RELIGIONI ORIENTALI – ISSR 2015 (Carola Benedetto) Tratteremo l’Hinduismo, Sikh-Panth, Giainismo, Buddihsmo Giovanni Filoramo, Induismo Mariangela D’Onza Chiodo, Buddhismo Carola Benedetto, Il Mahabharata cinematografico di Peter Brook (ordinabile presso l’editore Ananke: [email protected]) E anche: Stefano Piano, Sanatana Dharma. Un incontro con l’induismo Stefano Piano, Lessico elementare dell’induismo L’esame: un argomento a scelta sull’induismo e una domanda su ogni libro o testo proposto. La nascita dell’India Nasce il 15 agosto 1947 sotto il segno del Leone. Giorno scelto appositamente dopo un consulto astrologico. È una repubblica federale – 28 stati autonomi - con capitale New Dehli. Non ci sono censimenti completi e attendibili, poiché molte zone impervie sono irraggiungibili ma si stimano 1,2 miliardi di abitanti. Le lingue Non ha una lingua dominante ma diverse, benché la più parlata sia l’HINDI, del nord, derivata dal sanscrito. Ci sono 23 lingue riconosciute dalla costituzione (tra cui l’inglese), benché ci siano 1650 dialetti circa che vengono parlate in India. Macro-lingua è quella indo-aria (Nord), altre è quella dravidica (Sud). Sono capo-famiglie di tutte le lingue parlate al nord e al sud. Religione Oltre l’80% sono induisti, poi ci sono gli islamici (15%), minoranze religiose varie: cristiani (2%), sikh (2%; molte sono in Italia), buddhisti (0,8%), jàina (0,4%; assai piccola, ma potente, dediti alla cultura e al commercio); ebrei, pharsi, comunità tribali diverse… L’India è dunque detta patria delle religioni, con una convivenza non sempre facile (a seconda dei governi). Sacralità della terra, delle montagne (colonne del mondo), i laghi, stagni e fiumi, i guadi, il mare (non bisognerebbe mangiare pesce di mare). Il mare sarebbe così sacro che non si era neppure autorizzati ad attraversarlo in barca, per tutelare la perla di immortalità nascosta dagli dei. Sono sacri gli alberi – sotto di essi ci sono illuminazioni da cui nascono religioni e credenze, come ad esempio per Buddha. Le mucche sono sacre: non vengono mangiate, ma non hanno una grande vita rispetto alle nostre. Sono sacre pure le scimmie e le tartarughe. Sono sacre le pietre e i fossili, per la forma considerata simbolo divino. Questa geografia sacra è assai nota al devoto indu e la ritrova nel quotidiano, così come accadeva nel medioevo cristiano. Sui templi indiani è scritta la storia che è detta ITIHAS. Il valore della storia non sta nella impresa ma nella liberazione, cioè nell’uscita dal ciclo delle rinascite, quindi al non vivere più. Il saluto di benvenuto “spirituale” si chiama ÀNJALI: uniscono le mani portandole alla fronte o al cuore, simbolo della abluzione mattutina, dunque purificazione di sé e dell’altro, come dono. INDUISMO non indica una religione precisa, quanto una serie di abitudini – di vivere e di morire – che si tramandano da millenni in modo scrupoloso e fedele. Il termine deriva dal sanscrito SINDHU che significa “terra bagnata dal fiume”, che perse la “S” e venne adottata dai Romani come “INDUS” (valle dell’Indo) da cui deriva il termine INDIA. Gli Indiani chiamano però la propria terra non India, bensì BHARAT JUKATARASTRA (unione degli stati di Bharat, la dinastia originaria dell’India). In sanscrito si dice BHARATA, da cui MAHABHARATA, cioè “grande (epopea/famiglia) Bharat”. L’Induismo è un insieme di religioni che si riconoscono a vicenda, condividendo alcuni principi religiosi e radici culturali. I principi sono: la certezza delle rinascite; l’aspirazione alla liberazione dal divenire (tendendo al non nascere più); la necessità di un idolo per praticare il culto. Anzitutto sono 3 macro-religioni unite tra di loro: VAìSNAVA (VìSNU) SàIVA (SìVA) SàKTA (religione della dea) Queste tre religioni si frammentano in mille rivoli. Tutti Indu a pieno titolo con diverse religioni. Non si usa la parola “religione” per accomunare le diverse religioni Indù, bensì DHARMA: significa anche religione, ma anzitutto l’ordine superiore (simile al concetto di “natura naturante”, per cui ogni cosa è ciò che deve essere). È associato alla non violenza. Esistono DHARMA individuali, di categoria, cosmico. Che possono entrare in conflitto tra loro. Il dharma personale cambia con la formazione personale, ma rimane intatto a livello sociale e categoriale. È come una norma eterna che fa sì che le cose siano ciò che devono essere. Non vi è nulla di superiore a esso (è sovrano) e coincide con la verità. Esso ha forma eterna e immutabile e come tale è SANATANA-DHARMA (dharma eterno). 4 possibili traduzioni Norma dell’eterno / Norma eterna / Norma che rende eterni (garantisce l’esperienza di eternità) / Norma che rende l’uomo Dio (unica realtà veramente eterna) progressione graduale Chi vive dunque in armonia col dharma universale fa esperienza del divino. Di questo dharma eterno parla il testo dello MANU-SMRiTI e dei VEDA. I VEDA (“la sapienza udita dagli antichi poeti nella notte dei tempi”) sono testi molto antichi. Nell’Induismo ci sono due tipi di testi sacri: quelli UDITI e quelle SCRITTI. La “notte dei tempi” è il tempo del cuore in cui 7 poeti mistici e anziani hanno “udito”. Altri scritti fanno invece capo alla tradizione scritta. Esistono diversi tipi di dharma. Il primo è il VARNA-DHARMA, cioè il dharma della propria famiglia/posizione sociale. La categoria sociale di nascita/CASTA è inamovibile secondo la tradizione indiana. Le CASTE sono ordinate gerarchicamente (secondo la purezza portata dalle preghiere che si recitano). Poi c’è un ÀSRAMA-DHARMA, cioè il dharma della mia fase di vita (allievo, capofamiglia, anziano). Si parla al maschile perché a essi si riferiscono questi doveri. Per le donne ci sono meno obblighi religiosi e meno benefici, perché è una società fortemente patriarcale. Nascere donna è il primo problema della vita… ma si può rinascere uomini in una nuova vita. Poi il SADHARANA-DHARMA, che comprende norme universali, ad esempio la purezza (fisica, segno di quella psicologica/interiore), la disciplina interiore o auto-dominio, usare il perdono, vivere senza invidia, praticare la compassione, vivere in assenza di desiderio, praticare la tolleranza. (Quest’ultimo è // al SANATANA-DHARMA, che dice più la “norma universale”). NB – pare dunque che le persecuzioni indù vs cristiani siano apertamente in contrasto con i principi della religiosità indù (// intolleranza cristiana, anti-evangelica, VS persecuzioni islamiche, compatibili con certi passi del Corano) DANA (dono) è un termine chiave; può indicare il dono fisico (da dare ai monaci erranti, come mezzo di sostentamento che gli evita di temere di doversi sostenere in proprio), ma soprattutto il donare la mancanza di dolore e di paura (// amore per il prossimo). Il DHARMA INDIVIDUALE (SVADHARMA) può entrare in conflitto con quello universale, ad esempio un guerriero che debba anche praticare la pace universale. Il testo più diffuso è “Il canto del glorioso signore” (BHAGAVAD GITA, contenuto nel MAHABHARATA) che vede il guerriero pronto a scoccare la freccia, in una battaglia tra due rami della stessa famiglia, per dare inizio alla epocale battaglia. Krishna guida il suo carro di battaglia… Ma il guerriero posa la freccia, per evitare una vittoria che sarebbe uno sterminio tra parenti. Ma il suo SVA-DHARMA richiede di scoccare la freccia. La risposta al conflitto è: compi il tuo dovere, ma staccati da quanto devi fare, dalle passioni che questo gesta ti porta (arriva al kharma-yoga, cioè lo yoga dell’azione). Meglio compiere in modo imperfetto il proprio dovere che compiere in modo perfetto il dovere altrui, altrimenti si compromette l’equilibrio cosmico. Tranne quando, nell’ultima fase del maschio indù, con i figli ormai sistemati, si può “morire al mondo” e dedicarsi esclusivamente, uguale tra gli uguali, alla graduale ascesi e meditazione per la liberazione. Ma prima, ognuno deve rispondere ai doveri personali della propria condizione. La fine del ciclo delle rinascite è detta MOKSA, obiettivo della vita di ogni indù. Il KAMA è invece il PIACERE personale inteso come primo obiettivo della vita, inteso come piacere fisico o come soddisfazione dei desideri. A esso segue l’ARTHA o benessere materiale/ricchezza proprio e familiare (nell’ambito della migliore posizione possibile all’interno della casta di appartenenza). Il terzo obiettivo è il DHARMA, di cui abbiamo già detto. Ma tutti questi obiettivi sono sovrastati dal fine ultimo del MOKSA. SAMSARA (trasmigrazione) – è ciò che ha a che fare con il nostro essere presenti, con la VITA dunque. È il nome di un profumo. L’indù deve quindi saper conciliare il proprio SVA-DHARMA col SANATANA-DHARMA, tenendo presente il MOKSA come obiettivo finale, tenendo presenti anche gli obiettivi di KAMA e ARTHA. Quindi ci sarà posto per una fase della vita in cui si lascia la casa, la famiglia, e ci si ritira in monastero per vivere come esseri puramente spirituali. Noi stiamo esaminando la tradizione indù, ma oggi grandi problemi derivano dalla modernizzazione che ha causato un vero e proprio shock culturale. Si nasce e si diventa indù solo per meriti acquisiti nella vita precedente. NON è vero che non ci si può convertire all’indù: anche in Italia ci sono comunità di convertiti all’induismo (se cattolici, si tratta di apostasia!) Primo passo per diventare Indù è l’iniziazione e questa avviene tramite un maestro o GURU, che permette di esser accolti divenendo parte delle 7 famiglie dei mistici poeti originari da cui ogni Indù deriva (un po’ come si trattasse di “adozioni postume”, ma questo non conta, perché la storia non conta in quanto a date e continuità bensì per ciò che riguarda la liberazione; i fatti storici non contano rispetto alla verità più profonda, poiché la vita materiale è illusione velo di Maya, cfr. Schopenhauer). L’Induismo – dovendo ricostruire una storia – inizia a partire dal II millennio a.C. Tre macro-fasi Epoca vedica (testi VEDA) -incentrata sul rito sacrificale in onore di molte divinità -i testi sono le parti più antiche dei VEDA Brahmanesimo antico -ruolo centrale dei sacerdoti (brahmani) -testi meno dogmatici e più speculativi Brahmanesimo recente - come oggi lo conosciamo (Induismo) - testi scritti dall’uomo e non uditi (quindi non ispirati divinamente) Questi tra stadi rispecchiano altrettante caratteristiche religiose: rituale / introspettivo / devozionale Questi tra aspetti coesistono. L’indù ancora oggi compie piccoli riti arcaici, insieme a gesti speculativi e devozionali più moderni. PURANA: raccontano a paria e donne le antiche cosmogonie che non hanno potuto sentire, per cui ancora oggi si ridicono i valori e le tradizioni più arcaiche. Sono 18 purana maggiori, moltissime minori o in costruzione Libero è chi si abbandona al Libero per eccellenza Se te ne vai, io non esisto Il DONO porta la triplice beatitudine (in terra, in cielo, nel Nirvana) Gli dei, gli uomini, i demoni Domina te stesso, dona, dai spazio alla compassione: espressi da “DA”, come sillaba comune da cui si originano le tre parole che indicano i 3 diversi significato (e che è radice del DANA/dono). ORIGINI Gli ARYA (stirpe nordica e lingua indoeuropea) scendono in India e si scontrano con una popolazione locale antica ma in fase di crisi, nata nel 3000 a.C. e detta civiltà “di Harappa” (dalla città principale), urbana, sedentaria e avanzata. Gli scavi – da un secolo a questa parte – non dicono molto, senonché alcuni frammenti dimostrerebbero che questa civiltà avrebbe influito sulla religione indù. Gli ARYA scendono a metà del II millennio a.C., sbaragliano gli Harappa e con ferro e cavalli si impongono in pochissimo tempo. I vinti – detti popolazione “dravidica” – si pensava che non avessero grande cultura, anche se le recenti scoperte paiono sconfessare tale assunto. La discesa degli ARYA porta la società a dividersi tra vincitori e vinti (AN-ARYA), con ripartizione in “caste” dette VARNA (gruppo sociale). I 4 varna principali sono sottoposti a BRAHMANA (brahmani/sacerdoti) caratterizzati dal colore bianco. KSATRIYA sono invece indicati i nobili-guerrieri (colore rosso). Poi ci sono i VAISYA, dediti al commercio, all’allevamento (colore giallo). I vinti (di pelle più scusa) sono invece detti SUDRA (colore nero), sono i non-nobili, i vinti, dediti a lavori manuali e servono le altre categorie nei compiti meno nobili o impuri. Numericamente sono quasi equivalenti ai vincitori. I BRAHMANI sono in cima alla piramide (come i filosofi della Repubblica platonica!) e governano la società. Più si sale verso il vertice della piramide e più vi sono regole per ogni aspetto della vita, mentre nei livelli sociali più bassi c’è povertà ma maggiore libertà. LE FASI DELLA VITA Lo stile di vita prevede un BRAHMACARYA, cioè un periodo che il giovane vive presso il maestro, studiando i testi sacri. Durante questo tempo il giovane vive in perfetta castità e ovviamente nel celibato. Benché assai antica, questa regola sopravvive ancora oggi nel senso che il periodo di castità che un giovane deve vivere viene indicato con lo stesso termine. La seconda fase si chiama GARHASTYA, allorché il ragazzo torna a casa, riceve una seconda abluzione iniziatica che conclude il tempo di formazione, quindi si sposa e comincia il periodo di capofamiglia, in cui deve occuparsi del benessere della famiglia. Il terzo stato è il VANAPRASTHYA o periodo della foresta: una fase di meditazione in cui si “muore al mondo”, preparandosi al MOKSA cioè alla liberazione finale. Si può far corrispondere al periodo in cui si è nonni. Il primo impegno è quello di generare figli maschi. Quindi gli impegni sociali legati al lavoro passano in secondo piano e l’individuo è libero di ritirarsi. Il quarto stato è il SAMNYASA o “completa rinuncia”: in questa ultima fase l’uomo, considerato come un monaco, vive senza la moglie, spesso da solo, in eremi, perseguendo solo il MOKSA, cioè la liberazione, senza neppure studiare i testi sacri ma meditando. TESTI SACRI VEDA: insieme di testi rivelati, uditi nella notte dei tempi, nello spazio del cuore, da alcuni poeti chiamati RSI (“risci”, 7 poeti veggenti). Immersi in una meditazione perdurante, hanno ricevuto questa “parola”. Da essi derivano le 7 famiglie originarie, al cui interno si sono tramandate le audizioni, tramandate poi ai brahmani, che le hanno poi raccolte in collezioni dette SÀMITHA, nuclei originali dei VEDA, composti tra 1500-1250 a.C. dagli ARYA che raggiunsero in quel tempo la parte nord-occidentale dell’India. Il nome deriva dalla lingua impiegata per comporre questi testi (lingua vedica, da cui nascerà in tempi più recenti il sanscrito). Le più antiche sono 4 raccolte di inni, la più vecchia delle quali si chiama RIGVEDA (sapienza espressa in inni sacri), cui segue la SAMAVEDA (sapienza espressa in canti), ATHARVAVEDA (sapienza espressa in testi magici), YAJURVEDA (sapienza espressa in formule liturgiche). Accanto, ci sono raccolte minori: BRAHMANA (le scienze legate al sacrificio), ARANYAKA (libri della foresta, si leggono lasciando la vita delle città) e UPANISAD (a carattere esoterico e filosofica). Tutti insieme costituiscono i VEDA (non hanno composizione umana) e fanno parte della AUDIZIONE (la SRUTI). La composizione risale intorno al XV sec. a.C. Il passaggio resta orale per molto tempo, poiché la memoria orale è fatta per svilupparli da maestro ad allievo. La scrittura viene scelta nel II sec. a.C., in epoca tarda, benché già dal VII sec. a.C. s usi la scrittura, ma per scopi tecnico-giuridici che nulla hanno a che fare con lo scopo di salvaguardare il patrimonio religioso. I primi testi scritti risalgono al re “Nato senza fare del male”, nato indù e convertitosi al buddismo dopo aver condotto una campagna militare sanguinosa e vittoriosa vedendo le numerose vittime della quale scelse di convertirsi emanando editti – incisi in pilastri lungo le vie del suo immenso regno - che invitano alla pace, al vegetarianesimo, alla compassione. Il più antico dei 4 testi di base, cioè il RIGVEDA, è composto da 1028 inni (SUKTA, “ciò che è scritto/composto”), quindi è una raccolta sovrabbondante. Sono inni di lode per le varie divinità, un vero e proprio manuale usato dal brahamano invocatore per esortare gli dei a prendere parte al sacrificio. Il SAMAVEDA (o veda delle “melodie”) raccoglie invece canti costruiti partendo dalle strofe del RIGVEDA. Era usato dal brahamano intonatore che accompagnava con questi canti la preparazione del sacrificio. Non ha particolare rilevanza letteraria ma dalla metrica si po’ ricavare la melodia. Lo YAJURVEDA (o veda delle “formule” – iagiurveda) contiene le formule che il brahamano del sacrificio recitava durante il rituale. Quindi le tre raccolte sono legate tra loro perché hanno valore cultuale (che siano canti o inni o formule liturgiche) e ogni sacerdote si occupa di una parte del rituale. Diviso in 6 sezioni ripartite in YAJURVEDA bianco e nero (dove vengono anche spiegati alcuni versi). L’invocazione costringe gli dei a compiere quando richiesto loro. L’ATHARVAVEDA (o vede delle “magie”) è il più importante, affidato al brahamano che conosce anche tutti gli altri testi, poiché deve intervenire – con giaculatorie e preghiere riparatorie – qualora non vengano rispettate le parole e i gesti in maniera scrupolosissima. Circa 6000 strofe, con magia bianca e magia nera. Tenuto ai margini dell’ufficialità per diverso tempo poiché magico, almeno fino al canone buddista che ancora non lo include (VI sec a C). I 1028 inni del RIGVEDA (veda delle strofe) sono raccolti in 10 libri principali, i primi 7 dei quali appartenevano alle 7 famiglie originarie che udirono i VEDA (ogni famiglia ricevette uno dei 7 libri in audizione). Sono divisi a seconda delle divinità cui si riferiscono. Essendo testi così antichi, vi sono anche divinità poi scomparse, assorbite in quanto a peculiarità e caratteristiche nelle divinità maggiori. Composto tra il 1200 e il 600 a.C., ci parla di una società di allevatori, con diversi re, divisi in tribù. Avevano la funzione di evocare gli dei durante i sacrifici, per garantire felicità (figli maschi e bestiame) a chi aveva invocato gli dei. Sono richieste semplici, tipiche della religiosità primigenia (invoco gli dei per ottenere qualcosa in cambio). Il cuore del RIGVEDA è un inno che racconta la cosmogonia: cielo e terra erano massa indistinta, mancando la luce del sole e dell’aurora che ancora non erano state create, mentre le acqua erano imprigionate da una creatura demoniaca, a forma di serpente (VRITRA), che non voleva che le acque scorressero. La “creazione” è in realtà una liberazione di quanto non era ancora emerso dalla massa indistinta (plasmare + che creare). Nascosto stava pure il dio AGNI (ag-ni / ignis / fuoco) o dio del fuoco. A differenza del malvagio serpente, il buon AGNI esaudiva le preghiere e donava fuoco e calore a chi lo chiedeva (è mitologia, quindi non serve chiedersi “chi lo pregasse”, visto che ancora non esisteva alcunché…). A un certo punto entra in gioco INDRA che vuol creare ordine. Contro di essa si scaglia VRITRA, ma AGNI si unisce a INDRA che possiede armi terribili e bevande inebrianti che le concedono grande forze. La battaglia è terribile, ma alla fine vince INDRA (AGNI tifa per lei ma non entra in campo) e finalmente prevale l’ordine: le cose vanno al loro posto e la terra e il cielo si separano, lasciando spazio affinché transitino sole e aurora, vi sia dunque la luce. Questo è uno dei miti della creazione. Il suo nucleo più antico è nel RIGVEDA, sparso nei diversi inni di questa antica raccolta. Come non conta l’autore del testo, neppure il tempo (tanto è ciclico, non lineare…). Altro inno è quello dedicato a PURUSHA che racconta come il mondo fisico e le diverse caste nascano dallo smembramento della creatura (parti più elevate originano classi più nobili). Il RIGVEDA inizia con un inno ad AGNI che, personificando il fuoco, incarna il sacrificio stesso (spesso compiuto col fuoco) e ricorre dunque in 200 inni. Ma ancor di più (250 circa) sono dedicati a INDRA (il vittorioso che riporta l’ordine, come ARYA che sconfigge gli AN-ARYA) (Lettura di due inni, con diverse cosmogonie) Il RIGVEDA è il libro imprescindibile da cui deve partire ogni altra costruzione, sono chiave di lettura dei testi più recenti e speculativi come le Upanisad. L’ATHARVAVEDA (veda dei testi magici), sono circa 6000 strofe in 20 libri. Contiene magia bianca e nera per cui è entrato tardi nei testi canonici dei VEDA. Entra tardi nel canone forse perché meno “religioso”, poi acquista forza e prestigio in quanto formule “potenti”, che non si limitano a “riparare” agli errori rituali ma evocano le divinità in maniera vincolante e la “costringono” – se correttamente recitata la formula magica – a intervenire concedendo il bene richiesto. La loro potenza rende più autorevole il brahamano che li recita, rispetto agli altri sacerdoti implicati nel rito. La parola che è detta e crea/opera: VAC (“c” di Cina), per cui chi conosce la parola, conosce l’essere, ha potere. Il primo testo è una preghiera/inno per ottenere il potere su tutti i fonemi della lingua sanscrita (7 x 3 = 21) in modo da poter controllare ogni formula magica ed evocazione. Nel rito iniziatico, il ciondolo/amuleto raffigurava tre uccelli ritenuti capaci di riprodurre ogni suono (tra cui il pappagallo). Il giovane mangiava l’amuleto per propiziarsi la capacità di dominare ogni suono, parola, formula. A questi inni si attribuiva poi il potere di allontanare le malattie. Che a loro volta erano considerati demoni e organizzate per gerarchie e vincoli di “parentela” tra loro. Oltre a essere un testo di magia, è considerato il più antico testo di magia. Si cura in modo allopatico (per diversità: il bianco della lebbra si cura con piante scure) od omeopatico (il giallo della scabbia curato con fiori gialli). Ci sono poi maledizioni per proteggere i brahamani, via via più potenti. Il massimo loro privilegio è il possesso della vacca, la cui sacralità è maggiore se appartiene al brahamano. Se non si dà al sacerdote il compenso dovuto – una o più vacche - si hanno sciagure e distruzione. Idem dicasi se si tocca la donna del brahamano. Quando gli ARYA si spostano da ovest verso est, si compongono gli YAJURVEDA. In essi si specchia una società sedentaria, agricola, fondata su piccoli regni e grandi città. Si rafforza il ruolo dei sacerdoti. Contiene le formule liturgiche proprie del sacrificio e si divide in 6 sezioni. La ritmica è l’elemento più importante. Si divide in Y. BIANCO (formule, poesie, sillabe, testi) e Y. NERO (commentari che svelano il significato esoterico delle sillabe, la più potente delle quali è OM). Scompaiono alcune divinità più antiche e si fa strada VìSNU. Il dio che si identifica col sacrificio non è più Agni, bensì Vìsnu. Il sacrificio vincola il dio a compiere e concedere quanto viene chiesto. Infine il SAMAVEDA o veda delle melodie, con finalità puramente rituale, intonato dal sacerdote cantore. 1800 strofe circa, con valore musicale più che letterario. (lettura del secondino che sta per ospitare la divinità…) BRAH’MANA – discussioni sui rituali dei sacerdoti, quindi opera teologica. Esegesi del sacrificio, cioè commenti a tutti i testi dei rituali. Adesso il centro non è il sacerdote ma il sacrificio che esso esegue. Gli dei sono obbligati a concedere quanto il rito richiede (magia). Il rito è causa di tutto, anche del sorgere del sole. Ormai il brahmano è una sorta di dio in terra, tanto che le vacche – che gli erano date prima in omaggio – sono già tutte sue e si tratta di restituirgliele… Il brahmano diventa più potente del re che li ospita a corte. Anche perché si pensa che gli dei non tocchino alcun cibo od offerta se non è sacrificato dal sacerdote. Molto estesi, composti X-VI sec aC, nel nord dell’India (Gange e Jamnà sono i due fiumi sacri dell’India, nella pianura distesa tra i quali nascono tutte le tradizioni del brahmanesimo). Scritti in prosa, la lingua mostra già una modernità che la avvicina al sanscrito. Vi sono miti della creazione in forma narrativa e anche teogonie. Il valore letterario sta nelle etimologie (si spiegano i significati dei nomi mitici). Mentre da una parte ci sono testi religiosi e sacerdotali, dall’altra appaiono anche testi di riflessione personale, una sorta di letteratura narrativa. Compare il principio unico del BRAHMAN – già nel RIGVEDA si parla di un principio unico, ma non lo si nomina. Gli ARANYAKA (libri delle foreste) – si recitano in disparte, in segreto, fuori dai laici, poiché la recita impropria poteva portare grande danno alla comunità. Terzo gruppo di testi che conclude i VEDA (+ 4 samita) sono le UPANISHAD, dalla radice SAD (sedere) + UPA / NI (in basso) cioè “sedere ai piedi del maestro”, come indicazione della posizione che il discepolo assumeva nell’ascoltarli dal maestro. Prosa e poesia, dal VII sec aC fino ai giorni nostri! L’oggetto centrale resta lo spirito, la verità suprema, il senso ultimo del sacrificio che non è tanto ottenere qualcosa di concreto dalla divinità ma svelare il concetto di Dio, il mondo e l’anima. Tornano idee pre-arie (civiltà dravidica) + correnti spirituali della civiltà vincitrice (ARIA). I principi fondamentali delle Upanishad sono 3: dio (BRAHMAN) e l’anima individuale (ATMAN) e il riconoscerne l’identità (come una goccia e il mare). Sono dette anche VEDANTA (parte finale del Veda). 108 sono le Upanishad principali, di cui sono 14 le più antiche. Lettura di una Upanishad (pp. 302…) ADIAJA = lettura (2) - BALLI’ = liana (6) Un padre non offre abbastanza libagioni agli dei e il figlio lo interroga per saperne di più… Ma lo zio lo manda la paese dei morti e poiché la parola crea, ci finisce veramente, per 3 giorni. Gli vengono offerti 3 desideri da un dio: chiede il perdono del padre, la rivelazione di un rito, la spiegazione del senso delle cose (che non viene data…). Rapporto ATMAN-BRAHMAN identificato: coincidono con una frase tantrica assai semplice TAT TVAM ASI (“Questo tu sei”), conclusione di molte upanishad che dicono che ogni cosa, quale che sia, alla fine è BRAHMAN… Il bimbo resta impressionato dalla povertà del sacrificio del padre, chiedendogli: a chi mi vuoi donare? – Al regno dei morti! – E ci va davvero… Finché, dopo tre giorni, rinasce e incontra il dio dei morti che gli offre tre grazie: (1) che il padre, discendente di Gotama, uno dei sette RISI originario, lo perdoni; (2) che gli venga concesso di conoscere il rito (fuoco) che conduce al cielo, cioè all’immortalità; (3) che risolva il dubbio sul destino dopo la morte. La terza questione è troppo difficile e il dio non vuol rispondere, ma il bimbo insiste… E’ un ricercatore della verità. Con ciò che perisce (sacrificio), si acquistano cose eterne. Inizia a farsi strada l’idea di una esperienza aldilà del visibile, l’ATMAN. Il dio gli rivela la sillaba OM, il BRAHMAN, che permette di ottenere qualsiasi cosa. È l’innato, eterno, immortale. Per cui chi uccide e chi muore sono identici. Il saggio riconosce che l’atman è in tutto e quindi non è più toccato da alcunché. Ma l’atman non si può insegnare bensì investe con la sua trascendenza chi vuole. “Peccato” non è inteso in senso morale, ma equivale a ignoranza. Che in sé è già punizione per chi ignora poiché rallenta il ricongiungimento tra brahman e atman. Il saggio guarda dentro (alla ricerca dell’atman) e non fuori di sé. I saggi non ricercano l’eterno nel transitorio, ma individuano nell’atman il principio di conoscenza. Alla morte, esso è TAT (questo). Nulla si cela più di fronte a chi conosce l’atman, nato prima di ogni meditazione profonda che possa pure conferire TAPAS (amplificazione dei poteri umani). Ma riconoscere l’atman porta a identificarlo con il brahman unico ed eterno (come lo zucchero disciolto nell’acqua, o uno dei semi di un melograno). Lo YOGA appartiene all’induismo ma nasce prima. “YUG” = legare la mente per impedirle di soggiogarsi a desideri e materialità, facendola convergere sul solo brahman (che è tutto, ma è dentro di sé, “rientrati gli occhi e la mente nel cuore”). DEVA = spirito luminoso. Oppure A’SURA = ancora più antica, dal persiano. Sur = fiato, respiro. Con una “a” privativa, quindi “senza respiro”, per cui DEVA sono spiriti buoni e celesti, mentre gli A’SURA sono coloro a cui manca il respiro celeste, cioè i demoni. LE 33 DIVINITÀ Le divinità (che sono 8 nei Veda) diventano 12, componendosi i BRAHMANA: VA’RUNA perde posizioni in favore di SURYA dio del sole. 12, quanti i mesi dell’anno. Tra i 12 dei ricompare VISNU, latente nei Veda, ma ritornato centrale e ancora oggi uno delle tre divinità principali (BRAHMA-SIVA-VISNU) Comprendono anche AG-NY (primitivo/giovane) coincide col sacrificio/fuoco/giovane che si rinnova ogni giorno (nella casa del capofamiglia) e da sempre (perché è da un sacrificio che si genera il mondo) +8 sono i VASU, i servitori di Indra, figure divine intermedie. +11 sono i RUDRA, schiere celesti legate a SIVA, non sono vere e proprie divinità. +Indra = dio della tempesta +Praja’pati = signore delle creature, che presiede alla manifestazione del mondo +Cielo +Terra Per un totale di 33 (con 35 se includiamo cielo e terra) DEVA cioè esseri celesti. La stabilità dell’universo è garantita dal sacrificio. L’atto rituale svolto correttamente garantisce che si ottenga quanto richiesto. Ci sono riti SOLENNI (per il sovrano, per i cittadini, nei pleniluni… li fa solo il brahmano) e quelli QUOTIDIANI/DOMESTICI (per avere salute e prosperità; li può compiere ogni maschio capofamiglia). Elemento centrale è il fuoco, la cui accensione è in sé già ritualità, sfregando due legnetti appuntito e concavo (M + F). Il fuoco va acceso su un certo tappeto erboso, adatto alla discesa degli dei che si vogliono chiamare. In epoca vedica esistevano almeno 16 tipi di fuochi e altrettanti i sacerdoti dedicati. 4 erano i sacerdoti principali (quante le SAMITA o raccolte dei Veda). Oltre alla ritualità occorre una purezza della mente svolgendolo, per ottenere l’ARTA (benessere). L’ordine delle cose viene presto a coincidere con SATIA, cioè la verità. La parola (VAC) crea (e il bambino ha un nome segreto perché nulla di male possa essergli fatto) ed è centrale nel rito perché è magica. I versetti della parola sacra si chiamano MANTRA. OM è la più piccola e la più sacra e potente tra le sillabe. È un suono considerato perfetto, forma vocale dell’assoluto (Brahman) ma anche il seme di ogni preghiera (goccia che diventa mare). Solo la sillaba OM è oggetto di meditazione, permette la visione della realtà tutta se viene conosciuta in tutta la sua grandezza. OM = A + U + M (si pronuncia con la lingua all’indietro, contro il palato molle, per dare vibrazione nella testa e nel corpo) A = corrisponde alla veglia, alla terra, al dio BRAHMA’ (da non confondere col BRAHMAN, o assoluto, né coi BRAHMANI/sacerdoti, né coi BRAH’MANA, gruppo di testi dei Veda) che presiede al dischiudimento dell’universo. U = corrisponde allo stato di sogno, allo spazio atmosferico (tra terra e cielo), al dio VI’SNU che presiede l’universo per il tempo necessario. M = corrisponde allo stato di sonno profondo, al cielo, al dio SIVA che distrugge il cosmo. MAHA-VIRA (grande – uomo) diventerà JINA, profeta del JIAINISMO e nasce in questo tempo di crisi dell’induismo. Anche GAUTAMA (Siddharta) darà vita al BUDDHISMO. Sono due principi guerrieri (shatria) indu che vanno in crisi perché non sanno rispondere alla domanda: perché si soffre? Resta indifferente alla crisi la casta brahmanica, perché perpetua riti e non si interroga. - Esame di alcune immagini di divinità MACRO e MICROCOSMO L’analisi introspettiva del cosmo ricerca risposta alla domanda sul dolore, come se si guardasse all’intimo e non più all’esterno, identificando il macrocosmo naturale con il microcosmo interno all’uomo (simile alla magia rinascimentale cfr. Marsilio Ficino), per cui ad esempio il vento si riflette nel respiro umano, il fuoco nella parola (generano e distruggono) … PRANA (respiro) diventa il fondamento stesso della vita, da cui tutto si genera. È un principio potente nel corpo, come l’ATMAN, in grado di vincere la morte (cfr. UPANISHAD). Emerge la dottrina della immortalità dell’anima. Sulla pratica dello YOGA in ambito cattolico, interviene il card. RATZINGER in una intervista del 1999… (…) C'è uno yoga ridotto ad una specie di ginnastica: si offre qualche elemento che può dare un aiuto per il rilassamento del corpo. Bene, se lo yoga è ridotto realmente ad una ginnastica si può anche accettare, nel caso di movimenti che hanno un senso esclusivamente fisico. Ma deve essere realmente ridotto, ripeto, a un puro esercizio di rilassamento fisico, liberato da ogni elemento ideologico. Su questo punto si deve essere molto attenti per non introdurre in una preparazione fisica una determinata visione dell'uomo, del mondo, della relazione tra uomo e Dio. Questa purificazione di un metodo in sé logico di idee incompatibili con la vita cristiana, potrebbe essere paragonata per esempio con la "demitizzazione" delle tradizioni pagane sulla creazione del mondo, realizzata nel primo capitolo della Genesi, dove il sole e la luna, le grandi divinità del mito sono ridotte a "lampade" create da Dio, lampade che riflettono la luce di Dio, e ci fanno immaginare la vera Luce, che è il Creatore della luce. E cosi, anche nel caso dello yoga e delle altre tecniche orientali, sarebbe necessaria una trasformazione e uno spostamento radicale che realmente tolgano di mezzo ogni pretesa ideologica. Nel momento in cui compaiono elementi che pretendono di guidare ad una "mistica", diventano già strumenti che conducono in una direzione sbagliata. (…) Nel momento in cui lo si chiama "yoga cristiano" è già ideologizzato e appare come una religione, e questo non mi piace tanto. Mentre sul piano puramente fisico, ripeto, alcuni elementi potrebbero anche sussistere. Occorre stare molto attenti riguardo al contesto ideologico, che lo rende parte di un potere quasi mistico. Il rischio è che lo yoga diventi un metodo autonomo di "redenzione", priva di un vero incontro tra Dio e la persona umana. E in quel caso, siamo già nel trascendente. E' vero che anche nella preghiera e nella meditazione cristiana la posizione del corpo ha la sua importanza, e sta a significare un atteggiamento interiore, che si esprime anche nella liturgia. Ma nello yoga i movimenti del corpo hanno una diversa implicazione di rapporto con Dio, che non è quella della liturgia cristiana. Occorre la massima prudenza perché dietro questi elementi corporali si nasconde una concezione dell'essere come tale, della relazione tra corpo e anima, tra uomo, mondo e Dio. (L'insegnamento della meditazione trascendentale e dello yoga nelle Chiese Cattoliche e nelle comunità religiose da parte di sacerdoti) mi sembra molto pericoloso perché in questo contesto queste pratiche sono già offerte come un qualcosa, appunto, di religioso. KARMA è il peso delle azioni che ci si porta dietro, compiute nella vita precedente. L’Indu deve compiere le azioni che vincolano meno all’esistenza, fino alla liberazione. Quando nel V sec. a.C. l’induismo entra in crisi si rivedono le tappe intermedie del percorso di reincarnazioni. La via d’uscita all’inizio era il KARMA-MARGA, cioè le azioni sacrificali o buone compiute a tal fine, poi si giunge alla conoscenza che libera (JNANA-MARGA). La memoria della vita precedente non occorre perché l’ATMAN che si reincarna va comunque nella vita che merita in base alla vita fino ad allora condotta. Diciamo che nella reincarnazione non è una persona che si reincarna ma un alito di vita, impersonale. Il BRAHMAN è natura naturante, ma altresì il sostegno dell’eterno e del transitorio (principio di movimento), e infine scintilla che fa esperienza di ciò che muta e ciò che non muta (cioè l’ATMAN). Al principio assoluto ed eterno si affianca un intermediario raggiungibile e “pregabile”, cioè la divinità. È come un patto tra il devoto che chiede la liberazione (MOKSA) alla fine della vita e il dio che si fa garante di concedergliela (sono simili ai nostri santi cui ci si rivolge perché intercedano presso il principio assoluto). Questa divinità/grazia divina può portare alla verità che si rivela a un atman reso puro dallo yoga, libero dall’illusione di vedere le cose per ciò che sono. L’abbandono fiducioso alla divinità si chiama BHAKTI, un termine molto forte nell’induismo contemporaneo. Nelle UPANISHAD era invece un cammino senza intermediari. Adesso invece le divinità si fanno carico del problema delle rinascite… Dio – Anime – Mondo è la triade di elementi. Lettura di un brano di “Nove vite”. Il protagonista lavora nel carcere. La vita è molto dura. Molti sono internati perché fondamentalisti indù o perché comunisti nemici dello stato. Sono detenuti politici. Sono soggetti a tortura e violenze. Per sopravvivere come guardia carceraria, bisogna evitare di pestare i detenuti e non farsi notare, dice ARIDAS. Diversamente si diverrebbe vittime di scontri… Sono divinità part-time, nel senso che per mesi fanno danze sacre, esorcismi su spiriti maligni, intercessori per i devoti, onorati da tutti i fedeli. Per tre mesi all’anno, fino a marzo, sono dei. Poi, deve tornare in prigione, alla vita di sempre. L’area è quella del KERALA, forse il biblico paese di Ofir di cui parla Salomone, ricco di spezie, perle e commerci diversi. A Ebrei e Romani seguono gli Arabi, finché giunge Vasco da Gama. La vita quotidiana è assai semplice ed essenziale, fatta di pratiche secolari e contatto con la natura. Tuttavia è una società conservatrice e repressiva… I sistemi teologici successivi si confronteranno con la triade sopra definita. In questa fase si ha una sorta di cambiamento ontologico del principio divino: inconoscibile e indefinibile (NIRGUNA, senza qualità) si specifica entrando a contatto col mondo, divenendo SAGUNA (dotato di qualità, cioè specificato nelle diverse divinità). Tale trasformazione è attivata dalla potenza (SHAKTI) che specifica/qualifica dio e dall’altra crea il mondo e la vita. Fare l’esperienza della separazione per l’ANIMA è la condizione essenziale per scoprire che in realtà è parte del tutto. E dunque la stessa separazione dal dio originario è illusoria (MAYA), non è mai avvenuta. MAYA è illusione della separazione, per cui il MOKSA o liberazione è riscoprirsi uguale e identico a ciò rispetto a cui ci si sentiva diversi. Intorno al V sec. a.C. si definiscono nuove correnti e figure. Si afferma la necessità di rendere pubblici i contenuti dei VEDA anche per i livelli inferiori della società che, tuttavia, costituiscono la maggioranza della popolazione. La casta brahamanica risponde a questa crisi raccogliendo la rivelazione vedica per quanti fino ad allora non avevano avuto accesso, introducendo nei nuovi testi elementi che fin dall’origine erano rimasti in secondo piano. Questi testi di “massa” sono detti SMRiTI che significa “memoria” o “tradizione religiosa”. I VEDANGA (braccia del Veda) appartengono a questi scritti; così pure i DHARMA SUTRA (aforismi) e DHARMA SASTRA (componimenti più lunghi). Inoltre comprendono anche gli ITIHASA (poemi epico-storici), tra cui ricordiamo il MAHABARATA e il RAMAJANA. A questi si aggiunge l’HARIVASNA. E anche i PURANA (forma letteraria più godibile, in orizzonte narrativo, pensati per le caste sociali più basse e le donne). Ci sono poi la MANUSMRiTI – leggi di Manu, compresi nei DHARMA SASTRA. Manu è un patriarca universale. Pesca un pesce che gli chiede di lasciarlo in cambio della promessa di salvarlo un futuro. Passano i secoli, finché giunge il diluvio, costruisce una grande arca, caricandovi (secondo alcuni) gli animali, e il pesce salvato, tornato a riva, aggancia l’arca con la coda e la porta in salvo (simile al mito di Marcandaya, in cui il pesce è Visnu!). Raccoglie diversi miti e versioni diverse. La Manusmriti si apre con un mito fondativo che racconta l’origine del tutto (il mito dell’uovo e di Visnu) … ITIHASA, “così fu veramente”. Questi testi servono per divulgare il VEDA ma hanno come fine ultimo di guidare verso la liberazione, soprattutto il MAHABARATA. Sono poemi epici, non raccontano fatti storici ma la “storia” fondativa che aiuta a penetrare il mistero della vita. Pur sapendo che sono opere umane, come autori vengono indicate figure mitiche. Alle quali vengono attribuite opere di una mole tale da poter difficilmente essere redatte nel corso di una sola vita umana. Il MAHABHARATA è più recente del RAMAJANA. È l’opera più importante dell’India brahamanica. Se ne trovano contenuti e richiami in ogni opera, scritto e forma culturale. Tutto ciò che esiste è contenuto nel M e ciò che lì non si trova, significa che non c’è. Tratta del DHARMA, ARTHA, KAMA, MOKSA, cioè i 4 principali obiettivi. Se ne fece persino versione cinematografica e cartoon. Composto di libri, ha una struttura assai complessa, con numerose digressioni che contengono veri e propri libri (compreso lo stesso MARANAJA). Prima si presenta il riassunto del tema, poi si raccontano in forma più ampia, con digressioni narrative e teologiche. Composto di 18 libri detti PARVAN, suddivisi a loro volta in 100 libri minori. Ci sono due versioni: del Nord (XVI sec, oltre 80.000 strofe) e del Sud (contemporanea, di 95.000 strofe). Attraversa tre fasi scrittura e di ampliamenti successivi: - il nucleo (Jaya, la vittoria) - il poema dei Bharata (famiglia progenitrice dell’India) - Mahabharata (grande epopea dei Bharata). Il nucleo risale al IX sec. a.C., mentre la parte più recente risale al V sec. a.C / V sec. d.C. 18 libri + Harivamsa (il libro più recente, che racconta la vita di Krishna, discesa terrena di Visnu). Quest’ultimo si avvicina più ai Purana, come grande narrazione. Racconta molte informazioni su Krishna che mancavano negli altri testi. Più che la cronologia, contano i contenuti principali. Il Mahabharata racconta di una crisi che sta colpendo il dharma. Accadono cose non buone: il re è albino (Pandu, “il pallido”) e un giorno, a caccia, per errore uccide un asceta che si trova sotto le mentite spoglie di gazzella, mentre stava unendosi a un’altra gazzella, e lo maledice: se toccherai una donna, fosse anche la moglie, morirà. Si ritira nella foresta con le due mogli. Il fratello, cieco, diviene re al suo posto. E si fa consigliare dalla moglie o dal maestro di corte. O dai figli. Ma qui è il problema: il re albino non può avere figli. Ma la sua prima sposa aveva ospitato da giovane un asceta che in cambio le aveva consegnato un mantra potente che avrebbe evocato infallibilmente una divinità che si sarebbe unito a lei generando un figlio. Questa lo recita, si unisce al sole, partorisce un figlio abbandonato sulle acque (Mosé!) e ritorna vergine. Questo giovane cresce come guerriero con una famiglia adottiva. La moglie gli dice così che può invocare una divinità. Nascono così tre fratelli da Dharma. Ripetendo il mantra per la seconda moglie, nascono altri due gemelli. Sono così 5 fratelli che ambiscono al trono. Intanto il re cieco è promesso a una regina del nord che però ignora che il marito sia cieco. A questo punto si benda anche lei per non aver nulla più di lui e si uniscono e rimane incinta di una palla di ferro/carne che non vuol saperne di nascere, finché esce dal suo ventre… Un saggio le dice che se la colpisce nasceranno 100 figli. E così avviene. Gli avvolti ululano e altri simboli mortiferi si susseguono… Si aprono così le due polarità di buoni e cattivi. Tutto il M è l’epopea dei due gruppi che si affrontano, finché il primo figlio del re albino potrà tornare sul trono. Un giorno si presenta il figlio di un carrettiere che sfida il più bravo dei diversi fratelli e cugini. Si scopre che è il figlio lasciato nel fiume dalla moglie del re albino. Ma non svelerà mai la sua identità. Ci saranno scontri e colpi di scena… Finché i 5 vinceranno. Il RAMAJANA è più vecchio, più contenuto e più interessato al buon comportamento in terra che non al MOKSA. Si colloca in un’epoca remota, prima di ogni evento umano. Mentre il M racconta del tempo appena prima dell’era umana, quando tutto va come non deve. Composto tra il IV sec a.C. e il II sec. d.C., è in questo periodo che la devozione a Visnu è all’apice della sua importanza, soprattutto sotto forma della discesa terrena di RAMA. Porta con sé idee arcaiche, quasi vediche, poiché manca ancora la liberazione (MOKSA). Si racconta che i tre mondi erano tormentati da un feroce demone, feroce e potente. Quasi invincibile per una meditazione di circa 100 anni. Per liberarsene i devoti chiedono a VISNU di scendere sulla terra, nella forma di RAMA. Giovane principe destinato a diventare re, ma il padre sposa una seconda moglie cui promette che suo figlio sarà re, così Rama sceglie di andare in esilio per non ostacolare il padre. Nel bosco con la moglie vive di caccia e meditazione. Un giorno insegue un daino su e giù per le valli. La moglie accoglie un mendicante, che in realtà è il demone RAVANA che la rapisce e la porta su un’isola. Quando Rama scopre di esser caduto in una trappola, si adopera per salvare la sposa. Finché raggiunge il popolo delle scimmie il cui re gli svela la verità e lo conduce sul suo carro all’isola dove la sposa è rapita. Ucciso il demone, la moglie è liberata. Torna nella sua città per diventare re, poiché ormai il demone è stato sconfitto e anche il secondogenito non avanzerebbe pretese contrastanti. Ma Rama chiede alla moglie SITA di non entrare perché è stata con un uomo (il demone). Per mostrare la sua innocenza, si getta tra le fiamme ma non brucia per la sua profonda purezza (che Rama conosceva e voleva mostrare ai sudditi). Dall’ingresso trionfale dei due in città tra mille luci accese nasce una festa “delle luci” ormai anche di tradizione italiana. La BHAGAVAD-GITTA (il canto del glorioso signore) racconta quando la guerra sta per avere inizio e ARGIUNA – il secondo dei 5 fratelli – non vuol scagliare la freccia. Risale al II sec a.C., ma la forma che conosciamo risale al VII sec. d.C. Composta da 18 canti (piccola) e racconta di ciò che avviene tra un guerriero (Argiuna) e il suo auriga Khrisna, discesa terrena di Visnu. Prima che la battaglia sia inevitabile, Khrisna dorme e al suo capezzale giungono Argiuna e il primo dei 100 fratelli. Il primo che sarà visto da Khrisna potrà interrogarlo. Argiuna si mette ai suoi piedi per umiltà, il primo dei 100 fratelli dove la testa per esser visto da primo. Svegliandosi, vede per primo Argiuna, che sceglie di avere Khrisna con sé, benché non combattente, mentre il primo dei cento fratelli sceglie di avere le sue schiere determinate a combattere. Ma a un certo punto Argiuna esita a scagliare la freccia… Due verità: 1. Dopo la morte l’ATMAN sopravvive al corpo 2. L’uomo non deve astenersi dal compiere le azioni prescritte, ma deve farlo come se fosse un atto sacro da deporre ai piedi del signore, quindi abbandonando ogni desiderio, con piena libertà dall’esito. Si agisce per il bene del mondo e non per il proprio. Quest’ultimo è l’insegnamento dello YOGA: agendo in modo equanime, si vedono alla stessa maniera l’amico e il nemico, una montagna di pietre e una montagna d’oro. Chi ha questa virtù è lo YUKTA o “perfettamente raccolto” (radice YUG, da cui YOGA). Khrisna parla dello Yoga del vero o della conoscenza: JNANA-YOGA. Illuminati da questa luce che svela il vero, si producono azioni che non hanno peso, non ci incatenano alle rinascite, si percorre una via di purificazione. Nell’abbandonarsi alla divinità (intermedia) si fa quello che aiuta la propria liberazione e al tempo stesso si osserva il BRAHMAN (principio divino assoluto, superiore alle divinità intermedie). L’innovazione di questo poema è che invece di usare il sanscrito si utilizzano diversi dialetti locali. Sono due le correnti di devozione cui fanno riferimento i diversi poeti: - La scuola SAGUNA (“con qualità”), con divinità dalle caratteristiche precise. Le principali sono KHRISNA e RAMA. Si tratta di opere del XV sec. d.C., periodo in cui si riscrive il Ramajana. Di Khrisna si descrive l’infanzia, quando gioca come i bambini, rappresentato col flauto per incantare le pastorelle del villaggi vicini, tra la quali la sua sposa RADA. In alcune opere si descrive la finta gelosia che RADA prova quando KHRISNA balla con le altre pastorelle. Fuggita a palazzo, lo sposo la raggiunge ma lei non lo fa entrare. Allora si traveste da vecchina chi gli dice che non dorme più, non parla più, non mangia più… e qui RADA dice di volerlo perdonare, al che KHRISNA si rivela per ciò che è e i due si riconciliano. MIRABAI è una mistica indiana del XVI sec. d.C. che spicca in questa scuola. - La scuola NIRGUNA (“senza qualità”, cioè non definibile), con un dio assoluto. I poeti sono detti SANT e uno dei più importanti (XV-XVI sec.) è KHABIR. IL MAHABHARATA CINEMATOGRAFICO DI PETER BROOK (di Carola Benedetto) I – Peter Brook Nato a Londra nel 1925 da famiglia ebrea di origine russa (di cognome originario Bryk), durante l’infanzia si accosta a cinema e teatro: dallo spettacolo per bambini cui assiste un pomeriggio a Londra, che gli ispira il desiderio ricorrente di fuggire dalla realtà, fino ai primi tentativi cinematografici compiuti durante l’università, cresce in lui la consapevolezza di voler diventare regista cinematografico. Ma gli esordi obbligati sono nel teatro, cominciando dal quale Brook teorizza prima la necessità di separare rigorosamente pubblico e attori, per arrivare poi alla convinzione che uno spazio condiviso permetta un’esperienza decisamente più forte. Ancor giovane, si sposa con Natasha, una timida artista. Ingaggiato come regista stabile alla Royal Opera House di Londra, per le scenografie non si avvale dei fondali dipinti ma preferisce strutture tridimensionali e realistiche. È in questo periodo teatrale che sente forte l’esigenza di far confluire scienza, arte e religione in un’unica esperienza osservabile e comprensibile, superando ogni rigida separazione. Entrato in contatto con Bertold Brecht, assunta l’etichetta di “regista classico” per i lavori su Shakespeare, decide che è venuta l’ora di partire alla ricerca del sacro. Si reca dunque in Afghanistan con Natasha e due amici: un viaggio che fa nascere in Brook l’esigenza di non separare più il lavoro dalla crescita spirituale, facendo coincidere esperienza umana e creativa. Approfondisce il concetto di “ritmo”, esalta la povertà scenica. Durante la guerra in Vietnam, decide di allestire US (noi) ad essa dedicato. Dedicatosi allo studio del teatro popolare vietnamita, per entrare nel cuore della cultura locale, riceve numerosi stimoli ad approfondire le culture arcaiche. In modo particolare, un ragazzo gli dona uno scritto dedicato alla Bhagavad-gita, che gli pone dinanzi agli occhi la scena decisiva di una guerra, in cui il combattente ARJUNA che sta per dare inizio al conflitto si chiede: perché dobbiamo combattere? Dalla guerra vietnamita Brook si trova così trasportato nel cuore del Mahabharata (in cui si narra anche la Bhagavad-gita). Frattanto Brook lavora a “Sogno di una notte di mezza estate” e permette ad alcuni bambini di assistere alle prove per saggiarne le reazioni: da qui, l’idea che lo spettatore sia un elemento prezioso della chimica del processo teatrale. Fonda il “Centro internazionale di ricerca teatrale”, venti attori e attrici di lingua, etnia, religione e cultura diversa, cui presto si unisce anche lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière. Intraprendono diversi viaggi: in Africa (dove apprendono che visibile e invisibile sono due modi di intendere la stessa realtà), tra gli indiani d’America, in Iran (dove vengono in contatto con il teatro d’improvvisazione) … ovunque gli attori improvvisano spettacoli su un tappeto srotolato dinanzi a un pubblico occasionale, per verificare, dal vivo, se sia possibile comunicare tra genti di parti del mondo molto diverse. Il gruppo è ormai pronto per affrontare il Mahabharata (Ma.) e partono per l’India. Per dieci anni Carrière studia, scrive e rimaneggia il Ma. Dal suo lavoro nascono due versioni teatrali: una francese e una inglese, della durata di 9 ore (senza intervalli), cui seguono una versione televisiva (6 ore) e una cinematografica (3 ore). Una volta terminato questo colossale lavoro, Brook sente il bisogno di abbandonare radicalmente il mito e i soggetti storici. II – Il contenuto del Mahabharata Il Ma. è il più grande poema epico mai concepito. Insieme al RAMAYANA è uno dei due grandi ITIHASA (“è proprio così”) cioè narrazioni che includono insegnamenti sul TRIVARGA, cioè i tre fini dell’uomo – DHARMA, ARTHA, KAMA – che conducono al fine ultimo, il MOKSA. Questi 3+1 fini sono richiamati all’inizio e alla fine del poema. Il nucleo originario risale al IX sec aC, ma assume la forma attuale nel V sec dC, attraversando tre stadi di composizione. Il Ma. consta di 18 parvan (libri) cui è aggiunta un’appendice (una delle fonti principali per la vita di Visnu-Krisna). La lettura del Ma. ha il potere religioso della purificazione del devoto. La storia. Si racconta una storia udita in origine dal saggio VYASA. L’opera è detta MAHA (grande) BHARATA perché, posta sulla bilancia, sarebbe stata più pesante dei 4 VEDA raccolti insieme. Satyavati – nata prodigiosamente in un pesce – dà al re Parasara un figlio, VYASA, rimanendo poi vergine. In seguito ella fa innamorare il re Santanu, ultimo membro della stirpe lunare, che aveva già avuto dalla dea Ganga un figlio di nome Devavrata. Satyavati gli promette un figlio purché questi possa ascendere al trono al posto del legittimo Devavrata che accetta di sacrificarsi per la felicità paterna, rinunciando al trono e alla discendenza tramite un “terribile” voto di castità che gli muta nome in BHISMA (terribile, appunto). Dall’unione di Satyavati e Santanu nascono due figli deboli, cui Bhisma procura, vincendole in un torneo, tre spose. Di queste AMBA, già promessa sposa, gli chiede e ottiene la libertà, per essere però rifiutata dal promesso sposo (che crede non sia più vergine). Amba torna quindi da Bhisma che però, a sua volta, la rifiuta. Giura quindi di vendicarsi e, gettatasi nel fuoco, rinasce e diventa poi SIKHANDIN, guerriero nato donna che darà la morte a Bhisma. Morti i due figli di Santanu ed essendo Bhisma legato a voto di castità, per avere un erede si deve ricorrere al primo figlio di Satyavati, cioè lo stesso Vyasa. Il vecchio saggio genera terrore nelle due donne (2 delle 3 spose vinte al torneo da Bhisma) cui si unisce: una si copre gli occhi e mette al mondo un figlio cieco, DHIRTARASTRA, mentre l’altra impallidisce dalla paura e genera un albino, PANDU. Poiché Satyavati desidera un ulteriore erede, una delle spose si fa sostituire da una ancella che si unisce a Vyasa generando VIDURA, parziale incarnazione di Dharma, dio della giustizia. Dhirtarastra sposa la principessa Gandhari che, per rispetto della sua cecità, decide di bendarsi gli occhi per sempre. Dalla loro unione nascono, in un solo parto, cento figli – i KAURAVA – capeggiati da DURYODHANA. Pandu, ottenuto il regno dal fratello cieco, sposa KUNTI che, da giovane, ha ottenuto un mantra capace di farle generare figli da dèi: infatti aveva avuto da SURYA, dio del sole, un figlio di nome KARNA, che aveva affidato al fiume e che era stato raccolto e allevato dall’auriga di Dhirtarastra. Pandu prende intanto MADRI come seconda moglie. Ucciso un cervo a caccia, questi si rivela in realtà un asceta che lo maledice: se si fosse unito a una donna, sarebbe morto. Il re Pandu decide dunque di ritirarsi nella foresta, seguito dalle due mogli. Kunti gli propone di ricorrere al mantra segreto per avere figli senza correre il rischio di morire. Da Kunti nascono dunque YUDHISTHIRA, ARJUNA e BHIMA, mentre da Madri nascono i gemelli NAKULA e SAHADEVA. Questi 5 figli, noti come PANDAVA hanno dunque come padri gli dei. Pandu, vinto dal desiderio, si accosta a Madri e muore. La donna lo segue sulla pira funebre e Kunti decide così di dedicarsi a tutti e 5 i figli, trasferendosi dove vivono i Kaurava. I due gruppi di cugini crescono educati insieme dal maestro d’armi DRONA, ma sono ostili tra loro. All’inquieto Duryodhana si oppone l’eccellente guerriero Arjuna, che ha un posto speciale nel cuore di Drona. Intanto alla corte giunge Karna che, ignorando di essere fratello dei Pandava, si lega a Duryodhana e ai Kaurava. Arjuna ottiene in premio a un torneo una sposa, DRAUPADI, e informandone la madre questa gli dice, senza ascoltarlo, di dividere il premio coi fratelli, così la donna diventa moglie dei 5 Pandava, con voto di tutti di non violare l’intimità di un fratello con la sposa comune. Arjuna, involontariamente, infrange questa regola e va in esilio per 12 anni. Mentre Yudhistira sta costruendo un palazzo per sé quale monarca universale, Duryodhana, invidioso, lo sfida a una partita a dadi dove, tramite lo zio SAKUNI che è un abile baro, vengono sottratti tutti i beni a Yudhisthira, persino se stesso e la moglie. La quale non accetta di esser stata persa dopo che il marito ha perso se stesso. Nonostante questo i vincitori vorrebbero abusare di lei, spogliandola, ma affindandosi nella preghiera a Krisna, ottiene miracolosamente che le sue vesti continuino a crescere man mano che vengono strappate (potere della Bhakti). Colpito dal prodigio, Dhirtarastra concede la libertà alla sposa e ai 5 mariti. Mentre stanno per partire, i Kaurava persuadono Dhirtirastra a chiedere una nuova partita a dadi che Yudhisthira accetta, perdendo nuovamente, vedendosi così costretto all’esilio per 12 anni + 1 in incognito. In esilio, Draupadi insiste per vendicarsi, mentre Yudhistira preferisce rispettare il dharma e la parola data ai cugini. Ottenuta da Siva la terribile arma PASUPATA, Arjuna rifiuta la seduzione di una ninfa che lo maledice e condanna a vivere da eunuco il 13mo anno dell’esilio. Durante l’esilio ha pure luogo la prova presso un lago dalle acque magiche: caduti esanimi i fratelli minori, è il maggiore, Yudhistira, a salvarli rispondendo esattamente a domande di una voce che si rivela poi essere quella del padre, il dio DHARMA. Passati i 12 anni di esilio, i 5 Pandava vivono il 13mo in incognito. Quindi si apprestano a riconquistare il regno. Arjuna e Duryodhana si recano da Krisna per chiedere aiuto. Arjuna si pone ai suoi piedi, D. dove la testa ma Krisna svegliandosi si solleva e vede prima Arjuna, cui spetta la scelta: opta per Krisna al suo fianco in battaglia, lasciando a D. le schiere di Krisna. Yudhistira manda quindi un messaggero a Dhirtarastra, richiedendo il regno, almeno su 5 villaggi, ma Duryodhana rifiuta ogni mediazione e vuole la guerra. Intanto Krisna e Kunti svelano a Karna la sua vera origine (è fratello dei Pandava) ma egli non smette di odiare il rivale Arjuna. Ha così inizio la guerra e Bhisma decide che non lotterà contro Sikhandin, sapendo che nella vita precedente era stato Amba, la donna da lui respinta. Colpito dalle frecce di Sikhandin e di Arjuna, Bhisma cade a terra. Prima di morire, si radunano attorno a lui eroi e dei per ascoltarne gli ultimi insegnamenti. Chiede ancora a Duryodhana di desistere dalla guerra, ma invano. Al suo posto, Drona guida i Kaurava nella guerra. Ma viene ucciso anche GHATOTKACA, figlio di Bhima, annientato dalla terribile arma che Karna avrebbe voluto riservare per Arjuna. Infine, i Pandava uccido Drona. A cui succede lo stesso Karna, il cui carro di guerra affonda nel fango, permettendo ad Arjuna di ucciderlo. Bhima uccide Duryodhana con un colpo proibito sferrato alla coscia e la cosa suscita la reazione dei Kaurava che, in una spedizione punitiva, uccidono tutti i nemici tranne i cinque fratelli. La guerra è dunque finita. Dhirtarastra si rinconcilia con i Pandava, mentre la moglie Gandhari, visti i propri figli morti, maledice Krisna e lo condanna a morire 36 anni dopo. Al che Krisna replica che ciò è giusto, benché una scintilla di luce si sia salvata, cioè PARIKSIT, nipote di Arjuna, salvato da Krisna quando era ancora embrione (è lui il ragazzo che segue Vyasa nel racconto). Mentre Bhisma sta morendo, impartisce un ultimo insegnamento sulla morte al re Yudhistira. Dopo due anni, il re cieco Dhirtarastra, la moglie Gandhari e Kunti, moglie di Pandu, ritiratisi nella foresta, muoiono. Trascorsi 36 anni, Krisna viene colpito al calcagno da una freccia e muore. Indebolito dalla sua scomparsa, anche Arjuna sente che la fine è vicina. Yudhistira abdica in favore di Pariksit e rinuncia al mondo, per poi varcare la soglia del paradiso insieme a un cane che si rivela essere suo padre Dharma. Chiesto di vedere i suoi fratelli, scopre che son in un inferno. Sceglie di stare con loro e l’inferno si dissolve, rivelandosi un paradiso. L’appendice (HARIVAMSA-PARVAN) narra le vicende di Krisna ed elogia il potere religioso dell’ascolto del Ma. III – Personaggi letterari e cinematografici VYASA – celebre risi, autore del Ma., non è narratore diretto del poema ma ne diviene presto protagonsita. Per Brook è invece anche narratore, terreno e affidabile, sciamano e onnisciente. Fa parte del triangolo narrativo Vyasa, bambino, Ganesa. Il RAGAZZO – non esiste nel Ma., ma permette a Brook di avere un interlocutore di Vyasa e di Ganesa, per rilevare che l’autore del poema non è uno solo. Permette al pubblico occidentale di identificarsi. GANESA – il dio dalla testa elefantina, figlio di Siva e Parvati, è incaricato di trascrivere il poema. Per Brook, ha la maschera di elefante (che abbiamo visto nella scena iniziale appesa al muro del teatro) in testa, per umanizzare il divino e renderlo più vicino agli spettatori, simpatico e buffo. KRISNA – ottavo Avatara di Visnu, deve portare al compimento la guerra fratricida descritta nel Ma. Auriga di Arjuna, si divide tra accecanti ierofanie e presenze umanizzate in guerra. Per Brook quando Ganesa si sfila la maschera, ecco Krisna, che è “tutti gli esseri, ma io non sono in essi”. Ha il compito di aiutare l’umanità ad attraversare l’età della crisi. PANDU – nato albino, maledetto da un asceta che ha ucciso sotto le sembianze di cervo, morirà se si accosterà a una donna, per cui ricorre agli dei per avere i (5) figli. KUNTI – madre biologica di 3 Pandava, li cresce poi tutti e 5. È anche madre di Karna, avuto in gioventù dal dio del sole Surya. Devota e compassionavole. MADRI – seconda moglie del re albino, genera col mantra di Kunti due figli gemelli Pandava. Unitasi al marito, che muore, lo segue sulla pira funebre. YUDHISTIRA – primogenito di Pandu, figlio di Kunti e del dio Dharma. Caritatevole e pio, modera la passione di Bhima, ma è lacerato tra l’essere un re eccellente o un asceta. Nel 13mo anno di esilio trova una sintesi felice vivendo sotto le sembianze di brahmano. Per Brook rispetta sopra tutto il dharma (vedi seconda partita a dadi, egualmente persa). BHIMA – secondo dei figli Pandava, fortissimo, veloce come il vento, suscettibile e dolce al tempo stesso, non vorrebbe vivere un esilio da mendicante (proprio dei brahmani più che degli ksatriya). ARJUNA – guerriero perfetto, ksatriya ideale, vive l’equilibrio tra il dharma e la forza (l’arma eccezionale che usa). Per Brook la scelta di diventare eunuco significa riconoscere la doppia natura che porta in sè. NAKULA e SAHADEVA – i gemelli Pandava, belli ma non adatti alla guerra, sono vaisya che onorano i fratelli guerrieri. DRAUPADI – in lei si ritrova Laksmi, consorte di Visnu. Ha chiesto 5 volte uno sposo a Siva e quindi diventa moglie di 5 mariti insieme. Emblema del potere della Bahkti (devozione agli dei). Brook sceglie Mallika Sarabhai per interpretarla: ballerina professionista, prossima a diventare madre, accetta l’incarico e fa un provino a Parigi alle 3 del mattino! Per due anni si dimentica di ballare, ma accetta il sacrificio perché conosce l’induismo in modo profondo e bibliografico. Resta in tensione con Brook che riconosce un genio del cinema ma umanamente povero. Ma artisticamente gli è debitrice. HIDIMBA – demonessa che si innamora di Bhima, che era la sua preda. DHIRTARASTRA – nato cieco, re al posto di Pandu quando questo si ritira nella foresta, subisce la violenza dei cento figli ma alla fine non evita loro una guerra che sa perderanno. Alla fine resterà al fianco del re Yudhisthira. GANDHARI – data in moglie al re cieco, sceglie di bendarsi gli occhi per sempre, con grande devozione verso il marito. DURYODHANA – ero negativo, incarnazione di una parte del maligno KALI, prigioniero del desiderio di guerra e distruzione, non rispetta neppure Krisna (si siede dove la sua testa, mentre dorme, a differenza di Arjuna che siede ai piedi del dio). KARNA – figlio della giovane Kunti, fratello dei Pandava, si allea con Duryodhana. Saputa la sua identità, non si riconcilia con Arjuna che, alla fine, lo uccide mentre il suo carro si è bloccato nel fango. DRONA – maestro dei Kaurava, si lega però ai Pandava. È sia ksatriya che brahmano. Brook sceglie il giapponese Yoshi Oida per interpretarlo. BHISMA – “terribile” come il voto che ha fatto di restare casto, grande guerriero, accetta di guidare i Kaurava, ma si lascia uccidere da Sikhandin (che era Amba, la donna rifiutata in una sua precedente vita). AMBA - donna rifiutata dal promesso sposo e poi da Bhisma, che l’ha vinta, gli giura vendetta eterna. Si getta nel fuoco e rinasce come mezzo uomo e mezza donna, per poi diventare guerriero. Per Brook è una figura romantica, che vorrebbe essere amata. L’amore non si dissolve interamente nell’odio. IV – Approccio alla cultura indiana Jean Claude Carrière, sceneggiatore cinematografico e televisivo, nel 1975 scopre il Ma. e per sei mesi lo studia, elaborandone una prima bozza per la messa in scena. Lavora alla versione francese, mentre Brook cura quella inglese. Entrambi fanno diversi viaggi in India. Nel momento decisivo della battaglia, non sentiamo cosa Krisna dica ad Arjuna per fargli scoccare la freccia dcisiva… Cura molto il linguaggio, evitando parole occidentali come peccato, incarnazione, anima. Tra il 1982 e il 1984 stende il testo teatrale, pronto per la prima ad Avignone nel 1985. Peter Brook sente parlare del Ma. la prima volta negli anni ’60 quando sta lavorando ad US, sulla guerra nel Vietnam. Nel 1975, insieme a Carrière, ascolta il poema. Va quindi in India, nel 1981 e 1982, e assiste ad alcune rappresentazioni teatrali locali. Sceglie 16 attori di 16 nazionalità diverse. Anche la musica sarà indiana ma non al 100% (grazie al compositore giapponese Toshi Tsuchitori). Le sue tecniche di prova sono segrete, perché mantiene riserbo e così chiede di fare agli autori, ma si sa che ogni prova è come una prima, con grande lavoro di dialoghi e di training fisico. Finalmente, nel 1985 tutta la compagnia va in India… Nel luglio 1985 va in scena ad Avignone in francese, poi nel 1986 Brook lo traduce in inglese e debutta a Zurigo nel 1987. Nel 1989 si gira la versione televisiva. Le scene iniziali dicono velatamente allo spettatore di non credere a tutto (dal teatro con estintore e maschera di elefante si passa alla storia mitica…). Tende e teli separano piani di realtà e permettono di accostarsi a ciò che non è esprimibile (i figli anti appaiono già adulti dietro a una tenda. Il fuoco è un elemento ricorrente del film, come se l’opera fosse un cibo da cuocere per essere offerto agli dei. Quello che Krisna dice ad Arjuna è che deve agire, poiché quello che conta non è agire ma essere distaccati da ogni esito. La guerra che sta per cominciare permetterà al Brahman di tornare a pervadere la realtà. Conta solo l’atman, che resiste a tutto ciò che passa, e la bhakti. In conclusione, il MA. è ciò che permette a Brook di superare ogni opposizione tra scienza e spirito, tra arte e matematica. Il suo Ma. lascia spazio alla psicologia dei personaggi, che non sono semplici strumenti del dharma. Appendice – intervista a Mallika Sarabhai (Draupadi) e Sotigui Kouyaté (Bhisma). Carrière: mettere un piede nel Ma. significa non poterne più uscire. Ma perché bisognerebbe farlo? LE 4 ERE COSMICHE (YUGA) Le 4 ere cosmiche insieme formano un “MAHAYUGA” (grande era), mille dei quali formano un KALPA (una età del mondo), che corrisponde a un giorno di BRAHMA. Questo dice quanto ampia sia la vita divina… I nomi delle ere derivano dai colpi del gioco dei dadi: 1) la perfetta è la KRITA-YUGA, in cui tutto va come deve (una sorta di età dell’oro); il toro del DHARMA posa su tutte e quattro le zampe, è ben saldo. Dura 4820 anni divini. 2) La seconda è la TRETA-YUGA, in cui il toro poggia su 3 zampi, gli Shatri dominano sui brahamani, compare accidentalmente la violenza (mentre cammino pesto una formica, accidentalmente…); il sacrificio è la via per la liberazione; gli uomini vivono circa mille anni. 3) La DVAVARA-YUGA è la terza era; più rara è la pratica della virtù, infatti il toro poggia su 2 zampe. Emerge il TAMAS, cioè la qualità oscura e pesante. Visnu si incarna in VIASA, autore del MAHABHARATA; viene diviso il VEDA. Gli uomini vivono solo più 400 anni. Alla fine di questa era Visnu scende sulla era con la figura di Khrisna. 4) Inizia così la quarta era: KALI-YUGA. Il toro barcolla su una zampa. All’ordine segue il caos, le cose vanno al contrario. Ma basta avere una vera devozione e cantare a Khrisna per essere salvato. Quando sta per finire, Visnu compie una seconda discesa terrena (come KALKIN), riporta il DHARMA, tutto si distrugge e ricomincia la prima era… I poemi storici illustrano le divinità principali del tempo di composizione, ma altresì i principi emergenti nell’induismo che segnano la sua trasformazioni. Prendono piede alcune “visioni della realtà” (vie) che intorno al V sec. d.C. si strutturano in veri e propri sistemi filosofici, divenendo il fondamento dell’induismo contemporaneo. Al centro di questi sistemi, c’è colui che desidera il moksa (mumuksa = colui che vuole il moksa): sono dunque pensieri che aiutano a raggiungere il moksa, cioè a uscire dal ciclo delle rinascite. Il primo di questi sentieri è il VAIS’ESIKA-DARS’ANA, un sentiero che indica il metodo per indagare la realtà con logica e sillogismo. La seconda visione è il SAMKHYA-DARS’ANA che studia i principi della realtà in base a un dualismo: la natura (come elemento fondante) e la molteplicità delle anime (entità spirituali). Due sono le sostanze eterne: la natura (unica, complessa, attiva) che tutto produce senza esser stata prodotta; le anime (infinite, semplici, intelligenti). Nelle anime sono presenti le tre qualità o GUNA, ma l’equilibrio al suo interno a un certo punto si rompe. I tre guna sono SATVA (qualità leggera, luminosa, pura), RAJAS (virtù intermedia, mobile, inafferrabile), TAMAS (virtù oscura e pesante). I tre guna sono in equilibrio, finché l’anima (principio spirituale) viene attivato dalla natura che ammalia il corpo sottile e lo coinvolge in processi psichici fino a ritenersi responsabile di una attività che gli è estranea. Così l’anima crede di esser parte della natura. Anima e corpo sottile che lo avvolge (illusione di vita) si uniscono generando il corpo vivente che entra in pieno nel mondo. L’uomo deve far sì che il proprio principio spirituale ricordi la sua alterità rispetto al mondo psichico, tornando così libero, come prima di essere ammaliato. La prima idea che si genera dopo il corpo è quella di IO. Dall’io si genera la MENTE che poi attiva i 5 SENSI… Si determina sempre più una individualità che si separa dall’indeterminato originario. È la fase in cui prevale il SATVA. Quando prevale la qualità intermedia, si producono gli organi corporei necessari per le azioni fisiche (mani, piedi, genitali…), quindi si generano gli OGGETTI percepiti esternamente (ma è tutto illusorio, MAYA). Si creano anche gli elementi (terra, acqua, aria, fuoco + etere). Tutto il processo consta di 24+1 tappe. Tutto questo annebbia e invischia l’uomo che ignora la realtà delle cose e se ne libera solo quando la psiche si riconosce come parte della natura e lo spirito ricorda la propria alterità e indipendenza. La metafora usata dagli indiani per spiegare tutto questo è quella dello spettatore e della ballerina: la ballerina danza per lo spettatore, ne attira l’attenzione, lo spettatore è immobile al suo posto ma fissando la ballerina si dimentica dove si trovi e si perde nella danza. Lo spettatore sono le anime che devono ritrovare il loro posto. Questo accade tramite l’esperienza del DOLORE. La terza visione è la PURVA-MIMANSA (“prima riflessione”). Indaga il linguaggio e l’origine dei testi sacri, recuperando l’importanza del rito come mezzo per porre fine alle rinascite. Obiettivo del rito è non rinascere più, non ottenere la felicità. Lo strumento pratico utilizzato è “ulteriore riflessione” (UTTARA-MIMANSA) LE TRE RELIGIONI In periodi diversi, dal IV secolo a.C., si sviluppano religioni diverse, sulla base delle divinità che hanno la funzione di intermediazione tra gli uomini e il principio divino. Si parla di 3 scuole/religioni: VAISNAVA SAIVA SAKTA Hanno un minimo comun denominatore nella figura di un dio come essere supremo, personale, unico che però rimanda al BRAHMAN privo di definizioni e limitazioni. Le specifiche sono frutto dell’ignoranza umana che non riconosce l’indistinto. Parliamo di religioni perché il comune denominatore è talmente indistinto da non permettere di riconoscere una radice vera e propria che possa far parlare di confessioni invece che religioni. Alcune divinità sono comuni, ma con posizioni diverse. VAISNAVA ha VISNU come dio di riferimento e la dottrina degli AVATARA che sono le discese terrene del dio. Le origini sono del IV sec. a.C., ma ci sono anche tracce precedenti. Infatti nel II sec. a.C. racconta di aver già visto uno stendardo con l’insegna di GARUDA che è il veicolo di VISNU. Ci sono contaminazioni col mondo greco: KRISNA è ucciso con una freccia che ne colpisce il calcagno, come Achille. I testi sacri sono la BHAGAVAD-GITTA, HARIVAMSA-PURANA, VISNU-PRANA, BHAGAVATA-PURANA. All’interno si dipartono diverse scuole o correnti, a seconda che sia nord o sud India. La più importante è la PANCARATRA, scuola delle 5 notti, durante le quali 5 savi illustrano gli aspetti teorici e pratici del culto. I loro testi sono i SAMHITA, 108 in tutto, con diverse riflessioni dedicate alla dea consorte. Questo movimento confluisce in una corrente successiva chiamata “dei gloriosi” la cui devozione è concentrata attorno a una figura divina di Krisna in cui le diverse figure della genealogia divina assumono posizioni diverse. Si sviluppa principalmente nel sud dell’India. Una delle figure più importanti della tradizione mistica è RAMANUJA, vissuto tra il 1000 e il 1140 d.C., autore di molti commenti sulla Bhagavad-gitta cioè sulla figura di Krisna. Ritiene che le anime e il mondo costituiscano una sorta di corpo di Visnu, un ATMAN universale. Comprende due correnti, del gattino e della scimmietta, simbolo dei due atteggiamenti del devoto, rispettivamente abbandonato alla volontà divina e più determinato. È stato il primo maestro che sposta la riflessione da VISNU a KRISNA, rendendo quest’ultima una figura assai popolare anche in occidente. Da questa tradizione nasce il movimento HARE-KRISNA che è fondato da un mistico del XX secolo. La religione SAIVA ha come riferimento SIVA (“il benefico”), declinato in vari figure e funzioni. È un culto prevedico, ma diventa religione a sé tra il IV e il II sec a.C. Il VAYU-PURANA è testo di riferimento, accanto al LINGA-PURANA e al KURMA-PURANA. La murti (figura) di Shiva più antica è Shiva-pashupati, “signore degli animali” domestici e sacrificali. Solo nel medioevo arriva nel Sud, con la corrente del SAIVA-SIDDHANTA, cioè la “dottrina ultima” dei seguaci di SIVA. VIRASAIVA è un’altra scuola, collegata a filoni più esoterici, come quella dei “portatori di teschi” per le offerte (infatti SIVA è rappresentata con teschi, dando rilievo a cadaveri e ruoli di cremazione). Sono ai margini dell’induismo per la pratiche impure cui si legano e per questa collocazione sono contro le caste e contro la discriminazione tra uomini e donne. Strettamente vegetariani, permettono il matrimonio delle vedove (per sottrarle a prostituzione e povertà). Nel sud nasce la scuola TRIKA, importante per il corpus di testi prodotti. La shakti in questa corrente non è indipendente ma neppure separata dallo sposo (come il fuoco e il bruciare non si identificano ma neppure si separano). SAKTA è la terza religione o culto della dea. In essa si celebra la dea, chiamata anche DEVI’. Essa è madre dell’universo. Le origini del culto sono avvolte nel mistero, ma è certo un culto ancestrale, in cui la dea è celebrata come dea vergine. Dopo il IV/VII sec d.C. acquista grande seguito in tutta l’India. La dea è DURGA, cioè “guerriera”, colei che distrugge e al tempo stesso colei che dimora in tutti gli esseri. È descritta come coscienza e comprensione. Ma è anche timidezza e comprensione. Calma, pace e amabilità. Sazietà, appagamento. Ma anche “madre” ed “errore”. Non c’è elemento della creazione che non abbia in sé elementi di questa madre divina. A questa tradizione fanno riferimento molte correnti accomunate dalla presenza dello YOGA. L’apparato dottrinale è comune, mentre la pratica yoga è proprio specifico della tradizione sakta. Due pratiche nella SAKTA: coloro che praticano la “condotta della destra” (DAKSINACARIN), nel sud-ovest dell’India; mentre nel Bengala si sviluppa la scuola VAMACARIN (“condotta della sinistra”), considerata più impura e pericolosa, poiché ammette alcolici, carne, pratiche sessuali all’interno dello yoga. Esiste un purana dedicato alla “dea degna di essere gloria” che si chiama DEVIBHAGAVADPURANA. Altri testi: i TANTRA che conta 64/68 testi ufficiali. Il termine significa “tendere” o “libro” e rimanda anche a una corrente successiva detta tantrismo. In tutti questi testi al centro c’è sempre la dea non più subalterna a un elemento o a uno sposo divino, bensì autonoma o sufficiente, capace di originare la creazione. L’universo si genera dall’unione della goccia originaria – generata dalla condensa prodotta dalla danza della dea - col suono. La dea si crede altro da Siva e quindi danza sul suo corpo, dando l’illusione della molteplicità. Il devoto è chiamato a ritornare indietro, a vedere il vero prima della separazione, per fare esperienza della primordiale unità. Una delle scuole più importanti è la scuola KAULA-MARGA, del nord, i cui maestri risalgono fino a SIVA in persona. Si tratta di percorrere vie di perfezionamento psico-fisico, sviluppando potenzialità interiori nascoste. Alcuni di quanti percorrono tale vie vivono in monasteri. Ultimo obiettivo di questa via di perfezione è sviluppare le facoltà nascoste per accelerare il proprio percorso di liberazione, abbandonando ciò che è più umano e soggetto al decadimento e al limite. TANTRISMO (tendere, tenda, tessuto), risale a circa 1000 anni fa e coinvolge la maggior parte degli Indu. I testi sacri sono i TANTRA che trattano della creazione e dissoluzione del mondo, dei poteri soprannaturali e loro conseguimento, dell’unione con l’assoluto. Includono molti aspetti strettamente dottrinali, tecniche per sviluppare autocontrollo. Sono dei veri e propri manuali che spiegano come “costruire” le immagini delle divinità. Sono rivelazioni adatte alla nostra era corrotta e senza dharma. ELEMENTI caratteristici Il divino è presente come coppia, come polarità M/F non separabili (SHIVA/SHAKTI). La polarità femminile è quello più potente (che genera il mondo ingannevole del molteplice). Altro elemento è la presenza di un devoto o adepto detto TANTRIKA il quale cerca l’aiuto della potenza femminile (SHAKTI) per sviluppare il suo potere. L’elemento femminile giace alla base della colonna vertebrale del devoto come serpente energetico e il devoto cerca di risvegliarlo attraverso la ripetizione di sillabe magiche, la pratica dello yoga, l’alterazione del respiro. Terzo elemento è la pratica dello yoga tantrico che agisce non tanto sul corpo fisico ma sul corpo sottile che è composto di canali (NADI) e cerchi mistici (CAKRA). L’energia deve risvegliare Kundalini attraverso alcune posture che sono chiamate A’SANA per amplificare o alterare gli stati di coscienza, unitamente al respiro alterato (PRANAYAMA). Se Kundalini risale, allora si sperimenta l’unione indistinta del tutto e il devoto non può ritornare a prima. Rispetto ai rapporti con la realtà del demonio bisognerebbe approfondire… Altro elemento: la parola divina che genera realtà, cioè il MANTRA ripetuto come parola magica. Ancora: elementi geometrici di concentrazione chiamati MA’NDALA (“impermanenza”), sono disegni riempiti di polveri di gesso assai sottili che vengono soffiate in questo disegno che, una volta terminato con perfezione maniacale, deve essere distrutto per ricordarsi che tutto è transitorio e illusorio (MAYA). Si usano anche YANTRA che sono disegni usati come elementi di concentrazione, riproponendo la struttura del mondo e del corpo in maniera stilizzata. Ancora: il devoto deve legarsi al MAESTRO che conosce già questa via. È una figura chiave: senza il maestro non si può compiere un percorso tantrico di iniziazione (DIKSA). Ancora: PUJA, ovvero un rituale quotidiano di adorazione che si esegue verso una MURTI (immagine) che prima è un pezzo di legno/ceramica, ma attraverso la consacrazione lo spirito divino scende nell’immagine per tutto il rituale, fino alla fine di esso. La materia è rispettata profondamente durante il rito, poi viene abbandonata. Anche il tantrismo ha diverse correnti e differenti. C’è la via del VEDA, del devoto di VISNU, dei devoti di SHIVA, della MANO DESTRA. Altra tradizione è quella dei 9 maestri in cui si pratica lo Yoga della forza (HATHA-YOGA), una scuola che discenda da SHIVA considerato primo maestro. In epoca medievale, nel Bengala si sviluppa una tantrismo riferito a Krishna come mandriano con la sua componente femminile Rada. Il loro cammino è detto della MANO SINISTRA perché fanno ricorso a pratiche controcorrente e inusuali per favorire il risveglio di Kundalini e la sua risalita dalla base della colonna alla sommità del capo. Verso l’VIII sec (appena prima che si sviluppi il tantrismo) in India la mappa induista è assai variegata, con diverse vie (MARGA) che si sono aperte. Si può essere Indù in una precisa tradizione di maestri (entro una delle tre grandi tradizioni) o in uno dei numerosi culti minori che fanno riferimento ad altre divinità. Parallelamente la tradizione ufficiale della Brahamanica che si fonda sulla SMRITI entra in crisi. Appare sulla scena un mistico, SANKARA(CARYA), la figura principale dell’induismo tradizionale che ha a che fare con la SMRITI. Intorno alla sua figura si crea un culto sincretico che unisce le 5 maggiori tendenze di culto nel cosiddetto culto SMARTA. È una vera e propria riforma del culto (“riforma dei 5 altari”) che interessa 5 divinità. SANKARA è l’autore della riforma. A soli 8 anni si ritira, saltando tutte le fasi di formazione precedenti, facendo qualcosa che era inusuale e vietato. Fonda un vero ordine monastico detto dei “dieci nomi” (DASANAMIN). THIRTA è il guado, il passaggio sacro. A’SRAMA è l’eremo, il luogo riparato e di preghiera SARASVATI o “parola divina” è il terzo nome e indica la dea della musica BHARATI è il femminile di BHARATA e indica SARASVATI VANA o selva/foresta ARA’NA o bosco/spazio con alberi. PA’RVATA o montagna SA’GARA o mare GhIRI o monte PURJ o roccaforte Questi dieci nomi sacri vengono uniti al nome d’origine di quanti entrano in monastero. SANKARA fonda 4 monasteri (uno per ognuno dei 4 punti cardinali) per tutelare la tradizione bhamanica pura. Ancora oggi risiedono in questi monasteri le massime autorità SMARTA (tradizione brahamanica ufficiale) e si chiamano – ma solo in questo ramo – “sua santità”, riconoscendo la superiorità di queste figure benché umane. Ogni monastero ha una divinità di riferimento la quale ha la sua shakti (elemento femminile). Ogni monastero è poi dedicato a un veda. Pochi anni dopo fa erigere un quinto monastero tuttora operativo. Rientra nella tradizione non dualista, vedendo il brahman come UNO. Ogni murti non è che pura apparenza. Solo la conoscenza è via di liberazione. La scuola di SANKARA divenne così importante che il suo pensiero e il dibattito pubblico coinvolse spesso anche il buddhismo, contribuendo così alla sua sconfitta ed eliminazione dall’India. L’ISLAM irrompe nell’India nel XI sec. Arrivati dal nord, danno vita al sultanato di Dehli nel XII sec. Alcuni regnanti furono illuminati e tollerarono la religione indigena. Ma la maggior parte furono spietati e intolleranti. Un incontro teologico si ebbe però con la mistica islamica dei SUFI che si riconobbe nella mistica INDU. Ci furono contaminazioni tra le due tradizioni, come ad esempio il movimento dei SANT (legati alla tradizione VAISHAVA). Dall’incontro con l’ISLAM nasce, a metà del ‘400, la religione SIKH-PANT. AVATARA Sono le figure tramite le quali le divinità discendono sulla terra. Si sviluppano nel periodo della BAHKTI cioè devozione e abbandono alla figura divina. Si sviluppa un forte immaginario collettivo legato a queste figure che, quando il mondo è in crisi, entrano nel mondo come proiezioni di VISNU per riportare il mondo in armonia (come KRISNA è mandato da VISNU nel mondo per riportare l’ordine o DHARMA nel filma “MAHABHARATA”). 10 sono gli AVATA’RA attribuiti a Visnu. MATSYA (il pesce che salva MANU, antenato dell’umanità, dal diluvio universale). KURMA (la tartaruga, sul cui dorso gli dei lottano coi demoni per recuperare la pillola dell’immortalità sul fondo del mare) VARAHA (il cinghiale che con le sue zanne solleva la terra, a forma di fanciulla, e la allevia dal peso degli uomini) NARASIMHA (o uomo-leone; è un PURNAVATARA o discesa piena di Visnu che scende in soccorso di un devoto) VA’MANA (il nano; il demone BALI ha ottenuto pressoché l’immortalità perché ha fatto molta preghiera ma deve scontare il periodo da demone; tormenta i tre mondi. Il nano gli si presenta come questuante e chiede spazio per meditare e il demone deve concedere 3 passi, compiendo i quali VISNU riconquista i tre mondi) PARASURAMA (brahamano guerriero, la cui ossessione è sconfiggere gli SHATRIA che hanno ucciso il padre; appare nel MABHARATHA) PRINCIPE RAMA (protagonista del Ramajana; è un PURNAVATARA o discesa piena di Visnu) KRISNA (lo scuro; protagonista della Bagavadgitta) BUDDHA (questo culto popolare diventa importante quando si afferma il buddhismo; detto l’asceta silenzioso, inganna i malvagi raccontando una falsa dottrina – giudizio indiretto sul buddhismo) KALKIN (ultimo avatara, non ancora arrivato, indica la fine della nostra era, arriverà su un cavallo bianco oppure avrà testa di cavallo). LA CICLICITÀ Anche la terra è strutturata in modo concentrico. Nei purana si parla di sette continenti separati da oceani diversi (di vino, burro fuso, cagliata, acqua salata, canna da zucchero). All’interno di questi continenti troviamo quello che ospita l’India. Anche nel tempo si ritrova lo stesso principio di ciclicità. Il tempo è costituito intorno al giorno di brahma. I calendari hanno cicli lunari e le festività non sono dunque fisse. Si divide il calendario in due parti, riferite al corso settentrionale e meridionale del sole. Anche l’uomo, in quanto microcosmo, è costituito da involucri, secondo i purana, e nello specifico 5, dei quali l’ultimo è il brahman. Il corpo sottile include gli organi di percezione e di senso (secondo lo yoga dello sforzo /fisico), ma anche dalla mente e dal senso dell’io, dai chakra e dai canali in cui circola il soffio vitale. Più concreto è il corpo fisico, soggetto al decadimento e alla morte; infine il corpo causale, in cui si trovano i motivi o le potenzialità e le responsabilità che determina il ciclo delle rinascite. CASTE La società non è democratica poiché a seconda di dove si nasce si occupa un posto diverso. Solo nella vita della rinuncia si è tutti uguali. I varna sono le diversificazioni sociali: originariamente erano 4, ma quella degli shutra/lavoratori si è frammentata in molte altre. “Casta” deriva dal portoghese. I Portoghesi, dal XV sec, dominano l’India del sud, divenendo i dominatori dell’oceano indiano. Fermati dagli olandesi, nel XIX rimangono solo alcune zone di protettorato, attorniate dal dominio britannico. JATI si traduce con casta e indica il gruppo famigliare in cui si nasce e che si distingue per alcune norme precise di contatto con l’impurità, in particolare norme alimentari. Più si sale, più le norme sono specifiche e restrittive, mentre nelle caste inferiori c’è un certo permissivismo per ragioni pratiche (i lavori da svolgere). Le prime tre caste sono tra il 5% e il 10% della popolazione. Il restante 90% consta della quarta casta, scomposta in una miriade di sotto-caste. Il concetto di eguaglianza va in crisi dinanzi alle differenze economiche oggi sempre più evidenti. Il problema è quanto mai aperto, perché ancora oggi i paria o intoccabili sono ai margini della società. Gli Avarna (fuori dai varna) sono i paria (termine tamil, del sud dell’India). Gandhi chiamava questi paria HARIJAN cioè “gente di Dio”. L’immobilità sociale è dettata dalla base religiosa del sistema di caste per cui ogni individuo sa di dover rimanere dove si trova. Discorso a parte si fa per gli asceti che sono nel periodo della rinuncia e vivono “al di sopra” di ogni casta. Oggi sono circa 6 milioni di persone (SANKARA ne è il precursore). Anche nell’ascesi abbiamo le tre principali correnti già viste a livello di religiosità, distinguendosi per gli abiti o i segni sul viso (ad esempio i shaiva si vestono di ocra, i vaishava di bianco, altri sono privi di vestiti perché si riconoscono nelle tre correnti insieme). I vaishava hanno disegnato sulla fronte i piedi di Visnu a esprimere l’idea che Visnu poggi i piedi sulla loro fronte, fatti con pasta di sandalo ( U ) I devoti di Shiva hanno tre righe fatte con la cenere o sterco di vacca (sacra) a indicare la disciplina del corpo, della mente e della parola ________ ________ ________ Gli Shakta hanno invece la svastica rovesciata (con polvere di sandalo) e simboli di movimento 32, 64, 108 sono i grani che si ritrovano nei rosari che indicano iniziazione, oltre a portare in mano la ciotola e a volte un teschio (nelle correnti shiva). IL MALE È male tutto ciò che allontana dal MOKSA. Bene sono JNANA (gnana), SATIA (verità), xxxxxx, unitamente all’attenzione (raccoglimento in sé), pazienza, equanimità, fede… Bene è ciò che aiuta a mantenersi distaccati dal mondo, nella pace, senza paura né violenza, in perfetto raccoglimento. Male è tutto l’opposto (paura, violenza, assenza di bene). La resistenza all’amore di Dio fa sì che alcuni demoni vengano uccisi da Visnu. La resistenza al bene è un “peccato”, e gli uomini stessi devono temere queste concessioni al male. Ogni uomo non nasce col peccato originale ma con tre debiti. Il primo è nei confronti della rivelazione e si salda ripetendo i testi sacri a memoria ogni giorno Il secondo debito è verso gli antenati e si salda offrendo loro offerte rituali (palline di riso, dolci…) che offrono loro un passaggio gradevole nell’attesa della reincarnazione successiva. Si paga poi questo debito un figlio maschio che continui a pregare per noi quando non ci saremo più. Il terzo debito è verso gli dei e si paga con la puja quotidiana (il sacrificio), cioè con la devozione. Un quarto debito è infine quello verso tutti gli esseri umani e si paga con l’accoglienza verso gli ospiti: chi bussa va accolto e rifocillato. Infine un quinto debito: quello verso tutti gli esseri viventi. Si assolve con riti quotidiani. Per riparare anche le morti involontarie che colpiscono in un qualche modo l’ambiente (camminando calpesti un animaletto…). I fini dell’uomo (3+1) sono arta, kama, darma, moksa. Ci sono tre vie che portano alla liberazione (cfr. lezioni precedenti). LA PRASSI L’esperienza ultima dell’atman/brahman resta comunque individuale, così come gli atti di culto del tempio, che vengono compiuti singolarmente, mancando il rito schematico, per cui più che la collettività/comunione si privilegia la puja individuale, che si celebra anche nella casa privata, presso un piccolo fuoco che deve sempre stare acceso, ripetizione del fuoco vedico. Soprattutto nelle zone rurali, dove il fuoco vedico è acceso, là è il cuore della casa. Si alimenta(va) con sterco essiccato, combustibile alternativo alla legna nelle zone desertiche. Anche dopo il matrimonio viene acceso un fuoco come segno del nuovo inizio. Nel fuoco domestico si celebra il culto dei defunti, si onorano le divinità. I riti familiari si chiamano SAMSKARA (“fare-con” – corrispondono più o meno ai sacramenti cattolici) e scandiscono i diversi momenti della vita, benché oggi abbiano perso valore. La lista ufficiale ne contempla 16 e ognuno “dà la competenza” a svolgere una certa mansione nell’ambito della famiglia. Alcuni aspetti sono ricorrenti nei 16 riti, come la scelta del giorno opportuno in cui compierlo, oppure il dare cibo ai brahamani come offerta propiziatoria, sorseggiare acqua dalla mano destra per purificarsi, compiere un bagno rituale, purificare un suolo (chiedendo “perdono”) che è un elemento classico di ogni danza rituale indiana che chiede perdono alla terra dei passi che si compiranno su di essa. Si spruzza secco di vacca sul pavimento, amalgamandolo con burro, delimitando gli spazi con polveri colorati. I primi 3 riti sono pre-natali, riguardano il feto. Il primo attiene al concepimento vero e proprio e viene eseguito una sola volta o dopo il ciclo mestruale, bruciando alcuni legni nel fuoco domestico come sorta di rito di fertilità per la coppia. Il marito recita alcune poesie rivolte all’embrione. L’età del bambino viene contato a partire dal concepimento e non dal venire alla luce. Il secondo viene celebrato nel terzo mese di gravidanza per avere un figlio maschio, consiste in digiuno e abluzione da parte della madre, facendo risalire dalla narice destra un liquido (ficus indica) che si pensa collegato con canali vitali. Il terzo rito riguarda ancora la madre ed è la spartizione dei capelli e avviene nel quarto mese di gravidanza, se c’è la luna piena. Da qui in poi la madre deve vivere in un ambiente puro e tranquillo, poiché da questo mese si costituisce la mente del bambino che quindi deve essere chiara (e lo sarà quanto più tranquilla la madre sarà). I capelli spartiti e la tintura di rosso depositata su di essi accompagnerà il resto della gravidanza. Il quarto rito è dell’infanzia. Comincia un mese prima della nascita, si prepara una stanza per la partoriente e vengono sciolti tutti i nodi per liberare negatività e spiriti maligni. Il sacerdote celebra una preghiera durante il parto, per facilitarlo, ma il rito vero e proprio ha luogo appena prima di tagliare il cordone ombelicale del bambino. Viene portato il fuoco sacro e viene versato del burro fuso sul capo del bimbo, pronunciando un mantra, sussurrando poi per tre volte una parola all’orecchio per aprire la mente alla conoscenza. È in questo momento che il padre sussurra al figlio il suo nome segreto (di tradizione famigliare) che rimarrà segreto perché nessuno possa dominarlo. Il quinto rito è quello del nome. Si possono dare fino a 5 nomi tratti dalla posizione degli astri, dalle divinità celebrate nel mese, dal nome della famiglia tradizionale, e il nome corrente che piace. Questi sono nomi conosciuti (4) + 1 nome segreto. Il sesto rito è legato alla prima uscita del bimbo all’aria aperta. Il settimo alla prima assunzione di cibo cotto (svezzamento). L’ottavo è il primo taglio di capelli (ancora molto sentito, si esegue nel terzo anno di vita e si lascia solo un ciuffo sul retro, alla sommità del capo). Il nono è il buco delle orecchie (maschi e femmine). Il decimo si celebra intorno al 5° anno di età e segna l’inizio del periodo di studio. Siede rivolto a est e il brahamano gli impartisce la prima lezione che è l’alfabeto. L’undicesimo è uno dei più importanti: coincide con lo spostamento del bambino dalla casa di famiglia alla casa del maestro dove studierà i testi sacri. Interessa solo i maschi dei primi 3 varna e in momenti diversi dell’anno a seconda del tempo. Avviene dopo i 5 anni. Viene nuovamente rasato e gli resta un solo ciuffo. Quindi va dal maestro e chiede di essere accolto. Il maestro gli fa compiere un bagno purificatore e poi gli regala due drappi per il corpo (inferiore e superiore) oltre al cordoncino fatto di 3 fili intrecciati (simbolo dei 3 veda + antichi) che gli correrà di traverso sul petto, dalla spalla sinistra al fianco destro, simbolo di una seconda nascita che avviene con l’iniziazione (come un secondo cordone ombelicale). Il bambino riceve un DANDA cioè un bastone che è simbolo del suo apprendistato (andrà in giro con esso per fare la questua). Questo periodo di formazione si concluderà con l’ingresso nella vita adulta (pronto per sposarsi), quindi i genitori di fatto non educano il figlio se non per i primi 5 anni. La prima questua viene fatta a casa propria, poi torna a vivere col maestro e vi rimane finché non sarà pronto per sposarsi. Anche le donne possono, oggi, compiere questo rito ed essere educate presso i maestri, ma in origine non era così. Inclusione allargata poi anche agli SHUTRA (non nobili). È in questo momento, avvenuta l’iniziazione, che il bimbo riceve in dono dal maestro un mantra che lo accompagnerà per tutta la sua vita. Il dodicesimo rito segna l’inizio vero e proprio dello studio: non si è solo iniziati, bensì studenti. Il tredicesimo è il GODANA o il “dono della vacca” al brahamano che si è fatto carico della formazione del bambino e viene dato al termine del percorso formativo, quando il giovane si appresta a tornare a casa (intorno ai 16 anni). Resta comunque un legame col giovane e colla famiglia. Il quattordicesimo è il rito del matrimonio o VIVA’HA ed è celebrato anche oggi seguendo il rito tradizionale, assai lungo. È il più importante rito, assieme a quello funebre, perché segna l’inizio di una nuova vita, fondamento della società. Gli sposi devono appartenere alla stessa casta o almeno dello stesso varna. Ma la moglie non può esser superiore, mentre l’uomo sì. E comunque non può esserci una donna shudra che sposi un nobile. Le diverse caste sono determinate dalle azioni compiute in precedenza ed è quindi secondo il DHARMA che una persona accetta di essere dove è. Ancora, per sposarsi occorre allontanarsi dalla propria linea famigliare. Il matrimonio si porta dietro il problema della età. Si giunge a dare in sposa una fanciulla ancora incapace di comprendere che cosa le sta accadendo. Così dal 1929 la legge stabilisce che sotto i 14 anni non si può esser data in sposa, benché tale norma venga sempre più aggirata nelle zone rurale. Ancora oggi i genitori organizzano i matrimoni, ce ne sono 8 tipi. Il più diffuso è quello in cui la famiglia della sposa cerca di raccogliere la dote più significativa (ricchezze, terre) per accaparrarsi un partito consono. Ma questo porta grande indebitamento, per cui alcuni nipoti non potranno sposarsi perché i genitori ancora stanno saldando i debiti dei matrimoni precedenti. Si auspica un matrimonio con un brahamano rispettato. Il matrimonio è uno solo, ma le cose stanno cambiando molto nelle città, mentre nelle zone rurali le vedove non possono risposarsi perché sono considerate impure (anche se fossero appena più che bambine) e quindi non possono che sostenersi con elemosina e prostituzione. È un rito estremamente articolato, in più giorni, e si è mantenuto quasi completamente dalla tradizione vedica che lo ha generato. Una volta che sono stati scelti gli sposi si fissa una data con una promessa fatta dalle famiglie, e la data deve cadere in luna crescente. Scelto il giorno, si va nel nord a raccogliere della terra “santa” e si piantano dei semi in essa, germogli, grano, costruendo nel proprio giardino un baldacchino sotto cui si accende un fuoco sacro che lì resta finché non sarà terminato il rito matrimoniale. Nel giorno del matrimonio il padre della sposa, compiuta una abluzione, dichiara la propria intenzione affinché si proceda e recita alcuni mantra benaugurali per gli sposi; si celebra una puja a Ganesha, mentre gli sposi, nelle proprie case, compiono un bagno preparatorio, recitano le preghiere tra cui una famosa invocazione (GAYA’TRI’) tratta dall’AJUR-VEDA. I parenti pronunciano benedizioni di buon augurio. Lo sposo arriva a casa della sposa e gli vien posta al collo una collana di fiori arancioni, quindi gli viene offerto un pasto con del miele, come se fosse un ospite sacro. Fattolo sedere, gli si lavano i piedi, le mani. Il padre della sposa unge gli sposi con un unguento, simboleggiando l’unione che li legherà per tutta la vita. La sposa porta un velo rosso che scende lungo la schiena, ma viene alzato sul capo e ricade in avanti, velandola. Giunge sotto il baldacchino del giardino dove brucia il fuoco sacro, si svela e gli sposi si vedano e in questo momento la sposa è formalmente donata al consorte, enunciando l’intento di avere figli come fondamento della unione stessa. Ambulano intorno al baldacchino e chiedono beni al cielo e quanto servirà per la vita della coppia. La sposa viene spruzzata con acqua sacra, mentre lo sposo le pone una mano sul cuore invocando la felicità per lei. A questo punto si spartiscono i capelli e cosparsi i capelli (come avverrà anche nella gravidanza). Alla fine del rito si dà il compenso al sacerdote officiante e gli sposi vanno nella loro casa (che è quella dello sposo, dove per tradizione i due si traferiscono). Il rito funebre (ANIYESTI) è il sedicesimo e prevede una offerta di puja (piccole porzioni di cibo), mentre si gira intorno alla pira su cui è posto il cadavere (dopo esser stato posto nell’acqua del fiume e cosparso di burro), seguendo il fianco destro, quindi si augura “buon viaggio” all’anima. Il rito è un elemento di distacco, benché si sappia che l’atman si reincarnerà in una successiva vita. È un rito importante perché diffuso tra tutti gli indu. Si prende coscienza che quella persona non tornerà più in quella forma. Nella città sacra di VARANASI sarebbe opportuno morire perché città cara a SIVA, quindi si accelera il ciclo di purificazione. La cremazione avviene in pubblico, nel senso che la dispersione delle ceneri avviene nello stesso luogo in cui si compiono abluzioni, si lavano i panni… Recitato il mantra di congedo, si incendia la pira. Quando il cadavere è completamente arso, le ceneri vengono spente spargendo acqua, quindi si raccolgono e disperdono nell’acqua. Gli Indu non hanno cimiteri ma vengono bruciati. Non c’è ancora una legge che vieti questo fuoco pubblico, ma si va verso una diversa regolamentazione. Anche le vacche sacre vengono cremate. Ci sono poi altri RITI QUOTIDIANI che scandiscono la vita. Molti sono abluzioni e lavaggi, compiuti all’alba o al crepuscolo, invocando la dea GANGA’ (dei fiumi). Le case hanno uno spazio dedicato al fuoco e ai riti quotidiani (anche solo una nicchia, se la casa è molto povera). A questa nicchia si rivolge l’officiante che inizia le abluzioni alle 4 del mattino, quando celebra la prima puja. Per farlo si segna la fronte coi simboli della propria tradizione (TILAKA). Inizia una meditazione di 3-5 ore, nel corso della quale è invitato a ripetere i testi sacri imparati a memoria durante la formazione presso i brahamani. Conclude poi con alcune offerte di frutta e burro alle divinità. Poi va a lavorare e svolge la normale giornata. Finché, rientrato, può compiere un nuovo ciclo di meditazione. In alcune giornate visita luoghi sacri, compie il rito del saluto del sole (yoga con valore di preghiera). Anche il cibo va consumato nella modalità corretta (la destra, poiché la sinistra si usa per pulirsi e quindi è ritenuta impura), con una certa ritualità. Questa ritualità quotidiana rimedia ai debiti di ogni persona (i 5 seguenti con le riparazioni) RISHI – con lo studio ANTENATI - offerta di cibo DEI – puja quotidiana UMANI - accoglienza VIVENTI – piccole offerte di cibo quotidiane Strumenti di morte involontaria sono il focolare, la macina, la scopa, il mortaio, la brocca per l’acqua. Sono ritualità riservate al capofamiglia, mentre le donne hanno meno riti per occuparsi di figli e casa. Più sali di casta, più sono i rituali da osservare. Mentre le caste inferiori, che devono lavorare di più e hanno meno purezza, compiono meno rituali. Altra compensazione serve per le impurità involontarie ad esempio quando viene servita carne anche se non la si mangia, oppure avendo consumato alimenti che contengono alcool, o rapporti sessuali. Per le donne si riconosce una impurità mensile (il ciclo). Anche se si va in luoghi di cremazione ci si contamina… Ci sono diversi tipi di bagno rituale per purificarsi. Oltre a questi, altre prassi servono per acquisire dei meriti: (1) atti di SACRIFICIO/OFFERTA (di cibo, non sono praticati dagli SHUTRA) detti ISTA; (2) opere di CARITA’ (PURTA) che possono essere praticate da chiunque. Per praticare gli ISTA serve un fuoco, per ingraziarsi piaceri celesti. Occorre anche una corretta pratica della ascesi, un comportamento virtuoso (SATIA, cioè dire il vero), ricordarsi di offrire agli dei una porzione del proprio cibo quotidiano. Più importanti i PURTA che possono donare la liberazione finale (MOKSA). Fra questi ci sono ad esempio la costruzione di pozzi (atti concreti per la comunità), la fondazione di monasteri, la costruzione di asili per i pellegrini in transito. In essi rientra anche il DANA, fare dono/elemosina a chi lo chiede. Il FUOCO è divinità (AG-NI) e anche il fuoco che serve all’officiante. Quindi il fuoco domestico è porzione di quel fuoco. L’ACQUA del fiume sacro, delle abluzioni, per le offerte agli dei, per cospargere lo sposo. Il MOMENTO in cui compiere il rito conta (la costellazione, gli astri, la luna, l’ora…). Ad esempio la recita del mattino deve avvenire 24’ prima o dopo il sorgere del sole. Esistono 7 tipi di BAGNI rituali, tra cui anche nella cenere. Importante anche la pratica del DIGIUNO che purifica il corpo e rende salda la mente. I riti dovrebbero esser compiuti a torso nudo o con indumenti non cuciti per non aver nodi o altro che trattenga gli spiriti malvagi. Importante la purezza rituale, ma occorrono anche elementi di purezza del corpo, della murti (immagine), della cosa offerta, del mantra, della mente. Il CORPO va purificato col bagno rituale, ma anche con un periodo di castità. L’IMMAGINE deve esser pura cioè con materiale e proporzioni appropriate, installate secondo la norma. Le OFFERTE sono pure se prese in modo corretto, da certe piante e non da altre, con certo cibo e non altro (a seconda della divinità a cui si offrono). I MANTRA sono puri se pronunciati in modo corretto ma anche se la mente di chi li pronuncia è raccolta, ferma, senza pensieri avidi o menzogneri. La MENTE è pura se è salda e raccolta nello yoga. Per accrescere il merito delle proprie azioni, il devoto può fare VOTI di esercizi ascetici, rinunce, pellegrinaggi. Ad essi fanno riferimento soprattutto le donne. Chi è malato o disabile è esente da riti e purificazioni, ma possono altresì incaricare un sostituto di fare quanto prescritto o sostituire l’azione fisica con un gesto simbolico (pulire la mente con la meditazione invece di lavare il corpo). Le donne non usano mantra vedici ma i mantra dei purana, benché la cosa stia cambiando dietro la spinta del tantrismo, per cui le donne possono oggi fare cose che un tempo non avrebbero potuto fare. I TEMPLI Sono di due tipi: a guglia/punta (nel nord) o cittadelle fortificate (sud). Oltre alla grande quantità di immagini, colpisce la dispersione, poiché ci sono edifici diversi, tra cui un tempietto che custodisce il veicolo della divinità. Farsi carico della parte del tempio riferita alla divinità onorata è un’opera pia. Deve essere su un’altura, con il brahamano che canterà inni per allontanare spiriti maligni. La costruzione del GARBAGRiHA’ (dove si custodisce la murti della divinità) segue regole assai precise. Solo quando è perfettamente finito si passa alla sua consacrazione, che è come ricostruire il PURUSHA, poiché vi è una forte simmetria col corpo umano, col micro e macro cosmo. È come se il tempio ripresentasse l’universo in miniatura. Ogni murti, come il tempio, deve rispettare regole molto precise nella sua costruzione, soprattutto per le proporzioni degli arti. Costruita, si colloca nel Garbagriha e si consacra. Colorando gli occhi con polvere colorata è come se la murti si risvegliasse. Riceve un nome. Ha la funzione di ricordare la divinità ma NON è in sé divina. Una volta che si è colorata/risvegliata la si può usare per ogni puja, riponendola quando non serve. Ha la funzione di risvegliare la conoscenza del vero. La si cosparge anzitutto con acqua, poi si fa una offerta ai brahmani, quindi si riveste la murti con seta e fili d’oro, si depongono fiori intorno, e al termine della giornata di devozione la si mette a dormire. Questo è il primo giorno. Al termine del quale è ufficialmente installata: nella prima processione viene portata in giro su un carro, lasciato presso al tempio con questa funzione, per essere poi collocata nel Garbagrihà (alcune saranno fisse, altre mobili). BIMA’NA è il tempio (=misura, poiché il tempio è misura rimpicciolita di tutto il cosmo), oppure MANDI’R. Come il corpo, il tempio è microcosmo, unito all’universo. Realtà che hanno in comune di constare di tre aspetti: materiale (il tempio), sottile (murti nel tempio, giva o scintilla di vita nell’uomo e nel mondo), trascendente (atman umano e brahman in tempio e cosmo). Ricostruire un tempio significa riedificare il corpo smembrato all’origine dell’universo (Pùrusha). I templi sono diversi da nord a sud: a nord prevale lo stile NàGARA (appuntito), a sud lo stile DRàVIDA (più tozzo, con più giri di mura). Nascono più tardi dell’induismo, perché in epoca vedica i riti venivano officiati sui prati, in terreni particolari, dopo lunga preparazione, ma senza templi. Solo nel IV-V sec dC nascono strutture rupestri – nella roccia – per celebrare sacrifici. Si arriva poi a vere e proprie strutture, che accolgono le 33 divinità (32 + quelle del tempio) e raffigurazioni mitici e religiosi per quelle parti di popolazione che non avevano accesso ai veda. Gli atti di culto sono anche domestici, ma alcuni si svolgono solo nel tempio. A seconda della divinità del tempio, gli atti di culto si possono compiere da 1 a 6 volte. Il tempio sta aperto dalle 4 am alle 10 pm, con dei brahmani che si occupano dei diversi compiti. In certe ore della giornata o in certe feste si riprende la murti e la si risveglia. Le tre puje principali sono al sorgere, al massimo, al tramonto del sole, esattamente quando anche in casa si praticano i riti domestici. Ogni tempio ha i propri orari. Il cibo offerto e “non consumato” dalla murti viene condiviso con i devoti presenti alla funzione. Nel sud si spargono anche fiori attorno alla murti. Prima di consumare il cibo, si chiede scusa alla divinità per averla chiamata nella immagine della murti. Si celebrano anche cerimonie solenni, che sono tante: del luogo, della divinità, commissionate da un devoto… La PUJA è anche un atto che porta merito, una forma di espiazione con atto buono (far costruire un pozzo…), benché il KARMA negativo si possa solo diminuire ma non togliere del tutto. La negatività può consistere nel dover stare lontano dalla comunità, che ti allontana se sei omicida o negativo, oppure restare da IAMA (Dio dei morti) per un certo tempo prima della reincarnazione, rallentando così l’uscita dal ciclo delle vite. NON si rimedia, ma si attenua la conseguenza negativa. Solo la BAHKTI, la grazia della divinità, può salvare da ogni colpa. Il negativo KARMA si attenua con puja, offerte, pellegrinaggi, opere pie, con riti, yoga, meditazione, ma soprattutto PENTIMENTO reale per ogni azione volontaria. (Storia della pernice che funge da richiamo per altre pernici ed è lacerata tra il dare morte a loro e il lasciare senza cibo il cacciatore, ma un saggio le dice che non ha colpa perché non è volontaria). Esistono i riti dello SHATTRA per i defunti (celebrato da tutti ma non da donne e shatria), con maggior valore se fatto in luoghi santi o giorni santi (luna piena, luna nuova; l’11mo giorno di ogni 15 gg lunari, inizio del sonno di Visnu, accompagnato dal digiuno). Altra festa è dell’anno solare, quando il sole entra nel capricorno (detto MA’KARA, intorno al 21 dicembre, quando la luna inizia a vincere sulle tenebre). Altra festa, con bagno di purificazione, si chiama GANGA’-SA’GARA-MELA: celebrano le nascite delle 33 divinità, con altrettante giornate di feste. Si celebrano i giorni di inizio delle ere cosmiche. Si celebrano le feste per la dea DURGA (Durgapuja o Navaratri, delle “nove notti”), tra settembre e ottobre. Si dice che celebrare NAVARATRI tolga i dieci peccati o le dieci teste di RA’VANA (che aveva rapito la moglie di RAMA…). Altra festa è pe la discesa della dea GANGA’, tra maggio e giugno, celebra la discesa della dea sulla terra (e dopo un certo tempo di siccità ritornano le piogge). Si celebra in tutta l’India, ma lungo le rive del Gange è il luogo più idoneo, salvo trasportare ampolle d’acqua del Gange dove occorre, o comunque attingere a un fiume, visto che il Gange scorre ovunque. SIVA-RATRI (la notte di SIVA), celebra la vittoria del fuoco, è residuo del fuoco vedico di AGNY. Preceduta da 15 gg di festa. Molto sentita è la festa dei COLORI, una sorta di carnevale, in cui si abbattono tutte le differenze di casta (giorno di HOLI, tra febbraio e marzo). In questi giorni ci si cosparge di polvere colorata, si fanno scherzi e canti, senza differenze sociali e uomo/donna. Il nome deriva da una demonessa che avrebbe cercato di bruciare un devoto di VISNU, poi salvato da Visnu stesso. Infine, la festa delle LUCI (VALI) che vengono accese in onore di Lakshi (con tanti lumini lasciati sul fiume…). Anche i PELLEGRINAGGI sono riti legati alle feste. Viaggi a piedi, con un bastone, indirizzati a un santuario, per purificarsi. Danno origine al MELA (adunata). Il KUMBA-MELA si svolge ogni 4 anni (e il grande KumbaMela ogni 12 anni). KUMBA = ciotola, contenitore. Nelle 4 città sante dell’India, tra cui BENARES/VARANASI. Son una forma di purificazione dall’VIII sec aC e si rifa al mito dei 5 PA’NDAVA che durante gli anni di esilio visitano i guadi sacri (TIRTA) che hanno potere salvifico: è dunque un pellegrinaggio, il loro. Dal medioevo vengono edificati come edifici di passaggio/purificazione (ponti/guadi). Sono TIRTA di 3 tipi: spirituali (virtù: pazienza, compassione, veracità); mobili (i maestri, le guide spirituali, i monaci); terrestri (ponti e guadi). La città di VARANASI che è sull’acqua è considerata nel suo complesso un TIRTA quindi un luogo di passaggio all’aldilà. KURU-KSHETRA (complesso dei Tirta della dinastia Kuru, citato nel Mahabharata, esiste davvero). Nel pellegrinaggio non ci sono barriere, né esclusione e tutti beneficiano della purificazione ad esso legata, purché ci sia intenzione pura. Si digiuna prima di partire e durante il pellegrinaggio, per cui gli anziani spesso lo scelgono come modo santo di morire. La divinità che supera gli ostacoli è GANESA quindi si compiono atti rituali in suo onore prima di partire. Si deve avere una ferma intenzione (1), indossare abiti logori color ocra (2) e un braccialetto di rame che indica povertà (3). Più è distante la meta, più meriti si acquistano. Prima di partire si circum-ambula attorno al villaggio. Un tempo si faceva voto di non usare altro che i piedi. Solo le barche sono lecite. Si resta nella castità per tutto il tempo. In alcuni casi si pellegrina con il corpo, prostrandosi ogni 3 passi (cfr. documentario KALACHAKRA) anche per centinaia di km… Raggiunta la meta, si radono i capelli, si recitano i mantra della divinità del luogo, si fanno elemosine, quindi si segue il percorso dello KSHETRA (circum-ambulando i luoghi sacri in esso raccolti). Oggi ci si sposta anche in bus o camion. Se si muore durante il pellegrinaggio, si è bruciati sul posto e le ceneri portate al Gange. Il grande KUMBAMELA del 2013 ha visto spostarsi oltre 100 milioni di persone. Si compiono pellegrinaggi anche per evitare sciagure, per avere un figlio maschio, per guarire. Altri luoghi santi per il pellegrinaggio sono quelli legati alla dea SATI. Se manca la retta intenzione, non serve nulla: occorrono un reale pentimento e una ferma volontà. Se non lo si può compiere fisicamente, come i disabili, esiste il pellegrinaggio spirituale: preghiera, lode alla divinità, mormorazione dei nomi di dio, mantra in onore di SIVA. BUDDHISMO Intorno al 500 aC l’induismo attraversa una fase di crisi: il problema del dolore pare senza risposta. Intorno al 540-468 aC nasce MAHA-VIRA detto JINA, fondatore del JAINISMO. Intorno al 560 aC a Kapilavastu nasce il principe SIDDHARTA (arta = scopo; sidda = perfezione, quindi “colui che ha raggiunto lo scopo”), di famiglia GAUTAMA, discendente da GOTAMA, uno dei 7 risi originari dell’induismo. Di solito è ritratto disteso su un fianco, perché così sta mentre muore. Ma si raffigura anche come animale, in riferimento alle vite precedenti. Quindi si accetta l’idea delle RINASCITE. Le biografie più antiche che abbiamo ci sono arrivate in lingua PALI, arcaica, del nord dell’India. Ma anche in sanscrito. La storia si lega al mito. Si rifanno a scritti sul Budda, ormai persi, composti appena un secolo dopo la sua morte. Le biografie del BUDDHA iniziano prima delle sua nascita, con le vite precedenti che danno i meriti necessari per una ottima rinascita: è in questa vita che Siddharta acquisterà la illuminazione necessaria per la liberazione definitiva. Quando Buddha espone il suo insegnamento in 4 nobili verità, si rifà a 6 Buddha apparsi in altre ere cosmiche, mentre alcune scuole parlano addirittura di 24 Buddha. Altri attendono ancora oggi un nuovo Buddha (Maitreia). BUDDHA indica “risvegliato”, più che illuminato (scorretto, perché indica la luce dall’esterno, mentre il risveglio avviene dall’interno, da sé; ma cfr. Agostino e l’illuminazione interiore). Ci sono 5 concomitanze necessarie perché nasca il Buddha: tempo, luogo, famiglia, madre e quantità di vita della madre GIUSTE. La madre dovrà morire 7 gg dopo la nascita del Buddha. Nel 563 aC paiono realizzarsi queste condizioni, a Kapilavastu, ai piedi dell’Himalaya, nella famiglia di un principe, SHUDDO’DANA. La moglie, devota, si chiama MAYADEVì (dea dell’illusione). Il concepimento di Buddha avviene senza il padre, durante una notte di luna piena. Sogna un elefante a sei zanne che le entra nel fianco destro e i brahmani di corte lo vedono come presagio di nascita di un re eccezionale. Insieme alla possibilità che possa invece essere un asceta, cosa nascosta al padre. Dopo 10 mesi, la madre in un bosco sacro, in piedi, stende un braccio per afferrare un ramo e dal fianco destro miracolosamente esce il bambino. Compaiono prodigiosamente 4 guardiani dei punti cardinali, come se l’universo volesse dargli il benvenuto. Dal cielo scendono due cascate di acqua fredda e tiepida (abluzione rituale), compiendo subito 7 passi e gettando uno sguardo sul mondo intero, dichiarando di esser venuto per salvare il mondo. Un asceta dell’Himalaya ha visione di una nascita straordinaria e si reca a palazzo a rendere omaggio al bambino e sul suo copro riconosce i 32 segni principali e gli 80 secondari che ne indicano l’eccezionalità: sarà lui a salvare l’umanità. 7 gg dopo la madre muore. Durante la festa dell’aratura, il bimbo è lasciato da solo sotto un albero di MELAROSA e i presenti lo vedono seduto in posizione del loto: è il tempo della prima illuminazione, nella posizione della perfetta serenità. Ma Siddharta cresce come un normale figlio di re, col padre che cerca di allontanare l’ipotesi di vita ascetica, educandolo da re-guerriero. A 16 anni Siddharta deve prendere moglie, la vince a un torneo (essendo KSHATRIA) e con partita a dadi, la sposa e ha un figlio che si chiama RADULA (catena, legame col mondo). A 29 anni la sua vita è scorsa in modo normale, come quella di ogni principe destinato a diventare re. È come rinchiuso in una prigione dorata. Nulla gli può far sorgere l’idea di una vita diversa. Un giorno gli dei decidono però che è venuto il momento di fargli conoscere la verità e gli mettono il desiderio di uscire dal palazzo. Scappa una notte, va al villaggio e incontra un vecchio, un malato, un cadavere su una pira e scopre la drammatica realtà della vita. Il padre cerca di impedirgli di fuggire di nuovo. Ma un giorno vede un asceta. Scappa dunque dal palazzo nel 534 aC. MARA dio della morte e dei desideri si presenta a lui tentandolo con la proposta di diventare monarca universale in 7 giorni, ma Siddharta non recede e vince le tentazioni nella notte della rinuncia. Si taglia i capelli, lascia il cavallo che muore di dolore, cambia gli abiti sfarzosi e inizia la vita da asceta. Da qui i racconti biografici si fanno più verosimili. Cerca un maestro, che predica la dottrina della INESISTENZA delle cose o del VUOTO. Pellegrina per 7 anni. Ma questa dottrina non lo soddisfa e non risponde al dramma del dolore. Lascia dunque il maestro, e va in un regno confinante. Trova un maestro che predica lo YOGA come via per raggiungere l’introspezione. Si accorge che anche quando il corpo fosse quasi spento, le emozioni possono ancora portare sofferenza. Raccolti attorno a sé 5 compagni, decide però di interrompere la rigida ascesi intrapresa per andare alla ricerca della verità. I compagni lo abbandonano, preferendo continuare a digiunare, mentre Siddharta si siede sotto un albero fino a quando non giungerà alla conoscenza del vero. Nuovamente tentato da Mara, ancora una volta risulta vincitore. Ricorda così tutte le sue vite passate e capisce che IL DESIDERIO DI VIVERE è la prima causa della sofferenza. La via di salvezza sta nella via di mezzo che rifugge tanto le passioni quanto le mortificazioni eccessive. È la via che porta al NIRVANA (ciò che non è = annullamento). Da questo momento diventa il risvegliato (BUDDHA) e non è più Siddharta. Potrebbe morire e disciogliersi nel Nirvana ma la compassione per gli uomini gli fa prendere la decisione di attendere e dare vita alla prima comunità di discepoli che possano diffondere la sua dottrina. Chiama i primi 5 discepoli ed espone il “discorso della messa in moto della ruota della legge” o predica di Benares, raffigurato da una ruota a otto raggi. La dottrina è il dharma e a mettere in moto la ruota è il Buddha. Predica per 45 anni e alla sua morte (estinzione) avviene dopo la conversione della famiglia. Muore nel 483 aC. Alla morte del Budda ci si accorge subito che bisogna risolvere il problema delle reliquie a causa della grande fama. La salma è bruciata e le ceneri ripartite in 8 porzioni e ripartite sotto altrettante “STUPA” o tumuli. Tale è la sua santità che se ne conservano anche i legni con cui se ne bruciarono le spoglie mortali. La dottrina del Budda si fonda su 4 verità che sono il contenuto della prima predica che Budda fa ai suoi primi discepoli, 4 verità che mettono in moto la ruota della legge del dharma. Detta anche “discorso di Benares”, poiché dette nel boschetto a pochi km da questa città. La prima verità è quella sulla sofferenza: la vita è dolore, poiché stare nel dolore è sofferenza e allontanarsi dalla gioia è sofferenza quindi se si vive non si può che soffrire. Se il principio persistente è l’atman per gli Indù, Budda parla di 5 aggregati o categorie che costituiscono la vita psicofisica dell’uomo: la materia (o forma tangibile), le sensazioni (incontro tra oggetti e organi di senso), la percezione (la facoltà di riconoscere oggetti altri da noi), le formazioni mentali (volontà, inconscio, tutte le eredità della vita passata), la coscienza (la capacità di identificare le caratteristiche degli oggetti esterni a noi sulla base di precedenti esperienze). Ci sono 6 oggetti (5 sensi + immagini mentali) che avviano i processi cognitivi. I 5 aggregati hanno un elemento che li contraddistingue: sono soggetti a nascita, persistenza temporanea, declino e morte. Da una vita a quella successiva non permane quindi l’atman bensì questi 5 aggregati. L’atman era come una goccia da un mare di eterno e rimaneva identico da una vita all’altra. Qui è più tenue ciò che passa da una vita all’altra, come un fuoco che si trasmette da un cumulo di foglie a un altro: resta una scintilla del fuoco precedente, ma il fuoco che brucia è nuovo. La seconda verità è che all’origine del dolore sta il desiderio di esistere. Questo desiderio ci lega alla vita e quindi all’oscillare tra gioia e dolore, secondo un legame rigido di causa-effetto, una vera e propria catena di eventi. Identifica 12 cause (NIDANA), la prima delle quali è l’ignoranza, cioè il non sapere che esiste un principio eterno, ritenendo invece vere le cose molteplici e illusorie. La seconda casa sono le azioni passate che determinano la rinascita. La terza causa sono i 5 aggregati che si riunificano dando origine alla vita medesima (tra questi c’è la coscienza, origine dell’illusione di essere io staccato dagli altri esseri). La quarta causa sono le norme e la forma visibile della persona, che originano gli organi di senso (quinta causa), domati dalla mente; organi di senso + mente permettono il contatto con l’esterno (sesto elemento della catena); settima causa sono le sensazioni da questo contatto derivate; che provocano un desiderio di vita (ci attacchiamo a ciò che ci piace) – ottava causa – che portano – nona causa – all’attaccamento ai 5 aggregati, cioè a stare a contatto con il mondo e con l’esistere individuale. Tutto questo genera il processo del divenire (siamo di nuovo alla legge del divenire – decima causa) che genera le rinascite (undicesima tappa) da cui deriva la morte (12ma tappa). Così il ciclo è pronto a ripartire. Il processo spiega come esso avvenga ma indica anche come romperlo: basta sopprimere le cause dell’esistere e della sofferenza. Per questo c’è la terza verità. La terza verità è che l’unico rifugio è il NIRVANA, quando non si nasce più. È un termine specifico del buddismo ma usato anche da induismo e giainismo. NIR indica privazione e VA indica soffio, cioè un luogo in cui non c’è più il soffio vitale. La meta suprema cui ognuno deve tendere è il nirvana, cioè “tutto ciò che non è”, una beatitudine che si può generare solo quando non c’è altro, la mente è azzerata, gli aggregati scomparsi. La quarta verità indica la strada per giungere a questa verità, cioè il nobile sentiero dell’ottuplice passo, cioè le otto tappe che portano al Nirvana. La prima tappa necessaria è vedere che tutto è impermanenza e dolore (perfetta visione), la seconda tappa avere perfetta ragione, cioè pensieri liberi da desideri e malevolenza, la terza è la perfetta parola (non mentire ma neppure parlare invano); la quarta è la perfetta azione (non uccidere, non rubare, non avere relazioni illecite); la quinta è la vita perfetta (astenersi da quanto può danneggiare il prossimo: vendere armi, alcolici, droghe…); la sesta è il perfetto sforzo, cioè evitare condizioni negative ed eliminare quelle che ci sono, vivere in ambienti che favoriscono la carità, incrementando l’armonia intorno a sé; la settima tappa è la perfetta consapevolezza: inizio della meditazione, permette di vedere le cose per quello che sono, cioè vane, essendo sempre presenti nel “qui e ora”, vigilando su pensieri e sensazioni; l’ottava è la perfetta concentrazione: una fase di meditazione profonda, molto legata allo yoga, che accresce le facoltà mentali, liberando dal dominio dei sensi, staccando dai legami con la terra. Se praticata nel modo giusto, genera 6 forme di conoscenza e di coscienza superiore: poteri magici (poter volare, levitare), l’orecchio divino, la telepatia, la chiaroveggenza (visione di eventi futuri), stimola il ricordo delle vite passate, distrugge tutte le impurità che servono per raggiungere il Nirvana. Queste otto tappe hanno anche bisogno della pratica di 4 virtù: (1) la bontà e un’amorevole gentilezza verso ogni creatura (METTA = gentilezza); (2) la compassione universale (che deve scaturire poiché tutte le creature, in quanto esistono, soffrono come noi); (3) la gioia altruistica per la felicità altrui (occorre essere felici per i felici e i fortunati); (4) l’equanimità (vedere come eguale ciò che è buono e ciò che è cattivo, oro e terra, amici e nemici). L’avvicinamento al NIRVANA è graduale, non ci si arriva di colpo. Paradossalmente, più ricordiamo le vite precedenti e più vorremmo arrivare al Nirvana dove tutto è dimenticato. Giunti alla perfetta concentrazione, si rinasce solo più 7 volte, per eliminare gli ultimi residui (attaccamento ai sensi, malevolenza), finché si rinasce una sola ultima volta. Chi è sulla terra per l’ultima volta è detto BODHISATTVA cioè l’essere destinato a diventare un Budda, un risvegliato. Potrebbe entrare già nel Nirvana ma spinto da compassione universale aspetta che tutti gli esseri umani abbiano il risveglio e in un qualche modo entrerà per ultimo. Il BUDDHA è entrato nel Nirvana, ma ha atteso che tutti conoscessero almeno la dottrina. La prima comunità monastica (SANGA) fondata da Budda è quella con i suoi 5 primi discepoli. Si allarga rapidamente e assume la struttura che avranno poi tutte le comunità: monaci, monache, laici e laiche. L’ingresso è aperto a tutti tranne i soldati (troppo in contrasto con la dottrina buddista), i minorenni (ancora dipendono dai padri), coloro che hanno debiti (cui non potrebbero far fronte una volta in comunità), i delinquenti, gli schiavi, i malati infettivi, i così poveri che non possono neppure permettersi tunica + ciotola. Non si ha notizia di un sovvertimento delle caste, ma restando l’idea della reincarnazione ognuno è nella casta che si ritiene esistere a seconda delle azioni compiute, poi ognuno può entrare in monastero… Ai più poveri non si procurano tunica + ciotola perché (1) sarebbe un bene di base, diverso dal superfluo che i laici possono dare ai monaci e (2) se sono così poveri è perché hanno fatto qualcosa di erroneo per meritare quella posizione e dovrebbero riscattarsi e nella vita successiva riprovarci. All’inizio Budda non voleva le donne (problema della castità), poi cede alle insistenze della parentela ma restano forti discriminazione. Mendicano, senza possedere nulla se non la ciotola, per uccidere e disgregare così il proprio io. Ci si allontana dalla società, ci si educa alla disciplina, si rasano i capelli e si indossa la tunica, quindi si inizia la strada per giungere ai voti. Si fa voto di non rubare, non uccidere, essere casto, non mentire, non consumare sostanze inebrianti, di non mangiare al di fuori delle ore canoniche (da dopo pranzo fino al mattino successivo: fa solo due pasti). Si è assistiti da due precettori. Quindi si è ammessi per silenzio-assenso alla ordinazione monacale. Tutti i canoni sono improntati al rispetto della disciplina monastica (rispetto a cui le donne generano difficoltà). Due volte al mese si confessano pubblicamente le mancanze per purificarsi. Solo gravi colpe, come l’omicidio, portano all’espulsione. Il monastero non è permanente, ma una struttura provvisoria che offre riparo durante la stagione delle piogge, dopo di che ognuno vaga mendicando in solitario, per ritrovarsi quando poi cominciava la stagione delle piogge. Morto Budda, mancano i discorsi scritti del maestro e ci si pone il problema di come trasferire il suo insegnamento. La comunità si è molto allargata e quindi occorre dare un carattere di stabilità, per cui si indice il primo concilio. Siamo nella zona nord dell’India, dove è vissuto il Budda. Si fissa un canone detto TIPI’TAKA con lo scopo di fissare discorsi, insegnamenti, parabole del Budda nel modo più fedele all’originale. Siamo nel 480 a.C., nella prima stagione delle piogge dopo la morte del Budda. Si fissa il canestro della disciplina. Contiene le regole per i monaci. È redatto dalla scuola degli anziani che si rifanno alle parole del maestro (come testimoni della prima ora). Le parole narrative entrano nel SUTTAPI’TAKA (canestro delle prediche). Circa nel 300 a.C. si rimette mano ai discorsi, recitandoli di nuovo, esprimendo la volontà di scindere la comunità poiché una parte pare più lassista rispetto alla dottrina originaria (accolgono più donazioni di quanto servano per vivere). Si fa così un secondo concilio che sancisce uno scisma e la nascita di due comunità: i “permissivi” indicono un contro-concilio che reinterpretano gli aspetti più rigorosi della disciplina e danno origine a una corrente detta MAHAYANA (Grande Carro). La grandezza del carro viene dalle maglie più larghe della disciplina (per cui entra più gente, rispetto al “piccolo carro” che penserebbe soltanto all’élites capaci di osservare rigidamente le norme). Intorno al 245 a.C. abbiamo il terzo concilio, quando regna ASHOKA, il re che si converte, ed è un convegno riconosciuto da tutte le scuole. Elabora il DAMMAPI’TAKA (canestro dell’essenza della dottrina). Da questo momento partono i primi missionari che raggiungono l’India e vanno anche oltre. Cosa che i primi monaci non avrebbero fatto, ma che è esigenza della seconda via o porzione buddista. Si predica però il buddismo delle origini che ancora oggi è praticato nell’isola di Ceylon. Le due scuole TERAVADA (tradizionali) e MAHAYANA (scismatici) sono ormai indipendenti. Nel I sec a.C. si tiene il IV concilio, non riconosciuto dai Teravada, e si trascrivono i testi dal PALI al SANSCRITO per favorirne la diffusione. Non scompaiono i Teravada, ma prevalgono i Mahayana e la teoria che la salvezza debba essere offerta al maggior numero possibile di fedeli (chiamati a salire sul GRANDE CARRO), cosa resa possibile dal ruolo di figure intermedie come il BODHISATTVA (che si arresta un passo prima nell’attesa dell’umanità), una figura che i tradizionalisti NON riconoscono (pensando che invece ci sia solo un percorso individuale e solo Budda è stato Bodhisattva). La devozione verso i bodhisattva è un secondo elemento che distingue le due scuole (i Mahayana la ammettono, i Teravada no). Compaiono aspetti magici del culto, insieme a elementi di devozione popolare e locale. I Mahayana ritengono che i testi da loro custoditi siano autentici, del Budda, ma furono conservati per i tempi successivi perché nascosti dagli spiriti serpenti (NAGA dell’Induismo). Terza corrente (II-III sec. d.C.) è quella del CARRO DI DIAMANTE (VAJARAJANA) che risente di contatti con i testi dei purana, si allontana ancor più dalla tradizione buddista e si riprendono aspetti tantrici dell’induismo (le divinità femminili). Si ricorre molto di più a meditazione yoga + mantra come strumenti per potenziare la conoscenza ed entrare in contatto con il mondo sovrasensibile, elementi che nel primo buddismo avevano poco spazio. La divinità/bodhisattva principale è AVALO’KITE’SVARA e il mantra che gli si rivolge è OM MANI PADME UM (il gioiello/Budda del mondo fenomenico = si invoca la buddità nel mondo presente, cioè Avalo’kite’svara). Uno strumento per la preghiera sono i MANDALA, le costruzioni che poi si distruggono, riproduzioni dell’universo con al centro la forma del Budda e attorno altri elementi divini che via via compaiono (ma erano assenti nel buddismo tradizionale). Osservare la realizzazione di un mandala è come percorrere una via di perfezione in breve. È un modo diretto per ribadire l’impermanenza. Con il buddismo tantrico (terza corrente) si formano diverse scuole nel X sec d.C., ad esempio KALACHAKRA (a scuola della ruota del tempo) e si diffondono rapidamente e un po’ ovunque fuori dall’India. La massima diffusione in India del buddismo è nel 250-500 d.C. e la nascita delle diverse scuole lo fa scomparire lentamente, riassorbito dall’induismo. Uno degli avatara di VISNU era Budda, che raccontava la falsa dottrina, come segno che l’induismo si riappropria di quanto gli appartiene. Il colpo di grazia gli verrà dalla diffusione dell’Islam in India. In Nepal, dove il Budda era nato, scompare il buddismo originario e resta come contaminazione con l’induismo. Oggi conosciamo il buddismo tibetano, del TIBET, dove si radica nel VII sec. d.C., soppiantando la religione BON, dal forte impatto animistico-sciamanico. Il primo monastero viene fondato nel 779 da un maestro che segue la corrente del CARRO DI DIAMANTE (buddismo tantrico) chiamato PADMASAMBHAVA. I testi nati in pali e già trascritti in sanscrito vengono trascritti in tibetano. È caratterizzato dalla figura del LAMA e dunque si denomina LAMAISMO il buddismo tibetano. Le scuole si riformano rapidamente, fino al XIV sec., allorché viene stabilito il nuovo centro di irradiazione che è la città tibetana di LAZA. Leggiamo dei testi… IL SAGGIO Se vedi un uomo che ti riprende dai difetti, seguilo. Tienilo caro. Non frequentare i vili. Chi si disseta con la legge (il nobile ottuplice sentiero) resta con la mente calma. I saggi sono sereni come laghi trasparenti. I saggi non desiderano le cose altrui. Pochi sono gli esseri che toccano il Nirvana, l’altra sponda, mentre la maggior parte corre lungo la spiaggia (si reincarna). Chi è libero dall’attaccamento e dagli appetiti ha raggiunto la liberazione pur essendo in questo mondo. L’OCA D’ORO Il futuro Budda rinasce come oca d’oro con la capacità di ricordare le precedenti vite. Decise di dare le proprie piume alla moglie e alle figlie per alleviare la loro povera vita. Rivela loro di essere il futuro Budda. Di tanto in tanto torna a donare una piuma. Per il timore che l’oca non torni, la madre la spenna completamente, ma le piume, strappate a forza, restarono senza oro. La donna lo chiuse in un vaso e lo nutrì, aspettando che nascessero nuovamente le piume, ma queste erano normali, così la lasciò libera di andarsene e l’oca non fede più ritorno… LAMA è una parola di origine mongola. I mongoli avevano diversi scambi col Tibet. Quando il buddismo si sposta in Tibet trova la religione BON con elementi magici e divinità che si innestano sul buddismo. L’ultima scuola del buddismo tibetano è fondata da TSONG-KHA-PA (XV sec d.C.), monaco che fissa a LAZA la capitale del buddismo come pratica e studio. Per differenziarsi da alcune correnti permissive, chiama la sua come scuola dei berretti gialli (opposti ai berretti rossi) o dei virtuosi. Hanno la figura centrale del bodhisattva ma altresì predica la teoria della VACUITA’, cioè della ricerca del vuoto. Istituisce pure il celibato – abbandonato dai berretti rossi. Nel 1577/8 il terzo successore del fondatore, considerato reincarnazione del bodhisattva Avalo’kite’svara viene nominato DALAI LAMA (maestro dell’oceano di saggezza). A questa figura corrisponde anche un analogo femminile. Il DALAI LAMA è considerato reincarnazione di alcune parti di AV. (in una persona o in più persone). Le persone che hanno alcune parti del DALAI LAMA AV. hanno la facoltà di riconoscere le cose appartenute ai precedenti e persone con tale facoltà si chiamano TURKU. L’attuale DL è il XIV ed è stato proclamato nel 1950. Questo buddismo arriva anche in Russia e nel nord dell’India. I buddisti sono dunque coloro che seguono i tre gioielli: (1) il Budda storico, nato nel 563 a.C., (2) il DAMMA (nome pali che indica il DHARMA) che non è solo l’ordine morale-religioso induista ma l’insegnamento del budda, la via di perfezione, il comportamento coerente, per cui include le 4 nobili verità e il nobile ottuplice sentiero; (3) il SANGA fondato dal Budda, composto da monaci/he e laici/he al budda devoti. Il Budda non scrisse nulla, ma quello che oggi si legge e recita fa riferimento alle trascrizioni delle diverse scuole successive alla tradizionale, che però dichiarano di averle ricevute dal Budda medesimo. Altro elemento è il Bodhisattva che è stato Budda per primo ma ora si è dissolto nel Nirvana, lasciando lo spazio a molti altri che restano sulla terra per attendere l’ingresso dell’umanità nel Nirvana (per compassione cosmica). Questi sono pregabili (maschili e femminili), mentre il Budda ormai no. Dire che è “una religione senza dei” vale per il buddismo nel senso che non ci sono dei puri, ma bodhisattva nel senso di figure intermedie. COME IL BUDDISMO arriva in CINA. L’imperatore HAHN fa un sogno premonitore in seguito al quale spedisce degli inviati in India per incontrare monaci buddisti (o spiarli) nel 50 d.C., circa 600 anni dopo la nascita di Siddharta (Budda). Vero o no, in Cina era arrivata voce dei monaci buddisti e nel I sec iniziano contatti per scambi commerciali lungo la via della seta. La CINA del I sec è plasmata dal confucianesimo che non aveva un grande interesse per lo spirito ma anela al ritorno a una citta perfetta retta dall’imperatore, come una età dell’oro che sarebbe tornata in auge con una vita rigorosa e moralmente integra. Cosa opposta alla vacuità di Budda. Ma il TAOSIMO di Lao-Tzu predicava il ritorno a un fluire armonico della realtà, dunque era più simile al buddismo, tanto che i primi buddisti cinesi usano lessico taoista per esprimere la loro dottrina. E Budda è visto come una delle forme terrene di Lao-Tzu. Il Buddismo si “cinesizza” nelle forme dei templi, nei riti, nel culto agli antenati e allo stato (assenti nel buddismo originario) e al bodhisattva tantrico Av. si unisce una controparte femminile (KWAN-YIN). In Cina si formano 8 scuole di buddismo, diverse tra loro, la più celebre delle quali è quella della terra pura il cui culto si rifà al budda AMITABHA con un bodhisattva molto forte, la cui invocazione era sufficiente per la salvezza. Il massimo splendore del buddismo cinese di ha nel 6/900 d.C. in cui la Cina ritrova un momento di profonda spiritualità e si ha una forte presenza del budda (ma con fattezze diverse, emblema di fertilità, ben lungi dalla vacuità buddista). Lo scambio col taoismo funziona bene fino a quando quest’ultimo entra in crisi e si perseguitano a metà del IX sec i monaci e i laici buddisti, svuotandone i monasteri e riportando i monaci alla vita laicale, distruggendo oltre 4500 templi. Da qui in poi il buddismo cercherà vie di sopravvivenza ma in modo assai limitato. Tre sono le principali scuole che rinascono dopo le persecuzioni: la prima cura il benessere all’interno della società, quella della terra pura con al centro l’idea della grazia divina, e infine la scuola chan per la quale la meditazione è via di perfezione personale. IL BUDDISMO in GIAPPONE Arriva nel IV sec passando per la Corea. Nel VI sec viene dichiarato religione di stato, ma dovrà presto fare i conti con la precedente religione: lo SHINTOISMO. Ne verrà una terza via detta “SHINTOISMO DEGLI DEI” o “DEI DUE ASPETTI”, che recupera le figure venerate nello Shintoismo (CAMI, figure di antenati a cui si presta un forte culto, o spiriti di natura). La figura di Budda si identifica rapidamente con la dea del sole AMATE’RASU. La più famosa scuola buddista giapponese è quella ZEN in cui la meditazione per l’accrescimento delle facoltà psicofisiche diviene estrema disciplina del corpo e della mente che ne governa le passioni. In questa scuola si formano i SAMURAI con estremo rigore. Nel XIII sec d.C. si sente la necessità di tornare alle origini del pensiero del Budda (ai tre gioielli), ribadendo che solo la venerazione del Budda (cioè del suo insegnamento, secondo la scuola TERAVADA della tradizione originaria). Da lì si diffonde in Indonesia, Laos, Tailandia, Cambogia… TIPI’TAKA I tre canestri sono in lingua PALI e vengono raccolti dal I concilio (circa 100 anni dopo la morte del Budda) per conservare l’insegnamento che Budda non ha mai scritto. Ci sono le regole per i monaci, molte parabole, ed è la raccolta + importante del pensiero buddista. I canestri sono 3 e la loro conoscenza rende possibile il perfezionamento di sé. Canestro della DISCIPLINA, dei DISCORSI, dell’ESSENZA DELLA DOTTRINA. La prima studiosa italiana che cercò di farne edizione critica stese 200 pagine di indici: una estensione enorme. La DISCIPLINA regola la vita dei monaci, elenca le trasgressioni da accusare, le relative punizioni, per mantenere il + salda possibile la comunità. Quello de DISCORSI riporta invece testi e parabole del Budda o dei suoi primi 5 discepoli, spesso in forma di dialogo o aforisma, con formule ripetitive che aiutano la trasmissione dei contenuti. Quello della ESSENZA DELLA DOTTRINA riprende i discorsi della raccolta precedente, magari in forma breve, come aforismi e commenti, e consta di 7 libri. Sono gli insegnamenti dottrinali principali. Esistono poi moltissime opere para-canoniche, successive a queste prime tre. Il BUDDISMO in 8 domande Chi era il Budda – era un principe indiano Budda – il “risvegliato” (NON illuminato) L’albero sotto cui si risveglia – melarosa o albero della bodhi Le verità fondamentali sono 4 I tre canestri sono 3 testi sacri L’ottuplice sentiero è una via per il Nirvana Il numero sacro buddista è 108 (tante sono le tentazioni lanciate contro Budda la prima notte) Lo stupa contiene una reliquia del budda (le ceneri) La ruota della preghiera (buddismo tibetano) viene fatta girare dai fedeli e all’interno contengono il mantra OM… e dovrebbero aiutare la salita delle preghiere al cielo, muovendo le bandierine colorate che stanno in cielo I monaci buddisti – vivono poveramente (tunica e ciotola), sono vegetariani, meditano… BUDDHISMO (Mariangela D’Onza Chiodo, Queriniana 2000) Antecedenti storico-religiosi del buddhismo Intorno al 1500 aC un popolo nomade, gli indo-ari, penetrano in India da Occidente, dando il colpo di grazia alla civiltà agricola e sedentaria della valle dell’Indo (o di Harappa). Ormai in fase di decadenza, questa civiltà aveva raggiunto un certo grado di sviluppo anche religioso, così da influenzare i culti successivi (principio creativo, idea di fecondità, simbolismi poi adottati dall’induismo). Nei VEDA – composti proprio al tempo dell’invasione – si troverebbe un riflesso dello scontro armato tra invasori e Harappa. La società indo-ari si articola in tre categorie: i sacerdoti (BRAHMANA), i guerrieri (KSATRIYA), pastori-contadini-artigiani (VAISYA), e successivamente i servi (SUDRA). Le prime tre categorie insieme sono dette ARYA (nobili), l’ultima ANARYA. Alla casta sacerdotale spetta il compito di apprendere a memoria i testi sacri vedici e celebrare riti di sacrificio per placare e ingraziarsi gli dei. Tanti sono i riti domestici e di passaggio, officiati dal capofamiglia, ma solo i brahmani possono celebrare i riti solenni e padroneggiare il BRAHMAN, la forza sacra che si sprigiona da essi. Una forza cosmica capace di trasformare ben presto il rito da preghiera di propiziazione a pratica capace di “costringere” gli dei a soddisfare le richieste loro rivolte, rendendo il sacerdote che detiene la tecnica sacrificale una sorta di ‘dio in terra’, capace di influire fortemente anche sul potere politico e sull’organizzazione sociale. Nel lungo periodo di assestamento degli indo-ari (X-VIII sec aC), la religiosità diviene dunque essenzialmente ritualità. Di contro al ritualismo sacerdotale, si sviluppa un movimento ascetico di “dissidenti” provenienti dall’aristocrazia guerriera che preferiscono dedicarsi a meditazione ed ascesi, vivendo ritirati dal mondo, praticando lo yoga. Sono documentati nei primi testi filosofici dell’India, cioè le UPANISAD (sedute presso un maestro) dette anche VEDANTA (parte finale dei Veda), in cui si mette in discussione la riduzione della religiosità a ritualità e si sposta l’interesse dal mondo esteriore a quello interiore. Il termine BRAHMAN, che indicava il potere magico della parola sacrificale, passa a indicare la Realtà suprema, assoluta e infinita, il Creatore, di fronte a cui tutti gli dei sono subordinati. Essenza dell’essere umano è l’ATMAN, il sé, che resta immutato nel divenire del complesso psicofisico dell’uomo e che di fatto coincide con il BRAHMAN, poiché il microcosmo umano non è che riflesso del macrocosmo universale. Nelle Upanisad si trova anche la dottrina della trasmigrazione (SAMSA’RA) condizionata dalle azioni (KARMAN) compiute in vita che determinano il ciclo di rinascite secondo forme inferiori (animali, vegetali) o superiori (uomini, dei). Anche i sacrifici aiutano a purificarsi e a migliorarsi, ma sono inferiori alla suprema Conoscenza. La dottrina del KARMAN diventa forte movente alla vita morale e fattore di stabilità sociale (la nascita in una certa casta dipende dalla vita precedente e dunque va accettata). Solo quando si arriverà alla piena consapevolezza dell’unità di Atman e Brahman si potrà unirsi all’Assoluto, realizzando la liberazione (MOKSA) dal ciclo delle rinascite. La classe sacerdotale integrerà con la propria religiosità i capisaldi delle Upanisad (rinascite, Karman, Atman = Brahman) definendo la morale come base per la purificazione, ma indicando nell’ascesi una via privilegiata (oltrepassando quindi l’esclusivo ritualismo iniziale). Il cammino verso il MOKSA si realizza in 4 tappe: in gioventù, l’apprendimento mnemonico dei testi sacri sotto la guida di un maestro e la castità; nell’età adulta, vita famigliare come marito e padre; nell’età matura, digiuno e penitenza nel ritiro nella foresta; nell’ultimo stadio di vita, la completa rinuncia alle cose del mondo, nell’assoluta povertà. Intorno al VI sec le popolazioni ariane sono sedentarizzate, occupando tutta la pianura del Gange, divisi in stati (monarchie/oligarchie), con ricchi scambi commerciali e marittimi. In un clima di profonda trasformazione sociale, non mancano le sette che contestano l’autorità dei VEDA e rifiutano il sistema delle caste. Nel contempo, grande è la fioritura del pensiero: Confucio e Lao-tzu in Cina, Zarathustra in Persia, Pitagora in Sicilia, Parmenide e Zenone in Magna Grecia. È in questo contesto socio-culturale che compare il buddhismo. La vita del Buddha fra storia e leggende Le più antiche biografie del Buddha – in lingua pali o sanscrito, ispirate e originali risalenti a un secolo dopo la sua morte e andati perduti – non parte dalla sua nascita ma da quanto il futuro Buddha, colui “la cui essenza è illuminazione” (BODHISATTA) è rinato in condizione di privilegio nei cielo degli dei beati e aspetta di reincarnarsi nell’ultima vita, prima di ottenere la definitiva liberazione. Le verità insegnate dal Buddha sarebbero state scoperte da altri 6 (poi 24) Buddha-non-storici e poi da lui raccolte. Si tratta ora di valutare 5 parametri di rinascita: quando, dove, in che famiglia, con che madre (destinata a morire 7 giorni dopo il parto), per quanto vivere. Sceglie la città di Kapilavatthu, capitale di un principato confinante col regno di Kosala, ai piedi dell’Himalaya. Qui regna Suddhodana la cui sposa, Maya, possiede i requisiti per divenire madre del Buddha. Il concepimento avviene senza intervento paterno: la donna sogna un piccolo elefante a 6 zanne che le entra nel ventre dal fianco destro e i brahmani di corte predicono la nascita di un figlio destinato a divenire un Illuminato (BUDDHA). Nel giorno di luna piena del mese di Vesakha (aprile-maggio), Maya partorisce Buddha. Siamo nel 563 aC (ma ci sono teorie in favore di date diverse). Il neonato, accolto su un panno bianco dai 4 dei guardiani dei 4 punti cardinali, si alza subito in piedi e compie sette passi, contempla il mondo intero e, con voce di leone, afferma di essere il migliore al mondo ed essere nato per salvare l’umanità. Il saggio Asita riconosce sul corpo del bambino i 32 segni fisici principali propri degli uomini eccezionali, e ne predice la perfetta illuminazione e la piena liberazione dal ciclo delle rinascite. Al bimbo viene così posto il nome di SIDDHARTA (“colui che ha raggiunto lo scopo”), col paronimico GOTAMA (ma anche BHAGAVAT, il beato). Persa la madre al settimo giorno di vita, affidato alle cure della zia, la biografia riporta numerosi episodi della sua eccezionale infanzia. Fin da piccolo, avrebbe raggiunto il primo grado della meditazione restando in estasi sotto un albero di melarosa che avrebbe mantenuto fissa su di lui la sua ombra per proteggerlo dal sole… Educato come un nobile guerriero, a 16 anni sposa la cugina e dopo 13 anni di matrimonio ha un figlio, Ra’hula. Fino a 29 anni vive dunque tra agi e piaceri. Ma gli dei lo riportano al suo destino propiziandogli tre incontri nel parco reale che lo impressionano: un vecchio, un malato, un cadavere. Siddharta capisce così che la vecchiaia, la malattia e la morte sono il destino comune degli uomini. Il quarto incontro, successivamente, è con un eremita, dal quale traspare la perfezione della vita ascetica. Rientrato a palazzo, inquieto e desideroso di vera pace interiore, Siddharta saluta con lo sguardo moglie e figlioletto addormentati e, nottetempo, abbandona il palazzo, con le porte della città invano serrate dal padre Suddhodana che aveva intuito l’inquietudine del figlio e voleva impedirgli la fuga – che si aprono magicamente davanti a lui. È il 534 aC, l’anno della grande rinuncia. Inseguito da Mara, personificazione della morte, Siddharta viene tentato dalla prospettiva di diventare in 7 giorni un monarca universale, ma resiste e continua a cavalcare, accompagnato da segni prodigiosi che rendono davvero mitica la notte della rinuncia. Le fasi successive della sua vita sono narrati con maggior realismo: asceta mendicante, intraprende un laborioso cammino spirituale che lo condurrà a diventare un Buddha. Peregrina per sette anni, seguendo un maestro, Alara Kalama, da cui apprende la “sfera del nulla”, cioè la dottrina della inesistenza sostanziale delle cose, ma Siddharta vuol spingersi verso più alti livelli di meditazione. Al seguito del maestro Uddaka Ramaputta apprende alte tecniche di meditazione, non sufficienti però per liberarsi dalle passioni. Presi con sé 5 discepoli, si avvia quindi alla volta di GAYA, città del Magadha, e si sistema presso il fiume Neranjara. Con macerazioni, digiuni e penitenze per 6 lunghi anni giunge fino in punto di morte. Decide quindi di riprendere a nutrirsi per cercare una via di liberazione ancora più efficace e i 5 discepoli lo abbandonano delusi per aver tradito l’ideale ascetico della vita di digiuno. Siddharta, compiuto un bagno purificatore nel Neranjara, si pone presso l’albero della illuminazione (BODHIRUKKHA) e si siede a meditare a gambe incrociate, come aveva fatto da bambino sotto l’albero di melarosa. Tentato ancor da Mara, con visioni terrificanti o seducenti, Siddharta resiste e al tramonto si immerge in profonda meditazione, ripercorrendo tutte le sue vite precedenti, intuendo il rapporto causale tra azioni e rinascite, intuendo tra gli estremi delle passioni e delle inutili mortificazioni la VIA MEDIANA che conduce alla illuminazione e al NIRVANA. Da questo momento è un BUDDHA, uno svegliato o illuminato, che pronuncia la sintesi della sapienza raggiunta: “Attraverso nascite e rinascite infinite io corsi, / cercando invano il costruttore della casa. / È dolorosa la perpetua rinascita! / O costruttore, io ti ho trovato; / tu non costruirai più la casa! / Tutte le tue travi sono infrante, il tetto è distrutto. / La mia mente, liberata, ha raggiunto l’estinzione di tutte le brame” (DHAMMAPADA, 153-4). Buddha medita 7 giorni, poi resta 6 settimane (+1 = 7) in gioia estatica e pace interiore. Mara lo tenta prospettandogli di entrare subito nel Nirvana, senza perdere tempo a diffondere una dottrina inaccessibile ai più, ma per compassione per l’umanità Buddha sceglie di non accedere al Nirvana senza prima aver organizzato una comunità di discepoli. Richiama così i primi 5 compagni, stabilitisi nel parco delle Gazzelle presso Benares e offre loro il famoso sermone detto PREDICA DI BENARES in cui espone i contenuti principali della sua dottrina. L’iconografia lo vede accanto a una ruota a otto raggi (la dottrina, il DHARMA), nell’atto di metterla in moto. Dopo questo primo sermone, predica in modo itinerante nella valle del Gange per circa 45 anni, fino alla morte, raccogliendo discepoli tra i famigliari (moglie e figlio) e tra le diverse caste sociali. Muore lasciando un monito ai suoi discepoli: “Tutte le cose del mondo sono transitorie”. È il 483 aC. Il corpo viene cremato e le ceneri/reliquie conservate in otto monumenti funerari, poi redistribuite – secondo la leggenda – in 84.000 tumuli (STUPA) in tutta l’India. La dottrina Consta di 4 punti: (1) la verità sulla sofferenza (DUKKHA), (2) la verità sull’origine della sofferenza, (3) la verità sull’estinzione della sofferenza, (4) la verità sulla via che conduce all’estinzione della sofferenza. La prima verità afferma che ogni forma di esistenza è soggetta al dolore (nascita, vecchiaia, malattia, morte, desiderio, sofferenza). Non esiste un atman eterno, ma l’uomo è composto di 5 aggregati (KHANDHA): la FORMA (corporalità, costituita dai 4 elementi: terra, acqua, fuoco, vento); le SENSAZIONI (piacevoli, spiacevoli, neutre) che risultano dal contatto dei 6 organi di senso (5 +la mente) con i relativi oggetti; la PERCEZIONE (facoltà di riconoscere gli oggetti esterni); le PROPENSIONI (volontarie e inconsce); la COSCIENZA (che raccoglie le caratteristiche dei 6 oggetti e rappresenta l’insieme dei processi di ragione). La persona NON esiste, bensì ci sono soltanto aggregati soggetti alla ferrea legge del divenire. Ciò che passa da una vita all’altra non è dunque atman, bensì l’insieme di 5 aggregati transitori e mutevoli. La seconda verità consiste in una catena di 12 anelli che spiega in modo rigidamente causale l’origine della sofferenza, partendo con l’ignoranza e concludendosi nella morte, da cui ancora riparte una nuova catena secondo la dottrina delle rinascite. Solo la conoscenza permette di liberarsi da tale ciclo di esistenze e di sofferenza. Per liberarsi, occorre ripercorrere la catena in ordine inverso, scoprendo l’origine ultima della sofferenza (cioè l’ignoranza) per potersene poi liberare. La felicità coincide dunque con la fine della sofferenza cioè l’assenza di qualsivoglia sensazione (terza verità) e ad essa si giunge (quarta verità) con la via mediana o “nobile ottuplice sentiero” cioè: 1--retta visione (rispetto alla universale sofferenza), 2--retto ragionamento (pensieri liberi da passioni), 3--retta parola (verità vs menzogna), 4--retta azione (non uccidere, non rubare, non avere relazioni illecite), 5--retta vita (non danneggiare il prossimo con commercio di armi o droghe), 6--retto sforzo (abbandonare condizioni nocive, ricercare e mantenere quelle favorevoli), 7--retta consapevolezza (inizio della meditazione), 8--retta concentrazione (giungere con complessi esercizi di meditazione a svuotare la mente). Otto gradini che si elevano attraverso la moralità, la concentrazione e infine la saggezza. Un ottuplice sentiero che va rinforzato con la pratica di virtù morali, al vertice delle quali c’è la compassione per l’umanità e l’equanimità, cioè uniformità di sentimenti rispetto ad amici e nemici, lodi e biasimi, gioie e dolori. Sono dunque tre i principi fondamentali della dottrina del Buddha: 1—ANICCA, cioè la caducità che segna ogni esistenza, effimera come un filo d’erba, e il conseguente predominio della morte 2—DUKKHA, cioè la sofferenza, realtà presente in ogni forma di esistenza. Non solo dolore fisico, ma soprattutto malessere interiore per la caducità dell’esistenza. Da contrapporsi vivendo nel presente, senza pentirsi del passato né preoccuparsi del futuro. 3—ANATTA, cioè il “non-sé”, per cui l’anima come entità immutabile (atman) non esiste, poiché tutto è transitorio, e il sé è solo un nome, una finzione. Per arrivare al NIRVANA si percorre un cammino graduale, prima vincendo i dubbi sulla dottrina del Buddha, poi superando i desideri dei sensi e la malevolenza, quindi distruggendo ogni legame con l’esistenza, fino a estinguersi come una fiamma che si spegne per sempre… Il BODHISATTA è un essere destinato a diventare un Buddha e che, per compassione, decide di restare sulla terra per predicare e insegnare la retta dottrina, invece di entrare subito nel Nirvana. La comunità buddista SANGHA è la prima comunità formata da Buddha e dai 5 discepoli che, dopo la predica di Benares, lo riconoscono come maestro. La cerimonia di ordinazione a MONACO è racchiusa nella semplice espressione EHI BHIKKHU (vieni, o monaco). Ampliandosi di numero i seguaci, dovettero codificarsi delle regole di ammissione e di vita monastica (VINAYA-PITAKA). Il SANGHA comprende monaci e monache, laici e laiche. Tutti possono entrarvi, senza distinzioni di casta né sociali (ma questo non significa che Buddha volesse sovvertire il sistema delle casti esistente fuori dalla comunità). Conta il rigorismo morale, aperto a tutti, contro l’esclusivismo brahmanico (il vero brahmano è tale per saggezza, non per nascita!). Sono però esclusi i soldati, ci non ha l’assenso paterno, ladri, schiavi, malati infettivi. Il postulante, fattosi rasare il capo, dichiara tre volte di rifugiarsi nel Buddha, nella sua dottrina e nel suo ordine. Accolto, il novizio si impegna a rispettare le regole comunitarie, indossando la veste gialla e portando con sé la ciotola di legno per la questua. Dopo alcuni anni di noviziato, una seconda cerimonia solenne sancisce l’ingresso in comunità. Dalla quale si è però sempre liberi di uscire, per tornare alla vita laica. La comunità è mendicante, per cui il monaco rinuncia anzitutto a ogni possesso né può praticare attività di lucro ma si affida alla provvidenza dei laici. Mendica fino a mezzogiorno e non mangia dal mezzogiorno al giorno successivo, dedicandosi in quelle ore di astinenza alla meditazione e alla predicazione. Pratica una radicale non violenza, fino a filtrare l’acqua da bere per non uccidere involontariamente piccoli insetti. Terza regola, dopo la povertà e la non violenza, è la castità assoluta. Benché tali regole divengano in alcuni tempi e luoghi meno severe, la donna è solitamente vista come ostacolo alla liberazione in quanto fonte di passione e desiderio. Ecco perché a lungo Buddha resiste alla richiesta della zia di istituire il monachesimo femminile, finché essa si presenta col capo rasato e accompagnata da 500 donne in abito monacale. Resta comunque che una monaca, per quanto anziana sia, deve maggior riverenza a un monaco di quanto non accada all’inverso. Buddha profetizzò il venir meno della purezza originaria in soli 500 anni invece che 1000 proprio a causa dell’ammissione delle monache. Quarta regola: non esibire né fare cattivo uso dei poteri spirituali acquisiti. In tutto, 220 regole, violare le quali comportava l’espulsione in casi gravi o la semplice accusa pubblica per le trasgressioni più lievi. La vita quotidiana prevede norme severe che aiutano a regolarsi e garantiscono la disciplina individuale (ogni monaco vigila su di sé e sulla comunità). Due volte al messe si confessano pubblicamente le colpe. I laici si impegnano sulle 5 regole fondamentali (non uccidere, non rubare, non essere intemperante, non mentire, astenersi da bevande inebrianti) e al dono (DANA) nei confronti della comunità dei monaci (cibo, vesti, medicine). Per quest’ultimo il monaco non ringrazia poiché la ricompensa per il laico sta nel dono come via di liberazione dell’egoismo e dal possesso. Il laico, non rinunciando alla vita attiva, non può liberarsi dalle rinascite (SAMSARA) in questa vita. Alla sua morte, Buddha non indica un successore, convinto che si debba obbedire alla dottrina e non a un uomo. Non prevede mediazioni divine o sacerdotali o rituali. Intima ai monaci di diffondere la dottrina con la predicazione itinerante. Passato del tempo e diffusosi il buddhismo, le comunità iniziano a divenire sedentarie e meno rigorose. Mentre prima ci si rifugiava nelle comunità solo nella stagione delle piogge, adesso sorgono veri e propri monasteri (VIHA’RA), e i monaci si suddividono in chi pratica la vita ascetica a piccoli gruppi e chi, invece, nei monasteri si dedica a studio e insegnamento della dottrina. È grazie ai monasteri che la dottrina del Buddha si radica, si espande anche fuori dall’India e assume forte valenza culturale. Pe arginare tendenze scismatiche o lassiste nelle varie comunità, si sente l’esigenza di mettere per iscritto la dottrina del Buddha. Già l’anno successivo alla morte di Buddha, si raduna un primo concilio di 500 monaci a RAJAGAHA che definisce la prima parte del canone buddhista (VINAYA-PITAKA o Canestro della disciplina). Il discepolo Ananda recita parabole e discorsi del maestro, permettendo così di elaborare la seconda parte del canone (SUTTA-PITAKA o Canestro delle prediche). Ma la trasmissione è ancora soltanto orale, fino alla redazione dovuta alla scuola dei THERAVADA (Anziani). Circa un secolo dopo, nel 383 aC, si ha una seconda elaborazione del canone, nella città di VESALI, con la divisione in due correnti (rigorista, del concilio, e lassista, che indice un controconcilio). Si arriva così a un terzo concilio (non riconosciuto da tutte le scuole) a PATALIPUTRA (245 aC) durante il regno di ASOKA grande protettore e diffusore della dottrina del Buddha. In questa occasione, per superare le divergenze di interpretazione, si elabora la terza e ultima parte del canone (ABHIDHAMMA-PITAKA o Canestro dell’essenza della dottrina) e si inviano monaci missionari in India e oltre i suoi confini, per diffondere la dottrina. Infine, un quarto concilio nel I sec dC avrebbe portato alla compilazione in sanscrito dei testi canonici. Delle 18 diverse scuole di pensiero radunatesi, avrebbe prevalso nel concilio quella dei SARVASTIVADIN (condannata in precedenza da Asoka in favore invece dei THERAVADA) che sostenevano appunto che “sarvam asti”, cioè tutto esiste. Evoluzione della dottrina La dottrina evolve e si separa in HINAYANA (piccolo carro) e MAHAYANA (grande carro). I secondi chiamavano dispregiativamente “piccolo carro” i fautori delle dottrine tradizionali (tra cui i THERAVADA) che affermavano la superiorità della loro fedeltà ai valori originari per giungere quanto prima al Nirvana. Di contro, i seguaci MAHAYANA affermavano la necessità di ritardare altruisticamente l’ingresso nel Nirvana per diffondere prima quanto più possibile la dottrina. Nasce così l’ideale del BODHISATTVA che ritarda altruisticamente la propria salvezza per aiutare ogni essere a giungere alla perfezione. Generato in sé il “pensiero del risveglio”, il bodhisattva si dedica a una lunga preparazione per diventare Buddha (risvegliato), un percorso che comprende molte tappe, nelle ultime delle quali il bodhisattva è un essere celeste e degno di culto, benché non ancora Buddha. Molti sono i bodhisattva indentificati storicamente, dentro e fuori l’India, come figure intermedie e dotate di grande saggezza e potere intercessorio. Se il Buddha storico è però la manifestazione dell’unico, assoluto DHARMA, i bodhisattva non sono che altre incarnazioni storiche che non mettono in dubbio l’unicità del Buddha. La scuola MAHAYANA introduce dunque la venerazione dei Bodhisattva ma altresì pratiche cultuali a loro rivolte per ottenere la grazia di ridurre il proprio KARMAN indipendentemente dai meriti acquisiti in vita. Punto centrale della dottrina MAHAYANA è la nozione di vacuità (SUNYATA) cioè la negazione della realtà fenomenica, arrivando a negare anche la realtà dei 5 aggregati (che invece lo HINAYANA / THERAVADA affermava come reali, benché transeunti). Questa vacuità assoluta pare contraddire l’altruismo dei bodhisattva verso altri esseri (che, a rigor di logica, non sarebbero reali) ma il problema si risolve ammettendo una sorta di doppia verità (si riconoscono altri esseri reali, prima, per giungere altruisticamente a diffondere anche a loro la consapevolezza della loro stessa non realtà, poi). Dall’evoluzione della scuola MAHAYANA nasce un terzo “veicolo”: il VAJRAYANA (Carro di diamante, IV-VI sec), laddove il diamante è il vuoto splendente in un mondo di realtà illusorie. È genericamente definito buddismo tantrico in riferimento ai testi (TANTRA) che ne espongono la dottrina. Favorisce l’uso di diverse tecniche yoga (// tantrismo indù) per giungere all’unione con l’assoluto, andando oltre l’ascesi (THERAVADA) e l’altruismo dei bodhisattva (MAHAYANA) per giungere a esperienze esoteriche e pratiche magiche, con formule in sé efficaci come “OM MANI PADME HUM” (Om! Il gioiello del loto, hum), mantra che protegge la parola e libera la mente. Si usano come supporto alla meditazione delle rappresentazioni grafiche (MANDALA; cerchi) che simboleggiano uno dei molteplici aspetti dell’universo, serie di cerchi concentrici che convergono verso un punto fisso in cui è posta la figura del Buddha. Altro carattere distintivo del Carro di diamante è il culto della SAKTI, cioè della controparte femminile di Buddha, personificazione dell’energia cosmica, cui ci si unisce simbolicamente con l’amplesso sessuale (si ammettono pratiche erotiche che, diversamente, sarebbero proibite). La mano sinistra pratica realmente queste unioni sessuali, la mano destra solo a livello simbolico. Un guru guida gli iniziati a penetrare la profondità della Verità assoluta. Seguono altre scuole gnostiche, come il SAHAJAYANA (Veicolo del principio innato) che rifiuta le formalità rituali, e il KALACAKRA (ruota del Tempo) che identifica il Buddha primordiale con la ruota del Tempo da cui ogni creazione proviene. Il buddismo raggiunge la massima espansione in India tra il 250 e il 500 dC, venendo posto fortemente in crisi nella pratica dall’invasione islamica del 1200. Gradualmente assorbito nel brahmanesimo, il buddismo sopravvive in India nell’idea che Buddha sia una incarnazione di VISNU, un suo AVATA’RA cioè figura discesa in terra per salvare gli uomini. In NEPAL, paese natale di Buddha, il buddhismo sopravvive, ma fortemente influenzato dall’Induismo. In TIBET il Buddhismo, conosciuto come LAMAISMO, compare nel VII secolo, soppiantando l’originaria religione BON, animistica e sciamanica. Il primo monastero buddhista è fondato nel 779 da un seguace della corrente VAJRAYANA, grande taumaturgo. È in quest’epoca che si traducono in lingua tibetana i testi buddhisti, così da diffonderli e tramandarli. Nel secolo IX i sacerdoti della religione BON scatenano persecuzioni contro i monaci buddhisti, confiscando beni e monasteri, fino alla rinascita nell’XI sec che fissa i più importanti centri di dottrina e di pensiero presso la capitala LHASA. Qui ha sede l’ultima grande scuola buddista detta dei “berretti gialli”, praticanti il celibato, e distinti dai “berretti rossi”, che invece praticavano il matrimonio. Il terzo successore del fondatore di questa scuola dei “berretti gialli” è riconosciuto come incarnazione del Buddha Avalokitésvara e proclamato primo DALAI LAMA (Oceano di saggezza), considerato guida religiosa e politica del buddhismo tibetano. L’attuale e 14mo Dalai Lama è stato proclamato nel 1950, poco prima dell’occupazione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese, che lo costringerà all’esilio. In CINA il Buddhismo entra nel I sec dC in seguito a una spedizione inviata in India dall’imperatore della dinastia HAN, ma forse infiltrazioni buddiste sono precedenti (I sec aC) questa ricostruzione tradizionale. Ma gli influssi furono deboli, poiché dominava il confucianesimo che predicava non l’abbandono del mondo ma l’ideale di una perfetta società terrena fortemente gerarchizzata e guidata dall’imperatore per restaurare la primitiva età dell’oro della civiltà cinese originaria. Il TAOISMO favorì forse la penetrazione in Cina del pensiero buddhista: avverso alla società, corrotta e mondana, il Taoismo predica la necessità di una vita semplice che riconduca individuo e collettività al TAO, principio impersonale metafisico, per giungere al quale occorre superare le passioni terrene e l’attaccamento ai beni materiali, evidenti punti di contatto, questi, con la dottrina buddhista. Il Buddhismo si incultura dunque nella tradizione cinese, assumendo termini e rituali a essa propri (culto degli antenati, dea femminile KWAN-YIN al fianco di Avalokitésvara, con bimbo in braccio come la Madonna…). Delle otto grandi scuole del buddhismo cinese, ricordiamo quella della TERRA PURA, devota al Buddha Amitabha, riconosciuto come dio supremo e compassionevole. La massima fioritura in Cina si raggiunge nel VII-X sec, fino alla crisi iniziata con la persecuzione TAOISTA nell’845 dC che segnò a fine della profonda influenza buddhista sulla vita e sulla cultura cinesi. In GIAPPONE il Buddhismo entra nei primi secoli dC e diviene religione di stato nel VI sec, adattandosi però, da quel momento, alla cultura e alla tradizione locale, come già avvenuto in Cina. In particolare, la sua predicazione della salvezza trascendente si integra con la predicazione della salvezza mondana tipica dello Shintoismo, nella visione sincretistica dello “SHINTO DEI DUE ASPETTI”. Tra e diverse scuole, ricordiamo quella ZEN, con priorità alla vita concreta, alla volontà e allo sforzo personale vs le passioni, al punto da divenire una scuola di disciplina per i severi guerrieri samurai. Ad essa si contrappose, dal XIII sec, la scuola tradizionale del monaco NICHIREN che ancora oggi conta un certo numero di seguaci. Le fonti La più antica e autorevole fonte canonica è il canone in lingua pali detto TIPITAKA (Tre Canestri). Definito nei concili immediatamente successivi alla morte del Buddha, il canone si trasmette per almeno tre secoli solo oralmente, nelle sezioni relative all’insegnamento (DHAMMA) e alle regole (VINAYA), mentre solo nel III sec aC si completa con l’essenza della dottrina (ABHIDHAMMA). Il canone in lingua pali viene redatto dalla scuola dei THERAVADA, gli anziani che seguono la dottrina tradizionale. Altra fonte è la raccolta dei JATAKA (Racconti delle nascite), cioè la leggendaria narrazione delle 547 vite “storiche” che Buddha avrebbe vissuto. Del canone buddhista in lingua sanscrita non ci è pervenuta una redazione completa, ma solo opere frammentarie Buddismo e Occidente È per opera della Società Teosofica, fondata nel 1875 con l’intento di un approccio sincretistico alle diverse religioni, che si registra un aumento di interesse europeo e americano verso il Buddhismo. Ma già il filosofo Schopenhauer aveva attinto alla visione buddhista del cosmo per la sua filosofia pessimistica espressa ne “Il mondo come volontà e rappresentazione” (1819). A inizio Novecento si diffondono in Europa pubblicazioni specifiche ma anche fondazioni di monasteri. Dal confronto col cristianesimo, il Buddhismo esce spesso definito come una “non-religione”, salvo per la scuola MAHAYANA che divinizza maggiormente il Buddha. Resta però vero che il Buddhismo non ammette un creatore, né l’individualità, né l’anima, né pratiche rituali o mediazioni sacerdotali, né un paradiso nel senso di visione beatifica della divinità, né un peccato come atto di disprezzo nei confronti di Dio (piuttosto, si parla di colpa / Kharma). Dagli anni Ottanta del XX sec si è andato intensificando il dialogo interreligioso tra buddhismo e cristianesimo, riconoscendo con rispetto le reciproche differenze. JAINISMO Poco studiata e spesso ridotta a opposizione al buddismo. I fedeli JAINA sono una minoranza in India, forse 2/3 mln in India nel 1990. Il fondatore è JINA – “il vittorioso” – colui che ha vinto le passioni, soprannome di VARDHA’MANA (o MAHAVI’RA), nasce più o meno quando nasce il Budda (ma con grandi oscillazioni, da metà del V a metà del IV sec a.C.). Più che inventare una religione, diede nuova vita a una religione già esistente nel nord (dove operava il Budda) che identificava un principio vivente in ogni cosa. La dottrina presa e rinnovata da JINA è immutabile ma nel deteriorarsi del ciclo delle ere (// induismo) ha il bisogno di essere rinnovata presso le menti degli uomini. A riportare forma e conoscenza di questa dottrina sono i TIRTHA’MKARA (attraversatori di ponti, cioè gli spazi simbolici tra l’al di qua e l’aldilà, un modo per avvicinarsi alla parte di sé più eterna, ma anche il ponte che permette di abbandonare il ciclo delle reincarnazioni). Dei 24 Tirthankara, due sono quelli storici: JINA e PARSVA. Il fondatore della linea dei 24 era un certo RISHABA, di cui non c’è traccia storica. Il 23mo è PARSVA, morto per inedia volontaria intorno ai 100 anni. Nel corso della sua vita aveva fondato una comunità di monaci e di laici riuniti intorno a 4 voti che sono poi la base del Jainismo: - Non nuocere (// AIMSA) - Non mentire (// SATIA) - Non rubare - Non possedere I devoti di questa prima scuola erano detti liberi da ogni possesso ma anche da ogni obbligo terreno (NIRGRA’NTHA). A questa comunità appartenevano i genitori di MAHAVI’RA (il cui padre era re di un piccolo regno) il cui embrione sarebbe stato spostato da una donna brahmana a una donna più nobile, moglie di un re (anche Siddartha era nato da una donna shatria). Viene chiamato Vardhamana perché la sua nascita accresce il benessere della comunità. Vive in società, si sposa a 30 anni e secondo alcune fonti (non accettate da tutti) avrebbe avuto una figlia. Morti i genitori, lascia il regno al fratello per dedicarsi alla meditazione. Strappatosi i capelli, inizia una ascesi estrema e solitaria per la durata di 12 anni, completamente nuda. Una illuminazione particolare gli avrebbe dato a 43 anni la sapienza assoluta e la liberazione da ogni dolore. Predica per 30 anni e muore quindi all’età di 72. Alla sua morte, i suoi resti sono portati nella parte più alta dei cieli (la sommità del grande uomo che costituisce l’universo) e quindi non c’è culto delle reliquie. Alla sua morte la comunità è già stabilizzata. Si parla di 14.000 monaci e 36.000 monache (numeri + grandi del reale), 160.000 laici e 318.000 laiche (fin dalle origini M e F). Autonomia maggiore della donna rispetto all’induismo. Quando riprende la religione tracciata da Parsva, oltre a riconfermare i 4 voti ne aggiunge un 5°, il voto della castità nel senso di unirsi solo per generare e senza disperdere il seme. JINA ebbe tre discepoli dei quali il secondo, SUDARMAN, fu suo successore diretto. Dalla morte del terzo inizia la trasmissione dei testi sacri che furono fissati intorno al 300 a.C. Questo periodo segna anche l’inizio di uno scisma interno alla comunità che ancora perdura. La prima corrente è quella degli SVETA’MBARA (vestono di bianco, sono nell’India occidentale) e la seconda quella dei DIGA’MBARA (vestono di aria, cioè praticano a nudità, e si spostano nell’India meridionale). Intorno al 300 a.C. una carestia porta parte della comunità a spostarsi al Sud e, rientrando, trova dei comportamenti diversi dalla tradizione. Chi era rimasto, aveva abbandonato la nudità, mentre chi s era spostato aveva mantenuto la tradizione. Nascono accuse reciproche (indebolimento / invecchiamento). Nasce così una nuova religione nell’India del Sud. Oltre all’abbigliamento, sono diversi i testi sacri: la scuola DIGAMBARA ha 4 raccolte di testi risalenti ai primi secoli d.C. che trattano di storia, cosmologia, etica, metafisica. Gli SVETAMBARA hanno invece un concilio all’inizio del VI sec d.C. e stabiliscono 45 testi redatti in un arcaico dialetto del nord. Non ha una forma poetica di particolare interesse ma è una sorta di enciclopedia della dottrina, riprendendo molte cose pari pari dall’induismo. Sorgono poi molti commentari scritti in sanscrito per favorirne la diffusione presso il popolo. Entrambe le comunità si suddividono in diocesi e si diffondono senza più ricompattarsi. Dal XIX sec. grazie al vigore del cosiddetto “neo-induismo” e al colonialismo inglese, il Jainismo rinasce e si modernizza in molte sue pratiche. I primi testi del canone vengono tradotti in questo momento. L’universo è increato ed eterno. Non c’è un creatore e spesso si parla di “ateismo”, anche se si parla di una sorta di monade divina all’interno di ogni essere vivente. Un creatore divino avrebbe risolto tutte le sue passioni e dunque non avrebbe creato altro da sé, né avrebbe creato per gioco. Non c’è spazio per Dio né per lo slancio mistico che lo dovrebbe intuire. Tutto ciò che è ha nel KHARMAN la sua ragione d’essere (in se stesso). I SIDDHA sono coloro che hanno raggiunto la perfetta conoscenza, sono liberi dai pesi che il KHARMAN può portare e diventano modelli per tutti gli altri esseri, indicando la via per la perfezione. Sono divinità che non si possono pregare (poiché non rispondono più) ma cui rivolgersi per imparare la via. Ci sono poi divinità temporanee, cioè persone che hanno compiuto del bene (compassione) e che sono in un cielo temporaneo di beatitudine e permettono di ricevere e accordare richieste di grazia (// bodhisattva). Devono però ripassare da uno stato umano poiché solo l’uomo ha la capacità di compiere consapevolmente la strada spirituale del Jainismo. Nella letteratura post-canonica anche le descrizioni dell’universo acquistano complessità. L’universo è un enorme uomo in piedi, la cui parte superiore ospita le dimore degli dei (che possono essere pregati, dunque non sono ancora Siddha, perfetti), mentre al di sopra del grande uomo ci sono i Siddha. Dalle gambe a scende, ci stanno i demoni e i dannati. Sono in quel luogo il tempo necessario per pagare le colpe delle loro azioni. Gli uomini stanno nello spazio intermedio, spazio di grande movimento, dove le cose nascono e muoiono. Anche il tempo è ciclico: da un’era perfetta si arriva a quella più decadente, a volte detta KALIYUGA (come nell’Induismo). La dottrina del Jainismo è costituita da 7 verità e su 3 pilastri: - La retta FEDE nelle verità rivelate da JINA - La retta CONOSCENZA dell’universo (per quella porzione di conoscenza dell’universo che è concessa al singolo) - Vivere con una retta CONDOTTA Le 7 verità: - Esistenza delle anime - Esistenza di ciò che è inanimato - L’afflusso della materia internamente all’anima (attaccamento tra le due realtà) - Schiavitù della parte fisica che si attacca inesorabilmente a quella spirituale - Occorre impedire l’afflusso della materia nell’anima - Questa eliminazione è possibile: la materia può esser staccata dall’anima - La liberazione coincide col MOKSA Le anime sono infinite, uguali, pure, distinte da tutto ciò che è corpo materiale. Ci sono anche corpi sottili – oltre che materiali – che non si vedono (come il corpo karmico) ma influiscono sulla vita: il corpo karmico è ciò che resta delle vite precedenti e decide della vita successiva, segnato da un colore che deriverebbe dalla condotta morale. Per liberare l’anima dalle rinascite, occorre osservare la dottrina di MAHAVI’RA, perché il desiderio della felicità è ineliminabile e tutti prima o poi ascolteranno le parole di MAHAVIRA, liberandosi. È una sorta di scala a 14 gradini quella da percorrere per l’anima, per riconoscere ciò che è vero, acquistando la fede, il controllo della propria mente, raccogliendo i sensi fino a estinguersi. Alla fine di questa scala l’anima sarà di nuovo eternamente felice. L’ultima via, per certi versi la più difficile, è l’ascesi: + è rigida, prima l’anima si libera. Poiché ogni azione genera ricadute, l’unica scelta ragionevole è la morte volontaria, per inedia. È una via ammessa solo per certi monaci, a condizioni estreme, non per morire, ma essere coscienti al momento della morte. La più meritoria azione che aiuta la liberazione è quella religiosa (ascesi, meditazione, privazione). È una religione della rinuncia: astenersi dalla violenza, dall’ira, dalla ripugnanza, dall’inganno… Solo così l’anima via via si libera dal corpo, non generando più karma ma anche cancellando quello delle vite precedenti. L’ascetismo estremo logora l’anima nel suo congiungersi ostinatamente con la materia. La liberazione è dunque appannaggio per chi sceglie il MONACHESIMO. I laici, senza voti, con una vita più facile, possono diventare aderenti alla chiesa o uditori con la speranza di rinascere quanto prima con la forza necessaria per prendere i voti. Basta avere compiuto 7 anni ed essere in salute per prendere i voti (ascesi precoci) e dopo un breve periodo di prova il monaco possiede solo più una ciotola, una pezza di stoffa, un filtro per l’acqua, un bastone. Da quel momento si vive un vegetarianesimo assai stretto, mangiando quello che si stacca da solo (i frutti caduti). Non mangiano neppure frutti che inducono fermentazione, i frutti con molti semi, i tuberi… Tutti gli elementi vitali cioè che verrebbero sottratti a nuova vita. Il laico deve condurre una vita più concreta, per lavorare, ma può accelerare la sua liberazione sovvenendo alle necessità dei monaci. Il culto consiste in una PUJA, non rivolta alla divinità ma alla virtù dei SIDDHA che non aiutano più ma sono modello costante verso cui tendere. D’altronde, non possedendo nulla i monaci, neppure avrebbero offerte da mettere nei templi. I laici possono poi venerare i TIRTHA’NKARA (24), statue quasi identiche, riconoscibili da animali diversi accanto a loro. Il fedele circumambula le statue, offrendo canti, fiori, incensi. Utilizzando un rosario di 108 grani (come nel buddismo). Il simbolo è lo SVASTICA che indica i 4 regni (inferno, animali, uomini, perfetti-siddha). Per il Jainismo sono molto importanti i pellegrinaggi verso i luoghi sacri, che si raggiungono a piedi a valgono come una temporanea vita monastica, anche per un laico. La festa è detta PARYUSHANA, dura 10 giorni e durante essa anche i laici praticano ascesi e meditazione sui SIDDHA. Poiché del vero non si conosce che una porzione, ha da sempre trovato contatto con le altre religioni, opponendosi però all’ISLAM e criticando il Buddismo per la debolezza (mentre questo criticava il Jainismo per l’eccessiva mortificazione). Leggiamo la storia di una monaca JAINA (“Nove vite”) Mataji’ – sale gli scalini del tempio liberandoli con un ventaglio da ogni insetto. Giovane e forte, col capo rasato che contrasta con la bellezza della monaca. Si inchina dinanzi alle statue dei Tirthankara, che sono modello di vita perfetta ma, avendo ormai abbandonato il mondo, non possono più rispondere al fedele. Religione quasi ateistica. Compie 5 volte il giro del santuario, quindi scende dai gradini. Dà udienza formale al suo interlocutore. Ogni legame induce sofferenza – uno dei principi cardine del Jainismo – per cui lasciò la famiglia e ogni avere. Ha passato anni di digiuno per liberarsi dal legame col mondo. Ma teneva ancora un legame con una amica. Morta, sente profonda solitudine. Ammalatasi, scelse a soli 36 anni il digiuno volontario fino alla morte. Cosa praticata anche dalla nonna di Mataji. Afferma che non è un suicidio (grave peccato, frutto di disperazione) ma la scelta di una vita nuova, di una serena dipartita dal corpo. Si ripetono i nomi dei Tirthankara, pianificando tutto con largo anticipo. Qualcuno siede accanto a te mentre percorri questa strada. Un giorno di digiuno a settimana, poi mangi a giorni alterni, poi riduci il cibo, poi assumi solo acqua, poi la prendi a giorni alterni, finché il corpo si raffredda e ti concentri sull’anima e cancelli il karma negativo. A ogni passo, ti viene chiesto se ti senti di andare avanti. Non si abbraccia questa scelta per disperazione della vecchia vita, ma per la gioia di abbracciarne una nuova. Come un paguro trova una nuova conchiglia, così l’anima trova un nuovo corpo. Però riconosce la fatica di staccarsi dall’amica. Benché dovrebbe coltivare l’indifferenza (vs Indù dove i brahamani hanno famiglia…). I buddisti rasano il capo, i Jaina si strappano i capelli; i buddisti chiedono elemosina e cibo, mentre i Jaina accettano solo quanto spontaneamente offerta; i Jaina non si lavano quasi mai (l’acqua non ha valore rituale, come nel buddismo, ma è un semplice elemento). Il Jainismo non si è diffuso fuori dall’India, e all’interno è limitato a circa 4 milioni di persone. 24 fondatori originari (Tirthankara), ultimo dei quali fu Mahavira (599-529 a.C.), asceta dai 30 anni, autore di un complesso sistema cosmologico. Credono in un’anima immortale e indistruttibile. Ma a differenza degli Indù, non credono a periodiche distruzioni e ricostruzioni del mondo, benché nelle epoche di decadimento i Tirthankara ridiscendono in terra per ricordare la dottrina agli uomini (come fanno gli Avatara indù). Il sacrificio + importante è quello del proprio corpo e lo sforzo fisico è l’oblazione. Il Karma non è solo frutto delle azioni. Ma è sostanza materiale sottile che aderisce all’anima, la appesantisce, le impedisce di ascendere alla vetta ultima, per cui solo rinunciando a ogni legame col mondo ci si può liberare. La complessa cosmologia ricorda, per alcuni elementi, quella indù. Ma l’immagine è quella di un grande uomo. Il MOKSA è liberazione dalla vita, dal paradiso, dall’inferno… cioè dal ciclo di reincarnazioni e di punizioni e premi in base al karma. SIKH-PANTH La via del SIKH (= discepolo), cioè la via del discepolo. Nasce nel Punjab, una regione nel nord dell’India. Indica i discepoli di GURU NANAK, il fondatore, personaggio storico nato nel 1469 da famiglia shatria guerriera, ma viene formato nella scuola dei santi NIRGUNA (coloro che celebrano Dio senza qualità). Una delle figure di maggior rilievo di questa scuola fu KABIR, che forse NANAK non frequenta personalmente ma che senz’altro conosce come pensiero e ammira come figura. Come il maestro, diventa un poeta mistico, una sorta di movimento trasversale che attraversa quelle aree religiose, intessendo scambi anche coi Sufi che a quel tempo si trovavano in quelle aree. Il Punjab vive forti trasformazioni storico-religiose, con la caduta del sultanato di DEHLI nel 1526, con la fine di un periodo di pace profonda (benché sotto i musulmani) e l’avvento dei Turchi (impero MUGAL). NANAK vive questa epoca di passaggio e di conflitto interiore: l’ISLAM si rafforza, l’INDUISMO si arrocca sulla difesa della tradizione, per cui si rafforzano le caste, si indebolisce la posizione della donna… Guru Nanak nasce e vive in questo clima di tensione. Le notizie sulla sua vita hanno base storica, ma poi l’agiografia ha superato la storia. Nasce nel 1469 e fin da piccolo manifesta inclinazione per ascetismo e speculazione mistica. Istruito nell’induismo presso un guru/maestro, al termine della formazione rientra in famiglia, si sposa e ha due figli. Conduce una vita normale, come magazziniere, lavorando per il governatorato. Un mattino, alle prime luci dell’alba, compiute le abluzioni indù relative al capo-famiglia, viene rapito in estasi mistica e scompare per due giorni. Una volta tornato, avrebbe cominciato ad annunciare la nuova fede. Tale illuminazione viene raccontata da Nanak in un testo da lui stesso composto. In tutta la sua vita cerca di smorzare gli estremi, per mitigare gli eccessi di induismo e islam, facendosi portavoce di una religione che fosse anzitutto interiore. Dopo l’illuminazione compie numerosi pellegrinaggi, per diversi anni, giungendo fino alla Mecca. Rientrato nel Punjab, riceve in dono un pezzo di terra su cui fonda la città dei SIKH detta KARTARPUR (città del creatore). Muore ne 1539. Gli succedono 9 maestri che guideranno la comunità. In questi 9 + Nanak si incarna lo stesso spirito che poi si fermerà nel libro sacro dei SIKH. Per cui il SIKH-PANTH viene anche detto religione del libro. Si stacca dall’induismo perché vieta il culto delle immagini (murti), al punto che i templi sono spogli. Si rivolge a un dio senza attributi (monoteismo indistinto: un creatore inconoscibile e infinito). Costituisce una comunità che cresce rapidamente di numero. Edifica templi nei quali viene praticata una forte ospitalità: si offre cibo a chiunque entra, quale che sia la sua religione. ADI GRANTH (il primo, grande libro) viene composto ufficialmente dal 5° guru (che ingloba anche canti composti da Nanak, intorno al 1600), completandosi poi col decimo guru (nel 1700). Non sono solo testi di guru sikh, ma anche testi di altri SIDDA (perfetti), anche di altre religioni (sufi, mistici musulmani). In Italia esiste una edizione dei “Canti religiosi dei Sikh” curata dal prof Piano. L’ADI GRANTH si apre con il JAPJI’, una preghiera di 38 strofe, di apertura, da recitarsi al mattino dopo il MUL MANTRA. Quest’ultima è una sintesi dei principi teologici, mentre il JAPJI’ è preghiera per eccellenza, attribuita a NANAK stesso. Contiene anche il RAG MALA è la “ghirlanda delle melodie”, testi poetici di diversa matrice. Sulla prima raccolta del 3° guru, il 5° guru interviene completando l’ADI GRANTH che diventa così il testo sacro da collocare in ogni tempio. La prima volta viene posto nel tempio di AMRISTAR nel 1604. Il 10° guru compie la terza redazione (più linguistica che contenutistica) e da allora non viene più toccato. Nanak vive nell’induismo, ma viene influenzato anche da buddismo e sufismo. Non lascia, alla sua morte, una trattazione sistematica del suo pensiero ma solo dei CANTI. Il 2° guru è ANGAD, che gli succede alla sua morte, portando avanti la sua teologia. La visione di NANAK è strettamente monoteista, in cui un dio creatore, conoscibile, infinito, crea l’universo e le anime umane. Trascendente ma anche conoscibile, benché in modo parziale e solo dall’uomo. Resterà però sempre una parte di mistero, per cui dio rimarrà sempre MAYA fino alla MOKSA (liberazione) finale (concetti tipici dell’induismo). Dio si conosce solo attraverso la sillaba OM (Induismo) e la GRAZIA che dio stesso concede al devoto affinché possa conoscerlo. Il SIKH PANTH è più simile all’induismo che all’islam, benché rifiuti le caste e il monachesimo, ma sua termini e concetti specifici dell’induismo. L’uomo che comprende che il mondo è transitorio, cade però nell’errore di confonderlo, si sbaglia, e da questo errore deriva il suo continuo rinascere. Nanak chiama l’uomo che sbaglia MANMUK, colui che segue gli impulsi dell’io empirico, della mente. La psiche in un certo modo imprigiona l’uomo e gli fa credere quanto non è rilevante, continuamente ingannato nel credere che sia reale ciò che reale non è. Solo la GRAZIA divina può innescare il processo che porta alla liberazione, rompendo la catena che lega ai 5 mali + il primo che è l’ORGOGLIO legato all’idea di io, da cui derivano Lussuria, Ira, Avarizia, Smarrimento, Superbia. Questi 5 + 1 mali alimentano l’ignoranza che ci fa restare attaccati a ciò che in realtà è transitorio. La grazia si manifesta nell’incontro con un guru terreno che è l’unico capace di spezzare il nostro orgoglio. Liberatosi dall’illusione di MAYA, il devoto può immergersi nella bellezza di dio, considerato supremo guru/maestro. La purificazione sotto la guida del guru terreno porta a vincere l’orgoglio. Ma MANMUK si diventa GURMUK (colui che segue il maestro). A questo punto spetta al devoto costruire un tempio interiore in cui praticare il culto di dio sotto forma di vero onore al dio supremo. Il culto si pratica privilegiando virtù come castità e controllo di sé, ma soprattutto la contentezza o soddisfazione (non voler altro, oltre a ciò che si ha, con una forma di distacco o equanimità già viste). Religione pratica, pensata per la vita terrena della comunità. La prima norma data da NANAK alla comunità è lo spirito di servizio da praticarsi verso gli altri ma anche verso il tempio (liturgia, decoro della struttura, con donazioni volontarie e poi tasse fisse. Seconda norma è la frequentazione di persone sante, a prescindere dalla religione. Terza norma, rifiuto di ogni barriera castale. La preghiera è interiore e si canta nel cuore, ma anche in famiglia. Il maestro cui viene affidato il bambino lo segue senza che questo debba però lasciare la famiglia (come invece accade nell’induismo). Intraprende i 5 stadi, con l’obiettivo di un perfezionamento interiore. Primo stadio è quello del DHARMA in cui si fa esperienza dell’ordine dell’universo, da cui si ricava una certa idea di giustizia divina. Il secondo stadio è quello della CONOSCENZA in cui il devoto ha consapevolezza della propria natura divina. Il terzo stadio è quello dello sforza spirituale, in cui il devoto entra nella bellezza creatrice di dio. Il quarto stadio è quello della grazia, che gli permette di fare esperienza dell’ineffabile. Il quinto stadio è quello della verità, il luogo in cui abita dio, il Nirvana: raggiunto questo stadio non si rinasce più… Rifiuta il SANIASI, cioè di ogni forma di monachesimo. Il devoto SIKH vive nel mondo e lavora per il mondo, pregando per esso. Il monachesimo viene rifiutato anche per smussare possibili elementi di contrasto con induismo e islam (scelta politica) ma giustificato come non necessario, poiché quello che conta è la conoscenza di Dio. Il tempio è gestito da laici, ma è luogo sacro da quanto viene installato il libro sacro, che viene ritirato una volta terminata la giornata (come le murti erano abbandonate in un angolo una volta assolta la loro funzione). Mancando una gerarchia monastica, i guru stabiliscono alcune funzioni gerarchiche che però poi vengono meno perché nel libro sacro c’è già tutto quello che serve sapere. Al momento quella SIKH è al comunità indu più sparsa nel mondo, poiché con maggior capacità di adattamento (benché assai riconoscibili per il turbante). Vivono lavorando per il benessere della comunità, dando anche una parte di guadagni per chi ha bisogno. NANAK ha insegnato sempre attraverso il canto come comportarsi, indicando la preghiera interiore come pratica di culto a dio. Sono le classi più disagiate che ritrovano nel SIKH PANTH una via di liberazione. Nel PUNJAB sono oggi assai diffuse. Ci sono comunità anche in Italia. Ad esempio a Mirabello sono circa 40. Grande tolleranza e rispetto per l’altrui devozione sul presupposto che dio non è assolutamente conoscibile dunque parzialmente può esser conosciuto anche da altre religioni. Grandi abilità in agricoltura e allevamento (quindi diffusi in Pianura Padana). Ricercano una certa purezza, ma senza estremismi (non sono vegetariani, ma rifiutano la violenza contro gli animali). Nascono nel PUNJAB perché grande parte del sostrato sociale era composto di contadini. I dieci guru 1. GURU NANAK 2. GURU ANGAD (1539-1552) designato direttamente da Nanak, si pone il problema politico dei caratteri con cui designare il testo sacro ADI GRANTH di quel popolo che cercava un proprio stato. Si occupa degli ammalati e delle strutture che possono dar loro sollievo. Usa la lingua GURMUKHI 3. Il terzo GURU stabilisce feste per nascite dei bambini, matrimonio, funerali. Si batte per emancipazione femminile e uguaglianza, osteggiando il velo islamico e i riti delle vedove indu. 4. Il quarto guru fonda il tempio di AMRISTAR, il più importante luogo di culto sikh. 5. GURU ARJAN istituisce una tassa (decima del reddito individuale) per sostituire il contribuito volontario. La chiesa SIKH è ormai ampia e necessita di regole e strutture. Compila la versione del libro che poi verrà installata nel tempio (1604). È il primo martire del sikhismo poiché viene torturato fino alla morte dal figlio fanatico di un sovrano illuminato che decise, a dispetto del padre, di perseguitare il sikhismo. 6. Il figlio di Arjan gli succede e imprime una svolta politico-militare alla religione sikh, ponendosi quasi come re, stabilendo la capitale in una zona con guardia armata, creando un vero e proprio esercito, avendo come scopo la libertà politica della popolazione del Punjab 7. Il settimo guru vive in un periodo di grandi turbolenze a causa dell’islam. 8. L’ottavo guru muore molto giovane, di vaiolo. 9. Il nono guru è un maestro assai illuminato e mistico, viaggia a lungo predicando il Sikhismo e rifiutando di convertirsi all’Islam, per cui viene decapitato. È il secondo martire. 10. Indicato dal nono guru, il figlio gli succede come decimo guru, detto GOVIND SINGH. “Singh” diventa termine sikh. Vuol tornare alla purezza originaria di guru Nanak e come lui concentra la fede in brevi formule che diventano guide per la vita: - “conoscenza, amore e servizio” - “nome, generosità, purezza”: il nome è l’elemento SINGH che caratterizza chi appartiene al Sikh panth. - “commensalità, spada, vittoria”: spada è un elemento nuovo, che dice aspirazione alla libertà politica oltre che ritorno all’insegnamento originario di Nanak. Ucciso da un colpo di pugnale dopo aver rielaborato una sua versione dell’ADI GRANTH. Non nomina un suo successore perché indica che lo spirito che lo ha animato (derivato dallo spirito di Nanak) ora è incarnato nel libro sacro, per cui si parla della “religione del Libro”. GOVIND SINGH fonda altresì il KHALSA, la comunità dei puri, ossia una comunità di guerrieri pronti a dare la vita per difendere la comunità dagli attacchi (islamici). Una cerimonia di iniziazione permette di entrarvi: una speda mescola acqua e zucchero, che poi viene spruzzata sul capo di quanti decidono di entrarvi. Ingresso/arruolamento volontario, ma a vita. Oppure si può restare semplici seguaci dell’insegnamento di Nanak. Se invece si entra nel KHALSA, si aggiunge – SINGH al nome. Si fa voto altresì, nel Khalsa, di portare alcuni oggetti distintivi (che iniziano per K tutti e 5). - Barba e capelli lunghi - Un pettine per fermare i capelli sul capo - La spada (anche simbolica) - Un braccialetto di ferro (ricorda l’austerità dei sikh) - I pantaloni che si devono indossare al posto del panno annodato degli indu. Anche le donne possono entrare nel KHALSA, come gli uomini. L’idea non è di aggredire, ma di essere pronti a morire per difendere la comunità. Il turbante, originariamente solo dei KHALSA, è diventato poi tipico dei sikh in generale… Si fanno altresì 4 rinunce: - A farsi vanto del proprio lavoro o posizione sociale - A farsi vanto della propria origine o natali - Alle superstizioni e alle credenze tradizionali (vs induismo) - Alle vecchie pratiche religiose (culto delle forme degli dei le murti). Bisogna poi evitare alcune mancanze: - Tagliare barba e capelli - Far soffrire animali (e quindi mangiare quelli uccisi con più di un colpo) - Commettere adulterio - Tabacco, sostanze inebrianti, stupefacenti. Il culto è incentrato attorno al libro sacro o ADI GRANTH. Il tempio è vuoto, tranne un baldacchino su cui si colloca al mattino il libro, per ricollocarlo poi alla sera. Gli incontri di comunità vedono lettura e commento del libro. Si condividono omelie ispirate alla vita dei santi o dei martiri. La parte individuale della preghiera è quella in cui su cantano i nomi di dio, ripetendoli nel proprio cuore (NAM JAPAM), che si compie nell’abluzione del mattino, prima dell’alba. Quando si ripetono i nomi di dio insieme, si consuma cibo sacro (farina, burro e “ghi”). Il devoto sikh deve conoscere la lingua in cui sono scritti i testi sacri. Rimanda all’indi (sanscrito moderno), ma anche persiano e arabo. Le cerimonie sikh sono semplici come i loro templi. Ci sono battesimi e matrimonio (si circum-ambula attorno al libro, simile all’induismo), con riti funebri (cremazione). Le feste principali sono legate alle nascite dei 10 guru, alla morte dei martiri sikh, alla fondazione del Khalsa e all’installazione dell’ADI GRANTH nel tempio la prima volta (16/08/1604). CANTI SIKH Il vero senza forma… Un canto è per il vero musulmano L’altro per il suo maestro (nel momento in cui gli sta consegnando il cordone della iniziazione). JAPJI’ Due strofe (su 38 in tutto) dedicate alla volontà di dio, infinito e insondabile. Il vero era all’origine (// in principio era il Verbo) … inconoscibile (vs il Verbo si è fatto carne) Tutti sono soggetti al suo volere e non si deve volere altro Nessuno può descriver dio… discorsi senza fine, ma chi può esaurirlo? Il donatore fa i suoi doni (// dana) Le buone azioni procurano una veste nuova, ma solo la sua grazia apre la porta della salvezza Le strofe 8-15 celebrano gli eletti (delle varie religioni) Potere trasformante della parola divina (recupero di termini indu) Verso la strofa 28 Nanak descrive la condotta del buon devoto (meditazione, pensiero della morte, castità, fede, fraternità, conquista della mente, compassione, parola divina…) Si descrivono quindi i 5 stadi della perfezione, che conducono al Nirvana Alla fine del libro, si trovano alcuni canti di altri religioni, che si aprono con alcuni canti di KABIR (maestro indù di Nanak).