazione, occorre riconoscere alla
teoria ed alle buone pratiche ripetutamente chiamate in causa,
l’indirizzo e il supporto che possono offrire agli operatori che
306
interagiscono con tecnologie sempre più avanzate, in contesti
dove gli aspetti comunicativi e relazionali rischiano di essere
pericolosamente trascurati. L’attenzione per l’uomo va intesa
anche nel senso di “aggiornare” i suoi modelli mentali, per
consentirgli una corretta rappresentazione dei rapporti che
stabilisce con le macchine e con l’ambiente circostante, così
da rendere adeguati gesti e comportamenti durante l’attività
da svolgere. Ciò significa “aggiornare” anche le iniziative di
formazione, da programmare in modo che la percezione
soggettiva del rischio venga favorita e verificata per
consentire al lavoratore di riconoscere certi meccanismi
psicologici (spesso inconsapevoli) capaci di condizionare
negativamente il giudizio sulle decisioni da prendere.
In ogni caso, di fronte all’ardua impresa di migliorare
la qualità del lavoro, in un momento storico di grandi
cambiamenti sociologici e tecnologici, l’uomo non può
arrendersi ad una complessità fatta di variabili spesso latenti e
incomprensibili. Al riguardo, l’ironia di Alexander
Solzhenitsyn è davvero emblematica: “Gli uomini non
sbagliano perché la verità è difficile da vedere o capire. Si
potrebbe talvolta coglierla con un’occhiata. Noi sbagliamo
perché è più confortevole…”.
6 Riferimenti bibliografici
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in psicologia, Università di Bologna, 2005.
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nell’ambito dell’attività accademica presso il Trinity College
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Un approccio alla Responsabilità Sociale di Impresa,
Seminario Esade, Bologna, novembre 2004.
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sussidiarietà circolare, intervento al seminario su La
responsabilità sociale d’impresa e la governance del
territorio, Com-pa, Bologna, novembre 2004.
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tecnologia nel mondo dell’uomo, Feltrinelli, Milano, 1995.
12. Chachko S.A., Catastrofe di Chernobyl e gli errori degli
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cura di D. Lavrencic e P. Loizzo, Roma, 1992.
13. Loizzo P., Le centrali nucleari. La Scienza Inesatta.
Monteleone, Vibo Valentia, 1994.
14. Cenni P., Applicare l’ergonomia, FrancoAngeli, Milano,
2003.
308
Regole e buone prassi. Alcune considerazioni
sulle prospettive di riforma del sistema delle
norme in materia di salute e sicurezza sul luogo
di lavoro
PAOLO CECCHERELLI
L’obiettivo, che ci auguriamo di riuscire a raggiungere con questo
lavoro, è quello di riesaminare per linee generali sia il sistema delle
regole fondamentali vigenti in materia di salute e sicurezza nei luoghi
di lavoro sia l’esperienza maturata nell’ampio quadro di
sperimentazioni di buone prassi che hanno trovato recente diffusione
sulla base degli indirizzi che la comunità europea ha fornito per
promuovere iniziative e gestire progetti mirati a prevenire condizioni
di rischio, infortuni e malattie professionali. Questo per cercare di
descrivere le specificità degli ambiti propri, le possibili evoluzioni
sulla base di quanto già fatto in tutti questi anni.
L’esigenza nasce da circostanze di attualità che, a nostro giudizio,
possono portare ad ulteriori incertezze a tutto danno dello stato
presente delle tutele garantite ai lavoratori e generare confusione
nelle pratiche di sviluppo di tutti quei progetti di promozione della
salute che hanno coinvolto diversi ambiti sociali (istituzioni,
organizzazioni sindacali ed associazioni imprenditoriali).
Il fatto di orientare interventi legislativi di depenalizzazione del
complesso normativo esistente, trasferendo sul piano del diritto
l’esperienza sociale delle buone pratiche nei luoghi di lavoro, appare
legittimo ma farlo attraverso la riesumazione di tecniche di intervento
ispettivo oramai entrate quasi in disuso perché inadeguate appare un
modo improprio di affrontare le effettive necessità di aggiornamento.
Infatti, di fronte alla proposta di costituzione di un Testo Unico in
materia di salute e sicurezza sul lavoro fondata sul criterio di evitare
di fornire indicazioni precise di pericolosità sociale dei
comportamenti delle aziende attraverso la trasformazione di gran
parte delle norme di riferimento degli anni 1955-56 in norme di
buona tecnica, si sono avuti espressi pareri negativi da parte di
309
importanti organismi istituzionali ( ad es. il Consiglio di Stato, la
Conferenza unificata Stato-Regioni) che hanno in sintesi
rappresentato esigenze sociali diffuse di disorientamento e
salvaguardia dell’esistente.
L’introduzione di una discrezionalità tecnica degli organismi di
vigilanza con il potere di disposizione ed il legare l’applicazione delle
tutele solo all’occasione dell’intervento dell’organo di vigilanza
costituiscono criticità che sicuramente potrebbero generare
inefficienze rilevanti nella gestione aziendale della sicurezza e salute
sul lavoro.
In definitiva, mettere sullo stesso piano quella esperienza creatasi
nella diffusione delle buone prassi di promozione della salute e
sicurezza, riducendone la complessità a strumenti che il personale
ispettivo tecnico dovrebbe rendere contenuto di disposizioni in fase
di accertamento senza spesso possedere criteri certi di valutazione
della portata degli stessi, appare un modo di creare un intreccio di
dimensioni diverse del tutto improprio: la dimensione del diritto e
quella di accordo e pratiche sociali organizzate.
In sostanza, se da valutazioni di risultato di progetti congiunti tra
rappresentanti aziendali della sicurezza e dei lavoratori con l’apporto
anche di Istituti competenti su determinati rischi emergono
indicazioni di dettaglio sull’uso di dispositivi particolari di protezione
in un determinato settore od azienda, questo suggerimento e queste
conoscenze potrebbero essere contenuti di una disposizione. Come
poi verrebbero ad essere applicati, senza previsioni che definiscano
un gradiente di pericolosità effettiva del singolo caso attraverso
l’individuazione di una sanzione per la fattispecie specifica di
inosservanza, appare un interrogativo lecito che induce a ritenere che
in queste circostanze la discrezionalità, invece, di costituire una
possibilità di miglioramento generale nell’applicazione delle norme
vigenti diventa un momento che genera unicamente incertezze.
Il legislatore, quindi, anche sulla base dell’esperienza sociale,
dovrebbe stabilire precetto e sanzione per tutte le ipotesi che oramai
costituiscono patrimonio di conoscenze sulla materia ed
310
eventualmente incentivare ulteriori iniziative di promozione della
salute e sicurezza creando incentivi o meccanismi premianti per tutti
coloro che forniscono disponibilità a sviluppare progetti di buone
pratiche da sperimentare e diffondere.
La progettazione e lo sviluppo di sperimentazioni e progetti di buone
prassi non possono che rimanere ambiti autonomi in cui le parti
sociali, le istituzioni competenti ed l’imprenditoria creano
combinazioni partecipate produttive di innovazione negli assetti
organizzativi aziendali.
1 Il sistema normativo e l’apparato di controllo
Il sistema normativo vigente in materia di sicurezza e prevenzione
sul lavoro è il risultato di un accorpamento progressivo di norme che,
nel tempo ed in stretto legame con l’evolversi delle trasformazioni
industriali e produttive, sono venute a costituire un articolato
complesso di leggi e decreti che in diverse occasioni hanno reso
difficile la sua applicazione creando spesso differenze interpretative
ed applicative.
La normativa italiana in materia di sicurezza e salute sul lavoro trova
i primi principali riferimenti generali, oltre che nella Costituzione
della Repubblica, artt. 32 e 41 2’ comma, e nel Codice Civile, art.
2087, nei decreti degli anni cinquanta, in particolare nel D.P.R. n.
547/955 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, nel D.P.R. 19
marzo 1956 n. 302 integrativo del precedente decreto e nel D.P.R. n.
303/1956 sull’igiene del lavoro. Nello stesso periodo ulteriori
previsioni di carattere speciale trovano luogo, in particolare, il D.P.R.
7 gennaio 1956 n. 164 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro
nelle costruzioni, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 320 sulla prevenzione
degli infortuni nel lavoro sotterraneo, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 321
sulla prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nei cassoni ad
aria compressa, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 322 sulla prevenzione
degli infortuni e l’igiene del lavoro nei cassoni ad aria compressa, il
D.P.R. 320 marzo 1956 n. 322 sulla prevenzione degli infortuni e
l’igiene del lavoro nell’industria della cinematografia e della
televisione, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 323 per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro negli impianti telefonici.
311
Tutto questo insieme di norme viene prodotto per definire specifiche
disposizioni tecniche che hanno il pregio per la prima volta
nell’ordinamento di definire tutele al lavoro subordinato, obblighi e
responsabilità nell’organizzazione delle attività produttive. I decreti
arricchiscono il quadro normativo con una serie di indicazioni su
misure necessarie a tutelare l’incolumità e l’integrità fisica del
lavoratore.
Verso la fine degli anni sessanta ed negli anni settanta un ulteriore
sviluppo si determina per effetto di alcune norme, nello specifico
l’art. 9 della Legge n. 300/70 Statuto dei Lavoratori, che
attribuiscono alle rappresentanze dei lavoratori un ruolo di maggiore
impegno sul piano contrattuale nella gestione e promozione della
salute e della sicurezza sul luogo di lavoro.
Alla fine degli anni settanta, la Legge n.833/1978, la riforma
sanitaria, fornisce indicazioni per ridefinire l’assetto generale
dell’apparato di controllo e crea riferimenti in strutture regionali.
Solo in via sussidiaria le strutture periferiche ministeriali continuano a
mantenere competenze di vigilanza nella materia.
In sostanza, l’assetto istituzionale degli organismi di vigilanza, in
questi anni, viene ad essere fortemente sollecitato in un processo di
riorganizzazione attraverso ripartizioni di funzioni tra Stato e Regioni
ma il risultato conclusivo è un rallentamento di iniziative volte a
potenziare gli interventi di controllo che garantissero adeguamento
del sistema italiano a quello europeo verso cui si procede a confronti
e sinergie.
Proprio in questo contesto ed in un clima di relazioni industriali
piuttosto critico per effetto della diffusione di processi di
trasformazione e riorganizzazione produttiva, l’Italia viene a trovarsi
sollecitata dalla Comunità Europea, anche attraverso provvedimenti
ufficiali, ad attivarsi più concretamente per cercare di uniformarsi ai
livelli di tutela del lavoro che trovano già forma in tutti gli Stati
membri.
Solo con la fine degli anni ottanta e gli anni novanta dopo un lungo
periodo di stasi legislativa si riafferma un dibattito sociale e politico
sulle questioni legate alla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Un impulso particolare lo forniscono le norme Cee: l’attività
312
parlamentare di recepire direttive europee riporta la materia nelle
attualità di interesse pubblico e sociale.
In primo luogo, vengono emanati il D. Lgs. 15 agosto 1991 n. 277
in materia di esposizione professionale al piombo, amianto e rumore
e, dopo pochi anni, il D.Lgs. n. 626 /94, il quale recepisce la direttiva
comunitaria n. 391 /89 ed altre sette della fine degli anni ottanta sui
luoghi di lavoro, le attrezzature, i dispositivi di protezione
individuale, la movimentazione manuale dei carichi, i videoterminali,
gli agenti cancerogeni e biologici.
In seguito, per tutto il decennio degli anni novanta, intervengono
una sequenza di decreti legislativi attuativi di direttive specifiche in
diversi settori e su specifici rischi ed attrezzature ( ad es. cantieristica
mobile, rumore, macchine, ecc.).
Il Decreto Legislativo n.626/1994 interviene come momento
fondamentale di svolta per lo sviluppo e la crescita di una cultura
della prevenzione nei luoghi di lavoro.
Le innovazioni che questo propone sul piano delle responsabilità e
della partecipazione renderanno la sua attuazione un momento di
verifica generale dello stato generale dei fatti sia sotto il profilo
sociale che istituzionale.
Il coinvolgimento di responsabili aziendali in attività preventive di
valutazione, formazione ed informazione e la sollecitazione a
valorizzare un sistema di relazioni industriali più orientato a livelli di
partecipazione e collaborazione delle rappresentanze dei lavoratori
nella gestione della sicurezza sul lavoro sono gli aspetti fondamentali
che il provvedimento legislativo assume dalle direttive quadro.
Nascono una pluralità di soggetti, il datore di lavoro, i dirigenti e
preposti, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il
medico competente, i lavoratori e le loro rappresentanze per la
sicurezza e gli organi di vigilanza, consulenza ed assistenza (Azienda
Sanitaria Locale, Vigili del Fuoco, Direzione Provinciale del Lavoro)
a cui le norme attribuiscono ruoli e funzioni di scambio informativo,
iniziativa organizzativa e controllo.
Importante è la circostanza che insieme a questi aspetti generali
l’emanazione del decreto induce modifiche nel sistema sanzionatorio
313
portando alla introduzione dell’istituto della prescrizione alla cui
ottemperanza si estingue il procedimento penale.
Nel clima generale di incertezza e difficoltà interpretative questo
strumento, invece di diventare il momento più importante di
riqualificazione della presenza istituzionale sul luogo di lavoro, viene
a generare sempre più spesso letture riduttive degli obblighi portando
imprenditori soprattutto nella piccola e media impresa ad assumere
comportamenti diretti ad evitare sanzioni piuttosto che a sviluppare
cultura di prevenzione.
Per i presupposti tutti orientati alla prevenzione che il decreto crea,
organismi qualificati esterni alle realtà aziendali potrebbero elaborare
modalità articolate di organizzazione e osservanza delle norme in un
contesto fortemente innovativo e con alta partecipazione dei
lavoratori. Ma questo, purtroppo non trova spazio e risorse per
realizzarsi.
L’art. 23 del decreto legislativo dispone che la vigilanza
sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza è
compito principale delle aziende sanitarie locali che con proprio
personale tecnico e medico deve assolvere le funzioni di controllo
dell’ambiente esterno, dei luoghi di lavoro e delle attrezzature. Lo
stesso articolo, in secondo grado e solo per attività a rischio
particolarmente elevato da individuare con apposito decreto,
riafferma un ruolo di vigilanza alle strutture periferiche del Ministero
del Lavoro ed al tradizionale corpo degli ispettori del lavoro.
Nello stesso tempo, l’art. 24 abilita a funzioni di formazione,
consulenza ed assistenza più enti: le Regioni, Il Corpo Vigili del
Fuoco, l’Ispsel, l’Ispettorato del lavoro, l’Istituto italiano di medicina
sociale.
E’ chiaro, quindi, che l’apparato istituzionale, deputato al ruolo di
assistenza, consultazione e vigilanza sull’applicazione di questo
insieme di norme al fine di creare un reale sistema di prevenzione, è
composito ed in assenza di integrazione e scelte concordate risente di
difficoltà operative. Tutti gli organismi centrali e periferici soffrono
nell’assolvimento dei loro compiti di disfunzioni: inadeguate strutture
materiali, scarse risorse umane e difficile coordinamento.
314
La Commissione parlamentare, presieduta dall’on. Smuraglia nel
1997, nel valutare le condizioni della sicurezza e prevenzione nei
luoghi di lavoro in una indagine conoscitiva, evidenzia con chiarezza
le debolezze del sistema di controllo e vigilanza.
Le carenze del livello centrale nello svolgere le funzioni di
coordinamento ed indirizzo e la mancanza di iniziative di
rafforzamento da parte del dipartimento di prevenzione del Ministero
della Sanità a creare collegamenti più stretti con il Ministero del
Lavoro e gli altri competenti ed, in particolare, a sviluppare relazioni
forti con le regioni sono tra le cause suggerite nella relazione finale.
I risultati sono indicati nello stesso documento: il personale delle
regioni impiegato in attività connesse agli adempimenti in materia di
igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro è meno dell’1% del personale
complessivo del SSN, scarse sono le risorse per la formazione
specifica mirata a qualificare gli interventi del personale occupato nei
servizi tecnici, solo un 3% dell’universo dell’imprese sarebbe oggetto
di vigilanza programmata su iniziativa.
Dall’epoca a cui si riferisce questa relazione sono passati diversi anni
e maggiore sensibilità alle problematiche di coordinamento si è
realizzata: è stata organizzata solo alcuni anni fa una campagna
europea di vigilanza sulla cantieristica edile che ha coinvolto sia le
strutture periferiche ministeriali che il personale dei Servizi di
Prevenzione e Sicurezza delle Aziende Sanitarie, ma le carenze di
personale rimangono forti e l’organico complessivo, nonostante gli
incrementi in atto, si mantiene su quote del tutto inadeguate per
garantire un efficace e periodico controllo sull’applicazione delle
norme come accade in altri paesi della comunità europea.
2 L’apparato sanzionatorio e la depenalizzazione
Già all’inizio degli anni novanta magistrati e dottrina richiamavano
l’attenzione sul fatto che il nostro ordinamento giuridico in materia di
lavoro è fortemente pervaso da sanzioni penali di rilevante valenza
offensiva su fattispecie di reato di modesto significato lesivo. Infatti,
nell’ordinamento italiano in materia di sicurezza sul lavoro è andato
indebolendosi il criterio di congruità tra gravità dell’illecito e misura
315
edittale della pena portando il sistema nel complesso a paradossi
nell’applicazione.
Questo fenomeno ha assunto caratteristiche tali che ha portato alla
definizione dei cosiddetti ‘reati bagatellari’ cioè quei reati privi di
pericolosità ed offensività tali da giustificare la loro qualificazione
penale.
Collegato a questo fenomeno si è andato verificando una
congestione dell’apparato giudiziario per il carico processuale
esuberante e la scarsa rilevanza dei procedimenti aperti.
Sfiducia ed incertezza della risposta giudiziaria nella tutela del lavoro
ha preso luogo rendendo sostanzialmente innocuo l’apparato di
contrasto all’inosservanza delle norme vigenti in materia di sicurezza
e prevenzione.
Si tratta di un problema di legittimità che viene meno con il
proliferare di norme affastellate rendendo possibile il diffondersi di
prescrizioni di reati di pericolo a contenuto sempre più generico ed
indeterminato.
Da questo quadro altalenante sorge la spinta verso la
depenalizzazione ovvero l’individuazione di strumenti, alternativi alla
pena, in grado di semplificare l’azione giudiziaria e nello stesso
tempo garantire efficacia e deterrenza a comportamenti ritenuti lesivi
di un bene pubblico indisponibile quali la salute e la sicurezza dei
lavoratori nei luoghi di lavoro.
Quindi, porre in essere azioni, che abbiano quale scopo primario il
prevenire le situazioni di pericolo, creando condizioni che mirino ad
evitare degenerazioni pericolose di situazioni e comportamenti,
diventa la risposta plausibile e giustamente severa in quanto
commisurata nella sua efficacia alla gravità dei fatti rilevati ed alla
soggettività manifestata nelle circostanze che si verificano.
Lo Stato, in definitiva, ha interesse ad evitare che si determinino
persistenti situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza dei
lavoratori e lo strumento che viene considerato effettivo è quello di
derubricare l’illecito penale ad illecito amministrativo.
Già da decenni è in corso un processo di depenalizzazione che ha
interessato altre materie del diritto e che ha trovato in due
provvedimenti generali i riferimenti principali: la legge n.706 del 24
316
dicembre 1975 ‘ Il sistema sanzionatorio delle norme che prevedono
contravvenzioni punibili con l’ammenda ’ e la legge n. 689 del 24
Novembre 1981 ‘Modifiche al sistema penale’ .
In questo quadro di orientamento la sanzione amministrativa viene a
rivalutarsi in un ruolo indeffetibile di maggiore efficacia quale
strumento di arginamento e deterrenza in materia di sicurezza e
prevenzione. I tempi di prescrizione del procedimento sono maggiori
di quelli dell’illecito penale contravvenzionale ed il prolungamento
senza limiti temporali della sua interruzione consentono
un’applicabilità più puntuale dell’ammenda assicurando l’effettiva
punizione del trasgressore.
Dal quadro generale di valutazioni sull’efficacia della sanzione
penale nell’ambito delle norme in materia di sicurezza sul lavoro
emerge sempre più chiaramente l’efficacia dell’irrogazione di una
sanzione pecuniaria inserita in un meccanismo articolato di risposta
che assicuri un’osservanza delle disposizioni di legge quale modalità
concreta e possibile che garantisca certezza e rapidità dell’azione
giudiziaria.
La legge 6 dicembre 1993 n.449 di delega al Governo per la riforma
dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro interviene in questo
clima e restringe il campo degli interessi di tutela penale riaffermando
che la sicurezza ed igiene del lavoro, le tutele delle condizioni
psico-fisiche dei lavoratori, le modalità di costituzione dei rapporti di
lavoro con riferimento all’intermediazione ed interposizione
rivestono caratteristiche che meritano tutele penali ed interventi
repressivi di sostanziale effetto deterrente.
Di fatto, quindi, la previsione di una sanzione penale per ogni
circostanziata ed individuata fattispecie diventa essenziale ed
evidenzia il livello di pericolosità e gravità dell’illecito a vantaggio
della certezza del sistema di norme vigenti.
L’intervento più determinante in materia di igiene e sicurezza del
lavoro in attuazione della delega suddetta è il d.lgs. 19 dicembre
1994 n.758.
Con questo intervento legislativo si realizzano tre importanti punti.
In primo luogo, si concreta la depenalizzazione di una serie di
fattispecie di illecito minore derubricando ad illecito amministrativo
317
molte contravvenzioni in materia di gestione dei rapporti di lavoro
(ad es. libretto di lavoro, orario, etc.); secondariamente si introduce
un peculiare meccanismo estintivo, la prescrizione, prendendo spunto
da uno strumento esecutivo, quale la diffida di cui, già in precedenza
con l’art.9 del D.P.R. 19 marzo 1955 n.520, il legislatore aveva
dotato l’organico ispettivo in materia di lavoro; infine, si ridefinisce
l’intero sistema sanzionatorio in tema di sicurezza ed igiene del
lavoro.
Il decreto legislativo, in argomento, costituisce un momento
qualificante ed assume interesse, soprattutto processuale, non tanto
per aver ridefinito l’efficacia di sanzioni di illeciti minori ed aver
rivisto l’apparato sanzionatorio penale per fattispecie di illecito già
esistenti quanto per aver istituito la prescrizione in sostituzione della
diffida e della disposizione.
Questo strumento si caratterizza, soprattutto, per essere
particolarmente incisivo sul piano della prevenzione creando
condizioni di incentivo alla collaborazione da parte dei responsabili e
possibilità di intervento concreto per rimuovere le cause di pericolo
riscontrate dall’organo di vigilanza.
3 La diffida, la disposizione e la prescrizione
obbligatoria
La diffida, la disposizione e la prescrizione costituiscono poteri
propri dell’organo di vigilanza che nell’assolvimento dei compiti
assegnati di polizia giudiziaria utilizza al fine di ottenere risultati
efficaci di ottemperanza alle norme vigenti.
La facoltà di diffida costituisce una attività preliminare per la
regolarizzazione delle situazioni sanabili alternativa all’azione
repressiva in senso stretto che trova nell’art.9 del DPR 19 Marzo
1955 n. 520 il proprio fondamento legislativo.
Questo istituto, che è stato accordato all’ispezione del lavoro nella
sua fase costitutiva, si legittima con l’esigenza del legislatore di
ottenere il rispetto delle norme violate con la minaccia della pena
anche discostandosi da principi generali di procedura penale in tutti i
casi in cui un avvertimento preliminare può porre rimedio a
comportamenti antigiuridici di rilevanza penale.
318
Anche la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro
n. 81/47 prevedeva questa possibilità di deroga per tutti gli stati
membri e sottolineava che una minaccia di punizione imminente è
generalmente più efficace della stessa punizione agli effetti di
ottenere conformità alle norme vigenti.
Questo strumento di azione giudiziaria ha avuto un suo utilizzo
diffuso, e a volte improprio, sin quando non sono intervenuti diversi
pareri contrari degli organi superiori della magistratura ordinaria che
ne hanno definito i limiti ed escluso l’uso. Nello stesso tempo, sono
entrate in vigore altre norme che hanno reso questo strumento del
tutto inutilizzabile perché carente di un certo grado di trasparenza
come si realizza in nuovi strumenti che intervengono a
completamento nel processo generale di depenalizzazione messo in
opera nell’ultimo ventennio.
Il potere di disposizione trova le sue origini nell’art. 10 del DPR 19
Marzo 1955 n. 520 che dispone la facoltà del funzionario ispettore
del lavoro di impartire con un atto esecutivo un precetto in materia di
prevenzione degli infortuni in tutti quei casi in cui per l’applicazione
di norme obbligatorie la norma rinvia ad un apprezzamento
discrezionale dell’organo di vigilanza.
Tale facoltà è stata ritenuta applicabile senza particolari vincoli
anche se il suo utilizzo è stato oculatamente contenuto ai casi che
effettivamente non trovavano precise indicazioni di dettaglio negli
obblighi di legge. In sostanza, laddove il sistema normativo pur
definendo obblighi e tutele non definisce in particolare situazioni
dettagliate, può intervenire la disposizione dell’ispettore che venuto a
conoscenza di circostanze e fatti specifichi che non hanno una
regolamentazione particolarmente espressa dispone modalità
concrete di intervento per garantire quegli obblighi generali di tutela
previsti dall’ordinamento.
L’uso di questo dispositivo è stato molto diffuso in carenza di
strumenti giudiziari che consentissero l’applicabilità di un sistema
complesso di norme quale è quello in materia di sicurezza e
prevenzione nei luoghi di lavoro. Ha consentito l’adeguamento di
situazioni pericolose anche in carenza di previsioni dettagliate per
esempio nel caso di bonifica di ambienti di lavoro coibentati con
319
pannelli di amianto oppure per definire periodicità negli accertamenti
sanitari per lavoratori esposti a rischi non tabellati.
La disposizione è stata sempre utilizzata per imporre pratiche diffuse
previa consultazione delle parti interessate e con l’evoluzione del
sistema normativo in materia di sicurezza e del procedimento
sanzionatorio è venuta sempre più a perdere importanza soprattutto
per evitare disomogeneità nell’applicazione di principi di tutela su
tutto il territorio nazionale. In alcune regioni, infatti, negli ultimi
decenni spesso la disposizione è stata considerata un
pre-avvertimento all’adempimento per effetto di interpretazioni
superficiali ma soprattutto a seguito di lacune legislative su una
materia in profonda evoluzione.
L’introduzione nel sistema sanzionatorio dello strumento della
prescrizione pone un argine più preciso all’utilizzo di questi
strumenti.
In sostanza, si rende possibile intervenire ridefinendo affidabilità ed
effettività alla tutela in materia di sicurezza ed igiene del lavoro pur
seguendo un percorso giudiziario puntualmente trasparente per
l’autorità competente che può concludersi in caso di ottemperanza ai
contenuti della prescrizione e di pagamento della corrispettiva
sanzione amministrativa con l’estinzione dell’illecito penale.
Le fasi della procedura comportano che al momento del riscontro
dell’inosservanza di norme di sicurezza ed igiene del lavoro l’organo
di vigilanza emetta un atto di prescrizione con il quale sono impartite
indicazioni puntuali per rimuovere i fattori di rischio o pericolo
accertati per effetto dell’inosservanza e, nello stesso tempo, informa
tramite una comunicazione di notizia di reato l’autorità giudiziaria
che apre un procedimento a carico del responsabile. Con la
successiva verifica dell’adempimento prescritto, l’organo ispettivo
ammette il responsabile al pagamento di una sanzione amministrativa
rapportata alla misura edittale nel quarto del massimo dell’ammenda
prevista per la violazione accertata e avuta conferma dell’avvenuto
pagamento di questa comunica all’autorità giudiziaria che si sono
verificate tutte le condizioni perché l’illecito penale possa
considerarsi estinto. L’autorità giudiziaria con l’archiviazione del
320
procedimento procede alla dichiarazione di estinzione dell’illecito
penale.
Come appare chiaro questo iter giudiziario soddisfa condizioni di
certezza e trasparenza del diritto rapportando tutti gli atti prescrittivi
ad un quadro normativo completo di previsioni di fattispecie ed
individuazione di gravità delle inosservanze in quanto tutto l’assetto è
disciplinato in modo coerente rispetto ai dettami generali e le
sanzioni sono ordinate secondo criteri che evidenziano anche il grado
di pericolosità sociale del precetto non osservato differenziando
sanzioni amministrative da sanzioni penali (ad es. reclusione, arresto,
ammenda, etc.) e tra queste ultime distinguendo le fattispecie
sanzionate con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda quali
quelle che possono essere oggetto di prescrizione.
Questo modo di operare e di applicare la pena sostituendola con
sanzioni amministrative ha contribuito nell’ultimo decennio in modo
sostanziale a ridurre il carico processuale assicurando maggiore
funzionalità al regime sanzionatorio.
Nel dibattito dottrinale sul tema, si ritiene che questi risultati sono
conseguenza della tempestitività della reazione alla commissione del
fatto illecito che l’adozione della sanzione amministrativa garantisce.
Molto importante rimane il criterio generale che siano la legge o atti
equiparati aventi forza di legge a stabilire la misura ed il tipo di
sanzione per reprimere la trasgressione di un precetto.
Con questo decreto, in sintesi, il legislatore indica un modello ed un
meccanismo sanzionatorio. Orientando l’attività degli organi di
vigilanza attraverso il rafforzamento del loro ruolo con questo potere
di prescrizione, si mantiene, comunque, un controllo della
magistratura sull’operato degli stessi e si indirizzano le attività al
rispetto di criteri di congruità tra sanzioni e violazione dei precetti
definiti dal legislatore secondo il grado di pericolosità e gravità
sociale. Una definizione di un quadro complessivo di obblighi risulta,
quindi, determinante per l’individuazione del tipo e della misura delle
sanzioni.
321
In definitiva, nell’attuale sistema sanzionatorio in materia di
sicurezza ed igiene del lavoro, oltre al criterio classico di sanzionare
in modo repressivo le violazioni alle norme antinfortunistiche fino ad
applicare la sanzione della reclusione per i casi da cui derivano lesioni
o morte di lavoratori, per le ipotesi meno gravi di illecito si afferma il
criterio di depenalizzazione con l’istituto della prescrizione
prendendo spunto dal meccanismo già previsto dell’oblazione di cui
all’art.162 bis c.p.p. ed integrandolo con una attività dell’organo di
vigilanza indirizzato a sollecitare un comportamento attivo di
‘riparazione e prevenzione’ rivolto ad eliminare le condizioni di
pericolo.
Tutto questo, comunque, si realizza in attività costantemente in
comunicazione con l’autorità giudiziaria a cui l’organo di vigilanza
riferisce con puntualità quanto prescritto e quanto ricorra l’eventuale
inadempimento alla prescrizione per dar seguito al procedimento
penale.
La prescrizione è venuta, pertanto, ad essere il principale modo di
intervenire nelle attività di ispezione in materia di sicurezza e salute e
si è affermato per essere uno strumento utile e adattabile che
potrebbe avere anche ulteriori possibilità di miglioramento se si
articolassero attività di consultazione più proficua tra soggetti
competenti ed interessati.
La validità di questo procedimento atipico rispetto al quadro
generale delle norme di procedura ha trovato diverse conferme nel
tempo. Successivamente, con un recente decreto di riforma dei
compiti e delle funzioni dell’organo di vigilanza, è anche stato esteso
a tutti i casi di fattispecie penale in materia di legislazione sociale per
i quali la norma prevede la pena alternativa dell’arresto o
dell’ammenda.
Per concludere, quindi, con uno strumento di questa consistenza la
proposta di escludere sanzioni penali per molte delle previsioni dei
decreti degli anni cinquanta, riducendo molti precetti imperativi a
norme tecniche e buone prassi, appare una forzatura del processo di
depenalizzazione in atto che nel tempo potrebbe indurre conseguenze
322
imprevedibili e, certamente, una minore attenzione allo sviluppo di
una cultura della prevenzione nei luoghi di lavoro.
4 Le buone prassi e le iniziative di promozione della
salute sul lavoro
Un orientamento diffuso che ha contribuito in modo sostanziale allo
sviluppo di una cultura di prevenzione in tutti gli stati membri della
comunità europea è stato quello di promuovere nel sociale, con il
contributo di tutte le parti sociali ed anche di istituzioni competenti,
iniziative volte a migliorare la qualità della vita e le condizioni di
lavoro.
Un volume consistente di progetti, che hanno trovato incentivi ed
attenzione da parte di importanti organismi della comunità, si è
articolato in ambiti sociali qualificati.
Con la costituzione e l’articolazione di ruolo di una Agenzia Europea
per la Salute e la Sicurezza sul luogo di lavoro si avviano, infatti,
attività di impulso per soddisfare il bisogno di garantire ambienti di
lavoro sicuri e sani. Tutti i paesi della comunità sono sollecitati su
questo piano e sperimentazioni di forme particolari di gestione e
promozione della salute e sicurezza diventano progetti da realizzare.
La strategia comunitaria si muove in considerazione dello stato di
fatto esistente e richiama alcune esigenze di fondo a cui far fronte:
consolidare una cultura diffusa della prevenzione, riuscire ad
uniformare il quadro normativo adeguando le forme giuridiche al
bisogno di efficacia dell’azione giudiziaria e sollecitare progressi nel
‘benessere’ al lavoro attraverso l’elaborazione di pratiche sempre
migliori, di dialogo sociale, di responsabilità sociale delle imprese.
In sostanza, l’approccio europeo alla salute e sicurezza sul lavoro
considera il miglioramento dell’ambiente e delle condizioni di lavoro
elementi fondamentali di una economia basata sulla qualità e valuta
momenti strategici per le iniziative di promozione del benessere e
salute sul lavoro tutte le collaborazioni possibili tra i soggetti
coinvolti. Recenti interventi sulle prospettive di sviluppo degli
interventi comunitari sulla materia richiamano l’attenzione sul
bisogno di riflettere su tutte le possibili soluzioni di cambiamento
323
nell’organizzazione del lavoro nei casi di rischio rilevato e
incoraggiano lo sviluppo di progetti che raccolgano l’interesse di
tutte le parti sociali.
In questo quadro europeo, in Italia come in tutti gli altri paesi della
comunità si sono attivate iniziative di promozione del benessere e
della salute che vanno molto al di là del garantire unicamente requisiti
minimi di sicurezza negli ambienti di lavoro. Sempre più appare
chiara che nella materia, per ottenere livelli di gestione e promozione
della salute e sicurezza sensibili all’evoluzione tecnologica ed allo
sviluppo delle relazioni industriali nel suo complesso, si deve
necessariamente ricorrere a continue analisi di confronto ed
all’individuazione di pratiche migliorative che vedano alla propria
base coesione sociale e partecipazione.
Una ‘buona prassi’ si caratterizza per essere uno strumento di
dialogo sociale o di partnerariato tra rappresentanze di parti sociali
ed istituzioni autorevoli e si sostanzia in un progetto che affronta
problematiche riconosciute da autorità competenti nel quadro di
norme vigenti individuando all’interno di un’organizzazione fasi e
metodi per sviluppare benessere e ridurre i rischi inerenti la salute e la
sicurezza.
Queste pratiche sperimentali non possono che collocarsi su piani di
efficacia ed etica professionale per la promozione di condizioni
migliori di vita e di lavoro attraverso l’attento esame ed anticipazioni
dei rischi in determinate attività produttive. Si tratta di una
innovazione riuscita che funziona e corrisponde a precise normative
nazionali ed internazionali.
Lo sviluppo di conoscenze, la diffusione di esperienze e la capacità
di controllo dei costi economici e sociali causati dagli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali sono altri importanti obiettivi.
L’Agenzia di Bilbao si è attivata per raccogliere e rendere disponibili
tutte le informazioni prodotte nella sperimentazione dei progetti di
queste buone pratiche. Ognuno di questi, nella sua realizzazione
descrive la natura del problema affrontato, la soluzione individuata ed
i risultati ottenuti. Questo patrimonio, in un certo qual modo,
contribuisce all’individuazione di standards minimi di sicurezza per
attrezzature ed organizzazione delle attività che facilitano gli
324
interventi sulle fonti di rischio in aziende per tipologie di settore e
soggetti interessati.
Si prenda ad esempio una ‘buona pratica’ diffusa qual è l’analisi
degli infortuni mancati (near miss accident).
Si valuta in una azienda che in determinati processi produttivi si
verificano condizioni di stress sul lavoro (turnazioni faticose,
esposizione a rischi di rumore o impiego di macchinari
particolarmente pericolosi). Il numero degli infortuni è in aumento.
La soluzione offerta è il coinvolgimento di tutti i dipendenti
nell’osservare e discutere le cause degli incidenti mancati e di quelli
di lieve entità e, da questi eventi, trarre spunti per una riflessione che
impegna non solo i soggetti diretti, lavoratori e loro rappresentanti,
ma anche ingegneri e tecnici della sicurezza, medici del lavoro.
L’analisi degli infortuni mancati realizza in modo esemplare
consapevolezza sia delle carenze dei processi lavorativi e delle
possibili alternative o miglioramenti nella gestione sia dei
comportamenti dei lavoratori che prevalentemente inducono a
condizioni di rischio.
La gestione di questa buona pratica sicuramente genera informazioni
di rilevante interesse sui processi e sulle dinamiche organizzative ma
la validità ed il livello di legittimità delle indicazioni che emergono dal
lavoro congiunto di analisi e stima delle carenze e delle possibilità di
guadagnare vantaggio e maggior sicurezza nel lavoro trovano la loro
base essenzialmente nelle modalità concordate e condivise di
valutazione delle soluzioni. Uno studio accurato del fenomeno
infortunistico non può prescindere da una attenzione rivolta ai fattori
tecnici, giuridici ed epidemiologici senza trascurarne le dimensioni
sociali, culturali ed organizzative del lavoro.
In questo esempio, è chiaro quanto la buona pratica e tutte le buone
tecniche collegate si fondano su un lavoro in cui la collaborazione di
tutti i soggetti coinvolti è un elemento imprescindibile. L’adozione
sistematica di tecniche di auto-osservazione ed auto-analisi e la
partecipazione dei lavoratori sono strumenti fondamentali di
apprendimento organizzativo. l lavoro di osservazione, diagnosi ed
azione correttiva ipotizzabili come necessarie fasi di un valido
processo di analisi non può che essere combinazione di conoscenze
325
acquisite e modalità organizzative praticabili che impegna tutto lo
staff aziendale ed i diversi soggetti competenti all’interno dell’azienda
e nel sociale.
Per queste considerazioni, ‘le buone prassi ’ sono diventate un
terreno di sperimentazione di alta qualità che ha fornito e fornirà
sicuramente ulteriori suggerimenti agli operatori e tecnici della
prevenzione. Ma è importante sottolinearne la dimensione in cui tutto
questo è possibile.
Quando le indicazioni, che emergono da questo patrimonio di
conoscenze, si traducono in contenuti di disposizioni di un organo di
vigilanza considerati secondo criteri applicativi di ampia
discrezionalità potrebbero verificarsi valutazioni improprie e diverse
che potrebbero generare confusione per comprendere il reale valore
delle pratiche e sperimentazioni in atto.
Solo esperienze protratte di buone pratiche e buone tecniche,
formalmente acquisite da autorità che siano in grado di stimarne
l’efficacia in circostanze differenti, possono essere assunte a precetto
con un intervento legislativo. E quando questo si verifica è del tutto
ovvio ed auspicabile che la gravità e pericolosità sociale della
inosservanza alla sua prescrizione sia definita attraverso l’esplicita
indicazione di una sanzione.
Questo è compito del legislatore. Le dinamiche proprie del contesto
sociale hanno, invece, una loro autonoma capacità di sviluppare
sempre modalità nuove ed adeguamenti costanti alle trasformazioni in
atto che appare necessario salvaguardare, se non incentivare, in
quanto, per l’esperienza sino ad oggi condotta, coesione sociale e
confronti costituiscono elementi fondamentali per ottenere i risultati
di interesse e di qualità nelle prospettive di promozione del
‘benessere’ e qualità della vita nel lavoro.
La possibilità di articolare dispositivi più efficienti nella prevenzione,
individuabili nelle sperimentazioni effettuate in determinati settori,
potrebbe trovare giovamento dal fatto di rendere tutte le ‘buone
pratiche’ progetti aziendali incentivati riproporzionando, ad esempio,
il sistema di calcolo delle tariffe dei premi dovuti per gli obblighi
assicurativi.
326
Questo meccanismo premiante, già da alcuni anni, è stato introdotto
per tutte quelle aziende che dimostrano di aver ridotto il numero di
infortuni sul lavoro. Analogamente, questo incentivo potrebbe essere
adottato non solo per condizioni di risultato ma anche per sollecitare
attività di promozione della salute e sicurezza sul lavoro.
Perché questo si realizzi, appare necessario che le ‘buone prassi’
siano analizzate secondo l’individuazione del problema a cui
forniscono soluzioni, l’analisi dei punti di forza e debolezza della
soluzione adottata, l’individuazione degli attori coinvolti, delle
strategie adottate e delle azioni poste in essere, l’analisi dei risultati
ottenuti e delle ragioni che spiegano le ragioni di successo: in
sostanza, secondo la loro articolata complessità. E da questo lavoro
di monitoraggio ne derivi una classificazione come già sta avvenendo
da parte di alcune istituzioni nazionali e comunitarie.
L’utilizzo di queste ‘ buone pratiche ‘, così individuate e classificate,
potrebbe costituire, quindi, pre-requisito per ottenere agevolazioni di
diversa natura che promuovano la diffusione di comportamenti attivi
e capacità di proporre e realizzare iniziative per lo sviluppo di una
cultura della prevenzione all’interno delle aziende.
327
Gli aspetti sociali e tecnici del benessere
lavorativo
CARLO BONORA
Vorrei sostenere un principio apparentemente semplice, ma che ha in
sé elementi di conflittualità, soprattutto verso coloro che affrontano il
problema della salute e della sicurezza attraverso esclusivi paradigmi
scientifici orientati alla cura o all’intervento organizzativo
adhocratico: quando si discute di salute, sicurezza, malattie
professionali e di ciò che occorre fare per migliorare le condizioni di
lavoro, o, come sostiene l’ILO, per migliorarle fino al punto di poter
sostenere il “fattore benessere” nei luoghi di lavoro, si dovrebbe
avere in mente che prima ancora che ai medici e ai tecnici, sono i
lavoratori gli interlocutori principali.
Dall’esperienza di lavoro, da come il lavoro viene vissuto,
organizzato ed esercitato, dalla “soggettività” del lavoratore si
dovrebbero apprendere e trarre gli elementi fondamentali su cui
misurare l’impegno di prevenzione e, purtroppo, di cura e
riabilitazione. Se consideriamo questo un “assunto” allora si sarà in
grado di poter tornare dai lavoratori e dai datori di lavoro e dal loro
management e dimostrare, con loro, come l’ambiente e
l’organizzazione del lavoro possono nuocere alla salute fisica e
psichica quando non ci si ispira alle condizioni di lavoro attraverso
una ricerca continua di misure adeguate per migliorarle, ed a
politiche organizzative di qualità per elidere i fattori impliciti ed
espliciti del rischio, evitando costi sociali ed economici altissimi e,
ormai da tutti, dichiaratamente insostenibili. Vi sono, ad esempio,
alcune importanti esperienze in atto, in Emilia-Romagna, nel
Piemonte e nel Veneto, che mettono in luce, attraverso la ricerca
sociale, la percezione del rischio da parte dei lavoratori in ambiente
lavorativo e la loro “valutazione” del benessere organizzativo sulla
base della propria esperienza. Mettendo insieme la percezione del
328
rischio ed i risultati di studi approfonditi di caso, attuati in settori
prevalentemente industriali, è stato possibile individuare buone
pratiche di intervento preventivo e l’attivazione e il coordinamento e
la sincronizzazione di sensibilità prima disperse. D’altra parte la
dimensionalità soggettiva della percezione è suggerita e promossa
dalla Fondazione Europea per il Miglioramento delle condizioni di
lavoro e della vita lavorativa.
Certamente c’è dovizia di pubblicistica: esistono in gran quantità
manuali e trattati di medicina, di igiene e di psicologia del lavoro, ma
quasi sempre questi sono scritti da medici per altri medici, da tecnici
per altri tecnici: si classificano le malattie per organi colpiti ed agenti
patogeni, si formalizzano principi e modelli, ma si prescinde quasi
sempre dalla prima realtà in cui tutto ciò è iscritto e va letto: il luogo
di lavoro, l’ambiente di lavoro (non soltanto quello “fisico” ma anche
quello sociale) e, in questo, la sua organizzazione del lavoro e del lay
out operativo/fisico. Eppure è lì, in quel particolare luogo di lavoro,
in quell’ambiente specifico, così come è organizzato e in cui il lavoro
viene organizzato ed esercitato che si fa più serrato il confronto tra
salute e sicurezza e soggettività del lavoratore e determinanti
organizzativi. Ma se entriamo in questa logica, così come si è cercato
di fare in Emilia Romagna, ciò che ha peso, nel rendere più sicuro
l’ambiente di lavoro, possono essere fattori non tecnici, non solo
psicologici, ma sociali; essi sono stati chiamati, nella stesura stessa
del piani sanitari regionali, determinanti sociali. Mi pare dunque
importante sottolineare un primo fattore ideale di riferimento: quello
“antropocentrico”, l’uomo sta al centro dei processi sociali e del
lavoro (economici dunque), il lavoro, cioè, è per l’uomo e non
viceversa.
Vediamo, invece, che cosa è successo con l’introduzione di macchine
di elevata complessità, operanti ad alta velocità ed impegno da
compromettere l’equilibrio psico-fisico e sociale del lavoratore e
l’impiego stesso di dispositivi: si pone il problema del rapporto
uomo-macchina. E’ possibile collocare l’inizio di questo processo
cognitivo e di “ingegnerizzazione” del rapporto di lavoro nel primo
dopoguerra (anni ’50). Si scoprì allora (e non si è ancora smesso di
ragionare in questo modo) che non si trattava più di adattare l’uomo
329
al lavoro, bensì di cercare di adattare il lavoro all’uomo, individuando
le condizioni ottimali in cui avviene l’erogazione della “forza-lavoro”
ed adattando a queste la macchina.
Si capisce bene che questo processo non è orientato alla prevalenza
della visone etica dell’antropocentrismo che mette in grande evidenza
i bisogni “psico-socio-fisici” dell’uomo lavoratore. Emerge invece il
principio razionalizzatore e tecnicistico (Newtoniano: Lavoro =
Forza x Spostamento) del rapporto: forza lavoro/produzione.
Vengono cioè individuate le caratteristiche sensoriali, il controllo
psicomotorio, le dimensioni corporee statiche e dinamiche, la
capacità di decidere del lavoratore ed in genere tutti i dati, riletti in
chiave interdisciplinare, forniti dall’antropometria, dalla fisiologia,
dalla psicologia, dall’ingegneria e dalla matematica. Con questi
presupposti la progettazione ergonomica tradizionale (la più
applicata) si propone l’ottimizzazione dell’ambiente fisico e
organizzativo, esaltandone la tecnologizzazione, per ottimizzare la
prestazione, “sfruttando” nel modo più rigoroso le capacità
rispettivamente dell’uomo e della macchina.
Questi processi di ingegnerizzazione delle condizioni di lavoro, basati
su fattori di produttività, sfruttando al massimo l’innovazione
tecnologica, rappresentano un approccio ergonomico che ha avuto e
ha peso nella adattabilità uomo-macchina-uomo. E’ importante
annotare che questo processo non si oppone alla “qualità del lavoro”,
anzi, la enfatizza. L’equilibrio uomo, macchina, organizzazione del
lavoro, avviene attraverso uno “scambio” che deve tenere in
considerazione la condizione in cui il lavoro si svolge: la sicurezza,
intesa come componente organizzativa con dispositivi essi stessi
ingegnerizzati.
1 Gli aspetti sociali e tecnici di un sistema di gestione
della Salute e della Sicurezza.
Si può, dunque, fare una constatazione: la gestione della salute e
della sicurezza sul lavoro costituisce una necessità da cui l’Azienda e
330
il lavoro non possono prescindere in quanto essa è parte integrante,
da un lato, della gestione generale di processo e di prodotto;
dall’altro, i lavoratori ne devono fare una questione legata
strettamente alla qualità della vita lavorativa, in alternativa alla quale
si incontrano agenti e malesseri psico-fisici-sociali che producono
sicuramente disagio se non infortuni e malattie invalidanti e/o mortali.
Affermiamo quindi, in coerenza con le direttive europee e le
comunicazioni della Commissione, che vi è un forte bisogno di
informazione, partecipazione e dialogo sociale per contrastare
l’incidente, in una logica preventiva. In particolare occorrerebbe fare
molta attenzione alle trasformazioni che avvengono nel mondo del
lavoro che fanno emergere nuovi bisogni che non possono essere
affrontati unilateralmente e/o super partes.
Se si lavora sul sistema aziendale della sicurezza, insieme ad un
adattamento delle scelte e degli impegni aziendali alla legislazione che
regolamenta istituzionalmente la sicurezza stessa, potrebbe essere
interessante fare una scelta analoga alla certificazione di qualità, o
alla certificazione ambientale, ecc. Di conseguenza l’azienda si
colloca in un’area di decisione che prevede la volontarietà della
scelta e dell’impegno conseguente che, necessariamente, almeno nel
nostro sistema, confluisce in moderne relazioni industriali.
Essendo volontaria la scelta, occorre che gli obiettivi e le politiche
per la salute e la sicurezza siano integrati nella progettazione,
programmazione e gestione dei sistemi di lavoro (organizzazione del
lavoro) e di produzione (organizzazione della produzione). Perché
questo impegno? La risposta è abbastanza scontata: il sistema di
gestione della salute e della sicurezza in ambiente di lavoro
definisce le modalità, supportate dalla tecnologia, per individuare
in azienda le responsabilità, i modi di fare e di essere ( modalità, e
quindi tecniche di organizzazione e di relazione – le cosiddette
procedure), i processi e le risorse per la realizzazione delle prassi
aziendali di prevenzione, nel rispetto delle norme vigenti di salute e
sicurezza sul lavoro.
La gestione del sistema ha numerose implicazioni di ordine tecnico,
organizzativo e metodologico-procedurale. Si è quindi di fronte ad
operazioni organizzative, ad attivazione di relazioni interne ed
331
esterne, ad interventi strutturali ed infrastrutturali che fanno
riferimento a quella che potremmo definire “soggettività di
organizzazione”.
Evidenzio un problema che emerge dalla nostra riflessione e che può
assumere l’aspetto di una contraddizione: non è possibile pensare a
schemi organizzativi uguali per tutti a cui omologarsi o ad obblighi di
certificazione, in quanto le Imprese hanno una loro organizzazione,
una loro missione, un loro stile direzionale e di management e,
abbastanza spesso, il loro sistema di relazioni industriali. Ogni
organizzazione deve quindi pensare al proprio sistema. E’ opportuno
rimarcare che la politica della gestione della sicurezza, gli obiettivi di
miglioramento a valle della valutazione dei rischi, l’organizzazione e
le risorse tecniche ed economiche da impegnare per la realizzazione
del sistema e per il conseguimento degli obiettivi di miglioramento
sono e devono rimanere nell’ambito delle attribuzione di
responsabilità che sono di pertinenza esclusiva dell’imprenditore. Ciò
non significa incitare all’autoreferenzialità nella gestione delle
politiche di salute e sicurezza ma mettere in luce che le
organizzazioni sono assimilabili agli organismi viventi che, per
sopravvivere, hanno bisogno di “socialità” . Il sistema
regolamentativo del quadro generale e di relazione industriale
costituisce di conseguenza uno degli aspetti insopprimibili della
vitalità del sistema socio-economico, a cui i singoli possono e devono
fare costante riferimento.
L’acquisizione di un sistema di gestione della salute e della sicurezza
in ambiente di lavoro assicura il raggiungimento degli obiettivi di
prevenzione, salute e sicurezza che l’Azienda si dà in una prospettiva
veritiera di efficacia ed efficienza (rapporto costi/benefici). E’ cioè
conseguenza dell’impegno e della procedurizzazione della
minimizzazione del rischio cui possono essere esposti i lavoratori, ma
anche le persone terze (clienti, visitatori, stageurs, fornitori,…), la
riduzione dei costi complessivi derivati da incidenti, infortuni e
malattie correlate al lavoro, aumentando con ciò l’efficienza e le
prestazioni dell’impresa stessa e migliorando anche l’immagine sia
interna che esterna.
332
E’ indispensabile, comunque, la considerazione che un sistema di
questi tipo, così come tutti i sistemi che fanno riferimento alla qualità,
hanno lo scopo prioritario di migliorare la qualità del lavoro non solo
in funzione della produzione ma anche in funzione della qualità della
vita lavorativa. Si insiste su questo aspetto sostanziale, in quanto
qualsiasi sistema di qualità è incentrato sulla valorizzazione della
risorsa umana, e sul suo coinvolgimento. Occorre che di ciò si sia
convinti per diventare responsabilmente operativi verso l’attivazione
del dialogo sociale in una prospettiva coesa.
Se le risorse umane, in azienda, devono essere partecipi della
gestione dei processi, lo strumento operativo esiste ed è di qualità: la
formazione. Non ci si riferisce al mero addestramento ma alla
formazione continua e permanente che deve interessare tutti i livelli
aziendali interni ( i lavoratori, il management e gli imprenditori). E’
logico che per attuare processi di tale portata occorre attuare un
processo ex-ante di pianificazione tenendo conto:
- delle attività lavorative ordinarie e straordinarie, comprese le
situazioni di emergenza;
- delle attività di tutto il personale (inclusi i lavoratori con
contratto atipico, dei portatori di handicap, dei fornitori,
visitatori, clienti, ecc.) che ha accesso al luogo di lavoro e/o ha
interferenza con le attività lavorative;
- delle strutture fisiche dell’impresa;
- dei luoghi e dei metodi di lavoro;
- delle infrastrutture;
- delle macchine;
- degli impianti;
- delle attrezzature;
- delle sostanze e dei materiali che si impiegano nel processo
333
produttivo;
- dei servizi aziendali.
Tutto ciò allo scopo di individuare le modalità più adeguate per
presidiare i processi aziendali e i luoghi di lavoro, così da prevenire le
incongruenze e per individuare e pianificare le attività di modifica
organizzativa, strutturale, procedurale, tecnologica alla luce della
tutela della salute e sicurezza nel lavoro, secondo la logica preventiva
e delle responsabilità, non solo verso il modo di produrre ma anche
verso sé stessi.
2 I determinati sociali, il coinvolgimento dei
lavoratori.
Ho accennato ai determinanti sociali quale griglia attraverso la quale
filtrano le politiche aziendali di prevenzione e di affrontamento dei
rischi, per la gestione efficace di un sistema aziendale di salute e
sicurezza che, abbiamo visto, fa riferimento esplicito alla sostenibilità
socio-economica della produzione e alla responsabilità sociale
dell’azienda..
Un esempio eclatante può essere rappresentato da uno dei settori a
più alto rischio di incidenti sul lavoro, invalidanti, permanenti o
mortali: quello delle costruzioni.
In questo settore si può tentare di lavorare per la prevenzione
facendo alcune considerazioni che mettono in evidenza la situazione
sociale del lavoro che ha un grande peso nella stessa organizzazione
del lavoro e nella distribuzione/divisione del lavoro nella fase di
produzione.
Tra l’altro questo settore presenta ancora una forte intensità di lavoro
umano.
Se guardiamo “dentro” al settore edile si possono fare le seguenti
considerazioni:
gli infortuni gravi, invalidanti e mortali sono “troppi”. Il problema
della prevenzione è quello di creare le condizioni organizzative e
culturali, nelle Imprese e tra i Lavoratori, affinché lavorare non
significhi anche morire;
334
nella maggior parte delle situazioni, organizzate “a cantiere”, queste
si presentano con gradi di complessità gestionali rilevanti in ragione
della complessità di profili di lavoratori assai diversificati:
- un nucleo ristretto rappresentato dal gruppo dell’Azienda
committente, verosimilmente il più professionalizzato;
- una molteplicità di aziende micro che operano in regime di
subappalto, noli a caldo e a freddo (ad esempio i montatori di
ponteggi);
- consistenti presenze di lavoro irregolare o sommerso, come
hanno ben dimostrato le recenti campagne di vigilanza.
·
età avanzata dei lavoratori locali;
·
scarsissima propensione dei giovani ad entrare nel settore;
·
realtà organizzate di piccola o piccolissima dimensione;
·
forte
radicamento
nella
tradizione
del
lavoro,
con
un’organizzazione del lavoro basata sull’autoritarismo e sulla
distanza di
mestiere: il costruttore,
il capocantiere,
il
muratore/carpentiere, il manovale, l’apprendista, ecc.;
·
la professionalizzazione, formalizzata attraverso le scuole edili
coinvolge solo una minoranza di lavoratori, nella maggior parte si
registra una professionalizzazione per apprendimento imitativo
nel luogo di lavoro;
·
la prestazione di lavoro si suppone possa essere molto spesso in
nero e di conseguenza vi sia, particolarmente in questo settore
economico, una insostenibile evasione fiscale;
335
·
alta diversificazione della committenza, pubblica e privata, con
regole ed esigenze diverse;
·
scarsa pregnanza delle attività di formazione che non riescono ad
avere spessore tra le imprese e i lavoratori;
·
appartenenza ad un settore economico caratterizzato da cicli
ricorrenti di crisi strutturali e di mercato;
·
gare di appalto organizzate, di regola, al ribasso;
·
scarsissima attenzione al trasferimento tecnologico;
·
scarsa sindacalizzazione, quindi scarsa coesione, intermediazione,
partecipazione e relazione.
Potrebbe essere un utile esercizio analizzare con la stessa
metodologia e nella stessa prospettiva altri settori merceologici
(metalmeccanico, chimico, tessile, trasporti, ecc.).
Questa è la complessità della situazione; vi sono strumenti per
affrontare i punti di criticità più evidenti? Può l’ergonomo, il medico
del lavoro, l’ispettore del lavoro, i mediatori culturali della sicurezza
(tra questi i Rappresentanti per la Sicurezza dei Lavoratori – RLS) ,
ecc. non tener conto di quanto appena evidenziato nella discussione?
Si ritorni all’efficacia gestionale del sistema salute e sicurezza, in
azienda. L’impegno per la prevenzione richiede sostegno e
partecipazione dei lavoratori: la loro esperienza e le loro conoscenze
implicite ed esplicite professionali e organizzative sono risorse. Di
salute e sicurezza occorre discutere attraverso riunioni periodiche e
arrivare ad accordi. Occorre cioè sviluppare la coesione sociale
interna ed il dialogo.
Non si può prescindere dalla necessità di formazione continua e
permanente che sviluppa competenze e le consapevolezze necessarie
per lavorare sicuri e per partecipare alla gestione del sistema. Una
336
formazione di questo tipo non può venire dall’alto ma va concordata
con i lavoratori stessi e non può essere considerata una perdita di
produttività.
Insomma, la circolazione delle informazioni all’interno dell’Azienda
risulta essere un fattore fondamentale per garantire efficacia ed
efficienza all’impegno per la prevenzione e la qualità del lavoro.
A questo punto, e a discussione “matura”, risulta forse di una certa
importanza fare il punto sulla prevenzione e sulla delineazione del
suo fondamentale ruolo nel miglioramento delle condizioni di lavoro
e della qualità della vita lavorativa, correndo anche il rischio di essere
eccessivamente “didattici”. La prevenzione è un metodo operativo e
necessariamente condiviso per risolvere alla radice il problema dei
rischi connessi all’organizzazione del lavoro e degli ambienti fisici e
sociali in cui si lavora.
In passato si provvedeva al semplice risarcimento del danno e si
copriva il rischio economico del danno con il sistema assicurativo
obbligatorio. Ciò non tutelava i lavoratori bensì le imprese dal rischio
di non aver risorse sufficienti per indennizzare il danno causato;
l’assicurazione non era, e non è, comunque prevenzione. Il
cambiamento c'è stato quando si è potuto constatare che prevenire
era meglio che risarcire ed anche meglio che curare, ed oltretutto
costava meno anche all'impresa, oltre che alla collettività. La
regolazione legislativa vigente (la “626”, tra l’altro, raccoglie
direttive europee di fondamentale importanza) e gli attuali Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro (Ccnl) prevedono la partecipazione di
tutti i soggetti della prevenzione alla gestione delle politiche per
realizzare questo obiettivo. Si può dunque affermare che le azioni
preventive tese al miglioramento delle condizioni di lavoro e della
qualità della vita lavorativa sono diventate parte integrante delle
relazioni industriali con la possibilità di interventi concertativi delle
Istituzioni preposte alla sanità e al lavoro.Le relazioni tra le parti
tendono a non essere più essere improntate, come un tempo, alla
cultura dei rapporti di forza e del conflitto, ma a quella della
partecipazione, che presuppone la definizione e la condivisione di un
337
comune obiettivo, quello appunto del miglioramento continuo della
tutela della salute e della sicurezza. Rispetto al passato, ciò richiede
un mutamento non tanto dei ruoli, che restano quelli di sempre,
quanto delle modalità di rapporto tra essi. Tuttavia il portato
dell’azione negoziale nelle relazioni tra le parti è la mediazione. Nel
caso però della sicurezza non si tratta necessariamente di
mediazione, bensì di uno sforzo comune a riconoscere utili tutti i
saperi e le idee che circolano in materia, al fine di raggiungere almeno
l'obiettivo comune e condiviso: quello del lavoro“chiaro sicuro e
regolare”.
3 Alcuni considerazioni di efficacia.
L’ambiente di lavoro è costituito da fattori fisici, mentali e sociali.
Al presente i metodi utilizzati per un’analisi sistematica socio-tecnica
di tutto quanto l’ambiente di lavoro di una azienda sembrano essere
insoddisfacenti. Si sente fortemente l’esigenza di organizzare
metodologie di analisi che facilitino la comprensione dell’intero
ambiente di lavoro attraverso strumentazione di valutazione/controllo
del massimo numero di fattori che lo costituiscono e che, ripeto, sono
sociali, di impatto psichico, fisici e tecnici.
I principi di base su cui appoggiano e si possono sviluppare questi
metodi possono essere rappresentati da quei fattori (misurabili) che
indicano lo stato di benessere e di salute negli ambienti di lavoro,
quali lo stress fisico, il rumore, la soddisfazione del lavoro, la
capacità o meno di “dominare” o di essere “appendici”
dell’innovazione tecnologica (si pensi, per esempio, all’automazione
flessibile e alle sue conseguenze sui lavoratori e sul management), e
quant’altro.
Le funzioni di conversione sviluppate per questi fattori possono
permettere di fare una valutazione comparativa tra fattori;
successivamente è possibile misurare quanto seriamente l’equilibrio
psico-fisico è compromesso, tenendo in considerazione sia le
conoscenze consolidate e “sovrastrutturali”, proprie dei progettisti, a
338
quella particolare situazione, sia conoscenze che possono emergere
solo dal vissuto delle lavoratrici e dei lavoratori. Le funzioni di
conversione sono basate principalmente su statistiche per gli incidenti
e su conoscenze, prevalentemente tecniche-ingegneristiche, su ciò
che occorre fare per evitare le malattie e gli incidenti. Solo
recentemente, per esempio, si disserta sui carichi mentali. La stessa
Commissione Europea ha pubblicato un report sullo stress da lavoro
che esprime una grande preoccupazione sullo stato di salute nelle e
delle organizzazioni produttive e di servizio.
I dati delle misurazioni mettono in grado di legare malattia-salute ai
costi, e ciò può essere allora usato per dimostrare come le spese per
migliorare l’ambiente coinvolgano tutta l’azienda. Ciò può essere, tra
l’altro, assai utile a sostenere la tesi (europea) che l’investimento
ergonomico per migliorare la qualità della vita lavorativa e,
comunque, tutto ciò che si fa in termini di prevenzione dei rischi e
delle malattie, in ambiente lavorativo, rende più competitiva
l’azienda, in termini di implementazione della qualità del prodotto e
dell’immagine aziendale.
4 Parole “chiave”.
Le parole “chiave” su cui occorre concentrare l’attenzione da parte
dell’Aziende e dei Lavoratori per impostare corrette “relazioni
industriali” per il miglioramento della vita lavorativa e delle
condizioni di lavoro possono essere, per esempio:
- Lo studio dell’ambiente di lavoro;
- l’accertamento del ciclo vitale;
- il controllo dei processi;
- la valutazione;
- la progettazione di soluzioni
- i costi;
339
- il controllo del “clima” interno.
5 I fattori di riferimento
I fattori che devono avere priorità sono quelli misurabili. Per questa
ragione, i fattori “hard” della sicurezza, come l’esposizione ad agenti
chimici e al rumore o al sollevamento di oggetti pesanti sono da
lungo tempo sotto la luce dei riflettori negli studi dell’ambiente di
lavoro.
Ugualmente, considerevole attenzione deve essere data al tipo di
malattia o di perdita di capacità di lavoro che si sono evidenziati
come risultato di un incidente. E’ un’anamnesi che sarebbe necessario
fare, quando si affrontano i problemi della sicurezza nel lavoro e della
salute, pensando ad interventi orientati a ridurre il rischio, fino a
cancellarlo.
Ma non sono solo i fattori “hard” che devono essere considerati.
Potrebbe essere assai vantaggioso nel lavoro di studio e
progettazione di buone pratiche mettere in rilievo fattori “soft”
organizzativi, come, per esempio, buone relazioni, sviluppo delle
mansioni, soddisfazione nel lavoro, nuove esperienze motivanti, ecc.
Tali fattori, tra l’altro, sono a portata di mano, essendo parte di un
approccio organizzativo innovato.
La salute è definita nella costituzione dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità (WHO) come:
“uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non
soltanto l’assenza di disagio o infermità”; non si capisce perché
tale principio non possa essere filo conduttore di tutto ciò che si fa e
si progetta per quel che riguarda l’organizzazione del lavoro e della
produzione, conciliando qualità del lavoro e qualità della vita
lavorativa, produttività e salute, intesa come integrità psico-fisica del
lavoratore.
E’ ormai assodato che gli effetti del lavoro sulla salute della persona
possono essere misurati psichicamente e fisicamente. I dati che
emergono (e sono ormai “tanti”) sono utili a facilitare la
340
progettazione ergonomica e a migliorare le condizioni di lavoro.
Posto che un “effetto” può essere positivo o negativo, non è certo
che i più importanti fattori siano quelli che possono essere misurati
con maggiore facilità.
La situazione del lavoro, in termini culturali e sociali, è strettamente
associata con la posizione sociale dell’individuo ed è parte
dell’identità della persona. E’ ancora viva l’idea che il lavoro procura
riconoscimento e ruolo sociale. Ed è ancora evidente che il lavoro è
fonte primaria di sostentamento.
L’incidenza del lavoro sullo stato di salute non può dunque essere
sottovalutata: molto spesso la “necessità” di lavorare porta i
lavoratori ad adattarsi a condizioni sfavorevoli alla loro integrità
psico-fisica (si pensi, per esempio al lavoro sommerso o in “nero”; al
doppio lavoro, ai carichi di lavoro individuali “just in time” nella
piccola e microimpresa; ecc.). Vorrei ricordare che le cause di
malattie professionali e di incidenti gravi sono dovute, anche nella
cosiddetta Società dell’Informazione, allo sforzo fisico (malattie
muscolo-scheletriche dovute a “fatica”) e trasporto merci (incidenti
stradali “in itinere”). Così come è opportuno considerare il carico
psichico del gradiente di lavoro “intellettuale” che si sta trasferendo
al lavoro “manuale”, sulla base della “automazione flessibile” e dell’
“informatizzazione di interi “cicli” lavorativi. Un’impresa che vuole
assumere la visibilità della responsabilità sociale (SA8000, per
esempio) e si impegna a creare la migliore situazione possibile di
lavoro, prova a rinforzare i fattori positivi e rendere minimi alcuni
effetti negativi. Essa tenta inoltre di incanalare le sue risorse ed i suoi
sforzi in quelle aree dove è possibile raggiungere il migliore impatto.
Vi sono numerosi e differenti modi di analizzare gli ambienti di
lavoro e di conseguente documentazione per far emergere dati e
indicatori utili per la realizzazione e la progettazione di buone
pratiche impiegabili nelle azioni di miglioramento dell’ambiente di
lavoro e della “vita lavorativa”.
341
6 Statistiche per i danni occupazionali.
La maggior parte delle Regioni si attiene a statistiche INAIL
relative ai danni occupazionali e alle malattie. In alcune sono stati
istituiti, come in Emilia-Romagna, Centri Epidemiologici che
analizzano i dati INAIL e INPS e ne tentano la decifrazione.
Tuttavia, le statistiche relative ai danni occupazionali sono in gran
numero “illeggibili” dall’uomo “comune” (Le statistiche sembrano
create ad arte per gli addetti ai lavori, piuttosto che rispondere alle
necessità implicite od esplicite delle persone e al bisogno di
conoscenza che sta crescendo).
Le incertezze si presentano quando un incidente che si è verificato
abbisogna di essere dimostrato a vari livelli.
Inoltre la malattia è raramente riconosciuta e documentata se non
porta a incidenti o disabilità evidenti, particolarmente quando questi
hanno conseguenze sociali o rendono parzialmente o totalmente
(anche se temporaneamente) inabili a lavorare.
Altra “nebulosità” riscontrabile nelle statisticazioni è quella relativa
agli antefatti (perché un incidente si è verificato?, quali sono i
determinanti sociali ed economici impliciti ed espliciti che lo hanno
determinato?….).
I problemi che si ingenerano dall’incidente o da ciò che ha causato
una malattia professionale hanno effetto sulla popolazione per un
tempo piuttosto considerevole, prima che un campione possa
essere esaminato ed emergano integralmente i punti di “criticità”
organizzativa su cui sia possibile intervenire (quindi anche con la
chiarezza sulle cause che hanno determinato malessere e danni a
volte irreparabili).
Le medio-grandi Imprese qualche volta redigono in proprio le
statistiche o possono usare statistiche ufficiali per le loro proprie
organizzazioni.
Per poter mettere in relazione i fattori sociali ed ambientali del
lavoro, con il miglioramento della vita lavorativa e delle condizioni
del lavoro è necessario avere una relativamente ampia quantità di
dati di base che fanno riferimento al sistema “socio-tecnico”
dell’organizzazione, a come il lavoro è organizzato, a come è
342
organizzata la produzione e quali relazioni esistono con l’ “ambiente
esterno” (impatto ambientale, relazioni con gli organismi di controllo,
coinvolgimento di facilitatori – consulenti, ergonomi, mediatori
culturali o formatori, ecc.).
Però anche questi fattori sociali ed economici così identificati sono
ancora abbastanza “generali” e possono risultare inadatti a fornire
informazioni circa l’ambiente di lavoro di un “singolo” lavoratore.
I reports o le informazioni su recenti infortuni sono raramente
soddisfacenti e quando un report è fatto esso fornisce solo quei “puri
e generali” dati di rischio .
7 Questionari e interviste
Molti questionari sono stati pensati per diagrammare problemi
relativi all’ambiente di lavoro come essi sono stati esperimentati dai
lavoratori. Molti di questi questionari mettono a fuoco l’area di uno
specifico problema, mentre altri sforzi sono compiuti per comprende
la situazione intera.
In ogni caso cercano di valutare la situazione così come è oggi e nel
recente passato.
I questionari non forniscono uno spassionato inventario. Essi
contengono punti di vista impliciti o espliciti che rispondono
accreditando o contraddicendo .
Le risposte sono anche influenzate dalle opinioni prevalenti nella
azienda o nella società.
La maggior parte dei metodi di indagine tenta di percepire e
considerare la conoscenza che i lavoratori hanno del loro ambiente di
lavoro e le domande sono pertanto mirate alla “posizione” nel posto
di lavoro e il suo attuale o possibile effetto. Tuttavia, le persone
generalmente sono in grado di descrivere discretamente bene la loro
situazione ma non sono in grado di puntualizzare il legame tra i
coefficienti dell’effetto e la salute..
Per esempio, per un particolare individuo, può essere terribilmente
difficoltoso stabilire se il disagio psicofisico è dovuto al troppo
carico di lavoro, all’esposizione ad agenti nocivi chimici, alle
343
relazioni con i colleghi, alla sua situazione familiare o forse ad
un’infezione.
Vi sono anche alcune indagini che solo sulla carta disegnano un
percorso sull’esperienza di salute individuale del lavoratore
/lavoratrice, il più delle volte in combinazione con controlli medici e
senza alcun tentativo di stabilire le cause del disagio
Tutto ciò fornisce un eccellente quadro dello stato dell’individuo, ma
non offre alcun aiuto quando occorre entrare nel merito delle priorità
organizzative per misure di rettifica.
8 Controllo del posto di lavoro sulla base di liste di
verifica (check list).
Le sfere del controllo della sicurezza e/o controlli similari sono
effettuati in molti posti di lavoro, particolarmente in posti di lavoro
ben istituiti stabilmente e disponibili.
Vi sono numerose liste di controllo collaudate e istruzioni che
possono essere usate per questi controlli. Alcune di queste possono
essere proposte per essere usate per un semplice controllo a scopo
diagnostico e normalmente non sono richieste conoscenze
specialistiche. Altre sono più avanzate e presumono una certa
conoscenza intorno agli effetti sulla salute dell’ambiente di lavoro e
della sua organizzazione..
Il fuoco dei dati oggi disponibili è sui coefficienti dell’effetto
tradizionale, come, per esempio, rischi di infortunio, ergonomici,
agenti chimici e rumore. Solo occasionalmente sono prese in
considerazione, fattori indiretti quali la responsabilità, la formazione
“sicura” e altre misure in relazione a fattori psico-sociali per la
tutela della salute.
Le ispezioni del posto di lavoro documentano i rischi per le malattie
presenti e future, ma sono basati sull’esperienza “storica”, su
strumenti di analisi consolidati…..
I risultati di queste ispezioni raramente forniscono dati di base con
cui sia possibile stabilire delle priorità.
Posto che non è facile disporre di un quadro evidente di riferimento o
di possibilità per stimare gli effetti della organizzazione del lavoro,
344
considerando che spesso nessuna misura e priorità deriva da questi
controlli, può essere utile decidere di svilupparli secondo precedenti
esperienze o basandosi su esperienze attuate in altri posti di lavoro
(benchmarking).
345
Miglioramento della qualità del lavoro, salute e
sicurezza, dalla tutela alla promozione della
salute e della qualità del lavoro. Evoluzione
delle relazioni industriali e delle politiche
pubbliche
GINO RUBINI
1 Premessa - Il contesto
Affrontare il tema del miglioramento della qualità del lavoro, dalla
tutela alla promozione della salute e della qualità del lavoro, nella
attuale situazione di grave crisi della economia e del sistema
produttivo italiano e in parte anche regionale, potrebbe apparire
come un esercizio poco sensato e comunque di scarsa utilità rispetto
alle priorità immediate. È una riflessione che ho affrontato mentre
misuravo le difficoltà a procedere in questo lavoro e da questa
riflessione sono emerse alcune domande cui, parzialmente, tenterò di
dare qualche risposta con questo saggio. Nel mese di maggio 2005 si
è conclusa anche la vicenda della delega al governo per la
elaborazione di uno schema di Testo Unico. Questa iniziativa del
governo ha impegnato per oltre due anni decisori politici, operatori e
giuristi, associazioni imprenditoriali e organizzazioni sindacali dei
lavoratori.
Il progetto governativo di introduzione di un Testo Unico in materia
di salute e sicurezza è naufragato. A giudizio di molti addetti ai lavori
gli ultimi due anni sono stati in parte perduti a causa di questo
progetto sbagliato sia nel metodo sia nelle proposte di merito.
Il progetto di elaborazione di un testo unico era sostenuto dalla
delega per la semplificazione ottenuta dal Parlamento (con l’art. 3
della legge 29.7.2003 n. 229). Le modalità di lavoro per la
elaborazione di quel testo, chiuse al confronto e al contributo dei
Sindacati e delle Associazioni scientifiche e professionali, hanno
determinato la produzione di un elaborato scadente che ha ricevuto
346
una mole tale di pareri contrari e di bocciature, dalle Regioni, dal
Consiglio di Stato, dalle Associazioni dei professionisti che si
occupano di prevenzione, dalle OO.SS dei lavoratori da consigliare il
ritiro del testo dalla Commissione del Senato.
È da questa situazione di fatto che occorre, dopo aver fatto il punto,
ripartire sull’obiettivo della qualità, della costruzione della migliore
qualità possibile del lavoro, nei diversi lavori.
2 Traiettorie e tendenze nel sistema produttivo
emiliano-romagnolo
Il miglioramento della qualità e della sicurezza nel lavoro è sempre
stato declinato come uno degli obiettivi delle Amministrazioni locali e
della Regione Emilia-Romagna. La produzione di ricchezza da parte
del sistema produttivo regionale, storicamente, ha registrato, per
molti decenni, come contropartita e come frutto delle lotte sindacali,
diffuse pratiche di ridistribuzione del reddito ai lavoratori dipendenti
e iniziative di miglioramento dei posti di lavoro anche dal punto di
vista della salute e della sicurezza.
La cultura della sicurezza e della salute promossa dalle istituzioni è
stata un segno distintivo della buona amministrazione regionale e
locale e parte integrante dagli anni ’70 fino a metà degli anni ’80 del
“modello emiliano romagnolo” come risposta alle lotte sindacali
contro le nocività che si erano sviluppate dalla metà degli anni ’70.
Questo percorso di produzione e accumulazione di esperienze e
conoscenze è ancora in atto o invece si è passati ad un’altra fase, ad
una discontinuità rispetto alla tradizione delle politiche di
miglioramento continuo delle condizioni di lavoro?
Quali sono le traiettorie e le tendenze in materia di politiche per la
salute e la sicurezza nel lavoro in questa epoca, in questa Regione, l’
Emilia-Romagna, che vanta un passato di iniziative e azioni
innovative e di valore sia da parte delle istituzioni sia da parte dei
soggetti della rappresentanza sociale?
Cosa sta avvenendo nella rete delle migliaia di microimprese e nelle
imprese più strutturate per quanto riguarda la gestione quotidiana del
lavoro, nelle pieghe di una trasformazione organizzativa che vede
molte imprese modulare le proprie “strategie organizzative e
347
gestionali” all’interno di orizzonti temporali che molto spesso non
superano quattro o cinque settimane?
Queste sono domande legittime alle quali cercheremo sia pure
parzialmente di dare una risposta per comprendere se sono possibili
percorsi di iniziative e azioni che abbiano come obiettivo il
miglioramento della qualità nel lavoro o se vi sia solo lo spazio per
iniziative e azioni difensive tese a ritardare gli effetti dei processi di
frantumazione e scomposizione del lavoro che rendono i lavoratori
più vulnerabili rispetto alla tutela della propria salute e sicurezza nel
lavoro.
In molti contesti aziendali il denominatore comune più diffuso è
rappresentato dalla accelerazione sia delle decisioni sia delle
trasformazioni organizzative sempre più rapide necessarie per fare
fronte alle turbolenze dei mercati. La struttura produttiva regionale è
pienamente inserita in queste tendenze più generali.
Il governo di questo aspetto della condizione di vita nel lavoro che ha
impatti molto forti sul patrimonio complessivo di salute della
popolazione non può lasciare indifferenti coloro che hanno
responsabilità di governo e di direzione nelle istituzioni e nella
società.
Da una parte è necessario leggere attentamente i risultati delle
ricerche che si stanno svolgendo in Regione dall’altra occorre
analizzare tendenze in atto ai diversi livelli delle istituzioni
comunitarie e a livello nazionale in materia di normazione sulle
condizioni di lavoro, salute e sicurezza dei lavoratori. La precedente
Giunta della Regione Emilia-Romagna aveva siglato con le parti
sociali un “Patto per la qualità dello sviluppo, la competitività, sostenibilità
ambientale e la coesione sociale Emilia-Romagna” nel quale vengono
indicati gli strumenti per rafforzare il sistema delle imprese e la
qualificazione professionale dei lavoratori.
Per rispondere alle domande che ci siamo posti dobbiamo inoltre
esaminare, sia pure in forma necessariamente schematica il contesto
europeo e nazionale delle politiche di tutela e promozione della
sicurezza nel lavoro.
348
1
Le politiche comunitarie
Per quanto riguarda le politiche comunitarie, la Commissione
Europea per un periodo assai lungo ha mantenuto una gestione dai
toni molto sommessi su questi temi, tesa a mantenere una continuità
rispetto agli obiettivi fissati nella Direttiva 391/89, senza tuttavia
predisporre sistemi di verifica e valutazione dei risultati raggiunti nei
diversi stati membri. Il fatto nuovo è rappresentato dal Parlamento
Europeo che in data 24 febbraio 2005 ha approvato la risoluzione
“Promozione della salute e della sicurezza sul lavoro”, un riferimento
importante che fa il punto sulle criticità della gestione di questa
tematica a livello europeo. Nella risoluzione sono contenuti indirizzi
e orientamenti che sono palesemente in conflitto con gli indirizzi e gli
orientamenti in materia praticati dal Governo italiano che ha appena
fallito il varo di un Testo Unico che avrebbe ridotto i diritti dei
lavoratori alla formazione e alla informazione rispetto ai rischi
presenti nel lavoro, avrebbe limitato fortemente il ruolo di
partecipazione dei lavoratori alla gestione della sicurezza tramite
propri rappresentanti.
Le preoccupazioni per la crisi strutturale della economia e per
l’incremento delle disuguaglianze nelle condizioni di lavoro derivanti
dall’allargamento ai nuovi paesi appena entrati pervadono il
documento del Parlamento europeo che indica queste difficoltà come
sfide da superare.
Le sfide principali contenute nella risoluzione del Parlamento che
tenta di riprendere il ruolo di indirizzo rispetto ai temi della tutela
della salute e della sicurezza del lavoro riguardano:
·
la tempestività della elaborazione e pubblicazione dei rapporti
sullo stato di applicazione delle direttive nei diversi stati membri
·
la standardizzazione europea dei sistemi informativi degli stati
membri per disporre di dati comparabili e utili al fine di elaborare
politiche comunitarie efficaci
·
possibilità di estendere la direttiva quadro sino a comprendere
gruppi esclusi, come i lavoratori autonomi; sottolinea la necessità
di prestare particolare attenzione alla situazione di settori come
349
l’edilizia, la pesca e l’agricoltura, nonché il settore sanitario;
invita, inoltre, la Commissione a valutare, quanto prima possibile,
l’attuazione della nuova strategia comunitaria in materia di salute
e sicurezza sul lavoro 2002- 2006
·
il Parlamento sostiene la proposta della Commissione di
presentare una relazione unica che copre l’attuazione pratica di
tutte le direttive in tutti i 25 Stati membri; chiede alla
Commissione di promuovere attivamente l’armonizzazione e una
maggiore comparabilità dei sistemi nazionali di raccolta dati,
anche ai fini di migliorare la raccolta dei dati sul controllo e sulla
valutazione adeguata del rischio nonché sull’impatto
dell’esternalizzazione, dei subappalti e dell’occupazione
contingente;
·
invita la Commissione ad includere nel suo programma di azione
alcuni dei problemi di genere cui le donne e gli uomini si
confrontano e, in particolare:
· cura e controllo di problemi di salute e di sicurezza specifici;
· rischi associati al lavoro e malattie psicologiche a lungo termine
(quali esaurimento e depressione) dovuti al duplice onere cui
sono soggetti le donne e gli uomini che cercano di conciliare
vita professionale e familiare o all’enorme pressione sul
mercato del lavoro;
· stress e violenza, mobbing e altre molestie sul luogo di lavoro;
· copertura inferiore di tutti i suddetti problemi da parte di
servizi preventivi di buona qualità;
· condizioni di lavoro anti-ergonomiche;
·
il Parlamento esprime profonda preoccupazione per il tasso
eccessivamente elevato di infortuni tra i lavoratori temporanei e a
breve termine, che in alcuni Stati membri è almeno doppio del
tasso relativo ai lavoratori permanenti; sottolinea che la direttiva
91/383/CEE stabilisce, come norma generale, che i lavoratori
temporanei godono degli stessi diritti alla salute degli altri
lavoratori, ma che la direttiva non prevede meccanismi specifici
che rendano questo sistema attuabile nella pratica; invita la
Commissione a rimediare a questa carenza; invita i governi degli
350
Stati membri a raggiungere, quanto prima possibile, un accordo
sulla proposta di direttiva della Commissione sul lavoro interinale;
Abbiamo riportato solo alcuni degli item contenuti nella Risoluzione
che ci sono parsi più rilevanti per tracciare una immagine del lavoro
da svolgere rispetto ai temi della salute e sicurezza nel lavoro che in
questi anni avevano subito un offuscamento nelle politiche della
stessa Commissione e del Consiglio, presi nell’ultima fase, da altre
priorità come l’allargamento e da forti spinte delle forze economiche
e della finanza ad acconsentire, sia pure temporaneamente, ad una
“crescita economica senza qualità e sviluppo umano”.
Le stesse politiche europee in materia di qualità del lavoro, salute e
sicurezza soffrono di contraddizioni e della assenza di un disegno
organico che tenga in considerazione gli obiettivi del miglioramento
delle condizioni di lavoro nella fase di elaborazione di altre direttive
riguardanti ad esempio la libera circolazione delle merci, la
concorrenza, i regimi d’orario, etichettatura e registrazione dei
prodotti chimici che hanno impatti sulle condizioni di lavoro e di
salute dei lavoratori. Due esempi sono assai significativi: le modifiche
alla Direttiva sull’orario di lavoro che fanno presupporre un
peggioramento delle condizioni di lavoro, la proposta di Direttiva
Bolkenstein che consentirebbe, una volta approvata nella attuale
stesura dell’articolato, vere e proprie forme di dumping sociale per i
lavoratori dei servizi che verrebbero pagati e avrebbero trattamenti
normativi secondo il riferimento del paese d’origine.
Il problema del riequilibrio delle politiche europee rispetto ai diritti e
alla dignità e qualità del lavoro è un tema concreto che occorre
tenere ben presente quando si affrontano le politiche specifiche in
materia di salute e sicurezza nel lavoro. Un riferimento importante
per la conoscenza degli impatti derivanti dai processi di
globalizzazione non governati da adeguate politiche sociali è
rappresentato dal recente documento dell’ILO (International Labour
Organization) “Global economic security in crisis: New ILO report
finds world full of anxiety and anger”.
351
2
Le politiche nazionali e regionali. Il naufragio del
progetto governativo di Testo Unico in materia di salute e
sicurezza
Sulle politiche nazionali si è già detto molto, la letteratura in materia,
le prese di posizione di Associazioni di professionisti, delle Regioni e
del Consiglio di Stato rispetto allo schema di Testo Unico sono
abbastanza note tra gli addetti ai lavori. Allo stato dell’arte è
possibile affermare che lo schema di Testo Unico predisposto dal
governo su delega conferita dal Parlamento non diverrà norma nel
restante periodo della attuale legislatura. Infatti il Governo il 3
maggio 2005 ha ritirato dall’esame delle Commissioni Parlamentari lo
schema di Testo Unico. Il ritiro è stato verosimilmente determinato
dalle prese di posizione critiche delle regioni e del Consiglio di Stato
oltre a quelle delle OO.SS.
Questo fatto comporta un nuovo assetto e nuovi contenuti per
quanto attiene questa materia.
La stessa traiettoria della scrittura di questo saggio assume una
curvatura assai differente rispetto ad una situazione nella quale fosse
stato approvato il Testo Unico nella stesura predisposta dal governo.
Una valutazione obiettiva dei risultati ottenuti con la applicazione del
D.lgs. 626/94 in particolare per quanto attiene la sua applicazione sul
territorio nazionale e su quello regionale è necessaria al fine di
predisporre interventi di miglioramento della norma e, soprattutto, di
rendere pienamente effettiva la valutazione e gestione dei rischi a
livello aziendale. In particolare per le piccole aziende occorre
individuare strumenti più snelli ed efficaci che consentano la
effettività della gestione della sicurezza sul lavoro. In tal senso si era
attivata anche la Giunta Regionale della Emilia-Romagna, nella
precedente legislatura, con il Progetto di Legge Regionale “Norme
per la promozione della occupazione, della qualità, sicurezza e
regolarità del lavoro “che si prefiggeva gli obiettivi di
·
sostenere la stabilizzazione del lavoro tramite interventi di
politiche attive del lavoro
·
politiche per l’inserimento lavorativo delle persone disabili
352
·
mitigare gli effetti negativi della Legge 276 del 2003 sul mercato
del lavoro
politiche di promozione della sicurezza, regolarità e qualità del
lavoro
Questo Progetto di Legge sul Lavoro che non era giunto alla
approvazione per lo scadere della legislatura è stato varato dalla
attuale legislatura regionale nei contenuti che erano stati predisposti
nella legislatura precedente. In questo dispositivo sono contenute sia
proposte di incentivazione alle imprese che adottino buone pratiche
in materia di gestione dei rapporti di lavoro sia indicazioni di
strumenti di nuova generazione per la gestione della organizzazione
della sicurezza, quali l’audit di sicurezza. Nei fatti vengono introdotte
le possibilità, in forma concreta, di promuovere e sperimentare
strumenti di nuova generazione per il miglioramento della gestione
della sicurezza, in particolare in quei settori e comparti ove maggiori
sono i rischi. Oltre alle misure per ridurre e mitigare gli effetti
negativi derivanti dalle innumerevoli tipologie di rapporti di lavoro
dipendente che riproducono situazioni di precarietà e inadeguata
informazione e formazione ai fini della sicurezza, si introducono,
tramite politiche incentivanti, la possibilità per le aziende piccole e
medie di innovare e sviluppare l’organizzazione della sicurezza con
modalità più efficaci.
L’insieme delle misure previste nell’articolato rappresentano una
dotazione di strumenti di intervento della Pubblica Amministrazione
che superano il limite della relazione basato solo sulle sanzioni e sulla
vigilanza.
È evidente che per potenziare questa Legge occorre affrontare la
questione degli appalti e, in fattispecie, le tipologie d’appalto “al
massimo ribasso” e le forme di appalto “a spezzatino” che rendono
che rendono sempre più vulnerabili le forme di organizzazione e
gestione della sicurezza, in particolare nei settori delle costruzioni.
L’approvazione delle “Norme per la promozione dell’occupazione,
della qualità, sicurezza e regolarità del lavoro” dovrà essere
accompagnato, abbastanza rapidamente, da una legge sugli appalti
delle opere pubbliche e dei servizi con l’obiettivo di superare le gare
·
353
al massimo ribasso e le forme d’appalto a “spezzatino” praticate su
larga scala dalle Amministrazioni Pubbliche degli Enti Locali.
3 La qualità del lavoro come sfida sociale e politica
Soltanto partendo da una analisi della realtà del mondo del lavoro qui
e ora è possibile tracciare un profilo delle criticità presenti nei diversi
settori e comparti produttivi e individuare quali sono le esigenze di
innovazione organizzativa e gestionale e le norme e gli strumenti più
adeguati per un miglioramento delle pratiche di risk assessment e risk
management.
Nei fatti i processi di diverticalizzazione dei processi produttivi hanno
reso molto difficile e complessa una gestione negoziata degli aspetti
della organizzazione del lavoro che hanno rilevanza per la salute e la
sicurezza nel lavoro.
Già molto si è scritto sulla condizione del lavoratore che oltre a
perdere il governo del proprio progetto di vita in ragione del fatto
che la discontinuità del lavoro e del reddito gli impediscono quelle
azioni che per le generazioni precedenti erano la normalità: accendere
un mutuo per comprarsi una casa, progettare una famiglia senza
l’incubo di piombare sotto la soglia di povertà. Ma vi è un altro
impoverimento che le nuove modalità di organizzazione del lavoro
hanno indotto, quello della conoscenza del sistema lavoro in cui si è
inseriti, del governo del processo lavorativo di cui si fa parte. È il
caso del camionista che traina con la propria motrice rimorchi caricati
di container del cui contenuto conosce solo quanto dichiarato nelle
bolle di accompagnamento, è il caso del lavoratore del settore
alimentare che apre gli imballi che contengono budello (non sempre
di suino) per insaccati proveniente dalla Cina o da qualche altro paese
asiatico, prodotto di cui non conosce natura e igienicità del
confezionamento. È il caso dello scaricatore di porto a chiamata che
entra nella stiva della bananiera ancora satura di esalazioni di pesticidi
come il Nemagon (debromochloropropane DBCP) Una sorta di
taylorismo cognitivo rispetto alla conoscenza dei sistemi con i quali
ci si trova ad operare ove l’azienda committente dispone della
conoscenza del processo e il lavoratore dell’azienda in affitto opera
354
con una porzione di conoscenza infima rispetto a quella di cui
dovrebbe disporre per lavorare in si sicurezza.
È palese che il coordinamento per la sicurezza previsto all’art. 7 del
D.lgs. 626/94 non è più sufficiente e adeguato per garantire una
corretta gestione dei problemi di sicurezza nel lavoro laddove nello
stesso luogo di lavoro si intersecano attività gestite da una pluralità di
aziende con responsabili e datori di lavoro diversi che assai spesso
non comunicano tra di loro.
La realtà dell’appalto e subappalto all’inizio degli anni ‘90, quando fu
stilato l’art. 7 del D.lgs. 626/94 era assai diversa dai contesti sempre
più frantumati di oggi. La prima differenza riguarda in particolare la
natura dei rapporti di lavoro all’interno di ciascuna azienda partner
che erano prevalentemente di lavoro dipendente a tempo
indeterminato. Ora in una stessa azienda o sistema possiamo trovare
molte tipologie di relazioni lavorative, dal contratto a termine,
all’interinale, alle forme di lavoro somministrato: ciascuna di queste
situazioni lavorative è portatrice di una esperienza, di conoscenze
assai spesso inadeguate per lavorare in sicurezza. Se a ciò
aggiungiamo il grado di ricattabilità di questi lavoratori è facile
immaginare la difficoltà da parte loro ad esigere condizioni di lavoro
in sicurezza. La situazione di frammentazione del lavoro del settore
delle costruzioni si è estesa a molti altri settori. Una legislazione in
materia di salute e sicurezza sul lavoro dovrà comunque intervenire,
come è avvenuto in altri paesi, sulla lista dei lavori che possono
essere affidati alle agenzie interinali o di somministrazione e quelli
che per natura della loro pericolosità per la incolumità del lavoratore
o di terzi debbono essere continuativi (svolti cioè da lavoratori
dipendenti professionalizzati con contratti a tempo indeterminato) e
forniti in appalto da aziende specializzate nella gestione del rischio
per la lavorazione specifica. In ogni caso occorre che la legislazione
di sicurezza e sugli appalti preveda in generale, così come avviene in
diversi paesi europei nel settore delle costruzioni, la responsabilità
dell’azienda capofila e/o committente che ha responsabilità
dell’opera.
La stessa figura societaria di General Contractor dovrà essere
individuata come principale datore di lavoro e responsabile della
355
gestione della sicurezza nella filiera produttiva. In altri termini
occorre “riannodare” la gerarchia dei sistemi di responsabilità dal
livello più basso fino ai vertici per evitare le situazioni ricorrenti di
“immunità” riconosciuta agli amministratori delegati delle aziende
committenti e ai General Contractor che sono le stesse che
progettano e decidono risorse e modalità operative e governo di
sistema dell’intera filiera. La legislazione in materia di salute e
sicurezza dovrà evolvere tenendo conto della trasformazione dei
sistemi di organizzazione transnazionali che si strutturano come
sistemi di organizzazione a distanza sul progetto, sull’opera o sulla
commessa da realizzare, con il minore coinvolgimento possibile di
responsabilità di cui rispondere ai lavoratori e alle imprese di
subappalto coinvolte.
L’aspetto più contraddittorio dei processi in atto riguarda la
divaricazione tra le politiche di gestione del personale, orientate a
ridurre vincoli e responsabilità verso il lavoratore sempre più visto,
nella logica della Legge 276 del 2003, come un anonimo fornitore
temporaneo di prestazioni commerciali da scegliere nel migliore dei
casi da un catalogo d’agenzia, e l’ampio dispiegamento retorico che
tende ad arredare l’immagine dell’azienda con impegni alla
responsabilità sociale, con l’adozione di codici di comportamento e di
disciplinari e con la sofferta adesione a complesse procedure per il
conseguimento di una certificazione di qualità. Questa divaricazione
tra la crudezza delle politiche gestionali delle relazioni di lavoro e
l’apparato ideologico e retorico che fa riferimento alle diverse
tipologie di certificazione di qualità ed etiche, di varia specie e
natura, rischia di rendere poco autentiche e credibili tali pratiche.
Questa riflessione va promossa proprio perché non vengano
rapidamente bruciate come tecniche di manipolazione o
propagandistiche i diversi percorsi di adozione di codici di
comportamento etico, sistemi gestione salute e sicurezza, ecc.
È opportuno quindi sviluppare una riflessione sulla “tastiera” di
strumenti elaborati per e dalle imprese, in particolare dalle
multinazionali sia per curare la propria immagine e proteggere la
propria reputazione sia per surrogare la mancanza di norme nei paesi
356
più poveri in cui hanno affidato commesse produttive ad aziende a
capitale locale e/o in partecipazione.
1
Certificazioni per la qualità dei processi
Diamo per acquisite e conosciute le strumentazioni più che derivano
dalla adesione alle certificazioni di processo come Vision 2000 e Iso
14000 che sono adottate dalle imprese perché sono un prerequisito
per “comunicare” e fare business su scala nazionale e internazionale.
Questi strumenti vengono elaborati in sede di Comitati tecnici e
costituiscono una pratica di governance della complessità dei
problemi di standardizzazione che nascono nel rapporto tra le
imprese in particolare della subfornitura e le imprese committenti.
Nel tempo è stata loro attribuita una potenzialità di regolazione che
avrebbe prevalenza e capacità di sostituire anche le norme e le regole
degli stati.
Tuttavia, rispetto al resto del mondo, in Europa la normazione
tecnica basata sulla adesione volontaria delle imprese incrocia, nella
sua ascesa un corpo sempre più completo di direttive dell’Unione
Europea e il mondo della normazione tecnica ha dovuto, quindi, darsi
regole interne più rigide: gli organismi di normazione membri del
CEN sono infatti obbligati a recepire le norme europee a ritirare le
proprie, se contrastanti.
I rappresentanti degli enti normatori europei Cen e Cenelec, riuniti in
Ungheria l’8 giugno 2005 per la 1ª Assemblea Generale congiunta,
hanno formulato una risposta alla Strategia di Lisbona per la crescita
e l’occupazione in Europa.
Con la cosiddetta “Risposta di Budapest” più di 200 rappresentanti
della comunità della normazione hanno sottolineato l’importanza
delle norme per la competitività in Europa concordando pienamente
sulla necessità di incrementare lo sviluppo e l’occupazione.
“La competitività delle imprese è un elemento chiave per l’Unione
europea e le norme giocano un ruolo importantissimo nel
semplificare la legislazione. La Commissione europea intende
cooperare il più possibile con il sistema di normazione europeo” ha
dichiarato Michel Ayral, direttore della Regulatory Policy presso la
357
Commissione europea “Le norme sono l’unico sistema per
promuovere l’auto-regolamentazione”.
Il rischio di un entusiasmo tardo positivista che individua la soluzione
della crisi economica nelle norme tecniche che sarebbero immuni da
critiche in quanto espressione della razionalità tecnica esiste e va
assunto con pacatezza e determinazione.
È recente, infatti, la presentazione della norma Uni 11155 “Attività
operative delle imprese. Misurazione delle prestazioni” uno
strumento dedicato alle imprese per identificare le variabili rilevanti
della propria attività ed utilizzare i metodi di misurazione che diano
risultati significativi e confrontabili per le necessarie verifiche di
benchmarking.
È evidente che in questa costruzione logica e organizzativa della
realtà le esigenze e i bisogni degli umani che lavorano vengono
subordinate o ignorate rispetto agli algoritmi delle procedure del
benchmarking.
In altre parole l’adozione di queste procedure non prevede, allo stato
dell’arte, la presenza del soggetto lavoratore/lavoratrice come
elemento attivo chiamato all’interno del sistema di regolazione per
dare un proprio contributo attivo e positivo. Le procedure di
certificazione e della gestione in qualità di un processo possono
indurre una sorta di burocratizzazione del sistema che sceglie, a
volte, di non utilizzare le strategie informali dei lavoratori per il
miglioramento della qualità del lavoro.
Il deficit di conoscenza della complessità del governo delle relazioni
anche conflittuali del mondo del lavoro e delle tutele dell’ambiente
traspare in diversi documenti in particolare in quelli strategici.
Ci siamo soffermati sulla questione della normazione tecnica perché
da tempo esiste un movimento di pensiero che vede nella normazione
tecnica ad adesione volontaria la possibilità di semplificare e ridurre
ai minimi termini l’autorevolezza delle norme degli Stati e delle
Pubbliche Amministrazioni.
Sempre più frequentemente si assiste ad una inversione dei ruoli per
cui sono le Pubbliche Amministrazioni a delegare alle norme tecniche
compiti impropri di regolazione dei rapporti sociali o ad adattare le
leggi alle norme tecniche. È abbastanza palese che le norme tecniche
358
sono la traduzione empirica sia di saperi sia di pratiche consolidate
nella operatività nei diversi campi della organizzazione della
produzione di beni e servizi. Non si può tuttavia attribuire a questi
dispositivi funzioni magiche di governo delle relazioni sociali o di
sostituzione con esse delle forme di partecipazione intelligente dei
lavoratori al miglioramento delle organizzazioni. Come tutti gli
strumenti, vanno utilizzate senza richiedere ad esse ciò che non
possono dare, in fattispecie nella gestione della sicurezza e della
salute nei luoghi di lavoro.
Prendiamo in esame alcuni dei programmi di gestione salute e
sicurezza per intraprendere un primo percorso di riflessione sulla
utilità ed efficacia di queste procedure che tendono a sostituire o che
vengono proposte dalle aziende come un miglioramento rispetto al
risk assessment e al risk management previsto dal D.lgs. 626/94 e
successive modificazioni.
2
Sistema Gestione Salute Sicurezza Inail-Uni
Un gruppo di lavoro Uni-Inail, comprendente anche Cgil, Cisl, Cna,
Confagricoltura, Confapi, Confartigianato, Confcommercio,
Confindustria, Ispesl e Uil, ha redatto, nel corso del 2001, un
documento non normativo di supporto ai sistemi di gestione della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, non destinato alla
certificazione né all’uso per la vigilanza dell’autorità. Studiare la
“storia” e la diffusione e applicazione concreta di questo documento,
sarebbe di grande interesse per misurare la permeabilità delle imprese
italiane rispetto alla possibilità di adozione di strumenti gestionali
integrati della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro.
Questo Sistema che ricalca molti criteri della Ohsas 18001 non risulta
sia stato adottato, per ora, su larga misura dalle Aziende, in
particolare le Pmi
L’utilizzo, per ora, del Sistema Gestione Salute e Sicurezza Inail-Uni
è abbastanza “sommerso” in quanto, come si evince dalla avvertenza
che l’applicazione delle procedure indicate nel documento non
costituisce adempimento ad una norma o essere intesa come una
specifica tecnica utile per la certificazione. Soltanto nel Veneto si
359
trovano Protocolli d’Intesa tra Inail e Confindustria regionale cui non
fanno seguito protocolli con le OO.SS.
In buona sostanza pare che alla diffusione delle Linee Guida Sgsl, per
ora, non abbia fatto seguito una adozione convinta delle stesse da
parte delle Aziende.
3
Adesioni al sistema di certificazione Ohsas 18001
Il sistema di gestione salute e sicurezza più noto a livello europeo è
Ohsas 18001.
Qual è il grado di “penetrazione” nella cultura d’impresa italiana e in
Emilia-Romagna di questi approcci che tendono alla integrazione dei
sistemi di gestione in qualità dei processi e dei prodotti ?
Secondo recenti dati tratti da pubblicazioni del Sincert le Aziende
certificate per ISO9001-2000 sono 7838, per quanto riguarda la
certificazione Ohsas 18001 sono in totale 22, 469 sono le Aziende
certificate Iso 14001.
La dimensione ridotta delle aziende, la presenza di aziende micro è,
in parte, una spiegazione di questa scarsa adesione a questi standard.
La prevalenza di una logica del “fai da te” su piccola scala, magari
con l’aiuto di un consulente ha fatto prevalere, in particolare, nella
piccola impresa la scelta di non intraprendere percorsi i cui costi sono
ritenuti non giustificati rispetto al ritorno d’immagine per l’azienda.
Solo in aziende che sono parte di un sistema multinazionale e/o
costrette da relazioni commerciali con aziende multinazionali è stato
adottato lo standard Ohsas 18001. In Francia, per esempio, esiste una
maggiore adesione delle imprese a questo tipo di certificazione: sono
i settori delle costruzioni e delle imprese manifatturiere a prevalere in
questa adesione agli standard Ohsas 18001.
La chiarezza della strategia suggerita dalla Pubblica Amministrazione
alle imprese, in Francia, è più forte che in Italia: l’adesione allo
standard Ohsas 18001 viene proposta come integrazione e
rafforzamento del Documento Unico (il documento di valutazione dei
rischi e di programmazione dei miglioramenti prescritto in Italia dal
D.lgs. 626/94) richiesto dalla legge francese.
In diverse aziende francesi viene praticata una adozione integrata
degli standard l’Iso 9001/2000 con l’Iso 14001 e Ohsas 18001 che
360
consente economie di scala sia nel momento di adozione sia nel dopo
per quanto riguarda la gestione integrata di salute e sicurezza nel
lavoro.
4
Standard di settore: il programma “responsible care”.
Tra gli standard va ricordato il programma “Responsible Care” per
le imprese chimiche adottato e promosso in Italia da Federchimica.
Questo programma nasce a metà degli anni ’80 per
rispondere alle contestazioni degli impatti dell’industria chimica da
parte delle associazioni ambientaliste e contro le nocività tramite
campagne informative delle popolazioni residenti nell’area di
insediamento degli stabilimenti, visite guidate nelle aziende e rapporti
più aperti sia
con le Amministrazioni locali e i sindacati. Una valutazione scientifica
di terza parte, evidence based, sui risultati di queste pratiche non è
disponibile. Mentre negli US Responsible Care nasce e si sviluppa in
ragione della lezione di Bophal, in Italia viene “importato” come
strumento a prevalente funzione d’immagine. In Italia secondo i dati
diffusi da Federchimica risulta che il Programma R.C. è attivo in 169
imprese con 450 unità produttive e copre 61.500 lavoratori circa.
Poco più di 1/3 dei lavoratori del settore sono coperti da questi
programmi Responsible Care: nelle aziende piccole come plastica
gomma, confezionamento il programma non è adottato. Solo una
ricerca accurata sui risultati potrebbe consegnare una valutazione
sulla efficacia questo programma.
4 Stato leggero, impresa che si autoregola?
Le stesse procedure di certificazione che prevedono una separazione
dei compiti per i quali, da una parte alla pubblica amministrazione
competerebbe, tramite norme generiche di indirizzo, fissare gli
obiettivi mentre sarebbe compito del sistema delle imprese adottare
standard tecnici su base volontaria sono ben descritte dalla
vicepresidente di Confindustria Emma Marcegaglia in un intervento
pubblicato dal sito UNI in merito alla legislazione in campo
ambientale: “…....dobbiamo quindi insieme superare la vecchia
impostazione tesa più ad “imporre” e “controllare” (piuttosto che a
361
“ricercare” e “coinvolgere”) che ha portato alla formazione di una
giungla legislativa e burocratica che penalizza la competitività del
Paese e non rende possibile una efficace attività di prevenzione e di
controllo.
Ecco perché, come operatori industriali, guardiamo con interesse
alla concretizzazione della “Legge Delega in campo ambientale”
che mira al riordino del corpo normativo in materia, e auspichiamo
una rapida emanazione dei “testi unici”.
In questo ambito, particolare attenzione dovrà essere posta
nell’evitare il ripetersi degli errori del passato: si dovrà, ad
esempio, evitare di emanare la regolamentazione tecnica con decreti
ministeriali o, addirittura, con atti di Legge. Ciò pone, infatti,
problemi per la loro modifica o il loro aggiornamento, con il
risultato che anche semplici errori materiali non possono essere
rimediati a causa della complessità delle procedure richieste per
l’emanazione di un nuovo provvedimento.
Dovrebbe, quindi, essere scissa la funzione di programmazione e di
indirizzo, in capo allo Stato, cui spetta la definizione degli obiettivi,
degli strumenti e dei controlli, dalla normativa tecnica che da questi
atti discende. Quest’ultima potrebbe essere definita dagli enti dediti
alla normazione-regolamentazione tecnica (esempio: Uni, Apat)
sulla base di chiari e precisi criteri fissati dal legislatore. Accanto
al disegno di riordino legislativo occorre, poi, valorizzare l’impegno
volontario che un numero sempre crescente di imprese attua al fine
di ridurre il proprio impatto ambientale, andando oltre il mero
rispetto dei limiti imposti…”
È palese che questo modello di autoregolazione e di governance
tecnica proposto da Marcegaglia per l’ambiente richiede la istituzione
di autentiche authority che dovrebbero avere una forte autorevolezza
e autonomia tecnico scientifica rispetto agli interessi in gioco, poteri
di vigilanza, prescrittivi e forse anche sanzionatori e non essere parte
in causa come soggetti portatori di interessi conflittuali. Strutture con
tale profilo, in grado di garantire la terzietà, in Italia non esistono: se
la normazione tecnica fosse delegata alle strutture citate dalla
Marcegaglia è prevedibile che si incrementerebbero ulteriori conflitti
e litigiosità. Nell’ambito specifico della tutela della salute e della
362
sicurezza saremmo poi in un contesto istituzionale e di relazioni nei
fatti da inventare ex novo. Non intendo dire che sia impossibile, ma i
costi derivanti dalla messa a punto di un sistema di questo tipo
sarebbero enormi per i lavoratori che pagherebbero sulla loro pelle le
disfunzioni del passaggio da un sistema comando controllo ad un
sistema che, data l’arretratezza culturale di molte imprese, potrebbe
essere malfunzionante o inesistente per molti anni. La
sperimentazione di un percorso di questo tipo potrebbe essere
programmato con gradualità e in ogni caso, per comprenderci, come
nei cantieri, si dovrebbe togliere la “vecchia armatura” solo quando si
comincia a intravedere che il nuovo sistema comincia a funzionare.
Esattamente al contrario di quanto si proponeva il governo con la
forzatura del TU in materia di salute e sicurezza nel lavoro.
1
Lo sviluppo di sistemi di monitoraggio e gestione delle
aziende della subfornitura
Assai meno conosciuto è lo standard Scc (Safety Checklist for
Contractors)
Scc è un sistema di certificazione di terza parte sviluppato per le
organizzazioni che subappaltano il lavoro. Lo standard Scc viene
applicato per la valutazione e la certificazione dei sistemi di gestione
della sicurezza utilizzati dalle imprese subappaltatrici.
Sviluppato inizialmente da Dnv insieme alle industrie petrolchimiche,
Scc è ora uno standard accreditato utilizzabile pubblicamente anche
da altre industrie.
La frantumazione dei processi produttivi comporta dei gap nella
gestione effettiva della sicurezza nei settori delle costruzioni di grandi
opere. La necessità di mettere in atto sistemi di governo delle
responsabilità nella gestione della sicurezza è avvertita da tempo. Il
limite degli strumenti gestionali come Scc è rappresentato dal fatto
che vengono adottati, sulla base della volontarietà dalle aziende che,
in genere, ne hanno meno bisogno. Si tratta invece di individuare
strumenti progettati allo scopo di promuovere la valutazione e la
gestione dei rischi a livello di filiere che mutano assai rapidamente
configurazione come nel settore delle costruzioni.
363
Il primo strumento normativo da adottare come rafforzamento di
quanto prevede l’art. 7 del D.lgs. 626/94 e successive modificazioni
potrebbe essere quello dell’audit di filiera che dovrebbe essere posto
in capo al general contractor che dovrebbe essere reso responsabile
della valutazione della congruità dei piani di sicurezza non solo dal
punto di vista burocratico, ma operativo..
Un impianto di rilevante interesse riguarda la proposta di Marchio di
Qualità Sociale elaborata dall’ Istituto per il Lavoro che prevede un
percorso durante il quale l’impresa raggiunge un miglioramento della
qualità della gestione della propria organizzazione per
approssimazioni successive.
Infine occorre che vi sia una diffusione maggiore delle conoscenze in
materia di procedure di certificazione da parte dei diversi attori
sociali perché non vi sia né una celebrazione acritica delle pratiche di
certificazione come risolutive dei problemi quotidiani della sicurezza
né una sottovalutazione di alcune opportunità che questi strumenti
offrono.
I diritti di informazione sul significato, gli obiettivi e i limiti di queste
pratiche vanno definiti con maggiore precisione sia nei contratti
nazionali di lavoro, sia in quelli aziendali. Questo discorso vale in
particolar modo per tutte le adozioni che le aziende vanno facendo in
particolare per quanto riguarda i disciplinari o codici di responsabilità
sociale dell’impresa.
2
Impresa e autopoiesis etica
Il tema della Responsabilità sociale delle imprese (Rsi) o Corporate
Social Responsibility (Csr) è argomento di discussione, in Europa, da
alcuni anni.
Nel suo Libro verde del luglio 2001, la Commissione Europea
definisce Responsabilità sociale dell’impresa come “l’integrazione su
base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e
ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le
parti interessate”.
I recenti scandali Enron e Andersen negli USA e Parmalat in Italia,
hanno posto sotto i riflettori il tema della Csr. Diverse multinazionali,
per realizzare buone pratiche in materia di Csr, hanno elaborato
364
Codici di condotta che contengono regole che debbono essere
applicate, in base al grado responsabilità, dai dirigenti fino ai
lavoratori. Una specie di autopoiesis, di creazione autarchica di
regole e norme con un presunto valore “etico” per l’impresa si
affiancano e/o si sovrappongono alle leggi degli stati in cui sono
localizzati i siti produttivi.
La qualità del lavoro e delle relazioni tra impresa e lavoratori
dipendenti ha ora, oltre ai contratti sindacali, laddove esistono, un
nuovo punto di riferimento, il Codice di condotta d’impresa.
Abbiamo esaminato alcuni Codici per misurare l’impatto che possono
avere nella qualità del lavoro e della vita nel lavoro dei dipendenti
dell’impresa.
3
Analisi di un Codice di condotta
In uno dei codici esaminati, in corso di applicazione in un sito
produttivo che una multinazionale Usa ha acquisito in
Emilia-Romagna, si legge che: “…tutti i dipendenti sono obbligati a
riferire prontamente qualsiasi violazione nota o sospetta del codice
o richieste che potrebbero costituire delle violazioni. Nella misura
del possibile, i rapporti saranno considerati riservati. I dipendenti
hanno la facoltà di segnalare questi problemi anonimamente…”
L’invito alla delazione per scoprire eventuali violazioni del codice
etico proprietario è un paradosso palese e prefigura un sistema di
relazioni tra lavoratori avvelenate.
Il dipendente è quindi tenuto pena sanzioni a fare delazioni rispetto a
presunte mancanze dei colleghi di lavoro, ma al tempo stesso è
obbligato alla riservatezza aziendale su quasi tutto riguarda l’azienda.
Nel codice etico del Gruppo Poste Italiane, ad esempio, il controllo
sulla osservanza delle regole è assai più sfumato: “La responsabilità
del buon funzionamento del sistema di controllo interno è riferita a
tutti i destinatari del Codice, nell’ambito delle funzioni svolte.
Ciascun dipendente è tenuto ad informare con tempestività il
proprio responsabile diretto dell’insorgenza di dinamiche che
possano interferire sulla corretta gestione dell’attività lavorativa...”
365
4
La riservatezza dei dati dell’impresa
Occorre chiarire che anche aspetti che riguardano profili di rischio
dall’uso di determinate sostanze produttivo nel ciclo potrebbe
rientrare nella fattispecie delle informazioni riservate. Il Rls che, in
base all’art. 19 del D.lgs. 626/94 e successive modificazioni, richieda
informazioni alla Usl, in base a questo codice rischia qualche
sanzione. Per quanto attiene la specifica materia della salute e
sicurezza nel lavoro e ambiente, il Codice della multinazionale in
esame rinvia al “Manuale sulla politica globale della corporation
relativa all’ambiente, sicurezza e salute”.
Il manuale disponibile in rete contiene una serie di linee guida
ovviamente condivisibili in quanto rappresentano uno standard
minimo di applicazione delle misure di prevenzione. Per quanto
attiene la tutela ambientale si registra nei testi dei codici USA una
certa attenzione rispetto al controllo – gestione delle emissioni in
atmosfera e nello smaltimento dei rifiuti. In linea di massima i codici
di condotta di produzione italiana, in merito al capitolo ambiente
salute e sicurezza adottano una forma molto generica del tipo:
“….nell’ambito della propria attività, la Società si ispira al
principio di tutela e salvaguardia dell’ambiente e persegue
l’obiettivo di garantire la sicurezza e di salvaguardare la salute dei
Destinatari, mediante le iniziative opportune a tal fine….”
La necessità, in Europa, di pervenire ad una regolazione in base ad
una direttiva che definisca caratteristiche e limiti in particolare per
quanto riguarda “i codici di condotta” è ormai riconosciuta da molti
soggetti sia di parte imprenditoriale sia da parte delle organizzazioni
sindacali dei lavoratori.
5 Una moltitudine di strumenti di certificazione di
difficile governo
Abbiamo tralasciato in questa rassegna sugli strumenti di
standardizzazione la miriade di norme Iso riguardanti i prodotti
attrezzi e strumenti.
Le procedure di certificazione Iso da strumenti di “comunicazione”
tra imprese in grado di garantirsi reciprocamente standard di qualità
366
nelle forniture di beni e servizi si stanno trasformando in un
combinato disposto che tende assumere la valenza di normazione
alternativa o sostitutiva delle leggi degli stati in materie che
riguardano i diritti delle persone, la gestione di beni comuni come i
beni ambientali. Nei codici etici aziendali è difficile rivenire traccia
del fatto che nell’impresa convivono interessi conflittuali e che i
lavoratori hanno una propria personalità e il diritto di esprimerla
tramite l’esercizio della contrattazione collettiva.
Questi strumenti possono rappresentare un surrogato delle relazioni
sindacali per le unità produttive localizzate in paesi che non
dispongono legislazioni di tutela adeguate, ma propongono un
modello unilaterale di regolazione da parte dell’impresa che non è
sostenibile in paesi che hanno una tradizione giuslavorista
consolidata.
Un uso corretto di codici di condotta può essere tuttavia sviluppato
in positivo per rafforzare buone relazioni industriali, gli esempi non
mancano: negli USA il Comune di San Francisco ha adottato una
ordinanza tesa a vietare acquisti pubblici da aziende che si siano
macchiate di ripetute e gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, che li
sfruttino o li facciano lavorare in condizioni di sicurezza e salubrità
non accettabili, che applichino politiche discriminatorie, che ricorrano
al lavoro forzato o minorile.
Si tratta di acquisti per centinaia di milioni di dollari l’anno, che
vanno dalle divise dei pompieri ai computer degli uffici pubblici, agli
acquisti per le mense degli ospedali.
L’annuncio è stato dato il 27 giugno e raccoglie le richieste
contenute in una campagna guidata dall’associazione per i diritti
umani Global Exchange, cui aderiscono una cinquantina di altre
organizzazioni.
Si tratta della prima stringente normativa anti-sfruttamento, che una
volta introdotta potrà diventare un esempio per altre città.
Tutti gli appaltatori, subappaltatori e fornitori del Comune di San
Francisco dovranno sottoscrivere un codice di condotta, la cui
concreta applicazione sarà verificata da un comitato di controllo
indipendente.
367
Sarebbe molto interessante ed una sfida sulla qualità delle
amministrazioni pubbliche se venisse adottato anche per gli appalti
della pubblica amministrazione il criterio della esclusione dagli appalti
delle aziende che hanno curricula negativi per quanto riguarda la
gestione della sicurezza e della legalità verso i lavoratori. È proprio a
partire dalla pubblica amministrazione che occorre agire innanzitutto
per superare la pratica del “massimo ribasso “negli appalti.
In Emilia-Romagna c’è una esperienza positiva importante che
potrebbe divenire il supporto per la costruzione di una esperienza di
governance per la qualità nel settore della costruzioni
1
La struttura che connette
Una ipotesi di profonda innovazione del sistema produttivo
regionale, in grado di fare fronte alla competitività internazionale, in
particolare nel settore manifatturiero richiede che vi sia la
integrazione delle risorse intese come strumenti di conoscenza,
ricerca e innovazione. La capacità di produrre con un basso impatto
ambientale, con consumi energetici sostenibili, in sicurezza per
quanto attiene gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali
diviene un elemento decisivo della sfida.
La necessità di integrare e razionalizzare l’ampia dotazione di
strumenti della Pubblica Amministrazione e dirigerli verso questo
obiettivi è la sfida politica dei prossimi anni: i tempi sono stretti. Il
bisogno di sperimentare una struttura che connette e amplifica il
potenziale di governo/governance per lo sviluppo della qualità del
lavoro, della salute e della sicurezza è emergente.
Nella stessa Legge Regionale sul lavoro è prevista la messa in campo
da parte della Regione di “centri di riferimento, anche in
collaborazione con Università, associazioni, fondazioni ed altre
istituzioni di diritto privato, nonché con gli enti e le aziende di diritto
pubblico operanti nel settore, sostenendone l’attività con proprie
risorse.
Questa è certamente una occasione da non lasciare cadere, in quanto
è possibile connettere su progetti di miglioramento momenti e luoghi
della ricerca, Enti e Fondazioni che hanno un robusto patrimonio,
assai spesso non utilizzato adeguatamente, di saperi e conoscenze.
368
Occorre rompere antichi schemi di chiusure a canne d’organo per
cui molti Enti, invece di contribuire al concerto, operano come
solisti.
I campi di sperimentazione sono, da una parte la ricostruzione delle
nuove forme di organizzazione delle filiere produttive in alcuni grandi
comparti manifatturieri che modulano il sistema produttivo emiliano,
dalle ceramiche, ai settori del packaging, dal sistema agroindustriale
al settore delle costruzioni, ai trasporti. I determinanti sociali e
organizzativi che decidono della salute e della qualità della vita della
popolazione di questa regione sono scritti all’interno della
organizzazione del lavoro di queste filiere. Così come divengono
imprescindibili e non più rinviabili interventi nel settore dei servizi, in
particolare dei servizi di cura e assistenza alle persone, ove hanno
preso forza modelli organizzativi tayloristici che confliggono, assai
spesso, con la qualità stessa delle prestazioni.
La capacità di coniugare la risposta ai problemi quotidiani ad un
disegno di respiro è una competenza e un sistema di saperi che va
costruita connettendo e l’ampia rete di soggetti istituzionali, pubblici
e privati che operano sui temi della qualità e della sicurezza del
lavoro.
6 Alcune prime proposte per un percorso verso la
qualità e la sicurezza del lavoro
Dal punto di vista istituzionale la questione della salute e della
sicurezza nel lavoro sarebbe bene rimanesse come programmazione
delle linee di indirizzo e degli obiettivi una competenza fondamentale
del Servizio Sanitario Regionale e Nazionale. In tal senso va
contrastata la proposta di modifica del Titolo V con la quale l’attuale
governo intenderebbe togliere alle Regioni la capacità di iniziativa
propria in materia di salute e sicurezza sul lavoro. È palese che il
mantenimento all’interno del Servizio Sanitario Regionale delle
funzioni di promozione, di vigilanza va rafforzato con la
collaborazione sinergica di altri Assessorati come quello del Lavoro e
della Formazione Professionale. L’esperienza positiva del ruolo
svolto dall’Assessorato al Lavoro in sinergia con l’Assessorato alla
Sanità nella elaborazione della Legge sul Lavoro è una riprova che la
369
integrazione delle iniziative ne rafforza l’efficacia. Occorre superare
una visione riduttiva che è divenuta una rappresentazione stereotipata
in alcuni ambienti della sanità: il tema della salute e della sicurezza
nel lavoro rappresenterebbe una nicchia di scarso interesse rispetto
alla crescente complessità dei Servizi di diagnosi e cura. Da questa
convinzione è derivata anche una certa distrazione, nei decisori
politici, rispetto ai temi della prevenzione più in generale, rinunciando
in tal modo a intervenire, per quanto possibile, nella promozione e
tutela del patrimonio di salute della popolazione che lavora.
Le definizioni di qualità del lavoro, salute e sicurezza nel lavoro
hanno subito una trasformazione materiale in ragione delle mutate
condizioni di lavoro. Sarebbe opportuno, per orientare al meglio le
politiche sanitarie a livello regionale costruire e alimentare con
regolarità un Osservatorio epidemiologico che registri le differenze
nella salute tra le professioni. In epoca di risorse pubbliche scarse
diviene decisivo il corretto indirizzo su dove investire con interventi
mirati per il miglioramento sia delle condizioni oggettive e
organizzative il posto di lavoro e il modo di lavorare. Un contributo
importante è dato dallo studio epidemiologico longitudinale svolto a
Torino che individua tra le professioni quelle più svantaggiate
rispetto alle condizioni di salute e di aspettative di vita.
I dati risalgono ai primi anni ’90 e da essi deriva una immagine degli
impatti che le condizioni di lavoro e socioculturali hanno prodotto
sulle condizioni di salute in un contesto di mercato del lavoro assai
differenti da quelle di oggi.
È verosimile ipotizzare che il mix di esperienze lavorative di un
giovane o di una ragazza oggi sia assai più complesso e la definizione
di “professione prevalente” ovvero della somma dei frammenti di
lavoro renderà assai più complessa la definizione di un profilo
professionale con il quale descrivere il profilo dei rischi prevalenti cui
è stato esposto un lavoratore o di una lavoratrice nell’arco della vita
lavorativa. Occorre ricostruire assieme ai soggetti portatori del bene
salute, ora, le nuove mappe dei rischi e assieme a loro individuare le
strategie di successo per mitigare gli impatti che le nuove condizioni
di lavoro stanno già producendo.
370
Nelle politiche sociali e sanitarie non sono ancora conosciute in modo
adeguato le differenze di salute tra le professioni che si stanno
consolidando non tanto per i rischi e per le esposizioni a rischi
specifici che comportano tradizionalmente certi lavori, quanto per i
processi di precarizzazione e di incertezza per il futuro che
accompagnano la quotidianità di migliaia di uomini e donne, giovani
e ragazze.
Affrontare un percorso per il miglioramento della qualità del lavoro e
per la salute e la sicurezza è ora una straordinaria sfida in quanto
pure a fronte della incomparabile e contraddittoria ricchezza di
conoscenze, di strumenti e di mezzi che si possono mettere in campo
rispetto all’epoca delle prime lotte contro le nocività degli anni
’60-’70, ora si deve fare fronte alla grande fragilità e insicurezza dei
lavoratori di oggi.
371
Conclusioni
FRANCESCO GARIBALDO
Normalmente chi si occupa di problemi ergonomici e/o di salute e
sicurezza parte dall’assunto che gli esseri umani siano al centro del
sistema produttivo e che il sistema debba, quando non è in condizioni
anomale, adeguarsi ad alcune caratteristiche psico-fisiche degli esseri
umani; anche oggi, nelle diverse sezioni, tutti hanno seguito questo
copione. La mia domanda iniziale è: sino a che punto ciò è vero a
fronte dei processi in corso in Italia e nel mondo? La mia risposta
molto netta è che non lo è per niente, anzi è esattamente vero il
contrario, cioè gli esseri umani devono adattarsi alle esigenze
funzionali del sistema produttivo. Sottolineo questo punto non per
polemizzare con l’approccio scelto, che è del tutto corretto, ma per
indicare che si tratta di un “dover essere” e non della realtà. A mio
parere l’assunzione del principio di realtà è estremamente importante
sempre ma specificatamente in questo campo dove è in gioco la vita
degli esseri umani. Infatti se si abbandona il campo della più rigorosa
analisi di realtà, anche le migliori intenzioni cambiano di segno,
diventano cioè mistificazione e copertura di fatto di una realtà che va
in tutt’altra direzione, oppure semplicemente impotenza operativa.
Che cosa sta accadendo nei sistemi produttivi e specificatamente in
sistemi come quello della Regione Emilia – Romagna, ma anche
dell’Italia intera, dominati dalla presenza massiccia delle piccole,
medie e piccolissime imprese?
Il sistema produttivo, sia quello manifatturiero in senso stretto, che
quello dei servizi ad esso collegati è dominato sempre più da tecniche
manageriali che sotto nomi differenti, frutto più di mode che di
sostanza, hanno una caratteristica base essenziale che è riconducibile
alle tecniche just-in-time e alla filosofia della lean production, o
produzione snella. Il sistema produttivo è articolato attorno ad alcune
aziende, chiamate “focali” oppure “OEM” (Original Equipment
Manufacturing cioè fornitrici di equipaggiamento originale), che
hanno un prodotto e/o un servizio proprio, ed una moltitudine di
aziende che lavorano per le aziende focali. Tutto ciò avveniva anche
prima, la novità sta nel fatto che le aziende fornitrici non sono
portatrici di flessibilità ulteriore, aggiungendo e togliendo volumi
produttivi ad attività che le aziende focali fanno in proprio, ma
presidiano parti rilevanti di attività che le aziende focali non svolgono
più al loro interno; si determina cioè un ciclo produttivo più o meno
integrato; il maggior o minor grado di integrazione dipende dalla
minore o maggiore dipendenza del fornitore da un numero ristretto di
clienti. Questo ciclo produttivo deve funzionare secondo le regole del
just-in-time e della lean production, quindi come un meccanismo
perfettamente oliato che funziona secondo i ritmi e la velocità
determinata dalle aziende focali, che rispondono direttamente al
mercato specifico dove sono venduti i loro prodotti e servizi. Chi si
trova lungo questa catena produttiva, parlo adesso delle aziende e non
dei lavoratori, è eterodiretto in modo totale se il ciclo è integrato,
oppure in modo sostanziale se il ciclo non è completamente integrato.
Siamo quindi in un classico processo di concentrazione senza
centralizzazione delle attività economiche ed industriali in particolare
per cui chi controlla il ciclo controlla la catena del valore e quindi
rastrella la maggior parte del valore prodotto per sé, noi abbiamo
trovato aziende fornitrici che hanno margini operativi dell’ 1 o 2 per
cento. I lavoratori e le lavoratrici di queste aziende sono di fatto
eterodeterminati, se non eterodiretti, in tutti gli aspetti della loro
condizione lavorativa, oltre che salariale. Se si considera la
competizione economica come una forma di belligeranza, essi sono in
realtà “coscritti” per la guerra e, come accade in guerra, l’esigenza al
centro di ogni considerazione è quella di vincere la guerra, tutto il
resto viene sacrificato. All’interno poi di ciascun azienda le tecniche
della lean production puntano a riorganizzare il ciclo produttivo
secondo lo stesso schema di connessione diretta e rigida di tutte le
parti componenti guidate dal principio di rispondere in tempo reale da
ogni variazione proveniente dal mercato, sia essa quantitativa oppure
qualitativa. Il singolo lavoratore o la singola lavoratrice quindi non
sono in alcun modo al centro del processo, se non che come oggetti
di esso, né tanto meno ne condizionano le caratteristiche per
adeguarle ai loro bisogni di integrità psico-fisica.
Né ci si può fermare ai processi di riorganizzazione interni alle
imprese dato che il mercato del lavoro è stato plasmato in modo tale
da essere coerente con questi schemi produttivi, determinando forme
crescenti di precarietà per quote minoritarie, ma a loro volta in
crescita, di lavoratori e lavoratrici. Questi ultimi, si tratta ormai di
quasi un quarto della forza lavoro, vivono avendo piena
consapevolezza che la loro condizione di occupati nonché la loro
condizione lavorativa è quantitativamente e qualitativamente una
subordinata delle esigenze competitive delle imprese; la parte, per ora
maggioritaria, con un qualche grado di stabilità sa con altrettanta
chiarezza che al loro condizione lavorativa è una subordinata e che
ogni tentativo di resistere viene affrontato con una crescente durezza
e la minaccia di sospingerli nell’area del precariato.
Il processo è così forte e sregolato che si stanno determinando
situazioni paradossali di vario genere. La prima è uno strutturale
divorzio tra la proclamata necessità del pieno utilizzo del potenziale di
conoscenza dei lavoratori e delle lavoratrici nonché del loro
necessario pieno coinvolgimento nella autoregolazione dei nuovi
processi produttivi e la struttura produttiva che produce mancanza di
motivazione e sottoutilizzo delle capacità dei singoli.
La seconda è quella di una lamentela crescente sulla difficoltà a
trovare gente disposta a lavorare in fabbrica e la contemporanea
lamentela sul rischio di investire in formazione per giovani che dopo
poco se ne vanno, nel mentre si costruisce una macchina produttiva
che inevitabilmente porta a quei risultati.
Che fare quindi? Prendere atto di una tendenza inevitabile? Limitare i
danni?
In realtà i processi appena descritti hanno anche un'altra caratteristica.
Infatti la nascita di queste strutture policentriche ed integrate, siano
esse rigorosamente verticali oppure orizzontali, non si traduce solo
nel meccanismo “in presa diretta” prima descritto sommariamente, ma
crea degli spazi operativi nuovi, determina delle attività di
cooperazione tra persone e strutture formalmente distinte ma in
concreto connesse in modo stretto. Si ha cioè una modifica di quello
che sia per le strutture pubbliche operanti sul territorio, come per i
sindacati è la loro “unità di azione” ed anche la loro “unità di analisi”.
Se si sta infatti ai confini formali delle singole realtà economiche e
produttive, non solo non si comprende quanto accade ma si ha la
netta sensazione dell’impotenza. Se invece si guarda alla realtà
effettiva, cioè a queste nuove macrostrutture non sono il processo
appare trasparente ma si possono cogliere con precisione i
determinanti del processo, cioè i nessi causali, quindi si può
identificare una strategia di intervento. È vero che ognuno di tali
nuove realtà vive in una dinamica economica, sociale e culturale
molto più ampia che è modellata dai rapporti di potere oltre che dal
ruolo delle istituzioni pubbliche; ma questo era vero anche prima, ciò
che è nuovo è la diversità di scala dei processi, cioè essi sono
identificabili su scale più ampie, e la relazione tra i diversi livelli. Un
tempo vi era un assetto abbastanza ordinato di piramidi gerarchiche
distinte ed ognuna con un dominio ben identificato, si pensi al
modello della pubblica amministrazione Stato, Regioni, Province,
Comuni, modello nel quale il Comune era più o meno determinato nei
suoi comportamenti dalla gerarchia sovrastante. Oggi abbiamo dei
fenomeni, chiamati tran-scalari, in base ai quali il livello più basso, sia
esso un Comune, o un unità locale di una impresa multinazionale,
deve confrontarsi con altre realtà non per via gerarchica, ma
direttamente senza l’intermediazione delle strutture sovra-ordinate
gerarchicamente, si hanno continui conflitti o concorrenze
giurisdizionali. Insomma in linguaggio più piano molti, appartenenti a
realtà diverse, anche sopranazionali, voglio regolare quanto accade ad
esempio in un territorio od una unità produttiva.
Questa situazione è oltre che un pericolo una opportunità. Infatti
iniziative pubbliche, oppure delle organizzazioni sindacali, in grado di
misurarsi al giusto livello di “unità di azione e di analisi” e di costruire
lungo queste relazioni tran-scalari dei nuovi sistemi di alleanze
possono efficacemente condizionare lo svolgimento dei fatti. Non si
tratta solo di “pensare globale e agire locale” ma talvolta anche
contemporaneamente di “pensare locale e agire globale”; si possono
insomma avere alleanze globali per risolvere un problema locale e
viceversa. Le strutture integrate di cui si è parlato all’inizio sono anzi
particolarmente rigide e fragili.
Se concentriamo la nostra attenzione alle strutture pubbliche si tratta
allora di pensare una politica per la salute e la sicurezza come l’altra
faccia di politiche del lavoro ed industriali. Non penso da un rapporto
meccanico di causa effetto ma ad una forma di causazione incrociata.
Ad esempio se si vogliono ridurre le morti e gli incidenti in edilizia un
punto chiave è una legge sugli appalti ed il superamento della logica
del massimo ribasso; se si vogliono ridurre gli incidenti nella fascia dei
giovani, un elemento rilevante è la riduzione della precarietà, la
costruzione di carriere lavorative, anche tra diverse imprese, coerenti
e di un investimento significativo in formazione. Se si vuole puntare a
forme di “benessere lavorativo”, un punto chiave è la riorganizzazione
dei luoghi di lavoro, non solo quelli industriali, attraverso un aumento
delle forme di cooperazione auto-regolata ed una riduzione della
pressione competitiva individuale. In realtà regionali quali quasi tutte
quelle italiane, basate sulla presenza di piccole e piccolissime imprese,
una forte politica industriale concertata con i partner sociali può
determinare le condizioni realistiche di un tale ripensamento
organizzativo, ecc.
Elenco degli autori
Carlo Bonora
Responsabile Area “Diritti e Opportunità”, Fondazione Istituto per il Lavoro
Silvia Cavicchi
Ricercatrice Fondazione Istituto per il Lavoro
Paolo Ceccherelli
Funzionario Direzione Provinciale del Lavoro di Ferrara. Collaboratore Cds
Ferrara
Paola Cenni
Ricercatrice, Psicologa del Lavoro. Ergonoma con certificazione europea
Silvia Cozzi
Collaboratrice C.I.Do.S.Pe.L., Dipartimento di Sociologia dell’Università
degli Studi di Bologna
Davide Dazzi
Ricercatore Fondazione Istituto per il Lavoro
Samuela Felicioni
Ricercatrice Fondazione Istituto per il Lavoro
Milvia Folegani
Servizio Sanità Pubblica, Assessorato alla Sanità, Regione Emilia-Romagna
Francesco Garibaldo
Direttore Fondazione Istituto per il Lavoro
Stefano Grandi
Collaboratore C.I.Do.S.Pe.L., Dipartimento di Sociologia dell’Università
degli Studi di Bologna
Michele La Rosa
Professore ordinario di Sociologia del Lavoro presso la Facoltà di Scienze
Politiche, Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Bologna
Gino Rubini
Responsabile dell’area “Salute e Sicurezza”, Cgil Emilia-Romagna
Mila Sansavini
Collaboratrice C.I.Do.S.Pe.L., Dipartimento di Sociologia dell’Università
degli Studi di Bologna