La qualità della vita lavorativa e delle condizioni di lavoro in Emilia-Romagna Quinto rapporto su salute e sicurezza in Emilia-Romagna 1 2 Lo stato di fatto. La necessità di riflettere sui dati statistici dell’insicurezza sul lavoro alla luce della responsabilità sociale ed etica dell’impresa, del lavoro, delle istituzioni MILVIA FOLEGANI A fronte del fatto che il fenomeno infortunistico è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi anni, la Regione Emilia-Romagna, al fine di realizzare un efficace intervento di riduzione del fenomeno, ha affrontato il problema attraverso un approccio che contempla non soltanto la sicurezza e la prevenzione, bensì anche il problema della regolarità del lavoro. Tema, la regolarità del lavoro, che incide in maniera cruciale sulla sicurezza e salute dello stesso. La Regione ha scelto un modello di gestione, che sottende un approccio orientato al miglioramento continuo delle modalità di organizzare il lavoro (anche nella dimensione della promozione della salute e della sicurezza), l’occupazione e la produzione. Questa prospettiva, che corrisponde ad una strategia orientata alla crescita economica ed al miglioramento delle condizioni di vita delle persone, pone al centro la qualità e la quantità dell’occupazione, individuandole non come aspetti separati e fra loro indipendenti, ma, al contrario, come elementi strettamente correlati e inscindibili. In coerenza con le scelte della Regione di promuovere e di favorire un modello di governance attiva, il processo è, ed è stato sostenuto, da una costante valorizzazione del principio di partecipazione e dei metodi della "concertazione sociale e della collaborazione istituzionale". 3 Il percorso normativo e regolamentare ha preso l’avvio dal documento presentato dal Governo, e discusso nella conferenza di Genova del 3-5 dicembre 1999. In quell’occasione fu sottoscritto dalle Istituzioni centrali, dalle Amministrazioni locali e dalle Parti sociali un atto programmatico denominato Carta 2000. Nel corso della medesima legislatura il programma è stato ulteriormente implementato, nel Piano straordinario per la sicurezza del lavoro, approvato nel Consiglio dei Ministri il 12 maggio 2000, e nell’Accordo tra il Ministro del lavoro e le Regioni e Province autonome, siglato il 21 dicembre 2000. Il citato accordo ha sancito l'avvio della strategia di “integrazione, cooperazione e coordinamento” tra le istituzioni nazionali e quelle regionali “al fine di rendere più efficace l’azione di prevenzione e vigilanza” sui fenomeni che attengono direttamente e indirettamente la salute e la sicurezza del lavoro e di “supporto ai processi di emersione”. Il documento congiunto opera scelte fortemente orientate a definire strategie di prevenzione adeguate ai bisogni manifestati sia dalle imprese che dai lavoratori, anche tramite le loro organizzazioni e associazioni. Focalizza l’attenzione sulle connessioni tra la competenze delle istituzioni nazionali e territoriali in tema di sicurezza del lavoro e di lotta al lavoro irregolare, auspicando l’avvio di una forte azione di coordinamento da attuarsi attraverso specifiche modalità procedurali. In particolare, per quanto riguarda il tema della sicurezza del lavoro, il documento pone l’accento sui seguenti elementi: 4 - il coordinamento di tutti gli enti ed istituti, che hanno competenze dirette o indirette sulle questioni che attengono la prevenzione dei rischi del lavoro, deve essere attuato tramite i Comitati regionali di coordinamento previsti dall’art. 27 del D.Lgs. 626/94. Il Coordinamento è posto “in capo al Presidente della Giunta regionale e della Provincia autonoma”; - i Comitati regionali “nella predisposizione delle proposte di politica preventiva di livello regionale tengono conto degli indirizzi e degli obiettivi strategici individuati dal Governo e dal Parlamento”; Governo e Parlamento a loro volta formuleranno tali indirizzi sulla base: - delle indicazioni della Commissione centrale di vigilanza (per la repressione del lavoro non regolare e sommerso) di cui all’art. 79 della legge 488 del 1998; - della Commissione consultiva permanente di cui all’articolo 26 del D.Lgs. 626/94; - del Comitato e delle Commissioni di cui all’art. 78 della Legge 488 del 1998 (Comitato nazionale e commissioni regionali per l’emersione del lavoro non regolare)”. - viene ribadito, ai fini del concreto funzionamento dei Coordinamenti a livello regionale e provinciale, che alle Aziende USL spetta il compito “di rendere operativi gli indirizzi regionali provvedendo alla destinazione finale delle risorse assegnate dalle Regioni in modo finalizzato per la prevenzione nei luoghi di lavoro, potenziando tutti gli interventi rivolti alla informazione, formazione, assistenza, vigilanza e controllo sul rispetto delle norme di prevenzione, poste a tutela della salute dei lavoratori”; mentre saranno gli altri Enti o Istituti, che hanno competenze collegate anche indirettamente con la tutela della salute dei lavoratori, a dover ricercare e curare ”il collegamento al momento della programmazione e della 5 realizzazione degli interventi con le Aziende USL che hanno la titolarità primaria nell’ambito della salute dei lavoratori”. Questo documento, siglato in sede di Conferenza Stato-Regioni, definisce tre aspetti fondamentali e fortemente innovativi rispetto a tutta la normativa previgente: la lotta agli infortuni sul lavoro deve essere condotta contestualmente a quella contro il lavoro irregolare, il coordinamento delle iniziative è affidato alle Regioni e Province autonome; le Aziende USL conservano integralmente il loro ruolo di soggetti titolari delle azioni di prevenzione. Il documento citato entra, poi, nel merito dei rapporti tra Enti; in tale prospettiva viene regolata: - la reciproca messa a disposizione degli archivi dei vari Enti, che hanno competenza sulla regolarità e sicurezza del lavoro, al fine di poter acquisire elementi conoscitivi finalizzati alla programmazione delle attività; - la sistematica informazione agli altri Enti dell’attività svolta nei confronti delle imprese da parte degli organi ispettivi in modo da fornire elementi utili alla programmazione delle attività; - l’individuazione dei settori a rischio più rilevante, al fine di programmare interventi integrati fra i vari Enti che hanno competenze in materia, anche utilizzando archivi Inps e Inail. L’Assemblea consiliare dell’Emilia-Romagna, in ottemperanza alle indicazioni provenienti dalla Conferenza Stato-Regioni, nella seduta del 21 dicembre 2000 (oggetto 912), ha approvato una risoluzione “intesa al varo di un pacchetto sicurezza per ridurre gli infortuni sul lavoro”, 6 impegnando, inoltre, la Giunta ad assicurare il pieno coinvolgimento delle Parti sociali e degli Enti competenti. Il Consiglio della Regione Emilia-Romagna è poi ritornato sullo stesso argomento pochi mesi dopo, nella seduta del 19 Aprile 2001, quando ha approvato all’unanimità un ulteriore risoluzione che dà mandato alla Giunta di: - adottare linee di intervento integrate per la "promozione della sicurezza, della regolarità e della qualità sociale delle condizioni di lavoro" in Emilia-Romagna, e di sostenere, in particolare, il coinvolgimento delle Parti sociali e degli Enti locali, garantendo un alto grado di integrazione e coordinamento tra le istituzioni competenti; - adottare misure attuative coerenti con dette linee e con gli obiettivi fissati, anche attraverso la promozione di specifiche intese con le istituzioni competenti, patti territoriali e/o settoriali, accordi con le Parti Sociali; - adottare interventi di sostegno a investimenti finalizzati alla sicurezza del lavoro, allo sviluppo di un organico “piano qualità”, per sostenere qualificazione e certificazione dei processi produttivi, con la partecipazione dei lavoratori, certificazioni ambientali e di sicurezza. In ottemperanza alla volontà espressa dal Consiglio regionale, la Giunta della Regione Emilia-Romagna, l’8 maggio 2001, ha adottato, così, la delibera n. 733 titolata: “Linee regionali d’intervento per la promozione della sicurezza, della regolarità e della qualità sociale delle condizioni di lavoro". La Giunta, con questo documento e con le azioni che, ad esso, sono conseguite, ha inteso corrispondere all’obiettivo di definire una strategia istituzionale ed attuativa diretta alla realizzazione di un programma coordinato ed integrato, a scala regionale, per qualificare il lavoro in Emilia-Romagna, vale a dire per rendere le condizioni di lavoro e le produzioni della 7 Regione sicure, regolari, rispondenti a clausole sociali, e tali da ridurre la precarietà delle prestazioni. Il programma non si configura, infatti, come un’iniziativa regionale, “ma su scala regionale”, poiché la complessità degli obiettivi, degli ambiti di intervento, delle attività, l’insieme articolato dei soggetti e degli attori coinvolti, l’esigenza di assicurare un forte grado di condivisione e di fiducia da parte delle istituzioni e dei privati, siano questi imprese, lavoratori o consumatori richiedono la partecipazione attiva di più soggetti e livelli istituzionali, delle parti sociali, dell’associazionismo, dei singoli e del mondo economico e produttivo. La lettura della comunicazione dell’Assessore al Lavoro al Consiglio della Regione Emilia-Romagna, sull’attuazione del programma “Chiaro, Sicuro, Regolare: azioni per la regolarità, la sicurezza e la qualità del lavoro”, tenuta nel mese di giugno 2003, costituisce un ulteriore documento rilevante per descrivere le scelte di governance operate dalla Regione e finalizzate all’implementazione della qualità del lavoro. L’Assessore, in apertura della comunicazione, afferma che "la finalità del programma di Giunta è quella di promuovere ed accrescere la diffusione e promozione di condizioni di sicurezza nel lavoro, l’emersione del sommerso ed il supporto alle politiche per l’emersione e la qualità delle condizioni e delle prestazioni di lavoro in Emilia-Romagna". Le modalità di intervento previste sono così esemplificate: - l’Assessorato alle Politiche per la Salute indirizza ed assiste le attività di vigilanza delle Aziende USL, attua le parti di competenza del Piano Sanitario regionale, coordina l’azione dei Servizi di Prevenzione e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro (SPSAL), le attività di studio, analisi, ricerca; 8 - l’Assessorato al Lavoro ed alla Formazione promuove specifiche iniziative di carattere formativo e la diffusione dei moduli in tutte le attività corsali, garantisce la disponibilità di un contenitore comunicazionale per le azioni di emersione e per la sicurezza, promuove progetti per l’introduzione del Marchio di Qualità Sociale, assicura occasioni formative comuni fra gli operatori del sistema di vigilanza, coordina le iniziative delle Province; - l’Assessorato alle Attività Produttive dà attuazione al Programma Triennale 2000-2002 finalizzato al miglioramento della qualità del sistema produttivo, allo sviluppo dei nuovi lavori, ad elevare il livello di sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo, favorendo in particolare la sicurezza degli ambienti di lavoro e offrendo opportunità di lavoro ai giovani nelle attività scientifiche e tecnologiche, culturali, informatiche e multimediali, ambientali e sociali. Viene inoltre raccomandata una particolare attenzione al progetto “Marchio di Qualità Sociale del Lavoro e della Produzione”, rientrando, questo, nell'ambito delle azioni di politica attiva del lavoro promosse dalla Regione. Il progetto, da una parte esplora la dimensione della qualità sociale per analizzare il contributo che essa può apportare alla competitività delle singole imprese e dall’altra la possibilità di accrescere l'attenzione e l'interesse delle imprese, in particolare di quelle aziende ad alta densità di presenza di lavoratori immigrati, sull'adozione di politiche di sicurezza, regolarità e qualificazione del lavoro, in modo da conferire un'ulteriore connotazione valoriale ai loro prodotti/servizi e contribuire in tal modo a qualificare ulteriormente l'intero sistema produttivo regionale. 9 Strutturalmente il progetto prevede l'integrazione delle attività contenute in due distinti progetti collegati: "Marchio di Qualità Sociale" (MQS) e "Marchio di Qualità Sociale Immigrati" (MQSI) Le attività contenute nel primo progetto sono finalizzate a definire e a validare sul campo (in specifici contesti organizzativi) gli elementi necessari per la predisposizione di un modello di marchio di qualità sociale generale (requisiti, criteri, procedure per l'acquisizione del marchio). Le attività del secondo progetto sono finalizzate ad integrare i requisiti generali identificati nel primo progetto, declinandoli nell'ottica di aziende che impiegano un'alta percentuale di lavoratori immigrati, e a realizzarne una validazione autonoma, identificando a tal fine, come ambiti di sperimentazione, imprese ad alta densità di manodopera extracomunitaria. L'articolazione delle attività in due progetti distinti nasce dall'esigenza di dedicare un particolare approfondimento ai temi della salute e della sicurezza e della qualità del lavoro in aziende con alta densità di presenza di lavoratori immigrati: l'obiettivo è quello di identificare eventuali criticità e di rendere trasparenti ed efficaci i dispositivi locali di incentivazione e investimento sulle buone prassi aziendali. In sostanza, come si può rilevare dalla presente, seppur sintetica illustrazione, sono state realizzate politiche attive del lavoro volte al contrasto degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, del lavoro irregolare e alla promozione della qualità del lavoro, in accordo anche con il contestuale processo avviato nell’Unione Europea. La Proposta di legge regionale "Norme per la promozione dell'occupazione, della qualità, sicurezza e regolarità del 10 lavoro", ora legge della Regione Emilia-Romagna, n. 17/2005. E' questo il “filo rosso” che congiunge le scelte normative e regolamentari, attuate in Emilia-Romagna a partire dai primi mesi del 2000, con il recentissimo Progetto di legge titolato "Norme per la promozione dell'occupazione, della qualità, sicurezza e regolarità del lavoro". Il "buon" lavoro ed il "buon" lavorare sono visti in maniera unitaria e sono individuati come la condizione di riferimento capace di rafforzare la coesione e l'integrazione sociale, e sono considerati come elementi fondanti la promozione dello sviluppo, dell'innovazione e della competitività delle produzioni e dei territori. Tutto ciò in accordo con il dettato costituzionale e con i principi e gli obiettivi dell’Unione Europea. In un contesto storico in cui prevalgono gli interessi personali su quelli collettivi e solidali, il progetto di legge si muove in controtendenza, promuovendo e sostenendo un sistema di politiche diretto ad accompagnare le persone e le imprese nei processi di transizione al lavoro, di inserimento e consolidamento professionale, di stabilizzazione della condizione lavorativa. Tra gli obiettivi che la legge regionale si prefigge di raggiungere, trovano collocazione: - la ricerca e nell’acquisizione del lavoro; - la conciliazione fra i tempi di vita, di cura e quelli dedicati all’attività professionale; - la qualificazione e la formazione, - l’esercizio pieno del diritto-dovere a condizioni di sicurezza e regolarità del lavoro. La legge trae la sua legittimità e la sua spinta innovativa dalle competenze legislative attribuite alle Regioni dalla Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, di modifica del Titolo V° della Costituzione. Il nuovo sistema ha reso possibile l'assunzione da parte dell'Amministrazione Regionale di decisioni normative proprie 11 nelle materie individuate come concorrenti o esclusive rispetto allo Stato. La produzione normativa ha dovuto tenere nel debito conto l'integrazione con le leggi rimaste di esclusiva competenza dello Stato e con le precedenti Leggi Regionali in materia di lavoro. La legge opera globalmente sul tema del lavoro; disciplina, infatti, il collocamento nei suoi diversi aspetti, le modalità di erogazione degli incentivi alle assunzioni od alla stabilizzazione di soggetti appartenenti a fasce deboli o svantaggiate, le politiche per l'inserimento al lavoro di soggetti disabili, l’orientamento al lavoro ed i tirocinii, i profili formativi dei contratti di apprendistato, il sistema dei servizi per il lavoro, le materie dell’igiene e della sicurezza del lavoro, il sostegno alla qualità e regolarità del lavoro, la promozione della responsabilità sociale delle imprese. La legge sviluppa prioritariamente i temi illustrati di seguito. - Qualificazione dei servizi per il lavoro. La legge, anche a fronte della complessità crescente delle condizioni e delle forme contrattuali di partecipazione al lavoro, sceglie la strada di un efficace sistema, pubblico e privato (accreditato), a supporto dell’intermediazione del lavoro proponendosi di migliorarne gli interventi: · di informazione, orientamento al lavoro; · · · · · di sostegno alle persone nella costruzione dei bilanci di competenze; di preselezione ed incrocio fra domanda ed offerta di lavoro; di misure personalizzate di promozione dell’inserimento nel lavoro; di accompagnamento nell’inserimento lavorativo delle persone disabili, e dei soggetti in condizione di svantaggio personale e sociale, con particolare riferimento alle azioni di mediazione culturale. Promozione e qualificazione dell’occupazione (anche nelle forme del lavoro autonomo).La legge opera una scelta molto chiara, rivolgendo gli interventi delle politiche attive verso le persone che si trovano in condizioni di svantaggio sociale o 12 individuale rispetto al mercato del lavoro. In particolare gli interventi sono diretti verso i disabili, i soggetti che presentano rischi di esclusione, di depauperamento professionale o per i quali sia in corso un processo di precarizzazione della condizione lavorativa, le persone prive di occupazione con età superiore ai quarantacinque anni, i lavoratori interessati da processi di riorganizzazione e di riconversione e quanti rientrano al lavoro dopo periodi prolungati di assenza per motivi di cura familiare. E', inoltre, ricondotta alla Giunta regionale la possibilità di definire priorità territoriali, con riferimento alle aree con difficoltà socioeconomiche. L'alto tasso di partecipazione femminile al lavoro, registrato in Emilia-Romagna, non rende necessario introdurre, tra le priorità, il tema dell'occupazione femminile. Tuttavia, i più bassi livelli salariali delle donne, la loro maggiore difficoltà nella conciliazione di impegni di lavoro e di cura familiare ed il permanere di fenomeni di segregazione di genere hanno indotto a prevedere una priorità trasversale che operi rispetto a quelle individuate. La definizione delle priorità delle politiche attive è stata accompagnata dall’individuazione degli strumenti di sostegno, costituiti dagli incentivi economici per le persone ed i datori di lavoro, dagli assegni formativi, dagli assegni di servizio, dalle attività di orientamento, dalla promozione di tirocinii, dall’azione dei servizi per il lavoro. Si tratta di strumenti finalizzati alla personalizzazione degli interventi, allo scopo di accrescerne l’efficacia e la capacità di agire sulle criticità. Tra i diversi tipi di intervento si ricorda, a titolo di esempio, l’introduzione, operata dalla legge, di misure di conciliazione, quali gli assegni di servizio; vale a dire di contributi economici finalizzati all’acquisizione dei servizi necessari a mantenere o costruire una condizione occupazionale attiva e rivolti a chi è a rischio di esclusione dal mercato del lavoro per motivi di cura familiare o propria. · La conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro. La legge individua le azioni volte a promuovere concretamente pari opportunità di accesso, permanenza al lavoro e progressione 13 di carriera. Si tratta di strumenti diretti di intervento, quali l’azione mirata dei servizi per il lavoro (con l'obiettivo di collocare il soggetto in attività sincrone con i suoi bisogni), la già citata erogazione di assegni di servizio, l'individuazione di misure di conciliazione in grado di agire sull’organizzazione degli orari e delle forme di partecipazione al lavoro. · Formazione La legge si sofferma sul tema della formazione, individuandolo come uno degli strumenti fondamentali per garantire la qualità e la stabilità del lavoro. La strategia di valorizzazione delle competenze e dei saperi delle persone costituisce, in coerenza con i principi e gli obiettivi dell’Unione Europea, l'asse fondamentale per le politiche di sviluppo economico, per l’innovazione e la competitività. A questo fine, la Regione ha adottato metodi di integrazione fra gli interventi di politica del lavoro e quelli in materia di istruzione, formazione professionale ed orientamento, intervenendo, ad esempio, con la concessione di assegni formativi individuali e la predisposizione di percorsi formativi qualificati a favore di lavoratori occupati o di lavoratori in condizioni di lavoro precario, anche al fine di favorirne l’occupabilità attraverso il rafforzamento delle competenze. La legge, particolare risalto viene dato alla regolamentazione degli aspetti formativi specifici dei contratti di apprendistato, riconducendo i relativi interventi alla Regione, nel rispetto della normativa dello Stato in materia, e dei contratti collettivi di lavoro. - L’acquisizione di condizioni lavorative stabili. Al raggiungimento di questo obiettivo concorre l’azione congiunta di più strumenti e servizi da impiegare in ragione degli 14 specifici bisogni che le persone, le famiglie, i contesti lavorativi propongono, anche per fasi temporanee. L’acquisizione di una condizione lavorativa stabile, costituisce una condizione irrinunciabile di un modello sociale, quale quello Emiliano-Romagnolo, caratterizzato da solidità, capacità di sviluppo e coesione. · · La Qualità del Lavoro La promozione di una migliore qualità e sicurezza del lavoro, corrisponde ad una finalità di fondo della legge, di cui accompagna e sottolinea il complessivo impianto. Sono previsti specifici interventi volti, soprattutto, alla realizzazione di un sistema integrato di sicurezza e di miglioramento della qualità della vita lavorativa. A questo fine la Regione orienta gli interventi di vigilanza e controllo, formazione, informazione ed assistenza (esercitati attraverso le Unità Sanitarie Locali) e le proprie azioni di incentivazione e di valorizzazione dirette alle imprese. La responsabilità sociale delle imprese È questo uno degli ambiti di intervento più innovativi affrontati della legge che, muovendo dagli obiettivi e dagli orientamenti in materia dell’Unione Europea, si prefigge di favorire l’assunzione della responsabilità sociale delle imprese, intesa quale integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ambientali nelle attività produttive e commerciali e nei rapporti con i soggetti che possono interagire con le imprese stesse. In questa prospettiva la responsabilità sociale delle imprese si trasforma in uno strumento attivo per l’innalzamento della qualità del lavoro, per lo sviluppo economico e la coesione sociale. Le azioni previste sono, in particolare, dirette a sostenere l’adozione da parte delle imprese, di enti ed organizzazioni, di codici di condotta e di bilanci sociali ed ambientali e di marchi di qualità sociale ed ambientale diffusi a livello europeo ed 15 internazionale, anche attraverso specifici interventi sperimentali. Il commento ad alcuni articoli della legge, costituisce uno strumento di lettura prezioso per descrivere il processo politico che ha modificato in maniera sostanziale l'approccio al tema della tutela della salute nei luoghi di lavoro, passando dal mero contrasto agli infortuni sul lavoro, all'avvio di politiche attive volte alla promozione del benessere psico-fisico dei lavoratori. L’articolo 1 enuncia i principi ispiratori della norma volti alla promozione dell’occupazione ed alla sua qualità (tema quest'ultimo che non era presente nella prima stesura del comma 1 del progetto di legge., ma che è stato introdotto, con emendamento, nella discussione consiliare), alla valorizzazione delle competenze e dei saperi delle persone, all’affermazione dei loro diritti nelle attività lavorative e nel mercato del lavoro, all’attuazione del principio delle pari opportunità, quali fondamenti essenziali per lo sviluppo economico e sociale del territorio. L’articolo delinea altresì l’ambito di applicazione della legge stabilendo che la Regione esercita le proprie competenze legislative ed amministrative in materia di tutela e sicurezza del lavoro, nel rispetto delle competenze dello Stato, in particolare di quelle relative all’ordinamento civile e alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Si enuncia altresì la valorizzazione del ruolo degli enti locali e la collaborazione tra livelli istituzionali. Di particolare rilievo, sono gli articoli 41 "Sistema integrato di sicurezza e di miglioramento della qualità della vita lavorativa.", 42 "Interventi." e 43 "Coordinamento della pubblica amministrazione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.", nonché le modifiche che, in sede di discussione Consiliare. sono state apportate al testo originale del progetto di legge. 16 "Art. 41 Sistema integrato di sicurezza e di miglioramento della qualità della vita lavorativa 1. La Regione, in attuazione del decreto legislativo n. 626 del 1994, promuove la realizzazione di un sistema integrato di sicurezza del lavoro e di miglioramento della qualità della vita lavorativa e, a tale fine, esercita funzioni di indirizzo e coordinamento. 2. La programmazione regionale diretta al perseguimento degli obiettivi di cui al comma 1 è prioritariamente orientata al sostegno del diritto-dovere alla sicurezza ed alla salute nei luoghi di lavoro, favorendo iniziative e progetti, anche di carattere locale, volti: a) alla riduzione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori; b) alla promozione del benessere psico-fisico dei lavoratori, quale parte integrante della qualità del lavoro e dell’occupazione, anche attraverso la diffusione della cultura della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; c) all’inserimento nelle misure di prevenzione degli aspetti relativi al genere ed all’età dei lavoratori, alla presenza di lavoratori immigrati, alle forme di partecipazione al lavoro ed alle sue modalità di organizzazione, nonché alle eventuali condizioni di svantaggio dei lavoratori in relazione ai rischi per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro. 3. Il sistema integrato di sicurezza del lavoro e di miglioramento della qualità della vita lavorativa costituisce elemento centrale della strategia regionale di promozione di condizioni di regolarità del lavoro e di acquisizione da parte delle persone di condizioni lavorative stabili; si realizza, mediante gli interventi di cui al comma 2 e di cui all’articolo 42, le azioni della Sezione II del presente Capo 17 ed attraverso le misure di stabilizzazione previste all’articolo 12. Art. 42 Interventi 1. La Regione e le Provincie promuovono e sostengono iniziative, anche in collaborazione con le parti sociali, orientate alla prevenzione, all’anticipazione dei rischi e al miglioramento delle condizioni di lavoro e in particolare: a) l’adozione di patti territoriali per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, anche individuando misure di sostegno per gli accordi, assunti dalle parti sociali comparativamente più rappresentative a livello territoriale, diretti a qualificare le misure per la prevenzione dei rischi e la diffusione della cultura della sicurezza; b) il supporto ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, con particolare riferimento al rafforzamento delle competenze e ad azioni di coordinamento, attraverso iniziative concertate con le organizzazioni sindacali; c) il supporto alle azioni promosse dagli organismi paritetici previsti dagli Enti bilaterali di cui all’articolo 10, comma 4. 2. Ai fini di cui al comma 1 la Regione, promuove e sostiene: a) la realizzazione di azioni di ricerca, individuazione e comparazione di buone pratiche, trasferibili sul territorio regionale; b) il monitoraggio degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali e la realizzazione di un rapporto annuale sullo stato di salute e sicurezza dei lavoratori; c) centri di riferimento, anche in collaborazione con Università, associazioni, fondazioni ed altre istituzioni di diritto privato, nonché con gli enti e le aziende di 18 diritto pubblico operanti nel settore, sostenendone l’attività con proprie risorse. 3. La Regione e le Provincie favoriscono, altresì, la diffusione della cultura della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, attraverso: a) campagne informative ed azioni di sensibilizzazione; b) formazione degli operatori delle istituzioni e delle organizzazioni competenti; c) azioni di sensibilizzazione, informazione e formazione, sul tema della sicurezza e dell’igiene del lavoro, da realizzarsi anche nell’ambito dell’offerta dei Centri territoriali permanenti per l’educazione degli adulti di cui all’articolo 45 della legge regionale n. 12 del 2003, con particolare riferimento ai lavoratori immigrati, caratterizzate dall’utilizzo di specifiche metodologie, strumentazioni didattiche e di mediazione linguistica e culturale; d) interventi educativi nei confronti dei giovani; e) realizzazione di unità formative dedicate al tema della sicurezza e dell’igiene del lavoro nelle attività formative programmate o riconosciute dalla Regione e dalle Provincie; f) attività formative volte all’acquisizione di competenze specifiche nelle materie della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, con riferimento agli aspetti sia igienico-sanitari sia normativi e socio-organizzativi; g) accordi con gli enti bilaterali di cui all’articolo 10, comma 4 e con i soggetti autorizzati alla somministrazione ed all’intermediazione di lavoro finalizzati alla realizzazione di unità formative dedicate al tema della sicurezza e dell’igiene del lavoro; h) accordi con le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, finalizzati a definire condizioni di tutela dei lavoratori 19 migliorative rispetto ai livelli minimi stabiliti dalla normativa nazionale; i) l’introduzione del tema della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro negli interventi di cui all’art. 44. j) La Regione esercita funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività di controllo e vigilanza svolte dalle Aziende Unità Sanitarie Locali e ne verifica la qualità e l’efficacia delle azioni di prevenzione. La Regione promuove inoltre la sperimentazione di audit dei luoghi di lavoro, da realizzarsi sulla base dell’adesione volontaria delle imprese, per il miglioramento dell’organizzazione e della gestione della sicurezza." Art. 43 Coordinamento della pubblica amministrazione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro 1. La Regione promuove azioni di indirizzo e coordinamento degli interventi della pubblica amministrazione, in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, anche attraverso il comitato di coordinamento, istituito ai sensi dell’articolo 27 del D.Lgs n. 626 del 1994. 2. Il Comitato di coordinamento di cui al comma 1 promuove: a) sistematici scambi di informazione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, anche mediante la reciproca messa a disposizione degli archivi dei diversi enti con competenza sulla regolarità e sicurezza del lavoro; b) l’elaborazione di proposte finalizzate all’uniformità delle procedure amministrative e dei metodi di controllo; c) la realizzazione di piani integrati di intervento, secondo priorità individuate sulla base dei dati elaborati, rapportati alle effettive risorse disponibili delle diverse amministrazioni pubbliche; 20 d) campagne di sensibilizzazione e di divulgazione per la promozione dell’adozione di mezzi e misure prevenzionali. L'articolo 41, come si è potuto rilevare, introduce il tema della promozione di un sistema integrato di sicurezza e di miglioramento della qualità della vita lavorativa, che non mira soltanto alla riduzione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ma che è volto, in particolare, alla promozione del benessere. Su quest'ultimo concetto vi è stato un ampio dibattito in diversi sedi politiche, tra cui la Conferenza Regione-Autonomie locali, la Commissione regionale tripartita (di cui all’articolo 51 della legge regionale n. 12 del 2003) e la competente Commissione Consiliare. Il dibattito ha portato ad aggiungere, nella stesura definitiva del progetto di legge, alla parola "benessere" (come era previsto dalla prima stesura), le parole "psico-fisico". L'art. 41, comma 2, lettera b, ha assunto, in questo modo, i contenuti fortemente innovativi e migliorativi a cui il legislatore mirava: gli interventi di politiche attive della Regione sono volti "alla promozione del benessere psico-fisico dei lavoratori," da considerarsi "quale parte integrante della qualità del lavoro e dell’occupazione…" Il benessere psico-fisico viene considerato, quindi, come la finalità portante di tutte le azioni dirette alla promozione della qualità del lavoro, che non può essere intesa come mera qualità della produzione, ma che deve essere letta nei suoi aspetti più nobili: qualità del lavorare, della vita delle persone che lavorano e dell'occupazione. La finalità espressa è ulteriormente sottolineata dal comma 3 dello stesso articolo, che individua la qualità della vita lavorativa come "elemento centrale della strategia regionale di promozione di condizioni di regolarità del lavoro e di acquisizione da parte delle persone di condizioni lavorative stabili". 21 "Il sistema integrato di sicurezza", mira altresì, (in verità per la prima volta in maniera organica) "all'inserimento nelle misure di prevenzione degli aspetti relativi al genere, ed all’età dei lavoratori, alla presenza di lavoratori immigrati,…" e, compito fortemente avversato da alcune componenti delle rappresentanze datoriali, alle "modalità di organizzazione" del lavoro. Gli interventi sulle modalità di organizzazione del lavoro prevedono forme totalmente innovative di collaborazione (la parola concertazione, prevista nel prima stesura, è stata cassata in sede di Commissione Consiliare) "con le parti sociali" e devono essere "orientate alla prevenzione, all’anticipazione dei rischi e al miglioramento delle condizioni di lavoro". E' prevista "l’adozione di patti territoriali per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro" allo scopo utilizzando, anche, "misure di sostegno" alle azioni intraprese sulla base degli "accordi, assunti dalle parti sociali" o dagli organismi paritetici e "dirette a qualificare le misure per la prevenzione dei rischi e la diffusione della cultura della sicurezza". Allo stesso tempo, al fine di rendere più incisivo l'intervento sull'organizzazione del lavoro è stato previsto all'art. 2, comma 4 la previsione che le aziende su base volontaria partecipino alla sperimentazione di audit sull'organizzazione promossi dalla Regione stessa. La promozione del benessere psico-fisico dei lavoratori è ricompresa nell'ottica più ampia di una “Corporate social responsability”, in un virtuoso collegamento tra l’agire economico e la qualità sociale, secondo le indicazioni delle politiche europee per il lavoro. In questa dimensione, il fare impresa non ha l'unico fine di produrre ricchezza materiale, ma anche ricchezza sociale: occupazione, buona occupazione, promozione di reti sociali, tutela ambientale. 22 La finalità che la legge si propone è dunque quella di accrescere l'attenzione e l'interesse delle imprese, in particolare di quelle ad alta densità di presenza di lavoratori immigrati, sui temi indicati, allo scopo di favorire l'interesse delle imprese verso il marchio di qualità sociale, la Regione ha previsto azioni di incentivazione e di valorizzazione delle imprese interessate. 1 L'occupazione in Emilia-Romagna. Negli ultimi anni anche in Emilia-Romagna, come nel resto del paese, la crescita economica è risultata stagnante. Nonostante ciò, in Emilia-Romagna, è stata registrata una significativa espansione dell’occupazione, che si è tradotta in una riduzione dello stock dei disoccupati e nell'incremento della popolazione attiva. E' questo un andamento paradossale, che coniuga una bassissima crescita dell’attività produttiva con una dinamica favorevole del mercato del lavoro. L’andamento del tasso di occupazione e di quello di disoccupazione è illustrato nei grafici successivi. Forze di lavoro in Emilia-Romagna (valori assoluti in migliaia). Anni Forze di Lavoro Non Forze di Lavoro Occupat Person Totale in età < di > di Totale Pop. Tass Tasso Tasso di i e in Forze 15-6 15 64 non Totale o di di occupazio cerca di lavoro 1996 1.681 96 1.77 7 1997 1.693 105 1.79 7 1998 1.705 98 1.80 2 1999 1.743 83 1.82 4 anni anni Forze anni 913 426 773 2.11 3 889 429 786 2.10 3 875 432 802 2.10 9 854 437 807 2.09 23 disoc attivit c. à* 3.89 0 3.90 1 3.91 1 3.92 ne 5,4 66,1 62,5 5,8 66,9 63 5,4 67,3 63,7 4,6 68,1 65 6 7 3 74 1.84 831 445 822 2.09 3.94 4 69 66,2 7 8 6 2001 1.794 71 1.86 819 456 834 2.10 3.97 3,8 69,5 66,8 5 9 4 2002 1.822 62 1.88 804 464 842 2.11 3.99 3,3 70,1 67,8 4 0 4 2003 1.849 58 1.90 784 464 839 2.08 3.99 3,1 70,9 68,7 8 7 4 * Il denominatore dei tassi di attività e di occupazione è costituito dalle Forze di lavoro sommate alle Non Forze di lavoro tra i 15 e i 64 anni. 2000 1.773 Fonte: Rilevazione Istat Forze di Lavoro ed elaborazioni CNEL su dati Istat Tasso di occupazione in Emilia-Romagna Tasso di disoccupazione in Emilia-Romagna 24 In questo contesto economico si è osservata una forte crescita dell'occupazione atipica. Il rapporto tra occupati part-time e quelli full time è passato dal 6,70 del 1996 al 9,70% del 2003; analogo incremento si è registrato nel rapporto tra occupati a tempo indeterminato e a tempo determinato, rapporto che è passato dal 6,9% al 10,4%. In un contesto macroeconomico caratterizzato da prevalente sfiducia dei consumatori e degli imprenditori, l'incremento dell'occupazione regolata da contratti atipici, sembra, soprattutto, funzionale ai bisogni dell'impresa. 25 Occupati a tempo pieno o parziale e con occupazione permanente o temporanea. Territorio: Emilia-Romagna (valori assoluti in migliaia). Occupati in Complesso Occupati Dipendenti * Tempo Tempo TOTAL % Occup. Occup. TOTAL % Occup. Pieno Parziale Tempo Permanen Temporan Temporan E E Parziale te ea ea 1996 1.568 113 1.681 6,70% 1.050 78 1.128 6,90% 1997 1.571 121 1.693 7,20% 1.053 86 1.138 7,50% 1998 1.579 126 1.705 7,40% 1.068 93 1.160 8,00% 1999 1.603 140 1.743 8,00% 1.088 101 1.189 8,50% 2000 1.623 151 1.773 8,50% 1.113 108 1.220 8,80% 2001 1.636 158 1.794 8,80% 1.118 123 1.241 9,90% 2002 1.654 168 1.822 9,20% 1.149 135 1.284 10,50% 2003 1.670 180 1.849 9,70% 1.165 136 1.300 10,40% * Nota: l'accezione di occupazione temporanea si applica solo al lavoro dipendente. Fonte: Istat, Indagine sulle Forze di lavoro ed elaborazioni CNEL su dati Istat (valori assoluti in migliaia). Rapporto occupati temporanei su occupati a tempo indeterminato in Emilia-Romagna. 26 Rapporto occupati a tempo parziale su occupati a tempo pieno in Emilia-Romagna. 27 La dinamica dell’occupazione tende dunque a rispondere piuttosto lentamente alle variazioni dell’attività produttiva. Le imprese, in presenza di un mutamento in senso negativo delle condizioni economiche in cui operano, tendono a sfruttare la flessibilità nell’impiego della manodopera già assunta prima di modificare il numero degli addetti. Può accadere che, con crescita media stagnante, ma significativamente differenziata sul piano settoriale e territoriale, come si è verificato, in questi anni, in Emilia-Romagna, si può assistere, nei settori produttivi in crisi, ad incrementi della CIG, mentre nelle aziende non in crisi, in cui comunque si sconta una complessiva bassa fiducia degli imprenditori, si assiste, in genere, ad un aumento delle forme di lavoro flessibili in quanto preferite dalle imprese. L'incertezza dell'impiego ed il relativamente basso costo del lavoro (la crescita dei salari, in questi ultimi anni, non è stata proporzionale all'inflazione), individua un importante paradosso economico-sociale del lavoro flessibile in uscita: l'incertezza dell'impiego (associato ad una bassa fiducia dei consumatori) si traduce in una riduzione della propensione alla spesa delle famiglie, che, a sua volta, determina una riduzione della domanda di consumi e quindi una ripresa economica stentata incapace di riavviare un'occupazione stabile. 28 Un ulteriore fattore che ha spinto il mercato del lavoro in Emilia-Romagna verso forme di lavoro flessibili è stata l'aumento dell'offerta di lavoro, dovuto sia alla crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro, sia all'immigrazione. 2 L’occupazione femminile. In Emilia-Romagna, la crescita dell’occupazione e delle forze di lavoro di genere femminile, supera anche nel 2003, quella maschile, ma il numero di donne disoccupate si attesta allo stesso valore dell’anno precedente, interrompendo la dinamica decrescente registrata negli ultimi anni. Più in particolare, con riferimento alla dinamica dell’occupazione, il numero delle donne occupate è aumentato nel corso del 2003 di circa 19.000 unità, pari al 2,4% del totale dell’anno precedente (da 785.000 a 804.000). Tale incremento è stato molto superiore a quello relativo all’occupazione maschile sia in termini assoluti che relativi. Il numero di uomini occupati è, infatti, cresciuto solo di circa 8.000 unità pari allo 0,8% (un terzo dell’incremento femminile). La forte crescita del numero delle donne occupate genera un nuovo incremento del tasso di occupazione femminile che si porta al 60,5%. Emerge, tuttavia, che l’aumento, registrato nel 2003, dell’occupazione avviene contestualmente ad un aumento uguale delle forze di lavoro (più 19.000 unità, pari al 2,3%, contro più 5.000 unità, pari allo 0,5%, per i maschi). Il risultato è che, mentre per i maschi l’aumento dell’occupazione in eccesso sull’aumento delle forze lavoro riduce il già minimo tasso di disoccupazione (che giunge all’1,9%), per le donne l’aumento dell’occupazione (più 19.000) uguale all’aumento delle forze lavoro (più 19.000), lascia invariato il tasso di disoccupazione (4,5%). Mercato del lavoro in Emilia-Romagna (valori assoluti in migliaia). Forze lavoro: Maschi Occupati Persone in Tasso di Tasso di cerca di disocc. attività* lavoro 29 Tasso di occupazione 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 992 996 996 1.009 1.020 1.028 1.037 1.045 32 3,1 75,5 73,2 34 3,3 76 73,5 35 3,4 76,3 73,7 28 2,7 76,7 74,6 28 2,7 77,4 75,3 28 2,7 77,8 75,7 24 2,3 78 76,2 21 1,9 78,2 76,7 Forze lavoro: Femmine Occupati Persone in Tasso di Tasso di Tasso di cerca di disocc. attività* occupazione lavoro 1996 689 64 8,5 56,4 51,7 1997 697 71 9,2 57,7 52,4 1998 709 62 8,1 58,2 53,5 1999 734 55 7 59,4 55,3 2000 753 46 5,7 60,4 56,9 2001 766 43 5,3 61 57,7 2002 785 38 4,6 62 59,1 2003 804 38 4,5 63,4 60,5 Il denominatore dei tassi di attività e di occupazione è costituito dalle Forze di lavoro sommate alle Non Forze di lavoro tra i 15 e i 64 anni. Fonte dati CNEL . 3 L'invecchiamento della popolazione Negli ultimi decenni si è verificata in tutti i paesi ricchi una netta riduzione sia del tasso di natalità sia del tasso di mortalità. Conseguentemente è aumentata l’incidenza degli anziani sul totale della popolazione, tale fenomeno è particolarmente rilevante in Emilia-Romagna. Nel 1999, in Emilia-Romagna, il 20,6% della popolazione aveva più di 65 anni, contro il 16,8% dell'Italia. 30 Distribuzione della popolazione secondo l’età. Fonte: Istat Anno 1999 Italia Italia Nord-Est Emilia-Romagna <15 anni 16 - 64 anni >65 anni 14,6 68,6 16,8 12,5 69,3 18,2 11,2 68,2 20,6 Totale 100 % 100 % 100 % Tuttavia, negli ultimi tempi, si assiste in Emilia-Romagna ad una inversione di tendenza dell’indice di dipendenza rispetto all’occupazione. Il rapporto anziani (popolazione oltre i 64 anni)/ occupati, dopo aver raggiunto un valore massimo del 47% nel 1998, si è ridotto fino al valore di 45,4% nel 2003. E’ questa un'indicazione molto rilevante da un punto di vista interpretativo in quanto segnala un aumento del tasso di occupazione degli anziani. Aumento che, letto in un contesto economico sociale più ampio, potrebbe essere attribuito ad una aumento della domanda di lavoro attribuibile alla ricerca da parte delle famiglie di una sostenibilità del reddito disponibile. 4 Gli immigrati stranieri Gli immigrati soggiornanti in Emilia Romagna, alla fine del 2003, con regolare permesso di soggiorno, erano 217.756. Se agli adulti (unici titolari del permesso di soggiorno), si aggiungono i minori (ipotizzati in oltre 45.000) si ottiene una stima di 263.414 stranieri presenti regolarmente in regione; quota pari al 6,4% dei residenti. Soprattutto a causa della regolarizzazione del 2002-2003, il numero di permessi di soggiorno è praticamente raddoppiato negli ultimi tre anni. Permessi di soggiorno rilasciati nella Regione Emilia-Romagna. 31 L’immigrazione tende verso caratteristiche di stabilità comprovate da un costante processo di ricongiunzione familiare e conseguentemente da una crescita della componente femminile, che ha superato i centomila permessi di soggiorno e che si avvicina al 47% del totale. Il gruppo continentale più numeroso presente in Emilia-Romagna è quello europeo (43,8% del totale), che supera quindi il contingente africano (pari al 33,2%). 32 Il processo di regolarizzazione ha sottolineato un’osservazione scontata: la ricerca del lavoro, l’offerta dello stesso costituisce il principale fattore regolante l’immigrazione in Emilia-Romagna. In questa fase sembrano consolidarsi due poli principali dell’immigrazione regionale: il primo composto da donne, prevalentemente dell’Europa dell’est, attive nei servizi alla persona, ed il secondo di uomini, in massima parte provenienti dal continente africano, attivi nel settore industria. L’incremento del 6% della popolazione regionale di una quota costituita da persone con bisogni particolari e diversi, ha reso necessario un intervento legislativo ad hoc, che si è concretizzato nella legge regionale n. 5 del 24 marzo 2004, in materia di politiche per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri. La legge ha affrontato il tema dell'immigrazione straniera secondo un approccio universalistico, teso a garantire l'effettivo esercizio dei diritti sociali di cittadinanza nell'ambito dei servizi pubblici esistenti, prevedendo l’abbandono di qualsiasi approccio occasionale, temporaneo ed emergenziale. 5 Gli infortuni sul lavoro come indicatori dello stato di salute dei lavoratori della Regione Emilia-Romagna. Nell’ambito di un mercato del lavoro regionale quale appena delineato, gli infortuni sul lavoro occorsi in Emilia-Romagna, nel periodo 2002-2004, sono esemplificati nelle tabelle seguenti. Gli infortuni sono divisi per anno e ne è calcolata la variazione percentuale; sono altresì divisi a seconda delle tipologie ordinariamente individuate dall'Inail. Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2002-2004 denunciati all'INAIL indennizzati al 30.04.2005 DENUNCE GESTIONE Anni Totali 10.711 INDENNIZZI Mortali 26 AGRICOLTURA 2002 33 Temporanea 8.107 Permanente in capitale 431 in rendita 73 Totale 504 Morte Totale 25 8.6 10.112 12 7.580 427 73 500 11 8.0 9.554 17 7.197 324 55 379 16 7.5 126.805 151 77.919 2.352 561 2.913 134 80.9 125.789 136 74.085 2.393 578 2.971 127 77.1 127.191 110 72.324 1.778 340 2.118 101 74.5 2.123 1 971 52 4 56 1 1.0 2.211 2 1.094 43 10 53 2 1.1 2.293 1 1.214 47 6 53 1 1.2 139.639 178 86.997 2.835 638 3.473 160 90.6 138.112 150 82.759 2.863 661 3.524 140 86.4 139.038 128 80.735 2.149 401 2.550 118 83.4 2003 2004 INDUSTRIA E 2002 SERVIZI 2003 2004 DIPENDENTI CONTO STATO 2002 2003 2004 TOTALE 2002 2003 2004 Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2002-2004 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il 30.04.2005 divisi per settore tariffario SETTORE TARIFFARIO INDUSTRIA DENUNCE Anni Totali INDENNIZZI Mortali Permanente Temporanea 38.231 64 in capitale in rendita 31.866 833 211 37.068 50 30.325 842 227 35.548 39 28.765 606 21.850 51 17.994 21.554 49 21.222 42 Totale 1.044 Morte Totale 59 32.969 1.069 47 31.441 111 717 34 29.516 740 197 937 49 18.980 17.259 803 221 1.024 48 18.331 16.860 626 146 772 40 17.672 2002 2003 2004 ARTIGIANATO 2002 2003 2004 34 TERZIARIO 25.823 19 20.748 554 110 664 17 21.429 25.777 26 20.332 542 102 644 24 21.000 25.859 21 20.413 388 66 454 21 20.888 8.409 9 6.523 218 41 259 8 6.790 7.945 7 6.027 203 25 228 7 6.262 8.153 6 6.077 144 14 158 5 6.240 2002 2003 2004 ALTRE ATTIVITA' 2002 2003 2004 Infortuni sul lavoro avvenuti nel periodo 2002- 2004 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per settore di at economica , anno e tipo di conseguenza - industria e servizi Settore di attività economica Anni Casi denunciati Temporanea in capitale 35 di cui indennizzati Permanente in rendita Totale Morte T A+B C DA DB DC DD DE INDUSTRIA 2002 51.259 di cui 2003 50.291 2004 47.331 2002 658 2003 640 2004 683 2002 134 2003 96 2004 111 2002 4.059 2003 3.974 2004 3.440 2002 1.191 2003 1.096 2004 961 2002 443 2003 431 2004 352 2002 1.283 2003 1.155 2004 1.111 2002 1.124 2003 1.115 Agrindustria e Pesca Estrazione di minerali Industria alimentare Industria tessile e abbigliamento Industria conciaria Industria del legno Industria della carta 36 42.657 1.274 334 1.608 72 40.910 1.326 357 1.683 64 38.062 944 199 1.143 45 559 21 8 29 2 524 24 7 31 2 547 17 7 24 - 101 8 2 10 - 79 3 - 3 1 89 5 1 6 1 3.456 98 14 112 6 3.294 102 14 116 4 2.879 62 9 71 2 948 28 4 32 1 870 29 8 37 - 734 23 1 24 - 387 13 2 15 1 348 7 3 10 - 275 4 2 6 - 1.090 50 7 57 1 948 50 6 56 1 893 36 7 43 1 925 29 5 34 - 918 21 6 27 3 827 DF DG DH DI DJ DK DL DM 2004 1.012 2002 29 2003 17 2004 27 2002 856 2003 761 2004 737 2002 1.545 2003 1.466 2004 1.295 Industria lav. minerali non 2002 4.522 metalliferi 2003 4.161 2004 4.015 2002 8.498 2003 8.342 2004 8.058 2002 8.061 2003 7.316 2004 6.960 2002 1.859 2003 1.800 2004 1.640 2002 1.522 Industria del petrolio Industria chimica Industria della gomma e plastica Industria dei metalli Industria meccanica Industria macchine elettriche Industria fabbricazione mezzi 37 16 6 22 24 - 15 - - 23 1 - 1 - 693 18 7 25 3 611 18 6 24 1 571 6 1 7 1 1.307 32 9 41 1 1.202 24 13 37 2 1.073 22 6 28 - 3.872 88 17 105 6 3.486 86 18 104 3 3.360 46 6 52 2 7.126 168 55 223 9 6.870 174 45 219 10 6.605 132 30 162 6 6.747 129 44 173 7 5.978 115 40 155 5 5.574 109 19 128 6 1.529 40 4 44 3 1.419 42 7 49 5 1.294 23 4 27 1 1.270 30 3 33 1 di trasporto DN D E F 2003 1.682 2004 1.631 2002 1.385 2003 1.324 2004 1.273 Industrie 2002 36.377 manifatturiere 2003 34.640 2004 32.512 2002 819 2003 788 2004 712 2002 13.271 2003 14.127 2004 13.313 2002 41.657 2003 41.428 2004 40.653 2002 10.124 2003 9.886 2004 9.790 2002 4.301 2003 2004 4.469 4.205 Altre industrie Elettricità, gas, acqua Costruzioni SERVIZI di cui G H Commercio Alberghi e ristoranti 38 1.369 31 8 39 1 1.270 20 2 22 1 1.164 44 9 53 1 1.108 37 10 47 - 1.040 25 3 28 - 30.538 767 180 947 40 28.436 736 184 920 35 26.418 525 96 621 20 677 15 4 19 - 652 21 4 25 1 573 16 1 17 - 10.782 463 140 603 30 11.219 542 162 704 25 10.435 381 94 475 24 33.384 1.040 215 1.255 58 32.580 1.041 213 1.254 62 31.934 748 123 871 51 8.366 254 43 297 9 7.957 240 48 288 12 7.856 172 31 203 7 3.512 110 20 130 5 3.531 119 21 140 4 3.342 82 9 91 4 I J K L M N O Trasporti e comunicazioni 2002 8.928 2003 8.747 2004 8.707 Intermediazione 2002 796 finanziaria 2003 641 2004 669 Attività immobiliari e 2002 8.094 servizi alle imprese 2003 7.920 2004 7.671 Pubblica 2002 3.452 Amministrazione 2003 3.546 2004 3.458 2002 525 2003 498 2004 510 2002 2.967 2003 3.055 2004 3.081 2002 2.470 2003 2.666 2004 2.562 2002 92.916 Istruzione Sanità e servizi sociali Altri servizi pubblici INDUSTRIA E SERVIZI 39 7.310 281 66 347 28 7.133 284 75 359 29 7.060 212 47 259 27 500 22 5 27 1 387 23 1 24 2 403 23 2 25 3 6.234 160 44 204 12 6.027 151 40 191 7 5.935 122 21 143 7 2.666 91 17 108 - 2.701 93 6 99 1 2.598 60 3 63 - 301 6 1 7 - 280 6 1 7 - 283 7 - 7 1 2.477 48 3 51 1 2.487 46 6 52 3 2.460 21 2 23 - 2.018 68 16 84 2 2.077 79 15 94 4 1.997 49 8 57 2 76.041 2.314 549 2.863 130 Non determinato IN COMPLESSO 2003 91.719 2004 87.984 2002 33.889 2003 34.070 2004 39.207 2002 126.805 2003 125.789 2004 127.191 73.490 2.367 570 2.937 126 69.996 1.692 322 2.014 96 1.878 38 12 50 4 595 26 8 34 1 2.328 86 18 104 5 77.919 2.352 561 2.913 134 74.085 2.393 578 2.971 127 72.324 1.778 340 2.118 101 Infortuni sul lavoro avvenuti nell'anno 2003 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per settore di attività economica. INDUSTRIA E SERVI Settore di attività economica A+B C DA DB DC DD DE DF DG DH DI DJ DK DL DM DN D E F G Totale 42.657 557 83 3.414 907 358 1.005 948 15 636 1.241 3.593 7.099 6.138 1.473 1.409 1.155 29.391 678 11.948 33.896 8.257 INDUSTRIA Agrindustria e Pesca Estrazione di minerali Industria alimentare Industria tessile e abbigliamento Industria conciaria Industria del legno Industria della carta Industria del petrolio Industria chimica Industria della gomma e plastica Ind lav. minerali non metalliferi Industria dei metalli Industria meccanica Industria macchine elettriche Industria fabbr.mezzi trasporto Altre industrie Industrie manifatturiere Elettricità, gas, acqua Costruzioni SERVIZI Commercio 40 Addetti Indice di Incidenza 762.453 11.209 1.926 63.483 45.720 10.158 14.286 26.019 506 23.307 18.453 52.575 96.454 129.905 48.117 24.612 20.612 574.207 17.183 157.928 815.405 239.717 5,5 4,9 4,3 5,3 1,9 3,5 7,0 3,6 2,9 2,7 6,7 6,8 7,3 4,7 3,0 5,7 5,6 5,1 3,9 7,5 4,1 3,4 H I J K L M N O Alberghi e ristoranti Trasporti e comunicazioni Intermediazione finanziaria Attività immobiliari servizi imprese Pubblica Amministrazione Istruzione Sanità e servizi sociali Altri servizi pubblici INDUSTRIA E SERVIZI Non determinato IN COMPLESSO 3.675 7.521 413 6.225 2.801 287 2.542 2.175 76.553 630 77.183 73.658 71.441 79.722 144.329 87.914 11.551 41.630 65.443 1.577.858 894 1.578.752 4,9 10,5 0,5 4,3 3,1 2,4 6,1 3,3 4,8 70,4 4,8 Infortuni sul lavoro avvenuti nell'anno 2003 denunciati all'INAIL e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per settore di attività economic presentati in ordine decrescente rispetto all’Indice Infortunistico (Numero infortuni denunciati/addetti*100 INDUSTRIA E SERVIZI. Settore di attività economica Non determinato I Trasporti e comunicazioni F Costruzioni DJ Industria dei metalli DD Industria del legno DI Ind lav. minerali non metalliferi DH Industria della gomma e plastica N Sanità e servizi sociali DM Industria fabbr.mezzi trasporto DN Altre industrie DA Industria alimentare H Alberghi e ristoranti A+B Agrindustria e Pesca DK Industria meccanica K Attività immobiliari servizi imprese C Estrazione di minerali E Elettricità, gas, acqua DE Industria della carta DC Industria conciaria G Commercio O Altri servizi pubblici L Pubblica Amministrazione DL Industria macchine elettriche DF Industria del petrolio DG Industria chimica M Istruzione DB Industria tessile e abbigliamento Totale Addetti 630 7.521 11.948 7.099 1.005 3.593 1.241 2.542 1.409 1.155 3.414 3.675 557 6.138 6.225 83 678 948 358 8.257 2.175 2.801 1.473 15 636 287 907 41 894 71.441 157.928 96.454 14.286 52.575 18.453 41.630 24.612 20.612 63.483 73.658 11.209 129.905 144.329 1.926 17.183 26.019 10.158 239.717 65.443 87.914 48.117 506 23.307 11.551 45.720 Indice di Incidenz 70,4 10,5 7,5 7,3 7,0 6,8 6,7 6,1 5,7 5,6 5,3 4,9 4,9 4,7 4,3 4,3 3,9 3,6 3,5 3,4 3,3 3,1 3,0 2,9 2,7 2,4 1,9 J Intermediazione finanziaria INDUSTRIA SERVIZI INDUSTRIA E SERVIZI IN COMPLESSO 413 42.657 33.896 76.553 77.183 79.722 762.453 815.405 1.577.858 1.578.752 0,5 5,5 4,1 4,8 4,8 CONTATTO/AGENTE MATERIALE (VARIABILE ESAW/3) - INFORTUNI SUL LAVORO AVVENUTI NELL'ANNO 2003 E INDENNIZZA Agente materiale del contatto Tota le Contatto Non Con Cadute, Con codificat elettr.,temp Sforzi Con Con urti, agente Incastra o, epsicofi esseri asfissia collision contund menti non ratura, sici viventi i ente determin sostanze ato Strutture edili e superfici Dispositivi di distribuzione 51 17 15 3.493 1.307 161 598 4 2 - 77 60 33 20 - 18 - 66 41 45 21 - 48 1 379 1.213 173 130 1 55 - 228 448 220 64 - 11 - 567 298 286 308 1 6 - 2.634 118 46 116 2 1 - 31 7 2 8 - 277 3 1.508 1.308 625 724 - 213 1 14 6 1 1 - 2 Motori Dispositivi di convogliamento 194 - Utensili Macchine e attrezzature 5.646 191 9 1.954 9 1.024 6 Veicoli terrestri 1.477 23 Altri veicoli 2.945 6 Materiali 55 19 4.464 4 Sostanze 42 240 Attrezzature particolari 3 8 - 199 157 61 99 1 4 - 83 15 16 236 167 2 - 5 13 - 8 - 29 1 2 - 1 - - 32 3 380 178 67 999 15 723 24 9.666 5.169 1.737 3.332 191 528 5 Organismi viventi 526 Rifiuti 1 29 Fenomeni fisici Non codificato, non determinato 1 34 56.202 57.876 56.341 TOTALE 77.183 Infortuni sul lavoro avvenuti nell'anno 2003 e indennizzati a tutto il 30.04.2005 per sede della lesione, tipo di conseguenza e INDUSTRIA E SERVIZI Permanente SEDE DELLA LESIONE Temporanea Morte T in capitale in rendita Totale CRANIO OCCHI FACCIA COLLO CINGOLO TORACICO PARETE TORACICA ORGANI INTERNI COLONNA VERTEBRALE BRACCIO, AVAMBRACCIO GOMITO POLSO MANO CINGOLO PELVICO COSCIA GINOCCHIO GAMBA CAVIGLIA PIEDE ALLUCE ALTRE DITA 2.851 2.639 2.116 3.177 2.987 2.697 110 10.006 2.302 1.495 3.266 21.449 499 772 5.104 1.980 5.143 3.555 703 531 43 115 22 71 39 285 83 5 268 114 76 187 320 50 53 239 141 182 111 7 5 63 30 9 2 26 25 8 65 48 20 29 52 36 38 27 38 21 28 1 - 178 52 80 41 311 108 13 333 162 96 216 372 86 91 266 179 203 139 8 5 72 3 1 17 21 4 2 2 3 1 - ALTRE E INDETERMINATE TOTALE 703 20 12 32 1 74.085 2.393 578 2.971 127 44 Elementi di criticità legate agli infortuni: indagine sui dati infortunistici in Emilia-Romagna per provincia e per settore CARLO BONORA, DAVIDE DAZZI 1 Introduzione Il miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità della vita lavorativa trovano strumento di sostegno nel dialogo sociale nei luoghi di lavoro, nella coesione interna alle imprese, in forme concrete di concertazione, a cui le istituzioni sono chiamate, nella capacità di tutti di capire che il miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità della vita lavorativa sono prerogative indispensabili e irrinunciabili di non solo interesse dei lavoratori (che subiscono l’infortunio) ma anche dell’impresa e, più in generale della società. Gli infortuni sul lavoro sono causa prima di costi sociali rilevantissimi e, da parte di tutti, dichiaratamente insostenibili ma anche di costi economici che creano gravi difficoltà all’impresa, sul lato della competitività e dell’immagine. Un contributo indispensabile per affrontare in positivo il grave e irrisolto problema degli infortuni può essere dato dall’attività di monitoraggio, quando questa assume aspetti relazionali con l’impresa e con i lavoratori che la valorizzano in senso positivo, ricavandone motivi di miglioramento dell’organizzazione. E’ necessaria una attenta e continua analisi su ciò che avviene nei luoghi di lavoro, su come sono organizzati il lavoro e la produzione e sul pressing causato alle imprese e quindi ai lavoratori da tutto ciò che è espressione tecnica, tecnologica e socioeconomica nell’attuale Società (definita da politici, sociologi ed economisti, Società dell’Informazione e della Comunicazione - Information Society). Tutto ciò può consentire di intervenire, anche in maniera preventiva, per procedere sistematicamente alla risoluzione delle problematiche insite nella gestione della sicurezza negli ambienti lavorativi. Occorre 45 cioè rigenerare quelle mentalità innovative, legate alla salute e alla sicurezza negli ambienti di lavoro, animate da codici sociali, etici e politici orientati alla prevalenza della “dignità” dell’uomo, nella sua integrità psico/fisica, su tutti i parametri regolatori dell’economia. D’altra parte, occorre “attrezzare” il lavoro di sensibilità soggettiva. L’evento incidentale coinvolge il singolo o poche persone; quando esso si verifica colpisce il soggetto o poche persone insieme, se non in casi eccezionali. E’ importante allora cercare di capire che cosa avviene nel lavoratore/lavoratrice di fronte all’evidenza del rischio, nei luoghi di lavoro. Certamente l’ambiente operativo pone, nelle condizioni in cui si lavora, un problema collettivo che sovrasta l’individuo. Occorre però che si crei, tra i lavoratori, la sensibilità necessaria per gestire il loro diritto a luoghi di lavoro organizzati, per garantire condizioni di lavoro sicure. Il principio dell’integrità psicofisica del lavoratore ingiunge agli operatori della sicurezza (siano essi rappresentanti delle parti sociali o operatori istituzionali o comunque “intermediari”) di adoperarsi, in qualità di mediatori culturali, per far emergere i principi culturali e scientifici su cui si basano i fattori della prevenzione; attraverso tale intermediazione culturale si può far crescere la responsabilità dei lavoratori verso se stessi, non tanto per spostare l’attenzione verso la cosiddetta correzione dell’errore umano ma nel controllo di come il lavoro è organizzato e nella richiesta ininterrotta di più benessere nell’ambiente lavorativo e nell’ambiente circostante. L’Istituto per il Lavoro ha dimostrato che, coinvolgendo i lavoratori e le loro rappresentanze, è possibile creare la coscienza del diritto alla salubrità nel lavoro e far emergere tra essi la coscienza di sé, percependo il rischio attraverso una analisi soggettiva di dove si è e di come si lavora (le condizioni di lavoro come fattore dipendente dell’organizzazione del lavoro). 2 Salute e Sicurezza nel Lavoro: un sguardo allargato Prima di addentrarci ad esplorare i dati e le statistiche degli incidenti sul lavoro, con particolare attenzione alla situazione della Regione, è 46 utile allargare lo sguardo verso le dimensioni europea e nazionale per avere un termine di paragone e capire quali siano le tendenze attualmente in atto. E’ comunque necessario porre attenzione al fatto che la complessità di una rilevazione omogenea a livello europeo sugli andamenti infortunistici e sulla malattie professionali permette di avvalerci di dati che comunque sono approssimativi, essendo derivati da denunce di infortunio e dal riconoscimento del danno subito, sulla base di differenti e, a volte divergenti, regolazioni in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro, negli Stati membri. 1. Lavoro e sicurezza nell’Unione Europea “La strategia per la salute e la sicurezza in Europa deve evolversi con i tempi. È inaccettabile che nell’Unione Europea ci siano ancora tassi di incidenti, anche mortali, così elevati. Senza contare che le nuove modalità occupazionali hanno creato nuove tipologie di rischi sul posto di lavoro, quali l’aggressività e lo stress”. La situazione era (2000) e permane grave. Anche se il tasso degli incidenti sul lavoro in Europa si è ridotto di quasi il 10 per cento tra il ’94 e il ’98, le cifre assolute restano elevatissime e inaccettabili: i morti, nel quadriennio in considerazione, sono stati 5.500 e 4 milioni e 800.000 gli incidenti con referti di oltre tre giorni, quindi con danni sociali ed economici di estrema gravità. Come se ciò non bastasse, dal 1999 viene registrata un’inquietante ripresa nell’aumento degli infortuni in alcuni paesi membri e particolarmente nei settori industriali. La situazione si presenta ancora peggiore nei paesi candidati, soprattutto in ragione della loro maggiore specializzazione occupazionale nei comparti tradizionalmente considerati ad alto rischio (industria estrattiva ed edilizia, ma anche nelle attività manifatturiere e in agricoltura). Con l’attuazione dell’allargamento e con la graduale assunzione delle direttive europee da parte dei paesi entrati la situazione europea, per ciò che riguarda la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, tende inevitabilmente a peggiorare . La preoccupazione aumenta se ci si riferisce alla piccole e medie imprese: è il caso delle costruzioni, in cui gli incidenti sono superiori 47 del 40 per cento rispetto alla media degli altri settori e dove la forbice sale al 124 per cento nell’ambito delle piccolissime aziende e addirittura al 130 tra le piccole. A rendere ancora più complicate le cose è il nuovo scenario sociale ed economico: i cambiamenti nella società e nel mondo del lavoro introducono nuove dimensioni nella problematica della salute e sicurezza. La femminilizzazione crescente della forza lavoro, se produce generalmente tassi di incidenti o malattie professionali inferiori a quelli maschili, in ragione della prevalente collocazione nel settore del terziario (83 per cento), presenta per altri versi inquietanti dinamiche in alcuni gruppi di patologie: le allergie (per il 45 per cento), le malattie infettive (61 per cento), i disturbi neurologici (48 per cento). Egualmente, l’invecchiamento della popolazione attiva comporta per i lavoratori al di sopra dei 55 anni tassi di incidenti mortali assai superiori a quelli della media degli occupati. Per non dire dei cambiamenti nelle tipologie occupazionali e di lavoro, che con il crescere degli impieghi e degli orari atipici, enfatizzano fortemente i fattori di rischio, gli incidenti e le alterazioni psicosomatiche legate al lavoro a turni e notturno. Ma sono gli stessi rischi che stanno cambiando: accanto a quelli di tipo “tradizionale”, si affermano sempre più quelli legati ad una società e ad una economia che si globalizza e deve gestite la competitività a livello mondiale, dallo stress all’ansietà da ritmi o da intimidazioni (violenze che si scaricano sempre più sulla psiche dell’uomo), che sembra tocchino ormai da soli circa il 18% dei fattori di rischio in generale. È in questo complesso e per nulla confortante contesto che la Commissione ha elaborato e lanciato la nuova strategia per la salute e la sicurezza, che viene affermata nel quadro di quella più generale strategia di Lisbona, che fa della “qualità delle condizioni di lavoro e della vita lavorativa” uno dei suoi paradigmi. Quali sono gli assi d’intervento delineati e da realizzarsi entro il 2006? L’elaborazione europea insiste su un triplice approccio: il “benessere” complessivo del lavoro, raccogliendo le indicazioni dell’ ILO; con l’emergere di nuovi rischi, il consolidamento di una cultura della prevenzione, da attuare attraverso una pluralità di strumenti (legislazione, dialogo sociale, strumenti di coesione sociale, buone prassi, ecc.); e. infine, la realizzazione di appositi partenariati tra tutti 48 gli attori politici ed operativi impegnati nella salute e sicurezza, coinvolgendo con grande enfasi il territorio (patti territoriali per la salute). La strategia formulata dalla Commissione è coerente con il cosiddetto “processo di Lisbona”: il presupposto di fondo è relativo ad una politica sociale ambiziosa orientata a valorizzare tutti i fattori di competitività economica: la “qualità del lavoro” è uno di questi. Il riferimento è l’articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali. In esso si afferma che ogni lavoratore ha diritto “a condizioni di lavoro che rispettino la sua salute, sicurezza e dignità”; tale diritto diventa sempre più il riferimento generale per ogni strategia europea, mentre un atteggiamento passivo per ciò che riguarda salute e sicurezza nei luoghi di lavoro genera pesanti costi per l’economia e la società. La Strategia Comunitaria per la Salute e Sicurezza (2002-2006) è progettata per rendere più agevole l'applicazione della legislazione esistente in materia di salute e sicurezza sul lavoro e a promuovere nuove iniziative significative nel periodo preso in esame. Muovendo da preoccupate considerazioni sulla situazione attuale, la Commissione richiama le tre esigenze da soddisfare per garantire un ambiente di lavoro sicuro e sano: · il consolidamento della cultura della prevenzione dei rischi attraverso una valorizzazione e potenziamento della istruzione e formazione e la sensibilizzazione verso i datori di lavoro e attraverso azioni preventive rispetto a rischi nuovi ed emergenti · la migliore applicazione del diritto esistente. “A tal fine la Commissione elaborerà, in concertazione con le parti sociali, delle guide d'applicazione delle direttive che terranno conto della diversità dei settori d'attività e delle imprese. Inoltre la Commissione svilupperà azioni miranti a favorire, grazie a una stretta collaborazione tra le autorità nazionali, un'attuazione corretta ed uniforme delle direttive; in tal senso, si dovranno incoraggiare l'elaborazione di obiettivi comuni di ispezione e la costruzione di metodi comuni di valutazione dei sistemi nazionali d'ispezione. Per 49 di più i controlli esercitati dai servizi d'ispezione degli Stati membri devono portare a sanzioni omogenee, che siano a un tempo dissuasive, proporzionate e applicate effettivamente”. · l'impostazione globale «del benessere sul lavoro» inteso nella sua accezione fisica, morale e sociale e che “non può essere misurato soltanto dall’assenza di infortuni o di malattie professionali” Come si può evincere dalla riflessione precedente le considerazioni sullo stato della salute e della sicurezza nel lavoro vanno di pari passo con ciò che sta accadendo nel Mercato del Lavoro europeo. In Europa si registrano, nel 2002 circa 160 milioni di lavoratori; la maggioranza di essi e di sesso maschile (il 57%) mentre l’occupazione femminile è attestata intorno al 43%. In particolare la “forza lavoro” femminile risente, più degli uomini, dei periodi di crisi per cui l’occupazione delle donne è connotata della “flessibilità”, in questo caso da intendersi come “via vai” nel Mercato del lavoro. Inoltre la partecipazione al mercato del lavoro evidenzia alcune caratteristiche, riscontrabili in quasi tutti gli Stati membri “storici” dell’Unione: - l’invecchiamento delle popolazione; - la “flessibilizzazione” del lavoro, particolarmente per i giovani; - il fenomeno dell’immigrazione. Tali caratteristiche hanno un fattore comune, quello del “genere”: uomini e donne, considerati come “forza lavoro” invecchiano, se giovani sono “flessibilizzati” e sono presenti come immigrati. Il problema che la stessa Unione pone, attraverso le “Strategie per l’Occupazione” (SEO), è che si è ancora ben lontani dalla parità di opportunità, sia nell’avere un lavoro, nel lavoro e nella fruizione dei diritti. Il “deficit” di parità nel lavoro ha delle ripercussioni sulla salute della donna e sul benessere psico-sociale. Nel periodo 1995-2002, il numero di persone al lavoro è aumentato di circa 0.36 milioni nella fascia di età compresa tra i 15-24, mentre è aumentata di più (2.38 milioni) nella fascia di età compresa tra i 55-64. 50 Tra le caratteristiche più sopra enumerate, comune tra tutti gli Stati membri, è l’inarrestabile flessibilizzazione delle forme contrattuali di lavoro; dai dati ufficiali, elaborati da EUROSTAT, si può evincere che nel periodo 1994-2001, il numero di lavoratori assunti con contratti a tempo determinato è cresciuto del 29% contro un contenuto aumento del 9% dei lavoratori assunti a tempo indeterminato. La frammentazione “a tempo” dell’iter lavorativo che lo rende transitorio, anche come “luogo” tecnologico organizzato, impone una riflessione su quali possano essere le conseguenze in termini di sicurezza sul luogo di lavoro. Una progressiva e continua interruzione del processo di assimilazione delle procedure comportamentali , formali ed informali, volte ad evitare le situazioni di rischio proprie di una produzione o di una tipologia lavorativa sottrae, al lavoratore, la possibilità di dotarsi della necessaria conoscenza per la tutela della qualità della propria vita lavorativa. Qui non si sta discutendo dell’utilizzo della “dotazione individuale antinfortunistica” ma di capacità autoregolativa di dominare l’evento “lavoro” che si può acquisire solamente attraverso una prospettiva di continuità tra il “fare” e l’ “essere in situazione”, e, tra l’altro, in ambito sociale solidale e coeso con altri lavoratori più esperti . In quest’ambito, appena accennato, è comunque possibile capire, interpretandole, le risultanze di alcune elaborazione statistiche relative alle condizioni di lavoro. Secondo il “Third European Survey of Working Conditions” il 29% dei lavoratori dell’Unione Europea considera “soddisfacente” le proprie condizioni di lavoro ed il 55% “abbastanza soddisfacente” ed allo stesso tempo il 28% ritiene che il proprio stato di salute sia stato compromesso dal lavoro. Dunque, una parte non trascurabile ( il 16% della popolazione occupata) lavora in condizioni di sicurezza non soddisfacenti. Se questa percentuale si affianca con la percentuale di lavoratori che afferma che il lavoro ha compromesso il loro stato di salute, emerge l’urgenza di un intervento in maniera coordinata a livello micro e macro e quindi sia sul piano europeo che sul piano nazionale, regionale e locale. Al contrario se il terzo della forza lavoro che reputa la propria salute compromessa dal lavoro corrisponde a coloro che 51 sostanzialmente valutano positivamente le proprie condizioni di lavoro, le conclusioni sono diverse ma ancor più preoccupanti. La mancanza di sicurezza e il danneggiamento del proprio stato di salute sono elementi percepiti come connaturati alla attività di lavoro: chi lavora in condizioni precarie e/o usuranti è soggetto ad un processo psicologico che porta ad una accettazione rassegnata della condizione lavorativa. Il rischio dietro questa possibile interpretazione è la difficoltosa diffusione di una cultura della sicurezza che abbia la necessaria caratteristica della “pervasività”. Sempre in base ai dati sulla percezione dei lavoratori emersi dalla indagine, di cui sopra, il 44% dei giorni di assenza per malattia sono da imputare ad incidenti sul lavoro (17%) o a problemi di salute derivanti dalla attività lavorativa (27%). Le percentuali relative ai giorni di assenza per infortunio sul lavoro sono destinate a salire rapidamente qualora si considerino settori produttivi altamente a rischio, quali l’agricoltura e le costruzioni (30%). Questo significa che su tutto il territorio dell’Unione Europea , ogni anno 210 milioni di giorni sono persi a causa di infortuni sul lavoro e 340 milioni per motivi di salute in qualche modo riconducibili al lavoro. Le cifre e gli ineluttabili costi sociali che da queste derivano, inducono le istituzioni, le aziende e le organizzazioni di lavoro ad una attenta analisi del sistema salute e sicurezza così come strutturato attualmente. Sempre a proposito della evoluzione percettiva dei lavoratori rispetto alle proprie condizioni di lavoro, è di sicuro interesse l’indagine quinquennale condotta nel 2000 dalla Fondazione di Dublino. Tra i mali più diffusi, il mal di schiena viene menzionato nel 33% dei casi, lo stress nel 28%, i dolori muscolari nel 23% ed l’affaticamento complessivo nel 23%. Le modalità di lavoro si stanno progressivamente intensificando tant’è che il 50% degli interessati dice di lavorare a ritmi elevati ed in tempi stretti per almeno un quarto d’ora del proprio orario ed allo stesso tempo si riduce la capacità di controllo sulla propria attività: un terzo afferma di non avere nessun controllo sul proprio lavoro, soltanto i tre/quinti dicono di essere liberi di decidere quando prendere le ferie ed il ritmo di lavoro dipende sempre più dalle richieste dei clienti. 52 L’indagine mette in risalto: - la relazione esistente tra cattive condizioni di salute e difficoltose condizioni di lavoro derivanti soprattutto da un alto grado di ripetitività e di intensità lavorativa; - la generale flessibilizzazione dell’orario di lavoro, dell’organizzazione del lavoro, della condizione occupazionale - l’insistenza con cui i lavoratori cosiddetti “atipici” segnalano una maggiore esposizione al rischio rispetto alla categoria dei “tipici” - un preoccupante aumento di violenza, molestie sessuali ed intimidazioni (in vari paesi si registra una percentuale di lavoratori variabile tra il 4% ed il 15% che afferma di essere stato soggetto ad intimidazioni). Secondo le statistiche europee degli infortuni sul lavoro (ESAW) nel corso del 2001 all’interno dell’Unione Europea (EU-15), si sono registrati 4,7 milioni di infortuni sul lavoro che hanno causato più di tre giorni di assenza. Se a questi si aggiungono anche quegli infortuni che non hanno comportato giorni di assenza o comunque meno di tre giorni di assenza, il numero di infortuni sale a 7,6 milioni. Nel contempo, sempre nel medesimo anno, vi sono stati 4.900 incidenti mortali. Espresso in altre cifre, in Europa un lavoratore è vittima di un incidente ogni 5 secondi e ogni due ore muore per un incidente da lavoro. Tabella 1 – Variazione annua degli infortuni nei Paesi membri dell’Unione Europea nel periodo 1994-2001 (variazione percentuale rispetto all’anno precedente) STATI MEMBRI 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 UE - 15 UE - 12 Belgio Danimarca (*) Germania Grecia Spagna Francia Irlanda (*) Italia -2% -1% 19 % 4% -5 % -6 % 10 % 1% 12 % -5 % -1% -2% -12% 4% -6 % 7% 4% -2 % 16% 3% -3% -2% -3% 21 % -3 % -5 % 1% 0% 14% -6 % 1% 1% 6% 0% -2% -8 % 16 % 0% 0% 1% 2% 2% 1% 4% -1 % -13% 6% 6% -6 % 2% 1% 1% -7% -7 % -4% -6% 7% 4% -18 % 1% -2% -3% -2% 6% -8 % 1% 4% -1 % 134% -3% 53 Lussemburgo Olanda (*) Austria Portogallo Finlandia Svezia (*) Gran Bretagna (*) 0% 0% 5% -7% 6% -14% -10% -2 % 0% -9% 0% -7 % 28% 8% 1% 0% -29% 4% 6% -29 % -2 % 4% 0% -5% -8 % 4% 28% 0% 5% 13% 1% -5% -0 % 10% 3% 4% 2% -7% 8% -1 % 4% -1 % 8% -10 % -10% 3% 0% 8% 3% (*) Paesi in cui i dati non provengono dal sistema assicurativo e presentano alti livelli di sottodenuncia Nonostante negli ultimi anni del periodo considerato (1994-2001), si sia verificato una sensibile diminuzione del numero degli infortuni, la gravità della situazione non consente un abbassamento della attenzione. Infatti oltre al persistere di importanti e tragici eventi infortunistici, le nuove modalità occupazionali hanno creato nuove tipologie di rischi sul posto di lavoro, tra cui lo stress, l’ansia e l’irritabilità. La trasformazione dell’attività lavorativa e una competizione globale hanno spinto a riflettere non solo sulle ricadute sul lavoratore inteso nella sua fisicità ma anche sui determinanti sociali che inducono ad una alterazione psico-sociale dello stesso. Si viene quindi a creare una disarmonia fra il lavoratore e il lavoro e uno scollamento netto tra il ruolo lavorativo e ruolo sociale rendendo difficoltoso il controllo sulla proprie azioni. Si ha quindi l’insorgere di situazioni stressogene. Secondo l’indagine condotta dalla Fondazione di Dublino nel 2000, come già ricordato, il 28% dei lavoratori inserisce lo stress tra i più comuni problemi di salute legati al lavoro. Lo stress è un problema che interessa non solo i lavoratori ma infierisce similmente anche sui datori di lavoro. È proprio per questa sua trasversalità che l’8 ottobre 2004 le quattro più grandi organizzazioni europee dei lavoratori ed imprenditori hanno firmato a Bruxelles un accordo finalizzato alla lotta contro lo stress. Anticipando la comunicazione della Commissione, le Parti Sociali Europee sono così riuscite a inserire lo stress nel programma di lavoro del Dialogo Sociale 2003-2005. L’accordo ha il pregio di puntare su misure preventive e di definire lo stress come un disagio 54 psico-sociale non vincolato ad una particolare area lavorativa ma estendibile a qualsiasi modalità e posizione di lavoro. Già nel 1999, in tutti i paesi membri della Unione Europea (EU-15) fu riscontrata una consistente diffusione dello stress e delle sue negative ripercussioni ambientali, economiche e sanitarie. Si è infatti calcolato che in quegli anni il fenomeno riguardava circa 40 milioni di lavoratori e comportava costi per circa 20 miliardi di euro all’anno. Al fine di soddisfare queste condizioni, la strategia comunitaria propone innanzitutto un adeguamento del quadro giuridico, un incoraggiamento degli strumenti per l’attuazione di un reale miglioramento delle condizioni di lavoro (elaborazione di pratiche migliori, dialogo sociale, responsabilità sociale delle imprese) e, infine, l’integrazione delle problematiche relative alla salute e sicurezza sul luogo di lavoro in altre politiche comunitarie, costituendo quindi un approccio sistemico integrato. 1 Stato dell’arte a livello nazionale Prendendo come fonte di riferimento i dati INAIL relativi all’anno 2003, risulta che gli infortuni sul lavoro denunciati sono 977.803, di cui 881.676 infortuni avvenuti nell’Industria e Servizi, 71.098 in Agricoltura e 25.029 tra i Dipendenti di Stato. Rispetto all’anno 2002 si registra una significativa contrazione degli infortuni soprattutto per quanto riguarda il settore agricolo: una riduzione dell’1,5% nell’Industria e Servizi e del 3,5% in Agricoltura, al contrario si riscontra un incremento del 2,1% per i Dipendenti dello Stato. Il dato acquisisce ancor maggior positività se rapportato con il tasso di crescita occupazionale registrato dal 2002-2003, pari all’1%. Per quanto riguarda invece gli incidenti mortali i dati rilevano una diminuzione di 87 casi denunciati rispetto al 2002 per un totale di 1.394, di cui 1.263 nell’area Industria e Servizi, 120 dell’Agricoltura ed 11 dei Dipendenti dello Stato. La diminuzione è sicuramente degna di nota ma riguarda principalmente gli uomini, per cui si registra una flessione dell’8,3%, mentre il genere femminile sembra non incidere in modo significativo ottenendo un calo dell’1,6%. 55 Sicuramente i dati non permettono di tirare un “respiro di sollievo” in quanto l’alta incidenza della mortalità sul lavoro non lascia spazio ad una rilassatezza diffusa. Mettendo, infatti, i morti sull’asse temporale si evince che ogni giorno continuano a morire circa 4 lavoratori: un costo ancora troppo alto per una società civile. Il 2003 rappresenta, inoltre, un punto di svolta anche per l’andamento degli incidenti in itinere (casa-lavoro-casa). Dalla approvazione del D.lgs. n. 38/2000, che ne sanciva l’indennizzabilità, si era notata una inevitabile crescita fino, per l’appunto, 2003, anno in cui si è registrata una inversione di tendenza. Il risparmio di vite umane è da attribuire, almeno in parte, agli effetti derivanti dalle nuove disposizioni normative in tema di circolazione stradale e, in particolare, dall’introduzione della cosiddetta “patente a punti”. Come lo stesso Istituto INAIL sostiene, perché si possa affermare con assoluta certezza di essere di fronte ad una reale e continuativo abbassamento degli incidenti mortali in itinere è necessario confrontarne il trend in un periodo temporale più dilatato. La sensibilità e la suscettibilità della natura del dato impongono, quindi, di mantenere un cauto ottimismo. Tabella 2- Infortuni sul lavoro denunciati all’INAIL nel periodo 2002-2003 Gestione Industria e servizi · di cui in itinere Agricoltura · di cui in itinere Dipendenti Conto Stato · di cui in itinere Totale infortuni · di cui in itinere Fonte: INAIL 2002 894.667 67.756 73.670 1.126 2003 Variazione % 881.676 -1.5% 69.683 2.8% 71.098 -3.5% 1.161 3.1% 24.503 2.261 25.029 2.768 2.1% 22.4% 992.840 71143 977.803 73.612 -1.5% 3.5% G ne Rispetto ad una logica di genere, il calo degli infortuni risulta decisamente più marcato per gli uomini (-1,8%) che per le donne (-0,5%). Questi dati devono comunque essere rapportati alla 56 dinamiche occupazionali di genere che nel 2003 hanno visto la componente femminile crescere ad un tasso dell’1,6%, ossia ad una velocità doppia rispetto alla componente maschile (0,75%). In rapporto alla crescita occupazionale femminile nell’industria e servizi nel periodo 1998-2002, 13,4%, si riscontra una crescita degli infortuni pari a 21,9%, chiaro segnale che le donne sono impiegate in attività lavorative a rischio. Introducendo una ripartizione degli infortuni per classi di età, emerge con chiarezza come la classe di lavoratori relativamente più giovane, e quindi teoricamente meno esperta professionalmente, presenti la flessione più consistente nell’area Industria e Servizi. Se da una parte questo dato risulta in qualche modo di difficile interpretazione in quanto non si attua una scomposizione tra infortuni in Industria e infortuni in Servizi, dove le tipologie di lavoro implicano elementi di rischiosità assai distanti tra loro, alcune ipotesi possono essere azzardate. L’attività formativa ed informativa volta alla diffusione della cultura della sicurezza e della prevenzione ha attecchito con maggior successo per quelle figure lavorative professionalmente ancora malleabili e adattabili. Meno efficace appare invece l’intervento su quelle figure la cui professionalità lavorativa si è forgiata principalmente in un contesto di cultura della produzione. Su tutto il territorio nazionale si riscontra nel 2004 una sostanziale contrazione degli infortuni denunciati INAIL ed in particolare nel Centro Italia, per quanto riguarda l’attività economica Industria e Servizi, ed il Nord Ovest, per l’Agricoltura. Nell’area geografica Nord Est e Isole la diminuzione degli infortuni presenta dei valori sotto la media nazionale. 2002 2003 Assoluta % Gestione Tabella 3- Ripartizione geografica degli infortuni 2003-2004 Ripartizione geografica Nord Ovest Industria e Servizi Agricoltura Nord Est Industria e Servizi Agricoltura 2003 273.013 259.419 13.594 317.274 296.235 21.039 2004 267.737 255.021 12.716 313.407 293.050 20.357 57 Variazione Assoluta -5.276 -4.398 -878 -3.867 -3.185 -682 % -1,9 -1,7 -6,5 -1,2 -1,1 -3,2 Centro Industria e Servizi Agricoltura Sud Industria e Servizi Agricoltura Isole Industria e Servizi Agricoltura Italia 187.715 173.132 14.583 124.585 108.982 15603 49.635 43.170 6465 952.222 183.439 169.063 14.376 122.535 107.664 14871 50.042 43.716 6326 -4.276 -4.069 -207 -2.050 -1.318 -732 407 546 -139 -2,3 -2,4 -1,4 -1,6 -1,2 -4,7 0,8 1,3 -2,15 937.160 -15.062 -1,6 Per il 2004 il dato è stimato Fonte INAIL Qualora si voglia, in una logica comparativa, depurare il dato da possibili contaminazioni dettate dalle diverse dinamiche occupazionali territoriali, è possibile prendere a riferimento gli indici di frequenza ossia indicatori di rischio costruiti sul rapporto tra infortuni indennizzati ed il numero di addetti, rilevati secondo i criteri statistici INAIL. Le regioni italiane che presentano il più elevato indice di frequenza sono l’Umbria con un valore superiore del 42,7% della media nazionale, Marche con il 33,4%, Friuli Venezia Giulia con il 31,1% ed Emilia Romagna con il 30,6%. Una lettura decontestualizzata dei dati potrebbe portare a delle conclusioni devianti se non addirittura paradossali. Innanzi tutto maggiore attenzione dovrebbe essere posta alle tipologie produttive prevalenti nelle diverse regioni ed alla struttura occupazionale (femminilizzazione, composizione in termini di Industria e Servizi ed Agricoltura). Altro elemento che dovrebbe essere tenuto in alta considerazione è l’incidenza dell’evasione dell’obbligo di denuncia degli infortuni riconducibile, più o meno direttamente, al lavoro sommerso e al contesto delle Piccole e Medie imprese. Per quanto riguarda il primo punto è inevitabile che al crescere dell’irregolarità del lavoro, passata tra il 2001 e 2003 dal 15,8% al 19,3%, crescano proporzionalmente anche le mancate segnalazioni di infortunio. Rispetto all’evasione di denunce nelle Pmi occorre introdurre alcune considerazioni di carattere esplicativo. Nel nostro territorio, come è ormai noto, le Pmi e soprattutto le aziende con meno di 10 58 dipendenti rappresentano una larga percentuale del tessuto produttivo. Secondo la normativa italiana, nelle imprese con meno di 10 dipendenti, proprio per la loro natura, la valutazione dei rischi deve essere auto-certificata, sottraendosi quindi all’obbligo di redazione di un documento apposito. In un contesto europeo le ricerche empiriche e le elaborazioni statistiche rilevano una relazione inversamente proporzionale tra la dimensione aziendale e il numero di infortuni. Ossia al crescere della dimensione e quindi della strutturazione aziendale decresce il numero di infortuni. Tale relazione si giustifica sostanzialmente per tre fattori: - le aziende più strutturate presentano forme partecipative e di controllo più stringenti che impongono il rispetto di determinate procedure formative ed informative volte alla diffusione della cultura della sicurezza - nelle aziende più piccole la maggior parte del personale è direttamente coinvolto nella lavorazione cosiddetta “sul campo”, mentre nelle grandi imprese una consistente percentuale di lavoratori è impiegato negli uffici - le grandi imprese tendono ad esternalizzare molte delle loro attività ritenute più rischiose Questa relazione si evidenzia anche nel caso italiano ad eccezione delle aziende con meno di 15 dipendenti. Osservando la tabella successiva si evince come i dati statistici relativi alle aziende con classi di addetti 0-15 sfuggano alla proporzionalità inversa intercorrente tra frequenza relativa di infortunio e dimensione aziendale. Tabella 4: Frequenze relative di infortunio nelle aziende non artigiane monolocalizzate e per classi di addetti 1-15 16-30 Classi di addetti 31-100 101-250 Oltre 250 Totale 36,07 46,83 47,571 30,65 38,75 45,98 Fonte: INAIL 59 Se ne evince che probabilmente in un contesto lavorativo ancora fortemente radicato più su una cultura “del fare” che “del benessere”, dove il rapporto di lavoro si risolve in un contatto umano diretto tra lavoratore e datore di lavoro vi sia la tendenza a preferire soluzioni informali a procedure formalizzate. Scorporando ulteriormente i dati nazionali in funzione del settore di appartenenza si creano le condizioni per analisi più approfondite. Il contenimento degli infortuni appare più marcato nell’Industria (-6,8%) che nei servizi (-3,4%). Appare comunque opportuno sottolineare la diversa crescita occupazionale che ha interessato l’industria in senso stretto (0,5%) e i servizi (1,1%) nel 2003. L’industria manifatturiera è il contesto lavorativo all’interno del quale si registra il più significativo calo di infortuni denunciati, in particolar modo nel tessile e nel metalmeccanico. Risultati positivi si registrano anche nel settore dei trasporti. Nella industria, le attività economiche maggiormente a rischio infortunio risultano essere l’industria dei metalli (59.946 nel 2003), l’industria meccanica (32.218), l’industria alimentare (20.039) e l’industria e lavorazione minerali non metalliferi (16.914). Nonostante una lieve flessione del 2,4% negli anni 2002-2003, il settore delle costruzioni rimane quello con il più elevato numero di infortuni in valore assoluto: nel 2003 si sono registrati 103.237 infortuni solo nel settore delle costruzioni contro i 229.747 di tutto il comparto manifatturiero. È da sottolineare comunque che il settore delle costruzione risulta tra i più dinamici avendo uno spessore del volume occupazionale di settore lievitato nel 2003 del 3,5%. Per quanto invece compete l’area dei servizi, gli infortuni si concentrano soprattutto in tre attività economiche: commercio (73.483), trasporti e comunicazioni (65.572) e attività immobiliari e professionali (57.565). Staticità degli infortuni La relativa positività dei dati INAIL, che testimoniano una sostenuta attenuazione degli infortuni, perché trovino una veridicità comprovata devono essere collocati in una dimensione temporale. Comparando i dati sugli infortuni registrati all’INAIL, si nota come 60 gli infortuni nel periodo considerato non siano diminuiti in modo significativo, nonostante l’applicazione del d.lgs. 626. Figura 1 – Infortuni Inail in Italia 1998-2003. Fonte: Rapporti Inail 2001 2002- Comunicato stampa Inail (6 marzo 2004) per le statistiche sugli anni 2002 e 2003 Se si prende infatti come contesto di riferimento il quinquennio 1998-2003, si evidenzia una sostanziale fissità delle frequenze assolute degli incidenti, con una trend crescente nell’intervallo 1998-2001 ed un decremento considerevole solo nel 2002 (4%). Come le stesse cifre mostrano, la variazione assoluta tra l’anno 1998 e l’anno 2003 è rimasta pressoché immutata e nell’area Industria e Servizi è addirittura peggiorata. Le flessioni più marcate risultano essere quelle nell’area statale. 61 Tabella 5- Andamento degli Infortuni in Italia per attività economica. Rapporti Inail 2001 2002- Comunicato stampa Inail (6 marzo 2004) per le statistiche sugli anni 2002 e 2003 1998 Totale Variazione annua (%) Agricoltura Variazione annua (%) Industria e servizi Variazione annua (%) Conto Stato Variazione annua (%) 1999 2000 2001 2002 2003 997.914 1.010.777 1.022.693 1.034.026 992.868 951.834 96.904 1,3% 1,2% 1,1% -4,0% -4,1% 90.872 85.345 80.637 73.620 70.656 -6,2% -6,1% -5,5% -8,7% -4,0% 866.052 893.523 907.017 923.743 895.233 881.178 34.958 3,2% 1,5% 1,8% -3,1% -1,6% 26.382 30.331 29.646 24.015 n.b. -24,5% 15,0% -2,3% -19,0% n.b. Anche per gli incidenti mortali il trend calante non sembra essere molto convincente, segnale che i risultati conseguiti non sono il prodotto di interventi strutturali ma piuttosto il risultato di azioni contingenti (vedi figura 2). Figura 2: Andamento degli Incidenti mortali in Italia nel periodo 1998-2003 L’evento infortunistico e soprattutto l’incidente mortale rappresentano, come la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità definisce”, “il risultato del fallimento dell’organizzazione sociale e tecnica del lavoro”. La permanenza di un’alta incidenza degli infortuni è sintomo di una organizzazione del lavoro impreparata ad accogliere al suo interno la cultura della sicurezza e della prevenzione e di una strategia aziendale incentrata ancora su percorsi “low road” dove le politiche di costo continuano ad avere un ruolo di primo piano. Ma le statistiche e le conseguenti riflessioni e rielaborazioni sono inconfutabili. L’evento infortunistico, oltre a rappresentare un costo umano per chi lo subisce, costituisce un costo sociale per l’azienda e per l’intera collettività. Secondo i dati forniti dalla Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, le condizioni di lavoro scadenti e una mancata o non adeguata considerazione della salute e sicurezza come investimento strategico di lungo periodo hanno un impatto negativo sull’economia, che si traduce ogni anno in una perdita di circa 62 2,6%-3,8% del PIL. Anche in una logica di redditività la sicurezza sul lavoro dovrebbe quindi ritornare a giocare un ruolo di primo piano. Malattie professionali La rilevazione dei dati relativi alle malattie professionali mostrano sostanzialmente una stasi negli ultimi anni. A partire dal 1999 fino ad arrivare al 2003 l’andamento non presenta variazione particolari ad eccezione di un significativo incremento nel 2001, ossia il periodo immediatamente successivo all’introduzione del D.lgs.38/2000. Il periodo oggetto della nostra comparazione temporale si inserisce in una tendenza già avviata negli anni precedenti in cui si registra il costante aumento delle malattie non tabellate e il progressivo calo delle malattie tabellate. Questo impone una rivisitazione delle liste di malattie professionali, le cosiddette “”tabellate”, aggiornando le definizioni legislative alle mutate sofferenze dei lavoratori. Tabella 6 – Malattie professionali manifestatesi nel periodo 1999-2003 1999 2000 2001 2002 2003 Industria e servizi 24094 24776 27133 25328 23231 tabellate non tabellate indeterminate Agricoltura tabellate non tabellate indeterminate Totale 10467 13555 72 949 340 603 6 25043 9858 14492 426 941 301 630 10 25717 9523 16217 1393 958 191 727 40 28091 7287 14115 3926 999 189 687 123 26327 4991 12137 6103 1030 136 640 254 24261 Tra le malattie professionali tabellate più diffuse troviamo nuovamente la presenza e l’incremento di neoplasie da asbesto passati da 374 nel 1999 a 480 nel 2003 nell’area Industria e Servizi ed ancora di un consistente incremento di tendiniti arrivate nel 2003 alla soglia di 777 casi. L’ipoacusia continua a primeggiare sia nell’attività agricola che nell’area Industria e Servizi. Negli ultimi anni le malattie direttamente riconducili ad una intensificazione 63 dell’attività lavorativa, ossia i dolori muscolo scheletrici, sembrano essersi ridotte sensibilmente ma la loro persistenza indica ancora l’esistenza di margini di miglioramento per quanto attiene alla organizzazione del lavoro. Punti critici: immigrazione e lavoro atipico Sul piano nazionale si è registrato negli ultimi anni il consolidarsi di una domanda strutturale di lavoro immigrato perlopiù per quelle professionalità a scarso contenuto conoscitivo o per produzioni a carattere stagionale. Principalmente sembra che in Italia i lavoratori immigrati vengano assunti o per colmare la carenza di manodopera locale nei contesti territoriali più sviluppati o per ricoprire lavori a bassa qualificazione. Secondo alcune rielaborazioni statistiche INPS, risulta che i lavoratori immigrati siano 1,9 milioni su un totale di presenze di 2,4 milioni, ossia circa il 4% della popolazione complessiva nazionale. Alcuni studi previsionali stabiliscono che qualora il flusso migratorio continuasse secondo le modalità passate e si rispettassero le procedure di regolarizzazione previste dalla recenti normative (Legge Bossi-Fini), l’Italia diventerebbe il terzo Stato membro dell’Unione Europea per numero di presenze regolari. Una crescita occupazionale si riflette purtroppo inevitabilmente in una crescita degli incidenti sul lavoro. Nel 2000 si sono registrati 107.000 infortuni e 157 casi mortali tra gli occupati extracomunitari. Come si evince dalla tabella il dato rappresenta il culmine negativo di un trend allarmante. Nel 2001 e quindi solo 2 anni prima il tasso infortunistico degli immigrati incideva per il 7% sul totale. La crescita degli infortuni è spiegata parzialmente dalla progressiva emersione di lavoratori precedentemente irregolari o dal lievitazione del volume occupazionale. Lo stato dell’arte attuale mostra come il tasso di incidenza infortunistica per i lavoratori extracomunitari sia più elevato rispetto alla media nazionale, rispettivamente 57 e 44 su 1000. Diverse interpretazioni possono essere addotte a giustificazione di tale discrepanza ma due appaiono le più credibili. Innanzi tutto il lavoratore immigrato, come già ricordato, è impiegato principalmente in attività di lavoro altamente rischiose. Ad avallare questa ipotesi 64 interpretativa intervengono i dati infortunistici per settore: industria manifatturiera in generale (28%) industria dei Metalli (9,8%), le Costruzioni (14,6%)- al primo posto per l’indice di mortalità sul lavoro con il 2,5%-, il Commercio (7,6%), i Trasporti (6,6%) e l’Agricoltura (4,6%). Nello specifico, il tasso di incidenza nel settore delle Costruzioni e dell’Industria dei Metalli superano la media nazionale di circa 3 punti percentuali. Altra possibile linea interpretativa è la scarsa esperienza e preparazione tecnica dei lavoratori extracomunitari che hanno maturato la loro professionalità in contesti di lavoro e legislativi non sempre ricettivi rispetto ad un concetto di salute e sicurezza, così come promosso dalla Unione Europea. Rispetto all’età e al genere, il tasso infortunistico presenta una concentrazione significativa nella classe anagrafica più giovane, il 56% delle vittime di infortunio ha meno di 34 anni rispetto al 44% della media nazionale, e tra il genere maschile, 85% degli infortuni totali tra gli immigrati contro un 76% della media nazionale. La composizione del tasso infortunistico è principalmente spiegata dalla strutturazione della forza lavoro extracomunitaria, soprattutto giovane e di genere maschile, e dalla tipologia lavorativa in cui le donne immigrate sono comunemente occupate: circa i ¾ delle donne prestano il loro servizio come collaboratrici domestiche. Rispetto alla nazione di origine, si riscontra una percentuale significativa, circa la metà, di infortuni tra i lavoratori del Marocco, Albania (impiegati nella maggior parte dei casi nel settore delle costruzioni) e Romania. Tra i cinesi ed i filippini, pur essendo le comunità numericamente più consistenti, non si registrano tassi infortunistici di un certo rilievo. Tabella 7- Infortuni sul lavoro per area geografica. Fonte. Inail Area geografica Italia Altri Paesi UE Paesi extra UE Totale 2001 n. 918.947 8.466 73.778 1.001191 2002 % 91,8 0,8 7,4 100 65 n. 866.845 9478 92.014 968.337 2003 % 89,5 1 9,5 100 n. 863.492 9.352 106.930 952.774 % 87.8 1 11.2 100 L’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) si è impegnata nelle sue elaborazioni statistiche a sciogliere un nodo tematico al centro di accesi dibattiti. O quantomeno ha avviato possibili sperimentazioni per l’individuazione di strumenti volti a verificare la possibile correlazione tra infortuni sul lavoro e tipologia contrattuale. È necessario premettere che i dati presi in considerazione proprio per la loro collocazione temporale 2001-2003, non prendono in considerazione gli effetti a regime della flessibilizzazione promossa dalla c.d Leggi Biagi. L’indagine INAIL analizza nello specifico i parasubordinatie i lavoratori interinali. La prima categoria si compone di un gruppo molto frastagliato al suo interno ma rappresentato principalmente dai “white collars”, ossia da una tipologia di lavoro poca avvezza al lavoro manuale. Proprio per questa carattere prevalentemente impiegatizio, il tasso di incidenza estrapolato dalle banche dati appare assai modesto: circa 20 infortuni per 1.000 lavoratori, ossia espresso in altri numeri 7.500 infortuni su una platea di 420.000 lavoratori parasubordinati sul territorio nazionale. Tabella 8- Infortuni sul relativi al lavoro parasubordinato Totale infortuni Ripartizioni geografiche Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Isole Italia Infortuni mortali 2001 2002 2003 2001 2002 2003 1374 2128 1071 306 103 4982 2019 3265 1511 409 142 7346 1922 3514 1564 424 126 7550 4 7 1 2 1 15 11 10 5 5 6 2 1 2 28 14 Fonte: INAIL Per quanto riguarda il lavoro interinale i dati appaiono essere assai più allarmanti. La forza lavoro interinale raccoglie al suo interno, oltre ad una ampia fascia di colletti bianchi, figure professionali più 66 tecniche ed operative di quanto non faccia la categoria “lavoro subordinato”. Adottando lo stesso criterio di rilevazione usato in precedenza, si pone in evidenza come il tasso di incidenza, pari a 70-75 per 1.000 lavoratori, presenti dei valori assoluti preoccupanti (12.500 infortuni nel 2003 su 170.000 unità) specie per una popolazione lavorativa costituita da impiegati in una percentuale numericamente significativa. In conclusione a fronte dei dati illustrati non si ha timore di affermare che la flessibilità del lavoro e del lavoratore abbia ripercussioni negative sulle condizioni di salute e sicurezza. Appare inoltre ovvia un’altra associazione: il numero di infortuni per queste tipologie contrattuali aumenta laddove vengono più utilizzati e quindi nelle regioni del Nord Italia. Tabella 9-Infortuni relativi al lavoro interinale Totale infortuni Ripartizioni geografiche Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Isole Italia Fonte : INAIL 2001 2002 3185 2025 632 189 15 6046 4094 3647 1147 396 36 9320 Infortuni mortali 2003 2001 5053 4740 1877 705 158 12533 3 67 2 2 1 5 2002 2003 6 1 1 2 4 6 10 1 11 Salute e sicurezza in primo piano: la regione Emilia-Romagna in dettaglio Restringendo il campo di indagine alla dimensione regionale, il seguente paragrafo si propone come obiettivo quello di fornire una fotografia dettagliata del fenomeno infortunistico in Emilia-Romagna. Come fonte statistica di riferimento si è utilizzato la banca dati Inail, soprattutto per quello che riguarda il periodo 1999-2003. L’intento che si vuole seguire non è la mera elencazione di serie numeriche ma cercare di evidenziare gli elementi di criticità per poter offrire agli attori di goverment e governance del sistema sicurezza possibili spunti su cui costruire elaborazioni e interventi migliorativi. L’analisi degli eventi infortunistici prende in considerazione principalmente gli infortuni denunciati presso l’Inail in quanto si ritiene che sia la fonte più attendibile per misurare il fenomeno infortunistico su scala territoriale. Lo studio procede secondo una logica di confronto continuo tra il livello provinciale ed il livello regionale passando poi in dettaglio a delineare le specificità per singola provincia. Nella prima tabella che incontriamo notiamo come il numero assoluto di infortuni registrati in Emilia-Romagna, nell’area Industria, Commercio e Servizi sia sensibilmente aumentato nel periodo 1999-2003, passando da 126.983 a 128.120. Agendo in un’ottica di comparazione con il livello nazionale si possono rintracciare alcune divergenze. Se da un lato infatti il trend nazionale per attività economica presenta un percorso similare nei primi anni del periodo considerato, dall’altro, si evidenzia una divergenza negli anni 2002-2003. A fronte di una diminuzione dell’1,6% dell’indice infortunistico a livello nazionale, tra gli anni 2002-2003, in Emilia-Romagna si registra una impennata da 126.803 a 128.120, ossia un salto pari all’1,04% rispetto al 2002. Il divario maggiore nel passaggio 2002-2003 si riscontra nella provincia di Bologna dove gli infortuni sono aumentati del 13,4%, passando da 24.830 a 28.167. È opportuno comunque registrare una significativa performance positiva del fenomeno infortunistico in provincia di Bologna nel 2001, anno nel quale si è assistito ad una contrazione pari ad oltre il 15% rispetto all’indice del 2000. 68 Tra le province più virtuose in termini di contenimento degli indici infortunistici è da registrare, paradossalmente, la provincia di Forlì e Ravenna. Osservando i valori assoluti nelle due realtà provinciali, si potrebbe infatti desumere che il fenomeno infortunistico sia assai più modesto rispetto al contesto regionale; in realtà se si sposta l’attenzione sulla tabella relativa alla frequenza relativa, si nota come le due province rappresentino, in Emilia-Romagna, due elementi di forte e persistente criticità, raggiungendo indici d frequenza relativa molto alti: 65,23 a Forlì e 57,37 a Ravenna. Questo potrebbe essere spiegato da una dinamicità positiva del numeratore, ossia il numero assoluto di infortuni, inferiore alla dinamicità negativa del numeratore, ossia il numero degli addetti. In sostanza a parità di numero di infortuni nel tempo si registra una progressiva erosione dell’occupazione. Tabella 10- Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per provincia, Emilia-Romagna. Industria, commercio e servizi. Fonte INAIL Province e Regioni 1999 2000 2001 2002 2003 BOLOGNA 28.320 29.219 24.628 24.830 28.167 FERRARA 7.061 7.038 7.597 7.932 7.813 FORLI 10.917 11.319 11.699 11.897 11.275 MODENA PARMA 26.299 12.406 24.827 13.171 26.785 13.088 25.941 12.616 25.360 12.697 PIACENZA 5.759 6.038 6.205 6.127 6.261 RAVENNA 11.005 11.042 11.363 11.664 11.245 REGGIO EMILIA 18.927 18.887 19.209 18.762 18.198 6.289 6.851 6.806 7.034 7.104 126.983 128.392 127.380 126.803 128.120 RIMINI EMILIA ROMAGNA Volendo analizzare i valori assoluti dei dati infortunistici rispetto alla tipologia aziendale, notiamo, data la maggiore dimensione occupazionale, come la concentrazione infortunistica sia più significativa nelle imprese non artigiane. In media si può vedere che circa il 75% degli infortuni, senza comunque contare la voce “non determinate”, si colloca tra le imprese non artigiane, mentre il 69 restante 25% tra le imprese artigiane. Uniche province che si discostano dalla media regionale sono Bologna dove l’82,2% degli infortuni denunciati avviene all’interno di imprese non artigiane e Forlì dove oltre il 32% degli infortuni accade tra le mura di imprese artigiane. Tabella 11 – Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per provincia e tipologia di aziende, Emilia-Romagna. Industria, commercio e servizi. Fonte INAIL Province e Regioni Infortuni Denunciati dalle Aziende Artigiane Non artigiane BOLOGNA FERRARA 3.367 1.254 FORLI 2.698 MODENA 3.258 PARMA 1.798 PIACENZA RAVENNA 1.052 1.890 REGGIO EMILIA 2.653 RIMINI EMILIA ROMAGNA 15.614 3.911 Non determinate In complesso 9.186 2.648 28.167 7.813 5.698 2.879 11.275 10.177 11.925 25.360 5.854 5.045 12.697 3.054 5.441 2.155 3.914 6.261 11.245 7.801 7.744 18.198 1.393 3.612 2.099 7.104 19.363 61.162 47.595 128.120 L’analisi rimarca l’importanza di una cultura della sicurezza in un’ottica di lotta al fenomeno infortunistico. Disaggregando infatti i dati per età anagrafica si registra una notevole percentuale di infortuni nella classe di età 18-34 per poi seguire con la classe 35-49 e scendere drasticamente tra i lavoratori più anziani. Questo dato potrebbe essere soggetto a diverse interpretazioni. Da un lato l’esperienza lavorativa maturata “sul campo”, ossia attraverso anni di attività, contribuisce a sviluppare competenze e accortezze tecno-organizzative capaci di ridurre le situazioni di rischio. Dall’altro lato, le persone più anziane vengono inserite in percorsi professionali più “tutelati” e vengono allontanati dal lavoro reputato a più alto sforzo fisico o pericolo. Partendo inoltre dal presupposto, come dimostrato prima, che la precarietà del lavoro incida sul numero degli infortuni, è plausibile pensare che la concentrazione di 70 infortuni sia più alta proprio in quella classe di età più soggetta a forme contrattuali atipiche, ossia i giovani. Tabella 12 – Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per provincia ed età, Emilia-Romagna. Industria, commercio e servizi. Fonte INAIL. Province e Regioni BOLOGNA Classi di Età Totale Fino a 17 18-34 35-49 50-64 Oltre 64 Non determinata 13.23 10.94 246 3.555 158 36 28.167 0 2 FERRARA 64 3.454 3.051 1.178 41 25 FORLI 164 5.208 4.189 1.595 91 28 11.275 12.06 9.443 3.299 5 133 57 25.360 120 6.068 4.790 1.610 MODENA PARMA 363 7.813 92 17 12.697 884 69 16 RAVENNA 126 5.281 4.258 1.471 91 18 11.245 REGGIO EMILIA RIMINI 275 8.794 6.827 2.148 117 3.289 2.570 1.064 107 52 47 18.198 12 7.104 60.12 48.57 16.80 4 2 4 834 PIACENZA EMILIA ROMAGNA 55 2.735 2.502 1.530 256 6.261 128.12 0 Rimanendo sempre nell’attività economica “Industria, commercio e servizi”, conformemente alle definizioni Ateco, e mantenendo la distinzione per tipologia aziendale, si procede ora a ripartire i dati assoluti per settori di attività economica con l’intento di evidenziare l’ambito lavorativo più critico in termini di indici infortunistici. In questa sorta di classifica, l’industria manifatturiera veste la “maglia nera” con 32.209 infortuni denunciati nel 2003. La negatività del dato deve essere mitigata comunque dagli alti tassi occupazionali registrati nella produzione manifatturiera. In Emilia-Romagna infatti nonostante i servizi stiano acquisendo peso in termini di forza lavoro, l’industria manifatturiera continua a raccogliere al suo interno un importante volume occupazionale, all’incirca un terzo della forza lavoro regionale. Una disaggregazione più dettagliata indica il settore metalmeccanico, con oltre 15.000 infortuni nel 2003, ed il settore alimentare, con 3.630 infortuni, come le aree più a rischio nell’ambito manifatturiero. 71 Altri settori in cui si riscontra un alto valore assoluto degli infortuni sono il settore delle costruzioni, che da solo rappresenta circa il 10% dell’aggregato complessivo, il commercio (9.532 infortuni), trasporti (8.150) e attività immobiliari (7.402). Rapportando ora il dato assoluto degli infortuni con gli indici occupazionali ricavati dalle elaborazioni Inail, a fronte di un valore indice medio regionale pari a 8,11 i settori in cui si rilevano indicatori più elevati sono: il settore dei trasporti con 11,4 e le costruzioni con 8,17. È quindi chiara l’urgenza con cui si debba intervenire in questi settori attraverso interventi strutturali, ergonomici di sistema e ispettivi, soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’edilizia. Tabella 13 – Infortuni denunciati per attività economica e tipologia aziendale, Emilia-Romagna, 2003. Industria, commercio e servizi. Fonte INAIL Settori di Attività Economica A AGRINDUSTRIA B PESCA Infortuni Denunciati dalle Aziende Artigiane Non artigiane Non determinate Totale 142 465 4 611 - 1 23 24 C ESTRAZ.MINERALI 14 91 - 105 DA IND. ALIMENTARE 794 2.826 10 3.630 DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA 413 122 623 257 1 1.036 380 DD IND. LEGNO 524 558 - 1.082 DE IND. CARTA 203 819 1 1.023 DF IND. PETROLIO 1 19 - 20 DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA 42 169 710 1.252 1 752 1.422 DI IND.TRASFORMAZ. 373 3.486 3 3.862 DJ IND. METALLI 2.819 4.827 8 7.654 DK IND. MECCANICA 925 6.153 1 7.079 DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. 335 94 1.372 1.338 - 1.707 1.432 DN ALTRE INDUSTRIE 439 691 - 1.130 * D TOT.IND.MANIF. 7.253 24.931 25 32.209 E ELET. GAS ACQUA 3 510 - 513 72 F COSTRUZIONI 7.556 5.320 37 12.913 G50 COMM. RIP. AUTO 1.195 922 1 2.118 G51 COMM. INGROSSO 85 3.376 2 3.463 296 3.653 2 3.951 1.576 7.951 5 9.532 86 4.026 1 4.113 1.707 4.085 2.358 8.150 1 688 - 689 K ATT.IMMOBILIARI 551 4.885 1.966 7.402 L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE 6 3.389 320 4 128 3.393 454 G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. N SANITA' 11 2.921 1 2.933 457 1.576 6 2.039 TOTALE X NON DETERMINATO 19.363 - 61.159 3 4.558 43.037 85.080 43.040 IN COMPLESSO 19.363 61.162 47.595 128.120 O SERV. PUBBLICI Come si evidenzia nella tabella riportante la variazione con indice 1999 (1999=100), il numero complessivo di infortuni denunciati nel periodo il 1999-2003 in Emilia-Romagna è rimasto pressoché immutato, anzi ha subito un innalzamento negli ultimi anni. Nell’osservazione dei trend infortunistici per settori di attività economica, emerge con trasparenza come nell’area industriale, in senso stretto (ossia con l’esclusione delle costruzioni) il fenomeno infortunistico abbia subito una significativa flessione, registrando una diminuzione di oltre 11 punti nel periodo analizzato. Ad eccezione infatti dell’agroindustria, che vede una crescita di oltre 13 punti, tutte le tipologie industriali stanno assistendo ad un andamento decrescente degli infortuni denunciati, segno che le politiche di prevenzione e sicurezza promosse nell’ambito del d.lgs. 626 sono state efficaci. La medesima positività dei risultati non è invece rintracciabile nel settore dei servizi, in cui si riscontra una crescita tendenziale diffusa sia nelle attività di commercio che nei servizi in senso stresso. Appare particolarmente allarmante la situazione nelle 73 attività immobiliari, nella sanità e nella istruzione dove gli infortuni sono aumentati rispettivamente di 40,35 punti, 21,5 punti e 25,75 punti. Si potrebbe quindi azzardare una interpretazione. Ossia le politiche e gli interventi in tema di sicurezza si sono concentrate maggiormente o sono state accompagnate da misure di controllo più rigide nelle attività industriali. Mentre nel settore dei servizi, probabilmente per una organizzazione ed una struttura più dispersiva e meno “industriale”, le politiche di implementazione di misure di sicurezza o le modalità di monitoraggio hanno avuto minore penetrabilità e influenza. Tale lettura degli andamenti infortunistici in Emilia-Romagna dovrebbe indurre tutte le parti in gioco ad una maggiore attenzione al settore dei servizi, soprattutto a fronte di una sua progressiva crescita occupazionale. Discorso a parte deve essere riservato al settore delle costruzioni in cui, contemporaneamente ad un aumento della forza lavoro, cresce di oltre 7 punti anche il numero assoluto di infortuni. Tabella 14 – Variazione di infortuni denunciati per attività economica e variabile temporale, Emilia-Romagna, 2003. Industria, commercio e Servizi. Indice base 1999 (1999=100) Settori di Attività Economica A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 1999 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 2000 2001 2002 2003 94,44 108,00 99,33 97,89 105,78 109,98 98,43 101,31 103,23 98,75 104,34 98,89 103,84 102,76 115,69 106,08 91,47 102,23 104,63 76,00 81,88 98,20 105,62 125,42 99,55 106,37 67,74 104,61 104,94 103,63 102,45 106,46 112,09 105,26 98,25 103,90 116,67 108,00 89,26 95,20 97,44 104,51 94,92 104,40 90,32 106,11 102,40 98,10 99,30 100,43 108,91 103,90 100,66 99,86 113,15 96,00 70,47 85,88 85,55 90,26 80,81 95,79 64,52 93,77 94,99 84,34 89,90 88,51 100,71 97,88 82,42 88,94 74 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 98,17 103,82 89,85 103,56 82,64 109,54 52,08 107,34 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 102,48 104,02 103,16 103,28 95,13 111,03 105,34 104,72 99,74 114,22 111,80 109,60 92,09 110,43 105,95 104,00 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 109,79 106,02 109,37 109,95 102,35 118,01 110,73 101,71 110,30 106,17 121,35 128,69 108,06 130,47 117,20 114,49 108,44 108,65 120,58 151,31 104,75 144,88 122,05 119,29 105,16 100,12 105,84 140,35 104,75 125,76 121,55 99,80 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 104,01 95,21 101,11 106,82 87,08 100,31 108,22 82,84 99,86 99,93 102,87 100,90 Agendo in una logica di comparazione tra i dati assoluti e i dati riguardanti le imprese artigiane, si nota come le distinte traiettorie tracciate dalle variazioni nel periodo 1999-2003 siano sostanzialmente sovrapponibili. È da notare, comunque, che nelle imprese artigiane gli infortuni hanno subito una contrazione di circa 10 punti, a fronte della staticità del dato aggregato. Nell’industria manifatturiera artigianale, per entrare più dettagliatamente nell’indagine, la riduzione degli infortuni è stata ancora più marcata rispetto al dato generale (quasi 20 punti). Per quanto riguarda il settore del commercio e dei servizi, a differenza del dato complessivo, nelle imprese artigiane si registra una sostanziale diminuzione. Lo scarso peso occupazionale del comparto artigianale nei servizi non permette, comunque, di caricare il dato rilevato di particolare valore o significato. Anche nel comparto artigiano, il settore delle costruzioni rappresenta un valore di forte e persistente criticità. 75 Tabella 15- Variazione infortuni denunciati nelle imprese artigiane per anno evento e per settore attività economica. Indice base 1999 (1999=100) 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 82,7 96,1 89,0 111,8 100 73,9 52,2 69,6 60,9 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 97,2 113,5 96,6 90,7 92,4 100,0 87,2 104,9 108,9 100,2 96,4 113,9 120,0 86,5 99,6 105,6 99,4 114,8 87,8 97,6 78,7 108,5 99,3 98,7 97,3 105,0 103,5 89,6 98,4 100,2 94,3 75,8 81,7 114,3 300,0 114,9 82,5 103,7 92,6 86,0 98,4 129,6 93,8 93,1 92,4 78,5 81,9 67,5 96,7 100,0 89,4 75,8 85,4 81,4 81,2 88,2 81,7 75,2 81,4 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 100,0 102,9 103,8 107,1 42,9 103,4 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 99,1 102,8 102,9 100,1 88,1 92,5 92,2 89,2 89,7 95,3 92,0 90,5 86,5 80,2 85,1 85,8 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 122,5 100,7 100,0 93,1 101,0 94,8 84,3 86,9 100 99,0 100,3 101,0 89,3 100 100 112,5 100,0 99,2 100,0 175,0 102,8 137,5 275,0 97,7 75,0 275,0 86,4 TOTALE X NON DETERMINATO 100 100,8 99,1 300,0 98,2 100,0 90,3 76 IN COMPLESSO 100 100,8 99,1 98,2 90,3 In agricoltura gli infortuni denunciati sono stati, nel 2003, 10.078, di cui 5.431 tra gli autonomi e 4.647 tra i dipendenti. Appare quindi chiaro come tra gli autonomi la percentuale degli infortuni a livello regionale sia sensibilmente maggiore. Una possibile interpretazione potrebbe essere fatta risalire al fatto che il d.lgs. 626 non è applicabile ai coltivatori diretti. Questo vuoto legislativo, anche a detta di rappresentanti della associazioni di rappresentanza del settore, risulta essere alquanto paradossale, in quanto esclude da una serie di interventi una fascia di lavoratori nella quale la diffusione della cultura della sicurezza incontra le più energiche resistenze. Le due province in cui si registra il più alto numero assoluto di infortuni in agricoltura sono sempre Forlì e Ravenna. Tabella 16 – Infortuni sul lavoro in agricoltura denunciati dall’INAIL per provincia, Emilia-Romagna, 2003. Fonte INAIL Infortuni Denunciati per i Lavoratori Province e Regioni Autonomi Dipendent Non determinati (*) Totale i BOLOGNA 605 474 - 1.079 FERRARA 492 537 - 1.029 FORLI MODENA 1.000 666 1.049 640 - 2.049 1.306 PARMA 493 395 - 888 PIACENZA 425 245 - 670 RAVENNA 899 812 - 1.711 REGGIO EMILIA RIMINI 641 210 429 66 - 1.070 276 5.431 4.647 EMILIA ROMAGNA - 10.078 (*) a partire dal 1995 tutti i lavoratori in cui non era presente la qualifica sono stati considerati come “dipendenti”. In Emilia-Romagna, in linea con la tendenza nazionale, gli infortuni sul lavoro in gestione Conto Stato sono in netto aumento negli ultimi anni, passando da 1.462 nel 1999 a 2.182 nel 2003. Il maggior 77 numero di infortuni si concentrano nella provincia di Bologna, dove risiedono molti delle sedi istituzionali statali ed amministrative. Tabella 17 – Infortuni sul lavoro in gestione Conto Stato per provincia in Emilia-Romagna. Fonte INAIL Province e Regioni 1999 2000 2001 2002 2003 BOLOGNA FERRARA 260 175 366 170 403 174 478 176 571 138 FORLI 131 148 182 220 247 MODENA 347 310 320 350 282 PARMA 196 208 255 251 256 PIACENZA RAVENNA 97 125 120 122 116 145 122 163 137 184 REGGIO EMILIA 86 134 216 239 240 RIMINI 46 90 101 129 127 1.463 1.668 1.912 2.128 2.182 EMILIA ROMAGNA Le province in cui l’indice provinciale supera la media regionale dell’indice di frequenza relativa (51,97) sono: Forlì (65,23), Reggio Emilia (57,89), Ravenna (57,37), Parma (53,50) e Modena (52,88). Il più alto tasso di inabilità permanente nel 2003 si è registrato nelle province di Forlì (3,68), Reggio Emilia (3,16) e Rimini (3,01) mentre i casi mortali sono stati più numerosi nella provincia di Ravenna e Piacenza. Tabella 18 – Frequenze relative di infortunio per provincia e tipo di conseguenza, media triennio 1999-2001 (per 1000 addetti). Fonte INAIL Province e Regioni Tipo di conseguenza Inabilità temporanea Inabilità permanente Morte Totale BOLOGNA 42,07 1,98 0,07 44,12 FERRARA 47,05 2,21 0,05 49,31 FORLI MODENA 61,45 50,43 3,68 2,36 0,10 0,08 65,23 52,88 PARMA 50,68 2,72 0,10 53,50 PIACENZA 43,44 2,87 0,12 46,43 78 RAVENNA 55,02 2,24 0,12 57,37 REGGIO EMILIA RIMINI 54,62 46,67 3,16 3,01 0,11 0,06 57,89 49,74 49,32 2,56 0,09 51,97 EMILIA ROMAGNA L’analisi della distribuzione delle frequenze relative per settori di attività economica nel 2003 mostra particolari elementi di criticità in quei settori già oggetto di studio nelle pagine precedenti: costruzioni, trasporti, metalmeccanico, alimentare e sanità. Si offre però la possibilità di cogliere alcune specificità non ricavabili da una analisi di valori assoluti. Il settore del legno e della gomma mostrano alti rapporti tra infortuni e volume occupazionale, elemento che era sfuggito nelle precedenti elaborazioni. Inoltre la tabella mostra chiaramente come il settore metalmeccanico nella sua accezione più ampia (ossia includendo industria metalli, meccanica, elettrica e fabbricazione mezzi di trasporto) racchiuda al suo interno tre degli indici più alti a livello regionale. Tabella 19 - Frequenze relative di infortunio per attività economica. Emilia-Romagna. Media triennio 1999-2001. Tipo di conseguenza Settori di Attività Economica A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. Inabilità temporanea Inabilità permanente Morte 52,06 4,49 0,09 40,90 56,35 3,16 62,42 2,69 0,05 21,00 1,33 0,04 37,51 1,27 0,11 79,07 6,69 0,03 37,97 1,85 0,07 31,16 2,03 28,11 1,38 0,03 75,28 3,06 0,02 76,12 2,86 0,11 83,13 3,67 0,08 57,07 2,05 0,07 32,42 1,40 0,08 63,21 2,16 0,04 56,85 3,56 0,08 57,23 2,50 0,07 79 Totale 56,64 40,90 59,52 65,17 22,37 38,89 85,79 39,88 33,19 29,52 78,36 79,09 86,87 59,19 33,89 65,41 60,49 59,80 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI X ATT. NON DETER. - TOTALE 46,83 71,38 46,62 33,49 32,92 35,95 52,87 57,11 11,51 32,97 34,14 21,05 57,55 28,00 75,04 49,32 2,30 5,64 2,81 1,79 1,69 1,96 2,79 4,61 0,57 1,58 1,33 0,81 2,06 1,44 0,90 2,56 0,02 0,15 0,09 0,09 0,05 0,07 0,08 0,32 0,02 0,09 0,03 0,05 0,05 0,07 0,09 49,16 77,17 49,52 35,38 34,65 37,98 55,74 62,04 12,11 34,64 35,50 21,91 59,67 29,52 75,94 51,97 Fonte INAIL L’indice di gravità, rappresentato dalle seguente tabella, è espressione del rapporto tra le conseguenze degli eventi lesivi indennizzati e numero degli esposti. È importante sottolineare come le conseguenze vengano tutte espresse in giornate di lavoro perdute, quantificate sulla base di convenzioni internazionali recepite dall’UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione). Dall’indice di gravità è quindi possibile ricavare il costo conseguente agli eventi infortunistici. L’indice medio di gravità regionale è di 4,64 e i settori di attività economica in cui si registrano i valori più elevati sono: l’agroindustria (6,88), l’industria di estrazioni dei minerali (8,69), l’industria del legno (9,09), l’industria dei metalli (6,45), le costruzioni (9,42) e trasporti (9,36). È interessante soffermarci sui diversi valori delle diverse tipologie di conseguenze. Nei settori in cui si raggiungono gli indici più alti emerge che siano le voci “inabilità permanente” e “morte” ad incidere in maniera più significativa sull’indice aggregato. Infatti gli indici di inabilità temporanea sono tutti contenuti in un range ristretto (da 0,54 a 1,74). L’indice di inabilità permanente varia invece da 0,61 fino a 7,32 e l’indice di morte da 0,16 a 2,39. L’indice più alto di inabilità permanente viene registrato nell’industria di estrazioni minerali (7,32), mentre l’indice di morte più alto si trova nel settore dei trasporti (2,39). 80 Tabella 20 – Rapporti di gravità di infortunio per settore di attività economica e tipo di conseguenza. Media triennio 1999/2001 (per addetto). Fonte INAIL Tipo di conseguenza Settori di Attività Economica A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI X ATT. NON DETER. - TOTALE Inabilità temporanea Inabilità permanente 1,30 0,82 1,38 1,36 0,53 0,86 1,85 0,82 0,76 0,64 1,53 1,72 1,74 1,11 0,67 1,23 1,22 1,21 1,06 1,77 1,11 0,77 0,79 0,85 1,22 1,53 0,29 0,81 0,81 0,42 1,45 0,72 1,73 1,13 81 4,92 7,32 3,10 1,48 1,41 7,04 2,23 0,99 1,68 4,05 3,09 4,13 2,17 1,55 2,52 3,48 2,77 2,15 6,49 2,94 1,90 1,92 2,12 3,03 5,44 0,61 1,82 1,39 0,88 2,27 1,49 0,92 2,86 Morte Totale 0,65 6,88 0,82 8,69 0,40 4,87 0,30 2,32 0,82 3,09 0,20 9,09 0,49 3,55 1,74 0,25 2,58 0,16 5,74 0,85 5,66 0,59 6,45 0,55 3,83 0,60 2,82 0,31 4,05 0,63 5,33 0,51 4,50 0,18 3,39 1,16 9,42 0,64 4,69 0,71 3,38 0,34 3,05 0,55 3,52 0,64 4,88 2,39 9,36 0,18 1,07 0,68 3,31 0,26 2,46 0,34 1,64 0,41 4,13 0,56 2,77 2,65 0,65 4,64 1 Il livello provinciale Le tabelle successive mostrano più nello specifico il fenomeno infortunistico nelle sue articolazioni provinciali. Sono state infatti elaborate, sempre dalla banca dati Inail, i dati provinciali relativi agli infortuni denunciati per settori di attività. Questo permette di inquadrare gli aspetti di criticità e di positività per singola provincia e di fornire, contemporaneamente, indicazioni su dove gli attori del sistema sicurezza dovrebbero rivolgere i propri sforzi e concentrare le proprie politiche. Allo scopo di fornire una interpretazione attendibile e realistica dei trend infortunistici nel periodo 1999-2003, lo studio dei dati si è realizzato in parallelo con la consultazione della tabella riportante il numero assoluto degli infortuni. Nell’interpretazione dei dati è comunque opportuno tenere in considerazione che a partire dall’anno 2000 molte delle imprese assicurate all’Inail sono state riclassificate secondo i criteri definiti e certificati dall’Istat. È quindi possibile che vi siano delle incongruenze numeriche dovute proprio a fattori tassonomici. La provincia di Piacenza La prima provincia analizzata è Piacenza. Nel periodo esaminato si è registrato un incremento di oltre 8 punti, e, ad eccezione di un arresto nel 2002, si riscontra una crescita tendenziale. Effettuando una osservazione per macro attività economiche si nota come l’industria manifatturiera, in senso stretto, sia in leggero ma continuo calo, a testimonianza di un impegno degli attori “industriali” nel contenimento degli infortuni. Picchi di infortuni continuano a permanere però nell’industria alimentare (+2,5), nell’industria della carta (+12,3) e nell’industria elettrica, mentre le performance migliori sono state realizzate nell’industria della chimica (-32,6) e della gomma (-35,4). Le problematicità del settore delle costruzioni in provincia di Piacenza sono in linea con l’andamento regionale, anzi presentano un innalzamento ancor più accentuato. Dal 1999 al 2003 82 gli infortuni sono aumentati di 17,1 punti, ossia sono passati da 609 incidenti denunciati a 713. Se da un lato la manifattura ha assistito ha una riduzione degli infortuni, dall’altro, nella provincia di Piacenza si è assistito ad un importante aumento degli incidenti denunciati nel settore dei servizi e commercio. Sia il commercio all’ingrosso che il commercio al dettaglio riportano aumenti del numero assoluto degli infortuni denunciati, rispettivamente di 20,5 e 16,4 punti. In tutte le aree riconducibili ai servizi gli infortuni denunciati sono aumentati nel quinquennio considerato. Le traiettorie più interessanti sono disegnate nell’ambito del settore dei trasporti, con un incremento di 17,2 punti, e delle attività immobiliari, con una ascesa stabile negli anni fino a raggiungere +78,3 punti nel 2003. Tabella 21 –Piacenza. Variazione degli infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Indice base 1999 (1999=100). Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 78,3 134,8 160,9 134,8 100 162,5 87,5 62,5 87,5 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 102,0 103,6 140,0 104,5 107,0 100,0 65,2 81,0 95,1 102,8 114,1 95,8 103,4 69,2 101,1 108,1 85,7 80,0 66,7 101,8 50,0 56,5 89,9 102,2 101,7 108,6 85,9 92,4 87,2 98,5 98,0 96,4 20,0 93,9 105,3 89,1 63,3 82,5 104,9 101,3 97,2 83,9 107,7 95,8 102,5 78,6 80,0 74,2 112,3 100,0 67,4 64,6 80,9 92,9 94,4 115,5 70,3 92,3 89,9 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 86,8 98,7 78,9 101,0 89,5 112,6 65,8 117,1 G50 COMM. RIP. AUTO 100 108,7 122,1 98,0 108,1 83 G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 96,6 94,4 99,4 100,0 110,3 110,8 100,0 105,6 101,6 120,5 116,4 115,1 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 101,5 117,4 88,2 124,0 85,7 125,0 108,6 132,7 112,9 111,8 144,1 142,3 106,1 168,8 105,3 110,6 112,4 130,8 158,8 160,6 108,2 143,8 104,3 131,0 105,7 117,2 108,8 178,3 123,1 131,3 111,5 100,0 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 103,6 107,9 104,8 105,7 112,7 107,7 108,6 101,0 106,4 106,9 113,1 108,7 La provincia di Parma Anche nella provincia di Parma il numero complessivo di infortuni ha subito una crescita, seppur più contenuta rispetto al caso piacentino, di 2,3 punti. L’andamento degli infortuni ha subito una consistente variazione verso l’alto nel 2000 (+6,2) per poi scendere fino al 2002 (+1,7) e risalire ancora di 0,5 punti nel 2003. L’industria manifatturiera parmense dal 2000 al 2003 è stata testimone di un importante calo degli infortuni denunciati, passando da 4.092 a 3.158, con una riduzione di 23 punti. Le realtà manifatturiere che continuano a mantenere alti livelli di infortuni, anche se in termini assoluti non sono molto significativi, sono l’industria tessile e dei mezzi di trasporti. È comunque opportuno porre attenzione all’andamento tracciato dalla curva degli infortuni nel settore dei tessili. Una analisi più attenta permette, infatti, di notare come il generale innalzamento del numero degli infortuni del quinquennio si inserisca in una tendenza decrescente iniziata nel 2000. Anche l’area legata al commercio è in stabile calo, in generale dal 2000, raggiungendo una contrazione media di settore pari a 23,5 punti. Nel settore delle costruzioni dopo un aumento ripetuto negli anni 1999-2002 si è verificata, nel 2003, una riduzione di 10,1 rispetto all’anno precedente. Tra i servizi è da registrare una 84 diminuzione degli infortuni nel settore dei trasporti a partire dal 2002, passando da 1.164 nel 2001 a 919 infortuni nel 2003. Rimanendo nel settore dei servizi è da sottolineare, come in gran parte delle province in Emilia-Romagna, il netto aumento degli infortuni nelle attività immobiliari. Tabella 22 Parma. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 146,2 107,7 111,5 138,5 100 141,2 105,9 117,6 105,9 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 103,6 146,5 112,5 95,7 79,3 60,0 111,7 112,3 96,4 93,1 101,1 118,7 138,2 78,4 100,2 101,8 114,0 150,0 83,8 68,6 140,0 93,3 110,3 93,2 91,2 99,3 123,3 112,7 92,2 97,5 91,9 118,6 112,5 60,7 75,7 87,8 109,3 79,2 56,4 57,9 75,0 100,7 81,4 84,8 86,9 97,3 83,6 64,7 86,3 64,2 80,1 67,4 78,8 71,2 89,3 110,9 56,9 77,2 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 94,7 102,9 94,7 106,2 68,4 106,9 81,6 96,8 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 115,6 108,1 107,7 109,6 108,8 109,1 94,0 102,3 105,4 102,7 92,0 98,6 83,4 88,3 85,8 86,1 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE 100 100 100 100 100 100 108,4 103,1 172,3 114,5 93,5 122,2 101,8 105,9 144,7 136,5 105,5 155,6 82,8 91,3 131,9 135,5 89,7 151,9 92,1 83,6 125,5 129,8 84,2 125,9 85 N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 131,6 91,3 143,0 102,8 132,0 83,3 104,7 64,6 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 104,0 113,7 106,2 105,1 106,8 105,5 95,7 122,0 101,7 86,9 154,8 102,3 La provincia di Reggio Emilia Seguendo una successione geografica, passiamo ora ad esaminare gli elementi di specificità riscontrati nella provincia di Reggio Emilia. Quello che appare immediatamente agli occhi è la contrazione generale del numero degli infortuni dal 1999 al 2003. In provincia di Reggio Emilia si registra infatti la miglior performance provinciale in Emilia-Romagna in termini di punti di decremento degli infortuni denunciati (-3,9). Eccetto una parentesi negativa nel 2001, anno in cui gli infortuni aumentarono di 1,5 punti rispetto al 1999, gli attori operanti nell’ambito della provincia reggiana hanno sempre dimostrato una capacità di intervento e politiche sulla sicurezza capaci di migliorare le condizioni di lavoro e di vita lavorativa. Altro dato di sicuro rilievo è la positività dei risultati raggiunti nell’industria alimentare (-23,5) e nell’industria del legno (-19,3). Questo è segnale dell’attenzione riscossa tra le parti sociali e gli attori istituzionali rispetto alla centralità che dovrebbe essere attribuita alla sicurezza del lavoro. L’industria manifatturiera, in senso stretto, ha visto gli infortuni denunciati diminuire da 6.167 nel 1999 a 5.414 nel 2003, con una riduzione quindi di circa 12,2 punti. Le industrie che si discostano da una linea tendenzialmente decrescente per quanto riguarda il periodo considerato sono l’industria elettrica (+9) e l’industria della carte (+7). L’industria tessile ha sempre mostrato un andamento preoccupante fino al 2003, in cui si è verificata una inversione di tendenza, passando da 190 (2002) a 155 infortuni denunciati. Il settore delle costruzioni riporta dati in sintonia con il dato regionale, registrando un aumento totale di 7,8 punti. Nelle attività commerciali, la sottovoce che sembra avere maggiori difficoltà è il 86 commercio al dettaglio, settore in cui si è verificata una costante crescita fino ad assestarsi a + 9,4 punti nel 2003. Nel settore dei servizi i dati più significativi sono quelli relativi al settore dei trasporti, in cui dopo una costante crescita degli infortuni nel periodo 1999-2002 si è verificata una diminuzione di 8,4 punti nel 2003, il settore delle attività immobiliari, con una crescita infortunistica di 39,4 punti, la pubblica amministrazione, con un aumento, dopo una breve parentesi nel 2002 (-39,3), di 7,7 punti, e i servizi pubblici , in cui si è passati da 11 incidenti denunciati nel 1999 a 149 nel 2003. Tabella 23- Reggio Emilia. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 78,7 95,1 85,2 80,3 100 73,3 56,7 106,7 73,3 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D T.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 88,3 93,7 62,5 88,1 95,8 80,2 107,4 50,0 109,9 104,2 79,7 108,6 12,5 104,9 93,4 76,5 88,6 100,0 80,7 107,8 96,6 103,2 101,4 97,6 105,1 107,0 96,8 90,5 99,3 100,0 105,7 100,8 102,6 101,2 119,1 95,2 114,6 101,0 89,9 101,8 99,2 98,6 97,5 109,0 69,4 134,3 97,7 89,9 86,4 85,2 86,3 89,4 109,0 85,5 100,7 87,8 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 75,6 99,1 51,3 101,9 51,3 108,2 83,3 107,8 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 87,6 95,3 105,1 97,5 80,8 118,1 103,9 102,6 98,8 127,2 110,9 113,1 92,0 100,0 109,4 101,9 H ALBERG. E RIST. 100 108,7 119,0 111,1 100,4 87 I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 102,9 96,3 109,4 101,0 81,4 104,8 128,9 102,3 114,8 119,7 101,7 104,7 90,4 157,0 107,7 90,1 149,2 60,7 181,4 115,8 169,3 99,3 80,2 139,4 107,7 116,3 92,5 130,7 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 100,2 99,2 99,8 102,8 99,4 101,5 104,0 91,6 99,1 96,9 95,0 96,1 La provincia di Modena Continuando lungo la via Emilia, arriviamo alla provincia di Modena, in cui si rileva una timida diminuzione del volume degli infortuni passando da 26.299 nel 1999 a 25.360 nel 2003, con una riduzione complessiva di 3,6 punti. Il livello massimo di infortuni si è raggiunto nel 2001 per poi scendere per due anni consecutivi di 4,4 punti. Analizzando la tabella per attività economica si evidenzia una tendenziale decrescita degli infortuni. Nella industria manifatturiera infatti il calo infortunistico è molto importante: 22,7 punti in 5 anni. Nell’ambito della industria manifatturiera, diversi sono settori in cui la performance espressa risulta migliore della media generale. Nella industria alimentare, per esempio, si è assistito ad una progressiva erosione del numero iniziale degli infortuni ottenendo una riduzione di oltre 300 infortuni annuali nell’arco di tempo considerato (-32,7 punti). Anche l’industria tessile (-29,1), l’industria chimica (- 30,1) e soprattutto l’industria dei mezzi di trasporto (-45,2) rappresentano esempi virtuosi in quanto a contenimento del numero degli infortuni. Il numero di incidenti registrato nel settore delle costruzioni presenta un andamento incerto, ossia ad anni di decrescita seguono anni di forte ricrescita annullando sostanzialmente i risultati positivi realizzati l’anno precedente. Negli ultimi 5 anni, il numero degli infortuni è fondamentalmente rimasto inalterato. Il diffuso aumento occupazionale che ha caratterizzato il settore e la persistenza del 88 lavoro nero ed irregolare non permettono di definire con chiarezza la positività dei dati denunciati. In una logica di comparazione a livello regionale e a parità di condizioni di mercato del lavoro e di esposizione al lavoro irregolare, possiamo comunque dire che la provincia di Modena, insieme a quella di Parma, sono le uniche due realtà in cui le costruzioni hanno visto una diminuzione degli incidenti. In linea con i risultati della industria manifatturiera, anche il commercio presenta un trend in discesa, portandosi da 1.760 incidenti denunciati nel 1999 a 1.548 nel 2003 (-22 punti). Disaggregando le singole voci del commercio, si nota come solo il commercio all’ingrosso mantenga lo stesso volume infortunistico. L’attività dei servizi mostra al suo interno delle divergenze. Se, infatti, da un lato nel settore dei trasporti gli incidenti denunciati diminuiscono di 10,3, ottenendo il decremento più significativo a livello regionale, altri settori, quali la sanità (+11,6) e le attività immobiliari (+6,6), continuano a mostrare segni di criticità. Tabella 24 – Modena. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 72,9 95,8 93,8 110,4 100 60,6 45,5 51,5 24,2 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 96,2 96,7 125,0 98,6 122,1 95,1 102,1 100,0 114,6 140,8 84,4 88,8 100,0 117,4 114,1 68,3 70,9 81,3 84,0 101,4 107,4 89,9 98,0 108,8 96,0 124,8 95,9 107,8 100,9 102,2 93,2 103,8 100,9 105,3 116,0 77,6 90,1 102,7 99,3 80,6 96,2 96,0 100,2 108,8 79,6 107,8 96,0 69,9 79,7 79,6 82,8 76,0 87,3 54,8 67,4 77,3 89 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 88,0 103,7 94,9 96,6 88,8 107,7 76,1 100,6 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 102,1 90,4 96,3 95,8 92,0 103,6 90,7 95,1 91,5 101,6 101,2 99,0 86,6 101,4 79,0 88,0 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 108,4 104,7 88,1 99,6 95,7 133,3 85,1 113,7 109,0 96,1 88,9 109,3 100,0 146,7 99,1 141,6 111,5 101,5 96,3 134,3 86,2 120,0 103,3 146,5 88,9 89,7 64,4 106,6 66,7 110,0 111,6 104,4 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 100,6 83,6 94,4 101,4 102,6 101,8 101,4 93,8 98,6 85,0 116,4 96,4 La provincia di Bologna Passando ora ad analizzare la questione infortunistica nella realtà provinciale di Bologna, appare con assoluta trasparenza il primato del capoluogo emiliano-remognolo in termini di numero assoluto degli infortuni nel 2003 (28.167). Il secondo posto di questa classifica provinciale è ricoperto da Modena con 25.360 infortuni denunciati nel 2003. L’ingente volume di eventi infortunistici occorsi in provincia di Bologna può essere, senza dubbio, ricondotto al maggior peso occupazionale. Secondo le banche dati Inail, infatti, gli addetti che prestano la propria attività in provincia di Bologna sono 420.831, contro gli assai inferiori 270.925 occupati di Modena. A conferma della tabella relativa agli indici di frequenza relativa precedentemente analizzata, il numero di incidenti denunciati a Bologna è relativamente basso rispetto al numero complessivo dei lavoratori dichiarati. Quello che preoccupa è l’impennata rilevata nel 90 2003 dopo un biennio di performance decisamente positivi con riduzioni anche superiori a 16 punti (2000-2001). Diversamente dalle performance ottenute nei primi anni del periodo esaminato, nel 2003 si è assistito ad un balzo indietro di quasi 5 anni, assestandosi sui dati negativi del 1999. Disaggregando il dato generale per attività economica, risulta evidente come l’incremento registratosi nel 2003 sia un fenomeno generalizzato. Differentemente dalle altre province e nonostante nel 2003 si sia verificata una leggera flessione, Bologna presenta una industria manifatturiera con alti valori di infortuni denunciati, passando a 6.470 nel 1999 per raggiungere poi quota 7.075 nel 2002 e riscendere a 6.740 nel 2003. Nell’ambito della industria manifatturiera, i maggiori indici di criticità si trovano nella industria alimentare (+14,1), nella industria chimica (+36,1), l’industria di trasformazione (+25,4) e l’industria dei mezzi di trasporto (+24,4). Il settore delle costruzioni registra sempre variazione positive ad eccezione dell’ultimo anno (2003) in cui si è assistito ad una lieve inversione di tendenza, rimanendo comunque di 10 punti superiori a quelli rilevati nel 1999. L’attività del commercio presenta un trend crescente e continuo negli ultimi 4 anni evidenziando il rischio di una tendenza positiva difficile da arrestare. Particolarmente nel commercio al dettaglio sembrano concentrarsi gli eventi infortunistici (+36,9). Similmente alle altre attività economiche, anche il settore dei servizi vede aumentare il numero degli infortuni: meno nei trasporti con un incremento quinquennale di 3,5 punti e più negli intermediari finanziari (+83,7), attività immobiliari (+77,5), sanità (+61,4) e servizi pubblici (30,3). Tabella 25 – Bologna. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 76,7 81,6 115,5 120,4 100 96,8 103,2 83,9 83,9 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA 100 100 100 108,1 112,3 100,0 102,4 101,8 129,8 108,4 103,5 142,1 114,1 101,2 103,5 91 DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100,5 101,8 89,7 101,8 83,3 116,0 87,7 96,1 99,4 101,9 110,1 107,9 107,0 116,4 112,4 89,7 106,9 133,7 117,0 132,1 103,4 111,3 113,8 114,7 94,6 108,9 147,6 118,0 136,4 104,9 106,1 113,6 113,8 89,7 109,4 136,1 109,6 125,4 96,3 106,7 100,4 124,4 77,3 104,2 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 111,3 107,9 99,0 109,2 80,2 110,8 10,9 109,4 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 96,9 111,8 105,2 105,8 96,7 121,8 130,8 119,8 107,6 121,3 133,3 123,1 104,3 132,7 136,9 128,1 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 119,3 103,9 144,7 117,8 114,1 151,3 122,2 106,7 115,8 106,9 165,0 150,7 126,3 173,7 140,1 122,9 114,1 108,4 191,1 189,4 130,0 157,9 144,7 136,0 123,6 103,5 183,7 177,5 126,3 132,9 161,4 130,3 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 109,0 93,9 103,2 115,4 41,4 87,0 119,5 36,7 87,7 115,6 73,6 99,5 La provincia di Ferrara Dopo Rimini, la provincia di Ferrara, è la realtà territoriale in cui negli quinquennio 1999-2003 si è registrato il più alto aumento di incidenti sul lavoro denunciati. Secondo i dati Inail, gli infortuni sono infatti passati da 7.061 nel 1999 fino a raggiungere i 7.813 nel 2003, con un rialzo netto di 10,7 punti. A contribuire maggiormente alla formazione del dato, non è l’industria manifatturiera ma soprattutto il settore del commercio e dei servizi. Se confrontiamo i dati a livello di macro-attività emerge come la performance dell’industria 92 manifatturiera sia, proporzionalmente, più contenuta rispetto alle altre due voci. Dopo tre anni di continua e rapida crescita degli infortuni, dal 1999 al 2003, l’industria manifatturiera ha visto ridursi, nel 2003, il numero di infortuni di 12,3 punti. La performance positiva dell’industria manifatturiera nel 2003 non deve comunque portarci ad escludere elementi persistenti di criticità in realtà industriali importanti, quali l’industria dei mezzi di trasporto, in cui dopo un picco di oltre +50 (2002) rispetto all’anno base 1999, il dato si è assestato a +35,8 nel 2003. Preoccupante appare anche il trend infortunistico relativo alle costruzioni, settore nel quale, dopo due anni di stasi si è verificata una impennata a +21,3 nel 2002, per poi scendere a +13 nel 2003. Similmente al settore delle costruzioni, anche nel settore del commercio viene esercitata sull’andamento infortunistico una forte pressione verso l’alto nel 2002 (+21,3) ed ancora nel 2003 (+7,9). Nell’ambito della attività commerciale, il comparto che presenta il volume di infortuni maggiori e la variazione più decisa è il commercio al dettaglio, in cui si è passati da 276 infortuni nel 1999 a 310 nel 2003. Passando ora a confrontare i valori relativi al settore dei servizi risulta evidente, tenendo conto anche del loro peso assoluto, il considerevole aumento degli incidenti occorsi nel settore dei trasporti, in cui dopo aver raggiunto quota +33,8 nel 2002 il livello di infortuni scende a +9,8 nel 2003, nel settore delle attività immobiliari, con un incremento nel quinquennio del 57,6 punti, ed il settore della sanità, con un aumento di 26,6 punti. Tabella 26 – Ferrara. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 100,0 120,7 148,3 120,7 100 250,0 150,0 175,0 75,0 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO 100 100 100 100 100 100 101,4 110,8 150,0 91,0 68,6 113,5 111,8 150,0 98,9 80,4 134,5 94,6 125,0 95,5 96,1 83,8 89,2 162,5 79,8 86,3 93 DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 85,3 166,7 84,9 92,9 106,4 100,0 120,3 74,3 101,0 72,1 140,5 78,3 103,9 113,4 109,6 129,1 100,0 107,6 79,4 119,0 77,4 112,2 110,7 87,4 150,0 134,3 110,0 85,3 159,5 67,9 94,9 102,3 91,1 135,8 100,0 97,7 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 128,3 101,7 117,0 101,3 128,3 121,9 124,5 113,0 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 117,4 95,4 95,3 100,3 100,0 97,7 107,6 102,9 113,6 123,1 123,9 121,3 99,2 107,5 112,3 107,9 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 97,2 114,1 136,7 100,8 86,6 147,4 91,6 76,7 103,3 120,4 140,0 134,9 64,3 121,1 104,3 82,4 120,4 133,8 166,7 157,1 74,5 194,7 109,5 89,8 122,3 109,8 150,0 157,6 76,4 152,6 126,6 92,0 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 100,6 97,5 99,7 106,1 111,3 107,6 117,1 100,8 112,3 108,8 115,2 110,7 La provincia di Ravenna Il dato complessivo degli infortuni mostra una traiettoria crescente dal 1999 al 2002 per poi scendere nel 2003 a 11.245 infortuni denunciati. Questo implica che nell’ultimo anno gli sforzi degli attori del sistema sicurezza hanno portato ad una inversione di tendenza, spezzando un ritmo crescente che cominciava a rappresentare un reale aspetto sfavorevole ad uno sviluppo lungo la via alta alla competitività. Come nel caso precedente, ad incidere con maggiore gravosità sul dato aggregato sono il settore del commercio e dei servizi. Nella industria manifatturiera infatti, analogamente all’andamento del dato complessivo, si registra una crescita progressiva del volume degli incidenti denunciati fino al 2002 (+6,3) 94 e poi un calo improvviso nel 2003 (-3,3), con una variazione annuale di 9,9 punti (280 incidenti denunciati in meno). Nell’ambito della industria manifatturiera, il settore metalmeccanico è quella in cui si concentra il numero più elevato di infortuni in termini assoluti. Mentre in termini di variazione relativa nel quinquennio, i settori più significativi sono il settore della gomma, in cui dopo un aumento di 20,4 punti nel 2002 si è ritornati nel 2003 ai valori del 1999, ed il settore della industria elettrica con 11 punti in più rispetto all’anno base 1999. Considerando anche il peso dei valori assoluti per settore, la miglior performance in termini di riduzione degli infortuni è da considerarsi quella raggiunta nell’industria alimentare con una riduzione nei 5 anni di 17,8 punti. Il settore del commercio presenta un trend infortunistico molto altalenante. Dopo infatti un innalzamento dell’indice infortunistico nel 2000 è seguito un calo ed ancora un aumento di 20,1 punti, da cui nel 2003 si è scesi a +6,4 punti rispetto all’anno base 1999. L’incremento più consistente si verifica nel commercio all’ingrosso con un +18,5 punti dal 1999 al 2003. Il settore dei servizi presenta, similmente al settore del commercio, una generale crescita degli infortuni. In particolare crescono gli infortuni nel settore alberghi e ristoranti e dei trasporti, nonostante il dato deve essere inserito in un contesto di diminuzione tendenziale, il settore delle attività immobiliari (+43,8), testimone di una crescita rapida e continua fin dal 1999, pubblica amministrazione (+8,2), sanità (+25,1) e servizi pubblici (+11,8). Tabella 27 – Ravenna. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 87,1 78,6 84,3 94,3 100 181,8 136,4 145,5 100,0 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO 100 100 100 100 100 100 88,8 90,1 93,5 103,1 108,1 105,0 107,4 82,6 90,8 116,2 106,8 77,8 56,5 80,6 108,1 82,2 84,0 58,7 76,5 135,1 95 DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 98,1 114,8 101,0 99,5 100,3 108,2 84,5 106,0 99,3 102,8 104,6 108,7 104,7 98,8 97,3 102,8 108,0 102,8 112,0 120,4 114,1 113,4 98,8 117,1 78,9 108,0 106,3 100,0 101,0 103,4 99,7 96,5 111,0 66,2 94,0 94,7 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 104,7 104,5 83,7 105,9 61,6 111,9 10,5 116,3 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 101,5 108,3 107,3 105,8 85,4 100,4 100,6 95,9 107,7 128,3 123,4 120,1 85,1 118,5 113,7 106,4 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 114,7 103,2 84,0 110,7 104,3 104,1 119,2 104,8 116,5 99,5 83,0 122,1 107,8 104,1 129,0 114,8 117,2 112,7 75,5 137,6 133,8 128,6 131,3 111,4 105,4 101,4 74,5 143,8 108,2 132,7 125,1 111,8 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 104,0 93,0 100,3 105,0 99,7 103,3 113,3 91,4 106,0 105,2 96,1 102,2 La provincia di Forlì-Cesena Come abbiamo già avuto modo di riscontrare dalla analisi delle frequenze relative la provincia di Forlì-Cesena è la realtà territoriale con il più alto rapporto tra numero di infortuni e volume occupazionale. In una logica di comparazione provinciale, risulta particolarmente di rilievo una disaggregazione dei dati infortunistici per settore, per comprendere dove sono rintracciabili gli elementi di criticità. L’andamento dell’indice infortunistico complessivo mostra una tendenza crescente fino al 2002, anno in cui l’indice presentava una variazione positiva pari a +9, per poi calare fino a +3,3 nel 2003. Diversamente da gran parte delle altre province emiliano-romagnole, in provincia di Forlì non si assiste ad una marcata diminuzione del 96 numero di infortuni nell’industria manifatturiera. Ad eccezione del 2003, infatti, i dati indicano un livello di infortuni sempre più alto del valore registrato nel 1999. Tra le industrie manifatturiere, quelle che riportano variazioni maggiori nel quinquennio considerato, e quindi incidono più pesantemente sulle presenza di elementi di criticità, sono l’industria alimentare (+16,3), l’industria del tessile (+43,8), l’industria della gomma (+11,4), l’industria elettrica (+37,7). Anche il settore dell’agroindustria mostra un andamento non tranquillizzante. I dati relativi alla industria meccanica possono essere interpretati come punti positivi in quanto proprio nel settore si individuano le diminuzioni complessive più alte (-19,4). Nei cinque anni considerati, infatti, il numero assoluto degli infortuni è passato da 168 nel 1999 a 223 nel 2003 per poi calare sensibilmente a 189 nel 2003. Il settore delle costruzioni ha continuato negli anni a mantenere alti livelli di infortunio denunciati ma invece di avere una inversione di tendenza nel passaggio dal 2002-2003, come altri settori in provincia, ha invece visto il numero di infortuni passare da 1.309 a 1.388 (+6,3). Anche il settore del commercio presenta un numero di infortuni in aumento e soprattutto nel commercio all’ingrosso, settore nel quale dopo il 2000 il dato sembra stabilizzarsi su valori di circa 15 punti superiori all’indice base 1999. Similmente alle altre province, a Ferrara si nota una generale crescita tendenziale degli infortuni nel settore dei servizi. Il dato su cui una analisi anche superficiale si soffermerebbe è quello relativo al settore dei trasporti, in cui rispetto al 1999 nel 2003 si verifica un incremento di 23,7 punti, il settore delle attività immobiliari (+25,2) e la sanità (+20,8) Tabella 28 – Forlì. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI Settori di Attività Economica 100 103,6 123,8 132,7 112,5 100 50,0 91,7 66,7 58,3 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA DD IND. LEGNO 100 100 100 100 96,8 157,8 116,2 106,5 109,6 143,8 137,0 110,3 121,2 121,9 108,8 92,4 116,3 143,8 97,2 91,4 97 DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 108,3 50,0 100,0 111,4 92,0 109,8 101,1 155,1 100,4 91,4 105,6 118,1 50,0 132,7 100,0 104,5 111,5 117,2 105,8 105,9 101,5 112,4 115,3 100,0 116,4 102,9 105,1 93,7 105,3 136,2 108,5 104,7 104,7 91,7 75,0 100,0 111,4 104,0 102,1 80,6 137,7 89,8 97,9 99,5 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 47,4 104,7 47,4 104,4 73,7 103,2 63,2 109,5 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 106,1 115,3 119,9 114,3 96,6 114,2 104,3 106,5 95,6 114,6 100,6 105,2 99,0 115,1 107,1 108,3 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 96,8 103,6 100,0 102,8 80,6 80,4 119,0 86,6 100,5 115,1 146,2 119,6 80,0 91,3 123,0 94,6 97,5 104,2 136,5 124,5 84,7 104,3 128,5 106,7 102,5 123,7 109,6 125,2 81,8 106,5 120,8 112,5 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 104,8 100,6 103,7 109,5 100,6 107,2 106,2 116,8 109,0 106,3 94,7 103,3 La provincia di Rimini La provincia di Rimini racchiude al suo interno una particolarità squisitamente statistica. Guardando infatti ai dati specifici per attività economica non si spiega come il numero complessivo sia, negli anni considerati, in continuo aumento. Prestando, infatti, attenzione alla distribuzione degli infortuni lungo l’asse temporale si nota come l’industria manifatturiera, il commercio ed il settore dei servizi non abbiano subito variazioni tali da giustificare un innalzamento di 13 punti tra il 1999 e il 2005. L’incongruenza si scioglie se si 98 confrontano i trend degli infortuni totali e quelli complessivi. La voce “totale” è infatti in linea con i dati per attività economica mente la voce “complessivo” è fortemente influenzato dalla voce “non indeterminato”: nel 2003 di 7.104 incidenti denunciati, 1.892 non hanno una appartenenza settoriale definita. La industria manifatturiera registra negli anni un considerevole calo passando da 1.599 nel 1999 a 1.322 nel 2003 (-27,3). Ad eccezione dell’industria dei mezzi di trasporti, in cui si registra un aumento di 27 incidenti all’anno dal 1999 al 2003, il numero di industrie manifatturiere è in diminuzione. il settore più virtuoso, ossia quello in cui la discrepanza tra il 1999 ed il 203 risulta maggiore, è il settore della industria meccanica e dei metalli. In termini assoluti i due settori hanno assistito, in cinque anni, ad una riduzione complessiva di 130 infortuni denunciati all’anno. Il comparto delle costruzioni è cresciuto nel periodo considerato in termini di infortuni denunciati: i 916 infortuni del 1999 sono arrivati a 1005 nel 2002 per poi scendere a 972 nel 2003. Il settore del commercio presenta invece un andamento degli infortuni decrescente dal 2000 al 2003. A contribuire maggiormente al contenimento del numero di infortuni è il settore del commercio e riparazioni autoveicoli, con una riduzione di 30 punti, e il commercio all’ingrosso, con un calo di 8,2 punti. Nel settore dei servizi i dati relativi al settore dei trasporti è tornato ai valori del 1999 dopo anni di forte aumento: nel 2002 si è registrato una crescita di 31,4 punti. I settori più a rischio nel settore dei trasporti sembrano essere la pubblica amministrazione (+33,2), attività immobiliari (+14,2) e la sanità (+14) Tabella 29 – Rimini. Infortuni sul lavoro denunciati dalle aziende per settore di attività economica e anno evento. Fonte INAIL Settori di Attività Economica 1999 2000 2001 2002 2003 A AGRINDUSTRIA B PESCA C ESTRAZ.MINERALI 100 100 100 233,3 600,0 100,0 166,7 200,0 33,3 191,7 400,0 66,7 233,3 300,0 100,0 DA IND. ALIMENTARE DB IND. TESSILE DC IND. CONCIARIA 100 100 100 99,2 121,3 100,0 86,7 93,3 117,1 95,0 105,3 104,9 78,3 73,3 65,9 99 DD IND. LEGNO DE IND. CARTA DF IND. PETROLIO DG IND. CHIMICA DH IND. GOMMA DI IND.TRASFORMAZ. DJ IND. METALLI DK IND. MECCANICA DL IND. ELETTRICA DM IND.MEZZI TRAS. DN ALTRE INDUSTRIE * D TOT.IND.MANIF. 100 100 104,0 102,0 93,5 106,0 103,2 104,0 79,0 104,0 100 100 100 100 100 100 100 100 100 85,7 80,6 98,5 122,8 104,1 125,5 108,1 95,1 107,4 128,6 61,3 102,2 105,7 109,9 98,2 164,9 96,2 103,1 150,0 87,1 92,5 91,6 95,6 109,1 164,9 95,1 98,2 157,1 71,0 76,1 76,9 87,7 101,8 173,0 68,6 82,7 E ELET. GAS ACQUA F COSTRUZIONI 100 100 123,4 105,5 83,0 102,7 125,5 109,7 42,6 106,1 G50 COMM. RIP. AUTO G51 COMM. INGROSSO G52 COMM. DETTAGLIO * G TOT. COMMERCIO 100 100 100 100 100,5 105,1 95,0 100,1 89,5 113,3 100,4 102,1 84,2 108,2 108,1 101,7 70,0 91,8 100,4 89,0 H ALBERG. E RIST. I TRASPORTI J INTERM. FINANZ. K ATT.IMMOBILIARI L PUBBLICA AMMIN. M ISTRUZIONE N SANITA' O SERV. PUBBLICI 100 100 100 100 100 100 100 100 110,4 126,4 102,3 112,4 115,8 108,0 121,9 97,5 109,1 125,0 118,6 119,7 109,5 84,0 109,7 113,0 108,6 131,4 69,8 144,2 134,0 164,0 122,6 121,1 97,5 100,2 79,1 114,2 133,2 156,0 114,8 62,7 TOTALE X NON DETERMINATO IN COMPLESSO 100 100 100 109,0 108,3 108,9 107,3 114,2 108,2 111,3 115,3 111,8 95,0 235,0 113,0 100 La gestione della salute e la sicurezza nel comparto artigiano e nelle piccole imprese in Emilia-Romagna CARLO BONORA, SILVIA CAVICCHI; DAVIDE DAZZI; SAMUELA FELICIONI 1 Introduzione Uno degli obiettivi primari della strategia comunitaria adottata dalla Commissione delle Comunità Europee è costituito dalla promozione e dal continuo miglioramento del “benessere sul luogo di lavoro” dal punto di vista fisico, psicologico e sociale. Eppure la strada verso questo obiettivo sembra ancora piuttosto tortuosa, basti guardare da un lato al persistere di dati allarmanti sugli infortuni, dall’altro all’emergere di nuove malattie legate alle condizioni in cui si lavora, quali lo stress e il mobbing. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro insiste fortemente sull’efficacia degli strumenti di prevenzione esistenti e sulla reale possibilità di ridurre incidenti e rischi professionali, previo un reale impegno da parte degli Stati nel rispettare le convenzioni e le strategie elaborate in materia di salute e sicurezza e nel riconoscere un ruolo cruciale al dialogo sociale e alla concertazione. Il processo che porta al verificarsi di un infortunio sul lavoro è infatti lungo e composto da diversi fattori; l’infortunio ne rappresenta solo l’esito finale, la manifestazione più evidente. Alla luce di tali considerazioni, si è deciso di agire in una logica di continuità e complementarietà rispetto ai contributi fino ad ora raccolti nell’ambito della gestione della salute e sicurezza, focalizzando l’interesse sullo stato dell’arte del sistema sicurezza nelle piccole imprese e nel comparto artigiano nella regione Emilia-Romagna orientando le nostre considerazioni alla prevenzione. Il seguente capitolo si articola sostanzialmente in due parti. La prima parte contiene una indagine documentale sul ruolo 101 esercitato dall’Ente bilaterale regionale per l’Artigianato (EBER), quale ente di eccellenza, a livello nazionale, nella gestione della sicurezza e promozione della cultura della prevenzione nelle micro e piccole imprese, ed una indagine descrittiva sulle dinamiche infortunistiche a livello regionale e provinciale. Nella seconda parte si procede all’analisi del sistema sicurezza nelle piccole imprese attraverso un approccio di tipo empirico intervistando parallelamente da un lato stakeholders di rilevanza in materia e, dall’altro, i rappresentanti provinciali delle associazioni datoriali maggiormente radicate sul territorio e alcune piccole imprese e imprese artigiane. 2 E.B.E.R.: funzioni e struttura Nel sottoscrivere l’Accordo Interconfederale Nazionale del 1988, le Parti Sociali concordarono di concretizzare il modello delle relazioni sindacali attraverso “la promozione di sedi bilaterali” che svolgessero “un ruolo propositivo verso le istituzioni e il legislatore in materia di occupazione e mercato del lavoro, per coniugare flessibilità e dinamismo del sistema artigiano con la valorizzazione del ruolo delle parti nelle sedi di governo locale del mercato del lavoro” proclamando la necessità di “un intervento congiunto” al fine di favorire, sia a livello nazionale che comunitario, lo “sviluppo dell’artigianato per la valorizzazione della rappresentanza dell’associazionismo della imprenditoria artigiana e del lavoro dipendente nelle varie sedi istituzionali”. Per dare attuazione a tale impegno fu costituito, il 17 luglio 1991, l’Ente Bilaterale dell’Emilia-Romagna (E.b.e.r.) per iniziativa delle rappresentanze sindacali dei lavoratori Cgil, Cisl e Uil e delle imprese artigiane Cna, Confartigianato, Casaartigiani e Claai. L’E.b.e.r. nasce perciò come risposta alla complessità, alla crescita e alle peculiarità di un comparto, quello artigianale appunto, che riveste un ruolo economico primario nella produzione regionale e come strumento attuativo di un nuovo modello di relazioni sindacali basato sul confronto e il dialogo tra le parti, con il compito di gestire gli accordi sindacali attraverso la ricerca di elementi accomunanti in una 102 prospettiva di sviluppo, crescita e promozione della impresa artigiana, di difesa della occupazione e di creazione di dispositivi condivisi di tutela dell’impresa e dei lavoratori. Lo scopo sociale dell’ente si può ricondurre a quattro azioni principali: promozione e sviluppo delle relazioni sindacali nell’artigianato, studi e proposte di iniziative tese ad incrementare lo sviluppo del settore, gestione di fondi e strutture derivanti da accordi/intese interconfederali e promozione della formazione professionale per i lavoratori e gli imprenditori artigiani. Per espletare tali servizi l’E.b.e.r. si è dotato di una struttura articolata, attraverso la quale gestisce una serie di servizi e prestazioni rivolte alle imprese artigiane aderenti (che costituiscono ben il 90% di quelle presenti sul territorio) e ai lavoratori loro dipendenti, che comprende: 1) Fondo di Sostegno al Reddito di dipendenti ed imprese, la cui principale funzione è intervenire con quote a favore dei lavoratori dipendenti in situazioni di crisi congiunturali che comportano forme di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro. 2) Fondo di Formazione Teorica, con la finalità di raccogliere fondi per la formazione e predisporre l’erogazione della stessa. 3) Fondo Relazioni Sindacali, costituito per conoscere e sviluppare le relazioni tra le parti nel comparto attraverso la promozione della modalità bilaterale. 4) un Sistema Salute e Sicurezza a cui si aggiunge l’Osservatorio delle Imprese Artigiane. Esaminiamo ora più approfonditamente le principali caratteristiche e funzioni del Sistema di Salute e Sicurezza. Stando al D. Lgs. 626/94 e le sue successive integrazioni, le imprese sono tenute ad organizzare la sicurezza sui luoghi di lavoro, elaborare la valutazione dei rischi, individuare misure tali da garantire la prevenzione e la protezione e formare ed informare i lavoratori secondo un modello sinergico che prevede la consultazione e la partecipazione dei 103 Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls). Poiché però le disposizioni previste dal decreto risultavano sostanzialmente declinate per la struttura e le caratteristiche proprie delle medie e grandi imprese, le associazioni artigiane e le organizzazioni sindacali hanno sentito la necessità di realizzare Accordi Interconfederali, sia a livello nazionale che regionale, al fine di adeguare l’applicazione della legge alle specificità del comparto artigiano. Obiettivo principale di tali accordi è quello di favorire un sistema relazionale e partecipativo che accresca la responsabilità e la consapevolezza di tutti i soggetti interessati al fine di rendere più sicuri e produttivi i luoghi di lavoro. In quest’ottica sono stati costituti due organismi parititeci tra le OO.AA e le OO.SS con lo scopo principale di orientare e promuovere iniziative formative in materia di salute e sicurezza: il Cpra (Comitato Paritetico Regionale per l’Artigianato) e l’Opta (Organismo Paritetico Territoriale per l’Artigianato). Questi organismi costituiscono una struttura a livello regionale che è autonoma rispetto all’E.b.e.r. ma alla quale quest’ultimo fornisce un appoggio tecnico e organizzativo attraverso il suo Sistema di Salute e Sicurezza che ha come scopo primario quello di supportare con attività di segreteria tecnica ed organizzativa le strutture di gestione previste dagli Accordi Interconfederali. Scendendo più nel dettaglio, vediamo che sostanzialmente, il Sistema di Salute e Sicurezza dell’E.b.e.r. si articola su una rete relazionale che ha come punti cardine il Cpra, l’Opta e gli Rls (Rlst). Il Comitato Paritetico Regionale per l’Artigianato è composto, data la sua natura bilaterale, da sette componenti, ciascuno per ogni associazione di rappresentanza e opera con funzioni di orientamento e di coordinamento a livello regionale al fine di rendere omogenei gli obiettivi e i criteri di applicazione degli Accordi e della legge nell’intero territorio. La sua finalità principale è quella di promuovere la cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro e, per raggiungere tale obiettivo, oltre a individuare i diversi fabbisogni territoriali, funge da interlocutore e intermediatore tra i vari Enti Regionali al fine di qualificarne le azioni favorendo l’acquisizione di modalità omogenee di intervento (sostegno economico ad attività di promozione, attività di vigilanza etc.) e monitora, coordina e promuove gli Opta 104 attraverso la raccolta e la verifica delle attività trimestrale di bacino. L’Organismo Paritetico Territoriale per l’Artigianato si compone anch’esso di sette componenti espressi pariteticamente dalle associazioni di rappresentanza e la sua struttura organizzativa si dispiega in undici bacini territoriali: Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Imola, Ferrara, Ravenna, Forlì, Cesena e Rimini. Gli Opta, costituiti presso gli E.b.e.r. territoriali, hanno il compito di promozione della formazione e di sede della consultazione dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriali (Rlst) sui documenti di valutazione del rischio. L’Opta quindi, riprendendo al livello territoriale di competenza l’attività promossa dal Comitato Paritetico a livello regionale riguardante la diffusione della cultura della sicurezza e della prevenzione, esercita innanzitutto attività di promozione e iniziative, anche formative, nei confronti dei principali attori del Sistema di Salute e Sicurezza. E’ poi anche la sede in cui si esplicano gli obblighi di informazione e consultazione previsti dalla legge. Inoltre può interloquire con le Ausl in merito ad attività riguardanti la prevenzione, la sicurezza, l’igiene e la tutela della salute in una prospettiva di divisione sinergica dei compiti. L’organismo risulta inoltre indicato come sede dirimente delle controversie nate tra le parti riguardanti diritti di rappresentanza, informazione e formazione. Infine, altra figura cardine del Sistema è rappresentata dal Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza il cui ambito di azione varia a seconda del numero di lavoratori impiegati dalle imprese. Per le imprese con un numero di dipendenti inferiore a 15, il soggetto di riferimento è, in base alle disposizioni del D. Lgs. 626/94, il Rappresentante territoriale (Rlst), la cui attività è, come abbiamo visto, strettamente collegata a quella dell’Opta territoriale corrispondente. Per le imprese il cui numero di addetti è superiore a 15, il Rappresentante opera direttamente all’interno della azienda (Rlsa) e deve ricevere, secondo gli obblighi di legge, da parte del datore tutte le informazioni richieste e la documentazione relativa alla valutazione dei rischi per consultarla. Quella appena descritta è la struttura organizzativa dell’E.b.e.r così come prevista dagli accordi tra le parti sociali e dalla legge. Il suo 105 reale funzionamento e gli obiettivi effettivamente raggiunti dalla stessa sono stati indagati in una ricerca che il Cpra ha promosso proprio per evidenziare le criticità e le potenzialità del Sistema Salute e Sicurezza E.b.e.r. così come percepite dai principali attori che ne sono coinvolti. Dalla ricerca risulta la convinzione che solo un coinvolgimento sinergico di tutti gli attori coinvolti sia in grado di diffondere la cultura della prevenzione e della sicurezza soprattutto in un comparto come quello artigiano composto per lo più da imprese di piccole/piccolissime dimensioni in cui sindacato non ha una struttura capillare, radicata e diffusa. Lo strumento della bilateralità si dimostra quindi estremamente efficace perché permette di raggiungere obiettivi condivisi tra le parti all’interno di realtà produttive spesso trascurate a livello legislativo e che altrimenti sarebbero in difficoltà ad ottemperare agli obblighi previsti dalla normativa in materia di sicurezza, che, tarata sulle medie/grandi imprese, difficilmente può essere tradotta in interventi qualificanti per la cultura della sicurezza. A questo proposito, nonostante l’intervento dell’E.b.e.r. sia ritenuto fondamentale alla sensibilizzazione dei datori di lavoro e dei lavoratori, per molte aziende ancora oggi la sicurezza sul luogo di lavoro continua ad essere considerata come un costo o, al più, un obbligo formale. Tale percezione è dimostrata dal fatto che, sebbene il 53,9% degli imprenditori artigiani intervistati dichiari che le attività svolte dall’E.b.e.r. siano “utili” o “molto utili” nella prospettiva di un progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro, ben il 51,6% dichiara di aver utilizzato “poco” o “mai” la documentazione prodotta dallo stesso ente e, nonostante il materiale informativo sia puntualmente distribuito ai dipendenti dal 68% delle imprese, ben il 54,2% di queste ritiene in questo modo esauriti gli obblighi informativi e formativi previsti dalla legge quando in realtà, il materiale E.b.e.r. viene ideato ed elaborato con la funzione di supporto e non di strumento per assolvere a tali obblighi. Inoltre, seppur una buona parte dei datori di lavoro (il 63,9%) ritenga che effettivamente la normativa su salute e sicurezza abbia reso il lavoro più sicuro e meno dannoso, molti lamentano l’eccessiva burocratizzazione legata alla normativa e ritengono che la presenza 106 dei numerosi soggetti creati in supporto ad essa sia un aggiuntivo costo che ricade sulla azienda. Uno dei nodi più critici individuato nel Sistema Salute e Sicurezza da quasi tutti gli attori coinvolti è sicuramente la figura dell’Rlst. Il primo aspetto è sicuramente la scarsa numerosità di tali figure che molto spesso si trovano a dover monitorare un’area estremamente vasta di aziende con conseguenti ripercussioni sulla visibilità che acquisiscono nei confronti dei datori e degli stessi lavoratori, a tale problema si aggiunge quello legato alle competenze professionali trasversali richieste agli Rlst (ciascuno dei quali deve far fronte non solo a realtà territoriali vaste ma anche composite dal punto di vista del gruppo di appartenenza e quindi degli interventi necessari e delle procedure comportamentali da seguire) e quello relativo al breve o discontinuo impegno temporale di questi soggetti, caratterizzati da un rapido turn over e da un impegno non a tempo pieno in materia che finisce per rendere impossibile l’instaurarsi di un rapporto continuativo con i lavoratori, la aziende e le istituzioni. 1 Infortuni nelle aziende artigiane dell’Emilia-Romagna Nonostante alcuni punti di debolezza, si può in generale affermare che, assieme ad altri fattori, il Sistema Salute e Sicurezza abbia contribuito alla riduzione degli infortuni verificatisi negli ultimi anni in quasi la totalità delle province della regione dimostrando così l’importanza e l’efficacia della presenza capillare delle strutture bilaterali nel comparto artigiano del territorio. Notiamo infatti che, se fino al 2002, il numero degli infortuni denunciati nelle aziende artigiane dell’Emilia-Romagna non scendeva al di sotto delle 21.000 unità, con un picco di 21.603 nel 2000, nel 2003 si è finalmente scesi a 19.363, un risultato senz’altro importante perché dimostra una riduzione dal 1999 al 2003 del 9,7% circa, a fronte di una riduzione nazionale del 9,2% (da 155.009 nel 1999 a 140.686 nel 2003). Tuttavia la nostra regione si situa ancora ai vertici della classica per il maggior numero di infortuni, sorpassata com’è solo dalla Lombardia con 24.119 infortuni denunciati nel 2003 (ma con una riduzione dal 1999 del 11,2%) e dal Veneto con 20.768 (anch’esso con una 107 riduzione simile: 11,1%). Risulta perciò necessario continuare ad investire nel Sistema Salute e Sicurezza e in una sempre più costante attività di controllo e formazione non solo per confermare i buoni risultati fino ad ora raggiunti ma per accentuarli. Nel farlo, bisogna tener presente che l’incidenza degli infortuni interessa in maniera diversa le province, i settori di attività economica, la dimensione in termini di occupazionali delle aziende, così come la tipologia di lavoratori coinvolti (per sesso, età e modalità contrattuale, ad esempio). Stando ai dati Inail per il 2003, la provincia che ha registrato il maggior numero di infortuni denunciati, comprendenti sia i lavoratori dipendenti per ogni classe di azienda che gli autonomi, è quella di Bologna (3.367), seguita da Modena con 3.258, Forlì (2.698) e Reggio Emilia con 2.653, ossia quelle province che rispetto alle altre presentano una quota maggiore di imprese artigiane, al 2004, secondo i dati dell’Osservatorio E.b.e.r, Bologna ne contava 7.167, Modena 7.474 e Reggio 5.118. Tabella1: Infortuni denunciati nelle aziende artigiane per anno evento Province Bologna Ferrara Forlì Modena Parma Piacenza Ravenna Reggio Emilia Rimini Emilia-Romagna 2002 3.468 1.336 2.555 3.908 2.100 1.121 1.988 2.956 1.609 21.041 2003 3.367 1.254 2.698 3.258 1.798 1.052 1.890 2.653 1.393 19.363 Fonte: Inail Nonostante le cifre siano ancora molto elevate, la tendenza alla riduzione degli infortuni è sostenuta e, a fronte di una media regionale di circa l’8% di denunce in meno nel 2003 rispetto al 2002, si passa dal –16,6% di Modena al –14,4% di Parma fino al -2,9% di Bologna. Unica provincia che registra una aumento è Forlì con il 5,6% di infortuni denunciati in più. Confrontando poi il numero degli 108 incidenti denunciati in complesso dalle aziende artigiane (19.363) con quello totale (128.120) e tenendo conto di circa 47.595 aziende non determinate, risulta come sia maggiore il numero di incidenti nelle aziende non classificate come artigiane, pari a circa 61.162, con differenze più accentuate a Bologna e Modena. Le differenze riscontrate tra le diverse province possono essere in parte giustificate con la differente crescita del settore artigiano in ciascuna di esse che, seppur piuttosto trasversale, oscilla da una percentuale di variazione massima pari al 5,25% di Forlì-Cesena, passando per il 5,13% di Modena ad una minima dello 0,9% di Piacenza. Cambiando adesso la prospettiva di indagine, analizziamo il fenomeno infortunistico relativamente al settore produttivo in cui si collocano le imprese artigiane. I due settori prevalenti in Emilia-Romagna, considerando sia il numero di imprese che il numero di dipendenti, sono sicuramente il metalmeccanico (14.488 imprese e 63.712 dipendenti) e l’edilizia (7.592 imprese e 22.019 addetti), come era facile aspettarsi date le caratteristiche regionali, la crescente frammentazione aziendale, l’organizzazione del lavoro prevalente nel comparto. E’ in questi settori che si registra il maggior numero di incidenti denunciati dalle imprese artigiane: nel 2003 quelli verificatisi nei due settori considerati erano circa il 73,4% del totale, pari a 14.809: di questi 7.253 (pari al 37,4% del totale) nell’industria manifatturiera e 7.556 (39%) nel settore delle costruzioni. Prendendo in considerazione solo il primo tra i due settori considerati, il maggior numero di incidenti è registrabile nell’industria dei metalli con 2.819 infortuni denunciati, a seguire l’industria meccanica con 925 e quella alimentare, con 794. Nonostante le cifre rimangano sempre piuttosto elevate, l’industria manifatturiera ha visto negli anni diminuire l’entità del fenomeno, passando da 8.908 casi nel 1999 a 7.253 nel 2003, con una variazione rispetto all’anno precedente, il 2002, pari a –13,3%. Ancora più allarmante la situazione nel settore delle costruzioni che, sebbene come precedentemente osservato, si compone di un numero minore di imprese, presenta dati circa gli infortuni che raggiungono e addirittura superano i livelli del settore industriale. Tanto più che se nel 1999 gli infortuni denunciati erano 7.306, nel 2003 essi erano 109 saliti a 7.556, anche se bisogna considerare una riduzione rispetto al 2002 del 3,4%, percentuale ancora ridotta ma in controtendenza con i dati degli anni precedenti, in cui si era assistito ad un incremento progressivo quanto inesorabile. Nel considerare questi dati è necessario tener presente le caratteristiche proprie del settore edilizio, il cui numero di imprese aumenta più che in altri settori (la variazione percentuale nel 2004 rispetto al 2003 è stata del 6,54%) e della crescente frammentazione del sistema edilizia. Quest’ultima caratteristica verosimilmente incide sul numero di incidenti sul lavoro, basti pensare alla moltiplicazione di contratti di appalto e subappalto spesso incardinati in un sistema basato su un continuo ribasso dei prezzi delle commesse con la conseguente necessità, soprattutto per le imprese di dimensioni più ridotte, di ridurre le proprie spese, il che avviene spesso tagliando quelle destinante alla sicurezza. Tra gli altri, un settore che appare particolarmente interessato dal fenomeno infortunistico è quello dei trasporti, che pur rappresentando il 5,30% del totale delle imprese artigiane della regione, fa registrare nel 2003 ben 1.707 infortuni, l’8,8% del totale, e risulta anche l’unico in cui il numero delle malattie professionali, dopo essere cresciuto più rapidamente che altrove, continua a mantenersi costante. Il che ci riporta alla criticità tipiche di questo settore, soprattutto in termini di controllo dello stesso e di coloro che vi operano. È da considerare inoltre che, mentre nelle medie e grandi imprese le relazioni industriali sono sviluppate contribuendo, quindi, alla coesione interna e all’efficacia del dialogo sociale, nel sistema artigiano la scarsa presenza del sindacato impone un “controllo” e interventi sulle condizioni di vita e di lavoro dall’esterno. Rimanendo sempre in tema di caratteristiche strutturali e organizzative aziendali, vediamo ora come varia il numero di infortuni a seconda della dimensione occupazionale. Come era d’obbligo aspettarsi, esso appare inversamente proporzionale a quello dei dipendenti impiegati. Così su un totale di 9.048 infortuni occorsi nel 2003 tra le imprese artigiane che occupano dipendenti, ben 8.708 si sono verificati in quelle con classe di addetti da 1 a 15, 314 in quelle da 16 a 30 e 26 laddove il numero di lavoratori risulta superiore a 30. La maggiore incidenza di infortuni nelle imprese di 110 piccole dimensioni è spiegabile considerando la concomitante azione di diversi fattori: la citata rara presenza di un sindacato organizzato in modo strutturato e capillare, minore visibilità di tali realtà agli attori istituzionali, ridotta e discontinua possibilità di essere sottoposte a visite ispettive e di controllo e prevalenza di rapporti informali. I dati che si erano riportati relativamente ai settori produttivi che presentano maggiori criticità, rispecchiano, se declinati secondo la variabile della classe di addetti, le stesse conclusioni. Risulta infatti che una buona percentuale del totale degli infortuni ivi riscontrati è imputabile alle aziende che impiegano un numero di dipendenti inferiore a 15: su un totale di 4.346 infortuni denunciati tra le imprese dell’industria manifatturiera con l’esclusione degli autonomi, ben 4.148 sono quelli verificatisi in realtà di piccole dimensioni, e lo stesso discorso vale per le costruzioni (su un totale di 2.949, 2.886 sono gli infortuni nella classe occupazionale 1-15). Spostiamo ora l’attenzione dalle caratteristiche strutturali della azienda che si sono fin qui esaminate ossia distribuzione territoriale, settore produttivo e classe dimensionale, per indagare quale sia l’incidenza dell’evento infortunistico rapportata alle differenti tipologie di lavoratori impiegati nel settore considerato, in particolare relativamente al genere, alla modalità di impiego e alla fascia di età alla quale il lavoratore appartiene. Confrontata con le altre regioni italiane, l’Emilia-Romagna risulta la prima per il numero di incidenti denunciati nel settore artigiano occorsi alle lavoratrici e, assieme al Veneto, è l’unica che presenta una cifra al di sopra di due migliaia con 2.105 (il Veneto 2.022) e rappresenta ben il 16,8% degli infortuni considerati rispetto al totale nazionale. Nel corso degli anni la quantità di donne infortunate nel settore artigiano è andata diminuendo, e questa tendenza si verifica anche nella nostra regione dove, facendo un confronto tra i dati del 1999 e del 2003, si registra una riduzione del 9,3%, con punte di 11 punti percentuali in meno tra il 2002 e il 2003, quando si passa da 2.370 casi registrati ad, appunto, 2.105 rispetto ad una riduzione a livello nazionale, tra il 1999 e il 2003 di –6,4% e nel periodo 2002-2003 di –8,6%. Tra le province emiliano-romagnole, le riduzioni maggiori (nel 111 periodo 2002-2003) si sono verificate a Piacenza, che già registra il numero minore di infortuni, con –27% e a Rimini con –22,4%. Per contro, aumenti anche piuttosto significativi si segnalano nelle sole province di Forlì (+6,4%) e di Ravenna (+4,2%). La provincia in cui si riscontrano più infortuni denunciati è Modena seguita da Bologna e Reggio Emilia che rispettivamente rappresentano il 18,6%, il 18% e il 14,3% del totale regionale. A livello nazionale, la maggior parte degli infortuni sul lavoro riguarda i soggetti, dipendenti e autonomi, compresi nella fascia di età 18-34 che costituiscono il 45,2% del totale, seguiti da quelli della fascia 35-49, il 33,7%. Le stesse proporzioni le ritroviamo anche in Emilia-Romagna dove, su un totale di 19.636 infortuni denunciati, 8.820 (ossia il 45,5%) coinvolgono la fascia 18-34 e 6.465 (il 33,4%) quella 35-49. In generale i valori degli incidenti sul lavoro sono estremamente elevati per ogni categoria di età, ma sempre inferiori a quelli registrati in Lombardia e Veneto, a parte nel caso dei lavoratori over 64, interessati in Emilia-Romagna più che altrove dal fenomeno, raggiungendo valori al sopra delle 300 unità (338), non superate invece nelle altre zone considerate. Per quanto riguarda invece la distribuzione provinciale, Reggio Emilia registra la più alta quota di infortuni riguardanti lavoratori al di sotto dei 17 anni, Bologna per quelli compresi nella fascia 18-34 , 35-49 e over 64 e infine Modena per quelli con una età compresa tra i 50 e i 64 anni. Inoltre, considerando la distribuzione degli infortuni per classe di età relativamente al settore di attività economica, la fascia fino ai 17, risulta coinvolta soprattutto in infortuni occorsi nella industria manifatturiera, mentre per le altre è il settore delle costruzioni quello più a rischio. Infine, se spostiamo l’attenzione sulla posizione lavorativa, notiamo che sul totale (19.636) di infortuni sul lavoro occorsi nelle aziende artigiane della regione, buona parte, il 47,1% pari a 9.129 casi, è avvenuta tra i lavoratori autonomi il cui numero di incidenti è più elevato rispetto alla totalità di quelli avvenuti tra i dipendenti, considerati nella totalità delle classi dimensionali. Se poi i lavoratori dipendenti risultano particolarmente colpiti nel settore dell’industria manifatturiera, con 4.346 casi contro i 2.353 degli autonomi, 112 l’incidenza degli infortuni tra questi ultimi appare particolarmente elevata nell’area edile, dove rappresentano rispettivamente il 54,9% e il 59,7% del totale dei casi verificatisi. Il generalizzato calo degli infortuni a livello regionale e più specificamente in ciascuno degli ambiti sopra analizzati, può essere interpretato come il risultato dell’opera di tutti gli strumenti giuridici, strutturali, relazionali e formativi messi in atto a partire dagli anni ’90, progettati per adeguarsi alla caratteristiche specifiche del comparto artigiano. Tuttavia, nonostante la riduzione trasversale rilevata nelle diverse province, il fenomeno infortunistico nel comparto si mantiene ancora su livelli preoccupanti, il che sottolinea l’esigenza di conservare e consolidare la costante e capillare attività di controllo e di appoggio fornita dagli attori del Sistema Salute e Sicurezza affinché tale tendenza positiva non subisca una inversione in futuro ma, anzi, migliori. Per potenziare ulteriormente tali attività è necessario intervenire nei diversi ambiti del settore artigiano tenendo conto delle specificità precedentemente indagate e attivare quindi interventi che siano mirati ed efficaci. Il settore industriale e quello della edilizia sono quelli più bisognosi di intervento, assieme al settore dei trasporti che presenta nuove e crescenti criticità specifiche che richiedono risposte pensate ed attuate per esso. L’elevata incidenza degli infortuni nelle aziende di piccole dimensioni, ossia in quelle realtà dove la valutazione dei rischi è affidata alla autocertificazione e manca una rappresentanza sindacale presente ed organica in azienda è efficacemente affrontata dal Sistema Salute e Sicurezza dell’E.b.e.r. che cerca di porre rimedio a tali problemi attraverso la figura dell’Rlst e della possibilità per questo di visionare ed accertare l’autocertificazione in tema di valutazione dei rischi pur con tutte le difficoltà analizzate precedentemente. Per quanto poi attiene alle tipologie dei lavoratori, differenziazioni di interventi sono necessarie rispetto al genere, all’età e alla posizione lavorativa. Ad esempio, particolarmente allarmante appare la situazione delle lavoratrici nel settore artigiano per le quali l’Emilia-Romagna presenta i valori più elevati d’Italia. Inoltre, risulta che i lavoratori giovanissimi (sotto i 17 anni) sono soggetti 113 maggiormente ad infortuni nell’industria mentre i più anziani nel settore delle costruzioni, il che porta a considerare la necessità di indirizzare interventi formativi, specifici per il settore lavorativo in cui i soggetti sono inseriti e che siano orientati nel primo caso, alla formazione di prima istanza, nel secondo, alla educazione e/o rieducazione dei soggetti alla cultura della prevenzione e della sicurezza. Sempre attinente alla posizione lavorativa, particolare attenzione deve essere prestata alla precarizzazione della stessa, che può mettere in difficoltà le tutele previste dal Sistema Sicurezza dell’Ente tanto più che si sta trattando di un settore, quello artigianale, dove ampio è l‘utilizzo di contratti di apprendistato (di cui è prevista la riforma nella Legge 30/03) e dove è fondamentale la creazione e conservazione di una professionalità maturata, della valorizzazione del patrimonio umano nonché di elevati livelli di partecipazione. 3 Analisi qualitativa 1 Metodologia Come ricordato nelle pagine introduttive, l’obiettivo del presente contributo è quello di delineare lo stato dell’arte della salute e della sicurezza sul lavoro nelle imprese artigiane e nelle piccole imprese industriali della regione Emilia-Romagna. Per il raggiungimento di tale scopo sono stati seguiti due percorsi metodologici paralleli e contemporanei. Da una parte sono stati individuati e intervistati diversi interlocutori privilegiati , ossia rappresentanti delle associazioni di categoria datoriali Cna e Confartigianato e di Cgil, Cisl, Uil a livello regionale, dall’altra sono stati coinvolti rappresentanti delle associazioni datoriali a livello provinciale e alcune aziende del settore metalmeccanico. L’indagine qualitativa prende dunque inizio con la esplicitazione dei risultati emersi dalle interviste semi-strutturate a rappresentanti delle parti sociali che per funzione, attuale o passata, mostrano particolare 114 competenza relativamente al tema salute e sicurezza nelle piccole imprese e soprattutto nelle imprese artigiane. La definizione degli interlocutori è così avvenuta all’interno delle organizzazioni sindacali a livello regionale (Cgil, Cisl e Uil) e nell’ambito delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative del comparto specifico, in termini di iscritti (Cna e Confartigianato, entrambi a livello regionale). L’intervista ha voluto condurre i diversi attori sociali nella descrizione delle condizioni di sicurezza nel comparto artigiano e nelle piccole imprese, mettendo in evidenza gli aspetti di criticità e gli elementi di positività. In tal modo si è voluto offrire una fotografia “consapevole” della realtà e individuare alcuni ambiti di intervento su cui le parti sociali e gli attori istituzionali di controllo possano sviluppare linee di azione. Per approfondire l’analisi della gestione della salute e della sicurezza si è deciso di focalizzare l’indagine su due territori, le province di Modena e di Forlì-Cesena, nelle quali sono stati intervistati il responsabile dell’ufficio Ambiente Sicurezza della Lapam Federimpresa provinciale di Modena e il responsabile Ambiente e Sicurezza della Cna provinciale di Forlì-Cesena. Ai referenti delle associazioni a livello provinciale è stato chiesto di approfondire le tematiche tenendo in considerazione il territorio di riferimento, sulla base dell’esperienza con le proprie aziende associate. Nel corso di colloqui con questi ultimi si è convenuto di scegliere il settore metalmeccanico come settore per lo svolgimento delle interviste alle aziende, in qualità di settore rappresentativo della realtà produttiva nei due territori scelti e dell’intero territorio regionale. Le interviste qualitative somministrate alle aziende ci hanno offerto la possibilità di approfondire la tematica della salute e della sicurezza e di avere un riscontro su come questa venga gestita concretamente in imprese artigiane e piccole imprese regionali. Ai nostri interlocutori è stato dunque chiesto di descrivere il percorso della propria azienda in tema di salute e sicurezza: l’adeguamento dell’impresa alla normativa su salute e sicurezza, la formazione e l’informazione dei dipendenti in materia, l’eventuale utilizzo di servizi esterni, le difficoltà, anche i risultati raggiunti. 115 2 Le interviste alle parti sociali Nei loro interventi, i diversi rappresentanti delle parti sociali, siano esse organizzazioni sindacali o datoriali, si sono concentrati principalmente nella analisi del concetto di bilateralità e come questo abbia rappresentato un punto di svolta nella gestione della salute e sicurezza. Chiarificatrice degli sviluppi della gestione del sistema sicurezza nelle imprese artigiane è l’intervista realizzata al rappresentante della Cgil regionale, il quale suddivide in fasi il percorso del mondo artigiano e delle piccole imprese in relazione ai mutati contesti normativi e organizzativi in tema di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Nella successione delle fasi, il D. Lgs. 626 funge da discrimine: - Prima dell’applicazione del D. Lgs. 626 era prevista una figura non formalmente codificata, ossia il rappresentante di bacino, e solo nei comparti tradizionalmente più a rischio erano stati avviati interventi volti al monitoraggio e contenimento degli agenti di rischio. - Con l’introduzione del D. Lgs. 626 si è prodotta una profonda trasformazione di metodo della gestione della salute e sicurezza nel comparto artigiano, introducendo una proceduralizzazione delle misure di analisi, valutazione, definizione degli interventi e verifica dei risultati raggiunti. In adempimento al D. Lgs. 626 e interpretando le peculiarità organizzative del comparto artigiano, le parti sociali hanno convenuto sulla nomina di un rappresentante sindacale territoriale, e non aziendale, mutualizzando in tal modo i costi di rappresentanza attraverso la costituzione di un fondo apposito. Tale fase è scomponibile in due sottofasi: dal 1994 al 1996, ossia il periodo di recepimento del decreto legislativo, e 1996-1999, ossia il periodo di operatività bilaterale in risposta alle esigenze normative del D. Lgs. 626, durante il quale le imprese si sono messe a norma 116 rispetto ai D.P.R. 303/56 e 547/55, con un ritardo quindi di oltre 40 anni. - Nel periodo 1999-2001 si è assistito all’esaurirsi dell’ondata positiva iniziale e si è avvertita la crisi del modello disegnato dal D. Lgs. 626, dovuta prioritariamente ad “una interpretazione di adempimento e non di fattualità della sicurezza” e ad una mutata collocazione delle imprese artigiane lungo la catena del valore. In un generale contesto di deverticalizzazione della struttura industriale e di un decentramento ed esternalizzazione produttiva, l’azienda artigiana si è vista “scaricare addosso” i tempi di lavoro più ridotti, le lavorazioni più rischiose e una rigida gestione dei costi. Per rilanciare il D. Lgs. 626, si diede vita, da parte del governo di centro-sinistra, all’iniziativa denominata Carta 2000 volta a trasferire risorse alle imprese, da fondi Inail, e ridurre il costo del lavoro. Tale iniziativa non ha però riscosso il successo sperato, soprattutto nel comparto artigiano in quanto le imprese temevano i controlli di verifica della congruità dei progetti presentati. Le difficoltà principali incontrate nel passaggio tra la prima e la seconda fase, afferma il rappresentante della Cgil regionale, sono rappresentate dal superamento di alcune resistenze degli stessi artigiani e delle associazioni di categoria. Per gli artigiani, abituati ad “una tradizione orale” ed informale in tema di sicurezza, la formalizzazione della valutazione dei rischi ha rappresentato una “rivoluzione copernicana”. Per le associazioni di categoria, la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale era vista con molta diffidenza in quanto si pensava potesse servire come “cavallo di troia” per le organizzazioni sindacali e quindi fosse strumentale alla rottura degli equilibri stabiliti nel contesto delle piccole imprese. Per far fronte a tali problematicità la struttura bilaterale, attraverso la costituzione di un organo di coordinamento (Cpra), ha focalizzato la propria attività sulla formazione ed informazione dei datori di lavoro, essendo loro il passaggio obbligato per introdurre la cultura della sicurezza nelle imprese artigiane, e sulla realizzazione di una rete di oltre 60 Rlst a livello regionale. Il 117 rappresentante sindacale afferma, inoltre, che lungo la fase del declino della forza trasformatrice del D. Lgs. 626, le associazioni di categoria dell’artigianato abbiano assunto delle politiche difensive, usando, a volte, lo stesso Cpra come strategia per negoziare un adattamento della norma (ad es. la direttiva agenti chimici) alla esigenza di semplificazione applicativa. Sembra quindi che il prevalere della formalità sulla fattualità abbia avuto ricadute sulla stessa natura del Cpra, intesa più come garante di un adempimento formale-burocratico che come facilitatore della diffusione della cultura della sicurezza. Le parole del rappresentante della Cgil regionale pongono comunque la bilateralità al centro delle strategie future: l’approccio bilaterale “va mantenuto”, sono gli strumenti a dover essere diversamente tarati per rispondere ad una struttura produttiva in continua trasformazione. Al momento è indispensabile procedere ad una verifica dello stato dell’arte per comprendere il punto a cui si è arrivati in termini di salute e sicurezza, ripercorrendo il ciclo iniziato con le analisi di contesto del 1968, e ripartire dai settori più a rischio (ad es. nell’artigianato la carpenteria pesante o la gomma plastica). È importante, osserva il rappresentante della Cgil regionale, che l’identificazione dei settori a rischio deve effettuarsi non solo sulla base di criteri statistici ma anche conoscitivi e percettivi. Sempre tenendo come riferimento il percorso di attuazione del D. Lgs. 626, secondo il rappresentante della Uil regionale, è possibile individuare due fasi, o “generazioni” come egli stesso definisce. Nel corso della prima si è provveduto alla definizione di un sistema di gestione della sicurezza. L’obiettivo della seconda “generazione”, tuttora in atto, è quello di “alzare il livello di efficienza e di diminuire la burocrazia. L’efficienza vuol dire partecipazione condivisa e consapevole”. Per semplificazione burocratica e procedurale si intende un sistema normativo composto da “poche regole semplici e comprensibili per tutti”. Perché entrambi gli obiettivi si realizzino è necessario investire sulla formazione dei lavoratori, elemento su cui si è spinto con poca continuità negli ultimi anni e prevalentemente in modo informale: “la formazione è come la pioggia, se arriva come un temporale estivo è dannosa, se è più 118 continua e misurata allora riesce a entrare nel corpo sociale”. Maggior sforzo dovrebbe essere volto verso una formazione meno dispersiva e più mirata alle diverse esigenze di settore e di territorio. La formazione, afferma infatti il rappresentante della Uil regionale, diviene alquanto complicata e frammentata in un ambito lavorativo flessibile o irregolare, dove la discontinuità lavorativa impedisce una reale accumulazione di saperi. Oltre ad esprimere la propria visione sistemica rispetto alla evoluzione del D. Lgs. 626, il rappresentante della Uil regionale ne individua i limiti in relazione alla concreta applicazione. Il D. Lgs. 626, essendo modellato sul pre-esistente aspetto socio-economico, non riesce a rispondere con tempestività e piena aderenza alle domande di sicurezza attuali. Inoltre, se il D. Lgs. 626 impone, da un lato, una gestione regolata tra “le 4 mura aziendali” , dall’altro, risulta alquanto inefficace nel normare una dimensione lavorativa estranea al più tradizionale posto di lavoro. Non è infatti un caso che oltre il 50% degli incidenti mortali occorsi in Emilia-Romagna siano avvenuti su strada, o in itinere (casa-lavoro) o nel regolare espletamento delle proprie mansioni. Il settore dei trasporti ha visto, negli anni, crescere rapidamente il numero di imprese a fronte di una progressiva deverticalizzazione e terziarizzazione della produzione. Molte di queste imprese, proprio per garantire la maggior flessibilità, sono piccole imprese, anche a carattere artigianale, che per rimanere competitive si muovono secondo una logica di subappalto al massimo ribasso, causando “una catena di effetti perversi” sulla sicurezza dei lavoratori. Concordemente a quanto espresso dal rappresentante Uil, il rappresentante della Cisl regionale sostiene che si sia diffuso “un concetto sbagliato di miglioramento di rete viaria”: ad un aumento quantitativo di strade non corrisponde un deflusso del traffico ma, diversamente da quanto si crede, un suo incremento. Altro fattore che incide notevolmente, sempre secondo il rappresentante della Cisl regionale, sull’aumento degli incidenti stradali è lo stress psico-fisico, dovuto tra l’altro ad una accelerazione dei ritmi di lavoro, ad una riduzione del sistema di protezioni e ad un contesto in cui spesso il lavoro autonomo nasconde un rapporto di subordinazione 119 economica. È il caso dei “padroncini” che nel corso di un anno emettono 12 fatture per lo stesso committente. Il punto di vista di vista del rappresentante della Confartigianato, in merito all’applicazione del D. Lgs. 626, appare piuttosto critico. Si dice infatti consapevole che una regolazione della gestione del sistema salute e sicurezza in azienda sia necessario ma non ritiene gli strumenti legislativi vigenti adeguati alle esigenze reali. In un contesto di piccole imprese, inoltre, le spese in procedure burocratiche volte all’adempimento dei termini di legge risultano eccessive per un sistema dotato di capitali minimi. Per di più, sempre secondo il rappresentante della Confartigianato regionale, la piccola impresa è, per sua stessa natura, più portata al rispetto della salute e sicurezza in quanto spesso i titolari partecipano attivamente alle fasi produttive, esponendosi quindi ai rischi in prima persona. Della stessa opinione appare la posizione del rappresentante della Cna regionale che critica la complessa burocratizzazione e l’eccessivo ricorso a misurazioni dei rischi presenti nelle normative in materia, a cui vorrebbe si sostituisse il concetto di buone prassi costruite “su una gamma di casi su cui tutti si conviene che il rischio si manifesti in modo elevato”. Secondo il medesimo interlocutore, le resistenze maggiori sono state mostrate più dalle Aziende Usl che dalle organizzazioni sindacali, per timore di una consequenziale riduzione dei controlli. Relativamente all’introduzione del concetto di bilateralità, il rappresentante della Uil regionale afferma di aver assistito ad una evoluzione da un sistema in cui le parti sociali recepivano con disinteressato distacco le problematiche degli altri ad un sistema coeso, in cui si è sviluppata una comune responsabilizzazione dei ruoli: “il governo della bilateralità ha permesso ad entrambi [parte datoriale e sindacale] di farsi interprete delle esigenze dell’altro”. La trasformazione implicita nella bilateralità che il rappresentante della Uil preme sottolineare è il passaggio da un atteggiamento formale rispetto alla sicurezza ad un atteggiamento fattuale inserito in una logica preventiva e di continuità. Anche il rappresentate della Confartigianato regionale esprime un giudizio positivo rispetto al funzionamento dell’E.b.e.r. e dello strumento della bilateralità, 120 soprattutto per quanto riguarda la funzione di integrazione al reddito dei lavoratori per sospensione dal lavoro, ma reputa tale ruolo ormai esaurito. Per quanto attiene al Fondo sostegno al reddito, infatti, si parla di un prosciugamento in seguito alle continue crisi aziendali, nel tessile (Carpi), calzaturificio (Forlì) e nel metalmeccanico, e di un superamento del funzionamento attuale dell’E.b.e.r., cercando di individuare nuove soluzioni possibili e sostenibili. La bilateralità non ha solo prodotto effetti positivi sulla gestione della salute e sicurezza o nel sostegno al reddito ai lavoratori, ma, come si intuisce dalle parole del rappresentante della Cisl regionale, ha favorito una maggior tutela del lavoro, mantenendo il comparto artigiano estraneo ad un utilizzo diffuso del lavoro atipico e avviando iniziative di supporto a casi critici, quali il reinserimento di lavoratrici over 45 di aziende in crisi. Il concetto di bilateralità è difeso strenuamente anche dal rappresentante della Cna regionale in quanto è l’unico strumento che permette “di coniugare la moltitudine del settore di piccole imprese con l’attenzione e adozione di soluzioni praticabili” ed inoltre “solo la bilateralità può creare quel clima a livello di massa in questa materia [salute e sicurezza] che può portare tutti i soggetti a farsi carico della situazione ed affrontarla”. Solo attraverso un approccio bilaterale si è riusciti a sviluppare idee ed iniziative originali per la riduzione, fattualmente realizzata, degli infortuni sul luogo di lavoro. All’ipotesi di un superamento dello strumento bilaterale, il rappresentante della Cna regionale mostra qualche dubbiosità in quanto il ritornare a percorsi individuali porterebbe ad “una schizofrenia di sistema” e romperebbe l’equilibrio di sintesi, da cui ha poi preso avvio una trasformazione culturale rispetto al tema della sicurezza. Sulla base di alcune ricerche condotte direttamente dalle associazioni di categoria, risulta infatti, secondo il rappresentante della Cna regionale, che le temute ostilità iniziali tra Rlst e imprese artigiane non abbiano avuto forma, se non nelle fasi iniziali. Mutuando direttamente dalle parole del rappresentante della Cna regionale, sembra che “l’impresa si sia abituata a vedere la sicurezza non come un onere ma come una questione seria da affrontare per far sì che la propria impresa produca al meglio in condizioni adeguate”. Ad oggi, il reale problema della bilateralità è il 121 supporto finanziario soprattutto per quel che riguarda il Fondo sostegno al reddito prosciugato, come già ricordato, dalle numerose crisi aziendali che hanno caratterizzato il contesto artigiano negli ultimi anni. Relativamente alla sostenibilità del sistema e sicurezza promosso dall’E.b.e.r., il rappresentante della Cna regionale si dice preoccupato non tanto della dimensione finanziaria, essendo previsto un finanziamento specifico e separato dal Fondo sostegno al reddito, quanto di quella organizzativa, essendo l’attenzione delle parti sociali spostatasi, in un contesto di ristrutturazione, più verso le politiche industriali che verso la sicurezza dei lavoratori. Rimanendo nell’ambito del funzionamento della bilateralità, con particolare riferimento alla gestione della salute e sicurezza, gli interlocutori hanno espresso anche le proprie considerazioni rispetto al ruolo dei rappresentati dei lavoratori alla sicurezza (Rls e Rlst). Il rappresentante della Cisl regionale, sulla base di una ricerca condotta in passato, afferma che vi sia una correlazione positiva tra presenza dell’Rls e contenimento dell’andamento infortunistico. Nonostante l’emergere di tale correlazione statisticamente significativa, una successiva indagine qualitativa ha mostrato come spesso, soprattutto all’interno delle piccole imprese artigiane a conduzione familiare, l’Rls venisse eletto tra gli stessi membri della famiglia, vanificando, quindi, la logica partecipativa implicita nel sistema di gestione introdotto dal D. Lgs.626. C’è quindi stata una interpretazione puramente formale della normativa. La figura dell’Rlst è comunque stata assimilata dal contesto artigiano, tant’è che sono, a volte, le stesse aziende a richiedere l’intervento dell’Rlst, in qualità di facilitatore della cultura della sicurezza. Altro elemento, che il rappresentante della Cisl nazionale pone in evidenza, è l’accezione associativa datoriale che le imprese attribuiscono agli Rlst; tale accezione è però il risultato di un errato atteggiamento dell’E.b.e.r. in quanto nelle visite aziendali gli Rlst sono spesso accompagnati dai rappresentati provinciali dell’Opta che rivestono spesso mansioni simili per la associazione di categoria, non evidenziando quindi, agli occhi delle imprese, una discontinuità operativa. Questo consente ad alimentare un rapporto di fiducia e reciprocità tra la figura del rappresentante dei lavoratori e i titolari d’azienda: “non abbiamo casi 122 di situazioni territoriali in cui sia diffusa la diffidenza rispetto ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza”. Per ovviare ad una percezione distorta di rappresentanza, alcuni Rlst hanno proposto di promuovere iniziative che diano visibilità all’E.b.e.r. in quanto tale: si sta infatti analizzando la possibilità di dotare gli Rlst di un tesserino e di un logo E.b.e.r. che certifichi la loro connotazione bilaterale (tale iniziativa ha già avuto una concretizzazione in alcuni territori). Nella sua descrizione del funzionamento degli Rlst, il rappresentante della Cisl regionale, trovando poi conferma nell’intervento del rappresentante della Cgil regionale, pone l’accento sulla scarsa agibilità di cui godono tali figure e sulla necessità, per le stesse imprese e per le aziende Usl territoriali, di avere dei referenti precisi. È proprio secondo questa logica di “riconoscibilità” che sarebbe più funzionale una ripartizione degli Rlst per aree territoriali. In alcune province, invece, si è preferito ricorrere ad una assegnazione nominale, “ossia una volta che un Rlst fa una visita ad una azienda se la imputa” e questa rimane, per tutta la durata del mandato, di sua competenza. In una logica di prosecuzione tematica, il rappresentante della Cna regionale individua nella mutualizzazione dei costi della rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza un tratto distintivo della struttura bilaterale per il comparto artigiano. In un contesto di piccole imprese sarebbe stato impensabile l’imposizione di un obbligo di nomina di una persona interna al perimetro aziendale che si occupasse esclusivamente di gestione della sicurezza. Le parti sociali hanno quindi optato per una rappresentanza esterna (Rlst) e per un rafforzamento del rapporto di fiducia e di reciprocità tra quest’ultima e l’impresa. A tal proposito, il rappresentante della Cna regionale ritiene che l’eccessivo turn over, o rotazione degli Rlst, non giochi a favore di un consolidamento fiduciario con le imprese ma, anzi, contribuisca a sgretolarlo. Prima della scadenza del mandato di due anni è infatti possibile, come conferma il rappresentante della Cisl regionale, che l’Rlst venga cambiato in funzione di dinamiche intercategoriali sindacali. Oltretutto il ruolo dell’Rlst non gode di una esclusività funzionale, ossia, come aggiunge il rappresentante della Cgil regionale, chi è nominato Rlst non svolge “esclusivamente” quell’incarico ma è costretto a dividere tale attività con altri incarichi 123 di natura sindacale. Dalla intervista al rappresentante della Confartigianato, si delinea una nitida fotografia di quelli che, direttamente o indirettamente, sono i servizi formativi forniti dalla Associazione datoriale di appartenenza: la società di formazione operativa a livello regionale con sede a Bologna, la società di servizi alle imprese Pas (Progetto ambiente sicuro), con sede a Modena. Relativamente alla formazione, il rappresentante della Confartigianato regionale offre, inoltre, una analisi che va oltre la formazione professionale ed aziendale ed intercetta quelli che sono i reali fabbisogni formativi della realtà sociale ed economica, con particolare attenzione alla realtà del secondario, dell’Emilia-Romagna. Si critica, infatti, un numero eccessivo di laureati in materie umanistiche e un numero insufficiente in ingegneria, per esempio. Nonostante le stesse istituzioni siano a conoscenza di queste carenze formative, le risposte non appaiono efficaci. A tal proposito è emblematico come né Modena né Bologna, dove il metalmeccanico gioca un ruolo importante, abbiano costituito una facoltà universitaria per lo studio dei metalli, attualmente presente solo a Milano. La situazione delle scelte universitarie riflette, secondo il rappresentante della Confartigianato regionale, una dimensione sociale in cui le materie tecnico-scientifiche hanno subito uno svilimento ed un declassamento rispetto al passato. Per il rilancio della meccanica è quindi necessario restituire valore alle discipline tecnico-scientifiche e promuovere un nuovo spirito imprenditoriale. A tal proposito esiste, a suo parere, una prospettiva positiva, attualmente in corso, legata alla ricerca di una maggior qualificazione dei presidenti provinciali di categoria che cominciano ad essere non solo imprenditori ma anche persone con una sviluppata cultura di valore tecnico-industriale. In tema di formazione, il rappresentante della Cisl regionale ritiene che si debba provvedere con maggior continuità alla formazione degli Rlst, non solo al momento del rinnovo del mandato, ma organizzare anche corsi di specializzazione, in corso di mandato, che permettano lo sviluppo di un sapere trasversale incentrato sulla cultura della prevenzione. È infatti importante, sostiene il rappresentante della Cisl regionale, che l’Rlst, o Rls, non assuma esclusivamente un ruolo 124 tecnico per evitare la confusione tra “rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e responsabile dei lavoratori per la sicurezza”. Della stessa opinione è il rappresentante della Cgil regionale che considera l’attività principale dell’Rlst quella di “impegnare le associazioni a diffondere e distribuire” la cultura della prevenzione. La formazione, aggiunge inoltre, non dovrebbe essere destinata solo agli oltre 60 Rlst ma a tutti i lavoratori in una forma continuativa poiché solo con una “modalità consecutiva” si arricchisce “l’accumulazione conoscitiva”, soprattutto in un contesto di salute e sicurezza. La interazione raggiunta nella realizzazione delle pubblicazione dei materiali informativi, come vedremo successivamente, si manifesta, secondo il rappresentante della Cna nazionale, anche nella definizione dei percorsi formativi. In alcune realtà territoriali, come Imola e Reggio, l’E.b.e.r. e le aziende Usl hanno sviluppato condivisi percorsi formativi per i lavoratori e si vorrebbe che tale approccio si estendesse anche al livello regionale. In tal modo si avrebbe la certezza di una congruità dei contenuti formativi rispetto al sistema azienda e alla intelaiatura normativa. Come reazione ad un rapido aumento di imprenditori stranieri iscritti, la Cna fornisce “diversi strumenti per l’avvio di impresa, per aiutarli nello svolgimento di tutte le pratiche necessarie …e naturalmente” nel pacchetto formativo-informativo rientra anche il tema salute e sicurezza. Anche rispetto alla interazione con i funzionari degli enti deputati al controllo e al monitoraggio della salute e sicurezza nel luogo di lavoro, il rappresentante della Uil regionale vede una trasformazione in atto. Un tempo, tali funzionari erano più inclini ad una rigida e burocratica osservazione dei regolamenti vigenti in materia, non ponendo alcune distinzione per dimensione aziendale o settore di appartenenza. Ad oggi, grazie all’intervento dei funzionari delle Ausl e dell’Assessorato alla sanità e all’implementazione del modello bilaterale si è impostato un approccio non più ispettivo ma preventivo, in cui il dialogo e la corretta comunicazione giocano un ruolo di primo piano. Diversamente, il rappresentante della Confartigianato regionale non considera vi sia stata una radicale trasformazione dell’approccio degli addetti al controllo sicurezza. 125 Molto spesso essi assumono un atteggiamento ispettivo e repressivo quando invece sarebbe più opportuno mantenere un rapporto incentrato sul dialogo e sullo scambio costruttivo con i datori di lavoro. Il funzionario dell’ente di controllo dovrebbe, in sostanza, trasmettere le proprie conoscenze all’imprenditore e interagire con quest’ultimo, anche in un’ottica dei costi. Si ritiene infatti che alcuni strumenti, come ad esempio quelli per la misurazione dell’acidità dell’olio, debbano essere acquistati e utilizzati dagli enti di controllo e non dalle singole aziende. Per quanto riguarda l’andamento infortunistico nel comparto artigiano e nelle piccole imprese, il rappresentante della Uil regionale ha percezione di un contenimento del numero assoluto, in generale, pur in presenza di alcuni dinamiche in controtendenza. Tra queste emerge con decisione, oltre al settore dei trasporti, anche il settore delle costruzioni caratterizzato negli ultimi anni da una crescita nel numero assoluto di imprese “deboli”, ossia formate da poche unità lavorative e molto spesso sotto-capitalizzate. La polverizzazione del lavoro nel settore delle costruzioni, unitamente ad intrecciate pratiche del subappalto, rende alquanto difficoltosa l’attività sindacale e soprattutto un effettivo controllo e monitoraggio della sicurezza sul luogo di lavoro. Pur concordando con l’aumento del fenomeno infortunistico nel settore dei trasporti e dell’edilizia, il rappresentante della Confartigianato individua due territori a rischio: il territorio reggiano in cui generalmente si svolgono lavorazioni pesanti e a Ravenna a causa del lavoro nell’area portuale. Altro aspetto su cui gli interlocutori soffermano la loro attenzione è il fenomeno dell’incremento della occupazione straniera a cui segue il sorgere di nuove problematiche inerenti anche alla gestione della salute e sicurezza, quali la diversità linguistica. A crescere, conferma il rappresentante della Cna regionale, non è solo la componente lavorativa straniera ma anche la componente imprenditoriale (anche se in un contesto artigiano la distinzione è più formale che sostanziale): secondo recenti censimenti sarebbero all’incirca 5.000 gli imprenditori iscritti alla Cna. A questa nuova esigenza, l’E.b.e.r., sostiene il rappresentante della Cisl regionale, ha già provveduto e continua a provvedere con la pubblicazione di materiale informativo 126 in lingue diverse, tarando la scelta della lingua alle specifiche caratteristiche demografiche di un dato territorio o settore merceologico. In generale tutti esprimono parere favorevole rispetto alla utilità e alla fruibilità delle pubblicazioni E.b.e.r. in tema di salute e sicurezza, dimostrando, come sottolinea il rappresentante della Cisl nazionale, che “la cultura della deterrenza basata sulla crescita della parti congiunte è meglio dell’ispezione e della sanzione”. Per la realizzazione della documentazione del materiale informativo e di diversi strumenti di lavoro, come si rileva dall’intervista al rappresentante della Cna regionale, il Cpra ha beneficiato dello stretto rapporto sinergico con Aziende Usl e l’Assessorato alla Sanità della regione Emilia-Romagna. In tal modo entrambe le parti hanno potuto trarne vantaggio. Da un lato il Cpra ha ottenuto una sorta di certificazione di qualità dei materiali prodotti e, dall’altro lato, l’Assessorato alla Sanità e le Aziende Usl hanno potuto “prendere contatto con una realtà imprenditoriale che immaginavano diversa, la piccola impresa”. Sempre dal punto di vista infortunistico, il rappresentante della Cgil regionale ammette una diminuzione degli indici, dovute principalmente al metodo partecipativo e all’introduzione, in seguito alla direttiva macchine, di strumentazioni più moderne e sicure. La figura del consulente trova una convergenza di opinioni tra gli attori interpellati. Tutti infatti attribuiscono al consulente un ruolo significativo nella gestione della sicurezza, a meno che non guidi l’azienda verso una progressiva sottrazione di responsabilità rispetto agli obblighi di legge sulla sicurezza o verso una chiusura dei canali comunicativi con le parti sociali ed enti di controllo. Il rappresentante della Cisl regionale riporta, a tal proposito, la propria esperienza di controllo dei primi documenti di valutazione in cui non era insolito trovare molti copie uguali con il medesimo modulo grafico e intestazione del consulente. È inoltre opinione condivisa che il ruolo del consulente dovrebbe essere ricoperto da persone qualificate, per impedire il proliferare di professionalità scarsamente competenti. Il rappresentante della Cna, infatti, vorrebbe che ci fossero dei percorsi definiti per il riconoscimento della professionalità dei consulenti e tale richiesta è già stata posta all’attenzione dell’Assessorato alla sanità 127 della Emilia-Romagna. 3 Le interviste nei territori di Modena e Forlì-Cesena Descrizione del campione Come già anticipato nella parte metodologica, nei due territori scelti per l’approfondimento sulla gestione della salute e della sicurezza sono stati intervistati un rappresentante della associazione Cna provinciale di Forlì-Cesena e un rappresentante della Lapam Federimpresa provinciale di Modena. Grazie al contributo dei due rappresentanti territoriali è stato possibile procedere con la somministrazione di interviste semi-strutturate ai titolari di sette aziende. Nello specifico, in Provincia di Forlì-Cesena sono state intervistate quattro aziende di cui tre sono piccole imprese nate come imprese artigiane e che ora contano una media di 35 lavoratori, comprendendo in questo numero anche i titolari e soci direttamente occupati nella produzione, mentre la quarta azienda intervistata è un’impresa artigiana che conta tre titolari e tre dipendenti. Le attività prevalenti di queste imprese consistono nella lavorazione della lamiera (in tre casi) e nella fabbricazione di meccanismi per divani letto (un caso). Per ciò che concerne la provincia di Modena, sono state intervistate tre aziende artigiane che contano una media di 14 lavoratori; anche in questo caso nel conteggio vengono considerati i soci e i titolari, occupati anch’essi nella produzione. In questo caso le attività prevalenti consistono rispettivamente nella meccanica di precisione, nelle lavorazioni in ferro e nella costruzione di molle per diversi tipi di settori. L’occupazione nelle imprese intervistate è prevalentemente maschile; la quota di donne occupate è piuttosto bassa e in genere si ripartisce fra i ruoli di impiegate e di titolari e socie. Poche le donne occupate direttamente in produzione, mentre in questo reparto si assiste ad un aumento della presenza di lavoratori extracomunitari. In generale il mercato locale riveste una notevole rilevanza per le aziende intervistate. La maggioranza delle vendite è destinata infatti a 128 clienti della stessa regione Emilia-Romagna, ad eccezione di una delle aziende intervistate nel territorio di Forlì-Cesena, che lavora per circa il 50% con clienti esteri. Il lavoro con l’estero sarebbe interessante anche per una delle imprese artigiane del territorio modenese ma allo stato attuale la gestione degli scambi con l’estero (ossia l’assunzione di una persona ad hoc per svolgere tale mansione) peserebbe notevolmente sul bilancio economico ed organizzativo dell’impresa. In riferimento alla possibilità, per una piccola impresa artigiana, di lavorare con l’estero, il nostro interlocutore lamenta una mancanza da parte dell’associazione di categoria nel ruolo di mediatrice fra l’impresa associata e i possibili clienti esteri. Il titolare aziendale riferisce difatti di aver più volte suggerito la creazione di una sorta di “ufficio centrale” dell’associazione che aiuti le piccole imprese ad intraprendere i primi contatti con le imprese estere. Questo “ufficio centrale” non dovrebbe tuttavia esistere solo a livello regionale ma articolarsi in sedi operative a livello provinciale in modo da rispondere con prontezza alle esigenze delle proprie associate. L’associazione Lapam Confartigianato in realtà ha iniziato a lavorare in questa direzione e già alcuni mesi prima dell’intervista si era resa promotrice di un incontro tra imprese metalmeccaniche della provincia di Modena e imprese russe; eppure il titolare aziendale che ci riferisce di questo incontro lamenta una scarsa convinzione, da parte dell’associazione, di proseguire in tale direzione poiché, ad esempio, non ha pubblicizzato abbastanza tale evento né altri simili che dovrebbero aver luogo in settembre. Le risultanze Una volta descritto il campione degli intervistati, il focus dell’indagine si sposta sull’approfondimento degli aspetti legati alla gestione della salute e della sicurezza nelle imprese. Dalle interviste emerge che tale gestione nelle aziende ha subito un notevole cambiamento con l’introduzione del D. Lgs. 626/94. Secondo il referente della Lapam Federimpresa provinciale di Modena l’impatto della nuova normativa è stato molto duro sulle piccole imprese e sulle imprese artigiane che hanno dovuto certificare “nero su bianco” la messa a norma delle strutture, l’adeguamento degli impianti e degli 129 utensili, i corsi di formazione in tema di salute e sicurezza, ecc. Inizialmente, dunque, la preoccupazione principale dell’associazione è stata quella di aiutare e supportare le imprese al mero adeguamento formale alle prescrizioni normative, al fine di evitare sanzioni da parte degli organismi di controllo. Dalle testimonianze delle imprese intervistate nei due territori emerge che i cambiamenti connessi alla normativa su salute e sicurezza sono stati notevoli ed onerosi: essi hanno riguardato, ad esempio, la messa a norma dei macchinari e in alcuni casi una successiva sostituzione, l’introduzione di impianti di traspirazione, l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Il titolare di un’azienda modenese ci riferisce inoltre che negli anni 1995-1996 la spesa connessa a tali adeguamenti sia stata intorno ai 100 milioni di lire e ricorda che a questa cifra iniziale occorre aggiungere i costi connessi alla revisione e al controllo periodico dei macchinari. Gli intervistati ricordano altresì che alle spese di adeguamento alla normativa occorre aggiungere anche i costi dei servizi esterni, ossia delle diverse figure di cui spesso le piccole imprese e le imprese artigiane si avvalgono per via della mancanza di tempo da dedicare alla gestione della salute e della sicurezza, del suo continuo aggiornamento. Una delle aziende intervistate nel territorio modenese ad esempio, racconta di essersi avvalsa inizialmente di un consulente e di un ingegnere e, insieme alle altre imprese intervistate, racconta di usufruire di diversi servizi offerti dalle associazioni di categoria. Solo in un secondo momento, dopo questa prima fase di adeguamento formale, l’associazione Lapam Federimpresa ha potuto intervenire sulla sensibilizzazione delle imprese in merito al vero spirito del decreto legislativo e sulla rilevanza della prevenzione. Nonostante i costi, difatti, i titolari aziendali intervistati riconoscono la necessità della normativa in questione al fine di avere riscontri in termini di riduzione degli infortuni. Le visite mediche a cui i lavoratori si sottopongono periodicamente (ad esempio controlli audiometrici) hanno sempre attestato delle buone condizioni fisiche e gli stessi referenti aziendali sembrano concordare nel ritenere migliorate le condizioni di lavoro. Uno dei titolari intervistati sostiene che nel corso del 2004, ad esempio, si sono verificati “solo” tre 130 infortuni e si è trattato di tagli molto superficiali, mentre nel 2005 non si è verificato nessun incidente. L’andamento positivo in termini di assenza di infortuni, viene riscontrato anche all’interno di un’altra azienda che ha cambiato stabile nel 2000, rinnovando così numerosi macchinari, seppure non esclusivamente per ragioni di adeguamento alla normativa su salute e sicurezza. In questo caso l’intervistata racconta che è proprio dal 2001 che in azienda non si verificano più incidenti e che l’ultimo incidente aveva comportato 10 giorni di infortunio. La tutela della salute e della sicurezza ha rappresentato da sempre una prerogativa dell’impresa intervistata, tanto che neanche in passato si sono mai verificati incidenti particolarmente gravi: “il più grave ha riguardato un pezzo di ferro caduto sul piede di un lavoratore”. Anche per il referente della Cna provinciale di Forlì-Cesena l’introduzione del decreto 626 ha rappresentato uno spartiacque nelle modalità di gestione della salute e della sicurezza. Dalla sua entrata in vigore nel comparto metalmeccanico e non solo, si è assistito ad un generale miglioramento delle condizioni di lavoro. Tale miglioramento è stato il risultato sia dell’ammodernamento delle stesse aziende sia del naturale aggiornamento del parco macchine, sia, nei casi dei settori più specializzati, del ricorso a macchine automatiche o semiautomatiche. A conferma di tale riguardo nei confronti dei macchinari utilizzati, una delle aziende forlivesi sostiene di sostituire i macchinari circa ogni nove anni e porta ad esempio il recente acquisto di un impianto laser per la lavorazione della lamiera. Le migliori condizioni di lavoro hanno portato, secondo i referenti aziendali intervistati, ad una diminuzione della gravità degli infortuni, anche se i numeri e la natura degli infortuni restano a nostro avviso importanti. Per ciò che concerne le tre aziende specializzate nella lavorazione della lamiera, una delle imprese ha denunciato, nel corso dell’ultimo anno, due infortuni in itinere, un infortunio per schiacciamento, un taglio, un infortunio per una scheggia in un occhio; mentre l’infortunio più grave occorso negli ultimi anni ha riguardato la perdita dell’anulare e della falange da parte di uno dei titolari dell’azienda. Il taglio e lo scivolamento della lamiera (schiacciamento) sono stati tra gli infortuni più comuni dell’ultimo 131 anno anche per la seconda delle aziende specializzate nella lavorazione della lamiera. L’impresa ha contato 10 infortuni nel corso del 2004 e 3 nei primi sette mesi del 2005. L’ultima fra queste tre aziende fa infine riscontrare una migliore situazione, in quanto ricorda che l’ultimo infortunio si era verificato quindici anni addietro ed aveva visto un ragazzo schiacciarsi un dito con un macchinario. L’azienda che produce meccanismi per divani letto denuncia una media di 5 infortuni ogni anno, escludendo in tal numero gli infortuni in itinere che l’intervistato non sa quantificare. L’intervistato racconta altresì che recentemente una dipendente si è schiacciata un dito con un macchinario ed ha avuto 15 giorni di infortuni. Nonostante la persistenza degli infortuni, la salute e la sicurezza sono considerate elementi imprescindibili per l’intervistato che riconosce un netto miglioramento delle condizioni di lavoro rispetto al passato, anche grazie all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Racconta difatti che, grazie ai numerosi cambiamenti ed investimenti, ora non si verificano più infortuni come quelli che accadevano qualche decennio fa quando, ad esempio, un ragazzo aveva perso due dita. Nessuna delle imprese intervistate dispone di un budget predefinito annualmente per gli investimenti da realizzare in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Poiché i titolari sono impegnati direttamente nel reparto produzione, dichiarano di riuscire a monitorare prontamente la situazione in azienda e di decidere sulla necessità di interventi. Il rapporto confidenziale tra i lavoratori e i datori di lavoro e la consapevolezza della necessità di lavorare in sicurezza da entrambe le parti porta a decisioni congiunte ed immediate, senza dovere attendere la convocazione di riunioni annuali organizzate con i responsabili dei lavoratori per la sicurezza presenti in molte delle aziende intervistate. Le interviste nei due territori testimoniano dunque un reale impegno profuso dalle imprese sia in termini economici che di comprensione della rilevanza della prevenzione in materia. Per tali ragioni la totalità degli intervistati richiede incentivi economici e di facile fruizione, non presenti al momento. Pochi degli intervistati hanno ricevuto aiuti finanziari in questi anni (solo uno degli intervistati ad esempio ha 132 usufruito del fondo Inail) mentre più aziende hanno usufruito di finanziamenti agevolati. Molti degli intervistati non sono a conoscenza dell’ente bilaterale per l’artigianato e dei suoi servizi a sostegno delle imprese; inoltre, per ciò che concerne alcune delle aziende che dichiarano di pagare la quota associativa all’E.b.e.r., queste si limitano a riferire di ricevere “qualche pubblicazione”, senza però riuscire a specificarne l’argomento trattato, e in ogni caso non sono a conoscenza degli altri servizi offerti. Pur riconoscendo la rilevanza della normativa su salute e sicurezza, un referente aziendale intervistato a Forlì ipotizza tuttavia uno scarso coordinamento fra coloro che progettano i nuovi macchinari e i lavoratori che dovranno utilizzarli, denunciando “una scarsa interazione tra teoria e pratica”: spesso i dispositivi di protezione individuale rallentano la produzione e soprattutto i lavoratori più anziani lamentano la mancanza di praticità nell’utilizzarli. Tutti i referenti aziendali intervistati ritengono inoltre che la maggioranza degli infortuni occorsi negli ultimi anni siano imputabili alla mera distrazione e al non corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuale da parte dei lavoratori. Concorda con le aziende intervistate anche il responsabile Ambiente e Sicurezza della Cna di Forlì-Cesena secondo il quale molti degli infortuni che si continuano a verificare “sono dovuti prevalentemente a disattenzioni, procedure di lavoro sbagliate, non osservanza delle disposizioni relative all’obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), piuttosto che a mancati adeguamenti dei datori di lavoro”. A tal proposito mette in evidenza che la mancanza di una cultura della sicurezza sul lavoro è anche il frutto della scarsa sensibilità verso questo tema nel nostro Paese nel quale, a differenza di altri Stati, la sicurezza sul lavoro non viene trattata nelle scuole. Emerge con chiarezza l’esigenza di intraprendere queste attività già a livello scolastico in modo da favorire il cambiamento culturale necessario per affrontare il tema della salute e della sicurezza. Tali considerazioni portano il referente della Cna provinciale di Forlì-Cesena a ritenere ancora lontano il raggiungimento del vero spirito alla base del decreto 626, pur riconoscendo ed insistendo nel sottolineare l’effettivo rispetto della normativa e miglioramento delle 133 condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Ciò che manca ancora è una visione del decreto 626 come concreto mezzo per raggiungere un alto livello di sicurezza in azienda, un livello che sottintenda una specifica e dinamica organizzazione interna, con un più diretto e constante coinvolgimento dei lavoratori mediante le attività di formazione ed informazione: “l’applicazione della 626 vista non solo come adeguamento normativo della sicurezza di macchine, impianti, locali ma come un mezzo teso a raggiungere adeguati livelli di sicurezza nelle aziende ed al mantenimento o meglio al miglioramento degli stessi mediante una specifica organizzazione interna che preveda, tra l’altro, il coinvolgimento diretto dei lavoratori mediante informazione e formazione (non solo una tantum) ritengo sia ancora molto lontana nella quasi totalità delle aziende”. Si riscontra dunque ancora una certa difficoltà ad introdurre e gestire un sistema sinergico; inoltre occorre lavorare ancora molto sulla diversa cultura della sicurezza sul lavoro nelle aziende con dipendenti e titolari più anziani che mostrano una maggiore diffidenza agli obblighi derivanti dalla legislazione in materia. Nell’esprimere questa critica, il referente provinciale della Cna è tuttavia pronto a ricordare che ciò è particolarmente legato alla specificità del tessuto produttivo cui si sta facendo riferimento e che potrebbe essere generalizzato anche all’esterno nel territorio forlivese, data la diffusa prevalenza di piccole e piccolissime imprese anche nel resto del territorio regionale. In queste imprese il datore di lavoro non si limita a gestire il rapporto con clienti, fornitori, etc., ma partecipa al lavoro in produzione e tale impegno limita moltissimo la possibilità di un continuo aggiornamento sulla gestione della salute e della sicurezza in azienda. In questo contesto è inoltre difficile pensare di assumere un tecnico dedicato alla gestione della salute e sicurezza; è per tutte queste motivazioni che le piccole aziende fanno spesso riferimento a consulenti esterni o alle associazioni di categoria al fine di espletare gli obblighi derivanti dalla normativa e non avere l’onere di tenersi aggiornati sui cambiamenti nella legislazione. Le associazioni di categoria Cna e Lapam Confartigianato intervistate in occasione del presente rapporto forniscono, difatti, numerosi servizi 134 alle imprese associate. La Cna provinciale di Forlì-Cesena dal 1995 offre servizi di consulenza sulla normativa mediante convegni, pubblicazioni, incontri, ecc. Tramite il proprio ente di formazione offre inoltre corsi di formazione per i lavoratori, per i datori di lavoro con l’incarico di Rspp nella propria azienda, per addetti al servizio di prevenzione e protezione da incendi, per addetti al servizio di pronto soccorso, per rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza (Rls). La Lapam Confartigianato di Modena allo stesso modo ha elaborato soluzioni e servizi mirati per settore. Dopo aver determinato lo stato dell’arte in materia di salute e sicurezza mediante un questionario somministrato all’azienda all’inizio del rapporto associativo, la Confartigianato provvede a inviare materiale informativo sia sui corsi obbligatori che su quelli che vanno oltre gli adempimenti normativi. Sulla base delle criticità riscontrate, inoltre, la Lapam Confartigianato e gli altri attori protagonisti del coordinamento provinciale modenese sulla sicurezza sul lavoro si fanno promotori delle strategie per gli anni successivi. A tal riguardo qualche anno fa è stato realizzato un percorso congiunto fra i diversi attori e mirato al settore metalmeccanico per approfondire le cause degli incidenti sul lavoro, anche con l’ausilio delle imprese coinvolte. L’associazione fornisce inoltre informazione sulla salute e la sicurezza mediante un proprio periodico, riunioni sul territorio, riunioni specifiche di comparto. Ha altresì deciso di internalizzare il servizio della consulenza per approfondire e monitorare al meglio tutti gli aspetti su cui aggiornare le aziende. In provincia di Modena i corsi di formazione obbligatori di carattere tecnico sulla sicurezza sono gestiti dalla società di formazione regionale dell’associazione mentre a Modena il resto dei corsi obbligatori sulla sicurezza in azienda vengono gestiti da Pas (Progetto Ambiente Sicuro). Questa società di servizi alle imprese è stata fondata nel 2000 ma è operativa dal 1997 sulle tematiche della sicurezza e dell’igiene in ambiente di lavoro, dell’ambiente esterno, della qualità degli appalti pubblici. Da parte delle associazioni di categoria intervistate si insiste molto sulla rilevanza di diffondere in modo concreto e capillare una reale cultura della sicurezza e un sistema sinergico tra lavoratori e titolari. In quest’ottica la formazione e l’informazione dei lavoratori e degli 135 stessi datori di lavoro sono viste come un tassello molto importante per la creazione di un ambiente ricettivo; come sostiene il referente Cna provinciale: “Il ruolo della formazione e dell’informazione non è un aspetto solo formale. L’informazione e formazione dovrebbero iniziare già a livello scolastico al fine di procedere ad un cambiamento culturale che ponga i futuri datori di lavoro e i lavoratori nelle condizioni di approcciare correttamente i temi legati all’organizzazione della sicurezza”. La maggioranza delle aziende si affida ai referenti salute e sicurezza dell’associazione di categoria per lo svolgimento della formazione iniziale, mentre in alcuni casi sono i titolari aziendali che si recano in prima persona ai corsi di formazione e in un secondo momento trasmettono le nozioni acquisite ai propri dipendenti. Alcuni intervistati riferiscono che dopo la visita da parte dei referenti dell’associazione di categoria l’azienda provvede ad organizzare un’assemblea per illustrare i cambiamenti apportati. Nei casi in cui vengano assunti nuovi lavoratori alcune aziende aspettano di raggiungere un numero minimo di lavoratori per organizzare un unico ciclo di formazione della durata di circa un paio d’ore e durante il quale di solito ai lavoratori viene consegnata una dispensa con i contenuti della formazione sulla sicurezza. A volte, in occasione delle visite periodiche del referente dell’associazione presso l’azienda, si realizzano momenti di incontro informativi con i lavoratori e in alcuni casi le aziende distribuiscono anche materiale informativo sui rischi più rilevanti, ad esempio il rischio elettrico e la movimentazione dei carichi. Diversa è invece la formazione sulla salute e la sicurezza per i lavoratori internali: una delle aziende intervistate racconta difatti che la formazione per questi lavoratori viene svolta direttamente dall’agenzia interinale che “si limita a mostrare qualche slide”. Il riferimento all’utilizzo di lavoro interinale offre l’occasione per approfondire una questione non direttamente connessa alla salute e alla sicurezza ma che, allo stesso tempo, ne complica la gestione. Le aziende intervistate sono caratterizzate dalla presenza di un gruppo di lavoratori che hanno maturato un’esperienza consolidata. Tuttavia, nel momento in cui si sono trovate a fronteggiare l’inevitabile ricambio generazionale, le aziende hanno incontrato una 136 enorme difficoltà nel reperire manodopera, sia specializzata che non: da un lato ciò le ha portate ad un ricorso massiccio a lavoratori extracomunitari, dall’altro, ad un turn over molto elevato. In riferimento alla prima questione, si pensi ad esempio alla difficoltà di comunicare fra diversi idiomi, alle differenti tradizioni culturali, alla diversa concezione del lavoro. Dalle interviste emerge una certa difficoltà di gestione dei lavoratori stranieri, a questo occorre aggiungere che spesso, dopo qualche anno passato in Italia, questi lavoratori maturano la decisione di tornare nel Paese di origine. Al contempo vi è il problema di reperire manodopera italiana; a tal riguardo dalle interviste è emersa una generale flessione di “appetibilità” del lavoro nell’industria nel corso degli ultimi decenni. Le aziende intervistate, pur dichiarandosi pronte a formare internamente i lavoratori, trovano molte difficoltà per via del generale distacco dei giovani al lavoro manuale, al quale attribuiscono un minore riconoscimento sociale. Emblematiche a tal riguardo sono le parole dei titolari di due aziende, la prima modenese, la secondo forlivese. L’intervistato modenese dichiara al riguardo che: “fino a 15 anni fa la possibilità di imparare un mestiere in azienda era motivo di orgoglio, ora non più, si assiste ad uno svilimento del mestiere della metalmeccanica. A Bologna non ci sono più tutte le aziende metalmeccaniche che c’erano negli anni 70-80. Occorre fare qualcosa per far rinascere la cultura della meccanica manuale. Le scuole ci sono ancora ma occorre far capire agli studenti che se è bello poter disegnare un pezzo, occorre anche che ci sia qualcuno che poi lo voglia realizzare manualmente”. D’altro canto, la titolare dell’azienda forlivese conferma quanto sopra riconoscendo la difficoltà delle scuole professionali: “sono le stesse scuole a non trovare dei ragazzi da formare e, inoltre, mancano i fondi. Per questo, poiché dalle scuole non si riescono più a trovare nuovi ragazzi da assumere, ormai ci si rivolge sempre più spesso alle agenzie interinali. Dal punto di vista pratico i nuovi assunti hanno conoscenze pari a zero ed è indicativo sapere che a Forlì non c’è nessun lavoratore in grado di coprire il ruolo di “piegatore””. In entrambi i casi dunque (lavoratori extracomunitari e giovani italiani), le aziende denunciano il verificarsi di un forte turn over perché questi 137 lavoratori, seppure per motivazioni diverse, non ambiscono a continuare la propria attività in azienda e si licenziano dopo pochi mesi. Il verificarsi di un turn over piuttosto frequente non solo comporta dei problemi per lo sviluppo dell’azienda, ma apre anche serie problematiche legate alla gestione della salute e della sicurezza. È alla luce di queste difficoltà che si può comprendere come mai, dopo un primo ricorso a tipologie dei rapporti di lavoro cosiddetti atipici (interinale, rapporti a termine, ecc) utilizzati nel momento di ingresso del lavoratore in azienda, quest’ultima tenda, dopo pochi mesi di prova, a trasformare il rapporto di lavoro in un rapporto stabile a tempo indeterminato. Prima di concludere l’analisi qualitativa sulla gestione della salute e della sicurezza nelle aziende, occorre ricordare che sia alle aziende che ai referenti delle associazioni intervistati è stato chiesto di descrivere il rapporto con gli organismi di controllo e la sua eventuale evoluzione in seguito all’entrata in vigore del decreto 626. In generale le aziende hanno risposto riportando esempi di alcune visite ispettive da parte dell’Ausl. Nella maggior parte dei casi si è trattato di visite che non hanno riscontrato anomalie, mentre in altri, a seguito di alcune segnalazioni su cambiamenti necessari da apportare, l’Ausl ha effettuato una seconda visita di controllo. Molti meno i referenti aziendali che riportano di visite svolte da parte dell’Ispettorato del lavoro e che comunque non hanno comportato conseguenze per l’azienda. In riferimento al rapporto tra le associazioni e gli organismi di controllo, il referente Cna provinciale intervistato sottolinea come, a seguito dell’emanazione del decreto 626, i rapporti con l’Ausl siano cambiati in termini di “metodo”. Mentre in precedenza l’Ausl si concentrava su un compito meramente ispettivo e di controllo, attualmente si propone anche come referente in merito ad interpretazioni normative e alla loro applicazione pratica. L’intervistato ritiene difatti che la posizione dell’Ausl si sia aperta ad una più utile collaborazione per un concreto miglioramento della salute e della sicurezza nella piccola impresa, cercando di gravarla meno, ove possibile, con obblighi più burocratici che sostanziali. 138 4 Conclusioni In un contesto di profondi cambiamenti (evoluzione dei mestieri, nuove modalità organizzative, progresso tecnologico, crisi economica, ecc.), l’analisi qualitativa ha delineato un quadro visibile da una duplice prospettiva: da un lato l’impegno delle parti sociali e delle aziende per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro soprattutto attraverso azioni preventive; dall’altro la difficoltà, per una reale cultura della sicurezza, di permeare e diffondersi capillarmente nel mondo del lavoro. Gli interlocutori intervistati sembrano concordare nel ritenere l’introduzione del D. Lgs. 626/94 come momento di importante cambiamento nella gestione della salute e della sicurezza aziendale, in termini di procedure da seguire, verifiche, adempimenti burocratici, ecc. Le associazioni datoriali hanno supportato le imprese nell’affrontare gli onerosi cambiamenti richiesti dalla normativa ma riconoscono, d’altro canto, la difficoltà degli imprenditori ad entrare nella logica partecipativa e sinergica del decreto. La prevenzione sul lavoro, infatti, non può essere perseguita mediante schemi isolati ma deve rappresentare un tassello del più ampio circolo virtuoso di relazioni, controlli, facilitazioni. Soprattutto si dovrebbe operare a tutti i livelli per integrare cultura del lavoro, cultura tecnica, cultura della prevenzione e del benessere nei luoghi di lavoro. Solo seguendo questo percorso la tutela dei lavoratori potrà divenire il punto di partenza per parlare concretamente di benessere sul lavoro. Su questa visione concordano gli interlocutori intervistati, gli obiettivi di miglioramento della salute e della sicurezza nelle aziende si possano ottenere solo ove esiste una cultura specifica dei datori di lavoro e dei lavoratori, mentre ciò che cala dall’esterno in un ambiente pregiudizialmente non ricettivo non attecchisce realmente. Il momento formativo assume dunque un’importanza vitale perché rappresenta un’opportunità per valorizzare l’interiorizzazione della prevenzione e un confronto partecipato sui rischi relativi alla specifica attività lavorativa. Su questa base si è mossa in questi anni la struttura bilaterale in 139 Emilia-Romagna, insistendo molto sulla formazione e informazione dei datori di lavoro, essendo soprattutto questi ultimi il passaggio obbligato per introdurre la cultura della sicurezza in azienda. Le parti sociali a livello regionale sottolineano ripetutamente la rilevanza della bilateralità nella gestione della salute e della sicurezza e nella tutela del lavoro in senso più ampio. L’essere riusciti attraverso la valorizzazione del dialogo sociale a mutualizzare un costo, altrimenti insostenibile per le piccole imprese, e l’implementazione di un sistema, ancorché migliorabile in una direzione fattuale, di gestione della sicurezza rappresentano per tutte le parti coinvolte il reale carattere innovativo e vantaggioso della struttura bilaterale, per il cui mantenimento vi è una sostanziale convergenza. Se da un lato l’insieme di strumenti giuridici, strutturali, relazionali e formativi messi in campo nel corso dell’ultimo decennio hanno contribuito ad una sensibile riduzione degli infortuni a livello regionale, i dati restano ad ogni modo preoccupanti. Per tali ragioni i nostri interlocutori concordano sulla necessità di continuare ad investire sul sistema salute e sicurezza aziendale in termini di formazione e di controllo, ma anche di incentivi e facilitazioni per le piccole imprese. 5 Bibliografia Benedettini, L., Dagli anni Ottanta ad oggi strategie in campo per la sicurezza, in “2087”,Edit Coop, Roma, aprile 2004 Commissione delle Comunità Europee, Comunicazione della Commissione. Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006, Bruxelles, 11 marzo 2002 E.B.E.R, CPRA, Il sistema sicurezza EBER visto dalle imprese e dai lavoratori, a cura della Fondazione Istituto per il Lavoro, Bologna, Litosei, 2005 E.B.E.R., Osservatorio imprese artigiane. Imprese e dipendenti nell’artigianato 2003-2004. Interventi E.B.E.R. 2003-2004, n.19, Bologna, Litosei, 2005 140 Oil, Lavoro sicuro e Cultura della Sicurezza. Il Rapporto Oil per la Giornata Mondiale per la Salute e Sicurezza sul Lavoro 2004, 28 aprile 2004 Parlamento Europeo, Mobbing sul posto di lavoro. Risoluzione A5-0283/2001 (2001/2339) (INI) Provincia di Modena, Coordinamento Provinciale Sicurezza sul lavoro, Il fenomeno infortunistico in provincia di Modena: andamento e dati di sintesi (anni 1999-2003), 30 aprile 2004 www.eber.org www.inail.it http://ue.eu.int/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/00100-r1.i0.h tm 141 La responsabilità sociale nelle imprese dell’Emilia Romagna: oltre la sicurezza e la qualità del lavoro CIDOSPEL Un’impresa che fa null’altro che soldi è un’impresa veramente modesta (intervista ad Henry Ford, 1919) Salute, sicurezza e qualità del lavoro sono temi sui quali, ormai da anni, il Cidospel ha concentrato la propria attenzione sviluppando studi e ricerche finalizzate ad analizzare le condizioni lavorative all’interno del sistema produttivo in specie della regione Emilia Romagna. Nei precedenti Rapporti sono stati esaminati, di volta in volta, diversi settori e comparti produttivi (agroalimentare, grande distribuzione, metalmeccanico, telecomunicazioni, edilizia, ecc.) nei quali si sono condotte analisi empiriche che hanno sperimentato sistemi di valutazione di grandezze, difficilmente quantificabili oggettivamente, quali il benessere dei lavoratori e la qualità del lavoro. L’approccio privilegiato in tali analisi ha avuto origine dal lavoro fondativo compiuto da Luciano Gallino che ha individuato quattro dimensioni della qualità del lavoro (dimensione ergonomica, del controllo, dell’autonomia e della complessità) successivamente maggiormente specificate, empiricamente comprovate oltreché integrate da una quinta non meno rilevante (quella economica) frutto del contributo di Michele La Rosa e dei percorsi di ricerca intrapresi dal Centro da lui diretto. Un’analisi condotta sulla base di tali criteri deve tuttavia oggi tenere conto di un sistema socio-economico interessato da profonde 142 trasformazioni (finanziarizzazione dell’economia, mondializzazione dei mercati, globalizzazione, innovazione tecnologica, terziarizzazione, esternalizzazione, ecc.) che si sta interrogando sulle proprie capacità di garantire congiuntamente benessere, sviluppo, ricchezza, tutela dell’ambiente e dei diritti dell’uomo. Se a ciò si aggiunge che l’impresa, attraverso le proprie scelte ed i propri comportamenti, ha capacità di influenzare molteplici aspetti della vita delle persone ben si comprende come sia divenuto urgente chiarire quali siano i termini del rapporto fra etica ed economia e quale dunque responsabilità l’impresa stessa sia chiamata ad assumersi nei confronti della società nel suo complesso. Cogliendo l’attualità di un tale dibattito si è perciò ritenuto opportuno dedicare questo contributo alla responsabilità sociale di impresa che, seppure analizzata nei suoi aspetti più generali e complessivi, viene da noi privilegiata con gli occhi di chi “centra” la sua attenzione sul tema del lavoro, della sua sicurezza e della sua qualità. Per questo ad una prima parte in cui si fornisce un quadro del tema della responsabilità sociale di impresa nelle sue linee più generali (senza alcuna pretesa di esaustività) ne segue una seconda in cui attraverso un’analisi empirica condotta in 15 aziende (la totalità delle imprese certificate SA8000 in Emilia Romagna) e gli approfonditi studi di caso svolti in cinque di queste si è voluto indagare come pratiche di gestione attente alla certificazione RSI possano contribuire a migliorare salute, sicurezza e qualità del lavoro. 143 Parte prima 1 La responsabilità sociale di impresa 1 Impegno sociale o responsabilità sociale? Nell’affrontare il tema centrale di questo contributo riteniamo da un lato specificare subito che daremo per nota l’ampia e complessa letteratura, non solo sociologica, sul rapporto fra etica ed economia; dall’altro utile preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco che spesso inquina le discussioni su ciò che si deve intendere per responsabilità sociale di impresa confusa spesso con il concetto di impegno sociale dell’impresa. Charles Derber, ripercorrendo storicamente l’evoluzione del tema nella realtà statunitense, ritiene che il principale fattore che ha spinto nelle diverse epoche le imprese all’impegno sociale sia, fondamentalmente, il tentativo di fornire una risposta alla avversione dei cittadini nei confronti di quelle grandi corporate che, oltre ad assumere posizioni dominanti all’interno dei propri mercati, attraverso il proprio potere economico - e talvolta anche mediatico hanno la capacità di influenzare la stessa vita democratica. Il più diffuso strumento per esercitare tal influenza è costituito da una attività di lobbying per la quale le grandi imprese impegnano consistenti investimenti retribuendo loro incaricati cui è affidato il compito di tutelare gli interessi dei propri datori di lavoro presso organismi governativi nazionali e sovranazionali. Nel 1996 è stato calcolato che, per ciascun membro del Congresso americano, vi erano 125 occupati regolarmente retribuiti a questo scopo (erano solo 31 nel 1964) ed un fenomeno analogo riguarda gli organi di governo dell’Unione Europea sui quali le imprese tentano di esercitare la propria influenza attraverso un esercito di 15.000 addetti. A ciò si aggiunge che nell’economia mondiale pare prevalere un modello di sviluppo nel quale l’obiettivo quasi esclusivo della massimizzazione del profitto (ovvero della massimizzazione del valore per gli azionisti che Luciano Gallino individua quale elemento 144 centrale nel dominante “capitalismo manageriale azionario”) viene perseguito in un contesto globale nel quale le capacità regolative delle politiche pubbliche nazionali divengono sempre più limitate. “Capitale e conoscenza si sono entrambi emancipati dalla loro dimensione locale” determinando, “tra le altre cose, separazione del potere dalla politica” (Bauman, 2000). Tutto ciò è aggravato dalla tendenza del sistema economico neoliberista ad accentuare le disuguaglianze fra una ridotta quota di popolazione che detiene gran parte delle risorse economiche (ed il conseguente potere di deciderne l’impiego in un contesto sempre meno vincolato) e la crescente percentuale di fasce di popolazione più povera. Tenendo conto di tali elementi Derber tenta di chiarire il rapporto fra CSR (corporate social responsibility) ed impegno sociale attraverso l’analisi di quattro fasi (dall’Autore definite “waves”: onde) che hanno visto grandi corporate statunitensi realizzare iniziative riconducibili all’una o all’altro in diverse epoche storiche a partire dal XIX secolo. La prima “onda” viene fatta risalire all’ultimo ventennio dell’800 nel quale, per reazione allo strapotere esercitato dalle principali imprese i cui uomini di vertice divenivano Presidenti degli Stati Uniti e in un contesto in cui la crescente disparità economica divideva la popolazione in un 10% di ricchi ed un 90% di poveri, nacque, per la prima volta nella storia americana, un movimento radicale (il Populist Movement) che puntò a conquistare il Governo del Paese. Ciò, a parere dell’Autore, spinse il mondo economico dominante ad arginare tali spinte sociali dando origine a quella che egli definisce appunto la “prima onda”. Tale reazione fu prevalentemente orientata ad un comportamento filantropico riconoscibile, ad esempio, nella condotta di Rockefeller che, in quegli anni, oltre a fondare l’Università di Chicago, finanziò con consistenti capitali altre università e fondazioni tentando di dare in questo modo una risposta alla crescente insoddisfazione pubblica. La seconda “onda” Derber la colloca intorno agli anni venti del secolo successivo. L’elevato grado di corruzione ed i numerosi scandali che investirono il mondo degli affari fecero emergere lo 145 strapotere delle grandi corporate nelle quali condotte di comportamento irresponsabili generarono elevate e diffuse tensioni sociali. In questo caso la risposta fu il cosiddetto Plan America nel quale le imprese cominciarono a farsi carico della salute e della previdenza dei loro lavoratori ed, in alcuni casi, anche delle loro necessità abitative. Si parla in questo caso di atteggiamenti di natura paternalistica da parte delle imprese che vennero però radicalmente messi in discussione dalla Grande Depressione conseguente alla crisi del 1929 che in molti casi determinò l’insostenibilità economica di tali iniziative. La terza “onda”, viene collocata negli anni sessanta del secolo scorso. Più che riguardare un intero sistema questa fase è basata su specifiche realizzazioni di singole imprese globali (Pfizer, Glaxo, General Motors) che cominciarono a tenere conto degli interessi di un più vasto panorama di soggetti coinvolti nell’impresa (stakeholder) oltre a quelli tradizionali dei propri azionisti (shareholder). Ciò fu determinato dalla considerazione che farsi carico delle necessità e della soddisfazione dei propri lavoratori ed adottare comportamenti corretti nei confronti dei propri clienti e della società nel suo complesso avrebbe avuto come conseguenza da un lato un aumento della produttività e, dall’altro, un’accresciuta reputazione dell’impresa all’interno della comunità in cui si trovava ad operare. A titolo di esempio l’Autore cita fra le principali realizzazioni di questo tipo la General Motors che negli anni settanta adottò una serie di iniziative per aumentare la partecipazione dei propri lavoratori alla attività dell’impresa introducendo il lavoro in team ed alcuni elementi di autonomia nell’organizzazione del lavoro tratti dal modello giapponese. Un ulteriore esempio riguarda una grande impresa americana (Stride Rite) con sede in una delle zone più povere e violente di Boston. Dopo che le finestre della direzione aziendale furono bersaglio di colpi di arma da fuoco, invece di pensare ad un trasferimento, un alto dirigente decise di aprire un centro sociale diurno dove non solo gli impiegati ma tutti i componenti della comunità potevano portare quotidianamente i propri figli. 146 Inizialmente tali realizzazioni rivolte nel primo caso ai lavoratori e nel secondo alla comunità contribuirono a generare un incremento dei profitti per la General Motors ed una maggiore integrazione della Stride Rite nel suo contesto ambientale ma il modello entrò in crisi a causa di valutazioni di natura economica. Nel primo caso l’incremento di produttività del lavoro implicò il licenziamento di numerosi dipendenti e nel secondo, dopo circa un decennio di attività, il centro sociale fu chiuso a causa del trasferimento dell’impresa verso aree logisticamente più vantaggiose nelle quali si sarebbero abbattuti i costi di distribuzione. In entrambi i casi i conseguenti costi sociali furono elevatissimi. Inoltre la considerazione che, nonostante le nobili intenzioni, le iniziative dalle imprese non sarebbero state economicamente sostenibili nel lungo periodo determinò un generalizzato clima di sfiducia sulle capacità delle corporate di tutelare interessi diversi da quelli dei propri azionisti. La quarta ed ultima “onda”, diversamente dalle precedenti in cui prevaleva un atteggiamento di semplice impegno sociale, ha un approccio macro e sistemico che può a ragione rientrare in ciò che oggi definiamo responsabilità sociale di impresa. In questo caso il farsi carico di aspetti sociali più ampi non è più semplicemente una opzione scelta da vertici aziendali dotati di particolare sensibilità, ma diviene una necessaria risposta del mondo produttivo ad istanze di masse crescenti di cittadini e consumatori che, grazie all’elevato livello di informazione cui hanno accesso, sono in grado di valutare l’operato delle corporate influenzandone le politiche e le strategie attraverso le proprie scelte di consumo e la propria capacità di mobilitazione sociale. Soddisfare le istanze e le esigenze espresse da tutti gli stakeholder diviene quindi un fattore competitivo e strategico indispensabile a garantire ad ogni organizzazione produttiva la propria salute economica immediata e la propria sopravvivenza nel lungo periodo. Questa nuova visione renderebbe necessario l’adeguamento di ogni impresa a stili di gestione socialmente responsabili ed al rispetto di standard sempre più elevati indispensabili per mantenere la propria posizione nel mercato e nel proprio contesto ambientale generando in 147 tal modo un cambiamento a livello di intero sistema: “un’impresa nella quarta onda può permettersi di essere responsabile poiché tutte le imprese con le quali compete sono esse stesse concordi sul ruolo della responsabilità” (nostra traduzione da Derber, 2003). In tale contesto il ruolo degli stakeholder e delle organizzazioni non governative viene ulteriormente potenziato dalla loro partecipazione, a fianco delle imprese, ad organismi internazionali deputati a stabilire cosa significa essere socialmente responsabili definendo altresì gli standard ed i relativi criteri di rendicontazione. Derber, spiegando in conclusione il senso della metafora relativa all’onda del mare, conclude con la considerazione che essa non può essere “comprata” o “ingannata”, come parevano fare imprenditori filantropi o paternalisti, pena il fallimento dovuto alla non sostenibilità economica ed il conseguente aumento di un clima generalizzato di sfiducia ma, al contrario, l’onda può e deve essere “cavalcata” da stakeholder e cittadini che entrano realmente a far parte della governance e del controllo democratico di un intero sistema produttivo. In conclusione il social commitment o l’impegno sociale dell’impresa sono alla base di iniziative messe in atto fin dalla seconda metà dell’ottocento da parte di imprenditori e manager in alcuni casi “illuminati” o più spesso da dirigenti obbligati da pressioni sociali e dalla volontà di migliorare la reputazione della propria impresa. Oggi, in un contesto caratterizzato dall’accresciuto potere dell’impresa all’interno della società, ciò che invece sostanzia la responsabilità sociale è, come meglio vedremo nel paragrafo seguente, la necessità di implementare un nuovo modello di governance dell’impresa in grado di contemperare gli interessi degli azionisti/proprietari e le “pretese legittime” di tutti gli altri soggetti le cui esistenze sono direttamente o indirettamente influenzate dai comportamenti e dalle scelte dell’impresa. “Le decisioni economiche influenzano la vita delle persone in molti modi, quali le condizioni di lavoro, lo sviluppo delle comunità locali, la reale qualità della vita. Esercitare un potere d’impresa responsabile significa acquisire la capacità di vedere le imprese non solo dall’interno o dal mercato; significa anche imparare ad osservarle dall’esterno, formarsi un 148 quadro di quanto contribuiscano alla società e non solo nel breve periodo” (Lozano, 2001). 2 Una ricostruzione di contributi teorici alla definizione della responsabilità sociale di impresa: cenni Insieme alle realizzazioni concrete di esperienze quali quelle appena citate nei decenni si è andato sviluppando un dibattito molto vivace centrato sul rapporto fra etica ed economia e, più in particolare, su quelle che dovrebbero essere le finalità ultime dell’impresa. Lo spazio a nostra disposizione non ci consente una puntuale ricostruzione di questo percorso teorico per il quale rinviamo ai numerosi testi recentemente prodotti; in questa sede pertanto ci limiteremo a delinearne alcune tappe significative del dibattito contemporaneo in coerenza con gli obiettivi del presente scritto. Una prima suddivisione - necessariamente schematica per le ragioni appena ricordate ma dalla quale, dal nostro punto di vista, pare opportuno intraprendere il percorso citato - può essere operata distinguendo fra i sostenitori della stockholder view che ritengono che la finalità dell’impresa sia esclusivamente quella di aumentare il valore finanziario posseduto dagli azionisti/investitori (stockholder appunto o shareholder) ed i sostenitori della stakeholder view che ritengono che gli interessi degni di considerazione e di tutela debbano essere, invece, quelli relativi alla più ampia platea di soggetti che, a diverso titolo, hanno interesse e partecipano alla attività dell’impresa o la cui vita è in qualche modo influenzata dalle scelte di business da essa operate (stakeholder). Fra gli esponenti più autorevoli del primo approccio possiamo annoverare il premio Nobel Milton Friedman mentre, alla seconda, possono essere ricondotti i contributi di William Evan e Edward Freeman. Friedman in particolare parte dal presupposto che sia il mercato il più efficiente strumento di regolazione dell’attività economica e sia la “mano invisibile” che lo governa a fare in modo che l’obiettivo esclusivo dell’impresa a perseguire la massimizzazione dei profitti e l’incremento del valore del capitale detenuto dalla proprietà comporti come automatica conseguenza anche la promozione del benessere 149 generale. Egli rifiuta la responsabilità sociale ritenendola uno strumento in grado di sovvertire il sistema capitalista conducendolo verso il socialismo. Friedman sostiene che “c’è una e solo una responsabilità sociale dell’impresa: usare le sue risorse e dedicarsi ad attività volte ad aumentare i propri profitti a patto che essa rimanga all’interno delle regole del gioco, il che equivale a sostenere che competa apertamente e liberamente senza ricorrere all’inganno e alla frode” (Friedman, 1962). Egli tuttavia non esclude che le scelte dei manager possano richiamarsi a principi etici o favorire il benessere sociale generale (che, come detto, è anzi automaticamente garantito dalla creazione di nuova ricchezza) ma ciò solo nel quadro del patto fiduciario che lega gli stessi manager agli azionisti dell’impresa ed in nome della tutela privilegiata degli interessi di questi ultimi. In contrapposizione alle tesi sostenute da Milton Freedman, Wiliam Evan ed Edward Freeman propongono il cosiddetto approccio multi-fiduciario in base al quale i manager dell’impresa devono tenere conto, oltre che degli interessi degli azionisti/proprietari (i cui diritti di proprietà non possono essere considerati assoluti), anche di quelli di tutti coloro che abbiano “un interesse legittimo o una pretesa legittima sull’impresa”. Questi ultimi nella definizione classica fornita da Freeman nel 1984 sono così individuati: “gli stakeholder primari, ovvero gli stakeholder in senso stretto, sono tutti gli individui o gruppi ben identificabili da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti, dipendenti, fornitori e agenzie governative chiave. In senso più ampio, tuttavia, stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In questo più ampio significato, gruppi di interesse pubblico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, associazioni imprenditoriali, concorrenti, sindacati e la stampa sono tutti da considerare stakeholder” (Freeman, 1984). Evan e Freeman in un successivo articolo del 1988 esplicitano i due principi che stanno alla base del loro approccio. Il primo è il principio di legittimità aziendale secondo cui “l’impresa deve essere gestita per il bene dei suoi stakeholder: consumatori fornitori, proprietari, dipendenti e comunità. I diritti di questi ultimi 150 devono essere garantiti, e, inoltre, tali gruppi devono partecipare alle decisioni che in modo significativo toccano il loro benessere”. Il secondo è il principio fiduciario in base al quale “il management intrattiene un rapporto fiduciario con gli stakeholder e con la corporation come entità astratta. Esso deve agire nell’interesse degli stakeholder in qualità di loro agente, e nell’interesse della corporation per assicurarne la sopravvivenza salvaguardando gli interessi di lungo termine di ogni gruppo”. Rispetto alla massimizzazione dei profitti ed all’incremento del valore per gli azionisti come obiettivi esclusivi dell’impresa si ha, in questo caso, una radicale ridefinizione delle finalità ultime dell’impresa stessa quale organizzazione che deve esercitare una funzione di coordinamento e di mediazione degli interessi dei diversi stakeholder. Un analogo tentativo di ridefinizione viene compiuto da Freeman ad un livello ancora più generale quando sostiene che “il capitalismo funziona perché imprenditori e manager si uniscono e mantengono accordi o rapporti tra consumatori, fornitori, dipendenti, finanziatori e comunità. Il sostegno di ogni gruppo è vitale per il successo dell’iniziativa […]. Poiché questo principio è radicato negli interessi degli stakeholder, la corporation diventa una camera di compensazione o rete di attività in cui gli stakeholder soddisfano i loro desideri” (Freeman, 2000). 3 La responsabilità sociale di impresa nel Libro Verde della Commissione Europea Il dibattito teorico cui ci si è più sopra riferiti, sviluppatosi fin dal secolo scorso, sul ruolo dell’impresa nella società e sul rapporto tra etica ed economia non ha tardato ad esercitare la sua influenza su istituzioni nazionali ed internazionali che, recependone la rilevanza, hanno intrapreso iniziative e prodotto documenti che affrontano il tema in termini pragmatici. In questa direzione si muovono i principi generali formalizzati in documenti quali la “Dichiarazione tripartita” dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro relativa a libertà d’associazione, abolizione del lavoro forzato, non-discriminazione ed eliminazione del lavoro infantile, le “Linee guida dell’Ocse” destinate alle imprese 151 multinazionali ed il “Global Compact” promosso nel 1999 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite nel quale sono formalizzati dieci principi cui le imprese sono tenute ad attenersi per garantire la tutela dei diritti umani, dei diritti del lavoro e dell’ambiente. In Europa il Consiglio di Lisbona svoltosi nel 2000 ha individuato nella responsabilità sociale un importante strumento di governance che le imprese dell’Unione dovrebbero adottare per contribuire alla costruzione di un’economia della conoscenza dinamica e competitiva basata sulla coesione facendo, in particolare, appello al senso di responsabilità delle imprese nel settore sociale per le buone prassi collegate all’istruzione ed alla formazione lungo tutto l’arco della vita, all’organizzazione del lavoro, alla parità delle opportunità, all’inserimento sociale ed allo sviluppo durevole. Analogamente il Consiglio Europeo di Göteborg, del giugno 2001, ha esplicitato il principio secondo il quale una strategia di sviluppo sostenibile nel lungo termine deve necessariamente andare di pari passo con la crescita economica, la coesione sociale e la tutela dell’ambiente. In base a tali obiettivi ed in continuità con i principi enunciati la Commissione Europea diffonde nel luglio del 2001 il Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese che, per la sua rilevanza merita, un seppur breve esame. Innanzitutto in esso si definisce la responsabilità sociale dell’impresa come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Inoltre vi si afferma che “essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili ma anche andare al di là investendo ‘di più nel capitale umano nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. Immediatamente dopo tali definizioni il Libro Verde punta a sottolineare come l’adozione di tali pratiche responsabili da parte delle imprese costituisca anche uno strumento per “aumentare la propria competitività in un contesto economico e sociale sempre più influenzato da alcuni elementi rilevanti quali: 152 1) le nuove preoccupazioni e attese dei cittadini, dei consumatori, delle pubbliche autorità e degli investitori in vista della mondializzazione e delle trasformazioni industriali di grande portata; 2) i criteri sociali che influiscono sempre più sulle decisioni di investimento e di consumo degli individui e delle istituzioni; 3) le inquietudini crescenti suscitate dal deterioramento dell’ambiente provocato dall’attività economica; 4) la trasparenza arrecata dai mezzi di comunicazione e dalle tecnologie moderne dell’informazione e della comunicazione nell’attività delle imprese”. Il Libro Verde assegna un ruolo di rilievo ai consumatori ed agli investitori i quali attraverso i moderni strumenti di comunicazione sono in grado di conoscere e valutare i comportamenti delle imprese e di orientare conseguentemente i propri acquisti o i propri investimenti favorendo organizzazioni produttive che incorporano nei propri prodotti o nei propri servizi ‘plusvalori’ socio-ambientali. Va tuttavia sottolineato che, come approfondiremo in seguito, fra tutte le “parti interessate” all’attività dell’impresa, il Libro Verde colloca in una posizione centrale i lavoratori e l’organizzazione del lavoro dedicando ad essi ampio spazio. Pur riconoscendo come responsabilità principale dell’impresa quella di generare profitti, il Libro Verde ritiene l’adozione di pratiche di gestione socialmente responsabili un investimento in grado di coniugare gli obiettivi finanziari e commerciali dell’azienda con l’attenzione agli aspetti sociali ed ambientali. Proprio in funzione della necessità di garantire redditività e competitività dell’impresa il documento condivide l’approccio “sistemico” alla responsabilità sociale auspicandone la diffusione non solo all’interno del sistema produttivo europeo ma anche a livello planetario. Per rendere più efficace l’implementazione di tali pratiche da parte dell’impresa il Libro Verde assegna alla Commissione Europea il compito di agire affinché si creino delle partnership che vedano coinvolte, insieme alle aziende, le organizzazioni non governative, le parti sociali, le autorità locali e gli organismi che gestiscono servizi sociali. Al fianco del ruolo che deve essere svolto dalla Commissione 153 si auspica, inoltre, una analoga attività di sensibilizzazione al tema della responsabilità sociale da parte di tutte le istituzioni pubbliche soprattutto nei riguardi delle piccole e medie imprese che costituiscono un pilastro fondamentale dell’intera economia europea. La Commissione e le altre istituzioni pubbliche sono di conseguenza chiamate ad operare per conseguire i seguenti obiettivi: 1) instaurare un quadro globale europeo destinato a favorire la qualità e la convergenza delle procedure osservate nel settore della responsabilità sociale delle imprese, grazie all’elaborazione di principi, approcci e strumenti generici e alla approvazione di nuove prassi e idee innovative; 2) sostenere le buone prassi destinate a garantire una valutazione efficiente in termini di costi ed una verifica indipendente delle procedure di responsabilità sociale delle imprese garantendo in questo modo la loro efficacia e la loro credibilità. La realizzazione di tali obiettivi implica la necessità per le imprese di dotarsi di codici di condotta, contenenti valori, principi e responsabilità nei confronti dei propri stakeholder, relativamente alle condizioni di lavoro, ai diritti dell’uomo ed alla tutela dell’ambiente applicabili a livello dell’intera catena organizzativa e produttiva. Tali codici di condotta, secondo il Libro Verde, possono essere più o meno efficaci in funzione delle modalità di applicazione e delle verifiche cui sono sottoposti. La stessa Commissione Europea nel Libro Verde non nasconde, tuttavia, le difficoltà legate ai criteri utilizzati dalle imprese per la predisposizione dei propri codici di condotta. Per questo suggerisce che la definizione dei principi possa basarsi sulle Convenzioni fondamentali predisposte dall’OIL, quali quelle contenute nella Dichiarazione del 1998 relativa ai principi e diritti fondamentali nel lavoro, e sui principi dell’OCSE destinati alle imprese multinazionali. La Commissione considera il rispetto delle prescrizioni raccolte in detti documenti solamente un obiettivo minimo da raggiungere e sostiene, altresì, che una condotta di comportamento socialmente responsabile presuppone che si avvii un processo progressivo di miglioramento continuo sia del codice di condotta sia delle normative. 154 Una volta definiti i valori sui quali fondare i codici di condotta, assume però altresì rilevanza la necessità di valutare l’effettiva messa in pratica dei principi in essi contenuti e la possibilità di verifica dei comportamenti enunciati. Ciò impone la necessità di predisporre un insieme di strumenti che possano, da un lato, fornire il supporto informativo per la gestione integrata dell’impresa (gestione, cioè, che unisca gli aspetti economici, sociali ed ambientali) e, dall’altro, garantire a tutti gli stakeholder e, più in generale a tutta la società civile, l’accesso alle informazioni per valutare il comportamento dell’impresa in termini di trasparenza, credibilità e coerenza con i principi fissati. 4 Volontarietà o discrezionalità autoreferenziale: il dibattito europeo fra le parti sociali Dopo avere delineato i contenuti essenziali del più organico documento prodotto a livello europeo sul tema ci pare opportuno (anche per la stessa impostazione del volume in cui il presente saggio è inserito) rendere conto del dibattito che si è andato sviluppando fra le parti sociali relativamente al significato da attribuire alla responsabilità sociale, al rilievo che deve essere dato ai lavoratori nell’adozione di modalità di gestione più attente agli interessi degli stakeholder e, soprattutto, riguardo al tema dell’“integrazione volontaria” come peculiarità della Rsi. L’Unione delle confederazioni dell’industria e dei datori di lavoro d’Europa (Unice), difende fermamente un’adesione libera e volontaria alla Rsi e ritiene che il dialogo sociale sia un proficuo strumento per la realizzazione di buone prassi progressivamente estendibili e generalizzabili attraverso strumenti di benchmarking; valuta altresì importante che ciò non debba implicare l’imposizione di nuovi vincoli normativi che influenzerebbero negativamente le potenzialità competitive di imprese che operano in un contesto globale non altrettanto regolamentato. La Confederazione europea dei sindacati (Ces), da parte sua, pone, invece, l’attenzione sul rischio che la responsabilità sociale possa divenire un sostituto della regolazione o della legislazione sociale. In particolare individua tre aspetti critici: 155 1) la responsabilità sociale non può essere uno strumento che miri all’abolizione del conflitto sociale teso alla ricerca di un consenso delle parti interessate che diluisca la responsabilità concrete del management; 2) azionisti e manager detengono, comunque, il potere di prendere le decisioni ultime sulle strategie aziendali e non sempre sono propensi a garantire ai lavoratori elevati livelli di informazione, consultazione e partecipazione; 3) la diffusione di pratiche di responsabilità sociale non può avvenire solamente su base volontaria ma necessita di un ampliamento del quadro normativo di tutela dei diritti dei lavoratori (Telljohann, 2004). Nella visione del Sindacato Europeo l’adesione volontaria da parte delle imprese ai principi della responsabilità sociale dovrebbe essere, quindi, considerata solo una fase di passaggio, propedeutica alla introduzione di un sistema di regole in grado di elevare progressivamente gli standard minimi di tutela dei diritti dei lavoratori nonché di salvaguardia dell’ambiente. Riguardo a questa differenziazione fra il punto di vista imprenditoriale e quello sindacale europeo ci può soccorrere, fra gli altri, in termini almeno di migliore definizione un contributo di Giuseppe Acocella il quale tenta di fornire un chiarimento sul principio di volontarietà di adesione ai principi della RSI affermando che questo “non può coincidere con l’unilateralità dell’atto, perché esso è atto volontario ma contrassegnato dalla ‘reciprocità’ delle volontà di tutti gli attori del sistema (gli stakeholder). L’atto volontario non segnato da alcuna obbligazione morale si configura come ‘dono’, ma il dono è cosa diversa dalla responsabilità. (…). Pertanto se la scelta della CSR non può né essere imposta dall’esterno (…) né essere tutta interna, autoreferenziale e determinata dalle mere convenienze della proprietà e del management aziendale, essa deve comunque valorizzare le potenzialità implicite nella CSR di sperimentare forme avanzate di democrazia economica come estensione dei diritti fondamentali (…)” (Acocella, 2004). L’Autore poi, riprendendo l’approccio della stakeholder view suggerisce di cominciare “a fondare la necessità etica della 156 responsabilità sociale dell’impresa e delle politiche pubbliche relative, attraverso una contrattazione sociale capace di definire i beni primari cui i contraenti restino vincolati. La stipulazione del contratto rispetta la volontarietà (che non è unilateralità paternalistica) della responsabilità che stockholder e stakeholder si assumono ciascuno per la propria parte, ma la definisce rendendo i contenuti degli impegni comunemente assunti vincolanti”. Di qui il conseguente impegno delle politiche pubbliche di promuovere la legislazione di sostegno alla partecipazione aziendale o alle pratiche di trasparenza e controllo dei bilanci, “senza alterare la libera e volontaria adesione che distingue il livello delle opzioni morali da quello obbligatorio dell’osservanza delle norme giuridiche in materia di ambiente o tutela del lavoro”. 5 Il Progetto CSR-SC del Ministero del Lavoro e della Politiche Sociali e la Responsabilità sociale di impresa in Italia In Italia il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, facendo propria la definizione di responsabilità sociale di impresa formulata nel Libro Verde e condividendone la rilevanza quale strumento in grado di coniugare tutela ambientale, sviluppo sociale e competitività delle imprese, ha presentato nel dicembre 2002 il “Progetto CSR-SC” (Corporate Social Responsibility – Social Commitment). In esso, oltre a riaffermare i principi di volontarietà, credibilità e trasparenza, il Ministero si impegna a promuovere il progetto CSR, a contribuire a diffondere la cultura della CSR e delle relative buone pratiche, a definire indicatori efficaci in accordo con i diversi stakeholder, le imprese ed il mondo accademico ed a sviluppare un sistema di regole condivise per tutelare i consumatori. Il Ministero registra l’incertezza determinata dal proliferare di standard di valutazione delle performance ambientali e sociali che rendono, da un lato, troppo complessa la scelta da parte delle imprese degli strumenti e delle metodologie più appropriati per implementare modalità di gestione socialmente responsabili e, dall’altro, determinano la difficoltà per gli stakeholder di analizzare ed apprezzare i risultati raggiunti. Per queste ragioni Esso ha avviato, con la collaborazione di esperti e stakeholder qualificati, un percorso 157 di approfondimento, ricerca e sperimentazione finalizzato ad elaborare uno standard rispondente a criteri di semplicità, modularità e flessibilità in grado di garantirne l’adozione sia nelle grandi aziende che nelle PMI e di facilitare rilevazione, misurazione e comunicazione delle performance di CSR. Nello standard di CSR proposto dal Governo il documento attraverso cui l’impresa comunica agli stakeholder le proprie performance sociali, ambientali e di sostenibilità è definito Social Statement. Questo si basa su un set modulare e flessibile di indicatori, la cui struttura si articola, in particolare, in funzione della classe dimensionale di appartenenza dell’azienda che lo adotta. Tali indicatori sono organizzati in un framework articolato su tre livelli. Il primo livello è costituito da otto categorie o gruppi di stakeholder e precisamente: 1) risorse umane; 2) soci/azionisti e comunità finanziaria; 3) clienti; 4) fornitori; 5) partner finanziari; 6) Stato, Enti locali e pubblica amministrazione; 7) comunità; 8) ambiente. Per ciascuna di queste categorie il secondo livello prevede l’analisi di alcuni aspetti e aree tematiche (specifici per ciascuna categoria) monitorati attraverso gruppi di indicatori. Il terzo livello è costituito, infine, dagli indicatori veri e propri che possono avere natura quantitativa o qualitativa in funzione delle caratteristiche degli aspetti cui si riferiscono e che hanno la funzione di controllare e valutare le performance di un’organizzazione rendendole comparabili con quelle di altre organizzazioni. Il set di indicatori è, a sua volta, suddiviso in indicatori comuni, che devono essere utilizzati da tutte le imprese (PMI o grandi aziende) per la realizzazione del Social Statement e indicatori addizionali, che si possono applicare alle imprese di maggiore dimensione (a partire da 50 dipendenti) in base a specifici criteri, affiancando e integrando gli indicatori comuni. Per ragioni di spazio non è possibile in questa sede fornire un’analisi approfondita dell’insieme degli indicatori proposti, tuttavia, essendo il lavoro argomento centrale di questo contributo, nel successivo paragrafo 158 verrà fornita una sintetica analisi degli elementi considerati nel Social Statement relativamente alla categoria delle risorse umane. Una volta definiti gli strumenti, la procedura predisposta dal Ministero per l’implementazione della responsabilità sociale prevede, in una fase iniziale, un processo di autovalutazione da parte dell’impresa fondato sul set di indicatori proposti che si conclude con la predisposizione del Social Statement. Questo viene poi proposto all’esame-valutazione di un gruppo di stakeholder che forniscono commenti, pareri e valutazioni che saranno poi sottoposti alla valutazione del “Forum Italiano Multistakeholder per la CSR” (organismo nazionale rappresentativo di tutti gli stakeholder presieduto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). In caso di valutazione positiva l’impresa viene inserita in un apposito data base. L’impresa che ha superato con successo tale iter di valutazione può beneficiare delle agevolazioni predisposte dal Ministero (agevolazioni fiscali, campagne mirate sostenute dal Governo, premi ad ampia visibilità ed, eventualmente, incentivi previdenziali, incentivi finanziari e forme di semplificazione amministrativa ancora allo studio) e può decidere - sempre su base volontaria - di andare oltre il livello CSR e partecipare in maniera attiva alle priorità di intervento sociale, finanziando un apposito Fondo SC. Quest’ultimo, costituito nell’ambito del Bilancio dello Stato, raccoglie le risorse stanziate dalle imprese utilizzandole per supportare i progetti definiti da un’apposita Conferenza Unificata e dalle ONG e contenuti nel Piano di Azione Nazionale. Quest’ultima parte del progetto sostanzia l’aspetto del Social Commitment che punta a “favorire la partecipazione attiva delle imprese al sostegno del sistema di welfare nazionale e locale secondo una moderna integrazione pubblico-privato”. Ciò ha indotto alcuni osservatori ad evidenziare una possibile problematicità. Unire la “responsabilità” (responsibility) e l’“impegno” (commitment) può portare a confondere “la CSR con la beneficenza aziendale e con l’obiettivo di canalizzare le donazioni delle imprese sui programmi sociali stabiliti dal Governo” con il rischio di manomettere il “fisiologico meccanismo di finanziamento via donazioni delle attività del settore no profit dell’economia” e di distorcere “uno dei meccanismi strutturali che alimentano lo sviluppo del terzo settore e che correggono le inefficienze dell’offerta globale di servizi di Welfare” (Sacconi L., 2004). 159 6 Responsabilità sociale e lavoro 1.6.1. Il tema del lavoro nel Libro Verde Alla luce degli obiettivi privilegiati dal presente contributo e pur consapevoli dei limiti di un tale parziale approccio, incentreremo ora la nostra attenzione prevalentemente su quella parte della responsabilità sociale che ha come protagonisti principali lavoratori e collaboratori dell’impresa. Il Libro Verde, facendo proprio l’impegno assunto nel Consiglio Europeo di Lisbona, attribuisce un notevole rilievo al tema del lavoro quale elemento fondamentale per la realizzazione di uno sviluppo economico di qualità. In particolare afferma che l’adozione di buone prassi nella gestione responsabile dell’attività di impresa abbia “in primo luogo” riflessi sui lavoratori. Per questo suggerisce l’adozione di politiche adeguate relativamente ai seguenti aspetti: · istruzione e formazione per tutto l’arco della vita; · responsabilizzazione del personale; · miglioramento del circuito d’informazione nell’impresa; · migliore equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero; · applicazione del principio di uguaglianza per le retribuzioni e le prospettive di carriera delle donne; · partecipazione dei lavoratori ai benefici ed all’azionariato; · incremento della capacità di inserimento professionale; · sicurezza sul posto di lavoro; · assunzione di persone sfavorite nel mercato del lavoro (minoranze etniche, donne, anziani, disoccupati di lunga durata). Nell’articolazione dei temi trattati nel Libro Verde un fondamentale aspetto è dedicato proprio alla salute e sicurezza del lavoro tema in questo saggio da noi privilegiato. Qui si segnala preliminarmente come le misure legislative e coercitive di regolamentazione in tema di salute e sicurezza sul lavoro risultino di più difficile applicazione in un contesto caratterizzato da esternalizzazioni e subappalti a fornitori anche di piccolissime dimensioni a volte collocati in paesi lontani su cui l’impresa non sempre riesce ad esercitare il proprio controllo. Per rispondere a tale difficoltà diviene importante che le imprese utilizzino criteri di selezione dei propri fornitori richiamandosi a 160 “forme complementari”, cioè integrative rispetto a quanto previsto dalla legge, di promozione della salute e della sicurezza. Tale adesione, di tipo volontario, secondo la prospettiva del Libro Verde contribuirà “a sviluppare una cultura della prevenzione ed un migliore livello di sicurezza e di protezione sul luogo di lavoro”. Ciò tornerà a vantaggio della competitività dell’impresa quando nelle proprie politiche di marketing potrà documentare e rendere conto ai propri clienti, attraverso appositi strumenti di controllo e certificazione, dell’impatto positivo delle proprie scelte. Questo atteggiamento potrà essere ulteriormente incentivato nel caso in cui le organizzazioni, private o pubbliche, privilegino nelle proprie gare d’appalto coloro che abbiano adottato comportamenti improntati al progressivo miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei propri lavoratori. Un secondo aspetto, sempre del Libro Verde, prende in considerazione il problema dell’adattamento alle trasformazioni. Si intende in questo caso porre l’accento sul fenomeno delle radicali ristrutturazioni a cui le imprese devono sottoporsi per rispondere alle sollecitazioni esterne, agli andamenti del mercato o alle condizioni della competizione nazionale o internazionale. Tali processi di riorganizzazione comportano sempre conseguenze che ricadono sugli stakeholder nel loro complesso e sui lavoratori in particolare. Per questo la Commissione ritiene utile che i processi di ristrutturazione siano affrontati “in un’ottica socialmente responsabile” che, tenendo conto degli interessi dei soggetti coinvolti garantisca “la partecipazione ed il coinvolgimento delle persone interessate attraverso una procedura aperta di informazione e consultazione. (…). Questo tipo di procedura dovrebbe cercare di proteggere i diritti dei lavoratori e di proporre loro, se necessario, una riconversione professionale, modernizzando gli strumenti e le procedure di produzione per sviluppare le attività del sito, una strategia di mobilitazione dei fondi pubblici e privati e procedure di informazione, di dialogo, di cooperazione e di partnership”. Un terzo elemento strettamente collegato ai processi di internazionalizzazione e globalizzazione, riguarda i diritti dell’uomo. I processi di delocalizzazione delle attività produttive ed il 161 commercio internazionale pongono in relazione imprese collocate in contesti molto differenziati in termini di tutele, garanzie e diritti acquisiti dai lavoratori (ed in senso più esteso dai cittadini). Ciò pone un problema molto complesso che associa elementi di tipo giuridico, politico e morale sui quali molto spesso la capacità di azione delle singole imprese resta molto limitata. Per questo la Commissione non manca di evidenziare la necessità di adottare politiche pubbliche in grado di incidere su tali fenomeni quando afferma che “la stessa Unione Europea ha l’obbligo, nel quadro della sua politica di cooperazione, di vigilare sul rispetto delle norme di lavoro, della tutela dell’ambiente e dei diritti dell’uomo”. Ciò non esclude, comunque, la necessità che le imprese responsabili si dotino di codici di condotta che siano, anche in questo caso, complementari ed integrativi della legislazione e delle disposizioni vincolanti di livello nazionale, europeo o internazionale. Un quarto aspetto rilevante per quanto attiene il presente contributo su cui il Libro Verde pone l’accento riguarda la qualità sul lavoro. A questa viene dedicata una specifica parte nella quale, oltre a ribadire che “i dipendenti sono i principali interlocutori delle imprese”, si auspica che nell’ambito della adozione di prassi socialmente responsabili le imprese si impegnino a garantire una stretta partecipazione del personale e dei suoi rappresentanti. Il dialogo sociale con i rappresentanti del personale (che, si specifica, debbano essere lungamente consultati) diviene uno strumento indispensabile per definire i rapporti fra le imprese ed i loro dipendenti, per individuare le questioni più rilevanti e per determinare, conseguentemente, gli “strumenti volti a migliorare le prestazioni sociali e ambientali dell’impresa”. Da ciò deriva che la formazione debba essere ritenuta uno strumento utile per sensibilizzare la direzione ed i dipendenti alle tematiche sociali ed ambientali in modo che queste ultime si integrino con scelte strategiche finalizzate alla sostenibilità economica dell’impresa. 1.6.2. Il tema del lavoro nel Progetto CSR-SC del Governo Italiano: gli indicatori proposti Come anticipato in precedenza nel predisporre il sistema di indicatori contenuto nel Progetto CSR-SC il Ministero del Lavoro e delle 162 Politiche Sociali del nostro paese ha individuato otto categorie di stakeholder la prima delle quali è costituita dalle risorse umane. Per chiarire quali dimensioni siano ritenute rilevanti per la valutazione del livello di responsabilità sociale nei confronti del lavoro nella tabella che segue sono raccolti, suddivisi in 14 aree tematiche, i 35 indicatori specifici che il Ministero ha individuato. Di questi 35 indicatori solamente 5 sono considerati indicatori comuni (politica verso le persone con disabilità e le minoranze in genere, ore di formazione per categoria, agevolazioni per i dipendenti, infortuni e malattie, tutela dei diritti dei lavoratori) ovvero implementabili anche dalle aziende con meno di 50 dipendenti. Tutti gli altri indicatori sono rivolti di preferenza alle imprese di dimensioni maggiori. Infine 19 sono gli indicatori di natura esclusivamente quantitativa, 7 quelli esclusivamente qualitativi ed i restanti 9 si prestano a misurazioni sia dell’una che dell’altra natura. 163 Tab.1. – Elenco dei indicatori relativi alle risorse umane predisposto nel Progetto CSR-SC del Governo Italiano Indicatore 1. 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6. 1.7. 2 2.1. 2.2. 2.3. 3. 3.1. 3.2. 3.3. 4 4.1. 4.2. Composizione del personale Categorie Età Anzianità Provenienza territoriale Nazionalità Tipologia contrattuale Titolo di studio 1 Turnover Politiche occupazionali Dipendenti e non dipendenti Cessazioni per tipologia Pari opportunità Personale maschile e femminile (a livello di quadri e dirigenti) Relazione tra salario maschile e femminile (per categorie e anzianità) Politica verso le persone con disabilità e le minoranze in genere Formazione Progetti di formazione (tipologia) Ore di formazione per categoria (al netto della formazione obbligatoria prevista per legge o per contratto) 4.3. Stage 5. Orari di lavoro per categoria 6. Modalità retributive 6.1. Retribuzioni medie lorde 6.2. Percorsi di carriera 6.3. Sistemi di incentivazione 7. Assenze 7.1. Giornate di assenza 7.2. Causale 8 Agevolazioni per i dipendenti 9 Relazioni industriali 9.1. Rispetto dei diritti di associazione e contrattazione collettiva 9.2. Percentuale di dipendenti iscritti al sindacato 9.3. Altro (ore di sciopero, partecipaz. dei lavoratori al governo aziendale, ecc.) 10 Comunicazione interna 11. Sicurezza e salute sul luogo di lavoro Infortuni e malattie Progetti 12. Soddisfazione del personale 12.1 Ricerche di customer satisfaction rivolte all’interno . 12.2 Progetti . 13 Tutela dei diritti dei lavoratori 13.1 Lavoro minorile . 13.2 Lavoro forzato 164 Tipologia C/A* X** Y** A A A A A A A A A A A A C A C ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● A A A A A A A C ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● ● A A A A ● C A ● ● ● A ● ● A ● C A ● ● A ● ● ● ● ● ● ● . 14. Provvedimenti disciplinari e contenziosi Legenda *: C: indicatori comuni; A indicatori addizionali ** X indicatori qualitativi; Y indicatori quantitativi A ● Fonte: Progetto CSR-SC Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 7 Gli strumenti per la gestione della responsabilità sociale Il Social Statement con il relativo sistema di indicatori predisposto dal Ministero del Lavoro definisce una procedura percorribile dalle imprese italiane che vogliono aderire dal Progetto CSR-SC del Governo. Tuttavia, più in generale, molteplici sono gli strumenti che possono essere adottati dall’impresa che intende implementare processi di gestione socialmente responsabili. Luciano Hinna (2005) ne propone una classificazione in quattro categorie: 1) strumenti strategici; 2) strumenti operativi di relazione; 3) strumenti operativi di supporto; 4) strumenti accessori. Due sono i principali strumenti strategici che costituiscono l’ossatura di un processo finalizzato alla realizzazione di prassi socialmente responsabili: a) il manifesto dei valori e/o la carta dei valori nei quali sono definiti i principi etici ed i valori che sovrintendono ogni decisione assunta nella gestione dell’impresa; b) il codice etico, documento in cui l’azienda dichiara i diritti, i doveri e le responsabilità dell’impresa in tutte le sue componenti nei confronti degli stakeholder. Gli strumenti operativi di relazione sono, invece, finalizzati a costruire, sviluppare e consolidare il rapporto dell’impresa con gli stakeholder e, più in generale, con l’ambiente in cui essa opera. Tali strumenti costituiscono la parte visibile a tutti delle azioni intraprese dall’azienda per l’implementazione del processo di RSI. In particolare essi sono costituiti da: a) le relazioni, il dialogo ed il coinvolgimento degli stakeholder; b) i documenti di rendicontazione (bilancio, relazione, rapporto / sociale, ambientale e di sostenibilità). 165 Gli strumenti operativi di supporto costituiscono invece la parte che, pur non essendo visibile a tutti, costituisce elemento indispensabile affinché l’assunzione di responsabilità non si riduca semplicemente a generiche dichiarazioni di intenti o semplici campagne informative finalizzate al miglioramento della reputazione aziendale. Fra questi Hinna individua: a) un sistema informativo in grado di monitorare nel tempo, accanto alle prestazioni economiche, il raggiungimento degli obiettivi prefissati in ambito sociale ed ambientale; b) un sistema di indicatori di performance finalizzato a fornire misure il più possibile oggettive per la predisposizione degli strumenti di rendicontazione; c) la formazione del personale e la sensibilizzazione di tutti gli altri stakeholder; d) la gestione del patrimonio umano ed intellettuale interno al quale si collegano gli elementi relativi alla salute, alla sicurezza ed alla qualità del lavoro intesa nelle sue diverse dimensioni; e) gli altri standard utilizzabili in riferimento ad elementi quali la qualità dei prodotti (Iso), la tutela ambientale (Emas), la qualità e la tutela del lavoro (Ilo, SA8000 o AA1000), . Sono, infine, considerati strumenti accessori: a) il social auditing (interno ed esterno) ed il social rating; b) le azioni di responsabilità sociale; c) il comitato etico. L’Autore, pur ritenendoli importanti, definisce accessori questi ultimi strumenti poiché ritiene che la loro mancanza non vada ad inficiare l’efficacia dell’intero processo. In effetti il dibattito sull’efficacia delle procedure di social auditing, social rating e certificazione è oggi ancora aperto. Da un lato si ritiene auspicabile predisporre un’attività di verifica da parte di organismi terzi e indipendenti che attestino l’effettivo raggiungimento degli impegni volontariamente assunti e la correttezza della rendicontazione fornita agli stakeholder. Ciò anche in ragione del fatto che questi ultimi non sempre hanno la possibilità di accedere ad informazioni complete (a volte ritenute sensibili dalle 166 imprese e, per questo, mantenute riservate) e che, anche nei casi in cui esse siano liberamente accessibili, richiedono spesso capacità interpretative e di analisi non banali. Dall’altra parte si costata che le procedure di certificazione, di auditing e di rating fino ad oggi applicate (non solo riferite all’ambito sociale o ambientale ma anche a quello economico o alla qualità dei prodotti) sono, a volte, divenute semplici adempimenti formal-burocratici in grado di coniugare gli interessi economici di enti certificatori con quelli delle imprese interessate a migliorare la propria reputazione esibendo un semplice “marchio”. Un tale approccio alla certificazione ha recentemente manifestato tutti i suoi limiti nel momento in cui grandi aziende di ottima reputazione sia nazionale che internazionale (non è neanche più il caso di citare esempi ormai universalmente noti), in possesso di tali formali attestazioni di affidabilità su ogni genere di aspetti rilasciate da organismi terzi di controllo, sono improvvisamente crollate con grande sorpresa di tutti i loro stakeholder. Tenendo conto di queste due posizioni e con l’intento di fornire un quadro sugli orientamenti internazionali sul tema già affrontato riguardo alla realtà italiana, riteniamo opportuno, di conseguenza, proporre in questa sede - fra i tanti esistenti – un modello di rendicontazione sociale (Human Development Enterprise Index) ed il più diffuso standard di accreditamento (SA8000) che specifica i requisiti di responsabilità sociale che permettono ad un’azienda di sviluppare, mantenere e rafforzare politiche e procedure per gestire le situazioni che essa può controllare o influenzare e dimostrare alle parti interessate che le politiche, le procedure e le prassi sono conformi a tali requisiti. Essendo entrambi centrati su problematiche legate al lavoro, sono stati assunti come riferimenti per lo svolgimento della nostra analisi empirica, anche se non possono identificarsi con la RSI intesa in senso pieno e complessivo così come delineato in precedenza. 8 Lo Human Development Enterprise Index In base alla convinzione che il rapporto fra impresa e collaboratori sia un elemento cruciale per ogni sistema di rendicontazione sociale, Guy 167 Standing, economista dell’International Labour Office, alla fine degli anni novanta ha predisposto uno specifico modello denominato Human Development Enterprise Index. Tale indice, riprendendo il concetto di human capabilities di Amartya Sen, si fonda sul presupposto che ogni impresa socialmente responsabile dovrebbe perseguire l’efficienza dinamica e la sostenibilità economica, promuovendo allo stesso tempo lo sviluppo delle “capacità umane” dei propri collaboratori ed una migliore giustizia distributiva. Per questo l’impresa che punta allo sviluppo delle proprie risorse umane “ha al suo interno meccanismi che assicurano lo sviluppo dei collaboratori, in termini di sicurezza delle capacità di riproduzione delle abilità (skills) dei lavoratori, salute e sicurezza sul lavoro, equità sociale (non discriminazione), equità economica (sicurezza ed equità del reddito) e democrazia (sicurezza della rappresentanza, presenza di meccanismi di voice da parte dei lavoratori” (Standing, 1996). Standing costruisce il suo indice sulla base di un sistema di quattro indicatori scomposti ciascuno in una serie di sotto elementi. 1) Hde1: promozione di abilità (skills) dei lavoratori. - Presenza di corsi di formazione professionale per i nuovi assunti. - Organizzazione di corsi di aggiornamento per i lavoratori anziani per migliorare la performance e assicurare la trasferibilità delle loro abilità nel mercato del lavoro. - Gratuità dei corsi di formazione per i lavoratori. - Presenza di strutture dedicate alla formazione o ricorso a strutture esterne qualificate. 2) Hde2: salute e sicurezza sul lavoro ed equità sociale (non discriminazione). - Istituzione di un comitato o nomina di una persona responsabile per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro. - Numero annuo di incidenti sul lavoro inferiore al 50% della media del settore. - Numero annuo di giorni di lavoro persi per malattia inferiore al 50% della media del settore. - Assenza di pratiche discriminatorie in base al sesso, razza e disabilità. 168 - Impegno ed azioni positive da parte dell’impresa nelle pratiche di selezione del personale. 3) Hde3: equità economica. - Meno del 5% dei lavoratori pagati al minimo salariale. - Livello del salario minimo superiore al 50% del salario medio pagato nell’impresa. - Livello medio del salario corrisposto dall’impresa superiore alla media del settore. - Presenza di almeno dieci tipi di fringe benefit. 4) Hde4: democrazia. - Più del 50% della forza lavoro sindacalizzata e il management escluso dal sindacato. - Esistenza di un contratto collettivo. - Più del 30% delle azioni dell’impresa posseduto da lavoratori e dipendenti. - Nomina del top management da parte dei dipendenti. - Riconoscimento di uno schema di partecipazione ai profitti nella determinazione dello stipendio. Per ciascuno di tali indicatori viene definita una soglia minima di soddisfacimento e si attribuisce il valore ‘1’ quando è raggiunta o superata o il valore ‘0’ nel caso contrario. In questo modo si ottiene un indice numerico variabile da un minimo di zero ad un massimo di ventiquattro che costituisce un semplice metodo di valutazione di facile applicazione nella comparazione di realtà imprenditoriali collocate in un eterogeneo contesto internazionale. È importante sottolineare il fatto che le sperimentazioni di tale indice compiute dall’ILO hanno evidenziato una certa correlazione positiva (seppur limitata) fra il suo elevato livello e le performance economiche dell’impresa. 9 Il Social Accountability8000 Lo standard SA8000 si sviluppa per iniziativa del Council of Economic Priorities Accreditation Agency (CEPAA) che ne predispone la pubblicazione nell’ottobre del 1997. Successivamente, 169 nel 2001, il Social Accountability International (SAI) ne compie un aggiornamento predisponendone la versione attualmente utilizzata. Lo standard ha origine dalla necessità di valutare su scala internazionale il grado di tutela del lavoro ed il rispetto di requisiti minimi in termini di diritti umani e diritti sociali dei lavoratori. Esso è basato sulle prescrizioni dei principali documenti internazionali (Dichiarazione Internazionale dei Diritti Umani dell’Onu, Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia dell’Onu, Convenzione Onu per l’eliminazione di ogni discriminazione contro le donne e numerose altre Convenzioni dell’Ilo) e prevede in particolare che l’azienda rispetti i requisiti minimi relativi ad otto diversi aspetti. 1) Relativamente al lavoro infantile l’azienda: - non deve usufruire o favorire l’utilizzo di lavoro infantile; - deve stabilire procedure per il recupero dei bambini trovati a lavorare in situazioni che ricadono nella definizione di lavoro infantile, fornendo, in particolare, il supporto per la frequenza scolastica; - deve stabilire procedure per la promozione dell’educazione dei bambini e dei giovani lavoratori soggetti a istruzione obbligatoria (i bambini ed i giovani lavoratori non devono essere impiegati al lavoro durante le ore scolastiche e la somma giornaliera delle ore di scuola, lavoro e trasporto non deve essere superiore alle 10); - non deve esporre bambini e giovani lavoratori a situazioni pericolose, insicure o nocive alla salute. 2) Relativamente al lavoro obbligato l’azienda: - non deve usufruire o favorire l’utilizzo del lavoro obbligato; - non deve richiedere al personale di lasciare depositi o documenti di identità all’inizio dell’impiego. 3) Riguardo alla salute ed alla sicurezza l’azienda deve: 170 - garantire un luogo di lavoro salubre e sicuro, realizzando le misure per la prevenzione di incidenti e danni alla salute, sia nel corso del lavoro che in conseguenza di esso; - nominare un rappresentante della direzione per la salute e la sicurezza di tutto il personale, responsabile dell’attuazione di tale punto della norma; - assicurare che tutto il personale, anche di nuova assunzione, riceva una formazione regolare e documentata in materia di salute e di sicurezza; - stabilire sistemi per individuare, evitare e affrontare potenziali rischi per salute e sicurezza; - garantire servizi igienici puliti, accesso ad acqua potabile, strutture igieniche per la conservazione degli alimenti; - garantire che i dormitori, se forniti al personale, siano puliti, sicuri e idonei alle esigenze. 4) Riguardo alla libertà di associazione ed al diritto alla contrattazione collettiva l’azienda deve: - rispettare il diritto dei lavoratori di aderire e di formare sindacati di propria scelta e il diritto alla contrattazione collettiva; - facilitare mezzi di alternativi di associazione sindacale e contrattazione collettiva, nei casi in cui tali diritti siano limitati per legge; - garantire che i rappresentanti sindacali non siano discriminati sul luogo di lavoro e che possano comunicare con i propri associati. 5) Riguardo alla discriminazione l’azienda: - non deve attuare discriminazioni in relazione a: razza, ceto, origine nazionale, religione, invalidità, sesso, età, orientamento sessuale, appartenenza sindacale o affiliazione politica; - non deve interferire con il diritto del personale di seguire principi e pratiche legate a razza, ceto, origine nazionale, religione, invalidità, sesso, età, orientamento sessuale, appartenenza sindacale o affiliazione politica; 171 - non deve permettere comportamenti, inclusi gesti, linguaggio o contatto fisico, che siano sessualmente coercitivi, minacciosi, offensivi o volti allo sfruttamento. 6) Riguardo alle pratiche disciplinari l’azienda non deve utilizzare né favorire: - punizioni corporali; - coercizione mentale e fisica; - violenza verbale. 7) Riguardo all’orario di lavoro l’azienda deve: - adeguarsi all’orario lavorativo previsto dalle leggi in vigore del Paese e dagli standard dell’industria; - attenersi, nel caso di legislazione nazionale meno restrittiva del requisito SA8000 ai seguenti parametri. · Lavoro ordinario: non più di 48 ore settimanali con un giorno di riposo settimanale. · Lavoro straordinario: non più di 12 ore settimanali, con remunerazione superiore e con adesione volontaria. · Lavoro straordinario: se l’azienda è parte di una contrattazione collettiva, la richiesta di straordinario deve avvenire nel rispetto di tale accordo, che deve risultare conforme ai criteri precedentemente esposti per far fronte ad una domanda del mercato di breve periodo. 8) Relativamente agli aspetti retributivi l’azienda deve: - garantire il rispetto dei minimi retributivi legali, il salario deve comunque soddisfare i bisogni essenziali e deve essere disponibile una parte di reddito aggiuntiva; - garantire che le trattenute sul salario non siano dovute a scopi disciplinari e che la busta paga sia chiara e comprensibile per tutti (composizione del salario e benefici retributivi); - garantire che la retribuzione sia elargita secondo le prescrizioni legali e comunque nella maniera più conveniente per i lavoratori; 172 - garantire che non siano stipulati contratti che evidenziano un abuso della tipologia del rapporto di collaborazione, al fine di non regolare la posizione contributiva del lavoratore; - garantire che non siano applicati schemi di falso apprendistato, per evitare l’adempimento degli obblighi in materia di lavoro. Il Social Accountability 8000 definisce standard minimi relativi agli aspetti ora elencati che sono applicati a livello internazionale anche laddove le singole legislazioni contemplino tutele di ordine inferiore. Allo stesso modo, in un’ottica di miglioramento continuo, ulteriori requisiti vengono richiesti nei contesti in cui la normativa nazionale già garantisce il raggiungimento di soglie più elevate. La norma, infatti, oltre ad essere soggetta a revisioni periodiche, si evolverà di pari passo con i miglioramenti proposti dalle parti interessate e con tutte le correzioni che si renderanno necessarie, anche a fronte del mutare del contesto di riferimento. Il rispetto delle prescrizioni previste da SA8000 è verificato da un ente esterno, indipendente e accreditato per il rilascio delle relative certificazioni dal Social Accountability International (SAI). La principale peculiarità della certificazione consiste nell’imporre all’organizzazione non solo il rispetto dei requisiti al proprio interno ma anche, ove possibile, nelle organizzazioni fornitrici e subappaltatrici per un controllo della filiera nel suo complesso. La procedura di certificazione prevede diverse fasi. Nella fase preliminare tramite il coinvolgimento di ONG, sindacati e associazioni di categoria vengono raccolte informazioni e dati critici sull’azienda riguardo a: condizione economica, sociale, politica e culturale dell’area territoriale in cui è collocato il sito da certificare; la principale legislazione di riferimento (compresi i contratti collettivi di categoria); le aree problematiche caratteristiche del settore di attività. Successivamente una prima parte della visita di certificazione ha lo scopo di conoscere e valutare il sistema di responsabilità sociale pianificato dall’organizzazione da certificare, di verificare la conoscenza delle leggi applicabili, di raccogliere informazioni utili (dimensione del sito, organizzazione logistica, caratteristiche degli 173 spazi di lavoro ecc.) per la pianificazione della seconda parte della visita. Nella seconda parte della visita di certificazione si valuta, attraverso un sistema complesso di strumenti di analisi (interviste e focus group con dirigenti e lavoratori, analisi del clima interno ecc.), l’effettiva applicazione di prassi di responsabilità sociale e la capacità di garantirne il miglioramento continuo. Nel caso in cui questa fase abbia dato esito positivo l’ente accreditato provvede a rilasciare la certificazione di conformità a SA8000 che avrà durata triennale. Nel corso del triennio l’impresa è oggetto di visite ispettive periodiche (solitamente semestrali) da parte dell’ente certificatore finalizzate a verificare il rispetto dei requisiti per il mantenimento della certificazione. Alla scadenza del triennio l’impresa può scegliere di sottoporsi a nuove visite ispettive per il rinnovo della certificazione. 174 Parte seconda 2 La ricerca 1 2.1. Oggetto, metodologia e strumenti dell’indagine Come già avvenuto per i Rapporti annuali precedenti si è, anche in questo caso, inteso approfondire i temi collegati con la salute, la sicurezza e la qualità del lavoro, questa volta però andando ad analizzare l’impatto su queste dimensioni nelle realtà aziendali che hanno implementato strumenti e metodologie per l’adozione di una gestione socialmente responsabile del proprio business. Proprio in funzione della centralità che si è voluta attribuire al lavoro si è stabilito di coinvolgere le 15 aziende che in Emilia-Romagna possedevano, all’epoca della definizione del contesto da analizzare (ottobre 2004), la certificazione SA8000. Due di queste aziende nel periodo immediatamente successivo alla definizione del campione non hanno rinnovato la certificazione e sono state, per questo, escluse dall’indagine. Le aziende così selezionate ed i rispettivi ambiti di attività sono i seguenti. 1) Autolinee dell’Emilia S.p.a. di Reggio Emilia – Fornitura trasporti pubblici locali. 2) Bolzoni S.p.a. di Piacenza – Produzione di attrezzature per carrelli elevatori, piattaforme elevatrici e transpallet manuali. 3) Bormioli Luigi S.p.a. di Parma – Produzione e commercializzazione di materiali in vetro. 4) Chicom Iga S.p.a. di Ravenna – Azienda che commercializza prodotti e detergenti chimici per uso industriale e domestico. 5) Coop Italia/Coop Adriatica di Bologna – Cooperative operanti nel settore della grande distribuzione. 6) Fondazione Aldini Valeriani di Bologna – Ente privato senza scopo di lucro interessato allo sviluppo della cultura tecnica e di eccellenza operante nel settore della formazione e della consulenza. 175 7) Formula Servizi S.c.a.r.l. di Forlì-Cesena – Azienda operante nel comparto dei servizi di pulizia. 8) Granarolo S.p.a. di Bologna – Azienda operante nella produzione e commercializzazione di prodotti lattiero-caseari. 9) Gruppo Technogym di Forlì-Cesena – Produzione e commercializzazione di attrezzature per il fitness e la riabilitazione biomedica 10) Linea Sterile S.p.a. di Forlì-Cesena – Azienda operante nel comparto dei servizi di pulizia e della gestione, lavaggio, noleggio e sterilizzazione di biancheria. 11) Mollificio Fratelli Ballotta di Calderaia di Reno (Bologna) – Azienda operante nel settore delle produzioni metalliche. 12) Piacenza ‘74 S.c.a.r.l. di Piacenza – Cooperativa operante nel settore edile e immobiliare. 13) T&D S.p.a. di Bologna – Azienda operante nel settore della consulenza (servizi di assistenza tecnica nell’area della programmazione e attuazione di politiche pubbliche, della valutazione dei progetti, del controllo della gestione). Preliminarmente è stata predisposta una scheda di rilevazione finalizzata a raccogliere le informazioni più significative sulle singole realtà aziendali riguardo a: a) aspetti economici (fatturato, utile, distribuzione del valore aggiunto); b) risorse umane (numero dei dipendenti per età, sesso, anzianità di servizio, titolo di studio, tipologia contrattuale, retribuzione ecc.); c) attività formative svolte; d) strumenti utilizzati per la realizzazione di prassi socialmente responsabili ed eventuali certificazioni relative alla qualità dei prodotti, alla tutela ambientale, all’autocontrollo igienico, alla sicurezza ed al commercio elettronico; e) realizzazione di iniziative a favore della comunità; f) esperienze significative ed innovative in tema di responsabilità sociale. La somministrazione è avvenuta per via postale (per posta tradizionale o tramite posta elettronica) previo invio di una lettera, indirizzata al Responsabile aziendale per la certificazione SA8000 176 che, oltre ad illustrare obiettivi e finalità dell’indagine, richiedeva la disponibilità dell’azienda a collaborare. Dieci sono state le aziende che hanno fornito la loro collaborazione restituendo la scheda compilata (anche se in alcuni casi solo parzialmente). Nella fase successiva, sulla base dell’analisi dei dati raccolti tramite le schede pervenute, fra le dieci aziende coinvolte ne sono state individuate cinque nelle quali si sono riscontrate realizzazioni di particolare interesse relativamente al rapporto fra adozione di pratiche di responsabilità sociale e salute, sicurezza e qualità del lavoro. Per la scelta di tali aziende si è utilizzato un criterio che rendesse il campione rappresentativo della realtà economico-produttiva emiliano-romagnola nella quale, al fianco di realtà economiche di grandi dimensioni con una storia ormai consolidata in termini di tutela dei consumatori e di sensibilità sui temi socio-ambientali, vanno emergendo interessanti esperienze messe in atto da quelle piccole o medie imprese che restano la realtà nettamente prevalente nel tessuto produttivo regionale. Per questo al fianco delle esperienze di Coop Italia/Coop Adriatica e Granarolo si è ritenuto opportuno approfondire i casi di Chicom Iga, Formula Servizi e T&D, tutte hanno accettato sia di collaborare nella indagine si di consentire poi la pubblicazione delle principali risultanze. Una precisazione specifica deve essere compiuta riguardo alla scelta di effettuare uno studio di caso presso Coop. In questo caso titolare della certificazione SA8000 (e quindi dotata della caratteristica necessaria per essere inserita nel campione) è Coop Italia che funge da centrale d’acquisto e marketing al servizio delle numerose cooperative ad essa associate. Essa, con oltre 360 occupati distribuiti nelle sedi di Bologna e Firenze (esclusivamente dirigenti, quadri e impiegati) ha la funzione di selezionare i fornitori, stipulare contratti e protocolli di fornitura e garantire che le merci ed i servizi acquistati per conto delle cooperative associate giungano a queste ultime nei tempi e secondo le modalità prestabilite. Poiché tale attività è strettamente collegata con quella dei propri soci e ritenendo necessario fornire un quadro più esaustivo del ‘sistema Coop’ nel suo complesso si è pensato fosse opportuno integrare l’analisi di Coop Italia con quella di una delle più grandi 177 organizzazioni ad essa associate ed operante in Emilia Romagna. Di qui la scelta di estendere lo studio a Coop Adriatica che, pur non essendo ancora titolare della certificazione SA8000, per le sue dimensioni e per le molteplici realizzazioni nell’ambito della responsabilità sociale costituisce un contesto di analisi utile per comprendere appieno la complessa realtà di una delle maggiori organizzazioni della grande distribuzione in Italia. In ciascuna delle cinque aziende prescelte sono stati, quindi, condotti veri e propri studi di caso seguendo la metodologia ormai consolidata a livello sociologico, peraltro già adottata nelle rilevazioni effettuate per i rapporti precedenti. Preliminarmente è stata compiuta un’analisi documentale utile a definire il contesto dell’analisi e sono stati raccolti ed esaminati, ove esistenti, i codici di condotta, le carte dei valori ed ogni altro eventuale strumento di rendicontazione (bilancio sociale, bilancio di sostenibilità, ecc.). Successivamente si è proceduto ad effettuare lo studio di caso vero e proprio adottando un approccio metodologico di tipo quali-quantitativo. In particolare l’analisi di ciascun contesto è stata condotta con l’ausilio di due strumenti: uno di natura qualitativa, costituito da una griglia di temi da sottoporre tramite intervista semistrutturata a testimoni significativi; l’altro di tipo quantitativo costituito da un questionario somministrato ad un campione casuale di lavoratori di dimensione non inferiore al 10% del totale dei dipendenti. Nella prima fase di carattere qualitativo si è provveduto ad individuare almeno tre testimoni significativi per ciascuna azienda con l’obiettivo di rendere conto sia del punto di vista della direzione aziendale sia del punto di vista dei lavoratori. Per questo, ove possibile, si sono effettuate interviste con: 1) il Responsabile per la Direzione aziendale della certificazione SA8000; 2) il Rappresentante dei lavoratori per la certificazione SA8000 o, in alternativa, rappresentanti delle organizzazioni sindacali (quest’ultimo è il caso di Coop Adriatica che, non essendo 178 ancora titolare della certificazione SA8000, non prevede la specifica figura del Rappresentante dei lavoratori); 3) almeno un altro testimone significativo di volta in volta individuato fra coloro che per ruolo o per competenze possedessero una approfondita conoscenza del tema oggetto di indagine. Ad essi è stata somministrata un’intervista condotta dal rilevatore sulla base di una griglia semi-strutturata di domande riconducibili alle seguenti macroaree tematiche: a) descrizione dell’impresa; b) significato attribuito al tema della responsabilità, motivazioni che hanno indotto alla sua implementazione, strumenti e modalità adottate; c) criteri adottati per la suddivisione dei profitti ed il rapporto con gli azionisti; d) rapporto fra azienda e lavoratori/collaboratori; e) rapporto fra azienda e fornitori; f) rapporto fra azienda e clienti/consumatori/utenti; g) rapporto fra azienda comunità e ambiente; h) rapporto fra azienda ed istituzioni pubbliche. Pur esaminando le modalità di relazione dell’azienda con tutti i suoi principali stakeholder l’elemento maggiormente sviluppato nel corso delle interviste è stato, ovviamente, quello riferito al lavoro. Si sono in particolare approfonditi i temi ed i problemi collegati a: salute, sicurezza e qualità del lavoro, conflittualità nei rapporti di lavoro, partecipazione, formazione, discriminazione e pari opportunità. Le interviste sono state audio-registrate e successivamente sbobinate nella loro interezza. La seconda fase di indagine ha, invece, utilizzato strumenti di tipo quantitativo. In tre dei cinque casi analizzati (Chicom Iga, Formula Servizi e T&D), è stato somministrato ad un campione di lavoratori dell’azienda un questionario del tutto analogo (seppure ridotto e sintetizzato) a quelli utilizzati per le simili analisi pubblicate nei precedenti Rapporti annuali, nel quale, dopo una prima parte finalizzata a conoscere le proprietà oggettive del campione di indagine (età, genere, titolo di studio, qualifica professionale), si sono invitati gli interessati a fornire le loro valutazioni (secondo una scala compresa fra il valore 0 corrispondente alla valutazione minima e 5 corrispondente alla 179 valutazione massima) riguardo ad alcuni elementi riconducibili alle cinque dimensioni della qualità del lavoro: 1) dimensione economica (retribuzione, incentivi economici, previdenza, sicurezza del posto di lavoro, ecc.); 2) dimensione della complessità (rapporti con capi e colleghi, soddisfazione ricavata dal lavoro, riconoscimento del merito, prospettive e opportunità di carriera, varietà e ricchezza del lavoro, ecc.); 3) dimensione dell’autonomia (libertà organizzativo-gestionale dei tempi di lavoro, assunzione di responsabilità, accesso ad informazioni aziendali, gestione di ferie e permessi, ecc.); 4) dimensione del controllo (partecipazione alle decisioni, possibilità di incidere sui processi lavorativi, sulle tipologie di prodotto/servizio offerto, sulle tecnologie e gli strumenti utilizzati nella produzione, rappresentanza dei lavoratori, ecc.); 5) dimensione ergonomica così articolata: - ergonomia legata all’ambiente di lavoro (presenza di rumori, polveri, fumi o esalazioni, qualità delle tecnologie utilizzate, illuminazione, ecc.); - ergonomia legata all’intensità di lavoro (fatica fisica, ripetitività, stress mentale o cognitivo, ecc.). I dati così raccolti sono stati codificati e trasferiti su supporto informatico tramite database per poi essere successivamente elaborati statisticamente con SPSS (Statistical Package for the Social Sciences). Nei due studi di caso restanti, in luogo della somministrazione diretta del questionario ad un campione di lavoratori, si è ritenuto opportuno utilizzare le analisi sul clima aziendale già effettuate nelle singole aziende (Granarolo e Coop Adriatica) cortesemente forniteci. Tale scelta è stata motivata da un triplice ordine di ragioni. In primo luogo si è riscontrata una buona corrispondenza fra la metodologia adottata, gli strumenti e, soprattutto, l’oggetto di dette analisi interne e metodologie, strumenti ed obiettivi dell’indagine da noi condotta. In secondo luogo, tenendo conto delle dimensioni degli organici delle due realtà analizzate (Granarolo alla fine del 2003 contava 820 dipendenti e Coop Adriatica circa 8.000), le analisi effettuate internamente hanno coinvolto un numero di lavoratori molto più elevato di quello realisticamente ottenibile attraverso una somministrazione condotta con risorse più ridotte ed in tempi ristretti. 180 In terzo luogo l’èquipe di ricerca ha convenuto con le due Direzioni aziendali sulla non opportunità di coinvolgere i rispettivi lavoratori in due rilevazioni ravvicinate nel tempo e con oggetto analogo. Nonostante la parziale disomogeneità della metodologia e degli strumenti adottati, la qualità e la completezza delle informazioni raccolte attraverso tali analisi di clima aziendale hanno, comunque, garantito all’èquipe di ricerca di raggiungere gli obiettivi conoscitivi prefissati. I dati e le informazioni raccolte tramite i questionari, le interviste e le analisi di clima costituiscono la base informativa dei cinque studi di caso contenuti nei paragrafi che seguono. È doveroso, qui, esplicitare il nostro sentito ringraziamento a tutte le imprese ed alle persone che hanno collaborato all’indagine fornendo con cortesia e disponibilità i materiali e le informazioni che costituiscono la base informativa della presente ricerca. Un particolare riconoscimento va a Chicom Iga, Coop Italia, Coop Adriatica, Granarolo, Formula Servizi e T&D che, nel pieno rispetto del principio di trasparenza, hanno concesso ai ricercatori di compiere presso le loro aziende gli studi di caso. 2 L’analisi di sfondo: le aziende certificate SA8000 In una prima fase dell’indagine empirica, come già anticipato, si è provveduto a somministrare alle aziende che costituiscono il nostro campione (pari alla totalità delle imprese certificate SA8000 in Emilia Romagna) una scheda di rilevazione, al fine di raccogliere informazioni per delineare un profilo delle realtà in oggetto dal punto di vista della dimensione economica, delle risorse umane presenti, degli strumenti adottati per la promozione di pratiche socialmente responsabili e delle eventuali certificazioni conseguite. Le 13 aziende individuate costituiscono un campione di imprese molto eterogeneo, in termini di natura giuridica, grado di complessità, dimensione e settore di intervento. Più in particolare, per quanto concerne la natura giuridica, prevalgono le Società per Azioni seguite dalle Cooperative, tra i cui valori fondanti rientra la mutualità e il miglioramento delle condizioni economiche e lavorative dei soci. Considerando l’ampiezza dell’organico aziendale emerge una equa presenza di imprese di piccole, medie e grandi dimensioni, a dimostrazione del fatto che la sensibilità verso la responsabilità etica 181 e sociale non riguarda esclusivamente grosse realtà economiche, ma anche PMI, il cui impegno gode tuttavia di minor notorietà, in quanto tendenzialmente operanti su mercati locali e non sempre propense a dare una comunicazione formale alle proprie iniziative. Rientrano in quest’ultima tipologia, per altro caratteristica del tessuto produttivo emiliano romagnolo, aziende quali il Mollificio Fratelli Ballotta (con tredici dipendenti), Chicom.Iga (con quattordici operatori), T&D (con un organico di cinque lavoratori a tempo indeterminato e 42 collaboratori), la Fondazione Aldini Valeriani (con 15 dipendenti e 30 collaboratori), Linea Sterile (con 137 lavoratori). Ad esse si affiancano imprese di maggiori dimensioni, come Autolinee dell’Emilia S.p.a. (252 operatori), Bolzoni S.p.a. (250 dipendenti), Bormioli S.p.a. (oltre 900 dipendenti), Formula Servizi (1291 lavoratori), e realtà aziendali più note e con un percorso ormai consolidato in termini di attenzione ed impegno verso le tematiche etico-sociali, quali Technogym, Granarolo e Coop. Un’estrema diversificazione si evidenzia anche in riferimento al settore merceologico: quattro aziende operano nel comparto dei servizi (più in particolare, due si occupano di pulizie, due di consulenza, programmazione e formazione), quattro sono attive nel settore dell’industria (più precisamente: una produce e commercializza materiali in vetro, una attrezzature per il fitness e la riabilitazione biomedica, una attrezzature per carrelli elevatori, piattaforme elevatrici e transpallet manuali, una realizza produzioni metalliche), una opera nella grande distribuzione, una esercita nel comparto del commercio (o meglio commercializza prodotti e detergenti per uso industriale e domestico), una si occupa di forniture di trasporti pubblici locali, una lavora nel settore alimentare (più propriamente produce e commercializza prodotti lattiero-caseari), una opera nel settore edile ed immobiliare. Quest’ultima è la prima azienda attiva nel settore delle costruzioni ad aderire allo standard internazionale SA8000, che presuppone la diffusione e il consolidamento lungo tutta la catena di fornitura della cultura della responsabilità sociale d’impresa, valutando l’ottemperanza di alcuni requisiti minimi in termini di diritti umani/sociali e stimolando piani di miglioramento. Un atteggiamento particolarmente apprezzabile in un 182 settore come quello edile, contraddistinto da una notevole frammentazione delle attività e da un ampio ricorso alla pratica del sub-appalto, elementi che rischiano di pregiudicare la qualità della vita lavorativa, nonché il livello minimo di tutela sul lavoro. La differenziazione riscontrata in merito all’ambito produttivo sembra avvalorare ulteriormente l’idea che la sensibilità verso le tematiche sociali, etiche ed ambientali stia divenendo un requisito sempre più imprescindibile per un’azienda capitalistica moderna, estendendosi pertanto nella pratica a molteplici comparti occupazionali. La stessa introduzione di SA8000 nel nostro paese ha promosso un rafforzamento del dibattito pubblico sul tema della responsabilità d’impresa: un ruolo fondamentale è stato giocato in tal senso da Coop Italia, la prima azienda in Europa a conseguire la certificazione in oggetto (nel 1999) ed a coinvolgere alcune imprese fornitrici nel proprio progetto etico, come accaduto ad esempio nel caso di Granarolo e Chicom.Iga. D’altronde, il rispetto e l’adesione al sopraccitato standard implica una responsabilità sociale ed etica che risale all’origine del processo produttivo, rendendo partecipi tutte le figure sociali impegnate nell’attività di fornitura. Una simile sensibilità appare discretamente radicata sul territorio regionale, con una distribuzione piuttosto capillare che comprende, nel 2004, quasi tutte le province emiliano romagnole, con le sole eccezioni di Ferrara, Modena e Rimini. In particolare, Bologna, con cinque aziende certificate (Coop Italia, Fondazione Aldini Valeriani, Granarolo, Mollificio Fratelli Ballotta, T&D), risulta la provincia più impegnata dal punto di vista etico e sociale, anche grazie alla presenza di grosse realtà economiche come Coop Italia e Granarolo, seguita da Forlì-Cesena e Piacenza, rispettivamente con tre e due esperienze significative in questo senso. Tutte le restanti province (Parma, Ravenna, Reggio Emilia) presentano un unico caso di impresa che abbia conseguito, entro ottobre 2004, la certificazione etica secondo lo standard internazionale SA8000. Oltre a questo riconoscimento, è patrimonio comune delle imprese considerate l’adesione al Sistema di qualità Iso 9001, che stabilisce delle direttive di base per la promozione e l’attivazione di un 183 management di qualità nell’ambito dello sviluppo, della produzione, del montaggio e dell’assistenza ai clienti. Alcune realtà coniugano questi aspetti con un’attenzione alla tutela ecologica e al controllo dell’impatto ambientale, venendo ad ottenere al contempo la certificazione ambientale degli impianti secondo la normativa internazionale Iso 14001 o il regolamento Emas. Questa dimensione non appare egualmente importante per tutte le aziende: nel settore del commercio l’impatto sull’ambiente è sicuramente minore piuttosto che nell’industria o nei servizi di pulizia, dove l’impegno per la salvaguardia e la tutela dell’ecosistema e delle risorse naturali diventano parte integrante di un percorso più ampio di responsabilità etica e sostenibilità sociale. È il caso di Formula Servizi e di Linea Sterile che, occupandosi, in generale, di pulizie, e, più in particolare, di servizi di pulizia in strutture socio-sanitarie la prima e di lavanderia industriale la seconda, si impegnano a avviare azioni concrete di ricerca di soluzioni eco-compatibili, tese al risparmio o alla buona gestione delle risorse naturali, alla prevenzione o, se non altro, alla limitazione dell’inquinamento. Nonché di Granarolo e Technogym, realtà di ampie dimensioni che hanno da tempo intrapreso la strada verso la responsabilità sociale. Inoltre, alcune delle aziende considerate fanno ricorso a strumenti di valutazione del comportamento aziendale quali il Bilancio sociale, ambientale e di sostenibilità, mezzi di rendicontazione del comportamento aziendale nei riguardi dell’intera realtà in cui essa è attiva, che permettono ai diversi interlocutori di verificare la coerenza e la validità dell’azione sociale avviata dall’impresa. D’altronde, gran parte delle realtà oggetto di analisi hanno posto in essere attività tese a sostenere le comunità in cui operano, consistenti in donazioni elargite ad associazioni, organizzazioni o istituzioni locali, in sponsorizzazioni di eventi sportivi, iniziative culturali ed interventi in favore della salute-qualità della vita. A queste iniziative si affiancano vere e proprie “forme di investimento nella comunità”, che presuppongono un’impostazione a carattere strategico, pianificata in stretta collaborazione con le istituzioni locali e le controparti. Non mancano infine azioni umanitarie in favore dei Paesi del Terzo mondo o delle collettività recentemente colpite da guerre. 184 Brevi e più approfonditi profili delle aziende che costituiscono il campione esaminato, delineati sulla base delle informazioni raccolte mediante la scheda di rilevazione somministrata e attraverso documenti pubblici, si possono trovare in appendice al contributo. 3 3. Gli studi di caso 1 3.1. Una premessa Come abbiamo evidenziato in precedenza non sono, ad oggi, ancora stati predisposti metodi e strumenti omogenei e condivisi universalmente per valutare oggettivamente le prestazioni dell’impresa per riferimento alla RSI. Contrariamente a quanto avviene per gli aspetti economici (utile, profitto, tasso di redditività) e nonostante le iniziative avviate internazionalmente in questa direzione non si è ancora dato vita ad un sistema di indicatori che possano permettere di valutare comparativamente le performance aziendali ed il livello di efficacia delle loro scelte responsabili. Per questo senza alcun intento comparativo l’approccio adottato dall’equipe di ricerca ha inteso affrontare l’indagine sul campo attraverso una modalità di analisi che, seppure fondata su criteri e dimensioni largamente condivisi (tratti appunto dai modelli di cui si è dato conto in precedenza), fosse al contempo adatta a cogliere le eterogenee peculiarità dei diversi contesti osservati. In questo senso l’adozione del metodo dello studio di caso ha permesso di fare emergere dati “peculiari” di natura quantitativa ed elementi qualitativi che, dialogando fra loro, hanno consentito di fornire per ciascuna realtà presa in considerazione un quadro d’insieme ampio, articolato e significativo anche per le esigenze della nostra analisi. 2 3.2. Il caso di Chicom S.p.A 3.2.1. L’azienda Chicom.Iga S.p.a. è una piccola impresa commerciale che distribuisce prodotti di largo consumo appartenenti ad imprese terze (in particolare prodotti per la detergenza, per la casa, per il barbecue ed il caminetto, per la cura e l’igiene della persona, avvolgenti per alimenti e guanti in lattice) ai canali della grande distribuzione come 185 Carrefour, Conad, Coop, Esselunga ed altre forme della distribuzione organizzata. L’azienda è stata fondata a Russi nell’anno 1981 da due società al 50% ciascuna, la Chimicom S.r.l. (oggi Gruppo Chimicom S.p.a.) e la Giesse S.r.l. Nel 1989 la società Giesse fu acquisita da ALCAN, uno dei due maggiori gruppi mondiali per la produzione di alluminio, e trasformata in Alcanital Service S.r.l. Nel frattempo Chimicom Commerciale S.r.l. si trasformò in Chicom S.p.a., acquisendo nuove linee di prodotto, nuovi marchi e focalizzandosi su nicchie di mercato. Una simile intuizione non completamente condivisa dalla componente societaria che faceva capo ad ALCAN portò ad una separazione consensuale: il Gruppo Chimicom S.p.a. acquisì pertanto il pacchetto azionario di Chicom S.p.a. posseduto da Alcanital S.r.l., compreso il marchio Rollopack. Era il 1994 ed iniziava il nuovo corso della commerciale Chicom S.p.A, che successivamente acquisiva il ramo d’azienda della società Iga S.r.l. produttrice di guanti in lattice, trasformandosi in Chicom.Iga S.p.a. L’azienda ha raggiunto nel 2003 un fatturato pari a 23.233.658 di euro ed un utile netto di 76.446 euro, entrambi in lieve diminuzione rispetto all’anno precedente quando ammontavano rispettivamente a 24.011.823 di euro e 91.444 euro. Il valore aggiunto si stanzia invece attorno a 10.096.867 di euro. L’organico aziendale è composto da 14 operatori, di cui 5 di sesso femminile, pari al 36% del totale. Il personale si concentra prevalentemente nelle due classi di età più alte, più precisamente il 43% in quella superiore ai 45 anni ed il 36% in quella compresa tra i 33 ed i 45 anni. Percentuali significativamente inferiori di lavoratori hanno invece un’età compresa tra i 26 ed i 32 anni (il 14%) e tra i 18 ed i 25 anni (il 7%). Solo un lavoratore risulta assunto in azienda da meno di 2 anni, mentre il 21% del personale è presente in azienda da un periodo compreso tra 3 e 5 anni, il 36% tra 5 e 10 anni, il 21% tra 11 e 20 anni ed il 15% tra 21 e 30 anni. Relativamente al titolo di studio posseduto, il 72% dell’organico ha conseguito il diploma di scuola superiore, mentre il restante 28% è equamente distribuito tra coloro che hanno conseguito la licenza media e coloro che hanno ottenuto la laurea. 186 Considerando la tipologia contrattuale, solo un lavoratore, inserito nel 2003, è impiegato con un contratto a tempo determinato, mentre i restanti 13 sono assunti con contratto a tempo pieno ed indeterminato. Il 79% del personale è assunto con la qualifica impiegatizia, solo il 14% invece con quella di dirigente e il 7% con quella di quadro. 3.2.2. La politica di responsabilità sociale Chicom, dopo aver conseguito la certificazione secondo la norma Iso 9001:1994, nel 2001 ha integrato il proprio Sistema di gestione per la qualità con la norma SA8000. Una scelta dettata dal coinvolgimento dell’azienda nel progetto etico di Coop Italia, di cui è fornitrice di un prodotto a marchio (i guanti in lattice), mediante la condivisione di un codice di condotta comune, nonché dalla volontà di formalizzare un impegno orientato alla tutela dei dipendenti. “Diciamo – afferma il portavoce aziendale - che le tematiche della SA8000 erano già presenti all’interno dell’azienda e la certificazione è stato uno sforzo che l’azienda ha fatto per renderle più evidenti. Quindi essere un’impresa responsabile vuol dire mettere il lavoratore al centro dell’azienda, non serve la certificazione SA8000 per vendere di più o per appenderla al muro, ma per fare un discorso di responsabilità e di qualità, che non riguarda solo il prodotto, ma anche tutte le persone che lavorano dentro l’azienda” (dirigente). L’azienda identifica i vantaggi della certificazione ottenuta in due direzioni: “la prima verso il cliente ed il consumatore che possono apprendere attraverso tale certificazione che il prodotto commercializzato risponde a taluni requisiti etici; la seconda riguarda il miglioramento delle condizioni di lavoro, sia interne all’azienda - come si evince dall’analisi delle interviste effettuate sia dei fornitori”. In riferimento a questi ultimi, infatti, l’impresa risulta adottare una duplice selezione, in base alla qualità del servizio-prodotto fornito e alla rispondenza ai requisiti minimi imposti dalla norma SA8000. In quest’ottica al fornitore viene sottoposto un questionario di auto-valutazione e richiesta la condivisione del codice etico aziendale: “due tipi di criteri, quello inerente alla qualità, cioè qualità del servizio-prodotto e consegne, 187 ossia quello tipico del sistema qualità Iso e una valutazione vera e propria in base a quelle che sono le richieste di SA8000, quindi l’attenzione sui lavoratori... Comunque la prima selezione viene fatta dalla direzione generale che è anche la responsabile degli acquisti in occasione del primo contatto del fornitore, poi gli mandiamo un questionario di auto-valutazione in cui gli chiediamo la condivisione del codice etico, quindi vediamo se ci sono delle aree carenti di possibile miglioramento” (dirigente). Per quanto riguarda invece la clientela, l’azienda effettua periodiche analisi sulla soddisfazione del compratore, quest’anno misurata mediante l’individuazione di 4 indicatori: “il numero dei contratti con i clienti, il contenimento/aumento del listino dei prodotti, il fatturato e il miglioramento della redditività del cliente”, dalla cui osservazione emerge un generale apprezzamento verso Chicom. Infine, relativamente all’attenzione rivolta verso la comunità, l’azienda da anni sponsorizza una manifestazione culturale locale, la mostra “Libri mai mai visti”, in precedenza finanziata dalla Pubblica Amministrazione. Mentre, in tema di tutela ambientale l’azienda si impegna nella raccolta differenziata di carta e nel riutilizzo dei raccoglitori. 3.2.3. Qualità e sicurezza del lavoro La certificazione SA8000 sembra dare visibilità e concretezza ad un impegno diretto prevalentemente dall’azienda verso il personale interno, soddisfacendone le richieste e creando un clima positivo in grado di stimolarne l’attività professionale. Gli stessi collaboratori interni riconoscono una simile attenzione e muovono apprezzamenti verso l’ambiente di lavoro in cui operano. Tra le variabili che concorrono a qualificare in senso positivo il lavoro, risultano particolarmente rilevanti le variabili organizzative cosiddette “soft”, quali le relazioni interpersonali maturate, sia con i colleghi che con i superiori. La ridotta dimensione di Chicom ha certamente favorito l’instaurarsi di un buon clima interno: più volte nel corso delle interviste l’azienda è stata definita come “una grande famiglia”. Una simile immagine può, tuttavia, risultare un’arma a doppio taglio: da un lato, infatti, sicuramente il delinearsi di un 188 gruppo di lavoro armonioso e collaborativo è una componente rilevante per accrescere la motivazione e la soddisfazione negli operatori coinvolti; dall’altro il fatto di essere una grande famiglia rischia di portare ad un atteggiamento troppo rilassato e perciò a volte poco professionale. In quest’ottica si orientano le parole del rappresentante aziendale intervistato: “a volte questo clima così molto familiare paradossalmente può essere un limite, perché si rischia di dire, come a casa, questa cosa qui posso farla più tardi, oppure me la hai chiesta tu la farò dopo, io parlo della mia esperienza che comprende anche un compito di controllo sul lavoro degli altri, io a volte ho riscontrato questo aspetto, invece le cose vanno fatte, non dico acriticamente, però se il tuo superiore ti dice di farle tu le fai, al massimo puoi non essere d’accordo e faglielo notare, però il fatto di essere una grande famiglia non deve giustificare un tuo lassismo o una tua rilassatezza”. Pur essendo le principali strategie aziendali definite dalla direzione aziendale, viene comunque garantita un’azione informativa estesa a tutti i dipendenti, in questo modo resi partecipi delle scelte adottate, mediante momenti istituzionali come riunioni o incontri. La circolazione dell’informazione non è tuttavia limitata alla direzione top-down, ma assicurata anche dalla base verso i livelli superiori, che vengono così messi a conoscenza di eventuali problematiche legate alle attività operative o di possibili richieste. “Le decisioni le prende la direzione però ogni qual volta prendono una decisione strategica vengono riuniti i dipendenti per informarli di questo(..) Se le decisioni sono prese dai superiori però poi viene ascoltato il parere dei dipendenti perché poi sono i dipendenti ad essere in diretto contatto con i fornitori o con i clienti, quindi viene chiesto un loro parere. In che modo vengono informati i dipendenti e chiesto il loro parere?Per le decisioni importanti con riunioni ed incontri che coinvolgono tutto il personale, oppure per compartimenti, in base agli uffici interessati” (lavoratore). Anche il flusso di informazioni attinenti le tematiche sindacali risulta garantito, pur mancando all’interno dell’azienda la figura del rappresentante sindacale dei lavoratori, informalmente sostituto da un operatore particolarmente attento a questi aspetti: “un 189 rappresentante sindacale formale non c’è, comunque i contatti informali ci sono, c’è una persona che informalmente rende partecipi i lavoratori. La sua presenza non è mai stata ostacolata, il motivo della sua assenza credo sia prevalentemente numerico ed anche il fatto che i sindacati non hanno mai sollecitato una loro rappresentanza interna ” (dirigente). In seguito alla certificazione SA8000 è stata inoltre allestita un’urna per raccogliere le eventuali lamentele ed osservazioni sollevate dai dipendenti, quale ulteriore strumento per consentire un effettivo scambio di opinioni. Il grado di autonomia lasciato ai lavoratori dipende ovviamente dalle singole mansioni; comunque, i soggetti interpellati constatano in generale un discreto livello di indipendenza nella gestione delle proprie commesse o dei propri clienti. Non mancano tuttavia direttive di base, azioni di coordinamento e sistematici controlli: “abbiamo un capo ufficio che coordina inizialmente i vari lavori, al di là di questo svolgiamo il lavoro tutti insieme muovendoci liberamente” (lavoratore). Una discreta autonomia viene riscontrata anche in riferimento alla gestione di orari e ritmi di lavoro, nonché alla gestione dei permessi o degli accordi con i colleghi. A detta del portavoce aziendale, infatti, pur essendovi obiettivi da concretizzare manca quella frenesia e quella continua pressione legata al raggiungimento del risultato che spesso in tante aziende è causa dell’insorgere di uno stato di stress ed ansia nei lavoratori. Un sufficiente apprezzamento viene inoltre registrato in riferimento alle caratteristiche ergonomiche dell’ambiente di lavoro: i testimoni interpellati valutano soddisfacente la dotazione strumentale delle postazioni, fornite di computer piuttosto recenti, se pur non di ultima generazione, di sedie confortevoli e poggiapiedi ergonomici. Focalizzando infine l’attenzione sulla dimensione economica-materiale, la retribuzione di base facente riferimento al contratto collettivo nazionale del commercio non soddisfa pienamente i lavoratori impiegati. L’azienda non ha introdotto alcun sistema premiante, né previsto particolari benefit per i propri dipendenti, che lamentano l’assenza di simili forme di incentivazione, pur riconoscendo in parte la difficoltà ad individuarne criteri omogenei di attribuzione: “si applica il contratto nazionale che effettivamente è basso, se ci fossero premi sarebbe stimolante, ma forse è difficile anche per il settore e il tipo 190 di mansioni svolte, calcolare in base a quali criteri o quali modalità attribuire benefit o premi” (lavoratore). A questo aspetto si associa l’insoddisfazione di parte dei lavoratori intervistati riguardo alle limitate opportunità di crescita professionale o di avanzamento di carriera, ascrivibili principalmente al fatto che i livelli gerarchici sono molto ridotti. Variabili che contribuiscono a determinare la diffusa percezione di un generale livellamento verso il basso: “un aspetto negativo è quello di essere un po’ livellati verso il basso, in riferimento alla questione del differenziale retributivo aziendale, ci si trincera, ci si nasconde sempre dietro al discorso che il contratto collettivo prevede una retribuzione tale per il tuo livello, che è un discorso valido ma fino ad un certo punto, perché anche se non c’è un accordo interno però c’è la possibilità di dare il super minimo, di dare gratifiche (..) la parte economica va un po’ rivista, cioè proprio l’inquadramento, non so introducendo benefit, oppure faccio un esempio che è una mia fissa, ma poi direi che è una richiesta anche molto banale, il buono pasto, che alcuni hanno ed altri no, e che viene dato in base al livello. Paradossalmente qui il livello più alto, dal primo livello, ha anche il buono pasto, mentre dal secondo in giù non lo hai, è paradossale, nelle altre aziende è il contrario, è chi prende meno che ha la necessità del buono pasto non chi prende di più” (dirigente). Dal punto di vista della sicurezza, azioni di sensibilizzazione sull’argomento sono state effettuate nei confronti dei dipendenti, relativamente alle procedure previste dalla normativa vigente (D.Lgs. 626) e soprattutto al corretto utilizzo del videoterminale. Questa attenzione verso la salute dei lavoratori sembra essere premiata dall’assenza di incidenti sul lavoro. Alle iniziative realizzate sul tema della sicurezza si affiancano inoltre attività formative concernenti il miglioramento del bagaglio di conoscenze, soprattutto relativamente ai programmi informatici (ad esempio corsi di Excel), e, di recente, riguardanti lo sviluppo/potenziamento delle capacità relazionali e del lavoro di gruppo. Quest’ultima iniziativa è stata promossa sotto sollecitazione degli stessi lavoratori che hanno sollevato, in occasione dell’analisi di clima interno, la necessità di migliorare le proprie modalità di rapportarsi con altre figure e le proprie capacità di interazione. 191 3.2.4. Il questionario. Principali risultanze Per garantire una più approfondita analisi sulla qualità del lavoro, si è proceduto alla somministrazione di un questionario ai lavoratori dipendenti impiegati in azienda. Complessivamente i questionari raccolti sono stati 8, cifra corrispondente ad una percentuale di ritorno del 57% rispetto ai 14 lavoratori di Chicom. Pur tenendo conto del numero limitato di questionari raccolti collegato alle ridotte dimensioni dell’impresa le caratteristiche sociali del campione, rilevate nella prima parte del questionario, riflettono quasi perfettamente la precedente descrizione concernente la totalità dell’organico aziendale: prevale il personale impiegatizio di sesso maschile con un livello di istruzione medio-alto. L’87,5% dei soggetti coinvolti è, infatti, assunto con la qualifica di impiegato/funzionario, mentre solo il 12,5% con quella di quadro intermedio. Il 62,5% del campione è rappresentato da uomini e il 37,5% da donne. Percentuali analoghe si registrano in riferimento al titolo di studio: in particolare, la quota più alta degli interpellati dichiara di essere diplomata e quella restante di essere laureata. Relativamente alla distribuzione per classi di età, la maggior parte degli intervistati si colloca nelle due fasce centrali (tra i 33 ed i 45 anni, tra i 26 ed i 32 anni), che raggiungono rispettivamente il 50% ed il 25%, seguite dalla classe dei più anziani (il 12,5% degli intervistati ha un’età superiore ai 46 anni) e da quella dei più giovani (il 12,5% ha un’età inferiore ai 25 anni). Infine, prevale nettamente fra coloro che hanno compilato il questionario il lavoro a tempo pieno ed indeterminato. Il questionario registra, in merito alle diverse dimensioni della qualità del lavoro, valutazioni che sembrano confermare le considerazioni sopra riportate, evidenziando un grado di soddisfazione generale piuttosto elevato, comprovato da un valore medio complessivo di 3,49 su di una scala che va dal valore minimo pari a 1 al valore massimo pari a 5. In particolare, le categorie che raccolgono i giudizi medi più positivi sono la dimensione ergonomica, in entrambe le sue sottoclassi (qualità ergonomica dell’ambiente di lavoro e qualità ergonomica dell’intensità del lavoro, i cui valori medi sono 192 rispettivamente pari a 4,05 ed a 3,82), e la dimensione dell’autonomia (valore medio pari a 3,82). Opinioni di natura più negativa, o comunque, seppur positive al di sotto della valutazione media complessiva di 3,49, sono emerse in riferimento alla dimensione economica, dell’autonomia e del controllo. Tab. 2 - Le dimensioni della qualità del lavoro. Dimensioni della qualità del lavoro Dimensione ergonomica/intensità Dimensione ergonomica/ambiente Dimensione dell’autonomia Dimensione della complessità Dimensione del controllo Dimensione economica Valutazione media complessiva Punteggio medio 4,05 3,82 3,82 3,34 3,31 2,59 3,49 Analizziamo ora più specificatamente le singole dimensioni. Per quanto riguarda la qualità ergonomica relativa all’intensità di lavoro, gli indicatori che sembrano soddisfare maggiormente i lavoratori interpellati concernono la fatica fisica (4,50), l’organizzazione dei turni (4,50) e la flessibilità del lavoro (4,29). Ottengono invece giudizi meno positivi in quanto situati al di sotto del valore medio di dimensione di 4,05, le voci relative alla ripetitività e noiosità dei compiti (3,80) ed alla fatica e stress cognitivo (3,14), anche in considerazione della prevalenza di personale con mansioni di tipo impiegatizio. Anche nel caso della dimensione ergonomica relativa all’ambiente di lavoro emergono giudizi piuttosto positivi (valore medio 3,82): il luogo di lavoro risulta non connotato da polveri e assimilati (valore medio 4,14), né da rumori e vibrazioni (4,00), né da vapori-fumi ed esalazioni (4,00). L’ambiente è luminoso e dotato di finestre (3,88). Gli aspetti su cui vengono espresse maggiori criticità sono invece quelli inerenti la presenza di radiazioni e assimilati (3,57) e la qualità delle tecnologie (3,38). 193 In riferimento alla dimensione dell’autonomia, gli elementi mediamente più apprezzati risultano la possibilità di gestione delle ferie (4,57) e dell’orario di lavoro (4,38), nonché la possibilità di accordarsi direttamente con i colleghi (4,13) e la libertà organizzativa dei ritmi di lavoro (4,13). Al contrario, appaiono inferiori alla soglia media le valutazioni espresse in merito alla possibilità di assumersi responsabilità (3,71 - al di sotto della media della dimensione), all’accesso alle informazioni aziendali (3,14) e, soprattutto, alle opportunità formative offerte per incrementare la propria professionalità (2,71). Passando alle dimensioni che hanno ottenuto una valutazione media al di sotto del valore medio complessivo, emerge che la dimensione della complessità, pur avendo ricevuto dai lavoratori giudizi positivi in relazione ai rapporti con i colleghi (4,38) e con i capi (4,25), che confermano le opinioni emerse nel corso delle interviste semi-strutturate, registra valutazioni più critiche rispetto alla soddisfazione derivante dal lavoro (3,29), al riconoscimento della professionalità (3,29), alla varietà e ricchezza del lavoro svolto (3,25), al riconoscimento del merito (3,14) ed al livello di condivisione della cultura aziendale (3,14). Ancora maggiori livelli di insoddisfazione sono ascrivibili alla scarsità di opportunità di carriera, unico aspetto della dimensione a raggiungere un valore medio negativo, pari a 2,00. Relativamente alla dimensione del controllo le soddisfazioni maggiori sono generate dal livello di partecipazione alle decisioni del contesto di lavoro (3,75), dalla possibilità di proporre modifiche riguardo al prodotto-servizio erogato (3,63) oppure al processo produttivo (3,50). All’interno della stessa dimensione troviamo però anche valutazioni più critiche riguardo alla rappresentatività del sindacato in azienda (3,29), alla possibilità di suggerire cambiamenti alle tecnologie e agli strumenti (3,00) e soprattutto alla rappresentatività del lavoratori all’interno del sindacato, il cui punteggio medio si attesta attorno a 2,67. Gli aspetti che, infine, generano i maggiori livelli di insoddisfazione sono ascrivibili alla dimensione economica, che raccoglie il valore medio più basso rispetto a tutte le altre (2,59), assemblando sei 194 indicatori tutti giudicati dal campione interpellato negativamente rispetto alla media complessiva. Una simile valutazione critica è riconducibile principalmente alla limitata differenziazione retributiva, variabile che in assoluto raggiunge il livello più alto di criticità (1,67), immediatamente seguita da quella concernente la partecipazione economica ai risultati aziendali (1,83). Giudizi meno negativi sono espressi in merito alla retribuzione legata all’anzianità (2,71), alla retribuzione globale (2,88), e soprattutto in riferimento alle garanzie di previdenza sociale (3,17) e alla sicurezza del posto di lavoro (3,29). 3 3.3. Il sistema Coop: il caso di Coop Adriatica 3.3.1. L’azienda “Non è un’impresa come le altre, non è una società per azioni. E’ qualcosa di molto speciale, regolata da principi che uniscono le cooperative di tutto il mondo”. Sono queste le parole che Coop, la più grande cooperativa di consumatori in Italia, ha scelto per presentarsi nelle pagine del suo sito web. Frutto di progressive fusioni ed acquisizioni a livello territoriale, ma soprattutto di una storia - quella della cooperazione e dei suoi valori - che ripercorre più di un secolo e mezzo, il “sistema Coop” è infatti una realtà variegata fatta di tante “singole cooperative, (che) pur conservando autonomia giuridica e gestionale, hanno adottato strategie, politiche e strumenti operativi unitari, nell’ambito di una comune adesione ai valori fondanti – mutualità e solidarietà – della cooperazione dei consumatori”. Il riferimento va ad una realtà sul territorio nazionale alla fine del 2003 di oltre 5.505.000 soci, 1.260 punti vendita, 52.000 addetti, ma al contempo ad una mission aziendale costruita attorno alla tutela e rappresentanza dei diritti dei soci e dei consumatori, alla difesa dei loro interessi economici e della loro salute. Tutela del potere di acquisto e della sicurezza dei consumatori concretizzata, tra le altre cose, in un una linea di prodotti a marchio Coop, in un sistema di certificazione di filiera e di qualità, nel rifiuto di coloranti e Ogm e nella realizzazione di prodotti equo solidali: “noi sviluppiamo 195 dichiara un dirigente - una serie di presidi che attengono alla sicurezza, alla protezione alla bontà, alla convenienza e alla qualità dei prodotti e che attengono alla protezione delle categorie dei più deboli. Quindi c’è una domanda che ci siamo formulati spesso anche in passato: tutelare l’interesse dei consumatori significa acquisire prodotti sempre, comunque, dovunque sia e comunque sia? Certamente no. Quindi noi dobbiamo cercare di declinare qualità, sicurezza e rispetto dei diritti degli altri” (dirigente Coop Italia). In tale direzione, infatti, qualità e sicurezza dei prodotti si associano per Coop ad una politica della convenienza attraverso sconti, vantaggi economici e convenzioni per i soci; ad una politica trasparente, di informazione e partecipazione realizzata in un portale informativo e-coop, in un mensile rivolto ai soci ed in oltre 460 assemblee nel corso del 2003 con il coinvolgimento di circa 65.000 soci; ad una politica, inoltre, di educazione al consumo consapevole attraverso l’organizzazione di progetti rivolti a studenti di vari ordini scolastici ed alle loro famiglie; ad un’attenzione all’ambiente, ancora, e quindi alla realizzazione di studi di impatto relativi ai prodotti ed ai processi, di progetti di tutela ambientale e di educazione alla salvaguardia dell’ambiente; ad iniziative, infine, rivolte o in collaborazione con la società civile, di solidarietà sociale ed a sostegno del sud del mondo. E’ in questo quadro generale del “Sistema Coop” che si inseriscono le due realtà da noi considerate: Coop Italia e Coop Adriatica. La prima prende definitivamente forma nel 1967 come centrale di acquisto e marketing al servizio dell’intero sistema cooperativo associato. I compiti principali di Coop Italia, infatti, attengono alla selezione e stipula di contratti con i fornitori, così come alla fornitura di merci e servizi alle cooperative associate. In quest’ottica, appare significativa la certificazione SA8000 di Coop Italia, la prima concessa a livello nazionale nel 1998, volta appunto ad un controllo dell’intero processo produttivo e soprattutto dei canali di fornitura. La politica di responsabilità si concretizza nella stesura di un codice di condotta per i fornitori, in periodiche ispezioni e controlli, così come nella definizione di piani di miglioramento. 196 Se questo è il ruolo rivestito da Coop Italia, essendo la nostra analisi concentrata sul versante “interno” della politica di responsabilità sociale, si è tuttavia ritenuto opportuno, come già precisato nella nota metodologica, fornire un quadro più esaustivo del “Sistema Coop” nel suo complesso effettuando lo studio di caso presso Coop Adriatica che rappresenta una delle più grandi Cooperative associate a Coop Italia. Coop Adriatica, è per dimensioni la seconda più grande cooperativa del sistema Coop. Formalmente nasce all’inizio del 1995 dall’integrazione di altre due cooperative di consumatori, Coop Emilia Veneto e Coop Romagna Marche: più di 8.000 dipendenti, circa 760.000 soci consumatori ed una rete di 13 ipercoop e 115 supermercati in Emilia-Romagna, Veneto, Marche ed Abruzzo sono solo alcuni numeri che ne descrivono la realtà. I soci, come dichiarato nella mission aziendale, costituiscono non solo il patrimonio più importante della cooperativa, ma anche la sua stessa base decisionale. Sono i soci, infatti ad approvare attraverso assemblee ordinarie o straordinarie il bilancio, le modifiche nello statuto o nel regolamento interno, ad eleggere il Consiglio di amministrazione, il Collegio Sindacale e la Commissione etica. Approfondendo più in specifico la dimensione economica, dall’analisi dei bilanci di esercizio degli ultimi 3 anni si evidenzia nel 2003 un utile netto diminuito, in seguito ad investimenti, da 53 a 16 milioni di euro, ma un fatturato in aumento (da 1.406 a 1.702 milioni di euro) così come il valore aggiunto (da 444 a 469 milioni di euro); il valore aggiunto, è stato ridistribuito nel 2003 nella misura del 43,3% ai lavoratori, per il 20,9% ai soci, il 13,9% ai consumatori, il 17% al sistema impresa, il 3,7% alla pubblica amministrazione e rispettivamente per lo 0,5 e 0,4% al sistema cooperativo ed alla comunità locale. Le quote destinate ai lavoratori, alla pubblica amministrazione ed alla comunità locale registrano inoltre un aumento rispetto agli anni precedenti; stabile rimane invece la quota destinata ai consumatori ed in leggera diminuzione quelle destinate ai soci, ma soprattutto al sistema azienda ed al sistema cooperativo. L’apertura di nuovi punti vendita e lo sviluppo di nuovi servizi hanno inoltre visto crescere anche l’organico di Coop Adriatica rispetto 197 all’anno precedente (+4%), arrivando a contare oltre 8.100 dipendenti alla fine del 2003. Di questi, il 51% si situa nella fascia di età tra i 36 e 55 anni, il 39% tra i 26 ed i 35, mentre solo l’8% ha una età inferiore ai 25 anni ed il 2% superiore ai 55. Le donne, in generale, rappresentano il 74,4% dell’organico di Coop Adriatica, mentre l’1,7% dei lavoratori sono migranti, prevalentemente non comunitari. In una analisi complessiva delle qualifiche, successivamente, lo 0,4% dei collaboratori sono dirigenti, il 5,9% quadri ed il 93,7% addetti o impiegati. Per ciò che concerne le donne ed osservando il solo livello manageriale, emerge una loro incidenza pari al 25%, in forte crescita negli ultimi 3 anni (+10,9%). Analizzando i rapporti di lavoro instaurati, circa l’80% dei collaboratori possiede un contratto a tempo indeterminato full o part-time, con a fianco un alto utilizzo di contratti a tempo determinato ed un numero di contratti interinali o di collaborazione invece piuttosto limitato; quasi ottocento, triplicati rispetto all’anno precedente, sono i passaggi di livello registrati nel 2003. Osservando il sistema di retribuzione, inoltre, Coop evidenzia gli stipendi più elevati caratterizzanti l’intero settore distributivo: la differenza tra il minimo del contratto collettivo e quello integrativo aziendale è del 6,7%, mentre il rapporto tra lo stipendio più elevato e quello minore tra i dipendenti è del 8,68. In generale, per concludere questa prima descrizione, occorre registrare un 44,5% di lavoratori iscritto al sindacato; dato che sale al 55,7% considerando i soli dipendenti a tempo indeterminato. Quasi 7.000, infine, le ore richieste per permessi sindacali o assemblee, in aumento del 13% circa rispetto all’anno precedente. 3.3.2. La politica di responsabilità sociale di Coop Adriatica I primi passi verso una politica di responsabilità sociale compiuti da Coop Adriatica, si realizzano attraverso la stesura, fin dal primo anno di attività, del Bilancio Sociale; la definizione della mission sociale, l’adozione di un codice etico e l’istituzione di una commissione etica di controllo avvengono quasi contemporaneamente. 198 Il bilancio sociale, in particolare, sorto come forma di rendicontazione della politica aziendale, ma anche del suo impegno in attività sociali, viene tuttavia percepito, anche in relazione ad un suo utilizzo esclusivamente interno, come uno strumento poco dinamico ed incisivo sulla realtà circostante. Dall’introduzione di un bilancio sociale preventivo, volto appunto ad integrare al suo interno una funzione di programmazione, si passa così nel 2001 all’attuale Bilancio di Sostenibilità (preventivo e consuntivo). La sostenibilità, infatti, maggiormente corrispondente al carattere cooperativo ed intergenerazionale del patrimonio Coop, diviene sinonimo di un approccio che riesca ad andar oltre alla rendicontazione, in un’ottica strategica tesa ad integrare aspetti economici, sociali ed ambientali nella politica di responsabilità. Questo percorso, al contempo, viene affiancato da un coinvolgimento sempre più sistematico degli stakeholder, laddove fornitori, organizzazioni sociali e di volontariato, esperti di responsabilità sociale, ma soprattutto soci, vengono progressivamente resi partecipi nella definizione del bilancio di sostenibilità e nella sua valutazione. Nascono in quest’ottica, inoltre, anche i gruppi “Archimede”, uno degli strumenti forse più significativi ed incisivi per il coinvolgimento dell’organico aziendale: si tratta di gruppi di lavoro, infatti, composti in un primo momento da dirigenti che, identificate delle aree di intervento in linea con il bilancio di sostenibilità, si allargano poi successivamente a quadri ed impiegati per l’elaborazione di un progetto specifico e delle possibili azioni positive. E’ dai gruppi “Archimede”, in particolare, che sono nati negli anni scorsi la valorizzazione promozionale di prodotti sostenibili, la commercializzazione in alcune zone di prodotti tipici e locali, la necessità di rendere ambientalmente sostenibili alcuni centri commerciali o ipercoop, così come di migliorare l’accesso al punto vendita alle persone diversamente abili. Il percorso descritto fino ad ora, inoltre, è stato verificato esternamente da un organismo internazionale indipendente secondo lo standard AA1000: standard teso a valutare le modalità con cui il Bilancio di sostenibilità si integra con i processi aziendali, 199 constatando al contempo l’effettivo coinvolgimento degli stakeholder nei diversi momenti di rendicontazione. Nei confronti della comunità, diverse sono le iniziative, i progetti, le campagne di sensibilizzazione o sponsorizzazioni a cui Coop Adriatica partecipa in maniera diretta od indiretta, devolvendo nel complesso una quota di quasi 2.000.000 di euro. Anzitutto, infatti, Coop Adriatica ha attivato più di 500 collaborazioni o partnership con istituzioni, enti, associazioni nel corso del 2003. Significativa, inoltre, la realizzazione da alcuni anni del progetto “Centro anch’io”: un bando rivolto ad associazioni di volontariato o cooperative sociali per il finanziamento di progetti di intervento sociale o umanitario. Come parte integrante del sistema Coop, successivamente, anche Coop Adriatica porta avanti progetti di solidarietà internazionale e di educazione al consumo consapevole. A queste attività, inoltre, si affianca il progetto “ausilio per la spesa”: 22 gruppi costituiti da oltre 600 volontari sul territorio con oltre 1.000 anziani coinvolti: “volontari soci Coop, che portano la spesa a casa alle persone bisognose, che non vuol dire solo portare il prodotto, come potrebbero fare i dipendenti, senza farsi pagare (..). Il fatto è che questi volontari vanno tutte le settimane da questi signori, sono sempre gli stessi, e gli fanno compagnia” (consulente esterno). La riuscita del progetto ne ha visti sorgere al suo fianco altri due con le medesime finalità: Ausilio per la cultura, volto alla consegna di libri, e Ausilio per il divertimento, “un gruppo di soci, che ha iniziato a girare le case di accoglienza degli anziani, con un gruppetto, e suona. E da questo sono nate altre esperienze… A questo punto il concetto è: i soci Coop trasferiscono del loro tempo a vantaggio degli anziani” (consulente esterno). Con il “Progetto Eureka”, ancora, realizzato nell’Ipercoop CentroLame di Bologna, Coop Adriatica ha infine espresso la volontà di ripensare i punti vendita come spazi culturali e di socialità: “Eureka - infatti - è questo spazio, che è in area vendita, dove si fa formazione, educazione al consumo, ascolto dei soci, approvato dai soci, degustazione di prodotti, iniziative di cultura, presentazione dei libri, presentazione dei cartelloni teatrali … dentro all’area vendita. Questo è un modo per ripensare lo spazio portando la 200 piazza nel punto vendita. Se le persone hanno abbandonato le piazze proviamo almeno a ricostruirle…” (consulente esterno). Rispetto all’ambiente, in linea con il più complessivo sistema Coop, Coop Adriatica realizza progetti di tutela ambientale e di educazione alla salvaguardia dell’ambiente. Da rilevare, a questo proposito, la menzione speciale ricevuta nell’edizione appena conclusa del premio Era “Emilia-Romagna per l’Ambiente”, per la sezione “Responsabilità, etica e consumo consapevole”. E’ tuttavia ai consumatori, ed in particolare ai soci, che Coop Adriatica dedica maggiore attenzione. Una attenzione che si riflette, anzitutto, in una politica di convenienza attraverso un incremento delle promozioni, dei servizi e delle convenzioni attivate sul territorio, che hanno fatto registrare un risparmio per i soci di circa 48.000.000 euro ed una quota di ristorno di oltre 8.000 migliaia di euro (pari allo 0,7% della spesa effettuata dai soci). A questo si aggiunge, inoltre, una politica di contenimento dei prezzi che ha visto, rispetto ai dati Istat del 3,1%, una inflazione interna dei prezzi limitata allo 0,9%. Da considerare, inoltre, che circa il 73% del volume delle vendite di Coop Adriatica concerne i soci, rispetto ad un 67% del 2001. La politica di qualità e convenienza portata avanti da Coop trova inoltre conferma ed approvazione in un’ulteriore estensione della base sociale di Coop Adriatica: solo a Bologna, infatti, nell’ultimo anno il numero dei soci è incrementato di 20.000 unità, andando a contare in totale circa 280.000 associati sul territorio. Per tutta Coop Adriatica, ad un aumento di oltre 70.000 unità, corrisponde una realtà di circa 760.000 associati alla fine del 2003. A questo proposito, significativo l’aumento di donne e di migranti non comunitari. L’attenzione verso i soci, come già anticipato, si riflette anche in politiche di informazione e partecipazione, realizzate in particolare in un giornale interno, in 79 assemblee separate ed obbligatorie di Bilancio di sostenibilità ed in 16 volontarie sul preventivo di sostenibilità, con una partecipazione complessiva nel corso del 2003 di quasi 18.000 soci (circa 1.300 per ciò che concerne le assemblee di preventivo). 201 3.3.3. Qualità e sicurezza del lavoro Un primo elemento utile per addentrarci in ciò che va a contraddistinguere la politica di qualità e sicurezza di Coop Adriatica è rintracciabile nella dimensione contrattuale. Al Ccnl relativo alla categoria della distribuzione cooperativa, si vanno infatti ad aggiungere nella regolazione dei rapporti di lavoro tre specifici contratti integrativi, corrispondenti alle tre aree territoriali cui Coop Adriatica fa riferimento. In questa direzione, per ciò che concerne l’Area Emilia, di nostro specifico interesse, il contratto integrativo firmato nel 2003 contiene diversi elementi qualificanti. Sono tre, in particolare, le politiche e le linee di differenziazione introdotte. Anzitutto, all’interno di una dichiarazione di Coop a livello nazionale, l’impegno di non impiegare alcuni strumenti introdotti con la “Legge Trenta”; secondariamente, un impegno verso il consolidamento dell’occupazione, attraverso la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato; terzo, un insieme di politiche ed interventi volti a favorire la conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita. Mentre su quest’ultimo aspetto, come vedremo, interventi ben delineati, concreti ed innovativi trovano ampia approvazione nei giudizi dei lavoratori e dei sindacalisti coinvolti nell’indagine, le prime due linee di indirizzo tendono da un lato, a scontrarsi con quelle che sono le esigenze di flessibilizzazione richieste da una organizzazione che voglia porsi come concorrente ma anche conveniente sul mercato, dall’altro ad inserirsi, soprattutto per l’Area Emilia, in clima che comunque rimane di forte sindacalizzazione e a volte critica della politica aziendale. Come anticipato, anzitutto Coop Adriatica aderisce alla dichiarazione a livello nazionale Coop manifestatasi contraria all’utilizzo di alcune formule contrattuali introdotte con la Legge Trenta. Effettivamente, i dati riportati precedentemente confermano un utilizzo limitato di formule contrattuali quali le collaborazioni a progetto o il lavoro interinale, laddove le esigenze di flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro vengono gestite da Coop Adriatica unicamente attraverso contratti a tempo determinato. Come spiega 202 anche un dirigente, “tutta una serie, alcuni strumenti previsti dalla Legge Trenta, (..) diciamo, di flessibilità spinta, o per meglio dire, di precarizzazione del lavoro, noi ci siamo impegnati a non usarli” (dirigente Coop Adriatica). Anche i rappresentanti dei lavoratori intervistati riconoscono l’impegno di Coop Adriatica in questo senso ma, tuttavia, rilevano un possibile rischio di processi di precarizzazione del lavoro collegato a contratti già previsti dalla normativa precedente all’entrata in vigore della Legge trenta quali quelli a tempo determinato. In particolare viene fatto rilevare come tale rischio sia tanto maggiore quanto più la condizione di lavoratore a tempo determinato si protrae a lungo nel tempo. Considerazioni in un certo modo confermate dalla stessa dirigenza, laddove, come si legge di seguito, a fianco di una politica volta al consolidamento dell’occupazione realizzata attraverso la conversione dei contratti a tempo determinato, dapprima a part-time a tempo indeterminato ed in un secondo momento ad un impiego a tempo pieno, si dichiara necessaria una flessibilizzazione degli orari di lavoro, realizzabile tuttavia anche attraverso nuove modalità di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro: “nell’ultimo contratto, qui dell’area Emilia, c’è stato un impegno della cooperativa, in direzione del consolidamento dell’occupazione, che vuol dire la trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, a fronte di impegni verso, per esempio, una maggiore flessibilità (..) Stabilizziamo l’occupazione a fronte del fatto che tu mi garantisci una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro, oppure faccio operazioni, come quelle delle isole, che sono funzionali a garantirti una flessibilità, che parte però dalle tue esigenze” (dirigente Coop Adriatica). A contraddistinguere e qualificare in positivo il contratto integrativo dell’Area Emilia, è però indubbiamente il terzo aspetto della politica di Coop Adriatica, vale a dire l’introduzione di un “protocollo per lo sviluppo di azioni positive nel campo delle pari opportunità, della solidarietà e della conciliazione dei tempi di lavoro e di vita”. Integrando i dispositivi già previsti in materia (in particolare la legge 53/00 sui congedi parentali), infatti, il protocollo definisce all’interno di alcune linee di principio, specifiche azioni positive. Anzitutto, 203 interventi a sostegno della maternità e dell’assistenza ai figli (fino agli otto anni di età), mediante l’introduzione per entrambi i genitori di periodi di aspettativa aggiuntivi della durata massima di 18 mesi, congedi non retribuiti in caso di malattia del bambino, assieme alla possibilità di passare a formule a tempo parziale con la garanzia di una riconversione futura; l’aspettativa, inoltre, viene concessa per un periodo di sei mesi anche ai nonni, mentre per la madre sono previsti permessi retribuiti per controlli prenatali. Congedi non retribuiti per una durata massima di due anni, inoltre, possono essere richiesti anche per motivi familiari, per periodi di riabilitazione di tossicodipendenti ed etilisti. Il protocollo, successivamente, prevede un monte annuo complessivo di 4.000 ore di permessi retribuiti utilizzabili per situazioni di grave difficoltà personale o familiare, per attività di volontariato o nel campo della solidarietà nazionale ed internazionale. Altri strumenti, inoltre, a fianco di quelli previsti nel protocollo, vanno a comporre il quadro delle politiche di Coop Adriatica volte alla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, in particolare per ciò che concerne le donne. Innovativo, e particolarmente apprezzato da sindacalisti e collaboratori, è anzitutto il “Progetto Isole”. Un progetto di autogestione degli orari di lavoro rivolto alle cassiere, che coinvolge, su adesione volontaria, 5 punti vendita e 370 dipendenti e che progressivamente vuole essere esteso a tutti gli iper. Le lavoratrici, dunque, hanno la possibilità di scegliere in base alle proprie esigenze personali le fasce orarie di lavoro, laddove le eventuali modifiche vengono decise tra colleghe di lavoro, con la supervisione di una CapoIsola, anch’essa partecipante al progetto: “c’è l’orario appeso lì, per ciascuna isola, tu ti posizioni nell’orario che vorresti fare giorno per giorno; ogni settimana hai la possibilità di riaggiustarlo se succede qualcosa, a fronte di ritrovare l’equilibrio con qualcun’altra, e lei (la CapoIsola) ha semplicemente l’onere di essere sicura che poi siano coperte tutte le necessità: cioè se in quel turno lì mi servono sei persone ce ne devono essere sei. Se non ce ne sono sei le richiama attorno a un tavolo e dice: “ragazze, ce ne manca una. Chi è disponibile a venire…. Quindi è chiaro che cambia la vita delle cassiere” (consulente esterno). 204 Un progetto, come anticipato, valutato positivamente anche dalle sindacaliste contattate: “il progetto isole, credo, se fosse per me, dovrebbe essere il futuro, ecco, per il nostro settore, perché comunque tu imposti gli orari di lavoro in base a quelle che sono le tue esigenze personali. Invece, per quanto riguarda, diciamo, gli altri reparti e supermercati, il lavoratore deve impostare la propria vita in base a quelli che sono gli orari di lavoro. Quindi c’è proprio un ribaltamento culturale. Secondo me è positiva questa cosa. Spero che si estenda a tutti i reparti e a tutti i lavoratori di Coop Adriatica” (delegata sindacale). Sempre in tema di politiche di genere, inoltre, da molti anni Coop ha in attivo il reinserimento di donne in età avanzata espulse dal mercato del lavoro. Un insieme di politiche e di strumenti, dunque, che non solo mostrano una attenzione particolare di Coop alla dimensione di genere, ma che si riflettono in un’alta percentuale di donne impiegate in Coop Adriatica, e sopratutto in un forte aumento negli ultimi anni della loro incidenza a livello dirigenziale: “sicuramente c’è un’altissima percentuale di donne manager, nel senso che tra dirigenti e quadri con responsabilità direttive, (..) il 25 % è donna, quindi una quota significativa. E tra i dirigenti sono stati attribuiti alle donne incarichi importanti, non fosse altro che il direttore commerciale è donna” (consulente esterno). Nel protocollo, infine, una attenzione particolare viene posta anche nei confronti dei lavoratori migranti, introducendo, nello specifico, la possibilità di usufruire di quattro settimane di ferie consecutive. In un’ottica più generale di sintesi, dunque, diverse novità introdotte nel contratto integrativo dell’Area Emilia, hanno indubbiamente una valenza positiva: “sicuramente - conclude a tale proposito una sindacalista coinvolta nell’indagine - il nostro contratto integrativo è uno dei contratti, diciamo, del commercio, penso uno dei migliori, ecco, non dico il migliore, ma sicuramente è buono” (delegata sindacale). La qualità e lo spazio dedicato alla formazione rappresentano un ulteriore elemento ‘centrale’ per l’analisi delle politiche di responsabilità sociale rivolte ai collaboratori di Coop Adriatica. In generale, 2,7 sono stati in media i giorni di formazione per 205 dipendente nel 2003, in leggero calo rispetto all’anno precedente. Per ciò che concerne la formazione su tematiche inerenti la sostenibilità, le ore dedicate e gli strumenti impiegati si differenziano per categoria professionale. Le problematiche poste in rilevo dai rappresentanti sindacali intervistati fanno riferimento alla necessità di una formazione maggiormente orientata e “funzionale” rispetto ai ruoli da ricoprire, in particolare attraverso un rafforzamento degli strumenti iniziali di affiancamento per ciò che concerne i nuovi inserimenti lavorativi.Circa il 5% della formazione, successivamente, è dedicata alle tematiche della salute e della sicurezza, registrando nei fatti un numero di infortuni gravi più o meno stabile negli ultimi anni, ma una netta riduzione delle ore di lavoro perse per questi motivi, ed una lieve diminuzione anche dell’indice di gravità e di frequenza. L’attenzione di Coop Adriatica per questa dimensione, inoltre, si riflette anzitutto nell’aver attivato, dal 2004, uno specifico progetto Archimede denominato “lavorare in sicurezza”, con la volontà espressa di individuare azioni positive in questo campo che vadano oltre alle ore di formazione sopra descritte; secondariamente, nell’inclusione dei parametri concernenti la salute e sicurezza dei lavoratori all’interno del progetto “Mystery shopper”, volto a valutare la pulizia, la cortesia e la competenza del personale dei diversi punti vendita. Riconoscendo questo impegno, una delegata intervistata mette in evidenza come, considerata la natura stessa della maggior parte delle mansioni lavorative, rimane centrale la questione della salute dei lavoratori Ciò fa sì che, nel confronto tra direzione e sindacato,l’organizzazione del lavoro sia uno dei temi centrali: “credo - afferma una sindacalista - che l’azienda dovrebbe ragionare meglio sull’organizzazione del lavoro dei vari reparti, dei vari negozi, supermercati, perché credo che delle possibilità ce ne potrebbero essere, per far lavorare meglio tutti” (delegata sindacale). Una riorganizzazione del lavoro, in particolare, che rimanda sia a modifiche necessarie all’ambiente di lavoro che ai tempi ed all’intensità del lavoro stesso. Aspetti su cui Coop Adriatica, dal canto suo, dichiara di aver posto sempre attenzione: “adesso i nuovi iper avranno le casse sfalsate, perché il problema è che tu utilizzi 206 sempre la stessa mano per strisciare. Invece se ne metti una così e un’altra così, e alterni i turni, cioè crei la rotazione nei turni che fanno, riesci a ridurre questa cosa. (..). Sui macchinari hanno sempre mantenuto un livello di massima avanguardia, cioè quando esce una macchina ancora più sicura, si cambia e si mette la macchina ancora più sicura e ci si adegua” (consulente esterno). Informazione e partecipazione dei lavoratori, in conclusione, sono le due dimensioni rimaste da indagare in una analisi della cosiddetta politica di responsabilità interna di Coop Adriatica. A questo proposito, diversi sono gli strumenti individuati da Coop Adriatica volti a coinvolgere i dipendenti: strumenti volti a diffondere le scelte aziendali, anzitutto, quali il periodico Noicoop ed un sistema intranet; strumenti di aggregazione, ancora, quali l’organizzazione di feste o eventi aziendali e l’istituzione di un circolo per i dipendenti, a cui attualmente sono iscritti circa 500 lavoratori; strumenti di partecipazione, infine, attraverso l’introduzione dei Gruppi Archimede e di una serie di incontri per discutere dell’organizzazione del lavoro. I gruppi Archimede, come abbiamo già visto, sono gruppi di lavoro composti da quadri e impiegati direttivi, volti ad identificare interventi specifici in linea con il bilancio di sostenibilità, coinvolgendo l’organico aziendale nella loro realizzazione. A questo strumento vanno ad aggiungersi, come già accennato, riunioni nei singoli reparti per discutere di questioni organizzative e delle scelte aziendali: “facciamo due incontri, oltre a quelli, diciamo, che si fanno per ragioni squisitamente del funzionamento dell’azienda, nel senso che i lavoratori, cioè i loro capi nei reparti, eccetera, fanno incontri di lavoro, ovviamente. Su aspetti organizzativi, essenzialmente. Poi però c’è un’attività, questa istituzionale, semestrale, per cui noi, a giugno, dopo le assemblee di bilancio con i soci, quella istituzionalmente spetta ai soci, facciamo incontri in ogni punto vendita, con i lavoratori, per illustrare l’andamento della cooperativa, per chiedere suggerimenti, insomma, gli diamo la parola. Ci sono tutti i dirigenti, i quadri, specificatamente individuati, vanno appunto a fare il giro dei punti vendita, per informare e attivare dei feed-back rispetto all’andamento dell’impresa” (dirigente Coop Adriatica). La partecipazione a queste 207 iniziative, generalmente organizzate al di fuori dall’orario di lavoro, è di natura volontaria e tocca in generale per tutta Coop Adriatica quote del 60%, con una leggera flessione nell’area bolognese. Da parte dei rappresentanti sindacali, tuttavia, è emersa una richiesta di maggiore informazione e coinvolgimento nelle scelte aziendali, considerando anche la difficoltà sempre più forte espressa dal sindacato di raggiungere e coinvolgere i lavoratori a partire dai più generali processi di frammentazione del mercato del lavoro. In conclusione, dunque, le considerazioni approntate fino ad ora sembrano confermare una sensibilità particolare nelle politiche adottate da Coop Adriatica, realizzata concretamente negli strumenti introdotti con l’ultimo contratto integrativo, nell’attenzione rivolta al tema della conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, alla tutela dei soggetti più deboli, così come della salute e sicurezza dei lavoratori; una sensibilità, tuttavia, che va ad inserirsi in un momento di difficoltà e di forti cambiamenti, che, a parere dei delegati intervistati, potrebbero essere più efficacemente affrontati con un maggiore coinvolgimento dei lavoratori ed incrementando le occasioni di confronto con il sindacato. 3.3.4. L’indagine di clima: alcune risultanze Le considerazioni che di seguito riportiamo fanno riferimento ad una indagine di clima condotta da Coop Adriatica di cui ci è stata data disponibilità ad illustrarne in questa sede le principali risultanze. Una indagine rivolta ad un campione rappresentativo dei suoi collaboratori (14%), che ha raggiunto supermercati, ipermercati e sedi, dando centralità alle dimensioni dell’organizzazione, della qualità del lavoro ed in generale al grado di soddisfazione dei collaboratori. In particolare, dunque, sono stati raggiunti 993 addetti, di cui il 43% nell’area Emilia, il 20% in Romagna, il 17,5% nel Veneto, il 6% nelle Marche ed il 2,4% in Abruzzo. Analizzando le tipologie contrattuali, inoltre, il 77,7% è assunto con contratto a tempo indeterminato, il 19,7% a tempo determinato ed il 2,6% con contratti di formazione-lavoro; in maniera trasversale alle tipologie contrattuali, il 54,2% è full-time ed il restante part-time. L’analisi dei livelli di inquadramento evidenzia inoltre un 74% di soggetti inserito 208 in mansioni operaie o impiegatizie di base (da 4’S a 5’) ed un 25,6% di impiegati (da 1’ a 3’). Il 40% degli intervistati, infatti, possiede al massimo il titolo di scuola media, a cui si aggiunge un 18% con diploma professionale; il gruppo più rappresentativo (38,4%) ha invece terminato gli studi di scuola superiore di secondo grado, mentre circa il 4% possiede un diploma di laurea. Complessivamente, inoltre, nel campione raggiunto solo il 6% dei partecipanti ha meno di 24 anni, mentre la maggioranza si concentra nelle fasce di età tra i 25 e 34 anni (38,2%) e 35 e 54 anni (54,4%). Dati confermati anche dal fatto che l’anzianità di lavoro media nel 10% dei casi è minore di un anno, nel 36,6% dei casi va da 1 a 5 anni, nel 14,2% da 5 a 10 anni e per circa il restante 40% oltre i 10 anni. Di seguito cercheremo dunque di tracciare un quadro delle principali risultanze emerse concernenti soprattutto qualità e sicurezza sul lavoro, specificando, dove possibile, alcuni parametri per l’Area Emilia. Entrando nello specifico, 6,9 è il giudizio medio complessivo di soddisfazione espresso dai collaboratori di Coop Adriatica (su una scala che va dal valore minimo 1 al valore massimo 10), in aumento dello 0,7 rispetto all’indagine condotta nel 1999; giudizio che nell’Area Emilia evidenzia una media del 6,7, andandosi a differenziare con un valore del 6,63 negli Iper, 6,33 nella sede e 6,92 nei supermercati. Considerando complessivamente i dati, l’indagine sembra mettere in evidenza un buon grado di soddisfazione e valutazioni più che positive delle politiche aziendali rispetto a quello che può essere definito il versante “esterno” dell’organizzazione, laddove toni più critici emergono invece in relazione al versante “interno”, e quindi alle questioni legate all’organizzazione del lavoro. Da una prima analisi del grado di priorità assegnato dai dipendenti agli elementi costitutivi della mission aziendale, e dalla parallela valutazione del grado effettivamente assegnato da Coop Adriatica agli stessi elementi, valori elevati e con un buon grado di corrispondenza tra “desiderato” e “percepito”, si rilevano infatti rispetto alle azioni rivolte ai soci, alla qualità dei prodotti ed allo sviluppo della democrazia cooperativa. In particolare, il 74% circa degli intervistati 209 ritiene che priorità di Coop sia offrire ai soci prodotti e servizi sicuri e convenienti e che Coop corrisponda a tale requisito per il 67,1% dei soggetti intervistati; realizzare sviluppo ed innovazione di impresa è inoltre importante per il 64% dei collaboratori e percepito nelle scelte aziendali per il 51,3% degli stessi. Il maggior scollamento tra ciò a cui i lavoratori attribuiscono un grado alto o altissimo di priorità e ciò a cui Coop Adriatica assegna effettivamente la stessa importanza, si registra infatti, come già accennato, sul versante interno: a fronte di un 66,4% di soggetti che attribuisce importanza al miglioramento degli ambienti fisici ed umani in cui la cooperativa opera, solo il 39,1% percepisce questo elemento come costitutivo della politica in atto; a fronte, ancora, di un 64,7% che ritiene fondamentale valorizzare il lavoro e l’impegno dei dipendenti, questo si realizza solo per il 25,8% degli intervistati. Nell’area Emilia, in particolare, emergono i giudizi più negativi rispetto alla valorizzazione del lavoro ed al miglioramento degli ambienti fisici del lavoro, dove rispettivamente solo il 21,3% ed il 31,8% dei soggetti raggiunti individuano tali valori come elementi con un alto od altissimo grado di priorità per Coop Adriatica. Tendenze che in un certo modo vanno a confermarsi anche analizzando la percezione che i lavoratori hanno dei cambiamenti avvenuti in Coop Adriatica: in generale, infatti, il 37% ritiene che la cooperativa sia cambiata in meglio ed il 20% nella direzione opposta. Percentuali che anche in questo caso per l’area Emilia assumono toni più critici, con una quota del 35% di intervistati che riscontra in Coop dei peggioramenti e del 29% che avverte invece un miglioramento. Si conferma, inoltre, un’attenzione di Coop soprattutto verso l’esterno laddove, nelle valutazioni dei dipendenti, le dimensioni che hanno subito miglioramenti sono in particolare la qualità dei prodotti (76%), i vantaggi per i soci (65,4%), le azioni ed i progetti rivolti alla società (63,4%) e l’immagine di Coop (53,8%). Sono peggiorate, invece, le dimensioni attinenti l’organizzazione del lavoro: i carichi di lavoro (40,1% in generale e 46,5% in Area Emilia), l’efficienza dell’organizzazione interna (32,7% in generale e 47,6% in Area Emilia) ed il coinvolgimento per la risoluzione di problemi (32% in generale e 40% in area Emilia). 210 Le critiche apportate verso la cosiddetta dimensione interna, tendono tuttavia ad attenuarsi in un confronto con le altre realtà lavorative, laddove valutando ciò che per i collaboratori differenzia in positivo Coop Adriatica, rientrano nei primi cinque posti della “graduatoria” anche aspetti relativi l’organizzazione del lavoro. Coop, infatti, si contraddistingue per la qualità dei prodotti (72%), per i valori sociali realizzati in azioni e progetti rivolti alla società (67,3%), per la tutela dei diritti dei lavoratori (62%), per l’immagine esterna (54,7%) e per l’organizzazione del lavoro (49,7%). Significativo come, a tale proposito, l’Area Emilia attribuisca una valenza inferiore alla qualità dei prodotti (64,3%), continuando ad essere critica rispetto all’organizzazione del lavoro (43,7%), ma esprimendo una valutazione positiva rispetto alle tutele dei diritti dei lavoratori (68,8%). Nell’immaginarsi Coop tra tre anni, inoltre, circa il 60% prevede un miglioramento della qualità del lavoro (50% in Emilia), mentre l’81% ritiene che Coop Adriatica si impegnerà a rendere più visibile la propria distintività. Entrando nel merito dell’organizzazione del lavoro, in generale i collaboratori intervistati danno un giudizio positivo pari a 7,56 (su 10) del loro posto di lavoro in Coop Adriatica. Per indagarne alcune dinamiche, nel questionario è stata anzitutto utilizzata la metafora della scuola: significativo, infatti, come il 62,2% (73,1% in Emilia) ritenga che in classe ci sia molta confusione, il 68,1% che ci siano sezioni privilegiate, l’80,6% che i programmi cambino di classe in classe, ed un 58,4% (52,1% in Emilia), in ogni caso, che alla fine le cose imparate siano molte. Tab. 3 - Grado di priorità (da 1 a 10) desiderato dai lavoratori e da loro percepito nella politica aziendale relativo ad alcuni elementi dell’organizzazione del lavoro. Dialogo e confronto tra colleghi e capi Avere un capo di riferimento Retribuzione adeguata alle mansioni Orari e turni adatti alle proprie esigenze Incentivi che facciano sentire appartenenza Formazione del personale 211 Desiderato 9,33 9,18 8,93 8,81 8,50 8,28 Percepito 6,78 7,13 5,56 6,45 5,38 5,75 Individuando, successivamente, il grado di priorità attribuito dai collaboratori a determinati aspetti dell’organizzazione del lavoro, ed il relativo grado di soddisfazione, in ordine di importanza emergono elementi relazionali, di dialogo e confronto, seguiti alla dimensione economica e da quella organizzativa. Sono in particolare gli incentivi volti a sviluppare un senso di appartenenza e le retribuzioni di merito ad evidenziare i livelli di scollamento più elevati tra “desiderato” e “percepito”, seguiti dai giudizi sui rapporti tra colleghi e sulla formazione. Il desiderio, inoltre, di un maggiore riconoscimento non solo economico - del proprio ruolo lavorativo si rileva anche in una analisi complessiva degli items, laddove le valutazioni più basse si registrano rispetto al sistema di premi basati sui meriti individuali (4,33) e collettivi (5,03) ed all’avere una valutazione delle proprie capacità lavorative (5,08). Osservando le valutazioni relative alla formazione, invece, la prevalenza di giudizi sufficienti o positivi si registra in merito alle competenze dei formatori, agli strumenti utilizzati ed alla formazione sulla sicurezza. Sufficiente, inoltre, il grado di omogeneità della formazione erogata tra colleghi e la verifica del grado di apprendimento. In negativo, invece, il tempo dedicato, la tempestività della formazione rispetto alle necessità operative e l’affiancamento sul campo nel periodo iniziale. Per ciò che concerne i criteri di selezione ed inserimento di nuovo personale, essi sono in generale percepiti come accettabili, laddove tuttavia la qualità delle persone assunte negli ultimi due anni riceve un giudizio pari a 5,99 su 10 (5,7 in Emilia). Rispetto alla possibilità di avanzamento, invece, l’11,6% ritiene che ci siano buone opportunità di carriera, il 33,8% qualche opportunità, il 31,4% poche e l’8,8% nessuna. Sono in particolare la richiesta di trasferimenti, ruoli superiori non ben retribuiti e la non conoscenza delle possibilità a rendere difficoltosa la possibilità di fare carriera. Circa il 70% del campione ritiene comunque sufficiente o più che sufficiente il riconoscimento verbale del proprio lavoro e l’assegnazione di 212 responsabilità; in negativo, invece, l’avanzamento di ruolo (51,5%), la retribuzione (62%) e gli incentivi non in denaro (61,2%). Analizzando i rapporti con i superiori, per gli addetti Coop i loro capi sono soprattutto persone “dotate di cultura”, che sanno riconoscere i meriti, trasmettere la cultura cooperativa ed informare correttamente e per tempo; giudicate in negativo, invece, le loro competenze professionali, la capacità di “dare buon esempio” e di conseguire obiettivi di produttività. Rispetto al grado di comunicazione interna, emerge in generale una sorta di instabilità/incostanza nello scambio di informazioni: i soggetti intervistati, infatti, dichiarano che solo “a volte” sanno a chi rivolgersi, ricevono le informazioni in maniera puntuale, tutti quanti e con il medesimo contenuto; sempre solo “a volte” il capo tiene in considerazione i consigli degli addetti. Nel 41% dei casi, inoltre, l’incostanza della comunicazione è attribuita ad una mancanza di momenti dedicati al dialogo, nel 25% alla mancanza di tempo e nel 18% ad una scarsa attitudine all’ascolto da parte del capo. Infatti, riunioni periodiche, datori di lavoro più attenti al dialogo, ma anche addetti più partecipi sono gli strumenti consigliati per migliorare i livelli di comunicazione; in particolare, viene in evidenza l’esigenza di discutere maggiormente dell’organizzazione del lavoro (68%), delle novità introdotte sul lavoro (35,5%), della gestione del personale (29,6%) e dell’andamento del proprio reparto/ufficio (28,3%). Considerazioni che si confermano nei giudizi attribuiti al livello di informazione in Coop, laddove l’individuazione dei referenti, la puntualità e l’omogeneità evidenziano anche in questo caso una certa incostanza. Le motivazioni vengono individuate, in particolare, in una non trasmissione da parte dei capi nel 39% dei casi, nella mancanza di interesse da parte degli addetti nel 26,9%, in una mancanza di trasparenza nel 25% e solo per l’8,4% in una inadeguatezza dei mezzi di informazione. Infine, rispetto alle attività extralavorative, ciò che viene apprezzato maggiormente sono convenzioni o sconti (47%), viaggi (38%) e momenti collettivi di incontro (31,9%). Solo il 7% degli intervistati, infatti, è iscritto al circolo aziendale. In merito, invece, alla valutazione dei progetti in atto, solo il 55,8% dei soggetti coinvolti 213 nell’indagine è a conoscenza del progetto Isole e di questi il 76,8% parteciperebbe se venisse attivato nel suo reparto. Nel commentare, in conclusione, l’analisi delle risultanze relative all’indagine di clima, piuttosto significativo appare come, pur di fronte a livelli di clima indubbiamente suscettibili dei processi di riorganizzazione aziendale e dello specifico contesto sindacale, nelle valutazioni complessive e nel confronto con altre realtà, i lavoratori riconoscano a Coop Adriatica una sensibilità che va a contraddistinguerla in positivo. 4 3.4. Il caso di Formula Servizi S.c.a.r.l. 3.4.1. L’azienda La società cooperativa Formula Servizi si costituisce ufficialmente il 24 ottobre del 1975 con il nome di Pulix Coop-Forlì per volontà di nove lavoratrici attive nel campo delle pulizie e direttamente assistite dalla Lega delle Cooperative, dove viene situata la prima sede legale ed amministrativa. Diviene rapidamente una solida realtà imprenditoriale, capace di ampliare e differenziare la gamma delle prestazioni offerte. Agli originari servizi di pulizia si affiancano infatti le attività di disinfestazione, di manutenzione delle aree verdi, di facchinaggio, di manutenzione degli impianti di riscaldamento e condizionamento. Negli anni ‘90 la cooperativa conosce un ulteriore sviluppo: aumenta notevolmente il proprio fatturato e subisce una radicale riorganizzazione interna. Inoltre, grazie all’acquisizione di lavori nelle regioni Marche, Basilicata ed Abruzzo assume la connotazione di cooperativa operante sul territorio nazionale. Per questo motivo e per rappresentare maggiormente l’insieme dei servizi che è in grado di erogare, nel 2001 l’impresa cambia denominazione sociale assumendo quella di Formula Servizi. Con l’avvio del nuovo millennio infatti l’azienda diversifica ulteriormente il panorama dei servizi proposti, con l’erogazione di prestazioni di logistica industriale, ristorazione, accompagnamento turistico, vigilanza e trasporto alunni. La cooperativa sperimenta così il cosiddetto global service, ossia la gestione integrata di tutte le attività all’interno delle strutture socio-sanitarie e delle case di riposo in cui opera. 214 L’andamento del fatturato presenta valori costantemente positivi nel periodo considerato, passando da 22.704.660 di euro nel 2001 a 27.752.423 di euro nel 2003. In questo arco temporale si osserva anche un incremento dell’utile netto che raggiunge il valore di 3.434.289 euro e del valore aggiunto che si attesta sui 24.766.354 euro. I dati relativi alla distribuzione del valore aggiunto mettono in evidenza come la quota più rilevante di esso sia destinata al personale, 21,09 milioni di euro, pari ad una percentuale dell’85,2%. Al rafforzamento della Cooperativa stessa è riservato il 9,2% della ricchezza prodotta. La terza componente per entità del valore monetario è costituita da Stato, enti ed istituzioni, sotto forma di imposte dirette, per un ammontare complessivo di circa 1 milione di euro, pari al 4,0%. La parte destinata ai finanziatori ammonta a 170 mila euro, pari allo 0,7%, mentre quella riservata al movimento cooperativo raggiunge circa 180 mila euro, pari ad oltre lo 0,7%. Infine, nei confronti del territorio sono stati complessivamente destinati 53 mila euro, attraverso la sponsorizzazione di iniziative di solidarietà sociale, la promozione di progetti di carattere culturale e sportivo, il sostegno ad enti ed associazioni. L’organico di Formula Servizi, alla fine del 2003, è composto da 1.291 operatori, di cui 834 concentrati nella regione Emilia-Romagna. In particolare, nel corso dell’anno si sono avute 316 assunzioni e 247 dimissioni, che hanno garantito una crescita della popolazione aziendale rispetto al 2002 riconducibile esclusivamente al personale operaio. Inoltre, 154 lavoratori hanno usufruito di passaggi di livello. Relativamente alla distribuzione per classi di età, la maggior parte dei lavoratori si colloca nella fascia compresa tra i 33 ed i 45 anni che raggiunge una percentuale pari al 45%, immediatamente seguita dalla classe successiva (il 40% ha un’età superiore ai 45 anni). Significativamente inferiori appaiono invece le quote di lavoratori che si situano nelle classi di età comprese tra i 26 ed i 32 anni e tra i 18 ed i 25 anni (rispettivamente il 12% ed il 3%). L’età media dei lavoratori si attesta dunque ai 43 anni. 215 Dalla suddivisione dell’organico in base all’anzianità lavorativa media, emerge come il 65% dei lavoratori operi per Formula Servizi da meno di 2 anni, dato in gran parte influenzato dal notevole sviluppo conosciuto dalla cooperativa negli ultimi anni e dall’ingresso di lavoratori socialmente utili ex-ata. Nonostante questo dato, comunque il livello di turn-over appare diminuito nel corso degli ultimi 3 anni (da 14,40 a 12,80): il 16% degli operatori lavora in cooperativa da un periodo compreso tra 3 e 5 anni, il 10% tra 5 e 10 anni, l’8% tra 11 e 20 anni e l’1% tra 21 e 30 anni. Significativa è la presenza di personale femminile, che rappresenta l’82% dell’organico: più in particolare, le donne inserite nel settore operaio sono 1.032, nel settore impiegatizio 26, mentre 1 è assunta, a partire dal 2003, nel comparto quadri, che comprende un totale di 5 unità; dato che dimostra una certa attenzione rivolta dalla cooperativa alle politiche tese a garantire alla popolazione femminile percorsi professionali con potenziali sbocchi anche ai massimi livelli aziendali, seppure siano auspicabili ulteriori miglioramenti in merito. Altrettanto rilevante risulta la presenza di lavoratori migranti, in prevalenza originari del Nord-Africa e dell’Est europeo, che passando da 68 a 104 unità, con un incremento del 52,94%, si attesta attorno all’8%. Infine, prendendo in considerazione la variabile relativa al titolo di studio, si evince come la maggioranza degli operatori, pari al 57,5%, abbia conseguito la licenza media, quote significativamente inferiori il diploma superiore e la licenza elementare (rispettivamente il 20,9% e il 20,5%). Mentre solo 11 lavoratori risultano laureati e 3 sono privi di qualsiasi titolo di studio. 3.4.2. La politica di responsabilità sociale A partire dal 2002 Formula Servizi redige un Bilancio sociale come relazione annuale e rendicontazione sull’attività svolta. Tale strumento evidenzia le iniziative realizzate dall’impresa per la tutela dell’ambiente, per la crescita delle risorse umane, per la promozione di principi quali le pari opportunità per le donne, l’integrazione e la coesione sociale, dando così visibilità ai comportamenti che maggiormente impattano sul contesto sociale e locale in cui l’azienda opera. 216 Il bilancio sociale rappresenta il primo passo di una politica di responsabilità e di sostenibilità etica divenuta nel tempo sempre più consistente. Nell’estate del 2003, infatti, la sensibilità manifestata dalla cooperativa verso le tematiche sociali sfocia nell’adesione allo standard internazionale SA8000, come risultato di uno sforzo costante nell’applicazione integrale della legislazione incentrata sul lavoratore, nonché di un impegno concreto ed attivo al miglioramento della società e dell’ambiente. Essere un’impresa socialmente responsabile, riprendendo le parole della portavoce aziendale, “significa fondamentalmente trattare i lavoratori come persone, per cui rispettando tutta quella che è la sfera della persona, quindi non ci deve essere solo un rapporto del tipo tu lavori per me azienda ed io ti do uno stipendio, ma qualcosa di diverso, l’azienda si deve preoccupare di tutta una serie di aspetti legati alla sfera della persona, compreso il fatto che vive in una città ed ha dei figli. L’azienda deve fare il possibile per tutelare tutti questi aspetti” (dirigente). Il conseguimento della certificazione SA8000 sembra garantire un riscontro in termini di consolidamento della immagine e della reputazione agli occhi della clientela della cooperativa, in questo modo resa consapevole del fatto che “l’azienda lavora in un certo modo, si preferisce comprare un prodotto, nel nostro caso un servizio, sapendo che le persone che lo fanno vengono trattate in un certo modo, che l’azienda è corretta da questo punto di vista” (dirigente). La soddisfazione del cliente rappresenta un elemento fondamentale per l’azienda che, in conformità con la normativa Iso 9001, realizza periodiche indagini su questa dimensione registrando in generale un buon apprezzamento verso i servizi erogati. Al di là di questo specifico strumento, la cooperativa quotidianamente si interfaccia con la clientela attraverso specifiche figure aziendali, i coordinatori, che hanno il compito di seguire l’evoluzione del rapporto cliente/fornitore, fungendo da canali di comunicazione per un passaggio di informazioni puntuale e preciso, teso al monitoraggio di reclami e/o segnalazioni e all’eliminazione tempestiva di eventuali incomprensioni: “i responsabili dei vari cantieri sono fissi e sono in stretto contatto con i clienti, hanno un rapporto diretto, per cui se 217 c’è qualcosa lo riferiscono subito ai lavoratori che possono così intervenire in tempi brevi o anche magari se il cliente richiede un lavoro non previsto generalmente dal contratto, che comunque non porta via un tempo troppo elevato. Si cerca di venire incontro alle esigenze del cliente e di soddisfarlo in toto, in modo da garantire e salvaguardare il rapporto con esso anche in futuro, (ndr da fidelizzarlo)” (rappresentante lavoratori SA8000). La strategia adottata da Formula Servizi ne condiziona fortemente la politica di acquisto, orientata a ricercare nei propri fornitori dei partner che sviluppino innovazione ed affidabilità, dimostrando al contempo un’affine sensibilità verso le tematiche etico-sociali: “privilegiamo aziende che ad esempio sono anch’esse certificate SA8000 o che comunque stanno lavorando su questi aspetti, per cui incontriamo anche i loro responsabili per capire quelle che sono le idee dell’azienda in merito. Mandiamo a tutti quanti i nostri fornitori un questionario di auto-valutazione e chiediamo l’autorizzazione a fare anche verifiche sul campo, (..) parliamo con le persone che ci lavorano per capire ad esempio come vengono trattate, se ci sono delle irregolarità” (dirigente). Anche relativamente alla salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali la cooperativa manifesta una forte attenzione:“sempre sul tema della responsabilità sociale, perché consideriamo responsabilità sociale anche questa, noi stiamo adesso lavorando sulla certificazione ambientale: anche relativamente all’ambiente Formula Servizi si è mossa da diversi anni nella direzione della tutela e del rispetto. Siamo convinti che il discorso di tutela dell’ambiente faccia parte in pieno della responsabilità sociale, per cui dobbiamo fare tutto il possibile per tutelare l’ambiente in cui lavoriamo e in cui viviamo” (dirigente). L’obiettivo della certificazione ambientale, secondo la norma Iso 14001:1996, è stato raggiunto nella primavera del 2005, a dimostrazione della sistematicità di un comportamento aziendale orientato alla tutela del territorio in cui opera. Proprio nell’ottica di ridurre gli impatti sull’ambiente derivanti dalla propria attività, dal 1999 Formula Servizi utilizza mezzi alimentati con olio di colza, un carburante vegetale con il pregio di produrre un quantitativo di polveri fini 218 nettamente inferiore rispetto al gasolio tradizionale e di abbattere le emissioni di zolfo, e a partire dall’anno 2000 ha adottato all’interno delle strutture sanitarie ed assistenziali un sistema di pulizia basato sull’utilizzo delle microfibre, che consente un minor uso di prodotti detergenti e contribuisce pertanto a ridurre l’inquinamento atmosferico, oltre ad attenuare la fatica fisica dei dipendenti. Inoltre, la cooperativa, individuando nell’integrazione territoriale uno degli elementi di forza per il proprio sviluppo, pone in essere numerose iniziative a sfondo collettivo: “ci sono tutta una serie di piccole attività, le collaborazioni con l’Istituto Oncologico Romagnolo o con l’Associazione Donatori del Midollo Osseo; le sponsorizzazioni a mostre o eventi culturali fatti a Forlì, Cesena, Rimini, Ravenna, insomma sui territori dove siamo più presenti; tutti gli anni sponsorizzavamo un calendario realizzato da una struttura di assistenza per disabili di Pesaro” (dirigente). Il profondo e costruttivo legame che nel tempo si è venuto ad instaurare con le istituzioni ed il valore solidaristico, caratterizzante lo spirito cooperativo, porta spesso l’azienda a rispondere positivamente alle diverse “segnalazioni e richieste di aiuto da parte dei Servizi sociali, degli Assessori sociali per realizzare l’inserimento di persone che hanno alle spalle situazioni di grave disagio” (dirigente). In linea con questo orientamento, Formula Servizi ha siglato un accordo con il carcere di Forlì in base al quale è stata assunta una persona in semi libertà che, grazie all’intervento dell’azienda, ha potuto usufruire del periodo estivo di ferie con l’unico vincolo di rientrare in carcere al termine della giornata. Anche quest’anno, poi, l’azienda ha rinnovato la sua partecipazione alle missioni umanitarie in Bosnia, in collaborazione con l’associazione Croce Verde di Meldola, “mettendo a disposizione i mezzi ed un magazzino per raccogliere i vari materiali e prodotti da portare, oltre ovviamente a risorse economiche” (dirigente). Infine, sta attivando un’attività in collaborazione con la Protezione Civile di Forlì, per identificare la propria sede “come punto di forza della Protezione Civile, con la messa a disposizione di attrezzature, mezzi e persone in caso di necessità o calamità” (dirigente). 219 Formula Servizi può dunque essere considerata un valido esempio di impegno attivo in ambito etico, come dimostra la politica di sostenibilità sociale ed ambientale avviata e il consistente numero di iniziative promosse. 3.4..3. Qualità e sicurezza sul lavoro Riprendendo un’affermazione contenuta nel Bilancio sociale, “le persone sono le risorse più importanti all’interno della cooperativa”, pertanto attenta alla qualità del lavoro dei propri soci e dipendenti. La portavoce aziendale individua in questa forte “attenzione alle persone” una delle caratteristiche dominanti di Formula Servizi, riscontrabile “anche in riferimento alla ricerca sull’innovazione tecnologica per consentire un miglioramento della qualità del lavoro di persone che fanno comunque un lavoro faticoso perché fare pulizie è abbastanza pesante, di certo non è come una comune attività di ufficio” (dirigente). Infatti, nella consapevolezza delle peculiarità che connotano il lavoro di pulizia, attività gravosa, intensa, spesso ripetitiva e condotta a ritmo serrato, la politica della cooperativa si contraddistingue per una costante ricerca di innovativi sistemi di lavoro maggiormente ergonomici e rispondenti alle esigenze dei dipendenti. Basti pensare al ricorso al sistema di pulizie con panni in microfibra, un particolare tessuto che trattiene lo sporco senza la necessità di grandi quantitativi di detergente e di acqua, garantendo una riduzione dello sforzo fisico del personale impiegato e, al contempo, una maggiore rapidità di svolgimento delle proprie mansioni. Lo dimostrano chiaramente le affermazioni di una lavoratrice intervistata: “io vengo da una dimensione diversa, quella della Usl, per anni nei periodi estivi ho fatto delle sostituzioni del personale in ferie, e la situazione era totalmente diversa, molto peggiore, già questo è un lavoro in sé impegnativo, stancante, a volte stressante (..) Formula Servizi ha fornito nuove attrezzature, introdotto nuovi sistemi di lavoro che lo hanno agevolato moltissimo, hanno ridotto la fatica fisica (..) Diciamo che il lavoro di pulizia è sicuramente migliorato dal punto di vista dell’intensità” (delegata sindacale). La volontà di concretizzare queste strategie nelle migliori modalità ha spinto gli 220 stessi responsabili aziendali “a verificare presso strutture ospedaliere in Europa realtà di eccellenza di gestione dei servizi”, con l’intento di divenire in prima persona un esempio di eccellenza. Un simile impegno vuole, in parte, attenuare le insoddisfazioni dei lavoratori derivanti dalla dimensione economico-materiale: Formula Servizi applica il contratto nazionale collettivo delle cooperative di pulizia multiservizi, riconosciuto dalla stessa direzione, come “povero” in termini di retribuzione corrisposta alle mansioni svolte. Lavorare in prevalenza mediante gare d’appalto con soggetti pubblici, sempre orientate al ribasso, non consente inoltre “grandi margini per aumentare la remunerazione”. La solidità economico-finanziaria raggiunta negli anni dall’azienda assicura comunque ai lavoratori un posto sicuro, regolare e garantito, nonché una puntualità nel recepimento della remunerazione, nonostante i committenti pubblici spesso saldino i loro fornitori con ampio ritardo. A proposito della dimensione economica, a destare particolare apprezzamento è stata la scelta di destinare ai soci lavoratori, che rappresentano oltre la metà del personale della cooperativa (una quota pari a 699), parte dell’utile a titolo di ristorno, redistribuito in base al contributo lavorativo prestato annualmente. Sempre in termini vantaggiosi per i soci lavoratori vanno interpretati elementi quali il superamento del DPR 602/70, in base al quale la cooperativa provvede a versare i contributi sul salario reale anziché convenzionale, come avveniva fino all’anno 2001, e l’adesione al fondo pensione Cooperlavoro mirante a garantire, alla luce delle riforme degli anni ‘90, un’integrazione della pensione Inps. Non bisogna inoltre dimenticare che, nel rispetto della natura cooperativa, ogni socio ha la possibilità di partecipare direttamente alla gestione dell’impresa e pertanto alla definizione delle decisioni strategiche, secondo il principio “una testa, un voto”. Ai soci spetta infatti l’elezione del Consiglio di amministrazione, la nomina del Collegio sindacale, l’approvazione dei bilanci e dei regolamenti. Se la base sociale può prendere parte in prima persona alle principali scelte aziendali, viene comunque garantita una circolazione delle informazioni estesa all’intero organico. Oltre ad una comunicazione verbale riconosciuta dai testimoni intervistati come “molto diretta” 221 ed assicurata in entrambe le direzioni top-down e bottom-up, la cooperativa per veicolare le informazioni istituzionali ricorre a diversi canali: le comunicazioni scritte in allegato alla busta paga e i due giornalini annuali, redatti in occasione delle assemblee di bilancio (a dicembre ed a maggio), contenenti “tutte le informazioni sia sul bilancio, sempre per una questione di trasparenza, per cui è importante che tutti i lavoratori siano aggiornati anche su questo, sia relative ad esempio alla sperimentazione del telelavoro o del job sharing e così via” (dirigente). L’adesione alla norma SA8000 ha inoltre comportato l’elezione di 3 Rappresentanti dei lavoratori SA8000 (uno per la zona di Forlì-Cesena, uno per quella di Rimini/Marche ed uno per quella della Basilicata), scelti dagli stessi dipendenti mediante votazione anonima, con il ruolo di “far presenti alla direzione eventuali segnalazioni di soprusi o discriminazioni subite dai lavoratori (mantenendo l’anonimato del lavoratore se ciò viene richiesto dallo stesso) e assicurarsi che a seguito della segnalazione il problema venga affrontato e risolto”. In quest’ottica sono state introdotte nelle rispettive sedi apposite cassette per la posta indirizzata ai rappresentanti, in cui far pervenire osservazioni, comunicazioni e lamentele. Focalizzando l’attenzione al clima di lavoro, si coglie una sostanziale apertura nei rapporti tra operatori e superiori, siano essi coordinatori o dirigenti aziendali, quindi l’instaurarsi di un propizio dialogo e di buone interazioni. A conferma di questo, l’analisi di clima condotta dall’azienda mediante questionari anonimi, tesa ad indagare la percezione dei dipendenti in merito ad alcune caratteristiche peculiari della cooperativa ed a raccoglierne i giudizi in riferimento alla struttura tecnico-amministrativa, richiedendo ai lavoratori di attribuire una votazione (da un minimo di 0 ad un massimo di 10) alle diverse figure che rientrano in essa (presidente, direttore generale, direttore amministrativo, responsabile del personale, responsabile di produzione, coordinatori, ecc), mette in evidenza valutazioni positive per tutto il personale considerato: “il vertice aziendale ne è uscito molto bene, i coordinatori discretamente, considerando che sono le persone che ti vengono a controllare e ti danno ordini” (dirigente). 222 Non sempre positivi e collaborativi appaiono invece i rapporti tra i colleghi, o meglio, se nelle squadre composte da un numero ridotto di lavoratori il clima risulta favorevole e armonioso, nei cantieri connotati da un elevato numero di operai, quali quelli delle strutture ospedaliere, è invece spesso difficile riscontrare la medesima capacità di cooperare in tutto il personale impiegato e possono pertanto sorgere problemi, divergenze e malumori: “dipende dalle persone con cui interagisci, con i superiori direi buoni, poi è chiaro che ti rivolgi per la maggior parte a loro per chiedere dei permessi, dei cambi, per cui a volte mostrano una maggiore disponibilità e a volte minore se sono presi o preoccupati per qualcosa, però personalmente direi buoni. Con i colleghi dipende dalle persone, con alcune molto buoni, sono persone disponibili, in grado di ragionare sulle cose, mentre in altre ho notato molto menefreghismo, molto egoismo su molti aspetti, cosa che poi purtroppo incide su tutto il rapporto generale di lavoro perché se tu ti comporti bene e sei disponibile, quando ti chiedono un cambio cerchi di andare incontro alle richieste, poi questo viene contraccambiato (..) Comunque questo capita in tutti gli ambienti di lavoro quando si ha a che fare con tante colleghe e qui siamo oltre il centinaio” (delegata sindacale). Una buona interazione viene riconosciuta inoltre tra la direzione aziendale ed i sindacati, curata in prima persona dal responsabile del personale e garantita da periodici incontri, come dimostrano le parole del rappresentante dei lavoratori SA8000: “il rapporto tra azienda e sindacato è tranquillo, sereno, non problematico, so che in alcune aziende guardano male i dipendenti per il fatto di essere iscritti al sindacato, qui la situazione è diversa”. Ed infatti il tasso di sindacalizzazzione è piuttosto elevato, attestandosi nel 2003 attorno al 46%, anche se come afferma la delegata sindacale interpellata “come categoria non abbiamo molta forza, per cui più di tanto non si riesce ad ottenere in sede di contrattazione sindacale” (delegata sindacale). La tipologia di attività offerta dalla cooperativa sicuramente non sempre garantisce ampi margini di autonomia e discrezionalità agli operatori coinvolti: l’attività di pulizia, soprattutto se realizzata in 223 ambienti pubblici quali le strutture sanitarie o socio-assistenziali, risulta piuttosto ripetitiva, con orari rigidi, ritmi di lavoro stringenti ed una limitata possibilità di gestire liberamente il lavoro. Diversa è la situazione del personale impiegatizio che gode di un maggiore grado di indipendenza. Sembra tuttavia doveroso precisare che anche i lavoratori di alcune particolari squadre di pulizia straordinaria constatano una discreta possibilità di gestire ed organizzare in autonomia la propria attività, al punto da, riprendendo le parole di un testimone intervistato, sentirsi quasi come “artigiani, lavoratori autonomi, perché ti organizzi tu, non hai qualcuno che ti dà ordini una volta che svolgi bene il tuo lavoro e il cliente è soddisfatto, per cui c’è abbastanza autonomia” (rappresentante lavoratori SA8000). In conseguenza dell’elevato peso assunto dall’occupazione femminile in azienda, che si attesta attorno all’82%, Formula Servizi rivolge particolare attenzione alle specificità del personale di questo sesso, promuovendo una serie di iniziative tese a tutelare la condizione di donna e sostenere la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. In questa direzione si orientano l’implementazione di contratti a part-time, che riguardano il 53,7% dell’intero organico, la sperimentazione del contratto di job-sharing (lavoro condiviso), che consente a due o più dipendenti di assumere la stessa obbligazione lavorativa, e l’introduzione del telelavoro per quanto concerne il personale impiegatizio, come testimoniano le parole della portavoce aziendale:“per venire incontro alle esigenze delle lavoratrici abbiamo sperimentato il telelavoro e lo strumento del job sharing. Per quanto riguarda il telelavoro, che ovviamente riguarda il personale impiegatizio, siamo partiti con una delle nostre coordinatrici che segue la zona di Cesena: è stata installata la postazione di lavoro direttamente a casa, per cui per tutta la parte di registrazione di quella che è la sua attività, spostamenti, coperture di ferie, orari, ordini di prodotti, cose che lei normalmente avrebbe fatto in ufficio e che invece adesso svolge da casa connettendosi, ovviamente a spese della cooperativa, al server (..) Mentre il contratto tradizionale per il telelavoro è piuttosto rigido, stabilendo le ore precise in cui si deve lavorare, noi abbiamo scelto di non avere un controllo sull’attività della persona in termini 224 di rigidità di orario, ovviamente a fine mese la persona deve arrivare a dei risultati, e fino ad ora stiamo andando benissimo. Lo stesso tipo di attività ci piacerebbe realizzarlo per tutte le nostre coordinatrici, in modo che possano organizzarsi più liberamente e meglio la giornata. (..) Inoltre abbiamo applicato il job sharing in diverse occasioni, anche se il caso più particolare è quello di due lavoratrici, madre e figlia, che hanno entrambe contratti part-time e svolgono le pulizie all’interno del piccolo ospedale locale, hanno un contratto di questo tipo per cui autonomamente loro coprono il servizio gestendosi da sole, in modo molto familiare. Un altro esempio, quello più eclatante, è quello di San Sepolcro dove un gruppo di sette lavoratrici si organizza in completa autonomia, decidono i propri turni di lavoro liberamente, si sostituiscono in caso di necessità e sono contentissime” (dirigente). Ad un atteggiamento non discriminatorio nei confronti del personale di sesso femminile si coniuga un comportamento allo stesso modo non discriminatorio verso i lavoratori migranti, che rappresentano oggi circa l’8% dell’organico aziendale. Attualmente è in progetto la realizzazione di un corso di mediazione culturale, al fine di potenziare la loro capacità relazionale, di garantirne una maggiore integrazione ed una più facile comunicazione. Inoltre, per permettere ai lavoratori migranti di rientrare nel paese di provenienza e ricongiungersi con il nucleo familiare di origine la cooperativa ha introdotto la possibilità di usufruire di 4 settimane consecutive di ferie e per consentire loro una perfetta ricezione delle informazioni sulla sicurezza la cooperativa ha provveduto a stampare il fascicolo informativo sulla legge 626 in diverse lingue. D’altronde, un aspetto su cui l’azienda da sempre concentra il proprio impegno è quello della formazione, intesa quale momento di stimolo e crescita delle singole capacità professionali. Notevoli risorse sono state infatti investite nell’attività formativa, differenziata a seconda delle tipologie di attività svolte. Complessivamente le ore di formazione in aula nel 2003 sono state 2043, suddivise tra corsi sulla comunicazione, finalizzati al miglioramento dei rapporti tra i diversi livelli aziendali, soprattutto con il personale operativo, e rivolti a tutto il personale impiegatizio, i coordinatori, i 225 vice-coordinatori e la direzione aziendale; corsi sul nuovo software introdotto al fine di garantire una maggiore tempestività nelle elaborazioni necessarie all’azienda; corsi inerenti la sicurezza sul lavoro e rivolti prevalentemente ai neoassunti e agli operatori coinvolti in attività a maggior rischio; corsi dedicati all’aggiornamento e all’approfondimento per il personale tecnico-amministrativo. Ai corsi in aula si affianca l’attività formativa mirante all’apprendimento delle singole mansioni e del corretto utilizzo degli specifici prodotti e/o attrezzature, che “viene definita con l’affiancamento e l’addestramento da parte del coordinatore al lavoratore” (dirigente). L’attenzione rivolta alla formazione del personale, unita alla costante ricerca di nuovi e più confortevoli dispositivi di protezione (come il dispositivo per l’ancoraggio in fase di pulizia dei vetri) ed al ricorso ad innovativi sistemi di lavoro più ergonomici, ha contribuito a mantenere costante il numero di infortuni (159 nel 2002 e 160 nel 2003) nonostante l’aumento della popolazione aziendale: “rispetto ai tassi medi dell’INAIL per questo settore di attività siamo ampiamente al di sotto, questo significa che il nostro personale ha qualche vantaggio in più” (dirigente). In lieve diminuzione risulta inoltre la durata media dell’infortunio e quindi la gravità del danno subito: pari a 22,6 nel 2002 e scesa a 20,4 nel 2003. In estrema sintesi, la cooperativa dimostra nella gestione aziendale una discreta attenzione verso le esigenze dei lavoratori, riconosciuta da questi ultimi, come si evince chiaramente dalla testimonianza della delegata sindacale intervistata: “con loro si parla e si discute bene, magari le cose vanno ricordate e ribadite, comunque tutte le volte che ci sono dei problemi o delle esigenze si può parlare, i superiori sono contattabili direttamente. Si lavora meglio, con più soddisfazione e gratificazione, perché già il nostro è un lavoro faticoso, poco considerato da molti, per cui il fatto di essere ascoltati, di vedere che l’azienda cerca di venirti incontro e rendere il lavoro più agevole aiuta a lavorare più volentieri (..) Si può ancora migliorare ma già qui ci sono molti aspetti positivi” (delegata sindacale). 226 3.4.4. Il questionario. Principali risultanze L’analisi intende incentrarsi ora su quelle che paiono essere le principali risultanze emerse dalla somministrazione di un questionario (così come specificato nelle note metodologiche), teso a valutare le molteplici dimensioni della qualità del lavoro, ad un campione di 85 lavoratori della cooperativa, cifra corrispondente ad una percentuale pari al 10,2% dell’organico aziendale occupato nel contesto regionale. La composizione del campione sembra rispecchiare le principali caratteristiche del personale di Formula Servizi, in cui prevale un’occupazione femminile ed una qualifica operaia. Infatti, l’80% dei lavoratori coinvolti nell’indagine è di sesso femminile. Tra essi, inoltre, una quota pari al 71,8% è assunta con qualifica operaia (più precisamente il 61,2% come operaio generico e 10,6% come operaio specializzato) mentre il 20% con quella impiegatizia. Significativamente inferiori risultano invece le percentuali di lavoratori appartenenti alle categorie di quadro intermedio, tecnico altamente specializzato e dirigente, che raggiungono rispettivamente quote pari al 5,9%, all’1,2% ed ancora all’1,2%. Il 17,6% dei dipendenti interpellati è di nazionalità extracomunitaria, a conferma della discreta presenza di personale migrante all’interno della cooperativa. Per quanto concerne la distribuzione per classi di età, gli operatori del campione esaminato si collocano per la maggior parte nelle tre fasce di età superiori ai 26 anni, in particolare il 24,6% in quella compresa tra i 26 ed i 32 anni, il 37,6% in quella inclusa tra i 32 ed i 45 anni ed il 28,2% in quella superiore ai 46 anni, mentre solo l’8,2% ha un’età inferiore ai 25 anni. Considerando la variabile relativa al titolo di studio, si registra il prevalere di un livello medio di istruzione: il 42,4% dei soggetti coinvolti dichiara di aver conseguito il diploma ed, ancora, il 35,3% la licenza media, percentuali seguite da un 12,9% di dipendenti con licenza elementare, un 8,2% di lavoratori laureati ed un 1,2% di operatori privi di titolo di studio. Infine, relativamente alla tipologia contrattuale, predomina nettamente tra coloro che hanno compilato il questionario il lavoro a tempo pieno ed indeterminato, che raggiunge una quota pari al 91,8%, mentre risultano significativamente inferiori le percentuali 227 degli assunti con un contratto a part time e tempo indeterminato o a tempo determinato (rispettivamente il 4,7% e il 3,5%). Dalle valutazioni espresse nel questionario in riferimento alle dimensioni della qualità della vita lavorativa emerge un quadro affine a quello sopra tratteggiato: il livello di qualità del lavoro raggiunto nella cooperativa Formula Servizi appare abbastanza soddisfacente per gli operatori interpellati, come si evince chiaramente da una valutazione media complessiva di 3,34. In particolare, a pareri ampiamente positivi in merito agli aspetti concernenti le dimensioni ergonomiche (sia dell’ambiente che dell’intensità) ed organizzative, si affiancano giudizi di natura più critica in relazione a quelle economico-materiali e del controllo (i cui valori medi si attestano sul 3,19 e 3,04). Tab. 4. - Le dimensioni della qualità del lavoro. Dimensioni della qualità del lavoro Dimensione dell’autonomia Dimensione ergonomica/ambiente Dimensione ergonomica/intensità Dimensione della complessità Dimensione economica Dimensione del controllo Valutazione media complessiva Fonte: nostra elaborazione. Punteggio medio 3,59 3,57 3,35 3,32 3,19 3,04 3,34 Passando più in specifico all’analisi delle singole dimensioni considerate, emerge come la dimensione dell’autonomia, che registra una valutazione media di 3,59, soddisfi i lavoratori coinvolti nell’indagine soprattutto in riferimento alla gestione delle ferie (3,83), alla possibilità di assumersi responsabilità (3,73) e di prendere accordi direttamente con i colleghi (3,71). Opinioni, se pur positive, al di sotto del valore medio di dimensione vengono invece espresse in merito alla libertà organizzativa dei ritmi di lavoro (3,54), alle opportunità formative offerte per valorizzare la propria professionalità (3,51), all’accesso alle informazioni aziendali (3,44) ed infine alla gestione dell’orario di lavoro (3,37). 228 Nel caso della dimensione ergonomica relativa all’ambiente di lavoro, a buoni apprezzamenti mossi verso la luminosità del luogo di lavoro (4,02), la qualità delle tecnologie utilizzate (3,96) e l’assenza di radiazioni e assimilati (3,58), si affiancano giudizi più critici, comunque positivi, che constatano la presenza di vapori, fumi ed esalazioni (3,33), di polveri ed assimilati (3,27), nonché di rumori e vibrazioni (3,26). Mentre relativamente alla dimensione ergonomica concernente l’intensità del lavoro, gli indicatori che sembrano soddisfare maggiormente i lavoratori considerati riguardano l’organizzazione dei turni (3,78) e la flessibilità del lavoro (3,45). Più negativi, in quanto al di sotto del punteggio medio di 3,35, risultano invece i giudizi manifestati in merito alla fatica fisica (3,21), alla ripetitività e noiosità dei compiti (3,21) ed ancora alla fatica e stress cognitivo (3,08). In particolare, relativamente a questo aspetto occorre puntualizzare il fatto che il campione considerato svolge prevalentemente un lavoro di pulizia in grandi strutture socio-sanitarie, prestazione fisicamente pesante, intensa e non particolarmente varia, o un lavoro impiegatizio, anch’essa connotabile come attività ripetitiva e faticosa da un punto di vista prettamente cognitivo. Proseguiamo ora con l’analisi delle dimensioni che pur raggiungendo valutazioni positive si collocano al di sotto della media complessiva. Per quanto concerne la dimensione della complessità, la cui valutazione media si attesta attorno a 3,32, i maggiori apprezzamenti vengono evidenziati dagli operatori considerati in merito alle relazioni interpersonali intessute, sia con i capi e superiori (4,13) che con i colleghi (3,77), nonché al livello di condivisione della cultura aziendale e della politica posta in essere (3,65) ed al grado di soddisfazione derivante dal lavoro (3,45), confermando così le risultanze precedentemente esposte. Ottengono invece giudizi al di sotto del valore medio di dimensione, le variabili relative al riconoscimento del merito (3,11), della professionalità (3,05) e, soprattutto, alla scarsa varietà e ricchezza del lavoro (3,0), anche in considerazione della tipologia di attività svolta dai lavoratori interpellati, prevalentemente dediti a mansioni di pulizia o affini, 229 spesso considerate dall’ambiente circostante, riprendendo un’affermazione della delegata sindacale, “di serie b” e quindi scarsamente riconosciute e valorizzate. A destare maggiori livelli di insoddisfazione risultano infine la dimensione economico-materiale e quella del controllo, che raccolgono valutazioni medie pari a 3,18 e 3,04. In particolare, nel primo caso i dipendenti coinvolti nell’indagine giudicano positivamente le tutele di previdenza sociale garantite (3,88), provano un elevato senso di sicurezza relativo al mantenimento del posto di lavoro (3,96), avvalorato dalla solidità oggi raggiunta dalla cooperativa in oggetto, e si dichiarano partecipi economicamente ai risultati aziendali, aspetto riconosciuto prevalentemente dai soci lavoratori, per i quali, come riportato nelle pagine precedenti, è prevista una redistribuzione degli utili a titolo di ristorno. Al contrario le maggiori criticità si riscontrano in merito alle voci relative alla componente prettamente economica, quali la presenza di differenziali retributivi aziendali, il livello retributivo globale e la retribuzione legata all’anzianità, che raccolgono rispettivamente i punteggi medi negativi di 2,87, 2,45 e 2,19. Mentre in riferimento alla dimensione del controllo, gli aspetti che generano maggiori livelli di insoddisfazione sono ascrivibili ad una impossibilità di proporre modifiche alle tecnologie o strumenti di lavoro utilizzati, al prodotto-servizio ed al processo produttivo (i cui valori medi sono rispettivamente 2,89, 2,94 e 3,02), indicatori che raccolgono tra l’altro un più alto livello di non risposte soprattutto riconducibile al personale operaio, che d’altronde, anche in considerazione dell’attività svolta, non riconosce simili caratteristiche come proprie. Più positivi appaiono invece i giudizi manifestati in relazione alla possibilità di prendere parte alle decisioni concernenti il contesto di lavoro (3,18), nonché alla rappresentatività dei lavoratori nel sindacato (3,11) ed alla rappresentatività del sindacato in azienda (3,07). 230 5 3.5. Il caso Granarolo S.p.A 3.5.1. L’azienda Il marchio Granarolo nasce nel 1959 con la creazione del Consorzio Bolognese Produttori Latte. Da una prima fusione con la Cooperativa Felsinea Latte prende successivamente vita il C.e.r.p.l. – Consorzio Emiliano-Romagnolo Produttori Latte – che, attraverso una serie di piccole e grandi acquisizioni si estende nell’intero territorio regionale durante gli anni ‘70 e nel centro Italia e sul litorale adriatico nel decennio successivo. Una espansione che rende necessaria, agli inizi degli anni ‘90, una riorganizzazione dell’intero gruppo: il C.e.r.p.l, con il nome di Consorzio Granlatte, diviene così la “cassaforte” finanziaria, convogliando al suo interno tutta la rete di produttori di latte, mentre Granarolo S.p.a., concentrando gli aspetti produttivi e di mercato, diviene capogruppo industriale e commerciale di diverse società direttamente o indirettamente controllate, quali Sail S.p.a., Centrale del Latte di Milano, Calabrialatte S.p.a., Vogliazzi Specialità Gastronomiche S.p.a., Agriok S.p.a. e Centrale del latte di Vicenza. Il Gruppo Granarolo, definito la “centrale del latte d’Italia”, rappresenta oggi a livello nazionale uno dei principali leader del settore alimentare operanti nel comparto lattiero-caseario, con una presenza sul territorio di 10 stabilimenti produttivi, 40 centri distributivi diretti e 68 indiretti. Sul latte, attività core dell’intero gruppo rispetto a cui Granarolo detiene la leadership a livello nazionale, si concentra circa il 70% del giro d’affari, a cui si affianca una produzione nel settore caseario e gastronomico. L’analisi dell’andamento economico degli ultimi tre anni conferma la continua crescita ed espansione di Granarolo S.p.a.: un fatturato aumentato da 667 a 731 milioni di euro, un utile netto passato da un valore negativo a oltre 10 milioni di euro ed un valore aggiunto che da 123 arriva a contare quasi 150 milioni di euro; quest’ultimo, ripartito nel 2003 per il 77% ai collaboratori, il 6,5% all’interno dell’azienda, il 6% allo Stato e lo 0,5% sia ai soci azionisti che alla comunità locale. 231 Su un organico di oltre 1.300 dipendenti concernente l’intero Gruppo, inoltre, alla fine del 2003 la sola Granarolo S.p.a. conta 820 lavoratori, in incremento rispetto agli anni precedenti. In una prima descrizione socio-anagrafica, il 6,3% dei dipendenti ha una età inferiore a 25 anni, il 20% compresa tra 26 e 32, mentre circa il 44% si situa nella fascia di età compresa tra 33 e 45 anni ed il 30% oltre i 45 anni. Il 36% circa, inoltre, lavora in Granarolo da meno di 2 anni, il 24% da 3 a 5 anni ed il 50% dai 5 ai 10 anni. Per ciò che concerne il grado di istruzione, l’8% dei dipendenti possiede al massimo la licenza elementare, il 30% la licenza media, il 50% un diploma di scuola superiore e l’11% un diploma di laurea. Analizzando le qualifiche il 52% dei dipendenti sono operai, il 37% impiegati, il 6% quadri ed il 3,4% dirigenti. In una analisi di genere, successivamente, il 24% dei dipendenti sono di sesso femminile: in particolare, a livello dirigenziale si conta una donna su 28 e tra i quadri 7 donne su 52; il 64% delle donne, infatti, è inquadrata a livello di impiegata ed il 31% di operaia. Nell’organico di Granarolo S.p.a. ci sono inoltre 26 lavoratori migranti non comunitari, di cui due con la qualifica di impiegato e nove di operaio. Agli 820 lavoratori dipendenti sopra descritti, se ne aggiungono 133 con formule contrattuali differenti. Infatti, i dipendenti con contratto a tempo indeterminato rappresentano l’82% del totale collaboratori (percentuale che scende al 76% per le donne) ed i lavoratori con contratto part-time a tempo indeterminato il 3,7% (percentuale che sale all’11% per le donne); il 3,6% possiede invece un contratto a tempo determinato, il 6% interinale o di collaborazione e circa il 4% di formazione lavoro. Analizzando le assunzioni nel 2003, inoltre, su un totale di 150, più di un terzo sono avvenute con contratti a tempo indeterminato, concernendo ventidue donne (4 con contratti part-time) e 3 migranti. Il 10% delle assunzioni è avvenuto con contratti a tempo determinato, il 28% interinali, il 4% con collaborazioni ed il 19% con contratti di formazione. Al contempo, le cessazioni concernono 44 rapporti a tempo indeterminato (in 15 casi relativi a donne), 11 a tempo determinato, 42 interinali, due collaborazioni ed un contratto di formazione. Nel 2003, ancora, si sono registrati 68 passaggi di 232 livello, di cui 21 concessi al personale femminile. Infine, da rilevare un 57% di dipendenti iscritto al sindacato, con circa 6.200 ore di sciopero effettuate nel 2003. 3.5.2. La politica di responsabilità sociale La politica di responsabilità sociale adottata da Granarolo comincia a fare i suoi primi passi agli inizi degli anni ‘90 con l’elezione del Presidente Luciano Sita, definito dai dirigenti intervistati “la persona che ci crede, che ha trainato dietro di sé tutto il management su questi temi, su questi percorsi” (dirigente). Il Presidente, infatti, oltre ad aver coordinato e diretto la riorganizzazione del gruppo, ha condotto la politica aziendale contemporaneamente su due binari paralleli: “la rimodernizzazione del prodotto, quindi l’investimento sull’innovazione di prodotto, e l’altro è la valorizzazione delle risorse, nel tentativo di creare clima di appartenenza” (consulente esterno). E’ con l’introduzione dei cosiddetti “Laboratori di Creatività”, che nel concreto comincia a definirsi una politica di valorizzazione e partecipazione dei collaboratori: “gruppi - infatti - di miglioramento interni che coinvolgevano tutti, dall’addetto alla macchina al dirigente, facendoli partecipare ad un corso di creatività,grazie al quale loro dovevano sviluppare la loro creatività. Questi gruppi hanno portato a dei risultati concreti, dei progetti…” (consulente esterno). Negli stessi anni, inoltre, sempre cercando di promuovere la partecipazione dei dipendenti, vengono definite attraverso differenti modalità di coinvolgimento la mission aziendale e la bussola dei valori: gli otto valori chiave volti ad identificare e differenziare lo “stile” Granarolo. Un percorso che sfocia nel 1998 nella produzione del primo Bilancio Sociale e nell’organizzazione della prima Convention rivolta a tutti i dipendenti. I passi successivi compiuti da Granarolo sono andati soprattutto nella direzione di coinvolgere progressivamente ed in maniera sempre più sistematica i diversi stakeholder aziendali. E’ in quest’ottica, infatti, che vengono lanciate e portate avanti annualmente indagini di clima interno rivolte ai lavoratori, Consumer satisfaction audit su campioni di circa 500 consumatori, ma soprattutto un’indagine sull’opinione 233 degli stakeholder e dei workshop di valutazione e confronto tra il management aziendale ed i principali stakeholder (clienti, fornitori, banche, associazioni di difesa dei consumatori, istituzioni, ong., ..), volti a valutare la politica di Granarolo ed individuare possibili scenari futuri di intervento. Nel 2001, inoltre, il Bilancio sociale diviene Bilancio di sostenibilità (preventivo e consuntivo), integrando dunque gli aspetti economici, sociali ed ambientali nella politica aziendale. Lo stimolo di Coop, come cliente Granarolo, per l’adesione al suo codice di condotta applicato ai fornitori, ed il percorso descritto fino ad ora, portano infine alla adesione alla norma SA8000; una adesione, che si inserisce in un sistema preesistente di certificazione ambientale e di qualità applicato all’intera filiera, “dalla fattoria alla tavola del consumatore”, realizzato attraverso certificazioni ambientali (Iso 14001 ed Emas), del sistema di rintracciabilità di filiera (in conformità alla norma Uni 10939:01) e di filiera agroalimentare controllata. L’intero Gruppo Granarolo, infatti, possiede oggi 31 certificazioni, su quaranta massime che ne potrebbe ottenere. L’ultimo passo, nel dicembre 2004, si realizza con l’adozione di un codice etico e nella costituzione di un Ethical Officer volto a verificarne l’applicazione; tra gli obiettivi futuri, infine, l’idea di definire un bilancio preventivo pluriennale, “diciamo un piano triennale o biennale di sostenibilità, con degli obiettivi ben precisi, a cui poi seguano l’assegnazione di risorse, di tempi e di budget di spesa conseguenti” (dirigente). Rispetto ai fornitori, inoltre, sulla scia di Coop anche Granarolo ha adottato un codice di condotta contenente una serie di requisiti minimi relativi alla gestione del personale, avviando al contempo una serie di attività di controllo rivolte ai fornitori potenzialmente più critici; inoltre, le attività di sensibilizzazione si sono concretizzate nell’assunzione della certificazione SA8000 come criterio prioritario nella scelta di futuri fornitori. Strategia che ad oggi ha portato alla certificazione un unico fornitore: “la difficoltà principale – nota infatti un dirigente intervistato - è quella che ci rivolgiamo verso fornitori non di grosse aziende, e la piccola e media impresa ha difficoltà a innescare un processo a catena sui suoi fornitori, 234 soprattutto quei fornitori che sono semplicemente degli intermediari commerciali che hanno magari la fornitura all’estero, soprattutto nei paesi asiatici. Quindi hanno uno scarso, se non nullo controllo sulla fase di produzione, quindi dovrebbero garantire a Granarolo una conformità della catena di fornitura che di fatto non riescono a confermare perché non conoscono” (dirigente). Sono 1.941.000 euro, invece, i fondi destinati nel 2003 da Granarolo alla comunità: circa un quarto in attività di promozione sociale (premi e iniziative), il 20% in beneficenza ad enti non profit, il 13% come sponsorizzazioni ed il 38% in partnership con Onlus per la realizzazione di progetti sociali. Le associazioni a cui devolvere tali contributi vengono scelte attraverso un referendum tra i lavoratori del Gruppo; questi ultimi, ancora, scegliendo di versare singole offerte ad altre associazioni in detrazione alle loro buste paga, vedono raddoppiata la somma in beneficenza da parte di Granarolo. Rispetto all’ambiente, infine, Granarolo persegue una politica eco-sostenibile, attraverso il sistema di certificazione cui abbiamo già accennato, il bilancio di sostenibilità, ma anche puntando a “minimizzare l’impatto dei processi e dei prodotto, a rispettare i requisiti di legge in materia ambientale e ad introdurre nel mercato prodotti ideati e distribuiti in modo compatibile con l’ambiente”. Da rilevare, in quest’ottica, periodiche valutazioni dell’impatto ambientale dei processi e dei prodotti, l’introduzione della linea “Prima natura Bio” di agricoltura Biologica e la realizzazione del progetto “Lolagame”, volto a sensibilizzare, attraverso un videogioco, il mondo dell’infanzia al valore dell’agricoltura responsabile. L’attenzione per l’ambiente si concretizza inoltre nella ricerca di imballaggi riciclabili o biodegradabili ed in corsi di sensibilizzazione rivolti ai dipendenti: “ci hanno anche messo in condizione di tenere divisa la carta dalla plastica, ci hanno aggiornato e sensibilizzato anche nei comportamenti di tutti i giorni, come spegnere la luce quando si esce dall’ufficio, rispettare la raccolta differenziata … insomma ci hanno detto che i nostri comportamenti influiscono sull’impatto ambientale” (dirigente). Concludendo, al di là di alcune retoriche che caratterizzano oggi la responsabilità sociale e le politiche di partecipazione dei lavoratori, 235 ciò che appare significativo in Granarolo è il suo farsi promotore di un approccio di “filiera”, un modello di cooperazione tra allevatori e grande industria nell’ambito agro-alimentare: “questo tipo di scelta ha comunque orientato sempre l’azienda, dal punto di vista culturale, nel guardare sempre a una serie di soggetti, il non pensarsi da sola, e il non pensare di costruire il proprio valore sottraendolo a qualcun altro, ma cercando sempre delle opzioni concertate con gli altri attori della filiera. Questo adesso è diventato un modello che si cerca di governare anche allargando ancora di più la platea degli interlocutori, quindi mettendo dentro ambiente, le associazioni consumatori” (dirigente) Un approccio che, per Granarolo deve realizzarsi al contempo in relazioni improntate al confronto ed al dialogo con enti, istituzioni, allevatori ed agricoltori nelle differenti realtà locali in cui si trova ad operare: “non andiamo a colonizzare un territorio, ma cerchiamo di esportare un modello di filiera – dichiara un dirigente – (..) Molti allevamenti zootecnici magari non chiudono perché in un certo territorio noi abbiamo messo insieme gli allevatori, li abbiamo fatti diventare associati del Consorzio Granlatte. Prendendosi l’impegno di stare ai nostri standard di produzione, quindi di fare investimenti sulla loro azienda, in cambio hanno la possibilità di lavorare con un’azienda che dà loro certe garanzie in termini di remunerazione, in termini di crescita” (dirigente). 3.5.3. Qualità e sicurezza del lavoro Una prima valutazione della politica in tema di qualità del lavoro caratterizzante Granarolo, si può desumere andando ad analizzare le tipologie contrattuali utilizzate. Come riportato precedentemente, alla fine del 2003 il 14% dei collaboratori sono caratterizzati da formule contrattuali cosiddette “atipiche”. Nel corso dello stesso anno, inoltre, il 40% delle assunzioni sono avvenute con contratti diversi da quello a tempo indeterminato, con un forte utilizzo, in particolare, di lavoro interinale e di contratti di formazione-lavoro. I contratti a tempo determinato, nell’ottica delle dirigenza, vanno in particolare a ricoprire le esigenze di lavoro stagionale caratterizzanti la produzione di Granarolo, laddove, “solitamente tutti gli anni 236 cercano di richiamare le stesse persone, che quando si aprono posizioni hanno la precedenza. Di solito è quasi automatico, cioè l’offerta viene subito fatta a chi ha già lavorato, infatti negli ultimi anni non sono stati fatti colloqui di lavoro per assumere a tempo indeterminato operai non precedentemente già coinvolti” (consulente esterno). Mentre i contratti di formazione vengono gestiti dalla dirigenza come strumenti per testare, formare ed inserire successivamente a tempo indeterminato nuovi giovani collaboratori in azienda, il forte utilizzo di lavoro interinale appare legato ad altre dinamiche. In seguito a forti problemi di smaltimento di ferie e straordinari registrati negli ultimi anni rispetto ai lavoratori dipendenti, ed all’impossibilità di fermare la produzione soprattutto in determinati comparti produttivi, infatti, Granarolo ha optato per il ricorso al lavoro interinale come forma di sostituzione nei periodi estivi, festivi così come nel caso di picchi di produzione. Passando ad una analisi di genere dell’organico di Granarolo, dai dati quantitativi emerge una sottorappresentazione del personale femminile, legato, a parere della direzione, ad una offerta di lavoro prevalentemente di qualifica operaia, ma soprattutto a turni: “era vietato che le donne lavorassero nei turni notturni. (..) Da quando poi anche le donne, diciamo, possono tranquillamente lavorare, un po’ nel pastorizzato non c’è mai stata la richiesta, perché sono comunque dei turni un po’ svantaggiati rispetto a qui, al caseificio, dove comunque turni abbastanza .. , e in genere le donne non fanno proprio il turno notturno; al massimo, presto che arrivano, arrivano alle cinque” (dirigente). I dati sopra riportati mettono tuttavia in evidenza una certa sottorappresentazione delle donne anche ai livelli più elevati: lo 0,5% delle donne contro il 3,4% degli uomini è inquadrato in una qualifica di dirigente e il 3,5% delle donne contro il 6% degli uomini detiene la qualifica di quadro; le donne, infatti, nel 64% dei casi (contro il 37% degli uomini) hanno la qualifica di impiegate e nel 30% (contro il 52%) di operaie. Una sottorappresentazione, dunque, che sembra richiedere nel prossimo futuro una maggiore attenzione verso politiche o strumenti particolari volti ad una migliore conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita. 237 Andando ad analizzare nel merito le retribuzioni, in generale i collaboratori di Granarolo percepiscono mediamente una somma dell’11% superiore rispetto a quella stabilita dal contratto collettivo nazionale. Alla retribuzione di base si aggiunge inoltre un sistema premiante diversificato per livelli di inquadramento, ma rivolto soprattutto alle qualifiche più elevate: per i dirigenti, infatti, un sistema di incentivazione basato sulla redditività del gruppo, per i quadri incentivi legati al raggiungimento di determinati obiettivi, mentre per impiegati ed operai un salario variabile concordato di anno in anno assieme ai sindacati. Un dirigente, in particolare, con una retribuzione media lorda di 6.990 euro, percepisce una somma 4,7 volte più alta di un operaio, 3,9 volte rispetto ad un impiegato ed 1,9 volte ad un quadro. Entrando nel merito del clima aziendale, uno dei primi elementi messi in evidenza a più voci è, in positivo, l’informalità dei rapporti e di conseguenza la familiarità dell’ambiente di lavoro: “sostanzialmente una politica della porta aperta, perché non è insomma difficile raggiungere le varie persone” (dirigente). Una informalità che soprattutto per le mansioni impiegatizie, si riflette anche in un buon grado di autonomia e flessibilità degli orari di lavoro: “la familiarità dell’ambiente di lavoro, il fatto che qui si lavora abbastanza in un clima sereno, ecco, non vorrei dire poco controllo, però c’è poca fiscalità negli orari, ovvio, nei limiti delle otto ore, c’è abbastanza flessibilità a venire incontro al dipendente” (dirigente). La flessibilità oraria in entrata di un’ora introdotta per la categoria impiegatizia, non concerne naturalmente la maggior parte degli operai, inseriti all’interno di turni di lavoro che in determinati comparti produttivi vanno a coprire l’intero arco della giornata. Uno degli aspetti di maggiore insoddisfazione vissuto di collaboratori, invece, è legato alle scarse possibilità di avanzamento di carriera, intese in termini di prospettive di crescita e valorizzazione personale: “essendo noi un’azienda che deriva dal mondo cooperativa, c’è poco invece di costruzione di percorsi di crescita delle persone. Cioè non sono strutturati, o meglio, non sono strutturati come sarebbe opportuno per un’azienda di queste dimensioni. Questo soprattutto per quanto riguarda i ruoli 238 impiegatizi, cioè quello che avviene negli stabilimenti è più o meno ipotizzato, è tracciato, è previsto. Dai luoghi impiegatizi in su insomma c’è un po’ di disorientamento … nelle analisi precedenti, i valori negativi sono tutti quelli riguardanti la formazione, l’avanzamento di carriera, le prospettive di crescita, la valorizzazione, sono tutti valori al di sotto della media” (dirigente). Un aspetto su cui invece Granarolo ha lavorato molto negli ultimi anni, e che indubbiamente è stato influenzato dalla decisione di aderire a SA8000, concerne la formazione dei lavoratori. Da un lato, infatti, in tutto il gruppo Granarolo l’83% dei dipendenti, un po’ a tutti i livelli, è stato coinvolto in attività di formazione relativa a SA8000: “la prima formazione – come spiega la dirigenza - in assoluto è stata fatta a tutti, mettendo in aula insieme dal dirigente all’addetto, non so, un’ora e mezza di formazione su SA8000. Poi c’è stato un secondo passaggio che è stata la formazione mirata” (consulente esterno). Formazione che ora si sta cercando di estendere anche rispetto alle tematiche inerenti il codice etico. Dall’altro, al di là dell’aspetto etico ed informativo relativo alla norma SA8000, la formazione è stata prima di tutto formazione in materia di salute e sicurezza. La decisione di aderire ed adeguarsi ai diversi standard previsti dalla norma, infatti, ha reso prioritarie due differenti tipologie di interventi in tale ambito: “primo elemento: copertura al 100% della formazione salute e sicurezza, perché la gente precedentemente non era formata in modo adeguato e tempestivo. Si era fatto il grosso della formazione nel 1996, poi qualcuno era stato un po’ più fortunato ed era stato coinvolto anche successivamente, ma a scaglioni casuali, a macchia di leopardo, in funzione di a chi fosse delegato il controllo della sicurezza per quello stabilimento (..) Bene, secondo elemento: infrastruttura. Si sono proprio messi a posto gli stabilimenti: quindi grossissimo lavoro di rimodernamento degli stabilimenti, dall’aggiornamento della segnaletica alla revisione di tutti i sistemi antincendio, alla messa a norma delle scale, proprio da un punto di vista infrastrutturale (..). E poi anche l’arredamento è stato migliorato, quindi anche internamente sono state sostituite tutte le sedie che non erano a norma, sono stati cambiati tutti i video. Sono state effettuate 239 le prove antincendio, di evacuazione. Perché c’erano sedi presso le quali non erano mai state effettuate le prove di evacuazione, e sono state effettuate dappertutto. Diciamo che negli ultimi tre anni hanno lavorato al 100% su questo tema” (consulente esterno). Interventi a livello formativo e strutturale, dunque, che si rispecchiano, per ciò che concerne il solo stabilimento di Bologna, in un numero di incidenti sul lavoro stabile attorno alle 30 unità, ma in una diminuzione rispetto agli anni precedenti del loro indice di frequenza e di gravità. A questo proposito, da rilevare come nel 2003, sempre nella sede di Bologna, si siano dedicate oltre 10.000 ore alla formazione, coinvolgendo circa 2.000 lavoratori. Un altro aspetto della politica di Granarolo che, nell’ottica dirigenziale, appare influenzato in maniera positiva dall’adesione alla norma SA8000, concerne la questione della comunicazione interna, dell’informazione e partecipazione dei lavoratori. Anzitutto, infatti, subito dopo aver ottenuto la certificazione, nelle diverse sedi aziendali sono state messe in atto procedure per eleggere i Rappresentanti dei lavoratori SA8000 ed un “portavoce” dei rappresentanti: “la scelta è stata quella, nonostante la norma non ci obblighi in questo senso, di nominare un rappresentante per ciascun stabilimento o filiale. Ci siamo poi dati dei criteri, non so, la filiale che presenta più di dieci dipendenti, si prevedeva l’elezione di un rappresentante, mentre per filiali molto piccole, non so, inferiori a dieci, o comunque è possibile trovare filiali con due dipendenti soltanto, abbiamo scelto un unico rappresentante che le accorpasse un po’, in genere” (dirigente). Anche se fino ad ora non è stato realizzato, annualmente è previsto che il responsabile del sistema di gestione SA8000 riunisca tutti i rappresentanti dei lavoratori per la SA8000 per informare ed aggiornare i lavoratori sulla normativa, sulle principali novità e dare l’opportunità a ciascuno di scambiare pareri ed esperienze. La certificazione e l’elezione dei rappresentanti SA8000 a cui rivolgere segnalazioni, hanno in ogni caso, a parere della dirigenza, innalzato sotto diversi punti di vista le aspettative dei lavoratori. Il primo anno le segnalazioni hanno infatti superato la centinaia, attestandosi attorno alla quarantina nel 2004: “normalmente, poiché 240 l’azienda si portava dietro comunque un approccio di etica e responsabilità sociale intrinseca ai suoi comportamenti, queste operazioni non fanno altro che alzare il livello delle aspettative, per cui ci si aspetta che l’azienda, in quanto autodichiarantesi etica, sia quella che risolve qualunque tipo di problema del dipendente. Quindi in questo modo l’azienda si è posta in qualche modo come punto di riferimento per tutto ciò che erano anche segnalazioni che non avevano attinenza con l’SA8000. Adesso c’è una situazione di stabilizzazione. Mi sembra insomma che la gente abbia capito a cosa può servire” (dirigente). Segnalazioni principalmente inerenti al tema della salute e della sicurezza, che non sempre passavano attraverso il neoeletto Rappresentante dei lavoratori, giungendo come in passato direttamente alla dirigenza. Come nota un dirigente, infatti, “SA8000 ha più che altro accelerato un iter che magari sarebbe stato un po’ più lento. Quindi ci sono più persone che ‘punzecchiano’, e quindi il problema viene risolto diciamo più celermente” (dirigente). A fianco dei Rappresentanti dei lavoratori, inoltre, dal 2005 Granarolo ha introdotto un nuovo strumento di ascolto rivolto ai lavoratori. L’entrata in vigore, infatti, del codice etico, ha comportato anche la costituzione di un Ethic Officer: “quindi, praticamente, ci saranno questi due strumenti che potranno in qualche modo rispondere, e attraverso i quali si potrà convogliare il proprio vissuto aziendale, o tutto ciò che si ritiene non allineato ai criteri etici che ha dato l’azienda” (dirigente). Aspetti che, nell’ottica del portavoce dei rappresentanti hanno creato “un migliore dialogo tra chi dirige e chi opera”, anche attraverso la creazione di diversi strumenti periodici di informazione rivolti ai collaboratori. In allegato alla busta paga dei dipendenti viene infatti distribuito Granarolonews, un mensile di informazione a diffusione interna del Gruppo Granarolo. E’ stato inoltre attivato un portale intranet e sono stati organizzati incontri con lavoratori o convention tra dirigenti in occasione della presentazione del bilancio o del codice etico. L’aspetto più significativo, tuttavia, per favorire la partecipazione dei lavoratori, sembra far riferimento al progetto “cantieri”: “gruppi di 241 lavoro che stanno ridefinendo i processi di business, ciascuno con la propria funzione, proprio ridisegnando l’azienda. Va da alcuni impiegati, non tutti, ai quadri e ai dirigenti. Sono gruppi di lavoro, sono 17-18, ciascuno composto da quattro o cinque persone; quindi coinvolgono ottanta persone, alla fine. Quindi resta comunque una fetta, per quanto importante, perché, non tutte le aziende quando ridefiniscono i processi di business chiamano le loro persone a lavorarci direttamente. Magari lo fanno con i consulenti, varano il piano di riorganizzazione, decidono dove tagliare, dove mettere, cosa fare e basta, e gli altri si adeguano. Qui invece sono le persone che sono artefici del cambiamento della loro area. Questo non vuol dire che siamo nella democrazia totale economica. Abbiamo dei meccanismi di democrazia economica interni, che però investono sempre una quota di persone; non si può pensare che questa sia un’azienda con una grossa autogestione, dove ognuno decide quello che vuole” (dirigente). 3.5.4. L’indagine di clima: alcune risultanze Anche nel 2005 Granarolo ha effettuato un’indagine di clima volta ad indagare, nell’intero Gruppo Granarolo, percezioni e valutazioni dei lavoratori dipendenti relativamente alle caratteristiche distintive attribuite all’Azienda ed al livello di applicazione dei valori. I dati emersi, confrontabili con le risultanze dell’anno precedente, sono stati pubblicati sul numero di maggio del 2005 di Granarolonews, ed inviati tramite busta paga all’insieme dei dipendenti. In particolare, nel 2005 l’indagine ha coinvolto il 35% dei lavoratori; percentuale che si stanzia al 41% considerando la sola sede di Bologna. L’analisi della composizione del campione per categorie professionali, evidenzia, a livello di gruppo, una sovrarappresentazione delle qualifiche più elevate, laddove i quadri corrispondono al 45,3% del totale dei rispondenti, gli impiegati al 43,2%, gli operi al 27% ed infine i dirigenti al 25%. Entrando nel merito, e confrontando le risultanze relative alla percezione del clima interno con quelle dell’anno precedente, si registra una diminuzione dei giudizi positivi dal 45 al 30,1%, ed un 242 conseguente aumento delle valutazioni negative dal 16 al 26% e di quelle indifferenti (dal 40 al 43,6%). Tale dato, disponibile anche per la singola sede di Bologna, evidenzia proprio in tale stabilimento la maggior incidenza di giudizi negativi (28,4%), registrando inoltre un 29,1% di giudizi positivi ed un 41% di indifferenti. Un clima destinato inoltre a peggiorare nelle previsioni del 29% dei dipendenti dell’intero gruppo Granarolo; per il 34%, invece, non si registreranno variazioni nel prossimo futuro, mentre solo il 18,5% prevede un miglioramento. Anche in questo caso i “pessimisti” si concentrano nella sede di Bologna, con una percentuale del 34,3% nettamente superiore al 17,4% di “ottimisti”. Nonostante queste valutazioni, circa il 65% di soggetti intervistati (contro un 73,7% del 2004) si immagina ancora in Granarolo tra due anni, inserito nella medesima area di lavoro; il 18,1% (contro il 12,2% dell’anno precedente) potendo scegliere rimarrebbe in Granarolo, ma in un’area operativa differente. Per ciò che concerne, successivamente, l’immagine trasmessa dall’azienda al suo interno, Granarolo è anzitutto “prestigiosa” e “leader di mercato” (con un giudizio per entrambi gli items di 4 punti su 5), attenta alla salvaguardia dell’ambiente (3,7), dinamica (3,4) ed innovativa (3,3); meno positivi, invece, i giudizi in merito alle garanzie offerte per il futuro (3,1), alla correttezza (3,0), ma soprattutto al dialogo con i dipendenti (2,4). Confrontando i dati correnti con gli stessi punteggi emersi nell’indagine di clima del 2002, vengono inoltre in evidenza trend positivi rispetto ad attributi quali la dinamicità (+0,2), il prestigio (+0,2); andamenti piuttosto stabili si registrano invece per ciò che concerne la capacità di instaurare dialogo con i dipendenti e l’attenzione rivolta alla salvaguardia dell’ambiente, mentre, in lieve diminuzione, si trovano i giudizi relativi all’essere leader di mercato, alla correttezza (entrambi diminuiti dello 0,1), all’innovazione (-0,2), ma soprattutto alle garanzie offerte per il futuro (-0,3). Infine, a partire dall’analisi combinata di una settantina di items, è stata ricostruita la percezione dei collaboratori della cosiddetta “bussola dei valori” di Granarolo. E’ l’etica, in particolare, con un valore del 73%, a ricevere maggiori consensi, seguita dallo “spirito di 243 squadra” e dal “clima positivo”, entrambi con un valore del 69% relativo alla valutazione delle relazioni tra colleghi, al loro carattere informale e liberale. Se sullo stesso piano troviamo la “crescita personale”, considerata in termini di talento e spirito di iniziativa, valori significativamente minori si registrano rispetto alla “crescita professionale” (58%), attribuita dagli intervistati “maggiormente agli sforzi messi in campo personalmente dai singoli individui piuttosto che ad un impegno sistematico profuso dall’azienda”. Al penultimo posto, con un giudizio del 57%, la dimensione della “partecipazione”, valutata soprattutto rispetto al livello di comunicazione interna; infine, la dimensione “creatività ed innovazione”. Le risultanze dell’indagine di clima sembrano dunque confermare le considerazioni emerse precedentemente nei termini di una certa insoddisfazione per le scarse garanzie offerte ai dipendenti, per ciò che concerne le possibilità di avanzamento di carriera o di crescita professionale; se viene confermato, inoltre, un clima informale e positivo caratterizzato da “spirito di squadra” tra colleghi, in controtendenza con le considerazioni precedenti emergono invece i giudizi rispetto al carattere partecipativo della politica di Granarolo. 6 3.6. Il caso T&D S.p.a. 3.6.1. L’azienda Con la sede legale a Castel Maggiore in provincia di Bologna ed una sede operativa a Roma, T&D s.r.l. nasce nel 2001 come società partner di Performer, azienda attiva nell’area della progettazione e realizzazione di sistemi informativi integrati. Divenuta S.p.a. nel 2004, T&D si caratterizza per l’offerta di servizi di assistenza tecnica rivolti soprattutto alla Pubblica Amministrazione. In particolar modo, l’azienda si specializza infatti nell’ambito delle politiche attive del lavoro, offrendo servizi di supporto alla programmazione ed attuazione di politiche pubbliche, di ricerca e analisi nell’ambito sociologico, economico e statistico, di progettazione e gestione di banche dati e call center, di valutazione delle attività finanziate con contributi comunitari e di realizzazione di sistemi integrati per il controllo di gestione, la privacy, la qualità e SA8000. In quattro anni di attività, T&D annovera così tra i suoi principali clienti le Regioni 244 Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Campania, le Province di Terni, Pisa, Forlì-Cesena e Pistoia, e diversi istituti di formazione professionale. T&D, inoltre, già certificata dalla fine del 2003 per il Sistema Gestione Qualità in base alla norma Uni En Iso 9001:2000, da giugno 2004 ottiene anche la certificazione del suo Sistema di Responsabilità Sociale, in conformità alla norma SA8000:2001. Considerando i bilanci di esercizio dal 2000 al 2003, T&D si presenta oggi come una realtà aziendale giovane, ma in forte crescita. Il fatturato evidenzia infatti un aumento da 63.000 euro ad oltre 2.300.000 euro e l’utile netto da circa 1.700 euro a quasi 70.000 euro; il valore aggiunto, registrato per la prima volta nel 2003 e pari a circa 45.000 euro, è stato interamente ridistribuito tra soci ed azionisti. Nel descrivere la struttura e l’organico aziendale di T&D S.p.a., troviamo anzitutto il consiglio di amministrazione composto dai due azionisti di riferimento, a cui spettano le decisioni in ambito strategico, e da un Comitato Organizzativo, con compiti più operativi, cui fanno parte quattro dipendenti con contratto a tempo indeterminato ed un lavoratore autonomo con partita Iva. Considerando la sola sede di Bologna T&D conta 29 collaboratrici e 18 collaboratori. Complessivamente, ed in maniera piuttosto equilibrata rispetto al genere, solo cinque lavoratori hanno un contratto a tempo pieno ed indeterminato corrispondente alla qualifica impiegatizia; dei restanti, infatti, nove hanno un rapporto di lavoro a tempo determinato e 23 di collaborazione a progetto o con Partita Iva. Andando a descrivere l’insieme dei lavoratori, inoltre, la quasi totalità possiede un diploma di laurea e solo sei persone il diploma di scuola superiore; rispetto all’età, cinque lavoratori hanno meno di 25 anni, trentuno, un’età compresa tra i 26 e 32 anni e 11 superiore ai 33 anni, ma inferiore a 45. Considerando che T&D è nata nel 2001, e nonostante il forte utilizzo di contratti a termine, infine, da rilevare come 35 soggetti collaborano con l’azienda da oltre tre anni e solo 12 da meno di due anni, mettendo in evidenza, quindi, una relativa stabilità nei rapporti di lavoro. 245 3.6.2. La politica di responsabilità sociale La certificazione SA8000 appare nel percorso di T&D uno strumento volto a formalizzare determinate attività ed una sensibilità che T&D metteva in atto da tempo soprattutto nei confronti dei suoi collaboratori. La decisione di aderire a tale norma, infatti, è nata ed è stata realizzata principalmente in ambito direttivo, laddove il rappresentante SA8000 dei lavoratori dichiara di aver collaborato “abbastanza”, definendo tuttavia la certificazione una scelta “quasi esclusivamente della direzione” che è andata a confermare “una sensibilità un pochino maggiore” rispetto ad altre aziende. Nell’ottica della direzione, ancora, SA8000 rappresenta un valore aggiunto che le pubbliche amministrazioni apprezzano ed apprezzeranno sempre più in futuro: “da una parte diventa un fattore competitivo e dall’altra, secondo la politica che ha questa direzione, fa la differenza ..” (dirigente). Nel rapporto con i fornitori la certificazione non sembra infatti aver apportato dei grossi cambiamenti, anche se la dirigenza ha sviluppato delle procedure per monitorare la loro capacità di soddisfare i requisiti posti dagli standard SA8000, esercitando al contempo attività di sensibilizzazione nei confronti dei propri fornitori. Rispetto alla comunità, invece, l’attenzione di T&D si limita ad attività di beneficenza verso alcune organizzazioni non profit; oltre ai premi di produttività non ridistribuiti ai lavoratori, l’azienda destina infatti annualmente una quota di utile a due associazioni scelte di volta in volta dalla direzione stessa, e comunque non legate nello specifico al proprio territorio di riferimento. Rispetto all’ambiente, infine, l’attenzione di T&D si realizza attraverso la raccolta differenziata di carta e toner. 3.6.3. Qualità e sicurezza sul lavoro Da una prima analisi dei dati sopra riportati emerge un forte utilizzo di contratti di lavoro a termine o di collaborazione. La variabilità dell’attività economica, legata ad una realtà presente da pochi anni sul mercato, ma soprattutto ad una sostenibilità vincolata a bandi ed appalti con determinate scadenze temporali, è nella visione della dirigenza la principale motivazione del ricorso a tali tipologie 246 contrattuali: “l’unica motivazione per cui non siamo in grado di assumere le persone a tempo indeterminato è perché a nostra volta abbiamo delle scadenze di mandati, ad esempio abbiamo dei progetti che durano due o tre anni ed oltre a questo arco temporale non riusciamo ad andare” (dirigente). La dirigenza pare tuttavia consapevole delle problematiche legate all’utilizzo di contratti “atipici”, puntando, attraverso delle specifiche integrazioni contrattuali, a contraddistinguersi da quello che è un uso indiscriminato e strumentale dei contratti a termine. Da un lato, infatti, la valorizzazione delle risorse umane in termini di formazione e accrescimento delle competenze come processo fondamentale e necessario per offrire servizi adeguati e di qualità in un settore in continua evoluzione è estesa alla totalità dei collaboratori; dall’altro, l’acquisizione di competenze sembra andar oltre alla mission aziendale, puntando ad un coinvolgimento dei collaboratori su progetti diversi, e quindi ad un arricchimento del loro curriculum e delle loro esperienze professionali: “la nostra politica è quella di far lavorare le persone su più progetti per aumentare le competenze, ed è molto impegnativo per una persona però assicura una crescita e soprattutto permette di acquisire più competenze, quindi anche per la persona stessa è un investimento” (dirigente). Punto più significativo che contraddistingue la politica di T&D, in un processo di responsabilizzazione nei confronti dei propri dipendenti, è tuttavia l’introduzione di alcune tutele aggiuntive per gli stessi collaboratori a progetto. Cercando di parificare tali formule contrattuali con quelle a tempo indeterminato, infatti, oltre a garantire alcune tutele fondamentali quali malattia, ferie, congedi matrimoniali, pre e post parto retribuiti, dal 2004 T&D stipula per ogni collaboratore una assicurazione privata integrativa volta a fornire una copertura completa per le malattie più gravi, ma anche delle spese medico sanitarie sostenute in caso di controlli preventivi e periodici presso le strutture convenzionate con la compagnia assicuratrice stessa. Dal 2005, inoltre, per dipendenti e collaboratori a progetto è prevista l’erogazione di buoni pasto per ogni giornata lavorativa effettivamente svolta. 247 Tutele che, dal punto di vista dei lavoratori, attutiscono determinate problematiche legate all’individualizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro, ma che rimanendo ancorate alla temporalità dei rapporti di lavoro non riescono comunque a garantire la sicurezza e la stabilità da molti ricercata. Come dichiara il Rappresentante dei lavoratori per SA8000 infatti, “la stabilità gioca un ruolo importante nel tempo, ed anche ciò che ti viene riconosciuto al di fuori dal lavoro. Con un contratto come il nostro nel caso specifico di questa Azienda sei anche abbastanza tutelato, ma quando vai al di fuori i problemi cominciano a sorgere in maniera assolutamente evidente. Ad esempio quando vai a chiedere un credito di 2000 euro per comprarti un motorino, e ti viene rifiutato perché hai questo tipo di contratto” (rappresentante lavoratori SA8000). Un altro punto significativo che va a definire la politica e l’approccio di T&D, è la volontà di rendere più chiari e regolamentati per gli stessi collaboratori i differenti profili aziendali, e quindi i passaggi di carriera ed i livelli retributivi corrispondenti: da junior di primo, secondo e terzo livello, a senior di primo, secondo e terzo livello, equivalente alla figura dirigenziale. Livelli a cui corrispondono determinate competenze e caratteristiche, ed un tempo minimo di inquadramento necessario per l’accesso al livello superiore, che tuttavia non riescono a sfuggire completamente alla logica dell’individualizzazione dei contratti di lavoro. Soprattutto a livello retributivo, infatti, a partire da determinati range corrispondenti ai vari livelli, si va ad aggiungere una contrattazione individuale legata al profilo specifico ed alle esperienze precedenti della persona. A fianco della retribuzione di base facente riferimento al contratto collettivo nazionale del commercio, è stato inoltre introdotto un sistema premiante collegato ad ogni singolo progetto per un valore, di norma, pari all’1,5% del fatturato finale; premio che viene ridistribuito tra i lavoratori coinvolti nel progetto indipendentemente dal loro contratto a fronte del raggiungimento di determinati obiettivi prefissati, o che in alternativa viene destinato sotto forma di beneficenza ad alcune associazioni di volontariato. I premi aziendali ed altri eventuali bonus, inoltre, vengono accreditati dalla fine del 2004 in una carta di credito ‘etica’ prepagata che T&D ha fornito a 248 tutti i suoi lavoratori, in modo tale da devolvere una percentuale di ogni commissione ad alcune associazioni di volontariato prescelte. Per ciò che concerne il livello di autonomia accordato ai collaboratori, pur variando naturalmente a seconda dei singoli livelli, a parere della direzione è piuttosto elevato rispetto alle altre realtà aziendali: “dal terzo livello senior in su è richiesto un livello di autonomia molto alto, secondo me più alto della media delle aziende, e questo è dovuto anche al fatto che non abbiamo una direzione che è sempre presente in Azienda, e quindi ti trovi costretto a prendere decisioni quotidianamente per poter svolgere la tua attività” (dirigente). Aspetto, questo, confermato dal rappresentante dei lavoratori, che apprezza l’ampia autonomia decisionale lasciata ai lavoratori rimarcando piuttosto un’assenza della dirigenza in alcuni momenti: “non ho particolari pressioni, anzi, se ti devo dire la mia, in certi casi è anche troppo assente” (rappresentante lavoratori SA8000). L’ampia autonomia decisionale non pare tuttavia riflettersi in un’autonomia gestionale concernente orari, ritmi o gestione di ferie e permessi, nemmeno per ciò che concerne i collaboratori a progetto. Tali aspetti, infatti, a prescindere dal tipo di contratto, variano fortemente a seconda degli specifici progetti in cui il collaboratore è inserito. Anche escludendo mansioni quali gli addetti ai call center, dove naturalmente presenza e reperibilità sono ancorate all’orario di fornitura del servizio, in generale almeno il 70% delle attività richiedono la presenza fissa in ufficio, vuoi per software specifici disponibili solo nei terminali interni, vuoi per riunioni o incontri con il gruppo di lavoro. La possibilità, nel tempo restante, di lavorare da casa, è inoltre legata alla necessità dei collaboratori di rendersi sempre reperibili attraverso il cellulare, comunicando la loro operatività o meno. Settimanalmente, inoltre, indipendentemente da ruolo o contratto di lavoro, ogni lavoratore deve rendicontare le giornate di lavoro svolte. La regolamentazione interna di ritmi ed orari di lavoro è dunque piuttosto rigida anche per gli stessi collaboratori a progetto, laddove non solo quasi sempre è richiesta la presenza in sede, ma la stessa possibilità di usufruire di permessi o giorni di ferie varia molto a 249 seconda dei progetti in cui di volta in volta si è coinvolti: “se si prende una o due giornate di permesso all’interno di una settimana, non succede niente. L’unico fatto è che bisogna concordarlo prima a livello di organizzazione di lavoro tra il team (rappresentante lavoratori SA8000). Per ciò che concerne la retribuzione di straordinari, ancora, laddove spesso i contratti di collaborazione sono annuali computando 220 giornate lavorative, è prevista la possibilità di pagare le giornate aggiuntive attraverso delle integrazioni contrattuali. Passando ad un’analisi della politica aziendale rispetto alle dimensioni della qualità e della sicurezza del lavoro, T&D sembra porre attenzione non solo alla questione della sicurezza, adeguando i propri locali alle normative vigenti e prevedendo corsi di formazione in materia, ma anche agli aspetti ergonomici ed estetici dei luoghi di lavoro. Ad oggi, infatti, non si sono verificati infortuni sul lavoro, laddove i rischi sono più che altro legati all’utilizzo dei videoterminali, definiti dalla direzione “di ultima generazione” oltre che “dotati di schermo piatto a protezione della vista” (dirigenza). In questa realtà come in molte altre, infine, ad un forte utilizzo di contratti di collaborazione si associa l’assenza di una rappresentanza sindacale in azienda, aprendo considerazioni da parte degli stessi lavoratori su quelle che sono le difficoltà di rappresentanza connesse ad una contrattazione sempre più individualizzata: “questo tipo di contratto non favorisce, non si viene a creare l’esigenza, nel senso che è un contratto che ha nei limiti quello di una contrattazione molto individuale/individualistica” (rappresentante lavoratori SA8000). In questo senso, l’introduzione di un rappresentante dei lavoratori per ogni singola sede prevista da SA8000, è stata interpretata dai lavoratori come una necessaria chiarificazione dei meccanismi e delle figure di riferimento a cui rivolgere determinati reclami: “ho l’impressione – dichiara una collaboratrice di T&D - che ci siano dei meccanismi più formali che possiamo usare per essere ascoltati, se ci sono per esempio dei problemi o dei reclami .. adesso formalmente possono essere portati avanti.. nel senso che (prima) 250 non sapevi bene da chi poter andare per reclamare qualche cosa, e invece adesso si stanno chiarendo maggiormente le funzioni e le figure a cui riferirsi” (collaboratrice). Il percorso aziendale di adeguamento alla norma SA8000, inoltre, è coerente con lo svolgimento di analisi periodiche del clima aziendale; analisi che T&D ha deciso di effettuare annualmente, discutendone i risultati collettivamente tra lavatori e direzione. In seguito alla certificazione, ancora, ai lavoratori sono stati messi a disposizione nelle ore d’ufficio, locali dove svolgere delle riunioni interne. Ad oggi sono state svolte tre riunioni, con una partecipazione che nell’ultimo caso ha raggiunto circa una ventina di persone, dove tuttavia, a parere del rappresentante SA8000, le discussioni ed i reclami vertono esclusivamente su condizioni e problematiche inerenti il rapporto di lavoro. 3.6.4. Il questionario. Principali risultanze Il questionario finalizzato a raccogliere le valutazioni dei lavoratori della T&D sulle cinque dimensioni della qualità del lavoro, ha coinvolto un campione di 17 soggetti. Se non per una minima sovrarappresentazione di intervistati di sesso maschile (9 su 17), le caratteristiche del campione rispecchiano la precedente descrizione relativa alla totalità dei collaboratori: i soggetti coinvolti, infatti, si collocano principalmente nella fascia di età tra i 26 e 32 anni e sono in possesso di un titolo di laurea; per ciò che concerne l’inquadramento, inoltre, sono stati raggiunti due quadri e 15 impiegati, di cui 3 con contratto a tempo indeterminato, uno a tempo determinato e 13 con contratti di collaborazione. Le risultanze, inoltre, sembrano confermare le considerazioni sopra riportate, evidenziando un grado di soddisfazione generale molto elevato, giudizi molto positivi rispetto agli aspetti ergonomici del luogo di lavoro, l’autonomia decisionale e tutela della salute, ed un po’ meno positivi rispetto alla questione della sicurezza del posto di lavoro o della rappresentanza, connessi all’utilizzo di determinate formule contrattuali. Considerando, infatti, la valutazione delle cinque dimensioni individuate per definire la qualità del lavoro, in 251 generale è emerso un valore medio più che soddisfacente, pari quasi a 3,5. La dimensione ergonomica riferita alla qualità dell’ambiente riceve, confermando la volontà espressa dalla direzione, il giudizio complessivo più positivo (4,05), in particolare rispetto alla luminosità (4,18) ed all’assenza di rumori, vibrazioni o polveri (4,06); il valore inferiore registrato all’interno di questa classe, relativo alla qualità delle tecnologie (3,94), ottiene comunque una valutazione molto positiva e superiore alla media complessiva. Confermando le risultanze precedenti, inoltre, particolarmente positivo si conferma anche il giudizio concernente la dimensione dell’autonomia (3,81), in particolar modo rispetto alla possibilità di prendere accordi direttamente con i colleghi (4,35) e di assumersi responsabilità (4,06). Al di sotto della media della singola dimensione, ma comunque con giudizi positivi, si situano infatti solo le valutazioni concernenti l’aggiornamento e la formazione (3,53), l’accesso alle informazioni aziendali (3,53) e la possibilità di gestirsi le ferie (3,29). 252 Tab. 5 - Le dimensioni della qualità del lavoro. Dimensioni della qualità del lavoro Dimensione ergonomica/ambiente Dimensione dell’autonomia Dimensione della complessità Dimensione ergonomica/intensità Dimensione economica Dimensione del controllo Valutazione media complessiva Punteggio medio 4,05 3,81 3,66 3,45 2,93 2,91 3,46 Per ciò che concerne la dimensione della complessità, al terzo posto tra i giudizi complessivi espressi con un valore medio pari a 3,66, molto positive sono le valutazioni relative ai rapporti con colleghi e datori di lavoro (4,24 e 4,18); attorno alla media la soddisfazione ricavata dal proprio lavoro ed il riconoscimento del merito e della professionalità, mentre con valori inferiori, ma sempre piuttosto positivi, la varietà del lavoro (3,35), la condivisione di una cultura aziendale (3,35) e le prospettive future di carriera (3,29). Analizzando successivamente la dimensione ergonomica relativa all’intensità del lavoro, e considerando che la maggior parte delle mansioni sono di tipo impiegatizio, non sorprende che a partire da un giudizio medio piuttosto positivo di 3,44, i valori più elevati si riscontrino rispetto alla fatica fisica richiesta per svolgere il lavoro (4,0), mentre i valori inferiori rispetto alla ripetitività dei compiti (3,06) ed allo stress congnitivo (3,12). Infine, solo la dimensione economica e quella del controllo presentano dei valori complessivi che pur positivi si situano al di sotto della media. Rispetto alla prima, in particolare, si confermano le considerazioni sopra riportate, vale a dire un apprezzamento della retribuzione globale (3,18), ma giudizi meno positivi rispetto alla partecipazione economica ai risultati (2,82) ed alla sicurezza di mantenere il posto di lavoro (2,59). I valori in generale più bassi si registrano tuttavia nella dimensione del controllo, con una media generale ancora positiva e poco inferiore a 3. Se piuttosto elevati sono i giudizi attorno alla possibilità di proporre modifiche nel processo produttivo (3,47) e nei servizi 253 erogati (3,18), così come sulla possibilità di partecipare alle decisioni concernenti il contesto di lavoro (3,18), più bassi, ed unici due valori negativi nel complesso degli items analizzati sono la rappresentatività del sindacato nell’impresa (2,08) e dei lavoratori nel sindacato (2,23). 7 3.7. Alcune riflessioni conclusive sugli studi di caso Tracciare conclusioni trasversali alle cinque realtà aziendali indagate significa prima di tutto essere consapevoli che la diversità riconducibile alle loro dimensioni, ai settori di inserimento ed alla natura giuridica aziendale, si rispecchia in politiche di responsabilità sociale che pur rifacendosi ai medesimi valori etici o sociali si concretizzano in modalità e pratiche differenti. I cinque casi osservati, infatti, scelti, come già specificato, a partire da un campione costruito sull’adesione alla norma SA8000 e operanti nel contesto territoriale emiliano-romagnolo, mettono anzitutto in evidenza la multidimensionalità delle politiche di responsabilità sociale, così come il loro carattere complesso ed “in itinere”; laddove ciò che sembra possibile valutare sono quell’insieme e quella coerenza di pratiche, in un percorso fatto di ostacoli quotidiani, di contraddizioni ed incongruenze, e spesso anche di scelte che solo a lungo temine mostrano risultati concreti. La stessa certificazione SA8000, infatti, appare in generale una tappa significativa, volta tuttavia a riconoscere e formalizzare un impegno precedente; un impegno che pare ricollegarsi nei casi analizzati ad una sensibilità particolare verso tematiche etiche e sociali, all’adozione di strumenti di rendicontazione volti ad integrare gli aspetti economici con quelli sociali ed ambientali, ed a precedenti sistemi di certificazione etica e di qualità. Un percorso, ancora, portato avanti con ritmi e tempi diversi nelle singole realtà osservate, e teso a declinarsi con peso differente nelle varie dimensioni della responsabilità sociale di impresa. Dall’analisi dei casi, infatti, per Chicom.iga S.p.a. la politica di responsabilità sociale risulta essere particolarmente mirata alla valorizzazione delle risorse umane concernente gli investimenti nel capitale umano, nella salute e sicurezza dei lavoratori. 254 Di fronte ad una realtà complessa e variegata come il sistema Coop, invece, si riscontra indubbiamente una forte attenzione, in linea con la sua natura cooperativa, alla tutela dei diritti dei soci e dei consumatori, del loro potere di acquisto così come della loro salute e sicurezza. Centrale, inoltre, anche l’attenzione dedicata ai soggetti più deboli, all’ambiente ed alla comunità in generale. Soprattutto sul versante “esterno”, infatti, il percorso di responsabilizzazione sociale intrapreso da Coop Adriatica sembra aver imboccato la strada giusta; un percorso, tuttavia, che potrebbe forse svilupparsi ed arricchirsi attraverso un ulteriore coinvolgimento dei propri stakeholder, interni ed esterni. Formula Servizi, dal canto suo, sembra mostrare un vivo interesse per una gestione coerente con i principi dell’etica e della solidarietà. La politica di responsabilità sociale si declina in questa particolare realtà sia all’interno, verso i soci ed i dipendenti, con l’attivazione di meccanismi di partecipazione ai profitti, l’investimento nella formazione e nel miglioramento della salute-sicurezza delle risorse umane impiegate e l’implementazione di strumenti a favore dei soggetti deboli, sia verso l’esterno, come testimonia l’attenzione rivolta alla tutela dell’ambiente ed al miglioramento del contesto sociale nel suo complesso. Granarolo, ancora, appare portatrice di un approccio di filiera attento alla qualità, all’ambiente ed ai contesti sociali in cui si trova ad operare. I limiti del percorso intrapreso “verso la sostenibilità”, infatti, si riscontrano forse sul versante “interno”, laddove una politica più attenta alle categorie deboli ed alla conciliazione tra tempi di vita di lavoro, potrebbe forse rendere più efficaci gli stessi strumenti di partecipazione introdotti. Significativo, in ogni caso, il coinvolgimento progressivo e sistematico degli stakeholder esterni. La politica di responsabilità sociale di T&D, infine, appare orientata soprattutto sul versante interno, vale a dire alla gestione dei collaboratori e ad una valorizzazione delle risorse umane in termini di formazione e di tutele aggiuntive. In uno sguardo di insieme, dunque, le realtà più piccole paiono declinare maggiormente le politiche di responsabilità sociale verso l’interno, mentre processi di coinvolgimento sempre più sistematici e 255 periodici dei vari stakeholder, uno sviluppo rispettoso dell’ambiente e del territorio, ed un’attenzione, quindi, all’impatto ambientale dei propri prodotti e processi, pare caratterizzare maggiormente le realtà di grande dimensione (responsabilità sociale verso l’esterno). Significativo, tuttavia, nei cinque casi studiati, è rilevare, a fianco di una centralità assegnata a temi quali la qualità, la formazione, la salute e sicurezza dei lavoratori, l’adozione di alcuni strumenti innovativi volti a coinvolgere maggiormente i lavoratori, ma soprattutto a mettere al centro le loro esigenze e la loro soddisfazione sul luogo di lavoro. Il riferimento, infatti, va all’adozione di nuove formule contrattuali, ad azioni positive volte a conciliare tempi di vita e di lavoro, all’attenzione dedicata alle categorie più deboli ed al tentativo di attivare politiche di partecipazione dei lavoratori alle decisioni ed agli utili aziendali; il riferimento va, ancora, a quelle politiche che, attraverso l’inserimento di tutele e dispositivi aggiuntivi, cercano di attenuare quei processi di frammentazione e di individualizzazione nell’attuale contesto di trasformazione del mercato del lavoro. Politiche e strumenti significativi che non sono certo privi di rischi e di contraddizioni e che, considerando la forte e rapida variabilità dei contesti, abbisognano di processi di monitoraggio continui, permanenti e flessibili, di cui forse solo un continuo processo di coinvolgimento e confronto con i vari stakeholder interni ed esterni può garantirne la coerenza. Come nota in conclusione un dirigente coinvolto nell’indagine, infatti, possiamo chiamare questi processi di “responsabilità sociale, etica, o comunque governo delle relazioni e dell’impresa, ma il punto resta sempre quello. Cioè senza avere un approccio multilaterale, che tenga conto di tutti i soggetti che sono investiti, secondo me non si va avanti. Prima o poi i nodi vengono al pettine, e per qualcuno sono già venuti”. 8 4. Conclusioni Diverse ragioni, al di là delle normative previste, inducono le imprese odierne ad adottare comportamenti etici. A volte è la sensibilità della proprietà o del management che compie le proprie scelte sulla base di 256 principi morali superiori; altre volte è la pressione esercitata dai consumatori e dagli investitori che modificano il proprio comportamento sulla base di valutazioni relative ai comportamenti delle imprese. Altre ancora è un modo per l’azienda di distinguersi da quelle realtà che negli ultimi anni si sono imposte agli onori della cronaca per la loro condotta “irresponsabile”. Resta il fatto che il perseguire obiettivi di profitto, imprescindibili per qualsiasi impresa, deve sempre più coniugarsi con la considerazione degli interessi di tutte le “parti coinvolte”, con l’attenzione alle problematiche sociali ed ambientali su cui l’impresa esercita la propria influenza e con l’equità dei criteri di distribuzione della ricchezza. Un sotto-sistema economico (l’impresa) dunque pienamente “embedded” (incorporato) nel sotto-sistema sociale al quale non può non fare riferimento. Parallelamente va diffondendosi la consapevolezza che il governo dell’impresa secondo principi etici non è solo una cosa “giusta” ma è anche una cosa “utile” per garantire redditività e sviluppo nel lungo periodo. Per ottenere ciò non è sufficiente formalizzare principi o ottenere apposite certificazioni ma occorre che a tali elementi si associno il riferimento a valori condivisi in grado di qualificare le prassi gestionali e le azioni quotidiane in un contesto economico-produttivo caratterizzato da elevata complessità e crescenti margini di incertezza. A questo occorre affiancare strumenti di auto-valutazione e sistemi di rendicontazione che, in base al principio di trasparenza, permettano all’opinione pubblica di verificare la corrispondenza fra i valori e gli obiettivi enunciati ed il loro effettivo rispetto. Il comportamento etico diviene, così, una nuova modalità di governo dell’impresa che implica da un lato l’assunzione di responsabilità riguardo agli effetti generali delle proprie scelte e dall’altro l’apertura di un dialogo ed un confronto continuo - e qui forse sta la maggiore difficoltà - con una ampia platea di soggetti a diverso titolo interessati. 257 Appendice Breve descrizione delle aziende del campione non coinvolte negli studi di caso Autolinee dell’Emilia S.p.a. Autolinee dell’Emilia S.p.a è la principale società di trasporto pubblico su gomma nel territorio reggiano, con una rete di servizi urbani ed extraurbani. Certificazioni: oltre a SA8000 possiede la certificazione di qualità Iso 9001:00. Fatturato, utile e valore aggiunto: ha un fatturato che pur in lieve diminuzione negli ultimi tre anni oscilla attorno ai 19.000.000 di euro, un utile netto di circa 5.000 euro ed un valore aggiunto di quasi 14.000.000 di euro. Collaboratori: su un totale di 252 lavoratori, dieci sono donne. Per il 53% essi si collocano nella fascia di età tra i 33 e 45 anni, per il 30% oltre i 45 anni e solo il 14% ha un’età inferiore ai 32 anni. Pochi sono infatti i lavoratori assunti in azienda da meno di 5 anni, mentre il 35% è presente già da 5 a 10 anni, il 28% da 11 a 20 anni, ed il 30% da oltre vent’anni. Qualifiche e contratti: il 94% dei lavoratori è assunto con la qualifica di operaio e solo il 5% con quella impiegatizia. La retribuzione media lorda corrispondente alla categoria dirigenti è 4,8 volte superiore rispetto a quella corrisposta agli operai, 4,2 volte superiore rispetto agli impiegati e 2,6 rispetto ai quadri. Inoltre, quasi la totalità dei dipendenti (96%) ha un contratto a tempo pieno ed indeterminato, mentre 7 persone fra cui 5 donne hanno un contratto part-time. Due donne, ancora, hanno un contratto di formazione lavoro. Nel corso del 2003 non vi è stata alcuna nuova assunzione, mentre otto dipendenti a tempo pieno ed indeterminato sono usciti dall’organico e 26 soggetti hanno usufruito di un passaggio di livello. Formazione: 24 è il numero di ore medie di formazione per dipendente, ed un unico corso è stato organizzato nel 2003 su tematiche etiche o sociali. Sindacalizzazione: il 70% dei lavoratori è iscritto ad un sindacato. Il numero di ore di sciopero, notevolmente diminuito rispetto al 2002, si attesta attorno alle 1.800 nel 2003. Sicurezza: fra il 2000 e il 2003 gli incidenti sul lavoro sono aumentati, passando da 21 a 28; è tuttavia diminuito il loro grado di gravità. Bolzoni S.p.a. Bolzoni S.p.a. nasce nel 1945 a Piacenza, specializzandosi nella produzione di attrezzature per carrelli elevatori, piattaforme elevatrici e transpallet manuali. Nel tempo Bolzoni S.p.a. si espande a livello internazionale, creando filiali dirette in Francia, Spagna, Inghilterra e negli Stati Uniti, oltre che una rete di distributori in tutta Europa e nel resto del mondo. Nel 2001, in seguito 258 all’acquisizione della ditta finlandese Auramo Oy, Bolzoni S.p.a. crea il gruppo Bolzoni-Auramo, oggi uno dei maggiori produttori mondiali di attrezzature per carrelli elevatori. Il Gruppo, infatti, detiene cinque stabilimenti produttivi a livello internazionale, 13 filiali dirette, un organico di circa 550 persone ed un fatturato di circa 80 milioni di euro. Certificazioni: nel 1994 consegue la certificazione del Sistema di Qualità Iso 9001; nel 2003 Bolzoni S.p.a. è la seconda azienda metalmeccanica in Italia ad ottenere la certificazione del Sistema di Responsabilità Sociale secondo le norme SA8000:2001 e, sempre nel 2003, la certificazione En-729-2 relativa alla qualità della saldatura. Fatturato, utile e valore aggiunto: Bolzoni S.p.a ha un fatturato che negli ultimi tre anni si aggira attorno ai 50.000.000 di euro, un utile netto che, invece, in diminuzione si stanzia attorno a 1.150.000 euro ed un valore aggiunto piuttosto stabile attorno ai 19.000.000 di euro. Collaboratori: sui 550 dipendenti del gruppo Bolzoni-Auramo circa 250 fanno parte di Bolzoni S.p.a. Il 20% ha un’età compresa tra i 26 e i 32 anni, il 50% tra i 33 ed i 45, ed il 24% oltre i 45 anni. Nonostante l’età media piuttosto elevata, un 40% è alle dipendenze della società da meno di 5 anni, il 22% da 5 a 10 anni, ed un 36% da oltre 11 anni. Il livello di istruzione dei dipendenti è per il 65% al massimo di licenza media, mentre il 33% è diplomato e solo il 4,8% laureato. Contratti e qualifiche: l’organico della Bolzoni S.p.a è costituito da 6 dirigenti, 91 impiegati e 146 operai; le donne, rappresentando quasi il 20% dell’organico, sono quasi equamente distribuite tra ruoli impiegatizi ed operai. Quasi la totalità dei dipendenti è assunta con contratto a tempo pieno ed indeterminato, 2 uomini e 4 donne con un contratto part-time. Le altre formule contrattuali sono pressoché irrilevanti. Nel 2003, tuttavia, osservando le assunzioni si registra un utilizzo di formule contrattuali diversificato. Su 33 nuove assunzioni, solo 7 sono avvenute con contratto a tempo pieno ed indeterminato, mentre 10 persone hanno usufruito di contratti a tempo determinato (successivamente trasformati a tempo indeterminato), 13 di contratti interinali e 2 di formazione lavoro. Su 19 cessazioni di lavoro, inoltre, 14 concernevano lavoratori a tempo pieno ed indeterminato, 5 lavoratori a tempo determinato, 12 contratti interinali ed un contratto di formazione lavoro. Nel corso del 2003, inoltre, si sono registrati trenta passaggi di livello, di cui 7 riconosciuti a personale femminile e 4 a lavoratori extracomunitari. Per ciò che concerne la retribuzione, infine, i dirigenti percepiscono in media uno stipendio 3,31 volte superiore rispetto agli operai e 2,16 volte maggiore rispetto agli impiegati. Formazione: 10 è il numero medio di ore di formazione per dipendente, 8 considerando unicamente le donne e 6 rispetto ai lavoratori extracomunitari; tre è il numero di corsi organizzati su tematiche etiche o sociali. Sindacalizzazione: il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori a tempo determinato è diminuito negli ultimi 3 anni dal 42 al 37,5% e le ore di sciopero da 4.000 a circa 2.800. 259 Qualità e sicurezza: il livello di turnover è passato in un anno dal 10,37% all’8,13% ed il livello di assenteismo registra un tasso del 3,88%. Per ciò che concerne gli incidenti sul lavoro, essi sono in notevole diminuzione nei tre anni considerati, così come in diminuzione è il loro grado di gravità. Comunità locale: nel corso del 2003 Bolzoni S.p.a. ha devoluto 11.000 euro in attività di beneficenza, per la sponsorizzazione di iniziative sociali e per il sostegno di progetti umanitari in paesi in via di sviluppo. Fondazione Aldini Valeriani La Fondazione Aldini Valeriani, ente di formazione e consulenza, nasce nel 1997 in seguito ad una serie di riflessioni avanzate dal Comune e dalle associazioni imprenditoriali bolognesi. Opera principalmente sul territorio comunale e regionale, proponendo servizi di supporto e consulenza, attività corsuali e progetti formativi personalizzati per aziende, Pubbliche Amministrazioni e privati. Certificazioni: la Fondazione ha ottenuto la certificazione SA 8000:2001 ed Uni En Iso 9001 per la progettazione ed erogazione di servizi finanziati di ricerca, orientamento e formazione professionale nonché per l’erogazione di attività formative a diretta richiesta aziendale o interaziendali a mercato.. Risulta, inoltre, un Centro di formazione accreditato dalla Regione Emilia Romagna. Qualifiche e contratti: l’ente ha 15 dipendenti, di cui 12 (pari all’80%) di sesso femminile. Tra essi dodici lavoratori (9 donne e 3 uomini) sono assunti con la qualifica di impiegato, solo due lavoratrici con quella di operaio ed una lavoratrice con quella di dirigente. Per quanto riguarda la tipologia contrattuale, la maggior parte del personale, una percentuale pari all’87%, ha un contratto a tempo pieno ed indeterminato, mentre solo il 13% (ossia 2 lavoratrici) ha un contratto a tempo determinato. Completano l’organico 30 lavoratori a progetto o collaboratori occasionali, di cui 19 di sesso femminile. Nel corso del 2003 vi sono state sei cessazioni contrattuali riguardanti esclusivamente lavoratori a progetto/collaboratori occasionali ed un’unica nuova assunzione con contratto a tempo determinato. Formazione: il numero medio di ore di formazione realizzato durante l’anno 2003 per dipendente è pari a 5. L’attività formativa è stata finalizzata alla creazione di competenze trasversali utili per l’attività lavorativa (comportamento organizzativo e project management), nonché alla sensibilizzazione dei lavoratori sul D. Lgs. 626/94 e sui rischi derivanti dall’uso dei videoterminali. Un unico corso è stato organizzato nel medesimo anno su tematiche sociali e/o etiche. Sicurezza: nessun infortunio sul lavoro è avvenuto nel 2003, dato che dimostra un miglioramento delle condizioni di salute dei lavoratori rispetto all’anno precedente quando si era verificato un incidente della durata di 90 giorni. Linea Sterile S.p.a. 260 Linea Sterile S.p.a. è un’azienda di Gatteo operante nel settore della lavanderia industriale, fornitrice di servizi a favore di strutture sanitarie. In particolare, si occupa di dotare i presidi ospedalieri di tutto il materiale tessile necessario alla normale attività (i dispositivi tessili per i reparti di degenza, per la vestizione e la protezione del personale medico e paramedico e dei dispositivi medici sterili per l’allestimento del campo operatorio) e ripristinarlo quotidianamente attraverso un servizio integrato di noleggio, ricondizionamento e logistica dei dispositivi tessili e di quelli medici sterili, effettuato tramite il ritiro del materiale ed un processo di lavaggio, disinfezione, sanitizzazione e sterilizzazione dei dispositivi usati e riutilizzabili, nonché consegna del materiale e gestione dei guardaroba o dei depositi all’interno delle strutture sanitarie. Certificazioni: oltre ad aver conseguito la certificazione in conformità con la norma SA8000:2001, l’azienda ha realizzato un sistema di gestione integrato in materia di qualità, ambiente e sicurezza del lavoro (in base alle norme Uni En Iso 9001:2000, Uni Cei En Iso 13488:2002 e Uni En Iso 14001:1996). In quest’ottica si è dotata di un audit etico ed un bilancio sociale, entrambi verificati da enti esterni. L’attenzione rivolta alla dimensione etico-sociale è in parte dimostrata dalle attività a sfondo collettivo poste in essere nel 2003, consistenti in sponsorizzazioni ad iniziative pubbliche, donazioni benefiche e contributi alla ricerca per un totale di circa 58.868 euro. Fatturato, utile e valore aggiunto: l’azienda ha raggiunto nel 2003 un fatturato di 9.846.990 di euro, in graduale aumento rispetto agli anni precedenti (9.520.721 di euro nel 2002 e 9.088.264 di euro nel 2001). Nel lasso di tempo considerato risultano ugualmente in crescita l’utile netto, che nel 2003 si stazia attorno a 330.789 euro, e il valore aggiunto, che nello stesso anno ammonta a 4.106.950 di euro. Collaboratori: l’organico di Linea Sterile al 31 dicembre 2003 è costituito da 137 operatori, prevalentemente di sesso femminile (110 operatrici, pari all’80%). La maggior parte dei lavoratori si colloca nella fascia di età compresa tra i 33 ed i 45 anni che raggiunge una percentuale pari al 59%, seguita dalla classe successiva (il 20% ha un’età superiore ai 45 anni) e da quella immediatamente precedente (il 17% ha un’età compresa tra i 26 ed i 32 anni), mentre solo 6 lavoratori si situano nella classe di età compresa tra i 18 ed i 25 anni. Relativamente alla anzianità media degli operatori, si riscontra una distribuzione piuttosto equa nelle varie categorie inferiori ai 20 anni: infatti, il 26% dei lavoratori è assunto da meno di 2 anni, il 23% da un periodo compreso tra 3 e 5 anni, il 26% da un periodo compreso tra 5 e 10 anni ed il restante 25% da un periodo compreso tra 11 e 20 anni. Considerando invece la variabile relativa al titolo di studio, la maggioranza dell’organico, pari al 63%, ha conseguito la licenza media, mentre quote significativamente inferiori il diploma superiore o solo la licenza elementare (rispettivamente il 29% e l’8%). 261 Qualifiche e contratti: significativo è l’utilizzo di contratti a part-time, che riguarda 89 lavoratori (pari al 65%) di cui 86 di sesso femminile. Tra i restanti dipendenti, 24 sono assunti con un contratto a tempo pieno e indeterminato, 20 con un contratto a tempo determinato e 4 con altre tipologie contrattuali non specificate. Più in particolare, il 91% del personale è assunto con la qualifica di operaio, mentre solo il 7% con quella di impiegato ed il 2% con quella di quadro. La retribuzione di questi ultimi presenta una maggiorazione del 19% rispetto a quella degli impiegati, del 38% rispetto a quella degli operai full-time e del 45% rispetto a quella degli operai part-time. Nel corso dell’anno 2003 si sono avute 35 assunzioni, 11 uscite e 23 passaggi di livello che hanno riguardato principalmente personale femminile (il 91%). Sindacalizzazione: nel 2003 risulta iscritto al sindacato il 78% dell’organico, in aumento rispetto agli anni precedenti in cui si registravano tassi di sindacalizzazione del 67% nel 2001 e del 76% nel 2002. Il numero di ore di sciopero si attesta attorno alla decina. Sicurezza: dal 2001 il numero di incidenti sul lavoro è diminuito, passando da 15 a 10 infortuni, così come si è ridotto il loro grado di gravità. Luigi Bormioli S.p.a. La vetreria “Ingegner Luigi Bormioli” nasce a Parma nel 1946 per dedicarsi alla produzione e commercializzazione di flaconi in vetro per la profumeria. Dal 1973 ha esteso la produzione ad articoli per la casa, presentando oggi 15 diverse linee produttive. Fin dal 1985 comincia a rivolgersi anche al mercato internazionale, che oggi rappresenta i tre quarti del suo fatturato. Ha oltre 900 dipendenti. Certificazioni: è certificata Iso 9001 dal 1996 (oggi Iso 9001:2001 Vision) e SA8000 dal 2003. L’azienda non ha reso la scheda di rilevazione compilata, e non sono quindi disponibili ulteriori informazioni. Mollificio Fratelli Ballotta S.r.l. Il Mollificio F.lli Ballotta opera dal 1959 a Calderara di Reno in provincia di Bologna con una produzione di molle utilizzate in un’ampia gamma di settori civili e industriali, rivolta prevalentemente al mercato nazionale. Certificazioni: dopo aver ottenuto nel 1996 la certificazione del sistema di qualità Uni En Iso 9002, nel 2001 il Mollificio Ballotta diviene la prima azienda italiana del settore metalmeccanico certificata SA8000, ottenendone il rinnovo nel 2004. Nel corso della sua attività ha ricevuto diversi premi per la qualità dei suoi prodotti, tra i quali la targa d’oro decennale 1968-1978 ed il premio nel 1998 entrambi per qualità e cortesia. Il mollificio Ballotta ha inoltre redatto un codice etico e il Bilancio SA8000. Quest’ultimo contiene sia indicazioni di principio 262 contro l’utilizzo di lavoro minorile, discriminazioni di genere, religione o nazionalità, che alcune linee di condotta concernenti l’azienda ed i lavoratori. Fatturato, utile e valore aggiunto: ha un fatturato che si stanzia attorno a 1.346.000 euro ed un utile netto di circa 1.600 euro. Collaboratori, qualifiche e contratti: ha un totale di 13 dipendenti, prevalentemente nella fascia di età tra i 33 e 45 anni, con una anzianità media di circa 11 anni; di questi, uno ha la qualifica di dirigente, due donne hanno la qualifica di impiegate, 10 di operai (di cui quattro donne). Impiegati ed operai hanno la medesima retribuzione lorda. In particolare, l’azienda aderisce al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro stipulato tra UnionMeccanica-Confapi e Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil, applicando tuttavia una retribuzione oraria di media superiore rispetto a quella prefissata. In base a quanto dichiarato nel Bilancio SA8000, inoltre, l’azienda si prefigge come obiettivo, laddove possibile, il non ricorso a straordinari e l’utilizzo, a fianco di contratti a tempo indeterminato, di soli contratti di apprendistato o formazione-lavoro con l’effettivo obiettivo futuro di inserimento nell’organico. Attualmente, infatti, tutti i dipendenti sono assunti con contratto a tempo pieno ed indeterminato. Formazione: nel Bilancio SA8000 l’azienda dichiara di dare centralità alla formazione dei suoi dipendenti, organizzando annualmente corsi di aggiornamento anche sulla norma SA8000 e su tematiche etiche. Tre è il numero di ore di formazione medio per dipendente nel 2004. Sindacalizzazione: la quasi totalità dei lavoratori è iscritta al sindacato, con un numero di ore complessivo di sciopero pari a 412 totale nel corso del 2003, relative a scioperi di livello nazionale. Sicurezza: nel 2003 sono avvenuti due incidenti sul lavoro, con una durata media di 4,5 giorni. Comunità locale: nel 2003 il Mollificio Ballotta non ha destinato risorse alla comunità locale. Piacenza ‘74 S.c.a.r.l. Piacenza ‘74 S.c.a.r.l. è una cooperativa di abitazione costituita nel territorio piacentino nel 1974. Si tratta di un’impresa, a responsabilità limitata, formata da cittadini associatisi per realizzare insieme immobili da assegnare a sé stessi in proprietà o in godimento, a condizioni più favorevoli di quelle presenti sul mercato e finanziandone la costruzione, almeno in parte, con i propri risparmi. Fin dalla sua fondazione, infatti, l’obiettivo prefissato dalla cooperativa è stato quello di acquistare terreni, costruire, permutare e ristrutturare fabbricati o porzioni di essi, da assegnare in proprietà divisa o indivisa, anche a mezzo di contratto di locazione, con patto di futura vendita, senza fine di lucro, avvalendosi di tutte le disposizioni di legge a favore dell’edilizia economica e popolare. In trent’anni la cooperativa ha raccolto circa 6.200 soci, di cui 2.700 attivi e realizzato oltre 2.000 alloggi. 263 Certificazioni: Piacenza ‘74 ha intrapreso un percorso verso la qualità e la responsabilità sociale con l’adozione di un sistema di gestione integrato Iso 9001 e con l’adesione allo standard internazionale SA8000. Non avendo la cooperativa restituito la scheda aziendale compilata, non sono disponibili ulteriori informazioni. Technogym Technogym è un’azienda leader nel mondo nella produzione di attrezzature per il fitness e la riabilitazione biomedica, fondata nel 1983 a Gambettola. Oggi il gruppo Technogym impiega circa 1.000 collaboratori diretti in Italia e all'estero, la cui età media è di 29 anni, e conta 10 filiali, dislocate in tutto il mondo (USA, Gran Bretagna, Germania, Francia, Benelux, Spagna, Portogallo, Asia, Giappone ed Italia). Esporta oltre l'80% della produzione in più di 60 paesi. Certificazioni: l’azienda, da sempre impegnata a promuovere il benessere delle persone e lo sviluppo del territorio, alla fine del 2000 si è dotata di un sistema di gestione per la qualità, aderendo alla norma Iso 9001. In linea con questa sua politica, nel 2003 ha conseguito le certificazioni del Sistema di Responsabilità Sociale, in conformità con lo standard internazionale SA8000, e del Sistema di Gestione Ambientale (S.G.A.), secondo i requisiti della norma Uni En Iso 14001. Inoltre, la coerenza e l'impegno costante dimostrato anche in ambito interno, verso il proprio organico, promuovendo un clima di lavoro positivo, ha portato nel 2003 al riconoscimento internazionale di “Great Place to Work”, in base al quale Technogym entra fra le prime aziende italiane ed europee per la qualità dell'ambiente di lavoro. L’azienda non ha reso la scheda compilata, pertanto non sono disponibili ulteriori informazioni. 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Questa premessa è necessaria per sciogliere alcuni dubbi che potrebbero sorgere, soprattutto in ambito accademico, quando si tratta di “accogliere” l’ergonomia come vera scienza autonoma, con paradigmi e obiettivi propri, alla stregua delle già affermate e autorevoli scienze umane, biomediche e politecniche che la sostengono e le consentono di esistere. Durante il recente conferimento, da parte dell’Università di Bologna, della laurea ad honorem in psicologia a Jean-Claude Sperandio (uno dei più importanti studiosi europei di ergonomia), sono emerse dalla sua lezione dottorale considerazioni teoriche ed operative estremamente interessanti sulle attività umane, da studiare e gestire nel loro proprio contesto /1/. Attraverso il suo concetto di “ergonomia situata” presuppone, infatti, che tanto le attività fisiche quanto le attività mentali debbano essere studiate efficacemente solo nei luoghi reali di lavoro, nella loro quotidianità e, soprattutto, attraverso il coinvolgimento dei lavoratori. Si tratta di un criterio che va oltre un semplice approccio metodologico perché sottende una teoria in sé, nella misura in cui fornisce gli orientamenti per stimolare la costruzione di paradigmi di ricerca specifici, in grado di evidenziare meccanismi e rapporti di causalità già sperimentati 267 nell’ambito di ciascuna disciplina di riferimento. Il legame che si stabilisce fra competenze non è sufficiente per valutare e capire il lavoro: occorre coinvolgere le persone che operano nei diversi contesti organizzati per dar voce anche a quel “senso comune” che, in questi casi, non va stigmatizzato come superficiale o incoerente rispetto ai materiali di prova forniti dalle teorie più affermate. L’ergonomia rivendica così il suo diritto di cittadinanza in un contesto scientifico dove le discipline che si occupano di salute, sicurezza e performance (dalle politecniche, alle biomediche e psicosociali) non sono in grado di produrre, in autonomia, una sintesi conoscitiva dell’intero sistema lavorativo. Al contrario, il suo modello concettuale articolato e flessibile si pone l’obiettivo di capire le dinamiche complesse che condizionano la qualità del lavoro, a partire dalla centralità della persona, attraverso varie tecniche di misura e strumenti di valutazione oggettiva e soggettiva. In particolare, le buone pratiche per prevenire o ridurre il rischio di “errore umano”, applicate alla progettazione di sistemi e processi lavorativi, contribuiscono a contrastare il timore, spesso manifestato dagli ingegneri, circa la presunta fragilità dell’uomo all’interno di una rete di sicurezza. A fronte di decisioni che agiscono su una sola variabile, tentando di sostituire la persona con qualche componente tecnico considerato più affidabile, viene contrapposta la possibilità di percorrere più strade per valorizzare appieno il fattore umano. Se da un lato occorre agire a livello di qualità e quantità della mansione, di adeguamento delle postazioni lavorative, di presentazione delle informazioni da elaborare, diminuendo sia le costrizioni ambientali che temporali; dall’altro, la sicurezza viene intesa come condizione strettamente legata sia allo sviluppo delle risorse umane (attraverso un’adeguata formazione ed un sufficiente addestramento), sia all’eventuale utilizzo di ausili tecnologicamente avanzati. Infine, sui temi della Responsabilità Sociale d’Impresa e sugli standard normativi già elaborati in tal senso (vedi, ad esempio, la norma internazionale SA800 per la certificazione etica della gestione del personale), è confortante verificare che tali problematiche rientrano nel “rispetto dei diritti umani”, attraverso un’ottica di 268 governance che chiama in causa, oltre ai rappresentanti del management aziendale, le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni sindacali. 2 Il ruolo dell’ergonomia in un’impresa eticamente orientata Alcune riflessioni del sociologo Giuseppe Fortuna del Trinity College di New York /2/ sul ruolo dell’ergonomia in un’impresa che intende essere etica, portano ad una domanda interessante: “si può considerare un’impresa che si apre alle buone pratiche ergonomiche, un’impresa socialmente responsabile e quindi eticamente orientata ?”. Senza pretendere di assimilare l’etica all’ergonomia, è plausibile ritenere che se una realtà lavorativa assume i principi ergonomici a fondamento della propria organizzazione interna, può considerare realizzata una parte della sua mission etica. Questo dibattito molto attuale e non ancora sufficientemente approfondito, ha il pregio ed il significato di aprire la riflessione su un percorso di ricerca che, in un momento di prepotente bisogno di valori, sappia coniugare e ritrovare “legami forti” fra principi di ergonomia e principi di etica economica e sociale sollecitando la responsabilità dell’impresa, a partire da un cambiamento di relazioni fra i soggetti al suo interno e, successivamente, nei confronti dell’utenza esterna. Josep M. Lozano, Direttore dell’Instituto Persona, Empresa y Sociedad di Esade (IPES), organo consultivo del Ministero del Lavoro spagnolo, propone alcune definizioni di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) coerenti con la vision ergonomica /3/. Un primo punto di contatto si ritrova laddove viene considerata “un’opportunità per creare un’identità corporativa e di differenziazione nei confronti della società”. Ciò significa pensare all’impresa come ad un sistema integrato con una fisionomia originale e ben strutturata, alla cui definizione contribuisce la capacità di attribuire importanza alla dimensione comunicativa e al coinvolgimento di tutte le persone che vi operano. Al riguardo, è ben 269 nota l’importanza che la buona pratica ergonomica attribuisce agli aspetti partecipativi e relazionali del lavoro. Un secondo punto di contatto lo si apprezza quando la Responsabilità Sociale d’Impresa viene considerata “un impegno e un processo (e non un insieme sconnesso di iniziative)”. Definizione che richiama il modello “organicistico” (per obiettivi) raccomandato dall’ergonomia quando, a proposito di organizzazione del lavoro, fa riferimento ad una vision del sistema non solo differenziata e collaborativa ma anche integrata ed armonica, in grado di scegliere la cultura dinamica dei processi, piuttosto che quella statica degli atti intesi come iniziative isolate, divergenti o, comunque, incapaci di favorire la condivisione di significati e di obiettivi. Un terzo punto di contatto risiede nelle opportunità di innovazione che, in entrambi i casi, vengono accolte e gestite tenendo conto della centralità della persona. L’impresa orientata alla responsabilità sociale decide di accettare le sfide del nostro tempo, compensando gli eccessi della globalizzazione con strategie organizzative sempre più propense a ricorrere ad una sussidiarietà circolare che comporta un’amministrazione condivisa (Zamagni, 2004) /4/. Pertanto, in assenza o carenza di stato nazionale, l’atteggiamento innovativo consiste nell’aderire alla triade territoriale di base costituita di: istituzioni locali (comuni, province, regioni, etc.); associazionismo sociale ed economico (organizzazioni sindacali, associazioni non profit, etc.); imprese. Dal suo canto l’ergonomia contrasta il possibile disagio psicosociale indotto dall’economia planetaria, favorendo un ritorno all’etica che ha la sua fonte originaria nel legame sociale (rapporto fra gli esseri umani), a monte della dimensione economica. Infine, un’impresa eticamente orientata condivide con la vision ergonomica la tendenza ad integrare i propri principi nelle pratiche corporative e nelle attività da svolgere. Se da un lato ciò favorisce un senso di appartenenza comunitaria, finalizzata allo sviluppo di una funzione realmente utile in una società i cui scopi economici dovrebbero essere considerati soprattutto come mezzi per raggiungere altri fini; dall’altro, l’ergonomia si propone di rafforzare il senso di responsabilità e partecipazione nell’uomo, a fronte di un 270 ruolo “anonimo” che gli farebbe perdere autonomia e dignità professionale. Tutte le convergenze sopra riportate presuppongono una leadership aziendale in grado di stabilire ed alimentare un clima di fiducia che rappresenta, inequivocabilmente, una parte importante del valore di un’impresa. Sul piano organizzativo, ciò viene spesso attribuito alla buona articolazione strutturale dei sistemi lavorativi ed alla trasparenza dei processi operativi che aiutano le persone a riconoscersi come “attori” in grado di identificare con chiarezza il loro ruolo e i confini delle proprie competenze. 1 L’interpretazione dei concetti di rischio ergonomico e psicosociale in un’ottica di qualità del lavoro Nuove normative e nuove tematiche di formazione, destinate agli attori che nei contesti lavorativi si occupano di salute e sicurezza, hanno richiamato l’attenzione su alcuni rischi non ancora percepiti con sufficiente chiarezza. Viene quindi naturale il riferimento al D.Lgs. 195/03 laddove, a proposito della formazione dei responsabili aziendali in tema di salute e sicurezza, richiama l’attenzione sui “…..rischi, anche di natura ergonomica e psicosociale, di organizzazione e gestione delle attività tecnico-amministrative e di tecniche della comunicazione in azienda e di relazioni sindacali”. Senza approfondire questioni di tipo “gestionale” o sindacale, gli aspetti più innovativi da interpretare e capire sono appunto i rischi “trasversali” (ergonomici, psicosociali e di comunicazione) per acquisire informazioni utili ad una valutazione esaustiva delle problematiche che attengono alla qualità del lavoro. Il rischio di natura ergonomica Con il termine “ergonomia” si definisce, tra l’altro, “un modo nuovo di studiare e gestire i rapporti che l’uomo stabilisce all’interno del suo ambiente di lavoro”. Il suo contributo si ritrova nella progettazione di molte strumentazioni e arredi: l’esempio più diffuso e banale è rappresentato dal design di sedie o piani di lavoro, pensati e realizzati per evitare disturbi muscoloscheletrici alle 271 persone. Ovviamente tale approccio sarebbe troppo riduttivo se non avesse dato seguito anche ad uno sviluppo di natura psicosociale che riguarda sia l’ergonomia di correzione che quella preventiva (di concezione). L’ergonomia di correzione si caratterizza soprattutto perché, a fronte di errori dell’uomo ed errori della macchina, si pone l’obiettivo d’intervenire per cercare un miglior adattamento delle attrezzature alla persona laddove, fino alla metà del secolo scorso, accadeva il contrario. In linea con questi due diversi orientamenti, lo psicologo del lavoro è stato coinvolto inizialmente con il compito preciso di individuare, attraverso la selezione del personale “l’uomo giusto per il posto giusto”. Ciò significa adattare l’uomo alla macchina e a certe mansioni, piuttosto che l’opposto. In seguito, l’ergonomia ha avuto il merito di chiedere alla psicologia un contributo ben diverso: quello di fornire ai progettisti informazioni sul funzionamento dell’apparato cognitivo dell’uomo quando si rapporta al suo contesto operativo. La concezione centrata sulle relazioni che il lavoratore stabilisce con gli artefatti tecnologici, con gli altri componenti del gruppo di lavoro e con l’organizzazione produttiva nel suo complesso, va così a sostituire quella atomistica basata sulla contrapposizione fra l’uomo e la macchina. Tale evoluzione, oltre a vanificare il distinguo fra errore “umano” ed errore “tecnologico”, auspica anche un approccio sistemico al problema dell’affidabilità affinché si vada oltre il “corretto funzionamento di un impianto, un apparecchio, un dispositivo, sulla base delle caratteristiche tecniche e di fabbricazione” (come da progetto e da certificazione). Occorre rafforzare l’interesse per il contesto in cui operano persone, con peculiarità e obiettivi che il progettista di sistemi non può trascurare se ha compreso l’importanza di creare rapporti di compatibilità fra le molte variabili presenti in una realtà lavorativa. Al riguardo, non è possibile disconoscere il contributo dell’ergonomia cognitiva al lavoro che cambia. Infatti, nei paesi industrializzati è sempre più diffusa la tendenza ad affiancare o, addirittura, a sostituire gli aspetti “hard” (fisici) delle attività con quelli “soft” (mentali e relazionali). Ciò significa incidere anche sul 272 ruolo del lavoratore che si trova sempre più spesso a dover gestire il passaggio da operazioni materiali a compiti di controllo svolti davanti a display che inviano informazioni da percepire ed interpretare correttamente. Un’ulteriore tendenza riguarda il crescente bisogno di semplicità d’uso delle attrezzature, con particolare riferimento alle tecnologie informatiche che, più di altre, hanno tratto vantaggio dall’applicazione dei principi dell’ergonomia cognitiva alla progettazione dell’interfaccia uomo-computer (usabilità del software). Inoltre, si può affermare che la centralità dell’uomo e la complessità dei contesti sociali hanno favorito, oltre al cognitivismo, la teoria dei sistemi (aderendo ad una visione integrata di tutte le variabili presenti sul lavoro) e la pragmatica, per enfatizzare gli effetti della comunicazione sui comportamenti dell’uomo (Watzlawick et al., 1971) /5/. L’evoluzione in queste discipline di riferimento, ha contribuito a rendere sempre meno praticabile il tentativo di individuare regole generali sull’affidabilità di un sistema e sulla qualità delle interfacce, dal momento che ogni situazione lavorativa è diversa dall’altra. Pertanto, eventuali “generalizzazioni” sulle caratteristiche funzionali di assetti, strumenti o processi non sono opportune soprattutto in sede di valutazione dei rischi. Al riguardo anche Mantovani (2000) /6/, come Sperandio, ribadisce l’importanza di “situare” l’ergonomia, nel senso di applicare i suoi principi dopo aver attentamente analizzato la tipologia aziendale e i bisogni delle persone che vi operano, sia riguardo alle variabili di tipo hard che agli aspetti psicosociali. Soltanto la specificità e l’integrazione di tali conoscenze può dare un giusto significato e molte probabilità di successo a iniziative di valutazione, diagnosi ed intervento. Il rischio di natura psicosociale Per interpretare correttamente il senso attribuito al termine “psicosociale” dal legislatore, interessato a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, occorre circoscriverne con chiarezza il campo d’interesse e di applicazione. In questo ambito non si fa certo 273 riferimento a problematiche esistenziali della persona o a certi suoi particolari comportamenti “fuori norma”. Il rischio di natura psicosociale va correttamente ricondotto ad una condizione dinamica che, all’interno di un’organizzazione, rapporta i lavoratori alle sfide ambientali da affrontare. Questo stato d’instabilità può rappresentare sia un rischio che un’occasione unica di sviluppo e, al fine di volgere in positivo tale condizione, viene chiamata in causa la prospettiva interazionista sostenuta con grande enfasi da uno psicologico importante come Kurt Lewin che già all’inizio del secolo scorso, formulando la sua “teoria di campo”, sottolineò il bisogno di una relazione significativa dell’uomo con le attività da svolgere. I suoi principi anticipano la “teoria sistemica” dell’ergonomia che riconosce agli apporti multidisciplinari la peculiarità di capire le relazioni fra le molte variabili presenti sul lavoro. In assenza di questa prospettiva interazionista il rischio psicosociale si identifica con l’incapacità di “adattamento attivo” del sistema (nel senso di trovare soluzioni alle sfide ambientali), indispensabile per raggiungere un equilibrio dinamico fra i problemi da risolvere e le risorse umane disponibili al suo interno. A questo proposito, Albert Bandura /7/ fa riferimento alla necessità di rafforzare le convinzioni di autoefficacia del lavoratore, nel senso di riconoscergli la dignità professionale che nasce dalle capacità di gestire il rapporto personale con la realtà e dall’esperienza che gli consente di trarre vantaggio dalle proprie “lezioni di vita” e dalle opportunità presenti nell’ambiente. Queste considerazioni enfatizzano ulteriormente il ruolo centrale dell’uomo e l’importanza di acquisire nuove competenze dal momento che si agisce meglio quando si possiede la sicurezza che deriva dalla pratica, dalla convinzione del “saper fare” e dalla fiducia che l’organizzazione aziendale ha saputo trasmettere. Dare spazio agli aspetti psicosciali significa anche preoccuparsi di capire che cosa pensa un lavoratore nel momento in cui formula un giudizio di autoefficacia (ad esempio, quando dice a se stesso: “sono certo di riuscire a svolgere questo compito entro la fine della giornata”), perché ciò comporta attenzione sia per le fasi 274 intermedie che gli consentono di raggiungere il risultato finale, sia per gli eventuali ostacoli o aiuti interni ed esterni che potrebbero contrastarlo o favorirlo, rispettivamente. Quando si affrontano i temi della sicurezza, attribuire la giusta importanza a queste caratteristiche psicologiche significa tenere conto che l’autoefficacia, capace di rendere l’uomo più consapevole dei propri mezzi e più “produttivo”, non è una condizione stabile e generale: occorre considerare l’informazione, l’addestramento e la formazione come “agenti preventivi” in continua evoluzione, indispensabili a fronte del disagio che può derivare dall’imprevedibilità di certe situazioni o eventi. In sintesi, contrastare il rischio psicosociale a livello organizzativo significa programmare iniziative in grado di valorizzare l’uomo, informandolo sulle caratteristiche del proprio contesto e sui processi lavorativi; addestrandolo a governare i gesti e le operazioni richiesti dalle mansioni da svolgere; formandolo ad una cultura della sicurezza che tenga realmente conto di tutti i potenziali rischi presenti sul lavoro (anche nel medio e nel lungo termine). 3 La prevenzione degli incidenti sul lavoro attraverso l’analisi degli errori 1 L’ergonomia che corregge e l’ergonomia che previene gli errori In un’ottica di “correzione”, gli errori commessi dall’uomo o dalla macchina durante il lavoro, vengono considerati come fonti di rischio da tenere sotto controllo. In entrambi i casi il focus è centrato su aspetti che, se mantenuti volutamente “distinti”, separano i comportamenti individuali dalle disfunzioni tecniche del sistema: un modo di concepire l’affidabilità assai distante dallo spirito sistemico e relazionale dello stesso D.Lgs. 626, ancor più allineato alla cultura europea attraverso le recenti integrazioni normative. Al di là degli aspetti di salute e sicurezza tradizionalmente intesi e, quindi, direttamente riconducibili ai fattori “hard” (gli agenti fisici), non si può disconoscere a questa legge l’originalità - rispetto al pregresso di riservare attenzione anche ai fattori “soft” (aspetti mentali e 275 psicosociali) che inducono negli attori preposti alla sua applicazione nuovi bisogni formativi. Al riguardo, è bene far passare il messaggio sull’importanza di non rapportarsi in modo “semplicistico” alla realtà lavorativa evitando, ad esempio, di correlare un singolo evento ad una sola, possibile causa. Si tratta invece di capire le relazioni fra tutte le variabili che caratterizzano un sistema, considerando con attenzione l’opportunità di migliorare la competenza comunicativa, per rendere più efficaci la dialettica e il confronto, non solo all’interno del management aziendale ma anche nel rapporto con gli stessi lavoratori e i loro rappresentanti, da coinvolgere e responsabilizzare sulle strategie organizzative e sulla gestione del contesto operativo di appartenenza. Anche in un’ottica di “concezione”, gli errori vanno ricondotti all’insieme delle relazioni che si stabiliscono fra l’uomo, i suoi comportamenti, i compiti da svolgere, le procedure in uso e l’ambiente di lavoro. Ciò significa che, a livello preventivo, la progettazione di oggetti e processi lavorativi, dovrà comportare la consapevolezza che non si può intervenire su una sola variabile o situazione pensando di risolvere il problema della sicurezza e del benessere. Il messaggio è chiaro: sul rischio di natura ergonomica incidono tutti gli eventi o le variabili che - all’interno di un sistema turbano le relazioni fra le parti che lo costituiscono, siano esse riconducibili all’uomo o alla tecnologia. Gli esperti impegnati seriamente sui temi della qualità del lavoro sanno che l’ergonomia ha da tempo individuato l’oggetto delle sue ricerche nel lavoro umano che cambia e che ciò implica il ricorso a teorie e metodi di provata solidità scientifica e rilevanza sociale. Lo scopo da raggiungere è la comprensione profonda dei comportamenti dell’uomo a cui occorre dare grande priorità per poter seguire, al contempo, l’evoluzione del concetto di affidabilità. 2 Definire gli errori, la loro evoluzione e le diverse tipologie A supporto della definizione strettamente letteraria che lo qualifica come “azione inopportuna e svantaggiosa”, l’errore è considerato non solo come qualcosa da evitare ma anche come 276 evento legato a sbagli commessi da soggetti distratti, maldestri o addirittura in preda ad alterazioni psicomotorie per cattive abitudini comportamentali (in particolare, abuso di alcolici o farmaci). Per contro, l’ergonomia considera l’errore un evento a causalità “non lineare”, nel senso che a determinarlo concorrono generalmente più variabili in interazione fra loro. Negli ultimi venti anni, alcuni studiosi hanno proposto modelli di analisi del comportamento umano per cercare di capirne l’insorgenza e le diverse tipologie, a partire dai processi cognitivi che li sottendono. Al riguardo, è opportuno ricordare il contributo di J. Reason (1987) che, riprendendo le teorie di J. Rasmussen (1983), ha differenziato gli errori in base al livello di attenzione richiesto dalle azioni da compiere: si va da processi cognitivi inconsci che producono gesti automatici, ad atti isolati o in sequenza che richiedono un costante controllo attentivo. Attraverso la sua impostazione metodologica, Rasmussen ha individuato tre tipologie di comportamento: a) basato su “abilità” (skill-based behaviour); b) basato su “regole” (rule-based behavior); c) basato su “conoscenze” (knowledge-based behavior) /8/. La prima tipologia di comportamento (basato su “abilità”) comprende operazioni o gesti lavorativi compiuti secondo tempi e modalità costanti, con la mediazione di processi cognitivi automatici. Una volta stabilite le condizioni adatte, l’azione avrà inizio e non potrà essere bloccata fino al suo compimento (un classico esempio è rappresentato da un concertista al pianoforte: quando sbaglia una nota non ha più la possibilità di rimediare). La seconda tipologia di comportamento (basato su “regole”), si riferisce ad una serie di azioni che si svolgono seguendo determinate procedure, sulle quali un operatore è stato addestrato. Il controllo cognitivo è necessario ed è rivolto non tanto ad ogni singola azione, quanto alla più generale sequenza temporale che ne regola il corso. Infine, il comportamento basato sulle “conoscenze” richiede il controllo attentivo più elevato perché riguarda attività pilotate da una pianificazione che deve tenere conto di condizioni reali e contingenti. Le conoscenze richieste fanno riferimento alla capacità di 277 rappresentarsi correttamente il contesto lavorativo in tutte le sue articolazioni strutturali e funzionali. Specialmente a livello di management aziendale, è importante possedere conoscenze e competenze adeguate per affrontare il problem solving (capacità di superare adeguatamente le difficoltà che si presentano) e soprattutto il problem setting, nel senso di saper proporre ed elaborare, in modo creativo e consapevole, le strategie organizzative più opportune e lungimiranti. Reason, combinando il proprio modello con quello di Rasmussen, ha offerto un grosso aiuto anche agli analisti che si sono affidati al metodo degli incidenti critici come approccio indiretto per valutare la sicurezza di un sistema, attraverso le sue caratteristiche di affidabilità, errori commessi, comportamenti a rischio, successi parziali, quasi-errori ed incidenti /9/. In sostanza, l’interessante evoluzione del loro modello concettuale consiste nell’aver individuato errori caratteristici per ciascuna delle tre tipologie di comportamento sopra indicate. A livello di azioni basate su abilità, vengono collocati i cosiddetti “slip” cioè gli errori che nonostante la coerenza fra pianificazione ed intenzione e fra intenzione e scopo perseguito, vengono commessi al momento dell’esecuzione dell’azione. A livello di comportamento basato su regole, vengono distinti tre tipi di errore: il primo (definito lapse) è dovuto alla perdita di controllo sulla sequenza temporale che regola il corso dell’azione per cui, anche in questo caso, nonostante premesse congruenti fra intenzione e pianificazione, ad essere sbagliata è l’esecuzione della sequenza prevista, a causa di azioni omesse, anticipate o posposte. La seconda tipologia si riferisce ad errori, definiti capture, riconducibili alla messa in atto di una procedura con caratteristiche molto simili a quella prevista (corretta) e tali da “catturare” il controllo dell’operatore, fino a spostarlo su prassi familiari ma fuori contesto. La terza tipologia di errore (definita mistake) si riferisce alla scelta di una procedura attivata sulla base di indicazioni iniziali che non vengono interpretate correttamente dall’operatore, anche se la pianificazione e l’esecuzione delle azioni sono corrette. 278 Infine, a livello di comportamento basato sulle conoscenze, Reason individua errori ad elevato potenziale di rischio perché legati ad attività mentali complesse, impegnative e riconducibili al fatto che la persona, per capire lo stato del sistema, formula ipotesi sbagliate. Questo accade in assenza di conoscenze-competenze adeguate. Quando a commettere errori simili sono i vertici aziendali, il fallimento (failure) può essere totale ed irreversibile o perché i problemi non vengono risolti oppure perché le iniziative prese (anche se giuste di per sé) sono sbagliate, rispetto al contesto o alla scelta del momento. Nel lavoro che cambia, a fronte dell’usabilità che l’ergonomia auspica per i prodotti informatici, il modello di Reason distingue fra slip e mistake per capire le difficoltà legate al loro utilizzo. Se l’utente commette accidentalmente qualcosa di sbagliato, pur avendo imparato a svolgere il compito, si tratterrà di errore “slip”, se invece l’utente si è formato un modello mentale sbagliato circa il funzionamento del prodotto, la diagnosi sarà “mistake”. Entrambe le tipologie, oltre a diagnosticare problemi di usabilità, aiutano a prescrivere le soluzioni più appropriate. Nell’interazione uomo-computer lo slip è spesso legato alla progettazione dell’interfaccia per cui si commettono facilmente degli errori quando, ad esempio, i comandi sono troppo ravvicinati o quando un pulsante o un dispositivo è difficilmente accessibile all’operatore. L’eventuale mistake è invece attribuito ad una mancata applicazione dei principi ergonomici, nel senso che la struttura di un prodotto o il funzionamento di un processo non sono abbastanza intuitivi da soddisfare le esigenze di “analogia” dell’uomo, ostacolandone i comportamenti. Come considerazione finale va sottolineata ancora una volta l’importanza di diagnosticare correttamente errori e disfunzioni, affinché sia più facile intervenire per evitarli o ridurne gli effetti. 3 L’ “errore umano”nel senso comune: responsabilità individuale o fatalità ? In genere, di fronte a incidenti e infortuni sul lavoro si cercano le cause più evidenti da ricondurre ad azioni o gesti 279 “insicuri” che, superando le barriere tecniche di protezione, provocano questi imprevedibili eventi negativi. Al riguardo, viene spesso spontaneo ricorrere ad un giudizio superficiale e sbrigativo che il senso comune fa proprio nel dare maggior credito alla cultura “meccanicistica” dell’atto, piuttosto che alla cultura del processo. Così facendo, si tende a ricercare le cause di un incidente o di un infortunio nelle azioni compiute da un operatore, nel luogo e nel momento in cui accadono; inoltre, nell’analizzare l’accaduto, ci si limita a rilevarne la dinamica focalizzando subito attenzione e “sospetti” sull’agente materiale, sulla vittima e sulla presenza di compagni di lavoro quando si verifica l’evento. Nel caso di disastri così gravi da sensibilizzare l’opinione pubblica, è possibile che gli inquirenti tengano in considerazione altri aspetti, spesso senza entrare con sufficiente convinzione in una logica capace di valutare tutte le variabili presenti in quel determinato contesto o scenario operativo. In questi casi, trattandosi di analisi molto complesse, è facile semplificare pervenendo a giudizi basati su una sorta di responsabilità distribuita fra l’uomo e il destino “avverso e incontrollabile”. L’approccio multifattoriale dell’ergonomia vuole essere di aiuto a coloro che, nell’esaminare i fatti, abbiano gli strumenti per distinguere immediatamente fra i cosiddetti errori attivi, legati alla mera esecuzione di gesti o alla più complessa pianificazione di procedure, e gli errori latenti che non emergono all’istante ma si identificano con i cosiddetti errori organizzativi. Tali incongruenze o costrittività posseggono, fra l’altro, la caratteristica di sopravvivere a lungo all’interno di un sistema lavorativo prima di manifestarsi, talvolta in maniera subdola o parziale, attraverso i quasi-incidenti. Queste sono le ragioni che invitano a considerare l’organizzazione del lavoro sia da un punto di vista strutturale, con riferimento agli aspetti sistemici di base (ambientali e gestionali) che la caratterizzano, sia da un punto di vista funzionale (i processi che la rendono dinamica), ricordando che il fattore umano e quello tecnico non sono aspetti separati ma in costante interazione e che le influenze fra “struttura” e “processi” sono reciproche e continue. 280 Per ogni specifica realtà operativa si possono così ipotizzare precondizioni di macrocontesto (la vision e la mission del sistema, caratterizzate da cultura, valori e strategie a lungo termine) che interagiscono con il microcontesto lavorativo, circoscritto alle pratiche di lavoro quotidiane e alla decisionalità locale. Questo sistema, graficamente e sinteticamente descritto in figura 1, auspica la reciprocità e la continuità delle informazioni di ritorno (feedback) fra i due livelli organizzativi considerati, nel tentativo di comprendere in modo reattivo e partecipato le dinamiche che possono generare eventi imprevedibili. Figura 1. L’interazione fra livelli organizzativi: il contesto culturale di riferimento e la specificità aziendale Pertanto, di fronte ad un incidente sarà possibile riflettere sulla portata delle variabili che influenzano l’ambiente di lavoro, fino ad arrivare all’eziologia dell’evento stesso. In particolare, sono due le ragioni che rendono adeguato un simile approccio: a) avviare 281 valutazioni che, vincendo i pregiudizi culturali sappiano far emergere gli errori organizzativi e la tipologia delle disfunzioni che li generano; b) trovare le giustificazioni corrette per l’accaduto e predisporre le necessarie iniziative di cambiamento. Se il modo migliore per rendere realmente affidabile un sistema è quello di riconoscere e gestire in maniera attiva errori e pratiche scorrette, è necessario che l’analisi di ogni specifico ambiente lavorativo sia condotta da persone esperte, dotate delle competenze necessarie nell’utilizzo delle loro basi teoriche e, soprattutto, nella fedele interpretazione dei risultati. Al riguardo, le buone pratiche ergonomiche hanno il pregio di fornire indicazioni utili sia per comprendere la correttezza di un criterio di valutazione, piuttosto che di un altro, sia per definirne il livello di accuratezza. Riguardo ai modelli organizzativi raccomandati, quello per obiettivi (organicistico) basa l’affidabilità su una vision del sistema: differenziata (più variabili da considerare); collaborativa (la componente psicosociale va enfatizzata per favorire supporto sociale e comunicazione); integrata (per trovare convergenze e congruenze su comuni obiettivi); permeabile, per consentire che “modelli di successo” già sperimentati in realtà lavorative simili e buone pratiche vengano accolte al suo interno. Se, al contrario, in un’organizzazione “chiusa” e rigida (modello meccanicistico) la gestione degli errori viene delegata a meccanismi di difesa automatici ed “invisibili” (nel senso che viene impedita la loro trasparenza e comprensione), tutti i potenziali elementi patogeni continueranno a trovare spazio sufficiente per attentare alla sicurezza del sistema. 4 Progettare in funzione di potenziali errori o difetti del sistema Anche Donald Norman, considerato uno dei più autorevoli ergonomi cognitivi del nostro tempo, critica la superficialità della cultura corrente che tende a definire l’errore come “qualcosa da 282 evitare o qualcosa che possono commettere solo persone inabili o non motivate” /10/. Purtroppo tale convinzione è spesso condivisa anche da progettisti che inavvertitamente finiscono così per favorire certe disfunzioni o impedire che vengano individuate. Al contrario, essi dovrebbero rispettare alcune regole fondamentali: capire le cause che generano errore e progettare in modo da evitarle o ridurle; rendere reversibili le azioni (possibilità di annullare il già fatto) o rendere estremamente difficili quelle irreversibili; consentire la rapida individuazione degli eventuali errori commessi, facilitandone la correzione; non pensare pregiudizialmente all’uomo come soggetto che sbaglia ma come persona che svolge il suo compito attraverso azioni che lo avvicinano gradualmente a quanto gli viene richiesto. Tali raccomandazioni rappresentano anche un invito a non minimizzare situazioni considerate, a torto, irrilevanti allo scopo di evitare sbagli dovuti ad un’interpretazione soggettiva della realtà (mancata razionalizzazione degli eventi). Sono problemi ricorrenti e naturali nel senso che, al di là delle apparenze, accadono talvolta fatti cui si dovrebbe prestare attenzione e dei quali sarebbe opportuno preoccuparsi. Nella maggior parte dei casi si ha ragione a non drammatizzare ma quando non è così, i timori espressi da chi sta intuendo qualcosa di pericoloso non devono mai rimanere inascoltati come se fossero sciocche sensazioni. L’esperienza insegna che, di fronte ad errori che hanno generato incidenti anche molto gravi, le spiegazioni date dalle persone che non hanno saputo o voluto cogliere i segni di un disastro imminente suonano spesso assai banali e poco plausibili. Infatti, è facile cadere nella tentazione di ricondurre l’accaduto al cosiddetto “errore umano” e nei resoconti si possono leggere commenti del tipo: “come hanno potuto quei lavoratori essere così stupidi ?” oppure “serve un test per stabilire il tasso alcolico nel sangue dell’operatore che ha provocato il disastro”. Dopo l’attribuzione di responsabilità, i provvedimenti auspicati potrebbero chiedere addirittura il licenziamento dell’uomo sotto 283 accusa oppure leggi più rigorose (“si devono vietare certi comportamenti superficiali e insicuri sul lavoro”) che rispondano all’esigenza di “una preparazione del personale tutta da rifare”. Invece di ricorrere a diagnosi superficiali, si può trarre vantaggio da addestramenti condivisi sulla comprensione/correzione degli errori, attraverso canali di comunicazione condivisi da tutte le persone che operano in un contesto “a rischio” o su situazioni “critiche”, per uniformare e mantenere alto il loro livello di expertise. Poiché, in chiave sistemica non si può legare l’errore ad un semplice atto ma occorre ricondurlo ad un processo da capire in tutta la sua complessità, gli operatori meno esperti apprenderanno qualcosa da un errore osservando le attività intraprese per correggerlo dai compagni più competenti, in grado di insegnare loro anche a selezionare le informazioni di ritorno più efficaci ed a tralasciare quelle controproducenti. Questa semplice osservazione dovrebbe condizionare i programmi di formazione e addestramento perché richiama l’attenzione sulla natura sociale del lavoro e sulla necessità di condividere i processi comunicativi. Donald Norman (1995) ritiene che i comportamenti dell’uomo ne siano così “sottilmente” condizionati da non renderlo consapevole delle ragioni che fanno di un lavoro svolto in comune un evento relazionale più positivo che stressante /11/. Soprattutto quando si affrontano i cambiamenti, il valore di tali esperienze consente di confermare le procedure lavorative più efficaci, eliminando quelle meno adeguate in un’ottica di evoluzione naturale che contribuisce a salvaguardare l’affidabilità di un sistema. Inoltre, il progettista non dovrebbe essere tentato di introdurre troppa tecnologia pensando che sia in grado di “svecchiare” antiche prassi operative, ritenute inefficienti al primo sguardo. Nonostante sia evidente l’importanza dell’innovazione, occorre essere molto prudenti laddove si va ad intaccare la natura sociale e distribuita del lavoro. La “spontaneità” dei rapporti umani va preservata anche quando si basa su modalità relazionali all’apparenza ovvie e poco significative: la valenza di questi canali di comunicazione appare, infatti, evidente solo quando vengono 284 eliminati e sostituiti con “perfetti“ dispositivi elettronici. Ad esempio, l’ascolto condiviso di messaggi provenienti dalla torre di controllo di un aeroporto tiene aggiornati i piloti circa la situazione di tutti gli aerei che stanno percorrendo la stessa rotta. Se si decidesse di inviare soltanto messaggi computerizzati a ciascun aereo direttamente interessato, le informazioni sarebbero efficaci e puntuali ma i singoli perderebbero la possibilità di avere consapevolezza della situazione nel suo insieme. Ciò significa che progettare sistemi, prevedendo esclusivamente procedure e controlli automatizzati, può ostacolare quei processi di comunicazione informale di cui si può avere bisogno quando vanno prese certe decisioni operative. L’aspetto umano che l’ergonomia considera prioritario consente così di “vegliare” anche sui problemi tecnici, presenti in ogni attività lavorativa, per salvaguardare l’affidabilità dell’intero sistema. Un attento esame di realtà ed una corretta valutazione degli incidenti critici potrebbe far emergere proprio una difficile convivenza fra eccesso di automatismi e assenza di comunicazione umana informale, troppo spesso ritenuta inutile, inefficiente o “superata” dalla tecnologia. Pertanto, un progettista troppo precipitoso nell’introdurre il “nuovo”, cambiando radicalmente vecchie prassi lavorative, potrebbe creare problemi che, all’interno di un sistema industriale complesso, si traducono talvolta in disastri. 4 Il modello SHEL: un approccio sistemico allo studio degli “incidenti organizzativi” Innanzitutto occorre precisare che il miglioramento della sicurezza di un sistema va attribuito, in prima istanza, all’innovazione culturale e solo successivamente a quella tecnologica. Ciò significa che solo dopo aver compreso l’importanza di condurre indagini accurate sugli incidenti già accaduti, è stato possibile sviluppare le qualità professionali e le strategie organizzative più adatte allo scopo. All’Italia, ancora restia ad adottare in tal senso modelli concettuali più evoluti in chiave sistemica, non resta che augurare un maggior allineamento all’Europa, con particolare riferimento agli importanti contributi innovativi della Gran Bretagna e della Francia. 285 Al riguardo occorrerà prendere atto che, di solito, le conclusioni di un’inchiesta condotta a seguito di un grave evento accidentale, producono raccomandazioni per interventi di correzione che attengono a quello specifico evento, mentre la responsabilità di mettere in pratica le misure suggerite spetta ai vertici gestionali del sistema. Tali misure, a prescindere dall’aspetto reattivo che le caratterizza, potranno essere introdotte sia in successivi progetti all’interno dello stesso contesto, sia in altre organizzazioni che, per similarità di operazioni ed obiettivi, abbiano interesse a considerare i fattori causali legati all’evento negativo in questione. Tuttavia, il vantaggio che si trae da un approccio valutativo come questo (definito anche “metodo degli incidenti critici”) è insufficiente dal momento che un sistema operativo presenta altri aspetti in grado di condizionarne la sicurezza; in ogni caso, nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni ’80, la sua applicazione ha contribuito ad abbattere sensibilmente il tasso di incidenti. 286 Figura 2. Il modello SHEL di Elwin Edwards evidenzia gli elementi che interagiscono in un sistema operativo L’aver intuito l’importanza di prendere in considerazione più aspetti come, ad esempio, le inadeguatezze dell’ambiente, le carenze delle strumentazioni e i limiti dell’uomo, ha consentito ed avviato una riflessione sul fattore umano che la Conferenza della IATA (International Air Transport Association), tenutasi ad Istanbul nel 1975, ha accolto favorevolmente fornendo ampia documentazione 287 sulle problematiche di interfaccia fra l’uomo, le macchine, l’ambiente e gli altri uomini coinvolti in un determinato contesto operativo. In quella occasione Elwin Edwards propose il suo modello concettuale SHEL (vedi figura 2) che facilita, fra l’altro, l’individuazione degli human factors da considerare come problemi di interfaccia tra i vari elementi di un sistema di lavoro, a prescindere dalla sua specificità. L’acronimo (SHEL) utilizzato da Edwards va spiegato in questo modo: S = Software (norme, procedure, simbologie, tipologia dei compiti, etc.) H = Hardware (macchine in uso) E = Environment (ambiente di lavoro) L = Liveware (per omogeneità fonetica, sta ad indicare l’uomo). Il modello fu successivamente modificato in SHELL da Frank Hawkins, attraverso la forma grafica presentata in figura 3. Questa integrazione ha il pregio di sottolineare la sintonia (o interfaccia) tra i vari blocchi considerata importante quanto, se non più, delle caratteristiche di ogni singolo elemento. Il modello di Hawkins focalizza l’attenzione sull’uomo (L) dotato di capacità-competenze adeguate al compito assegnato e posto in posizione centrale (front line). Le “aree critiche” di collegamento sono state individuate laddove la persona comunica con gli altri elementi del sistema, compreso l’uomo (L) posto in periferia a rappresentare le altre persone presenti nel contesto (collaboratori e superiori). 288 Figura 3. Il modello SHELL integrato da Frank Hawkins Inoltre, il progetto di queste interfacce soddisfa la necessità di trattare le varie problematiche relazionali attraverso il CRM (Customer Relationship Management), finalizzato a valorizzare la gestione dell’utenza, in base a principi che molto hanno da condividere con l’ergonomia (oltre alla dichiarata centralità dell’uomo nel sistema). In tal senso, le raccomandazioni invitano a: disporsi favorevolmente nei confronti di una filosofia del cambiamento e dell’integrazione dei processi; non cercare soluzioni facili; usare un approccio strutturato nella selezione delle tecnologie; implementare le strategie processuali “per fasi”; 289 - valorizzare competenza comunicativa e partecipazione, sviluppando la consultazione interna; valutare operatività e sicurezza del sistema, utilizzando soprattutto lo “studio di casi”. In questo modello, anche l’interazione con la macchina (H) è affrontata in chiave ergonomica, nel senso di adattare le strumentazioni in uso alle caratteristiche fisiche e mentali dell’uomo. Lo stesso approccio va certamente generalizzato anche alle variabili definite Software (S) che rappresentano i supporti funzionali e procedurali, attraverso i quali il sistema diventa dinamico. Ci si riferisce a manuali, checklist, pubblicazioni, standard operativi, programmi, etc., ai quali l’uomo fa riferimento per svolgere le proprie attività. Infine, restando nel campo dell’aeronautica, emblematico per la potenziale gravità degli incidenti, il modello SHELL considera l’Environment (E) costituito sia di ambienti interni (ancora una volta oggetto di analisi e soluzioni ergonomiche), sia di ambiente esterno caratterizzato da condizioni operative molto complesse come: meteo, controllo del traffico aereo, strutture aeroportuali e situazione politica, sociale ed economica del Paese di appartenenza. Queste sono le chiavi di lettura delle interfacce indicate nello SHELL che, pur lasciando impliciti altri aspetti da valutare con attenzione, si propone come utilissimo modello concettuale di riferimento. Fra l’altro, l’integrazione proposta da Hawkins ha il pregio di considerare, in un’ottica squisitamente ergonomica, gli effetti di eventuali inadeguatezze del sistema sull’elemento centrale più importante (l’uomo) ed il rischio che le loro conseguenze negative rappresentino i “prodromi dell’incidente”. Negli Stati Uniti, queste considerazioni furono sufficienti a giustificare la posizione di un esperto importante come Gerrard Bruggink, alto dirigente del Bureau of Accident Investigation del National Transportation Safety Board (NTSB) che individuò nel “fattore organizzativo” la componente intrinseca del meccanismo causale degli incidenti. Bruggink ne attribuì la responsabilità al top management di case costruttrici, compagnie di trasporto, 290 organizzazioni professionali e sindacali, enti istituzionali preposti alla regolamentazione e gestione delle strutture aeronautiche. A suo avviso, veniva favorita l’insorgenza di eventi negativi ignorando, ad esempio, la predittività legata a disastri simili accaduti in passato; tollerando compromessi pericolosi per ragioni di “immagine personale” o per fini economici; facendo prevalere l’inettitudine sulla volontà di affrontare responsabilmente la complessità del problema. Dopo quasi un ventennio dalla prima Conferenza IATA sugli human factors, la seconda Conferenza di Montreal (1993) sulle strategie di contenimento degli incidenti attribuibili ad human factors, nel riportare i risultati degli studi sugli incidenti avvenuti negli anni precedenti, individuò le root causes (le cause alla radice) di questi eventi nei fattori strategici (policy factors), confermando l’importanza che Gerrard Bruggink aveva già riconosciuto nel 1985 agli aspetti organizzativi. Nel corso della Conferenza, uno dei contributi più interessanti venne dall’Europa con James Reason, docente di psicologia all’Università di Manchester. I suoi studi, apparsi sugli atti, supportavano le convinzioni di Bruggink attraverso i dati emersi dalle analisi condotte su alcuni recenti disastri avvenuti in differenti contesti (impianti nucleari e chimici, aviazione commerciale, marina mercantile, trasporto ferroviario, etc.). Reason dimostrò che l’uomo è coinvolto nelle dinamiche che portano ad eventi negativi attraverso due modalità distinte: le disfunzioni attive e le disfunzioni latenti. Per disfunzioni attive s’intendono le mancanze o i difetti che alla fine di un processo appaiono come direttamente correlate alle azioni destinate ad avere conseguenze pericolose. A tutt’oggi, sembrano ancora quelle che catturano l’interesse pressoché esclusivo di coloro che indagano sulle dinamiche degli incidenti. Le disfunzioni latenti vanno invece correlate, a vari livelli di decisionalità interna ed esterna, al contesto operativo di riferimento. Le loro conseguenze possono rimanere a lungo inespresse, manifestandosi solo quando intervengono fattori scatenanti (ad esempio, errori tecnici, condizione atipiche, etc.) che intaccano le difese del sistema. 291 L’equazione fattori strategici = disfunzioni latenti è supportata dall’analisi di quegli incidenti accaduti in sistemi ad elevata e complessa tecnologia, definiti come “gravi incidenti organizzativi”. In particolare, i catastrofici “breakdown” non vanno certo ricondotti ad errori isolati o a singole avarie bensì al pericoloso accumularsi di carenze a livello politico, organizzativo e manageriale che, a dispetto di un’apparente stato di “normalità”, ne hanno determinato in modo subdolo le premesse. 1 Esempi di comportamenti lavorativi che portano a diagnosi errate Se si prendono ad esempio alcuni importanti incidenti industriali come quelli accaduti nelle centrali nucleari, nei trasporti aerei, ferroviari o navali, l’approccio sistemico indicato dall’ergonomia, oltre a considerare le disfunzioni organizzative latenti che attengono in particolare a strategie di macro e microcontesto, raccomanda di individuare la responsabilità di funzione legata ai comportamenti degli uomini. Una prevenzione efficace richiede che a livello operativo siano verificate alcune condizioni: l’addestramento, la preparazione, l’educazione professionale e la capacità di svolgere i compiti front line. Al di là della preparazione tecnica specifica, occorre che la persona sia formata a capire e diagnosticare in modo corretto le situazioni critiche che si presentano alla sua valutazione. Il problema reale non si limita al semplice errore dell’uomo che sbaglia la lettura di un display o schiaccia inavvertitamente un certo pulsante: la responsabilità di un disastro è quasi sempre circoscritta alla diagnosi che corrisponde all’interpretazione degli eventi, sulla base di un assetto cognitivo che non dovrebbe essere rigido o uniformato a stereotipi tesi a liquidare velocemente informazioni nuove o “discrepanti”. Pertanto, ogni operatore andrà messo in guardia anche dai pericoli legati a certi meccanismi di errore psicologico che chiamano in causa variabili che attengono al “mentale” come accade, ad esempio, quando si sbaglia per ragioni da ricondurre ad un fenomeno definito in vari modi: fissità funzionale, limitazione cognitiva e 292 “visione a tunnel”. Secondo Donald Norman l’uomo tende a concentrarsi su un’ipotesi attiva che, una volta fissata (come accade per un’informazione stabilizzata attraverso una sorta di magnetizzazione cognitiva), non si modifica facilmente anche di fronte ad evidenze contraddittorie. Al riguardo, viene riportato come esempio il comportamento di un pilota di un aereo da carico che presentò spontaneamente un rapporto su una sua particolare esperienza pericolosa all’Aviation Safety Reporting System della NASA. Il pilota in questione era molto esperto e l’incidente che lo aveva turbato si era verificato in fase di atterraggio: manovra che assieme al decollo rappresenta un momento difficile, specie se in cabina di pilotaggio si è soli e, quindi, non si possono prendere decisioni condivise. La sintesi del suo rapporto mise in evidenza che, dopo aver ricevuto l’autorizzazione ad avvicinarsi ad una certa pista a lui nota per averla usata più volte in precedenza, pensò di esservi sopra nonostante si fosse accorto che non c’era la solita illuminazione e mancavano anche le barre luminose poste a bordo pista (a distanza di 50 metri, lungo la zona di atterraggio), per aiutare il pilota ad individuarla e ad assumere l’inclinazione e l’orientamento corretti. Nonostante tutto ciò apparisse “fuori norma” il pilota era sicuro di essere sulla pista autorizzata, attribuendo la mancanza di luci e segnalazioni ad un guasto: ipotesi che sembrava accreditata da una conversazione ascoltata poco prima sulla frequenza radio della torre di controllo, fra addetti alla manutenzione che lamentavano problemi di illuminazione in aeroporto. Le sue convinzioni (rivelatesi irrazionali) non gli consentirono il “principio del dubbio” che gli avrebbe fatto controllare la girobussola, evitandogli di atterrare su una pista di rullaggio, con tutti i rischi del caso. La diagnosi dell’errore fatta dallo stesso pilota, a posteriori, chiama in causa due aspetti: il primo organizzativo (situazionale), per essere stato messo nella condizione di affrontare un viaggio stressante in mezzo a temporali (senza radar) e il secondo psicologico (soggettivo) per aver mantenuto un atteggiamento di “fissità funzionale” che nemmeno la presenza di segnalazioni luminose diverse dal solito o la mancanza di luci ai bordi della pista e 293 barre luminose lungo la zona di atterraggio, avevano minimamente scalfito. Altri incidenti molto gravi si sono verificati a causa di una falsa attribuzione di colpa. Ciò può accadere, ad esempio, quando persone molto qualificate e competenti stanno usando delle strumentazioni complesse e, all’improvviso, succede qualcosa che apparentemente non sembra legato alla rottura o al danneggiamento di un dispositivo. In questo caso, il problema risiede nel pregiudizio che ogni oggetto tecnologicamente avanzato sia affidabile per definizione. Al contrario, di fronte a danni o avarie evidenti, il problema va risolto considerando ogni variabile coinvolta, comprese le possibili disfunzioni delle attrezzature in uso. Norman sostiene che è molto facile riscontrare la mancanza di tali valutazioni soprattutto negli incidenti industriali di grande rilevanza. Ad esempio, nel disastro nucleare di Three Miles Island trascorse troppo tempo prima che ci si rendesse conto che era stata formulata una diagnosi errata: ciò accadde solo alla fine di un turno di lavoro, quando entrò in funzione una nuova squadra di tecnici. Gli operatori precedenti avevano premuto il tasto per chiudere una valvola, dopo averla mantenuta aperta per consentire il deflusso dell’acqua in eccesso dal nocciolo del reattore. In realtà la valvola era difettosa e, quindi, non si era chiusa nonostante una spia luminosa sul quadro di controllo segnalasse il contrario. In ogni caso, i tecnici dovevano sapere che la spia non monitorava il funzionamento della valvola ma soltanto il segnale elettrico inviato alla valvola stessa. Ciononostante non venne loro in mente di ipotizzare il guasto, anche quando verificarono che la temperatura nel condotto di uscita della valvola era elevata al punto da confermare che l’acqua continuava a scorrere attraverso la valvola “chiusa”. I tecnici preferirono ritenere che ciò fosse dovuto a una semplice perdita, limitata e, quindi, non così significativa o rischiosa da influire sulla manovra principale. Purtroppo le cose andarono diversamente e l’acqua defluita dal nocciolo del reattore contribuì a produrre il grave incidente. Nonostante la valutazione degli operatori apparisse in qualche modo “ragionevole”, le cause andavano ricercate proprio nella 294 tecnologia, vale a dire nel progetto dell’apparecchiatura e delle spie luminose. Un’analisi “esemplare” sul caso Chernobyl L’esempio dell’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl ripropone con puntualità e ricchezza di particolari interessanti, la convergenza di aspetti che attengono sia ad errori dovuti a disfunzioni organizzative latenti, sia a difetti nella formazione degli operatori che avrebbe dovuto orientare correttamente i singoli comportamenti lavorativi front line, a livello di prestazione psicofisica. La circostanza che determinò l’incidente fu la seconda prova di un esperimento sull’alternatore, condotto durante la notte del 26 aprile 1986. L’esperimento, di per sé banale ed innocuo, richiedeva di abbassare la potenza del reattore, impedire per pochi secondi l’ingresso di nuovo vapore nelle turbine e verificare se, in quel breve lasso di tempo, il vapore già contenuto nell’impianto alimentava ancora turbina ed alternatore. Innanzi tutto, della Commissione d’inchiesta sull’incidente alla Centrale Elettronucleare di Chernobyl (Chaes-4) non facevano parte esperti psicologi anche se la Commissione esaminò, oltre agli aspetti tecnici ed organizzativi, l’influenza del “fattore umano” sulle decisioni prese dagli operatori, sulle azioni messe in atto per attuare quelle decisioni nonché sul rapporto fra i requisiti delle norme da osservare e il comportamento reale del personale di esercizio. La Commissione concluse che le principali responsabilità della catastrofe ricadevano sull’uomo, come risulta dall’informativa preparata per l’IAEA (International Atomic Energy Agency) e pubblicata su Atomnaya Energiya (61, n. 5, 1986), i cui ripetuti errori avevano causato l’esplosione del reattore. Su quest’analisi concordò sostanzialmente anche la stessa IAEA nel senso che, un anno dopo l’incidente, il suo Direttore Generale l’attribuì agli errori estremamente imprevedibili commessi dagli operatori della Centrale. Più tardi, altri studiosi commentarono sia il rapporto degli esperti sovietici, presentato all’IAEA, sia altri documenti e articoli pubblicati nei mesi immediatamente successivi, 295 cercando di focalizzare gli errori commessi ed una loro eventuale motivazione psicologica. Le prime ipotesi formulate furono messe in discussione da altri esperti che si riservarono conclusioni più circostanziate nel lungo termine, data la particolare complessità dell’evento. In ogni caso l’analisi del “fattore umano”, basata sia sui preliminari che sulla sequenza operativa dell’incidente, sollecitava delle riflessioni interessanti. Secondo le fonti russe, i problemi iniziavano già dal prologo, cioè dal “piano di test” ritenuto di scarsa qualità dal momento che le misure di sicurezza erano state considerate soltanto formalmente. Il permesso per la sua esecuzione fu concesso al personale della Centrale senza l’approvazione ufficiale del Gruppo Tecnico di Sicurezza, laddove vi erano prove che in altri impianti con caratteristiche simili (a Leningrado, Kursk e Smolensk), questo genere di test era stato rifiutato per motivi di sicurezza. Inoltre, secondo il resoconto russo, gli analisti principali erano degli ingegneri elettronici provenienti da Mosca così come il responsabile-capo, peraltro non specializzato in neutronica e controllo del reattore. Questa premessa poteva già consentire di individuare una prima tipologia di errori da ricondurre a violazioni e carenze istituzionali e gestionali. Ma perché furono commessi? Sono state fatte due ipotesi. La prima attribuisce questi errori iniziali ad una sorta di “conflitto fra i documenti da rispettare” nel senso che gli operatori, supposta la serietà e la correttezza del test, presumevano che il programma sperimentale fosse in accordo con le Norme Generali di Sicurezza per cui è molto probabile che non abbiano voluto analizzare l’eventuale presenza di un conflitto oppure che non fossero abbastanza preparati a farlo. In realtà il programma delle prove era in palese disaccordo con il Regolamento di esercizio. La seconda ipotesi attribuisce gli errori iniziali ad una “rappresentazione soggettiva del contesto operativo”, da ritenersi incongruente per la mancata sovrapposizione (compatibilità) con le caratteristiche oggettive dell’ambiente di lavoro e del compito da svolgere. Gli esperti di ergonomia sanno bene che delle istruzioni scritte, affidate agli operatori, non sono altro che un’area di supporto per 296 l’“immagine” del mondo professionale che viene via via elaborata a livello mentale e che una corretta formazione di base serve anche ad eliminare le possibili contraddizioni fra i documenti normativi da rispettare, colmando quelle lacune di conoscenza che non favoriscono una chiara e coerente percezione della realtà. Nel caso considerato, appariva evidente una netta divergenza fra le rappresentazioni mentali dell’uomo e il suo ambiente di lavoro, rispetto alla direzione indicata da questo modello. La successiva tipologia di errore venne correlata ad un’azione pericolosa e volontaria che comportava l’esclusione della regolazione automatica, durante l’abbassamento di potenza iniziato alle 23 e 10 di quel 25 aprile. Al riguardo, sorsero spontanei degli interrogativi inquietanti. L’operatore presente in quel momento poteva essere considerato responsabile dello sbilanciamento che si verificò ? Un altro operatore avrebbe potuto evitarlo ? Può esservi stato un rapporto uomo-automazione non risolto dal punto di vista psicologico ? Perché, in seguito, quando la potenza del reattore oscillava pericolosamente, all’operatore non venne in mente, né gli sembrò opportuno proteggere la Centrale inserendo il “sistema di raffreddamento di emergenza" ? Risposte possibili sono state tentate in un articolo apparso sulla Pravda il 5 ottobre 1987 che, dopo aver riportato e analizzato i resoconti di molti operatori, ipotizzò che alla base degli errori rilevati c’era soprattutto la volontà di portare a termine l’esperimento come se si trattasse di un “punto d’onore professionale”. La responsabilità complessiva poteva essere tranquillamente distribuita anche fra coloro che avevano messo a punto un programma sperimentale lacunoso e privo delle approvazioni dovute. Dal punto di vista psicologico fu di estremo interesse aver capito che il motivo delle azioni pericolose compiute dagli operatori fosse da ricercare nell’onore professionale, al punto da voler padroneggiare a tutti i costi una crescente complessità, sottovalutandone i rischi reali. Altre azioni pericolose e volontarie furono compiute alle ore 1 del 26 aprile, quando gli operatori tentarono di far uscire il reattore dal “pozzo di iodio”, elevando la potenza da 30 MWt a 200 MWt e 297 pagando per questo un prezzo troppo alto in termini di sicurezza: l’abbassamento del margine operativo di reattività, al di sotto di quello regolamentare. Il personale di esercizio avrebbe avuto ancora il tempo di cambiare il programma, interrompere le prove e fermare l’Unità. Fu presa, invece, l’imprudente decisione di completare le prove. Tra le ore 1 e 3 minuti e le ore 1 e 7 minuti, gli operatori compirono una serie di azioni che, pur non essendo di per sé errate o vietate dal regolamento, richiedevano la capacità di analizzare la situazione reale e di prevedere l’evoluzione degli eventi. Dal punto di vista psicologico fu possibile verificare che il modello del mondo professionale degli operatori era inadeguato, diffuso e statico laddove sarebbe stata necessaria una rappresentazione mentale dinamica, in grado di valutare precocemente le difficoltà che potevano compromettere l’affidabilità del sistema. Per questi motivi non sembrava corretto addossare agli operatori l’intera responsabilità dell’accaduto: andavano verificati preparazione, mantenimento e verifica della prontezza del personale di esercizio che andava orientato con cura alla prevenzione sia degli errori diretti (intesi come deviazione dalle prescrizioni contenute nei documenti normativi), sia degli errori di decisione prevalentemente provocati da difetti nell’immagine del mondo professionale o da errate deduzioni. Per incongruenze di questo tipo, doveva essere riconsiderato il sistema lavorativo di appartenenza nell’ambito del quale l’assegnazione di compiti così delicati sarebbe dovuta avvenire soltanto dopo accurata preparazione e verifica delle abilità e competenze di coloro deputati a svolgerli. Lo sviluppo dell’incidente fu accompagnato dalle oscillazioni della pressione e del livello nei separatori di vapore che gli operatori invano tentarono di regolare manualmente. Si verificò una caduta di pressione e, in particolare, del livello dell’acqua nei separatori. Gli operatori commisero un errore volontario diretto perché, dopo la riduzione del carico oltre il 50%, non trasferirono - come prescritto con chiarezza dal regolamento - il set-up del livello dell’acqua nei separatori di vapore da 600 mm a 1100 mm. Tuttavia, questa “infrazione” non sembrò influire sull’incidente. Quanto alla barriera di protezione per la pressione nei separatori di vapore fu difficile 298 supporre che, mantenendo la protezione per il livello d’acqua, il personale avesse disinserito la protezione per l’eccesso di pressione. Queste azioni potevano riguardare lo psicologo interessato a valutare il comportamento degli operatori nei confronti dei sistemi di emergenza, per due ragioni: non esistevano divieti assoluti nella gestione di queste protezioni; gli operatori avevano bloccato altre volte le protezioni di emergenza ben sapendo che le barriere di protezione rappresentavano un impedimento alle prove che dovevano essere portate a termine ad ogni costo. L’ultimo avvertimento giunse alle ore 1, 22 minuti e 30 secondi: consultando il tabulato del programma e dopo una veloce valutazione del margine operativo di reattività, l’operatore si rese conto che tale margine equivaleva all’inserimento di 6-8 barre di controllo, circa la metà rispetto a quelle ammesse dal regolamento. L’unica decisione giusta da prendere era fermare il reattore immediatamente. Il passaggio successivo vide gli operatori togliere l’ultima barriera di protezione, impedendo così la protezione del reattore che entrava in funzione quando venivano chiuse le valvole di blocco e regolazione di entrambe le turbine. Questa azione, secondo i documenti ufficiali, non rientrava nel programma delle prove per cui poteva considerarsi un’azione pericolosa volontaria che causava errore di violazione. Gli operatori disinserirono la protezione, dimostrando particolare accortezza nel farlo perché avevano in mente esclusivamente il completamento soddisfacente della prova in atto. In questo caso, ribadire l’aggettivo “soddisfacente” è molto appropriato perché non bastava concludere ma occorreva ottenere i dati sperimentali sull’esercizio dei sistemi alimentati dal turbogeneratore fermato, in rotazione per inerzia. Dal punto di vista psicologico, è plausibile ipotizzare che abbia giocato un ruolo decisivo la simpatia nei confronti degli sperimentatori che avevano aspettato molto tempo prima d poter realizzare le prove. Alle ore 1, 23 minuti e 4 secondi, l’operatore chiuse la valvola di blocco e regolazione della seconda turbina (la prima era già stata staccata il giorno precedente), dando avvio alla rotazione per inerzia del rotore. I sistemi ausiliari entrarono in funzione, alimentati solo 299 con l’energia prodotta dalla rotazione per inerzia. Il reattore si trovò così in un regime non regolamentare a meno di un minuto dal disastro. Anche in questa fase va nuovamente ricordato che lo scopo principale degli operatori non era quello di terminare rapidamente la prova bensì di ottenere un esito soddisfacente (altrimenti non avrebbero previsto una seconda prova, violando le disposizioni del programma). Dopo il distacco della seconda turbina, la potenza termica del reattore iniziò spontaneamente ad aumentare, anche se lentamente. Alle ore 1,23 minuti e 40 secondi, di fronte a questo evento allarmante il capo-turno dell’Unità 4 (Chaes-4) schiacciò il pulsante Az-5 (protezione di emergenza). Dopo le ore 1 e 24 minuti del 26 aprile, esistono pochissime testimonianze sugli ultimi istanti che precedettero l’esplosione causata paradossalmente da un’azione operativa corretta, consistente nell’azionamento del pulsante della “salvezza” (il pulsante del sistema di emergenza). Infine, per quanto riguarda i meccanismi di errore psicologico dai quali far dipendere decisioni e comportamenti “critici” messi in atto dagli operatori di Chernobyl, ne possono essere chiamati in causa almeno tre: 1. Assunzione (supposizione), nel senso che gli operatori, nel riporre “cieca fiducia” nell’infallibilità dei progettisti dell’impianto, non dovevano estendere la stessa “convinzione” nei confronti del programma delle prove, ritenute arbitrariamente in accordo con le “norme generali di sicurezza” e con il “regolamento di esercizio”. Quest’ultima opinione finì per alimentare un’immagine prevalentemente soggettiva del mondo professionale, ostacolando i necessari esami di realtà. 2. Non considerare con la dovuta attenzione circostanze particolari. Nel caso specifico, tale meccanismo sostenne la volontà di portare a termine comunque l’esperimento, chiamando in causa l’onore professionale da salvaguardare ad ogni costo. Ciò fece dimenticare agli operatori il peso dei numerosi eventi “fuori routine”, inducendoli ad una pericolosa sottovalutazione dei rischi reali. 3. Assunzione di stereotipo (emotivo), nel senso che le azioni tendono ad essere dirottate emotivamente lungo un percorso 300 considerato “abituale” o “familiare”, anche quando non viene scelto con cognizione di causa. Nel caso in questione fu la simpatia nei confronti degli sperimentatori che avevano aspettato molto tempo prima di poter realizzare le prove, ad impedire che prevalesse la ragione. Tale meccanismo supportò la motivazione principale degli operatori che non era quella di terminare rapidamente la prova ma il desiderio di un esito soddisfacente nella raccolta dei dati sperimentali. Questa analisi “esemplare” sul caso Chernobyl, volutamente ricca di particolari anche tecnici e attenta ai meccanismi e alle tipologie degli errori commessi, sollecita una riflessione sulla tendenza a trovare delle spiegazioni facili quando accadono incidenti in sistemi molto complessi come può essere quello di una centrale nucleare o di altro impianto industriale simile per complessità. La maggior parte dei disastri accade per una serie di guasti ed errori, di problemi che si susseguono e che si potenziano reciprocamente. Come si è già detto ripetutamente, è molto difficile che un incidente di grandi proporzioni si verifichi in modo lineare: c’è quasi sempre il concorso di molte variabili e di varie circostanze anche se ciascuna di queste, presa isolatamente, non appare particolarmente pericolosa. Probabilmente è questa la ragione che giustifica i meccanismi psicologici tesi a minimizzare certi episodi, a liquidarli con spiegazioni superficiali oppure a trovare delle giustificazioni “logiche” per fatti oggettivamente anomali. Queste osservazioni valgono sia per il caso Chernobyl che per il caso Three Miles Island dove, nonostante le diverse tipologie di errore e le diagnosi errate, si è visto che le azioni compiute sul momento apparivano agli operatori coinvolti come logiche e ragionevoli. Le decisioni prese e gli eventi drammatici che ne sono seguiti hanno confermato l’ipotesi che l’immagine del mondo professionale in questi operatori non fosse sufficientemente formata come sistema organizzato di variabili, da considerare nella sua completezza, piuttosto che la somma di elementi da trattare singolarmente. E’ questa idea sistemica, propria dell’ergonomia, ad impedire che analisi superficiali e frammentarie possano basarsi su aspettative prevedibili, 301 in realtà più pericolose del disinserimento delle protezioni d’emergenza. Inoltre, poiché nella gestione di impianti così complessi è più che mai indispensabile le stretta osservanza delle procedure di sicurezza è bene che, oltre ad essere considerate al momento della sua progettazione e costruzione, vengano imposte all’operatore attraverso momenti formativi molto accurati. Una rappresentazione ben consolidata e congruente del contesto operativo sarà un’ulteriore garanzia per sostenere e accrescere al contempo la sua capacità di analisi indipendente. Su questa linea si collocano anche le raccomandazioni contenute nel documento di S.A. Chachko /12/: 1. Lavorare per la sicurezza. La massima priorità va data alla sicurezza degli impianti che vanno mantenuti sempre al massimo livello. Questa raccomandazione deve rappresentare per gli operatori il vero obiettivo da perseguire, ancor più importante della produzione continua di energia elettrica o dell’efficienza della loro stessa performance. 2. La preparazione degli operatori va seguita con attenzione, nel senso che l’addestramento non deve avvalersi dei soli metodi di routine ma prevedere anche l’uso di simulatori. La scelta accurata del personale d’esercizio deve presupporre una seria valutazione delle caratteristiche psicologiche degli operatori, della loro disposizione ad elaborare un’immagine nuova e congruente del mondo professionale, da controllare e gestire attraverso strategie razionali che consentono la formulazione e la soluzione di problemi (knowledge based); l’uso di circuiti automatici/automatizzati, basati su abilità acquisite (skill based) e di sistemi informatici dotati di verifica temporale delle azioni da compiere in sequenza, con la possibilità di intervenire per evitare o correggere errori di procedura (rule based). In particolare, va recepita come lungimirante e realistica l’affermazione che “uno dei principali requisiti per la qualificazione sarà, in futuro, la capacità di padroneggiare situazioni eccezionali”. 3. La completezza del modello informativo, disponibile nelle sale di controllo, da dotare di dispositivi e display progettati 302 ergonomicamente. A proposito dell’industria elettronucleare si può aggiungere che, pur avendo fatto - negli anni - un buon lavoro di analisi delle situazioni critiche, non è stata altrettanto sollecita nell’intervenire su sale di controllo inadeguate dal punto di vista ergonomico (tenendo conto che è pressoché impossibile rifare una sala di controllo preesistente). In ogni caso va detto che allestire una sala di controllo sulla base di criteri progettuali scorretti, può portare all’errore e al rischio di vederlo poi addebitato tout court al tecnico di turno. Quanto alla sala di controllo dell’Unità 4 della Centrale di Chernobyl viene citata come esempio per inadeguatezze da non imitare, fra cui quella della mancanza di uno schermo unico che avrebbe consentito di visualizzare chiaramente la situazione delle barriere di protezione. 4. L’elaborazione di un metodo oggettivo di analisi degli errori del personale di esercizio (in gran parte computerizzabile), per valutare imparzialmente gli eventi ed il loro legame con il fattore umano (cause, motivi e conseguenze di ogni azione). Il metodo dovrebbe considerare l’affidabilità del sistema come un processo in continua evoluzione che si arricchisce attraverso le esperienze già acquisite per ridurre gli errori e il rischio di ripeterli in futuro. Per concludere, sono opportuni alcuni commenti sulla gestione socio-politica del caso Chernobyl (Loizzo, 1994) /13/. Sono soprattutto due le conseguenze da sottolineare: la prima è il grande tempismo con cui Gorbaciov colse l’occasione per liberarsi dei responsabili dell’energia nucleare e della programmazione, cogliendo l’occasione per affermare con forza i principi della trasparenza (glasnost) e della ristrutturazione economica (perestroika); la seconda riguarda la vivace reazione dei responsabili tecnico-politici degli enti nucleari degli altri paesi, volta a rassicurare che il reattore di Chernobyl era tutt’altra cosa, rispetto ai loro, per cui gli studi necessari per capire il disastro (salvo alcune eccezioni mal sopportate) tardarono pericolosamente. Per contro, è doveroso ricordare anche le iniziative promosse nel dopo Chernobyl. Esse rappresentano un esempio positivo della disciplina e competenza dimostrate nel tentativo di neutralizzare il più 303 possibile le conseguenze della contaminazione radioattiva ambientale e nei controlli sanitari alla popolazione. La strategia politica, finalmente risvegliata dal timore di una grave battuta d’arresto nello sviluppo dell’energia nucleare, cercò di limitare i danni migliorando la sicurezza dei sistemi, l’affidabilità degli impianti e gli aspetti organizzativi. L’ingegneria impiantistica ha introdotto negli anni importanti modifiche come, ad esempio, quella di ricorrere a sistemi sempre più avanzati di diagnostica, di informatizzare al massimo le mansioni di routine, di provvedere ad una miglior formazione professionale dei suoi addetti. Probabilmente, le conseguenze più positive del caso Chernobyl vanno nel senso di una maggior disponibilità ad affrontare il problema della sicurezza (pur non assicurando, come sperato, quella intrinseca del reattore), attraverso un approccio coerente e sistemico fondato su standard di buona tecnica che comprendono anche le raccomandazioni e i principi ergonomici da applicare ad un sistema, considerato nella sua complessità (aspetti fisici ed aspetti organizzativi) /14/. 5 Conclusioni Le considerazioni finali sul ruolo dell’ergonomia nelle diverse realtà lavorative (di qualsivoglia tipologia e dimensione), pongono ancora una volta l’accento sui suoi legami con la responsabilità sociale d’impresa, da intendersi non solo come politica aziendale di “immagine” ma come qualcosa di ben altra importanza: un insieme di responsabilità e di doveri che ogni organizzazione ha verso tutti coloro che in qualche modo gravitano attorno ad essa. Oggi si usa diffusamente il termine stakeholder quando si fa riferimento ai clienti/consumatori, alla comunità circostante fatta di investitori, partner commerciali e collaboratori/dipendenti: tante persone coinvolte e condizionate, a diverso titolo e misura, dalla progettualità strategica messa in atto da vertici aziendali e istituzionali. Tali decisioni non dovrebbero comportare soltanto la responsabilità di produrre utili per titolari o azionisti ma, 304 soprattutto, quella di promuovere lo sviluppo sostenibile ed altre iniziative a tutela dei diritti dei lavoratori. Al riguardo, salute e sicurezza rappresentano priorità indiscutibili che presuppongono la negazione di comportamenti caratterizzati da mancanza di etica manageriale, esclusiva ricerca del profitto, carenze strutturali e semplificazioni gestionali capaci di alterare un’adeguata distribuzione dei carichi di lavoro e la possibilità di farvi fronte, all’interno di un sistema affidabile. Riconsiderando il rischio di errore e le sue conseguenze in termini di incidenti ed infortuni sul lavoro, il pensiero conclusivo corre all’ultimo grande disastro ferroviario accaduto nella provincia di Bologna, all’altezza di Crevalcore, nel gennaio 2005. Senza entrare nella dinamica degli eventi che lo hanno provocato, quello che preme sottolineare in questo momento è l’importanza attribuita, dal “Coordinamento 12 gennaio” (costituitosi a seguito dell’incidente) ad una gestione realistica, integrata e condivisa della sicurezza, in un’ottica di responsabilità sociale che sembra aver già stimolato (ed in parte ottenuto) anche l’adesione di Istituzioni locali: Province di Bologna, di Modena e di Mantova e della Regione Emilia-Romagna. Se per la fine del 2006 pare garantito per Crevalcore il doppio binario, per il 2008 le previsioni assicurano il completamento dell’intera tratta (Bologna-Verona). Pur apprezzando la rilevanza di questi interventi, l’approccio sistemico che sembra oggi caratterizzare le reiterate e precise richieste degli stessi lavoratori, anche in questo caso comporta il soddisfacimento di altri bisogni ed aspettative. In particolare, viene richiamata con forza l’attenzione sui locomotori antiquati o non attrezzati e su altri disservizi considerati ormai “storici” che, se non vengono sanati, continuano a mantenere inaffidabile l’intero sistema. Non è infatti sufficiente realizzare il raddoppio se non vengono risolte gravi carenze strutturali e strumentali. La domanda che ci si pone nasce da una constatazione evidente: a che cosa servono i sistemi di 305 sicurezza sulla tratta del disastro se i treni “non sanno leggerli” ?. Tutto questo fa risaltare l’utilità della partecipazione e del coinvolgimento dei lavoratori, impegnati a contrastare sia il disimpegno dei vertici, sia gli adempimenti formali o parziali che continuerebbero a rappresentare fonti di rischio e di frustrazione. Inoltre, l’aiuto degli stessi operatori, adeguatamente formati a percepire e riconoscere i problemi, altrimenti destinati a trasformarsi in rischi latenti per la sicurezza delle persone e delle strutture, può contribuire a rendere realistici ed efficaci i cosiddetti controlli di qualità (audit). Nonostante i tempi per un adeguamento degli assetti organizzativi ai principi dell’ergonomia e dell’etica non sembrano essere del tutto maturi, a causa di una penetrazione culturale ancora insufficiente, alcuni segnali positivi emergono soprattutto dopo il disastro all’aeroporto di Linate, nel giugno 2002. In quell’occasione esperti autorevoli denunciarono la mancanza di un adeguato sistema di gestione della sicurezza (Safety Management System), basato su alcuni criteri ineludibili che è opportuno ricordare: alla sicurezza va assegnata, sempre e comunque, la priorità più alta; il rischio d’incidente va ridotto al minimo o quantomeno al livello ragionevolmente più basso possibile; l’organizzazione del lavoro deve impegnarsi ad adottare una gestione attiva ed efficace della sicurezza; all’interno di ogni realtà operativa occorre, da un lato, identificare e dichiarare le responsabilità riguardanti le problematiche della sicurezza e, dall’altro, verificare la conformità di tutte le prescrizioni e gli standard da seguire, al riguardo. Come ultima considerazione, occorre riconoscere alla teoria ed alle buone pratiche ripetutamente chiamate in causa, l’indirizzo e il supporto che possono offrire agli operatori che 306 interagiscono con tecnologie sempre più avanzate, in contesti dove gli aspetti comunicativi e relazionali rischiano di essere pericolosamente trascurati. L’attenzione per l’uomo va intesa anche nel senso di “aggiornare” i suoi modelli mentali, per consentirgli una corretta rappresentazione dei rapporti che stabilisce con le macchine e con l’ambiente circostante, così da rendere adeguati gesti e comportamenti durante l’attività da svolgere. Ciò significa “aggiornare” anche le iniziative di formazione, da programmare in modo che la percezione soggettiva del rischio venga favorita e verificata per consentire al lavoratore di riconoscere certi meccanismi psicologici (spesso inconsapevoli) capaci di condizionare negativamente il giudizio sulle decisioni da prendere. In ogni caso, di fronte all’ardua impresa di migliorare la qualità del lavoro, in un momento storico di grandi cambiamenti sociologici e tecnologici, l’uomo non può arrendersi ad una complessità fatta di variabili spesso latenti e incomprensibili. Al riguardo, l’ironia di Alexander Solzhenitsyn è davvero emblematica: “Gli uomini non sbagliano perché la verità è difficile da vedere o capire. Si potrebbe talvolta coglierla con un’occhiata. Noi sbagliamo perché è più confortevole…”. 6 Riferimenti bibliografici 1. Sperandio J. C., Lezione dottorale per la laurea ad honorem in psicologia, Università di Bologna, 2005. 2. Fortuna G., L’etica del lavoro che cambia: quale ruolo per l’ergonomia ?, Prima versione di un saggio elaborato nell’ambito dell’attività accademica presso il Trinity College di New York, 2004. 3. Lozano J.M., Servono visione d’impresa e visione di paese. Un approccio alla Responsabilità Sociale di Impresa, Seminario Esade, Bologna, novembre 2004. 4. Zamagni S., La responsabilità sociale d’impresa e la sussidiarietà circolare, intervento al seminario su La responsabilità sociale d’impresa e la governance del territorio, Com-pa, Bologna, novembre 2004. 307 5. Watzlawich P., Beavin J.H., Jackson D.D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971. 6. Mantovani G., Ergonomia, Il Mulino, Bologna, 2000. 7. Bandura A. (a cura di), Self-efficacy in changing societies, Cambridge University Press, 1995, traduzione italiana a cura di G. Lo Iacono, Edizioni Erickson, Trento, 1996. 8. Rasmussen J., The human as a system component in H.T. Smith and T.R.G. Green Human interaction with computers, Academic Press, 1980. 9. Reason J.T., Generic error modelling system, in J. Rasmussen et al. (a cura di), New technology and human error, London, Wiley, 1987. 10. Norman D.A., La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, Giunti, Firenze, 1997. 11. Norman D.A., Le cose che ci fanno intelligenti. Il posto della tecnologia nel mondo dell’uomo, Feltrinelli, Milano, 1995. 12. Chachko S.A., Catastrofe di Chernobyl e gli errori degli operatori. Rapporto tecnico ENEA a distribuzione limitata, a cura di D. Lavrencic e P. Loizzo, Roma, 1992. 13. Loizzo P., Le centrali nucleari. La Scienza Inesatta. Monteleone, Vibo Valentia, 1994. 14. Cenni P., Applicare l’ergonomia, FrancoAngeli, Milano, 2003. 308 Regole e buone prassi. Alcune considerazioni sulle prospettive di riforma del sistema delle norme in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro PAOLO CECCHERELLI L’obiettivo, che ci auguriamo di riuscire a raggiungere con questo lavoro, è quello di riesaminare per linee generali sia il sistema delle regole fondamentali vigenti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro sia l’esperienza maturata nell’ampio quadro di sperimentazioni di buone prassi che hanno trovato recente diffusione sulla base degli indirizzi che la comunità europea ha fornito per promuovere iniziative e gestire progetti mirati a prevenire condizioni di rischio, infortuni e malattie professionali. Questo per cercare di descrivere le specificità degli ambiti propri, le possibili evoluzioni sulla base di quanto già fatto in tutti questi anni. L’esigenza nasce da circostanze di attualità che, a nostro giudizio, possono portare ad ulteriori incertezze a tutto danno dello stato presente delle tutele garantite ai lavoratori e generare confusione nelle pratiche di sviluppo di tutti quei progetti di promozione della salute che hanno coinvolto diversi ambiti sociali (istituzioni, organizzazioni sindacali ed associazioni imprenditoriali). Il fatto di orientare interventi legislativi di depenalizzazione del complesso normativo esistente, trasferendo sul piano del diritto l’esperienza sociale delle buone pratiche nei luoghi di lavoro, appare legittimo ma farlo attraverso la riesumazione di tecniche di intervento ispettivo oramai entrate quasi in disuso perché inadeguate appare un modo improprio di affrontare le effettive necessità di aggiornamento. Infatti, di fronte alla proposta di costituzione di un Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro fondata sul criterio di evitare di fornire indicazioni precise di pericolosità sociale dei comportamenti delle aziende attraverso la trasformazione di gran parte delle norme di riferimento degli anni 1955-56 in norme di buona tecnica, si sono avuti espressi pareri negativi da parte di 309 importanti organismi istituzionali ( ad es. il Consiglio di Stato, la Conferenza unificata Stato-Regioni) che hanno in sintesi rappresentato esigenze sociali diffuse di disorientamento e salvaguardia dell’esistente. L’introduzione di una discrezionalità tecnica degli organismi di vigilanza con il potere di disposizione ed il legare l’applicazione delle tutele solo all’occasione dell’intervento dell’organo di vigilanza costituiscono criticità che sicuramente potrebbero generare inefficienze rilevanti nella gestione aziendale della sicurezza e salute sul lavoro. In definitiva, mettere sullo stesso piano quella esperienza creatasi nella diffusione delle buone prassi di promozione della salute e sicurezza, riducendone la complessità a strumenti che il personale ispettivo tecnico dovrebbe rendere contenuto di disposizioni in fase di accertamento senza spesso possedere criteri certi di valutazione della portata degli stessi, appare un modo di creare un intreccio di dimensioni diverse del tutto improprio: la dimensione del diritto e quella di accordo e pratiche sociali organizzate. In sostanza, se da valutazioni di risultato di progetti congiunti tra rappresentanti aziendali della sicurezza e dei lavoratori con l’apporto anche di Istituti competenti su determinati rischi emergono indicazioni di dettaglio sull’uso di dispositivi particolari di protezione in un determinato settore od azienda, questo suggerimento e queste conoscenze potrebbero essere contenuti di una disposizione. Come poi verrebbero ad essere applicati, senza previsioni che definiscano un gradiente di pericolosità effettiva del singolo caso attraverso l’individuazione di una sanzione per la fattispecie specifica di inosservanza, appare un interrogativo lecito che induce a ritenere che in queste circostanze la discrezionalità, invece, di costituire una possibilità di miglioramento generale nell’applicazione delle norme vigenti diventa un momento che genera unicamente incertezze. Il legislatore, quindi, anche sulla base dell’esperienza sociale, dovrebbe stabilire precetto e sanzione per tutte le ipotesi che oramai costituiscono patrimonio di conoscenze sulla materia ed 310 eventualmente incentivare ulteriori iniziative di promozione della salute e sicurezza creando incentivi o meccanismi premianti per tutti coloro che forniscono disponibilità a sviluppare progetti di buone pratiche da sperimentare e diffondere. La progettazione e lo sviluppo di sperimentazioni e progetti di buone prassi non possono che rimanere ambiti autonomi in cui le parti sociali, le istituzioni competenti ed l’imprenditoria creano combinazioni partecipate produttive di innovazione negli assetti organizzativi aziendali. 1 Il sistema normativo e l’apparato di controllo Il sistema normativo vigente in materia di sicurezza e prevenzione sul lavoro è il risultato di un accorpamento progressivo di norme che, nel tempo ed in stretto legame con l’evolversi delle trasformazioni industriali e produttive, sono venute a costituire un articolato complesso di leggi e decreti che in diverse occasioni hanno reso difficile la sua applicazione creando spesso differenze interpretative ed applicative. La normativa italiana in materia di sicurezza e salute sul lavoro trova i primi principali riferimenti generali, oltre che nella Costituzione della Repubblica, artt. 32 e 41 2’ comma, e nel Codice Civile, art. 2087, nei decreti degli anni cinquanta, in particolare nel D.P.R. n. 547/955 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, nel D.P.R. 19 marzo 1956 n. 302 integrativo del precedente decreto e nel D.P.R. n. 303/1956 sull’igiene del lavoro. Nello stesso periodo ulteriori previsioni di carattere speciale trovano luogo, in particolare, il D.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 320 sulla prevenzione degli infortuni nel lavoro sotterraneo, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 321 sulla prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nei cassoni ad aria compressa, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 322 sulla prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nei cassoni ad aria compressa, il D.P.R. 320 marzo 1956 n. 322 sulla prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro nell’industria della cinematografia e della televisione, il D.P.R. 20 marzo 1956 n. 323 per la prevenzione degli infortuni sul lavoro negli impianti telefonici. 311 Tutto questo insieme di norme viene prodotto per definire specifiche disposizioni tecniche che hanno il pregio per la prima volta nell’ordinamento di definire tutele al lavoro subordinato, obblighi e responsabilità nell’organizzazione delle attività produttive. I decreti arricchiscono il quadro normativo con una serie di indicazioni su misure necessarie a tutelare l’incolumità e l’integrità fisica del lavoratore. Verso la fine degli anni sessanta ed negli anni settanta un ulteriore sviluppo si determina per effetto di alcune norme, nello specifico l’art. 9 della Legge n. 300/70 Statuto dei Lavoratori, che attribuiscono alle rappresentanze dei lavoratori un ruolo di maggiore impegno sul piano contrattuale nella gestione e promozione della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro. Alla fine degli anni settanta, la Legge n.833/1978, la riforma sanitaria, fornisce indicazioni per ridefinire l’assetto generale dell’apparato di controllo e crea riferimenti in strutture regionali. Solo in via sussidiaria le strutture periferiche ministeriali continuano a mantenere competenze di vigilanza nella materia. In sostanza, l’assetto istituzionale degli organismi di vigilanza, in questi anni, viene ad essere fortemente sollecitato in un processo di riorganizzazione attraverso ripartizioni di funzioni tra Stato e Regioni ma il risultato conclusivo è un rallentamento di iniziative volte a potenziare gli interventi di controllo che garantissero adeguamento del sistema italiano a quello europeo verso cui si procede a confronti e sinergie. Proprio in questo contesto ed in un clima di relazioni industriali piuttosto critico per effetto della diffusione di processi di trasformazione e riorganizzazione produttiva, l’Italia viene a trovarsi sollecitata dalla Comunità Europea, anche attraverso provvedimenti ufficiali, ad attivarsi più concretamente per cercare di uniformarsi ai livelli di tutela del lavoro che trovano già forma in tutti gli Stati membri. Solo con la fine degli anni ottanta e gli anni novanta dopo un lungo periodo di stasi legislativa si riafferma un dibattito sociale e politico sulle questioni legate alla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Un impulso particolare lo forniscono le norme Cee: l’attività 312 parlamentare di recepire direttive europee riporta la materia nelle attualità di interesse pubblico e sociale. In primo luogo, vengono emanati il D. Lgs. 15 agosto 1991 n. 277 in materia di esposizione professionale al piombo, amianto e rumore e, dopo pochi anni, il D.Lgs. n. 626 /94, il quale recepisce la direttiva comunitaria n. 391 /89 ed altre sette della fine degli anni ottanta sui luoghi di lavoro, le attrezzature, i dispositivi di protezione individuale, la movimentazione manuale dei carichi, i videoterminali, gli agenti cancerogeni e biologici. In seguito, per tutto il decennio degli anni novanta, intervengono una sequenza di decreti legislativi attuativi di direttive specifiche in diversi settori e su specifici rischi ed attrezzature ( ad es. cantieristica mobile, rumore, macchine, ecc.). Il Decreto Legislativo n.626/1994 interviene come momento fondamentale di svolta per lo sviluppo e la crescita di una cultura della prevenzione nei luoghi di lavoro. Le innovazioni che questo propone sul piano delle responsabilità e della partecipazione renderanno la sua attuazione un momento di verifica generale dello stato generale dei fatti sia sotto il profilo sociale che istituzionale. Il coinvolgimento di responsabili aziendali in attività preventive di valutazione, formazione ed informazione e la sollecitazione a valorizzare un sistema di relazioni industriali più orientato a livelli di partecipazione e collaborazione delle rappresentanze dei lavoratori nella gestione della sicurezza sul lavoro sono gli aspetti fondamentali che il provvedimento legislativo assume dalle direttive quadro. Nascono una pluralità di soggetti, il datore di lavoro, i dirigenti e preposti, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il medico competente, i lavoratori e le loro rappresentanze per la sicurezza e gli organi di vigilanza, consulenza ed assistenza (Azienda Sanitaria Locale, Vigili del Fuoco, Direzione Provinciale del Lavoro) a cui le norme attribuiscono ruoli e funzioni di scambio informativo, iniziativa organizzativa e controllo. Importante è la circostanza che insieme a questi aspetti generali l’emanazione del decreto induce modifiche nel sistema sanzionatorio 313 portando alla introduzione dell’istituto della prescrizione alla cui ottemperanza si estingue il procedimento penale. Nel clima generale di incertezza e difficoltà interpretative questo strumento, invece di diventare il momento più importante di riqualificazione della presenza istituzionale sul luogo di lavoro, viene a generare sempre più spesso letture riduttive degli obblighi portando imprenditori soprattutto nella piccola e media impresa ad assumere comportamenti diretti ad evitare sanzioni piuttosto che a sviluppare cultura di prevenzione. Per i presupposti tutti orientati alla prevenzione che il decreto crea, organismi qualificati esterni alle realtà aziendali potrebbero elaborare modalità articolate di organizzazione e osservanza delle norme in un contesto fortemente innovativo e con alta partecipazione dei lavoratori. Ma questo, purtroppo non trova spazio e risorse per realizzarsi. L’art. 23 del decreto legislativo dispone che la vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza è compito principale delle aziende sanitarie locali che con proprio personale tecnico e medico deve assolvere le funzioni di controllo dell’ambiente esterno, dei luoghi di lavoro e delle attrezzature. Lo stesso articolo, in secondo grado e solo per attività a rischio particolarmente elevato da individuare con apposito decreto, riafferma un ruolo di vigilanza alle strutture periferiche del Ministero del Lavoro ed al tradizionale corpo degli ispettori del lavoro. Nello stesso tempo, l’art. 24 abilita a funzioni di formazione, consulenza ed assistenza più enti: le Regioni, Il Corpo Vigili del Fuoco, l’Ispsel, l’Ispettorato del lavoro, l’Istituto italiano di medicina sociale. E’ chiaro, quindi, che l’apparato istituzionale, deputato al ruolo di assistenza, consultazione e vigilanza sull’applicazione di questo insieme di norme al fine di creare un reale sistema di prevenzione, è composito ed in assenza di integrazione e scelte concordate risente di difficoltà operative. Tutti gli organismi centrali e periferici soffrono nell’assolvimento dei loro compiti di disfunzioni: inadeguate strutture materiali, scarse risorse umane e difficile coordinamento. 314 La Commissione parlamentare, presieduta dall’on. Smuraglia nel 1997, nel valutare le condizioni della sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro in una indagine conoscitiva, evidenzia con chiarezza le debolezze del sistema di controllo e vigilanza. Le carenze del livello centrale nello svolgere le funzioni di coordinamento ed indirizzo e la mancanza di iniziative di rafforzamento da parte del dipartimento di prevenzione del Ministero della Sanità a creare collegamenti più stretti con il Ministero del Lavoro e gli altri competenti ed, in particolare, a sviluppare relazioni forti con le regioni sono tra le cause suggerite nella relazione finale. I risultati sono indicati nello stesso documento: il personale delle regioni impiegato in attività connesse agli adempimenti in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro è meno dell’1% del personale complessivo del SSN, scarse sono le risorse per la formazione specifica mirata a qualificare gli interventi del personale occupato nei servizi tecnici, solo un 3% dell’universo dell’imprese sarebbe oggetto di vigilanza programmata su iniziativa. Dall’epoca a cui si riferisce questa relazione sono passati diversi anni e maggiore sensibilità alle problematiche di coordinamento si è realizzata: è stata organizzata solo alcuni anni fa una campagna europea di vigilanza sulla cantieristica edile che ha coinvolto sia le strutture periferiche ministeriali che il personale dei Servizi di Prevenzione e Sicurezza delle Aziende Sanitarie, ma le carenze di personale rimangono forti e l’organico complessivo, nonostante gli incrementi in atto, si mantiene su quote del tutto inadeguate per garantire un efficace e periodico controllo sull’applicazione delle norme come accade in altri paesi della comunità europea. 2 L’apparato sanzionatorio e la depenalizzazione Già all’inizio degli anni novanta magistrati e dottrina richiamavano l’attenzione sul fatto che il nostro ordinamento giuridico in materia di lavoro è fortemente pervaso da sanzioni penali di rilevante valenza offensiva su fattispecie di reato di modesto significato lesivo. Infatti, nell’ordinamento italiano in materia di sicurezza sul lavoro è andato indebolendosi il criterio di congruità tra gravità dell’illecito e misura 315 edittale della pena portando il sistema nel complesso a paradossi nell’applicazione. Questo fenomeno ha assunto caratteristiche tali che ha portato alla definizione dei cosiddetti ‘reati bagatellari’ cioè quei reati privi di pericolosità ed offensività tali da giustificare la loro qualificazione penale. Collegato a questo fenomeno si è andato verificando una congestione dell’apparato giudiziario per il carico processuale esuberante e la scarsa rilevanza dei procedimenti aperti. Sfiducia ed incertezza della risposta giudiziaria nella tutela del lavoro ha preso luogo rendendo sostanzialmente innocuo l’apparato di contrasto all’inosservanza delle norme vigenti in materia di sicurezza e prevenzione. Si tratta di un problema di legittimità che viene meno con il proliferare di norme affastellate rendendo possibile il diffondersi di prescrizioni di reati di pericolo a contenuto sempre più generico ed indeterminato. Da questo quadro altalenante sorge la spinta verso la depenalizzazione ovvero l’individuazione di strumenti, alternativi alla pena, in grado di semplificare l’azione giudiziaria e nello stesso tempo garantire efficacia e deterrenza a comportamenti ritenuti lesivi di un bene pubblico indisponibile quali la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Quindi, porre in essere azioni, che abbiano quale scopo primario il prevenire le situazioni di pericolo, creando condizioni che mirino ad evitare degenerazioni pericolose di situazioni e comportamenti, diventa la risposta plausibile e giustamente severa in quanto commisurata nella sua efficacia alla gravità dei fatti rilevati ed alla soggettività manifestata nelle circostanze che si verificano. Lo Stato, in definitiva, ha interesse ad evitare che si determinino persistenti situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza dei lavoratori e lo strumento che viene considerato effettivo è quello di derubricare l’illecito penale ad illecito amministrativo. Già da decenni è in corso un processo di depenalizzazione che ha interessato altre materie del diritto e che ha trovato in due provvedimenti generali i riferimenti principali: la legge n.706 del 24 316 dicembre 1975 ‘ Il sistema sanzionatorio delle norme che prevedono contravvenzioni punibili con l’ammenda ’ e la legge n. 689 del 24 Novembre 1981 ‘Modifiche al sistema penale’ . In questo quadro di orientamento la sanzione amministrativa viene a rivalutarsi in un ruolo indeffetibile di maggiore efficacia quale strumento di arginamento e deterrenza in materia di sicurezza e prevenzione. I tempi di prescrizione del procedimento sono maggiori di quelli dell’illecito penale contravvenzionale ed il prolungamento senza limiti temporali della sua interruzione consentono un’applicabilità più puntuale dell’ammenda assicurando l’effettiva punizione del trasgressore. Dal quadro generale di valutazioni sull’efficacia della sanzione penale nell’ambito delle norme in materia di sicurezza sul lavoro emerge sempre più chiaramente l’efficacia dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria inserita in un meccanismo articolato di risposta che assicuri un’osservanza delle disposizioni di legge quale modalità concreta e possibile che garantisca certezza e rapidità dell’azione giudiziaria. La legge 6 dicembre 1993 n.449 di delega al Governo per la riforma dell’apparato sanzionatorio in materia di lavoro interviene in questo clima e restringe il campo degli interessi di tutela penale riaffermando che la sicurezza ed igiene del lavoro, le tutele delle condizioni psico-fisiche dei lavoratori, le modalità di costituzione dei rapporti di lavoro con riferimento all’intermediazione ed interposizione rivestono caratteristiche che meritano tutele penali ed interventi repressivi di sostanziale effetto deterrente. Di fatto, quindi, la previsione di una sanzione penale per ogni circostanziata ed individuata fattispecie diventa essenziale ed evidenzia il livello di pericolosità e gravità dell’illecito a vantaggio della certezza del sistema di norme vigenti. L’intervento più determinante in materia di igiene e sicurezza del lavoro in attuazione della delega suddetta è il d.lgs. 19 dicembre 1994 n.758. Con questo intervento legislativo si realizzano tre importanti punti. In primo luogo, si concreta la depenalizzazione di una serie di fattispecie di illecito minore derubricando ad illecito amministrativo 317 molte contravvenzioni in materia di gestione dei rapporti di lavoro (ad es. libretto di lavoro, orario, etc.); secondariamente si introduce un peculiare meccanismo estintivo, la prescrizione, prendendo spunto da uno strumento esecutivo, quale la diffida di cui, già in precedenza con l’art.9 del D.P.R. 19 marzo 1955 n.520, il legislatore aveva dotato l’organico ispettivo in materia di lavoro; infine, si ridefinisce l’intero sistema sanzionatorio in tema di sicurezza ed igiene del lavoro. Il decreto legislativo, in argomento, costituisce un momento qualificante ed assume interesse, soprattutto processuale, non tanto per aver ridefinito l’efficacia di sanzioni di illeciti minori ed aver rivisto l’apparato sanzionatorio penale per fattispecie di illecito già esistenti quanto per aver istituito la prescrizione in sostituzione della diffida e della disposizione. Questo strumento si caratterizza, soprattutto, per essere particolarmente incisivo sul piano della prevenzione creando condizioni di incentivo alla collaborazione da parte dei responsabili e possibilità di intervento concreto per rimuovere le cause di pericolo riscontrate dall’organo di vigilanza. 3 La diffida, la disposizione e la prescrizione obbligatoria La diffida, la disposizione e la prescrizione costituiscono poteri propri dell’organo di vigilanza che nell’assolvimento dei compiti assegnati di polizia giudiziaria utilizza al fine di ottenere risultati efficaci di ottemperanza alle norme vigenti. La facoltà di diffida costituisce una attività preliminare per la regolarizzazione delle situazioni sanabili alternativa all’azione repressiva in senso stretto che trova nell’art.9 del DPR 19 Marzo 1955 n. 520 il proprio fondamento legislativo. Questo istituto, che è stato accordato all’ispezione del lavoro nella sua fase costitutiva, si legittima con l’esigenza del legislatore di ottenere il rispetto delle norme violate con la minaccia della pena anche discostandosi da principi generali di procedura penale in tutti i casi in cui un avvertimento preliminare può porre rimedio a comportamenti antigiuridici di rilevanza penale. 318 Anche la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 81/47 prevedeva questa possibilità di deroga per tutti gli stati membri e sottolineava che una minaccia di punizione imminente è generalmente più efficace della stessa punizione agli effetti di ottenere conformità alle norme vigenti. Questo strumento di azione giudiziaria ha avuto un suo utilizzo diffuso, e a volte improprio, sin quando non sono intervenuti diversi pareri contrari degli organi superiori della magistratura ordinaria che ne hanno definito i limiti ed escluso l’uso. Nello stesso tempo, sono entrate in vigore altre norme che hanno reso questo strumento del tutto inutilizzabile perché carente di un certo grado di trasparenza come si realizza in nuovi strumenti che intervengono a completamento nel processo generale di depenalizzazione messo in opera nell’ultimo ventennio. Il potere di disposizione trova le sue origini nell’art. 10 del DPR 19 Marzo 1955 n. 520 che dispone la facoltà del funzionario ispettore del lavoro di impartire con un atto esecutivo un precetto in materia di prevenzione degli infortuni in tutti quei casi in cui per l’applicazione di norme obbligatorie la norma rinvia ad un apprezzamento discrezionale dell’organo di vigilanza. Tale facoltà è stata ritenuta applicabile senza particolari vincoli anche se il suo utilizzo è stato oculatamente contenuto ai casi che effettivamente non trovavano precise indicazioni di dettaglio negli obblighi di legge. In sostanza, laddove il sistema normativo pur definendo obblighi e tutele non definisce in particolare situazioni dettagliate, può intervenire la disposizione dell’ispettore che venuto a conoscenza di circostanze e fatti specifichi che non hanno una regolamentazione particolarmente espressa dispone modalità concrete di intervento per garantire quegli obblighi generali di tutela previsti dall’ordinamento. L’uso di questo dispositivo è stato molto diffuso in carenza di strumenti giudiziari che consentissero l’applicabilità di un sistema complesso di norme quale è quello in materia di sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro. Ha consentito l’adeguamento di situazioni pericolose anche in carenza di previsioni dettagliate per esempio nel caso di bonifica di ambienti di lavoro coibentati con 319 pannelli di amianto oppure per definire periodicità negli accertamenti sanitari per lavoratori esposti a rischi non tabellati. La disposizione è stata sempre utilizzata per imporre pratiche diffuse previa consultazione delle parti interessate e con l’evoluzione del sistema normativo in materia di sicurezza e del procedimento sanzionatorio è venuta sempre più a perdere importanza soprattutto per evitare disomogeneità nell’applicazione di principi di tutela su tutto il territorio nazionale. In alcune regioni, infatti, negli ultimi decenni spesso la disposizione è stata considerata un pre-avvertimento all’adempimento per effetto di interpretazioni superficiali ma soprattutto a seguito di lacune legislative su una materia in profonda evoluzione. L’introduzione nel sistema sanzionatorio dello strumento della prescrizione pone un argine più preciso all’utilizzo di questi strumenti. In sostanza, si rende possibile intervenire ridefinendo affidabilità ed effettività alla tutela in materia di sicurezza ed igiene del lavoro pur seguendo un percorso giudiziario puntualmente trasparente per l’autorità competente che può concludersi in caso di ottemperanza ai contenuti della prescrizione e di pagamento della corrispettiva sanzione amministrativa con l’estinzione dell’illecito penale. Le fasi della procedura comportano che al momento del riscontro dell’inosservanza di norme di sicurezza ed igiene del lavoro l’organo di vigilanza emetta un atto di prescrizione con il quale sono impartite indicazioni puntuali per rimuovere i fattori di rischio o pericolo accertati per effetto dell’inosservanza e, nello stesso tempo, informa tramite una comunicazione di notizia di reato l’autorità giudiziaria che apre un procedimento a carico del responsabile. Con la successiva verifica dell’adempimento prescritto, l’organo ispettivo ammette il responsabile al pagamento di una sanzione amministrativa rapportata alla misura edittale nel quarto del massimo dell’ammenda prevista per la violazione accertata e avuta conferma dell’avvenuto pagamento di questa comunica all’autorità giudiziaria che si sono verificate tutte le condizioni perché l’illecito penale possa considerarsi estinto. L’autorità giudiziaria con l’archiviazione del 320 procedimento procede alla dichiarazione di estinzione dell’illecito penale. Come appare chiaro questo iter giudiziario soddisfa condizioni di certezza e trasparenza del diritto rapportando tutti gli atti prescrittivi ad un quadro normativo completo di previsioni di fattispecie ed individuazione di gravità delle inosservanze in quanto tutto l’assetto è disciplinato in modo coerente rispetto ai dettami generali e le sanzioni sono ordinate secondo criteri che evidenziano anche il grado di pericolosità sociale del precetto non osservato differenziando sanzioni amministrative da sanzioni penali (ad es. reclusione, arresto, ammenda, etc.) e tra queste ultime distinguendo le fattispecie sanzionate con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda quali quelle che possono essere oggetto di prescrizione. Questo modo di operare e di applicare la pena sostituendola con sanzioni amministrative ha contribuito nell’ultimo decennio in modo sostanziale a ridurre il carico processuale assicurando maggiore funzionalità al regime sanzionatorio. Nel dibattito dottrinale sul tema, si ritiene che questi risultati sono conseguenza della tempestitività della reazione alla commissione del fatto illecito che l’adozione della sanzione amministrativa garantisce. Molto importante rimane il criterio generale che siano la legge o atti equiparati aventi forza di legge a stabilire la misura ed il tipo di sanzione per reprimere la trasgressione di un precetto. Con questo decreto, in sintesi, il legislatore indica un modello ed un meccanismo sanzionatorio. Orientando l’attività degli organi di vigilanza attraverso il rafforzamento del loro ruolo con questo potere di prescrizione, si mantiene, comunque, un controllo della magistratura sull’operato degli stessi e si indirizzano le attività al rispetto di criteri di congruità tra sanzioni e violazione dei precetti definiti dal legislatore secondo il grado di pericolosità e gravità sociale. Una definizione di un quadro complessivo di obblighi risulta, quindi, determinante per l’individuazione del tipo e della misura delle sanzioni. 321 In definitiva, nell’attuale sistema sanzionatorio in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, oltre al criterio classico di sanzionare in modo repressivo le violazioni alle norme antinfortunistiche fino ad applicare la sanzione della reclusione per i casi da cui derivano lesioni o morte di lavoratori, per le ipotesi meno gravi di illecito si afferma il criterio di depenalizzazione con l’istituto della prescrizione prendendo spunto dal meccanismo già previsto dell’oblazione di cui all’art.162 bis c.p.p. ed integrandolo con una attività dell’organo di vigilanza indirizzato a sollecitare un comportamento attivo di ‘riparazione e prevenzione’ rivolto ad eliminare le condizioni di pericolo. Tutto questo, comunque, si realizza in attività costantemente in comunicazione con l’autorità giudiziaria a cui l’organo di vigilanza riferisce con puntualità quanto prescritto e quanto ricorra l’eventuale inadempimento alla prescrizione per dar seguito al procedimento penale. La prescrizione è venuta, pertanto, ad essere il principale modo di intervenire nelle attività di ispezione in materia di sicurezza e salute e si è affermato per essere uno strumento utile e adattabile che potrebbe avere anche ulteriori possibilità di miglioramento se si articolassero attività di consultazione più proficua tra soggetti competenti ed interessati. La validità di questo procedimento atipico rispetto al quadro generale delle norme di procedura ha trovato diverse conferme nel tempo. Successivamente, con un recente decreto di riforma dei compiti e delle funzioni dell’organo di vigilanza, è anche stato esteso a tutti i casi di fattispecie penale in materia di legislazione sociale per i quali la norma prevede la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda. Per concludere, quindi, con uno strumento di questa consistenza la proposta di escludere sanzioni penali per molte delle previsioni dei decreti degli anni cinquanta, riducendo molti precetti imperativi a norme tecniche e buone prassi, appare una forzatura del processo di depenalizzazione in atto che nel tempo potrebbe indurre conseguenze 322 imprevedibili e, certamente, una minore attenzione allo sviluppo di una cultura della prevenzione nei luoghi di lavoro. 4 Le buone prassi e le iniziative di promozione della salute sul lavoro Un orientamento diffuso che ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo di una cultura di prevenzione in tutti gli stati membri della comunità europea è stato quello di promuovere nel sociale, con il contributo di tutte le parti sociali ed anche di istituzioni competenti, iniziative volte a migliorare la qualità della vita e le condizioni di lavoro. Un volume consistente di progetti, che hanno trovato incentivi ed attenzione da parte di importanti organismi della comunità, si è articolato in ambiti sociali qualificati. Con la costituzione e l’articolazione di ruolo di una Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul luogo di lavoro si avviano, infatti, attività di impulso per soddisfare il bisogno di garantire ambienti di lavoro sicuri e sani. Tutti i paesi della comunità sono sollecitati su questo piano e sperimentazioni di forme particolari di gestione e promozione della salute e sicurezza diventano progetti da realizzare. La strategia comunitaria si muove in considerazione dello stato di fatto esistente e richiama alcune esigenze di fondo a cui far fronte: consolidare una cultura diffusa della prevenzione, riuscire ad uniformare il quadro normativo adeguando le forme giuridiche al bisogno di efficacia dell’azione giudiziaria e sollecitare progressi nel ‘benessere’ al lavoro attraverso l’elaborazione di pratiche sempre migliori, di dialogo sociale, di responsabilità sociale delle imprese. In sostanza, l’approccio europeo alla salute e sicurezza sul lavoro considera il miglioramento dell’ambiente e delle condizioni di lavoro elementi fondamentali di una economia basata sulla qualità e valuta momenti strategici per le iniziative di promozione del benessere e salute sul lavoro tutte le collaborazioni possibili tra i soggetti coinvolti. Recenti interventi sulle prospettive di sviluppo degli interventi comunitari sulla materia richiamano l’attenzione sul bisogno di riflettere su tutte le possibili soluzioni di cambiamento 323 nell’organizzazione del lavoro nei casi di rischio rilevato e incoraggiano lo sviluppo di progetti che raccolgano l’interesse di tutte le parti sociali. In questo quadro europeo, in Italia come in tutti gli altri paesi della comunità si sono attivate iniziative di promozione del benessere e della salute che vanno molto al di là del garantire unicamente requisiti minimi di sicurezza negli ambienti di lavoro. Sempre più appare chiara che nella materia, per ottenere livelli di gestione e promozione della salute e sicurezza sensibili all’evoluzione tecnologica ed allo sviluppo delle relazioni industriali nel suo complesso, si deve necessariamente ricorrere a continue analisi di confronto ed all’individuazione di pratiche migliorative che vedano alla propria base coesione sociale e partecipazione. Una ‘buona prassi’ si caratterizza per essere uno strumento di dialogo sociale o di partnerariato tra rappresentanze di parti sociali ed istituzioni autorevoli e si sostanzia in un progetto che affronta problematiche riconosciute da autorità competenti nel quadro di norme vigenti individuando all’interno di un’organizzazione fasi e metodi per sviluppare benessere e ridurre i rischi inerenti la salute e la sicurezza. Queste pratiche sperimentali non possono che collocarsi su piani di efficacia ed etica professionale per la promozione di condizioni migliori di vita e di lavoro attraverso l’attento esame ed anticipazioni dei rischi in determinate attività produttive. Si tratta di una innovazione riuscita che funziona e corrisponde a precise normative nazionali ed internazionali. Lo sviluppo di conoscenze, la diffusione di esperienze e la capacità di controllo dei costi economici e sociali causati dagli infortuni sul lavoro e le malattie professionali sono altri importanti obiettivi. L’Agenzia di Bilbao si è attivata per raccogliere e rendere disponibili tutte le informazioni prodotte nella sperimentazione dei progetti di queste buone pratiche. Ognuno di questi, nella sua realizzazione descrive la natura del problema affrontato, la soluzione individuata ed i risultati ottenuti. Questo patrimonio, in un certo qual modo, contribuisce all’individuazione di standards minimi di sicurezza per attrezzature ed organizzazione delle attività che facilitano gli 324 interventi sulle fonti di rischio in aziende per tipologie di settore e soggetti interessati. Si prenda ad esempio una ‘buona pratica’ diffusa qual è l’analisi degli infortuni mancati (near miss accident). Si valuta in una azienda che in determinati processi produttivi si verificano condizioni di stress sul lavoro (turnazioni faticose, esposizione a rischi di rumore o impiego di macchinari particolarmente pericolosi). Il numero degli infortuni è in aumento. La soluzione offerta è il coinvolgimento di tutti i dipendenti nell’osservare e discutere le cause degli incidenti mancati e di quelli di lieve entità e, da questi eventi, trarre spunti per una riflessione che impegna non solo i soggetti diretti, lavoratori e loro rappresentanti, ma anche ingegneri e tecnici della sicurezza, medici del lavoro. L’analisi degli infortuni mancati realizza in modo esemplare consapevolezza sia delle carenze dei processi lavorativi e delle possibili alternative o miglioramenti nella gestione sia dei comportamenti dei lavoratori che prevalentemente inducono a condizioni di rischio. La gestione di questa buona pratica sicuramente genera informazioni di rilevante interesse sui processi e sulle dinamiche organizzative ma la validità ed il livello di legittimità delle indicazioni che emergono dal lavoro congiunto di analisi e stima delle carenze e delle possibilità di guadagnare vantaggio e maggior sicurezza nel lavoro trovano la loro base essenzialmente nelle modalità concordate e condivise di valutazione delle soluzioni. Uno studio accurato del fenomeno infortunistico non può prescindere da una attenzione rivolta ai fattori tecnici, giuridici ed epidemiologici senza trascurarne le dimensioni sociali, culturali ed organizzative del lavoro. In questo esempio, è chiaro quanto la buona pratica e tutte le buone tecniche collegate si fondano su un lavoro in cui la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti è un elemento imprescindibile. L’adozione sistematica di tecniche di auto-osservazione ed auto-analisi e la partecipazione dei lavoratori sono strumenti fondamentali di apprendimento organizzativo. l lavoro di osservazione, diagnosi ed azione correttiva ipotizzabili come necessarie fasi di un valido processo di analisi non può che essere combinazione di conoscenze 325 acquisite e modalità organizzative praticabili che impegna tutto lo staff aziendale ed i diversi soggetti competenti all’interno dell’azienda e nel sociale. Per queste considerazioni, ‘le buone prassi ’ sono diventate un terreno di sperimentazione di alta qualità che ha fornito e fornirà sicuramente ulteriori suggerimenti agli operatori e tecnici della prevenzione. Ma è importante sottolinearne la dimensione in cui tutto questo è possibile. Quando le indicazioni, che emergono da questo patrimonio di conoscenze, si traducono in contenuti di disposizioni di un organo di vigilanza considerati secondo criteri applicativi di ampia discrezionalità potrebbero verificarsi valutazioni improprie e diverse che potrebbero generare confusione per comprendere il reale valore delle pratiche e sperimentazioni in atto. Solo esperienze protratte di buone pratiche e buone tecniche, formalmente acquisite da autorità che siano in grado di stimarne l’efficacia in circostanze differenti, possono essere assunte a precetto con un intervento legislativo. E quando questo si verifica è del tutto ovvio ed auspicabile che la gravità e pericolosità sociale della inosservanza alla sua prescrizione sia definita attraverso l’esplicita indicazione di una sanzione. Questo è compito del legislatore. Le dinamiche proprie del contesto sociale hanno, invece, una loro autonoma capacità di sviluppare sempre modalità nuove ed adeguamenti costanti alle trasformazioni in atto che appare necessario salvaguardare, se non incentivare, in quanto, per l’esperienza sino ad oggi condotta, coesione sociale e confronti costituiscono elementi fondamentali per ottenere i risultati di interesse e di qualità nelle prospettive di promozione del ‘benessere’ e qualità della vita nel lavoro. La possibilità di articolare dispositivi più efficienti nella prevenzione, individuabili nelle sperimentazioni effettuate in determinati settori, potrebbe trovare giovamento dal fatto di rendere tutte le ‘buone pratiche’ progetti aziendali incentivati riproporzionando, ad esempio, il sistema di calcolo delle tariffe dei premi dovuti per gli obblighi assicurativi. 326 Questo meccanismo premiante, già da alcuni anni, è stato introdotto per tutte quelle aziende che dimostrano di aver ridotto il numero di infortuni sul lavoro. Analogamente, questo incentivo potrebbe essere adottato non solo per condizioni di risultato ma anche per sollecitare attività di promozione della salute e sicurezza sul lavoro. Perché questo si realizzi, appare necessario che le ‘buone prassi’ siano analizzate secondo l’individuazione del problema a cui forniscono soluzioni, l’analisi dei punti di forza e debolezza della soluzione adottata, l’individuazione degli attori coinvolti, delle strategie adottate e delle azioni poste in essere, l’analisi dei risultati ottenuti e delle ragioni che spiegano le ragioni di successo: in sostanza, secondo la loro articolata complessità. E da questo lavoro di monitoraggio ne derivi una classificazione come già sta avvenendo da parte di alcune istituzioni nazionali e comunitarie. L’utilizzo di queste ‘ buone pratiche ‘, così individuate e classificate, potrebbe costituire, quindi, pre-requisito per ottenere agevolazioni di diversa natura che promuovano la diffusione di comportamenti attivi e capacità di proporre e realizzare iniziative per lo sviluppo di una cultura della prevenzione all’interno delle aziende. 327 Gli aspetti sociali e tecnici del benessere lavorativo CARLO BONORA Vorrei sostenere un principio apparentemente semplice, ma che ha in sé elementi di conflittualità, soprattutto verso coloro che affrontano il problema della salute e della sicurezza attraverso esclusivi paradigmi scientifici orientati alla cura o all’intervento organizzativo adhocratico: quando si discute di salute, sicurezza, malattie professionali e di ciò che occorre fare per migliorare le condizioni di lavoro, o, come sostiene l’ILO, per migliorarle fino al punto di poter sostenere il “fattore benessere” nei luoghi di lavoro, si dovrebbe avere in mente che prima ancora che ai medici e ai tecnici, sono i lavoratori gli interlocutori principali. Dall’esperienza di lavoro, da come il lavoro viene vissuto, organizzato ed esercitato, dalla “soggettività” del lavoratore si dovrebbero apprendere e trarre gli elementi fondamentali su cui misurare l’impegno di prevenzione e, purtroppo, di cura e riabilitazione. Se consideriamo questo un “assunto” allora si sarà in grado di poter tornare dai lavoratori e dai datori di lavoro e dal loro management e dimostrare, con loro, come l’ambiente e l’organizzazione del lavoro possono nuocere alla salute fisica e psichica quando non ci si ispira alle condizioni di lavoro attraverso una ricerca continua di misure adeguate per migliorarle, ed a politiche organizzative di qualità per elidere i fattori impliciti ed espliciti del rischio, evitando costi sociali ed economici altissimi e, ormai da tutti, dichiaratamente insostenibili. Vi sono, ad esempio, alcune importanti esperienze in atto, in Emilia-Romagna, nel Piemonte e nel Veneto, che mettono in luce, attraverso la ricerca sociale, la percezione del rischio da parte dei lavoratori in ambiente lavorativo e la loro “valutazione” del benessere organizzativo sulla base della propria esperienza. Mettendo insieme la percezione del 328 rischio ed i risultati di studi approfonditi di caso, attuati in settori prevalentemente industriali, è stato possibile individuare buone pratiche di intervento preventivo e l’attivazione e il coordinamento e la sincronizzazione di sensibilità prima disperse. D’altra parte la dimensionalità soggettiva della percezione è suggerita e promossa dalla Fondazione Europea per il Miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita lavorativa. Certamente c’è dovizia di pubblicistica: esistono in gran quantità manuali e trattati di medicina, di igiene e di psicologia del lavoro, ma quasi sempre questi sono scritti da medici per altri medici, da tecnici per altri tecnici: si classificano le malattie per organi colpiti ed agenti patogeni, si formalizzano principi e modelli, ma si prescinde quasi sempre dalla prima realtà in cui tutto ciò è iscritto e va letto: il luogo di lavoro, l’ambiente di lavoro (non soltanto quello “fisico” ma anche quello sociale) e, in questo, la sua organizzazione del lavoro e del lay out operativo/fisico. Eppure è lì, in quel particolare luogo di lavoro, in quell’ambiente specifico, così come è organizzato e in cui il lavoro viene organizzato ed esercitato che si fa più serrato il confronto tra salute e sicurezza e soggettività del lavoratore e determinanti organizzativi. Ma se entriamo in questa logica, così come si è cercato di fare in Emilia Romagna, ciò che ha peso, nel rendere più sicuro l’ambiente di lavoro, possono essere fattori non tecnici, non solo psicologici, ma sociali; essi sono stati chiamati, nella stesura stessa del piani sanitari regionali, determinanti sociali. Mi pare dunque importante sottolineare un primo fattore ideale di riferimento: quello “antropocentrico”, l’uomo sta al centro dei processi sociali e del lavoro (economici dunque), il lavoro, cioè, è per l’uomo e non viceversa. Vediamo, invece, che cosa è successo con l’introduzione di macchine di elevata complessità, operanti ad alta velocità ed impegno da compromettere l’equilibrio psico-fisico e sociale del lavoratore e l’impiego stesso di dispositivi: si pone il problema del rapporto uomo-macchina. E’ possibile collocare l’inizio di questo processo cognitivo e di “ingegnerizzazione” del rapporto di lavoro nel primo dopoguerra (anni ’50). Si scoprì allora (e non si è ancora smesso di ragionare in questo modo) che non si trattava più di adattare l’uomo 329 al lavoro, bensì di cercare di adattare il lavoro all’uomo, individuando le condizioni ottimali in cui avviene l’erogazione della “forza-lavoro” ed adattando a queste la macchina. Si capisce bene che questo processo non è orientato alla prevalenza della visone etica dell’antropocentrismo che mette in grande evidenza i bisogni “psico-socio-fisici” dell’uomo lavoratore. Emerge invece il principio razionalizzatore e tecnicistico (Newtoniano: Lavoro = Forza x Spostamento) del rapporto: forza lavoro/produzione. Vengono cioè individuate le caratteristiche sensoriali, il controllo psicomotorio, le dimensioni corporee statiche e dinamiche, la capacità di decidere del lavoratore ed in genere tutti i dati, riletti in chiave interdisciplinare, forniti dall’antropometria, dalla fisiologia, dalla psicologia, dall’ingegneria e dalla matematica. Con questi presupposti la progettazione ergonomica tradizionale (la più applicata) si propone l’ottimizzazione dell’ambiente fisico e organizzativo, esaltandone la tecnologizzazione, per ottimizzare la prestazione, “sfruttando” nel modo più rigoroso le capacità rispettivamente dell’uomo e della macchina. Questi processi di ingegnerizzazione delle condizioni di lavoro, basati su fattori di produttività, sfruttando al massimo l’innovazione tecnologica, rappresentano un approccio ergonomico che ha avuto e ha peso nella adattabilità uomo-macchina-uomo. E’ importante annotare che questo processo non si oppone alla “qualità del lavoro”, anzi, la enfatizza. L’equilibrio uomo, macchina, organizzazione del lavoro, avviene attraverso uno “scambio” che deve tenere in considerazione la condizione in cui il lavoro si svolge: la sicurezza, intesa come componente organizzativa con dispositivi essi stessi ingegnerizzati. 1 Gli aspetti sociali e tecnici di un sistema di gestione della Salute e della Sicurezza. Si può, dunque, fare una constatazione: la gestione della salute e della sicurezza sul lavoro costituisce una necessità da cui l’Azienda e 330 il lavoro non possono prescindere in quanto essa è parte integrante, da un lato, della gestione generale di processo e di prodotto; dall’altro, i lavoratori ne devono fare una questione legata strettamente alla qualità della vita lavorativa, in alternativa alla quale si incontrano agenti e malesseri psico-fisici-sociali che producono sicuramente disagio se non infortuni e malattie invalidanti e/o mortali. Affermiamo quindi, in coerenza con le direttive europee e le comunicazioni della Commissione, che vi è un forte bisogno di informazione, partecipazione e dialogo sociale per contrastare l’incidente, in una logica preventiva. In particolare occorrerebbe fare molta attenzione alle trasformazioni che avvengono nel mondo del lavoro che fanno emergere nuovi bisogni che non possono essere affrontati unilateralmente e/o super partes. Se si lavora sul sistema aziendale della sicurezza, insieme ad un adattamento delle scelte e degli impegni aziendali alla legislazione che regolamenta istituzionalmente la sicurezza stessa, potrebbe essere interessante fare una scelta analoga alla certificazione di qualità, o alla certificazione ambientale, ecc. Di conseguenza l’azienda si colloca in un’area di decisione che prevede la volontarietà della scelta e dell’impegno conseguente che, necessariamente, almeno nel nostro sistema, confluisce in moderne relazioni industriali. Essendo volontaria la scelta, occorre che gli obiettivi e le politiche per la salute e la sicurezza siano integrati nella progettazione, programmazione e gestione dei sistemi di lavoro (organizzazione del lavoro) e di produzione (organizzazione della produzione). Perché questo impegno? La risposta è abbastanza scontata: il sistema di gestione della salute e della sicurezza in ambiente di lavoro definisce le modalità, supportate dalla tecnologia, per individuare in azienda le responsabilità, i modi di fare e di essere ( modalità, e quindi tecniche di organizzazione e di relazione – le cosiddette procedure), i processi e le risorse per la realizzazione delle prassi aziendali di prevenzione, nel rispetto delle norme vigenti di salute e sicurezza sul lavoro. La gestione del sistema ha numerose implicazioni di ordine tecnico, organizzativo e metodologico-procedurale. Si è quindi di fronte ad operazioni organizzative, ad attivazione di relazioni interne ed 331 esterne, ad interventi strutturali ed infrastrutturali che fanno riferimento a quella che potremmo definire “soggettività di organizzazione”. Evidenzio un problema che emerge dalla nostra riflessione e che può assumere l’aspetto di una contraddizione: non è possibile pensare a schemi organizzativi uguali per tutti a cui omologarsi o ad obblighi di certificazione, in quanto le Imprese hanno una loro organizzazione, una loro missione, un loro stile direzionale e di management e, abbastanza spesso, il loro sistema di relazioni industriali. Ogni organizzazione deve quindi pensare al proprio sistema. E’ opportuno rimarcare che la politica della gestione della sicurezza, gli obiettivi di miglioramento a valle della valutazione dei rischi, l’organizzazione e le risorse tecniche ed economiche da impegnare per la realizzazione del sistema e per il conseguimento degli obiettivi di miglioramento sono e devono rimanere nell’ambito delle attribuzione di responsabilità che sono di pertinenza esclusiva dell’imprenditore. Ciò non significa incitare all’autoreferenzialità nella gestione delle politiche di salute e sicurezza ma mettere in luce che le organizzazioni sono assimilabili agli organismi viventi che, per sopravvivere, hanno bisogno di “socialità” . Il sistema regolamentativo del quadro generale e di relazione industriale costituisce di conseguenza uno degli aspetti insopprimibili della vitalità del sistema socio-economico, a cui i singoli possono e devono fare costante riferimento. L’acquisizione di un sistema di gestione della salute e della sicurezza in ambiente di lavoro assicura il raggiungimento degli obiettivi di prevenzione, salute e sicurezza che l’Azienda si dà in una prospettiva veritiera di efficacia ed efficienza (rapporto costi/benefici). E’ cioè conseguenza dell’impegno e della procedurizzazione della minimizzazione del rischio cui possono essere esposti i lavoratori, ma anche le persone terze (clienti, visitatori, stageurs, fornitori,…), la riduzione dei costi complessivi derivati da incidenti, infortuni e malattie correlate al lavoro, aumentando con ciò l’efficienza e le prestazioni dell’impresa stessa e migliorando anche l’immagine sia interna che esterna. 332 E’ indispensabile, comunque, la considerazione che un sistema di questi tipo, così come tutti i sistemi che fanno riferimento alla qualità, hanno lo scopo prioritario di migliorare la qualità del lavoro non solo in funzione della produzione ma anche in funzione della qualità della vita lavorativa. Si insiste su questo aspetto sostanziale, in quanto qualsiasi sistema di qualità è incentrato sulla valorizzazione della risorsa umana, e sul suo coinvolgimento. Occorre che di ciò si sia convinti per diventare responsabilmente operativi verso l’attivazione del dialogo sociale in una prospettiva coesa. Se le risorse umane, in azienda, devono essere partecipi della gestione dei processi, lo strumento operativo esiste ed è di qualità: la formazione. Non ci si riferisce al mero addestramento ma alla formazione continua e permanente che deve interessare tutti i livelli aziendali interni ( i lavoratori, il management e gli imprenditori). E’ logico che per attuare processi di tale portata occorre attuare un processo ex-ante di pianificazione tenendo conto: - delle attività lavorative ordinarie e straordinarie, comprese le situazioni di emergenza; - delle attività di tutto il personale (inclusi i lavoratori con contratto atipico, dei portatori di handicap, dei fornitori, visitatori, clienti, ecc.) che ha accesso al luogo di lavoro e/o ha interferenza con le attività lavorative; - delle strutture fisiche dell’impresa; - dei luoghi e dei metodi di lavoro; - delle infrastrutture; - delle macchine; - degli impianti; - delle attrezzature; - delle sostanze e dei materiali che si impiegano nel processo 333 produttivo; - dei servizi aziendali. Tutto ciò allo scopo di individuare le modalità più adeguate per presidiare i processi aziendali e i luoghi di lavoro, così da prevenire le incongruenze e per individuare e pianificare le attività di modifica organizzativa, strutturale, procedurale, tecnologica alla luce della tutela della salute e sicurezza nel lavoro, secondo la logica preventiva e delle responsabilità, non solo verso il modo di produrre ma anche verso sé stessi. 2 I determinati sociali, il coinvolgimento dei lavoratori. Ho accennato ai determinanti sociali quale griglia attraverso la quale filtrano le politiche aziendali di prevenzione e di affrontamento dei rischi, per la gestione efficace di un sistema aziendale di salute e sicurezza che, abbiamo visto, fa riferimento esplicito alla sostenibilità socio-economica della produzione e alla responsabilità sociale dell’azienda.. Un esempio eclatante può essere rappresentato da uno dei settori a più alto rischio di incidenti sul lavoro, invalidanti, permanenti o mortali: quello delle costruzioni. In questo settore si può tentare di lavorare per la prevenzione facendo alcune considerazioni che mettono in evidenza la situazione sociale del lavoro che ha un grande peso nella stessa organizzazione del lavoro e nella distribuzione/divisione del lavoro nella fase di produzione. Tra l’altro questo settore presenta ancora una forte intensità di lavoro umano. Se guardiamo “dentro” al settore edile si possono fare le seguenti considerazioni: gli infortuni gravi, invalidanti e mortali sono “troppi”. Il problema della prevenzione è quello di creare le condizioni organizzative e culturali, nelle Imprese e tra i Lavoratori, affinché lavorare non significhi anche morire; 334 nella maggior parte delle situazioni, organizzate “a cantiere”, queste si presentano con gradi di complessità gestionali rilevanti in ragione della complessità di profili di lavoratori assai diversificati: - un nucleo ristretto rappresentato dal gruppo dell’Azienda committente, verosimilmente il più professionalizzato; - una molteplicità di aziende micro che operano in regime di subappalto, noli a caldo e a freddo (ad esempio i montatori di ponteggi); - consistenti presenze di lavoro irregolare o sommerso, come hanno ben dimostrato le recenti campagne di vigilanza. · età avanzata dei lavoratori locali; · scarsissima propensione dei giovani ad entrare nel settore; · realtà organizzate di piccola o piccolissima dimensione; · forte radicamento nella tradizione del lavoro, con un’organizzazione del lavoro basata sull’autoritarismo e sulla distanza di mestiere: il costruttore, il capocantiere, il muratore/carpentiere, il manovale, l’apprendista, ecc.; · la professionalizzazione, formalizzata attraverso le scuole edili coinvolge solo una minoranza di lavoratori, nella maggior parte si registra una professionalizzazione per apprendimento imitativo nel luogo di lavoro; · la prestazione di lavoro si suppone possa essere molto spesso in nero e di conseguenza vi sia, particolarmente in questo settore economico, una insostenibile evasione fiscale; 335 · alta diversificazione della committenza, pubblica e privata, con regole ed esigenze diverse; · scarsa pregnanza delle attività di formazione che non riescono ad avere spessore tra le imprese e i lavoratori; · appartenenza ad un settore economico caratterizzato da cicli ricorrenti di crisi strutturali e di mercato; · gare di appalto organizzate, di regola, al ribasso; · scarsissima attenzione al trasferimento tecnologico; · scarsa sindacalizzazione, quindi scarsa coesione, intermediazione, partecipazione e relazione. Potrebbe essere un utile esercizio analizzare con la stessa metodologia e nella stessa prospettiva altri settori merceologici (metalmeccanico, chimico, tessile, trasporti, ecc.). Questa è la complessità della situazione; vi sono strumenti per affrontare i punti di criticità più evidenti? Può l’ergonomo, il medico del lavoro, l’ispettore del lavoro, i mediatori culturali della sicurezza (tra questi i Rappresentanti per la Sicurezza dei Lavoratori – RLS) , ecc. non tener conto di quanto appena evidenziato nella discussione? Si ritorni all’efficacia gestionale del sistema salute e sicurezza, in azienda. L’impegno per la prevenzione richiede sostegno e partecipazione dei lavoratori: la loro esperienza e le loro conoscenze implicite ed esplicite professionali e organizzative sono risorse. Di salute e sicurezza occorre discutere attraverso riunioni periodiche e arrivare ad accordi. Occorre cioè sviluppare la coesione sociale interna ed il dialogo. Non si può prescindere dalla necessità di formazione continua e permanente che sviluppa competenze e le consapevolezze necessarie per lavorare sicuri e per partecipare alla gestione del sistema. Una 336 formazione di questo tipo non può venire dall’alto ma va concordata con i lavoratori stessi e non può essere considerata una perdita di produttività. Insomma, la circolazione delle informazioni all’interno dell’Azienda risulta essere un fattore fondamentale per garantire efficacia ed efficienza all’impegno per la prevenzione e la qualità del lavoro. A questo punto, e a discussione “matura”, risulta forse di una certa importanza fare il punto sulla prevenzione e sulla delineazione del suo fondamentale ruolo nel miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità della vita lavorativa, correndo anche il rischio di essere eccessivamente “didattici”. La prevenzione è un metodo operativo e necessariamente condiviso per risolvere alla radice il problema dei rischi connessi all’organizzazione del lavoro e degli ambienti fisici e sociali in cui si lavora. In passato si provvedeva al semplice risarcimento del danno e si copriva il rischio economico del danno con il sistema assicurativo obbligatorio. Ciò non tutelava i lavoratori bensì le imprese dal rischio di non aver risorse sufficienti per indennizzare il danno causato; l’assicurazione non era, e non è, comunque prevenzione. Il cambiamento c'è stato quando si è potuto constatare che prevenire era meglio che risarcire ed anche meglio che curare, ed oltretutto costava meno anche all'impresa, oltre che alla collettività. La regolazione legislativa vigente (la “626”, tra l’altro, raccoglie direttive europee di fondamentale importanza) e gli attuali Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (Ccnl) prevedono la partecipazione di tutti i soggetti della prevenzione alla gestione delle politiche per realizzare questo obiettivo. Si può dunque affermare che le azioni preventive tese al miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità della vita lavorativa sono diventate parte integrante delle relazioni industriali con la possibilità di interventi concertativi delle Istituzioni preposte alla sanità e al lavoro.Le relazioni tra le parti tendono a non essere più essere improntate, come un tempo, alla cultura dei rapporti di forza e del conflitto, ma a quella della partecipazione, che presuppone la definizione e la condivisione di un 337 comune obiettivo, quello appunto del miglioramento continuo della tutela della salute e della sicurezza. Rispetto al passato, ciò richiede un mutamento non tanto dei ruoli, che restano quelli di sempre, quanto delle modalità di rapporto tra essi. Tuttavia il portato dell’azione negoziale nelle relazioni tra le parti è la mediazione. Nel caso però della sicurezza non si tratta necessariamente di mediazione, bensì di uno sforzo comune a riconoscere utili tutti i saperi e le idee che circolano in materia, al fine di raggiungere almeno l'obiettivo comune e condiviso: quello del lavoro“chiaro sicuro e regolare”. 3 Alcuni considerazioni di efficacia. L’ambiente di lavoro è costituito da fattori fisici, mentali e sociali. Al presente i metodi utilizzati per un’analisi sistematica socio-tecnica di tutto quanto l’ambiente di lavoro di una azienda sembrano essere insoddisfacenti. Si sente fortemente l’esigenza di organizzare metodologie di analisi che facilitino la comprensione dell’intero ambiente di lavoro attraverso strumentazione di valutazione/controllo del massimo numero di fattori che lo costituiscono e che, ripeto, sono sociali, di impatto psichico, fisici e tecnici. I principi di base su cui appoggiano e si possono sviluppare questi metodi possono essere rappresentati da quei fattori (misurabili) che indicano lo stato di benessere e di salute negli ambienti di lavoro, quali lo stress fisico, il rumore, la soddisfazione del lavoro, la capacità o meno di “dominare” o di essere “appendici” dell’innovazione tecnologica (si pensi, per esempio, all’automazione flessibile e alle sue conseguenze sui lavoratori e sul management), e quant’altro. Le funzioni di conversione sviluppate per questi fattori possono permettere di fare una valutazione comparativa tra fattori; successivamente è possibile misurare quanto seriamente l’equilibrio psico-fisico è compromesso, tenendo in considerazione sia le conoscenze consolidate e “sovrastrutturali”, proprie dei progettisti, a 338 quella particolare situazione, sia conoscenze che possono emergere solo dal vissuto delle lavoratrici e dei lavoratori. Le funzioni di conversione sono basate principalmente su statistiche per gli incidenti e su conoscenze, prevalentemente tecniche-ingegneristiche, su ciò che occorre fare per evitare le malattie e gli incidenti. Solo recentemente, per esempio, si disserta sui carichi mentali. La stessa Commissione Europea ha pubblicato un report sullo stress da lavoro che esprime una grande preoccupazione sullo stato di salute nelle e delle organizzazioni produttive e di servizio. I dati delle misurazioni mettono in grado di legare malattia-salute ai costi, e ciò può essere allora usato per dimostrare come le spese per migliorare l’ambiente coinvolgano tutta l’azienda. Ciò può essere, tra l’altro, assai utile a sostenere la tesi (europea) che l’investimento ergonomico per migliorare la qualità della vita lavorativa e, comunque, tutto ciò che si fa in termini di prevenzione dei rischi e delle malattie, in ambiente lavorativo, rende più competitiva l’azienda, in termini di implementazione della qualità del prodotto e dell’immagine aziendale. 4 Parole “chiave”. Le parole “chiave” su cui occorre concentrare l’attenzione da parte dell’Aziende e dei Lavoratori per impostare corrette “relazioni industriali” per il miglioramento della vita lavorativa e delle condizioni di lavoro possono essere, per esempio: - Lo studio dell’ambiente di lavoro; - l’accertamento del ciclo vitale; - il controllo dei processi; - la valutazione; - la progettazione di soluzioni - i costi; 339 - il controllo del “clima” interno. 5 I fattori di riferimento I fattori che devono avere priorità sono quelli misurabili. Per questa ragione, i fattori “hard” della sicurezza, come l’esposizione ad agenti chimici e al rumore o al sollevamento di oggetti pesanti sono da lungo tempo sotto la luce dei riflettori negli studi dell’ambiente di lavoro. Ugualmente, considerevole attenzione deve essere data al tipo di malattia o di perdita di capacità di lavoro che si sono evidenziati come risultato di un incidente. E’ un’anamnesi che sarebbe necessario fare, quando si affrontano i problemi della sicurezza nel lavoro e della salute, pensando ad interventi orientati a ridurre il rischio, fino a cancellarlo. Ma non sono solo i fattori “hard” che devono essere considerati. Potrebbe essere assai vantaggioso nel lavoro di studio e progettazione di buone pratiche mettere in rilievo fattori “soft” organizzativi, come, per esempio, buone relazioni, sviluppo delle mansioni, soddisfazione nel lavoro, nuove esperienze motivanti, ecc. Tali fattori, tra l’altro, sono a portata di mano, essendo parte di un approccio organizzativo innovato. La salute è definita nella costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) come: “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto l’assenza di disagio o infermità”; non si capisce perché tale principio non possa essere filo conduttore di tutto ciò che si fa e si progetta per quel che riguarda l’organizzazione del lavoro e della produzione, conciliando qualità del lavoro e qualità della vita lavorativa, produttività e salute, intesa come integrità psico-fisica del lavoratore. E’ ormai assodato che gli effetti del lavoro sulla salute della persona possono essere misurati psichicamente e fisicamente. I dati che emergono (e sono ormai “tanti”) sono utili a facilitare la 340 progettazione ergonomica e a migliorare le condizioni di lavoro. Posto che un “effetto” può essere positivo o negativo, non è certo che i più importanti fattori siano quelli che possono essere misurati con maggiore facilità. La situazione del lavoro, in termini culturali e sociali, è strettamente associata con la posizione sociale dell’individuo ed è parte dell’identità della persona. E’ ancora viva l’idea che il lavoro procura riconoscimento e ruolo sociale. Ed è ancora evidente che il lavoro è fonte primaria di sostentamento. L’incidenza del lavoro sullo stato di salute non può dunque essere sottovalutata: molto spesso la “necessità” di lavorare porta i lavoratori ad adattarsi a condizioni sfavorevoli alla loro integrità psico-fisica (si pensi, per esempio al lavoro sommerso o in “nero”; al doppio lavoro, ai carichi di lavoro individuali “just in time” nella piccola e microimpresa; ecc.). Vorrei ricordare che le cause di malattie professionali e di incidenti gravi sono dovute, anche nella cosiddetta Società dell’Informazione, allo sforzo fisico (malattie muscolo-scheletriche dovute a “fatica”) e trasporto merci (incidenti stradali “in itinere”). Così come è opportuno considerare il carico psichico del gradiente di lavoro “intellettuale” che si sta trasferendo al lavoro “manuale”, sulla base della “automazione flessibile” e dell’ “informatizzazione di interi “cicli” lavorativi. Un’impresa che vuole assumere la visibilità della responsabilità sociale (SA8000, per esempio) e si impegna a creare la migliore situazione possibile di lavoro, prova a rinforzare i fattori positivi e rendere minimi alcuni effetti negativi. Essa tenta inoltre di incanalare le sue risorse ed i suoi sforzi in quelle aree dove è possibile raggiungere il migliore impatto. Vi sono numerosi e differenti modi di analizzare gli ambienti di lavoro e di conseguente documentazione per far emergere dati e indicatori utili per la realizzazione e la progettazione di buone pratiche impiegabili nelle azioni di miglioramento dell’ambiente di lavoro e della “vita lavorativa”. 341 6 Statistiche per i danni occupazionali. La maggior parte delle Regioni si attiene a statistiche INAIL relative ai danni occupazionali e alle malattie. In alcune sono stati istituiti, come in Emilia-Romagna, Centri Epidemiologici che analizzano i dati INAIL e INPS e ne tentano la decifrazione. Tuttavia, le statistiche relative ai danni occupazionali sono in gran numero “illeggibili” dall’uomo “comune” (Le statistiche sembrano create ad arte per gli addetti ai lavori, piuttosto che rispondere alle necessità implicite od esplicite delle persone e al bisogno di conoscenza che sta crescendo). Le incertezze si presentano quando un incidente che si è verificato abbisogna di essere dimostrato a vari livelli. Inoltre la malattia è raramente riconosciuta e documentata se non porta a incidenti o disabilità evidenti, particolarmente quando questi hanno conseguenze sociali o rendono parzialmente o totalmente (anche se temporaneamente) inabili a lavorare. Altra “nebulosità” riscontrabile nelle statisticazioni è quella relativa agli antefatti (perché un incidente si è verificato?, quali sono i determinanti sociali ed economici impliciti ed espliciti che lo hanno determinato?….). I problemi che si ingenerano dall’incidente o da ciò che ha causato una malattia professionale hanno effetto sulla popolazione per un tempo piuttosto considerevole, prima che un campione possa essere esaminato ed emergano integralmente i punti di “criticità” organizzativa su cui sia possibile intervenire (quindi anche con la chiarezza sulle cause che hanno determinato malessere e danni a volte irreparabili). Le medio-grandi Imprese qualche volta redigono in proprio le statistiche o possono usare statistiche ufficiali per le loro proprie organizzazioni. Per poter mettere in relazione i fattori sociali ed ambientali del lavoro, con il miglioramento della vita lavorativa e delle condizioni del lavoro è necessario avere una relativamente ampia quantità di dati di base che fanno riferimento al sistema “socio-tecnico” dell’organizzazione, a come il lavoro è organizzato, a come è 342 organizzata la produzione e quali relazioni esistono con l’ “ambiente esterno” (impatto ambientale, relazioni con gli organismi di controllo, coinvolgimento di facilitatori – consulenti, ergonomi, mediatori culturali o formatori, ecc.). Però anche questi fattori sociali ed economici così identificati sono ancora abbastanza “generali” e possono risultare inadatti a fornire informazioni circa l’ambiente di lavoro di un “singolo” lavoratore. I reports o le informazioni su recenti infortuni sono raramente soddisfacenti e quando un report è fatto esso fornisce solo quei “puri e generali” dati di rischio . 7 Questionari e interviste Molti questionari sono stati pensati per diagrammare problemi relativi all’ambiente di lavoro come essi sono stati esperimentati dai lavoratori. Molti di questi questionari mettono a fuoco l’area di uno specifico problema, mentre altri sforzi sono compiuti per comprende la situazione intera. In ogni caso cercano di valutare la situazione così come è oggi e nel recente passato. I questionari non forniscono uno spassionato inventario. Essi contengono punti di vista impliciti o espliciti che rispondono accreditando o contraddicendo . Le risposte sono anche influenzate dalle opinioni prevalenti nella azienda o nella società. La maggior parte dei metodi di indagine tenta di percepire e considerare la conoscenza che i lavoratori hanno del loro ambiente di lavoro e le domande sono pertanto mirate alla “posizione” nel posto di lavoro e il suo attuale o possibile effetto. Tuttavia, le persone generalmente sono in grado di descrivere discretamente bene la loro situazione ma non sono in grado di puntualizzare il legame tra i coefficienti dell’effetto e la salute.. Per esempio, per un particolare individuo, può essere terribilmente difficoltoso stabilire se il disagio psicofisico è dovuto al troppo carico di lavoro, all’esposizione ad agenti nocivi chimici, alle 343 relazioni con i colleghi, alla sua situazione familiare o forse ad un’infezione. Vi sono anche alcune indagini che solo sulla carta disegnano un percorso sull’esperienza di salute individuale del lavoratore /lavoratrice, il più delle volte in combinazione con controlli medici e senza alcun tentativo di stabilire le cause del disagio Tutto ciò fornisce un eccellente quadro dello stato dell’individuo, ma non offre alcun aiuto quando occorre entrare nel merito delle priorità organizzative per misure di rettifica. 8 Controllo del posto di lavoro sulla base di liste di verifica (check list). Le sfere del controllo della sicurezza e/o controlli similari sono effettuati in molti posti di lavoro, particolarmente in posti di lavoro ben istituiti stabilmente e disponibili. Vi sono numerose liste di controllo collaudate e istruzioni che possono essere usate per questi controlli. Alcune di queste possono essere proposte per essere usate per un semplice controllo a scopo diagnostico e normalmente non sono richieste conoscenze specialistiche. Altre sono più avanzate e presumono una certa conoscenza intorno agli effetti sulla salute dell’ambiente di lavoro e della sua organizzazione.. Il fuoco dei dati oggi disponibili è sui coefficienti dell’effetto tradizionale, come, per esempio, rischi di infortunio, ergonomici, agenti chimici e rumore. Solo occasionalmente sono prese in considerazione, fattori indiretti quali la responsabilità, la formazione “sicura” e altre misure in relazione a fattori psico-sociali per la tutela della salute. Le ispezioni del posto di lavoro documentano i rischi per le malattie presenti e future, ma sono basati sull’esperienza “storica”, su strumenti di analisi consolidati….. I risultati di queste ispezioni raramente forniscono dati di base con cui sia possibile stabilire delle priorità. Posto che non è facile disporre di un quadro evidente di riferimento o di possibilità per stimare gli effetti della organizzazione del lavoro, 344 considerando che spesso nessuna misura e priorità deriva da questi controlli, può essere utile decidere di svilupparli secondo precedenti esperienze o basandosi su esperienze attuate in altri posti di lavoro (benchmarking). 345 Miglioramento della qualità del lavoro, salute e sicurezza, dalla tutela alla promozione della salute e della qualità del lavoro. Evoluzione delle relazioni industriali e delle politiche pubbliche GINO RUBINI 1 Premessa - Il contesto Affrontare il tema del miglioramento della qualità del lavoro, dalla tutela alla promozione della salute e della qualità del lavoro, nella attuale situazione di grave crisi della economia e del sistema produttivo italiano e in parte anche regionale, potrebbe apparire come un esercizio poco sensato e comunque di scarsa utilità rispetto alle priorità immediate. È una riflessione che ho affrontato mentre misuravo le difficoltà a procedere in questo lavoro e da questa riflessione sono emerse alcune domande cui, parzialmente, tenterò di dare qualche risposta con questo saggio. Nel mese di maggio 2005 si è conclusa anche la vicenda della delega al governo per la elaborazione di uno schema di Testo Unico. Questa iniziativa del governo ha impegnato per oltre due anni decisori politici, operatori e giuristi, associazioni imprenditoriali e organizzazioni sindacali dei lavoratori. Il progetto governativo di introduzione di un Testo Unico in materia di salute e sicurezza è naufragato. A giudizio di molti addetti ai lavori gli ultimi due anni sono stati in parte perduti a causa di questo progetto sbagliato sia nel metodo sia nelle proposte di merito. Il progetto di elaborazione di un testo unico era sostenuto dalla delega per la semplificazione ottenuta dal Parlamento (con l’art. 3 della legge 29.7.2003 n. 229). Le modalità di lavoro per la elaborazione di quel testo, chiuse al confronto e al contributo dei Sindacati e delle Associazioni scientifiche e professionali, hanno determinato la produzione di un elaborato scadente che ha ricevuto 346 una mole tale di pareri contrari e di bocciature, dalle Regioni, dal Consiglio di Stato, dalle Associazioni dei professionisti che si occupano di prevenzione, dalle OO.SS dei lavoratori da consigliare il ritiro del testo dalla Commissione del Senato. È da questa situazione di fatto che occorre, dopo aver fatto il punto, ripartire sull’obiettivo della qualità, della costruzione della migliore qualità possibile del lavoro, nei diversi lavori. 2 Traiettorie e tendenze nel sistema produttivo emiliano-romagnolo Il miglioramento della qualità e della sicurezza nel lavoro è sempre stato declinato come uno degli obiettivi delle Amministrazioni locali e della Regione Emilia-Romagna. La produzione di ricchezza da parte del sistema produttivo regionale, storicamente, ha registrato, per molti decenni, come contropartita e come frutto delle lotte sindacali, diffuse pratiche di ridistribuzione del reddito ai lavoratori dipendenti e iniziative di miglioramento dei posti di lavoro anche dal punto di vista della salute e della sicurezza. La cultura della sicurezza e della salute promossa dalle istituzioni è stata un segno distintivo della buona amministrazione regionale e locale e parte integrante dagli anni ’70 fino a metà degli anni ’80 del “modello emiliano romagnolo” come risposta alle lotte sindacali contro le nocività che si erano sviluppate dalla metà degli anni ’70. Questo percorso di produzione e accumulazione di esperienze e conoscenze è ancora in atto o invece si è passati ad un’altra fase, ad una discontinuità rispetto alla tradizione delle politiche di miglioramento continuo delle condizioni di lavoro? Quali sono le traiettorie e le tendenze in materia di politiche per la salute e la sicurezza nel lavoro in questa epoca, in questa Regione, l’ Emilia-Romagna, che vanta un passato di iniziative e azioni innovative e di valore sia da parte delle istituzioni sia da parte dei soggetti della rappresentanza sociale? Cosa sta avvenendo nella rete delle migliaia di microimprese e nelle imprese più strutturate per quanto riguarda la gestione quotidiana del lavoro, nelle pieghe di una trasformazione organizzativa che vede molte imprese modulare le proprie “strategie organizzative e 347 gestionali” all’interno di orizzonti temporali che molto spesso non superano quattro o cinque settimane? Queste sono domande legittime alle quali cercheremo sia pure parzialmente di dare una risposta per comprendere se sono possibili percorsi di iniziative e azioni che abbiano come obiettivo il miglioramento della qualità nel lavoro o se vi sia solo lo spazio per iniziative e azioni difensive tese a ritardare gli effetti dei processi di frantumazione e scomposizione del lavoro che rendono i lavoratori più vulnerabili rispetto alla tutela della propria salute e sicurezza nel lavoro. In molti contesti aziendali il denominatore comune più diffuso è rappresentato dalla accelerazione sia delle decisioni sia delle trasformazioni organizzative sempre più rapide necessarie per fare fronte alle turbolenze dei mercati. La struttura produttiva regionale è pienamente inserita in queste tendenze più generali. Il governo di questo aspetto della condizione di vita nel lavoro che ha impatti molto forti sul patrimonio complessivo di salute della popolazione non può lasciare indifferenti coloro che hanno responsabilità di governo e di direzione nelle istituzioni e nella società. Da una parte è necessario leggere attentamente i risultati delle ricerche che si stanno svolgendo in Regione dall’altra occorre analizzare tendenze in atto ai diversi livelli delle istituzioni comunitarie e a livello nazionale in materia di normazione sulle condizioni di lavoro, salute e sicurezza dei lavoratori. La precedente Giunta della Regione Emilia-Romagna aveva siglato con le parti sociali un “Patto per la qualità dello sviluppo, la competitività, sostenibilità ambientale e la coesione sociale Emilia-Romagna” nel quale vengono indicati gli strumenti per rafforzare il sistema delle imprese e la qualificazione professionale dei lavoratori. Per rispondere alle domande che ci siamo posti dobbiamo inoltre esaminare, sia pure in forma necessariamente schematica il contesto europeo e nazionale delle politiche di tutela e promozione della sicurezza nel lavoro. 348 1 Le politiche comunitarie Per quanto riguarda le politiche comunitarie, la Commissione Europea per un periodo assai lungo ha mantenuto una gestione dai toni molto sommessi su questi temi, tesa a mantenere una continuità rispetto agli obiettivi fissati nella Direttiva 391/89, senza tuttavia predisporre sistemi di verifica e valutazione dei risultati raggiunti nei diversi stati membri. Il fatto nuovo è rappresentato dal Parlamento Europeo che in data 24 febbraio 2005 ha approvato la risoluzione “Promozione della salute e della sicurezza sul lavoro”, un riferimento importante che fa il punto sulle criticità della gestione di questa tematica a livello europeo. Nella risoluzione sono contenuti indirizzi e orientamenti che sono palesemente in conflitto con gli indirizzi e gli orientamenti in materia praticati dal Governo italiano che ha appena fallito il varo di un Testo Unico che avrebbe ridotto i diritti dei lavoratori alla formazione e alla informazione rispetto ai rischi presenti nel lavoro, avrebbe limitato fortemente il ruolo di partecipazione dei lavoratori alla gestione della sicurezza tramite propri rappresentanti. Le preoccupazioni per la crisi strutturale della economia e per l’incremento delle disuguaglianze nelle condizioni di lavoro derivanti dall’allargamento ai nuovi paesi appena entrati pervadono il documento del Parlamento europeo che indica queste difficoltà come sfide da superare. Le sfide principali contenute nella risoluzione del Parlamento che tenta di riprendere il ruolo di indirizzo rispetto ai temi della tutela della salute e della sicurezza del lavoro riguardano: · la tempestività della elaborazione e pubblicazione dei rapporti sullo stato di applicazione delle direttive nei diversi stati membri · la standardizzazione europea dei sistemi informativi degli stati membri per disporre di dati comparabili e utili al fine di elaborare politiche comunitarie efficaci · possibilità di estendere la direttiva quadro sino a comprendere gruppi esclusi, come i lavoratori autonomi; sottolinea la necessità di prestare particolare attenzione alla situazione di settori come 349 l’edilizia, la pesca e l’agricoltura, nonché il settore sanitario; invita, inoltre, la Commissione a valutare, quanto prima possibile, l’attuazione della nuova strategia comunitaria in materia di salute e sicurezza sul lavoro 2002- 2006 · il Parlamento sostiene la proposta della Commissione di presentare una relazione unica che copre l’attuazione pratica di tutte le direttive in tutti i 25 Stati membri; chiede alla Commissione di promuovere attivamente l’armonizzazione e una maggiore comparabilità dei sistemi nazionali di raccolta dati, anche ai fini di migliorare la raccolta dei dati sul controllo e sulla valutazione adeguata del rischio nonché sull’impatto dell’esternalizzazione, dei subappalti e dell’occupazione contingente; · invita la Commissione ad includere nel suo programma di azione alcuni dei problemi di genere cui le donne e gli uomini si confrontano e, in particolare: · cura e controllo di problemi di salute e di sicurezza specifici; · rischi associati al lavoro e malattie psicologiche a lungo termine (quali esaurimento e depressione) dovuti al duplice onere cui sono soggetti le donne e gli uomini che cercano di conciliare vita professionale e familiare o all’enorme pressione sul mercato del lavoro; · stress e violenza, mobbing e altre molestie sul luogo di lavoro; · copertura inferiore di tutti i suddetti problemi da parte di servizi preventivi di buona qualità; · condizioni di lavoro anti-ergonomiche; · il Parlamento esprime profonda preoccupazione per il tasso eccessivamente elevato di infortuni tra i lavoratori temporanei e a breve termine, che in alcuni Stati membri è almeno doppio del tasso relativo ai lavoratori permanenti; sottolinea che la direttiva 91/383/CEE stabilisce, come norma generale, che i lavoratori temporanei godono degli stessi diritti alla salute degli altri lavoratori, ma che la direttiva non prevede meccanismi specifici che rendano questo sistema attuabile nella pratica; invita la Commissione a rimediare a questa carenza; invita i governi degli 350 Stati membri a raggiungere, quanto prima possibile, un accordo sulla proposta di direttiva della Commissione sul lavoro interinale; Abbiamo riportato solo alcuni degli item contenuti nella Risoluzione che ci sono parsi più rilevanti per tracciare una immagine del lavoro da svolgere rispetto ai temi della salute e sicurezza nel lavoro che in questi anni avevano subito un offuscamento nelle politiche della stessa Commissione e del Consiglio, presi nell’ultima fase, da altre priorità come l’allargamento e da forti spinte delle forze economiche e della finanza ad acconsentire, sia pure temporaneamente, ad una “crescita economica senza qualità e sviluppo umano”. Le stesse politiche europee in materia di qualità del lavoro, salute e sicurezza soffrono di contraddizioni e della assenza di un disegno organico che tenga in considerazione gli obiettivi del miglioramento delle condizioni di lavoro nella fase di elaborazione di altre direttive riguardanti ad esempio la libera circolazione delle merci, la concorrenza, i regimi d’orario, etichettatura e registrazione dei prodotti chimici che hanno impatti sulle condizioni di lavoro e di salute dei lavoratori. Due esempi sono assai significativi: le modifiche alla Direttiva sull’orario di lavoro che fanno presupporre un peggioramento delle condizioni di lavoro, la proposta di Direttiva Bolkenstein che consentirebbe, una volta approvata nella attuale stesura dell’articolato, vere e proprie forme di dumping sociale per i lavoratori dei servizi che verrebbero pagati e avrebbero trattamenti normativi secondo il riferimento del paese d’origine. Il problema del riequilibrio delle politiche europee rispetto ai diritti e alla dignità e qualità del lavoro è un tema concreto che occorre tenere ben presente quando si affrontano le politiche specifiche in materia di salute e sicurezza nel lavoro. Un riferimento importante per la conoscenza degli impatti derivanti dai processi di globalizzazione non governati da adeguate politiche sociali è rappresentato dal recente documento dell’ILO (International Labour Organization) “Global economic security in crisis: New ILO report finds world full of anxiety and anger”. 351 2 Le politiche nazionali e regionali. Il naufragio del progetto governativo di Testo Unico in materia di salute e sicurezza Sulle politiche nazionali si è già detto molto, la letteratura in materia, le prese di posizione di Associazioni di professionisti, delle Regioni e del Consiglio di Stato rispetto allo schema di Testo Unico sono abbastanza note tra gli addetti ai lavori. Allo stato dell’arte è possibile affermare che lo schema di Testo Unico predisposto dal governo su delega conferita dal Parlamento non diverrà norma nel restante periodo della attuale legislatura. Infatti il Governo il 3 maggio 2005 ha ritirato dall’esame delle Commissioni Parlamentari lo schema di Testo Unico. Il ritiro è stato verosimilmente determinato dalle prese di posizione critiche delle regioni e del Consiglio di Stato oltre a quelle delle OO.SS. Questo fatto comporta un nuovo assetto e nuovi contenuti per quanto attiene questa materia. La stessa traiettoria della scrittura di questo saggio assume una curvatura assai differente rispetto ad una situazione nella quale fosse stato approvato il Testo Unico nella stesura predisposta dal governo. Una valutazione obiettiva dei risultati ottenuti con la applicazione del D.lgs. 626/94 in particolare per quanto attiene la sua applicazione sul territorio nazionale e su quello regionale è necessaria al fine di predisporre interventi di miglioramento della norma e, soprattutto, di rendere pienamente effettiva la valutazione e gestione dei rischi a livello aziendale. In particolare per le piccole aziende occorre individuare strumenti più snelli ed efficaci che consentano la effettività della gestione della sicurezza sul lavoro. In tal senso si era attivata anche la Giunta Regionale della Emilia-Romagna, nella precedente legislatura, con il Progetto di Legge Regionale “Norme per la promozione della occupazione, della qualità, sicurezza e regolarità del lavoro “che si prefiggeva gli obiettivi di · sostenere la stabilizzazione del lavoro tramite interventi di politiche attive del lavoro · politiche per l’inserimento lavorativo delle persone disabili 352 · mitigare gli effetti negativi della Legge 276 del 2003 sul mercato del lavoro politiche di promozione della sicurezza, regolarità e qualità del lavoro Questo Progetto di Legge sul Lavoro che non era giunto alla approvazione per lo scadere della legislatura è stato varato dalla attuale legislatura regionale nei contenuti che erano stati predisposti nella legislatura precedente. In questo dispositivo sono contenute sia proposte di incentivazione alle imprese che adottino buone pratiche in materia di gestione dei rapporti di lavoro sia indicazioni di strumenti di nuova generazione per la gestione della organizzazione della sicurezza, quali l’audit di sicurezza. Nei fatti vengono introdotte le possibilità, in forma concreta, di promuovere e sperimentare strumenti di nuova generazione per il miglioramento della gestione della sicurezza, in particolare in quei settori e comparti ove maggiori sono i rischi. Oltre alle misure per ridurre e mitigare gli effetti negativi derivanti dalle innumerevoli tipologie di rapporti di lavoro dipendente che riproducono situazioni di precarietà e inadeguata informazione e formazione ai fini della sicurezza, si introducono, tramite politiche incentivanti, la possibilità per le aziende piccole e medie di innovare e sviluppare l’organizzazione della sicurezza con modalità più efficaci. L’insieme delle misure previste nell’articolato rappresentano una dotazione di strumenti di intervento della Pubblica Amministrazione che superano il limite della relazione basato solo sulle sanzioni e sulla vigilanza. È evidente che per potenziare questa Legge occorre affrontare la questione degli appalti e, in fattispecie, le tipologie d’appalto “al massimo ribasso” e le forme di appalto “a spezzatino” che rendono che rendono sempre più vulnerabili le forme di organizzazione e gestione della sicurezza, in particolare nei settori delle costruzioni. L’approvazione delle “Norme per la promozione dell’occupazione, della qualità, sicurezza e regolarità del lavoro” dovrà essere accompagnato, abbastanza rapidamente, da una legge sugli appalti delle opere pubbliche e dei servizi con l’obiettivo di superare le gare · 353 al massimo ribasso e le forme d’appalto a “spezzatino” praticate su larga scala dalle Amministrazioni Pubbliche degli Enti Locali. 3 La qualità del lavoro come sfida sociale e politica Soltanto partendo da una analisi della realtà del mondo del lavoro qui e ora è possibile tracciare un profilo delle criticità presenti nei diversi settori e comparti produttivi e individuare quali sono le esigenze di innovazione organizzativa e gestionale e le norme e gli strumenti più adeguati per un miglioramento delle pratiche di risk assessment e risk management. Nei fatti i processi di diverticalizzazione dei processi produttivi hanno reso molto difficile e complessa una gestione negoziata degli aspetti della organizzazione del lavoro che hanno rilevanza per la salute e la sicurezza nel lavoro. Già molto si è scritto sulla condizione del lavoratore che oltre a perdere il governo del proprio progetto di vita in ragione del fatto che la discontinuità del lavoro e del reddito gli impediscono quelle azioni che per le generazioni precedenti erano la normalità: accendere un mutuo per comprarsi una casa, progettare una famiglia senza l’incubo di piombare sotto la soglia di povertà. Ma vi è un altro impoverimento che le nuove modalità di organizzazione del lavoro hanno indotto, quello della conoscenza del sistema lavoro in cui si è inseriti, del governo del processo lavorativo di cui si fa parte. È il caso del camionista che traina con la propria motrice rimorchi caricati di container del cui contenuto conosce solo quanto dichiarato nelle bolle di accompagnamento, è il caso del lavoratore del settore alimentare che apre gli imballi che contengono budello (non sempre di suino) per insaccati proveniente dalla Cina o da qualche altro paese asiatico, prodotto di cui non conosce natura e igienicità del confezionamento. È il caso dello scaricatore di porto a chiamata che entra nella stiva della bananiera ancora satura di esalazioni di pesticidi come il Nemagon (debromochloropropane DBCP) Una sorta di taylorismo cognitivo rispetto alla conoscenza dei sistemi con i quali ci si trova ad operare ove l’azienda committente dispone della conoscenza del processo e il lavoratore dell’azienda in affitto opera 354 con una porzione di conoscenza infima rispetto a quella di cui dovrebbe disporre per lavorare in si sicurezza. È palese che il coordinamento per la sicurezza previsto all’art. 7 del D.lgs. 626/94 non è più sufficiente e adeguato per garantire una corretta gestione dei problemi di sicurezza nel lavoro laddove nello stesso luogo di lavoro si intersecano attività gestite da una pluralità di aziende con responsabili e datori di lavoro diversi che assai spesso non comunicano tra di loro. La realtà dell’appalto e subappalto all’inizio degli anni ‘90, quando fu stilato l’art. 7 del D.lgs. 626/94 era assai diversa dai contesti sempre più frantumati di oggi. La prima differenza riguarda in particolare la natura dei rapporti di lavoro all’interno di ciascuna azienda partner che erano prevalentemente di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Ora in una stessa azienda o sistema possiamo trovare molte tipologie di relazioni lavorative, dal contratto a termine, all’interinale, alle forme di lavoro somministrato: ciascuna di queste situazioni lavorative è portatrice di una esperienza, di conoscenze assai spesso inadeguate per lavorare in sicurezza. Se a ciò aggiungiamo il grado di ricattabilità di questi lavoratori è facile immaginare la difficoltà da parte loro ad esigere condizioni di lavoro in sicurezza. La situazione di frammentazione del lavoro del settore delle costruzioni si è estesa a molti altri settori. Una legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro dovrà comunque intervenire, come è avvenuto in altri paesi, sulla lista dei lavori che possono essere affidati alle agenzie interinali o di somministrazione e quelli che per natura della loro pericolosità per la incolumità del lavoratore o di terzi debbono essere continuativi (svolti cioè da lavoratori dipendenti professionalizzati con contratti a tempo indeterminato) e forniti in appalto da aziende specializzate nella gestione del rischio per la lavorazione specifica. In ogni caso occorre che la legislazione di sicurezza e sugli appalti preveda in generale, così come avviene in diversi paesi europei nel settore delle costruzioni, la responsabilità dell’azienda capofila e/o committente che ha responsabilità dell’opera. La stessa figura societaria di General Contractor dovrà essere individuata come principale datore di lavoro e responsabile della 355 gestione della sicurezza nella filiera produttiva. In altri termini occorre “riannodare” la gerarchia dei sistemi di responsabilità dal livello più basso fino ai vertici per evitare le situazioni ricorrenti di “immunità” riconosciuta agli amministratori delegati delle aziende committenti e ai General Contractor che sono le stesse che progettano e decidono risorse e modalità operative e governo di sistema dell’intera filiera. La legislazione in materia di salute e sicurezza dovrà evolvere tenendo conto della trasformazione dei sistemi di organizzazione transnazionali che si strutturano come sistemi di organizzazione a distanza sul progetto, sull’opera o sulla commessa da realizzare, con il minore coinvolgimento possibile di responsabilità di cui rispondere ai lavoratori e alle imprese di subappalto coinvolte. L’aspetto più contraddittorio dei processi in atto riguarda la divaricazione tra le politiche di gestione del personale, orientate a ridurre vincoli e responsabilità verso il lavoratore sempre più visto, nella logica della Legge 276 del 2003, come un anonimo fornitore temporaneo di prestazioni commerciali da scegliere nel migliore dei casi da un catalogo d’agenzia, e l’ampio dispiegamento retorico che tende ad arredare l’immagine dell’azienda con impegni alla responsabilità sociale, con l’adozione di codici di comportamento e di disciplinari e con la sofferta adesione a complesse procedure per il conseguimento di una certificazione di qualità. Questa divaricazione tra la crudezza delle politiche gestionali delle relazioni di lavoro e l’apparato ideologico e retorico che fa riferimento alle diverse tipologie di certificazione di qualità ed etiche, di varia specie e natura, rischia di rendere poco autentiche e credibili tali pratiche. Questa riflessione va promossa proprio perché non vengano rapidamente bruciate come tecniche di manipolazione o propagandistiche i diversi percorsi di adozione di codici di comportamento etico, sistemi gestione salute e sicurezza, ecc. È opportuno quindi sviluppare una riflessione sulla “tastiera” di strumenti elaborati per e dalle imprese, in particolare dalle multinazionali sia per curare la propria immagine e proteggere la propria reputazione sia per surrogare la mancanza di norme nei paesi 356 più poveri in cui hanno affidato commesse produttive ad aziende a capitale locale e/o in partecipazione. 1 Certificazioni per la qualità dei processi Diamo per acquisite e conosciute le strumentazioni più che derivano dalla adesione alle certificazioni di processo come Vision 2000 e Iso 14000 che sono adottate dalle imprese perché sono un prerequisito per “comunicare” e fare business su scala nazionale e internazionale. Questi strumenti vengono elaborati in sede di Comitati tecnici e costituiscono una pratica di governance della complessità dei problemi di standardizzazione che nascono nel rapporto tra le imprese in particolare della subfornitura e le imprese committenti. Nel tempo è stata loro attribuita una potenzialità di regolazione che avrebbe prevalenza e capacità di sostituire anche le norme e le regole degli stati. Tuttavia, rispetto al resto del mondo, in Europa la normazione tecnica basata sulla adesione volontaria delle imprese incrocia, nella sua ascesa un corpo sempre più completo di direttive dell’Unione Europea e il mondo della normazione tecnica ha dovuto, quindi, darsi regole interne più rigide: gli organismi di normazione membri del CEN sono infatti obbligati a recepire le norme europee a ritirare le proprie, se contrastanti. I rappresentanti degli enti normatori europei Cen e Cenelec, riuniti in Ungheria l’8 giugno 2005 per la 1ª Assemblea Generale congiunta, hanno formulato una risposta alla Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione in Europa. Con la cosiddetta “Risposta di Budapest” più di 200 rappresentanti della comunità della normazione hanno sottolineato l’importanza delle norme per la competitività in Europa concordando pienamente sulla necessità di incrementare lo sviluppo e l’occupazione. “La competitività delle imprese è un elemento chiave per l’Unione europea e le norme giocano un ruolo importantissimo nel semplificare la legislazione. La Commissione europea intende cooperare il più possibile con il sistema di normazione europeo” ha dichiarato Michel Ayral, direttore della Regulatory Policy presso la 357 Commissione europea “Le norme sono l’unico sistema per promuovere l’auto-regolamentazione”. Il rischio di un entusiasmo tardo positivista che individua la soluzione della crisi economica nelle norme tecniche che sarebbero immuni da critiche in quanto espressione della razionalità tecnica esiste e va assunto con pacatezza e determinazione. È recente, infatti, la presentazione della norma Uni 11155 “Attività operative delle imprese. Misurazione delle prestazioni” uno strumento dedicato alle imprese per identificare le variabili rilevanti della propria attività ed utilizzare i metodi di misurazione che diano risultati significativi e confrontabili per le necessarie verifiche di benchmarking. È evidente che in questa costruzione logica e organizzativa della realtà le esigenze e i bisogni degli umani che lavorano vengono subordinate o ignorate rispetto agli algoritmi delle procedure del benchmarking. In altre parole l’adozione di queste procedure non prevede, allo stato dell’arte, la presenza del soggetto lavoratore/lavoratrice come elemento attivo chiamato all’interno del sistema di regolazione per dare un proprio contributo attivo e positivo. Le procedure di certificazione e della gestione in qualità di un processo possono indurre una sorta di burocratizzazione del sistema che sceglie, a volte, di non utilizzare le strategie informali dei lavoratori per il miglioramento della qualità del lavoro. Il deficit di conoscenza della complessità del governo delle relazioni anche conflittuali del mondo del lavoro e delle tutele dell’ambiente traspare in diversi documenti in particolare in quelli strategici. Ci siamo soffermati sulla questione della normazione tecnica perché da tempo esiste un movimento di pensiero che vede nella normazione tecnica ad adesione volontaria la possibilità di semplificare e ridurre ai minimi termini l’autorevolezza delle norme degli Stati e delle Pubbliche Amministrazioni. Sempre più frequentemente si assiste ad una inversione dei ruoli per cui sono le Pubbliche Amministrazioni a delegare alle norme tecniche compiti impropri di regolazione dei rapporti sociali o ad adattare le leggi alle norme tecniche. È abbastanza palese che le norme tecniche 358 sono la traduzione empirica sia di saperi sia di pratiche consolidate nella operatività nei diversi campi della organizzazione della produzione di beni e servizi. Non si può tuttavia attribuire a questi dispositivi funzioni magiche di governo delle relazioni sociali o di sostituzione con esse delle forme di partecipazione intelligente dei lavoratori al miglioramento delle organizzazioni. Come tutti gli strumenti, vanno utilizzate senza richiedere ad esse ciò che non possono dare, in fattispecie nella gestione della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro. Prendiamo in esame alcuni dei programmi di gestione salute e sicurezza per intraprendere un primo percorso di riflessione sulla utilità ed efficacia di queste procedure che tendono a sostituire o che vengono proposte dalle aziende come un miglioramento rispetto al risk assessment e al risk management previsto dal D.lgs. 626/94 e successive modificazioni. 2 Sistema Gestione Salute Sicurezza Inail-Uni Un gruppo di lavoro Uni-Inail, comprendente anche Cgil, Cisl, Cna, Confagricoltura, Confapi, Confartigianato, Confcommercio, Confindustria, Ispesl e Uil, ha redatto, nel corso del 2001, un documento non normativo di supporto ai sistemi di gestione della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, non destinato alla certificazione né all’uso per la vigilanza dell’autorità. Studiare la “storia” e la diffusione e applicazione concreta di questo documento, sarebbe di grande interesse per misurare la permeabilità delle imprese italiane rispetto alla possibilità di adozione di strumenti gestionali integrati della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro. Questo Sistema che ricalca molti criteri della Ohsas 18001 non risulta sia stato adottato, per ora, su larga misura dalle Aziende, in particolare le Pmi L’utilizzo, per ora, del Sistema Gestione Salute e Sicurezza Inail-Uni è abbastanza “sommerso” in quanto, come si evince dalla avvertenza che l’applicazione delle procedure indicate nel documento non costituisce adempimento ad una norma o essere intesa come una specifica tecnica utile per la certificazione. Soltanto nel Veneto si 359 trovano Protocolli d’Intesa tra Inail e Confindustria regionale cui non fanno seguito protocolli con le OO.SS. In buona sostanza pare che alla diffusione delle Linee Guida Sgsl, per ora, non abbia fatto seguito una adozione convinta delle stesse da parte delle Aziende. 3 Adesioni al sistema di certificazione Ohsas 18001 Il sistema di gestione salute e sicurezza più noto a livello europeo è Ohsas 18001. Qual è il grado di “penetrazione” nella cultura d’impresa italiana e in Emilia-Romagna di questi approcci che tendono alla integrazione dei sistemi di gestione in qualità dei processi e dei prodotti ? Secondo recenti dati tratti da pubblicazioni del Sincert le Aziende certificate per ISO9001-2000 sono 7838, per quanto riguarda la certificazione Ohsas 18001 sono in totale 22, 469 sono le Aziende certificate Iso 14001. La dimensione ridotta delle aziende, la presenza di aziende micro è, in parte, una spiegazione di questa scarsa adesione a questi standard. La prevalenza di una logica del “fai da te” su piccola scala, magari con l’aiuto di un consulente ha fatto prevalere, in particolare, nella piccola impresa la scelta di non intraprendere percorsi i cui costi sono ritenuti non giustificati rispetto al ritorno d’immagine per l’azienda. Solo in aziende che sono parte di un sistema multinazionale e/o costrette da relazioni commerciali con aziende multinazionali è stato adottato lo standard Ohsas 18001. In Francia, per esempio, esiste una maggiore adesione delle imprese a questo tipo di certificazione: sono i settori delle costruzioni e delle imprese manifatturiere a prevalere in questa adesione agli standard Ohsas 18001. La chiarezza della strategia suggerita dalla Pubblica Amministrazione alle imprese, in Francia, è più forte che in Italia: l’adesione allo standard Ohsas 18001 viene proposta come integrazione e rafforzamento del Documento Unico (il documento di valutazione dei rischi e di programmazione dei miglioramenti prescritto in Italia dal D.lgs. 626/94) richiesto dalla legge francese. In diverse aziende francesi viene praticata una adozione integrata degli standard l’Iso 9001/2000 con l’Iso 14001 e Ohsas 18001 che 360 consente economie di scala sia nel momento di adozione sia nel dopo per quanto riguarda la gestione integrata di salute e sicurezza nel lavoro. 4 Standard di settore: il programma “responsible care”. Tra gli standard va ricordato il programma “Responsible Care” per le imprese chimiche adottato e promosso in Italia da Federchimica. Questo programma nasce a metà degli anni ’80 per rispondere alle contestazioni degli impatti dell’industria chimica da parte delle associazioni ambientaliste e contro le nocività tramite campagne informative delle popolazioni residenti nell’area di insediamento degli stabilimenti, visite guidate nelle aziende e rapporti più aperti sia con le Amministrazioni locali e i sindacati. Una valutazione scientifica di terza parte, evidence based, sui risultati di queste pratiche non è disponibile. Mentre negli US Responsible Care nasce e si sviluppa in ragione della lezione di Bophal, in Italia viene “importato” come strumento a prevalente funzione d’immagine. In Italia secondo i dati diffusi da Federchimica risulta che il Programma R.C. è attivo in 169 imprese con 450 unità produttive e copre 61.500 lavoratori circa. Poco più di 1/3 dei lavoratori del settore sono coperti da questi programmi Responsible Care: nelle aziende piccole come plastica gomma, confezionamento il programma non è adottato. Solo una ricerca accurata sui risultati potrebbe consegnare una valutazione sulla efficacia questo programma. 4 Stato leggero, impresa che si autoregola? Le stesse procedure di certificazione che prevedono una separazione dei compiti per i quali, da una parte alla pubblica amministrazione competerebbe, tramite norme generiche di indirizzo, fissare gli obiettivi mentre sarebbe compito del sistema delle imprese adottare standard tecnici su base volontaria sono ben descritte dalla vicepresidente di Confindustria Emma Marcegaglia in un intervento pubblicato dal sito UNI in merito alla legislazione in campo ambientale: “…....dobbiamo quindi insieme superare la vecchia impostazione tesa più ad “imporre” e “controllare” (piuttosto che a 361 “ricercare” e “coinvolgere”) che ha portato alla formazione di una giungla legislativa e burocratica che penalizza la competitività del Paese e non rende possibile una efficace attività di prevenzione e di controllo. Ecco perché, come operatori industriali, guardiamo con interesse alla concretizzazione della “Legge Delega in campo ambientale” che mira al riordino del corpo normativo in materia, e auspichiamo una rapida emanazione dei “testi unici”. In questo ambito, particolare attenzione dovrà essere posta nell’evitare il ripetersi degli errori del passato: si dovrà, ad esempio, evitare di emanare la regolamentazione tecnica con decreti ministeriali o, addirittura, con atti di Legge. Ciò pone, infatti, problemi per la loro modifica o il loro aggiornamento, con il risultato che anche semplici errori materiali non possono essere rimediati a causa della complessità delle procedure richieste per l’emanazione di un nuovo provvedimento. Dovrebbe, quindi, essere scissa la funzione di programmazione e di indirizzo, in capo allo Stato, cui spetta la definizione degli obiettivi, degli strumenti e dei controlli, dalla normativa tecnica che da questi atti discende. Quest’ultima potrebbe essere definita dagli enti dediti alla normazione-regolamentazione tecnica (esempio: Uni, Apat) sulla base di chiari e precisi criteri fissati dal legislatore. Accanto al disegno di riordino legislativo occorre, poi, valorizzare l’impegno volontario che un numero sempre crescente di imprese attua al fine di ridurre il proprio impatto ambientale, andando oltre il mero rispetto dei limiti imposti…” È palese che questo modello di autoregolazione e di governance tecnica proposto da Marcegaglia per l’ambiente richiede la istituzione di autentiche authority che dovrebbero avere una forte autorevolezza e autonomia tecnico scientifica rispetto agli interessi in gioco, poteri di vigilanza, prescrittivi e forse anche sanzionatori e non essere parte in causa come soggetti portatori di interessi conflittuali. Strutture con tale profilo, in grado di garantire la terzietà, in Italia non esistono: se la normazione tecnica fosse delegata alle strutture citate dalla Marcegaglia è prevedibile che si incrementerebbero ulteriori conflitti e litigiosità. Nell’ambito specifico della tutela della salute e della 362 sicurezza saremmo poi in un contesto istituzionale e di relazioni nei fatti da inventare ex novo. Non intendo dire che sia impossibile, ma i costi derivanti dalla messa a punto di un sistema di questo tipo sarebbero enormi per i lavoratori che pagherebbero sulla loro pelle le disfunzioni del passaggio da un sistema comando controllo ad un sistema che, data l’arretratezza culturale di molte imprese, potrebbe essere malfunzionante o inesistente per molti anni. La sperimentazione di un percorso di questo tipo potrebbe essere programmato con gradualità e in ogni caso, per comprenderci, come nei cantieri, si dovrebbe togliere la “vecchia armatura” solo quando si comincia a intravedere che il nuovo sistema comincia a funzionare. Esattamente al contrario di quanto si proponeva il governo con la forzatura del TU in materia di salute e sicurezza nel lavoro. 1 Lo sviluppo di sistemi di monitoraggio e gestione delle aziende della subfornitura Assai meno conosciuto è lo standard Scc (Safety Checklist for Contractors) Scc è un sistema di certificazione di terza parte sviluppato per le organizzazioni che subappaltano il lavoro. Lo standard Scc viene applicato per la valutazione e la certificazione dei sistemi di gestione della sicurezza utilizzati dalle imprese subappaltatrici. Sviluppato inizialmente da Dnv insieme alle industrie petrolchimiche, Scc è ora uno standard accreditato utilizzabile pubblicamente anche da altre industrie. La frantumazione dei processi produttivi comporta dei gap nella gestione effettiva della sicurezza nei settori delle costruzioni di grandi opere. La necessità di mettere in atto sistemi di governo delle responsabilità nella gestione della sicurezza è avvertita da tempo. Il limite degli strumenti gestionali come Scc è rappresentato dal fatto che vengono adottati, sulla base della volontarietà dalle aziende che, in genere, ne hanno meno bisogno. Si tratta invece di individuare strumenti progettati allo scopo di promuovere la valutazione e la gestione dei rischi a livello di filiere che mutano assai rapidamente configurazione come nel settore delle costruzioni. 363 Il primo strumento normativo da adottare come rafforzamento di quanto prevede l’art. 7 del D.lgs. 626/94 e successive modificazioni potrebbe essere quello dell’audit di filiera che dovrebbe essere posto in capo al general contractor che dovrebbe essere reso responsabile della valutazione della congruità dei piani di sicurezza non solo dal punto di vista burocratico, ma operativo.. Un impianto di rilevante interesse riguarda la proposta di Marchio di Qualità Sociale elaborata dall’ Istituto per il Lavoro che prevede un percorso durante il quale l’impresa raggiunge un miglioramento della qualità della gestione della propria organizzazione per approssimazioni successive. Infine occorre che vi sia una diffusione maggiore delle conoscenze in materia di procedure di certificazione da parte dei diversi attori sociali perché non vi sia né una celebrazione acritica delle pratiche di certificazione come risolutive dei problemi quotidiani della sicurezza né una sottovalutazione di alcune opportunità che questi strumenti offrono. I diritti di informazione sul significato, gli obiettivi e i limiti di queste pratiche vanno definiti con maggiore precisione sia nei contratti nazionali di lavoro, sia in quelli aziendali. Questo discorso vale in particolar modo per tutte le adozioni che le aziende vanno facendo in particolare per quanto riguarda i disciplinari o codici di responsabilità sociale dell’impresa. 2 Impresa e autopoiesis etica Il tema della Responsabilità sociale delle imprese (Rsi) o Corporate Social Responsibility (Csr) è argomento di discussione, in Europa, da alcuni anni. Nel suo Libro verde del luglio 2001, la Commissione Europea definisce Responsabilità sociale dell’impresa come “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. I recenti scandali Enron e Andersen negli USA e Parmalat in Italia, hanno posto sotto i riflettori il tema della Csr. Diverse multinazionali, per realizzare buone pratiche in materia di Csr, hanno elaborato 364 Codici di condotta che contengono regole che debbono essere applicate, in base al grado responsabilità, dai dirigenti fino ai lavoratori. Una specie di autopoiesis, di creazione autarchica di regole e norme con un presunto valore “etico” per l’impresa si affiancano e/o si sovrappongono alle leggi degli stati in cui sono localizzati i siti produttivi. La qualità del lavoro e delle relazioni tra impresa e lavoratori dipendenti ha ora, oltre ai contratti sindacali, laddove esistono, un nuovo punto di riferimento, il Codice di condotta d’impresa. Abbiamo esaminato alcuni Codici per misurare l’impatto che possono avere nella qualità del lavoro e della vita nel lavoro dei dipendenti dell’impresa. 3 Analisi di un Codice di condotta In uno dei codici esaminati, in corso di applicazione in un sito produttivo che una multinazionale Usa ha acquisito in Emilia-Romagna, si legge che: “…tutti i dipendenti sono obbligati a riferire prontamente qualsiasi violazione nota o sospetta del codice o richieste che potrebbero costituire delle violazioni. Nella misura del possibile, i rapporti saranno considerati riservati. I dipendenti hanno la facoltà di segnalare questi problemi anonimamente…” L’invito alla delazione per scoprire eventuali violazioni del codice etico proprietario è un paradosso palese e prefigura un sistema di relazioni tra lavoratori avvelenate. Il dipendente è quindi tenuto pena sanzioni a fare delazioni rispetto a presunte mancanze dei colleghi di lavoro, ma al tempo stesso è obbligato alla riservatezza aziendale su quasi tutto riguarda l’azienda. Nel codice etico del Gruppo Poste Italiane, ad esempio, il controllo sulla osservanza delle regole è assai più sfumato: “La responsabilità del buon funzionamento del sistema di controllo interno è riferita a tutti i destinatari del Codice, nell’ambito delle funzioni svolte. Ciascun dipendente è tenuto ad informare con tempestività il proprio responsabile diretto dell’insorgenza di dinamiche che possano interferire sulla corretta gestione dell’attività lavorativa...” 365 4 La riservatezza dei dati dell’impresa Occorre chiarire che anche aspetti che riguardano profili di rischio dall’uso di determinate sostanze produttivo nel ciclo potrebbe rientrare nella fattispecie delle informazioni riservate. Il Rls che, in base all’art. 19 del D.lgs. 626/94 e successive modificazioni, richieda informazioni alla Usl, in base a questo codice rischia qualche sanzione. Per quanto attiene la specifica materia della salute e sicurezza nel lavoro e ambiente, il Codice della multinazionale in esame rinvia al “Manuale sulla politica globale della corporation relativa all’ambiente, sicurezza e salute”. Il manuale disponibile in rete contiene una serie di linee guida ovviamente condivisibili in quanto rappresentano uno standard minimo di applicazione delle misure di prevenzione. Per quanto attiene la tutela ambientale si registra nei testi dei codici USA una certa attenzione rispetto al controllo – gestione delle emissioni in atmosfera e nello smaltimento dei rifiuti. In linea di massima i codici di condotta di produzione italiana, in merito al capitolo ambiente salute e sicurezza adottano una forma molto generica del tipo: “….nell’ambito della propria attività, la Società si ispira al principio di tutela e salvaguardia dell’ambiente e persegue l’obiettivo di garantire la sicurezza e di salvaguardare la salute dei Destinatari, mediante le iniziative opportune a tal fine….” La necessità, in Europa, di pervenire ad una regolazione in base ad una direttiva che definisca caratteristiche e limiti in particolare per quanto riguarda “i codici di condotta” è ormai riconosciuta da molti soggetti sia di parte imprenditoriale sia da parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. 5 Una moltitudine di strumenti di certificazione di difficile governo Abbiamo tralasciato in questa rassegna sugli strumenti di standardizzazione la miriade di norme Iso riguardanti i prodotti attrezzi e strumenti. Le procedure di certificazione Iso da strumenti di “comunicazione” tra imprese in grado di garantirsi reciprocamente standard di qualità 366 nelle forniture di beni e servizi si stanno trasformando in un combinato disposto che tende assumere la valenza di normazione alternativa o sostitutiva delle leggi degli stati in materie che riguardano i diritti delle persone, la gestione di beni comuni come i beni ambientali. Nei codici etici aziendali è difficile rivenire traccia del fatto che nell’impresa convivono interessi conflittuali e che i lavoratori hanno una propria personalità e il diritto di esprimerla tramite l’esercizio della contrattazione collettiva. Questi strumenti possono rappresentare un surrogato delle relazioni sindacali per le unità produttive localizzate in paesi che non dispongono legislazioni di tutela adeguate, ma propongono un modello unilaterale di regolazione da parte dell’impresa che non è sostenibile in paesi che hanno una tradizione giuslavorista consolidata. Un uso corretto di codici di condotta può essere tuttavia sviluppato in positivo per rafforzare buone relazioni industriali, gli esempi non mancano: negli USA il Comune di San Francisco ha adottato una ordinanza tesa a vietare acquisti pubblici da aziende che si siano macchiate di ripetute e gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, che li sfruttino o li facciano lavorare in condizioni di sicurezza e salubrità non accettabili, che applichino politiche discriminatorie, che ricorrano al lavoro forzato o minorile. Si tratta di acquisti per centinaia di milioni di dollari l’anno, che vanno dalle divise dei pompieri ai computer degli uffici pubblici, agli acquisti per le mense degli ospedali. L’annuncio è stato dato il 27 giugno e raccoglie le richieste contenute in una campagna guidata dall’associazione per i diritti umani Global Exchange, cui aderiscono una cinquantina di altre organizzazioni. Si tratta della prima stringente normativa anti-sfruttamento, che una volta introdotta potrà diventare un esempio per altre città. Tutti gli appaltatori, subappaltatori e fornitori del Comune di San Francisco dovranno sottoscrivere un codice di condotta, la cui concreta applicazione sarà verificata da un comitato di controllo indipendente. 367 Sarebbe molto interessante ed una sfida sulla qualità delle amministrazioni pubbliche se venisse adottato anche per gli appalti della pubblica amministrazione il criterio della esclusione dagli appalti delle aziende che hanno curricula negativi per quanto riguarda la gestione della sicurezza e della legalità verso i lavoratori. È proprio a partire dalla pubblica amministrazione che occorre agire innanzitutto per superare la pratica del “massimo ribasso “negli appalti. In Emilia-Romagna c’è una esperienza positiva importante che potrebbe divenire il supporto per la costruzione di una esperienza di governance per la qualità nel settore della costruzioni 1 La struttura che connette Una ipotesi di profonda innovazione del sistema produttivo regionale, in grado di fare fronte alla competitività internazionale, in particolare nel settore manifatturiero richiede che vi sia la integrazione delle risorse intese come strumenti di conoscenza, ricerca e innovazione. La capacità di produrre con un basso impatto ambientale, con consumi energetici sostenibili, in sicurezza per quanto attiene gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali diviene un elemento decisivo della sfida. La necessità di integrare e razionalizzare l’ampia dotazione di strumenti della Pubblica Amministrazione e dirigerli verso questo obiettivi è la sfida politica dei prossimi anni: i tempi sono stretti. Il bisogno di sperimentare una struttura che connette e amplifica il potenziale di governo/governance per lo sviluppo della qualità del lavoro, della salute e della sicurezza è emergente. Nella stessa Legge Regionale sul lavoro è prevista la messa in campo da parte della Regione di “centri di riferimento, anche in collaborazione con Università, associazioni, fondazioni ed altre istituzioni di diritto privato, nonché con gli enti e le aziende di diritto pubblico operanti nel settore, sostenendone l’attività con proprie risorse. Questa è certamente una occasione da non lasciare cadere, in quanto è possibile connettere su progetti di miglioramento momenti e luoghi della ricerca, Enti e Fondazioni che hanno un robusto patrimonio, assai spesso non utilizzato adeguatamente, di saperi e conoscenze. 368 Occorre rompere antichi schemi di chiusure a canne d’organo per cui molti Enti, invece di contribuire al concerto, operano come solisti. I campi di sperimentazione sono, da una parte la ricostruzione delle nuove forme di organizzazione delle filiere produttive in alcuni grandi comparti manifatturieri che modulano il sistema produttivo emiliano, dalle ceramiche, ai settori del packaging, dal sistema agroindustriale al settore delle costruzioni, ai trasporti. I determinanti sociali e organizzativi che decidono della salute e della qualità della vita della popolazione di questa regione sono scritti all’interno della organizzazione del lavoro di queste filiere. Così come divengono imprescindibili e non più rinviabili interventi nel settore dei servizi, in particolare dei servizi di cura e assistenza alle persone, ove hanno preso forza modelli organizzativi tayloristici che confliggono, assai spesso, con la qualità stessa delle prestazioni. La capacità di coniugare la risposta ai problemi quotidiani ad un disegno di respiro è una competenza e un sistema di saperi che va costruita connettendo e l’ampia rete di soggetti istituzionali, pubblici e privati che operano sui temi della qualità e della sicurezza del lavoro. 6 Alcune prime proposte per un percorso verso la qualità e la sicurezza del lavoro Dal punto di vista istituzionale la questione della salute e della sicurezza nel lavoro sarebbe bene rimanesse come programmazione delle linee di indirizzo e degli obiettivi una competenza fondamentale del Servizio Sanitario Regionale e Nazionale. In tal senso va contrastata la proposta di modifica del Titolo V con la quale l’attuale governo intenderebbe togliere alle Regioni la capacità di iniziativa propria in materia di salute e sicurezza sul lavoro. È palese che il mantenimento all’interno del Servizio Sanitario Regionale delle funzioni di promozione, di vigilanza va rafforzato con la collaborazione sinergica di altri Assessorati come quello del Lavoro e della Formazione Professionale. L’esperienza positiva del ruolo svolto dall’Assessorato al Lavoro in sinergia con l’Assessorato alla Sanità nella elaborazione della Legge sul Lavoro è una riprova che la 369 integrazione delle iniziative ne rafforza l’efficacia. Occorre superare una visione riduttiva che è divenuta una rappresentazione stereotipata in alcuni ambienti della sanità: il tema della salute e della sicurezza nel lavoro rappresenterebbe una nicchia di scarso interesse rispetto alla crescente complessità dei Servizi di diagnosi e cura. Da questa convinzione è derivata anche una certa distrazione, nei decisori politici, rispetto ai temi della prevenzione più in generale, rinunciando in tal modo a intervenire, per quanto possibile, nella promozione e tutela del patrimonio di salute della popolazione che lavora. Le definizioni di qualità del lavoro, salute e sicurezza nel lavoro hanno subito una trasformazione materiale in ragione delle mutate condizioni di lavoro. Sarebbe opportuno, per orientare al meglio le politiche sanitarie a livello regionale costruire e alimentare con regolarità un Osservatorio epidemiologico che registri le differenze nella salute tra le professioni. In epoca di risorse pubbliche scarse diviene decisivo il corretto indirizzo su dove investire con interventi mirati per il miglioramento sia delle condizioni oggettive e organizzative il posto di lavoro e il modo di lavorare. Un contributo importante è dato dallo studio epidemiologico longitudinale svolto a Torino che individua tra le professioni quelle più svantaggiate rispetto alle condizioni di salute e di aspettative di vita. I dati risalgono ai primi anni ’90 e da essi deriva una immagine degli impatti che le condizioni di lavoro e socioculturali hanno prodotto sulle condizioni di salute in un contesto di mercato del lavoro assai differenti da quelle di oggi. È verosimile ipotizzare che il mix di esperienze lavorative di un giovane o di una ragazza oggi sia assai più complesso e la definizione di “professione prevalente” ovvero della somma dei frammenti di lavoro renderà assai più complessa la definizione di un profilo professionale con il quale descrivere il profilo dei rischi prevalenti cui è stato esposto un lavoratore o di una lavoratrice nell’arco della vita lavorativa. Occorre ricostruire assieme ai soggetti portatori del bene salute, ora, le nuove mappe dei rischi e assieme a loro individuare le strategie di successo per mitigare gli impatti che le nuove condizioni di lavoro stanno già producendo. 370 Nelle politiche sociali e sanitarie non sono ancora conosciute in modo adeguato le differenze di salute tra le professioni che si stanno consolidando non tanto per i rischi e per le esposizioni a rischi specifici che comportano tradizionalmente certi lavori, quanto per i processi di precarizzazione e di incertezza per il futuro che accompagnano la quotidianità di migliaia di uomini e donne, giovani e ragazze. Affrontare un percorso per il miglioramento della qualità del lavoro e per la salute e la sicurezza è ora una straordinaria sfida in quanto pure a fronte della incomparabile e contraddittoria ricchezza di conoscenze, di strumenti e di mezzi che si possono mettere in campo rispetto all’epoca delle prime lotte contro le nocività degli anni ’60-’70, ora si deve fare fronte alla grande fragilità e insicurezza dei lavoratori di oggi. 371 Conclusioni FRANCESCO GARIBALDO Normalmente chi si occupa di problemi ergonomici e/o di salute e sicurezza parte dall’assunto che gli esseri umani siano al centro del sistema produttivo e che il sistema debba, quando non è in condizioni anomale, adeguarsi ad alcune caratteristiche psico-fisiche degli esseri umani; anche oggi, nelle diverse sezioni, tutti hanno seguito questo copione. La mia domanda iniziale è: sino a che punto ciò è vero a fronte dei processi in corso in Italia e nel mondo? La mia risposta molto netta è che non lo è per niente, anzi è esattamente vero il contrario, cioè gli esseri umani devono adattarsi alle esigenze funzionali del sistema produttivo. Sottolineo questo punto non per polemizzare con l’approccio scelto, che è del tutto corretto, ma per indicare che si tratta di un “dover essere” e non della realtà. A mio parere l’assunzione del principio di realtà è estremamente importante sempre ma specificatamente in questo campo dove è in gioco la vita degli esseri umani. Infatti se si abbandona il campo della più rigorosa analisi di realtà, anche le migliori intenzioni cambiano di segno, diventano cioè mistificazione e copertura di fatto di una realtà che va in tutt’altra direzione, oppure semplicemente impotenza operativa. Che cosa sta accadendo nei sistemi produttivi e specificatamente in sistemi come quello della Regione Emilia – Romagna, ma anche dell’Italia intera, dominati dalla presenza massiccia delle piccole, medie e piccolissime imprese? Il sistema produttivo, sia quello manifatturiero in senso stretto, che quello dei servizi ad esso collegati è dominato sempre più da tecniche manageriali che sotto nomi differenti, frutto più di mode che di sostanza, hanno una caratteristica base essenziale che è riconducibile alle tecniche just-in-time e alla filosofia della lean production, o produzione snella. Il sistema produttivo è articolato attorno ad alcune aziende, chiamate “focali” oppure “OEM” (Original Equipment Manufacturing cioè fornitrici di equipaggiamento originale), che hanno un prodotto e/o un servizio proprio, ed una moltitudine di aziende che lavorano per le aziende focali. Tutto ciò avveniva anche prima, la novità sta nel fatto che le aziende fornitrici non sono portatrici di flessibilità ulteriore, aggiungendo e togliendo volumi produttivi ad attività che le aziende focali fanno in proprio, ma presidiano parti rilevanti di attività che le aziende focali non svolgono più al loro interno; si determina cioè un ciclo produttivo più o meno integrato; il maggior o minor grado di integrazione dipende dalla minore o maggiore dipendenza del fornitore da un numero ristretto di clienti. Questo ciclo produttivo deve funzionare secondo le regole del just-in-time e della lean production, quindi come un meccanismo perfettamente oliato che funziona secondo i ritmi e la velocità determinata dalle aziende focali, che rispondono direttamente al mercato specifico dove sono venduti i loro prodotti e servizi. Chi si trova lungo questa catena produttiva, parlo adesso delle aziende e non dei lavoratori, è eterodiretto in modo totale se il ciclo è integrato, oppure in modo sostanziale se il ciclo non è completamente integrato. Siamo quindi in un classico processo di concentrazione senza centralizzazione delle attività economiche ed industriali in particolare per cui chi controlla il ciclo controlla la catena del valore e quindi rastrella la maggior parte del valore prodotto per sé, noi abbiamo trovato aziende fornitrici che hanno margini operativi dell’ 1 o 2 per cento. I lavoratori e le lavoratrici di queste aziende sono di fatto eterodeterminati, se non eterodiretti, in tutti gli aspetti della loro condizione lavorativa, oltre che salariale. Se si considera la competizione economica come una forma di belligeranza, essi sono in realtà “coscritti” per la guerra e, come accade in guerra, l’esigenza al centro di ogni considerazione è quella di vincere la guerra, tutto il resto viene sacrificato. All’interno poi di ciascun azienda le tecniche della lean production puntano a riorganizzare il ciclo produttivo secondo lo stesso schema di connessione diretta e rigida di tutte le parti componenti guidate dal principio di rispondere in tempo reale da ogni variazione proveniente dal mercato, sia essa quantitativa oppure qualitativa. Il singolo lavoratore o la singola lavoratrice quindi non sono in alcun modo al centro del processo, se non che come oggetti di esso, né tanto meno ne condizionano le caratteristiche per adeguarle ai loro bisogni di integrità psico-fisica. Né ci si può fermare ai processi di riorganizzazione interni alle imprese dato che il mercato del lavoro è stato plasmato in modo tale da essere coerente con questi schemi produttivi, determinando forme crescenti di precarietà per quote minoritarie, ma a loro volta in crescita, di lavoratori e lavoratrici. Questi ultimi, si tratta ormai di quasi un quarto della forza lavoro, vivono avendo piena consapevolezza che la loro condizione di occupati nonché la loro condizione lavorativa è quantitativamente e qualitativamente una subordinata delle esigenze competitive delle imprese; la parte, per ora maggioritaria, con un qualche grado di stabilità sa con altrettanta chiarezza che al loro condizione lavorativa è una subordinata e che ogni tentativo di resistere viene affrontato con una crescente durezza e la minaccia di sospingerli nell’area del precariato. Il processo è così forte e sregolato che si stanno determinando situazioni paradossali di vario genere. La prima è uno strutturale divorzio tra la proclamata necessità del pieno utilizzo del potenziale di conoscenza dei lavoratori e delle lavoratrici nonché del loro necessario pieno coinvolgimento nella autoregolazione dei nuovi processi produttivi e la struttura produttiva che produce mancanza di motivazione e sottoutilizzo delle capacità dei singoli. La seconda è quella di una lamentela crescente sulla difficoltà a trovare gente disposta a lavorare in fabbrica e la contemporanea lamentela sul rischio di investire in formazione per giovani che dopo poco se ne vanno, nel mentre si costruisce una macchina produttiva che inevitabilmente porta a quei risultati. Che fare quindi? Prendere atto di una tendenza inevitabile? Limitare i danni? In realtà i processi appena descritti hanno anche un'altra caratteristica. Infatti la nascita di queste strutture policentriche ed integrate, siano esse rigorosamente verticali oppure orizzontali, non si traduce solo nel meccanismo “in presa diretta” prima descritto sommariamente, ma crea degli spazi operativi nuovi, determina delle attività di cooperazione tra persone e strutture formalmente distinte ma in concreto connesse in modo stretto. Si ha cioè una modifica di quello che sia per le strutture pubbliche operanti sul territorio, come per i sindacati è la loro “unità di azione” ed anche la loro “unità di analisi”. Se si sta infatti ai confini formali delle singole realtà economiche e produttive, non solo non si comprende quanto accade ma si ha la netta sensazione dell’impotenza. Se invece si guarda alla realtà effettiva, cioè a queste nuove macrostrutture non sono il processo appare trasparente ma si possono cogliere con precisione i determinanti del processo, cioè i nessi causali, quindi si può identificare una strategia di intervento. È vero che ognuno di tali nuove realtà vive in una dinamica economica, sociale e culturale molto più ampia che è modellata dai rapporti di potere oltre che dal ruolo delle istituzioni pubbliche; ma questo era vero anche prima, ciò che è nuovo è la diversità di scala dei processi, cioè essi sono identificabili su scale più ampie, e la relazione tra i diversi livelli. Un tempo vi era un assetto abbastanza ordinato di piramidi gerarchiche distinte ed ognuna con un dominio ben identificato, si pensi al modello della pubblica amministrazione Stato, Regioni, Province, Comuni, modello nel quale il Comune era più o meno determinato nei suoi comportamenti dalla gerarchia sovrastante. Oggi abbiamo dei fenomeni, chiamati tran-scalari, in base ai quali il livello più basso, sia esso un Comune, o un unità locale di una impresa multinazionale, deve confrontarsi con altre realtà non per via gerarchica, ma direttamente senza l’intermediazione delle strutture sovra-ordinate gerarchicamente, si hanno continui conflitti o concorrenze giurisdizionali. Insomma in linguaggio più piano molti, appartenenti a realtà diverse, anche sopranazionali, voglio regolare quanto accade ad esempio in un territorio od una unità produttiva. Questa situazione è oltre che un pericolo una opportunità. Infatti iniziative pubbliche, oppure delle organizzazioni sindacali, in grado di misurarsi al giusto livello di “unità di azione e di analisi” e di costruire lungo queste relazioni tran-scalari dei nuovi sistemi di alleanze possono efficacemente condizionare lo svolgimento dei fatti. Non si tratta solo di “pensare globale e agire locale” ma talvolta anche contemporaneamente di “pensare locale e agire globale”; si possono insomma avere alleanze globali per risolvere un problema locale e viceversa. Le strutture integrate di cui si è parlato all’inizio sono anzi particolarmente rigide e fragili. Se concentriamo la nostra attenzione alle strutture pubbliche si tratta allora di pensare una politica per la salute e la sicurezza come l’altra faccia di politiche del lavoro ed industriali. Non penso da un rapporto meccanico di causa effetto ma ad una forma di causazione incrociata. Ad esempio se si vogliono ridurre le morti e gli incidenti in edilizia un punto chiave è una legge sugli appalti ed il superamento della logica del massimo ribasso; se si vogliono ridurre gli incidenti nella fascia dei giovani, un elemento rilevante è la riduzione della precarietà, la costruzione di carriere lavorative, anche tra diverse imprese, coerenti e di un investimento significativo in formazione. Se si vuole puntare a forme di “benessere lavorativo”, un punto chiave è la riorganizzazione dei luoghi di lavoro, non solo quelli industriali, attraverso un aumento delle forme di cooperazione auto-regolata ed una riduzione della pressione competitiva individuale. In realtà regionali quali quasi tutte quelle italiane, basate sulla presenza di piccole e piccolissime imprese, una forte politica industriale concertata con i partner sociali può determinare le condizioni realistiche di un tale ripensamento organizzativo, ecc. Elenco degli autori Carlo Bonora Responsabile Area “Diritti e Opportunità”, Fondazione Istituto per il Lavoro Silvia Cavicchi Ricercatrice Fondazione Istituto per il Lavoro Paolo Ceccherelli Funzionario Direzione Provinciale del Lavoro di Ferrara. Collaboratore Cds Ferrara Paola Cenni Ricercatrice, Psicologa del Lavoro. Ergonoma con certificazione europea Silvia Cozzi Collaboratrice C.I.Do.S.Pe.L., Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Bologna Davide Dazzi Ricercatore Fondazione Istituto per il Lavoro Samuela Felicioni Ricercatrice Fondazione Istituto per il Lavoro Milvia Folegani Servizio Sanità Pubblica, Assessorato alla Sanità, Regione Emilia-Romagna Francesco Garibaldo Direttore Fondazione Istituto per il Lavoro Stefano Grandi Collaboratore C.I.Do.S.Pe.L., Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Bologna Michele La Rosa Professore ordinario di Sociologia del Lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Bologna Gino Rubini Responsabile dell’area “Salute e Sicurezza”, Cgil Emilia-Romagna Mila Sansavini Collaboratrice C.I.Do.S.Pe.L., Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Bologna