Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale - Milano
anno accademico 1999-2000
LA METODOLOGIA DRAMMATICA
NELLA TEOLOGIA DI HANS URS VON BALTHASAR
CONSIDERAZIONI SU THEODRAMATIK. PROLEGOMENA.
esercitazione
di don Raffaele Maiolini
esame di teologia sistematica - III
“Immutabilità di Dio ed economia salvifica”
don Giacomo Canobbio
Introduzione1
Theodramatik costituisce, tra Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik e Theologik, il momento
centrale dell’imponente Trilogia teologica 2 che il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar
(1905-1988) pubblicò in 15 volumi tra il 1961 e il 1987.
Theodramatik3 è un’opera strutturata in cinque volumi [Prolegomena (1973); Die Personen des
Spiels: Teil 1, Der Mensch in Gott (1976) – Teil 2, Die Personen in Christus (1978); Die Handlung
(1980); Das Endspiel (1983)]4, ma – come si nota più chiaramente dall’originale tedesco - consta di
Quando citeremo testi di Balthasar non indicheremo l’autore, ma il titolo dell’opera e gli estremi della pubblicazione.
In italiano la Trilogia è stata così strutturata: Gloria. Un’estetica teologica (7 volumi); TeoDrammatica (5 volumi); Teologica (3
volumi). Per muoversi agevolmente all’interno di quest’opera (e nell'immensa produzione balthasariana) occorre riferirsi ai successivi
bilanci redatti dallo stesso Balthasar, riuniti da C. Capol, Mein Werk - Durchblicke, Einsiedeln 1990 (che comprende una completa
bibliografia degli scritti); e per una visione d'insieme a Epilog, Einsiedeln 1987. Queste due opere sono tradotte in italiano congiuntamente in La mia opera e Epilogo, Milano 1994.
3 Non si sa precisamente da quando (ed eventualmente da chi) Balthasar abbia pensato alla teologia come drammatica; si sa,
certamente, che lesse l’articolo del domenicano Michel Labourdette sul numero d’agosto della Revue Tomiste del 1947, nel quale,
all’interno di una recensione critica delle due collane lionesi Théologie e Sources Chrétiennes (che tra l’altro criticava il testo di
Balthasar su Gregorio di Nissa), si parlò per la prima volta di una théologie dramatique con riferimento a Daniélou. [cfr. P. HENRICI,
Primo sguardo su Hans Urs von Balthasar, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera,
Casale Monferrato 1991, 17-85 (qui 47-48)].
L’origine remota di Theodramatik (a livello d’approccio metodologico) si può rinvenire già nel lavoro di tesi di laurea Geschichte des
eschatologischen Problems in der modernen deutschen Literatur (1929) e nella sua prosecuzione in Apokalypse der deutschen Seele
(Salzburg 1937-1939), che si possono considerare come la pre-progettazione soprattutto di Prolegomena, in quanto il primo volume di
Theodramatik anche contenutisticamente non è che lo sviluppo dell’ “allegoria del mondo come spettacolo scenico, cosa con cui la
Apokalypse si conclude” [cfr. A. MASS, L’”Apocalisse dell’anima tedesca”di Hans Urs von Balthasar. Nell’ambito di germanistica,
filosofia e teologia, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991,
87-107 (qui 93)].
Ma, certamente, Theodramatik, a livello d’impianto e di configurazione, è impensabile senza l’incontro con Adrienne von Speyr
(1902-1967) che dal 1941 vive una serie di particolari esperienze mistiche, in modo particolare quelle “del sabato santo”, lo stato di
desolazione dei peccatori, lontano da Dio. Balthasar conobbe Adrienne nel 1940 e fu suo confessore per anni: “ventisette anni di stretta
collaborazione con Adrienne von Speyr – più di quindici anni ho vissuto sotto lo stesso tetto” [Primo sguardo su Adrienne von Speyr, in
Nella preghiera di Dio, Milano 1997, 275]. Egli fin dal 1947 s’impegnò perché fosse riconosciuta l’autenticità delle sue visioni; per lei
uscì dall’amatissima Compagnia di Gesù (11 febbraio 1950), interpretando l’intera sua vita come una chiamata di Dio a servire la causa
di Adrienne, cioè per far (ri)conoscere alla Chiesa intera il compito esistenziale di questa mistica. Per questo si dedicò per circa
vent’anni alla pubblicazione di tutti i suoi scritti – circa 60 volumi - (da ricordare che la Johannes Verlag fu creata da Balthasar per
questo scopo, innanzi tutto): “oggi, dopo la sua morte, la sua opera mi appare molto più importante della mia e la pubblicazione delle
sue ‘opere postume’ mi interessa di più di ogni mio lavoro” [Primo sguardo su Adrienne von Speyr, in Nella preghiera di Dio,
Milano1997, 277]. Fu creato anche un Istituto secolare chiamato “Johannes” (la Johannesgemeinschaft, inizialmente solo ramo
femminile, poi dal 1983 anche con un ramo sacerdotale), che continuasse l’opera e l’ispirazione di Adrienne (ne era “la fondatrice” e
Balthasar il “padre spirituale”): “l’attività di scrittore resta e resterà sempre nell’economia della mia vita un prodotto secondario e ‘faute
de mieux’. Al centro c’è un interesse completamente diverso: il lavoro per il rinnovamento della Chiesa con la formazione di nuove
comunità che uniscono la vita cristiana radicale secondo i consigli evangelici di Gesù con l’esistenza in mezzo al mondo… per dare
nuova vita alle comunità viventi” [citazione in A. SICARI, Hans Urs von Balthasar: teologia e santità, in K. LEHMANN – W.
KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 251-268 (qui 259-260)]. Di certo, non si può
comprendere la figura e l’opera di Balthasar senza comprendere la figura e l’opera di Adrienne von Speyr: “la sua (di Adrienne- ndr) e
la mia non sono separabili, né psicologicamente, né filologicamente. Sono le due metà di un tutto”, scriverà Balthasar nel 1965
[citazione in P. HENRICI, Primo sguardo su Hans Urs von Balthasar, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von
Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 17-85 (qui 35)]. Anzi: “nel complesso ho ricevuto teologicamente più io da lei che
lei da me, nonostante che non si ossa stabilire un rapporto preciso. Poiché nei ventisette anni non mi è sorto il minimo dubbio sulla
rettitudine della sua missione e sulla modesta sincerità, con cui la viveva e me la trasmetteva nonostante una precisissima osservazione
come confessore e direttore spirituale della sua vita interiore, non solo ho preso le più ardite decisioni della mia vita – come quella di
uscire dall’ordine – dietro la sua istruzione, ma ho anche cercato di adattare al suo il mio punto di vista sulla rivelazione cristiana”
[Primo sguardo su Adrienne von Speyr, in Nella preghiera di Dio, Milano 1997, 276].
L’incontro di Balthasar con l’esperienza mistica di Adrienne trova una prima eco, ammirata ed entusiasta, in Das Herz der Welt (Zürich
1945, Brescia 1964) e una prima esplicitazione nelle Sei conferenze sulla drammatica del cristianesimo tenute nel 1946-47 che lo
stesso Balthasar indica come primo nucleo della Theodramatik [cfr. E. GUERRIERO, L’estremo amore di Dio nella gloria del suo
morire: la Teodrammatica, Communio 120(1991) 61]. E’ da ricordare che al 1950 risale anche una serie di conferenze sull’escatologia,
primo abbozzo di Das Endspiel, il volume conclusivo della Theodramatik. Segue poi un lungo periodo di maturazione e solo nel 1969
Balthasar ritorna sull’argomento con due volumi di grande rilevanza: Theologie der drei Tage (Zürich 1969; Brescia 1971), il
contributo al Mysterium salutis sui tre giorni della passione e Neuer Bund (Einsiedeln 1969, Milano 1977), l’ultimo volume di
Herrlichkeit.
4 Questi volumi nell’originale tedesco sono pubblicati dalla Johannes Verlag a Einsiedeln. In italiano sono stati tradotti per la Jaca Book
Edizioni di Milano da Guido Sommavilla. L’opera è pubblicata col titolo di TeoDrammatica; i volumi, invece, Introduzione al dramma
(1980); Le persone del dramma. L’uomo in Dio (1982); Le persone del dramma. L’uomo in Cristo (1983); L’azione (1986); L’ultimo
atto (1986).
1
2
1
quattro grossi momenti: la fondazione di una drammatica teologica; i personaggi teologici del
dramma; l’azione stessa del dramma; il compimento del dramma.
Ci pare necessario offrire un primo inquadramento (generalissimo) di Theodramatik che permetta di
seguire l’intento che perseguiremo.
L’opera si distingue propriamente per l’elaborazione dell’intero teologico come dramma fra Dio e
l’uomo, cioè come integrazione della cristologia e dell’antropologia in termini di libertà. Infatti, la cifra
drammatica (volume uno) riuscirebbe a farsi carico: della libertà dell’uomo come condizione tragica,
segnata dall’incompiutezza e dal male (volume due); della libertà di Dio in Cristo come kenosi
(volume tre); del compimento dell’uomo come redenzione (volume quattro); di un Definitivo che,
dischiudendo tanto il compimento felice della libertà finita quanto l’intensificazione del suo
indurimento colpevole, in questo modo tiene aperta la vicenda della storia (volume cinque).
Più specificatamente: lo strumentario drammatico (volume uno) sarebbe in grado di approntare “una
terza via”5 capace di mediare un’antropologia che non perda la serietà della libertà e della storicità e
una cristologia in cui il fondamento trinitario tenga insieme signoria e coinvolgimento di Dio,
continuità e iato in seno alla vita trinitaria.
I seguenti volumi (due e tre) sono segnati, però, da un’indicativa opzione teorica: quella di
presentare i “personaggi del dramma” prima dell’azione, pur nella consapevolezza che si tratta di
“personaggi del dramma”. Partire dall’azione, se a prima vista potrebbe sembrare l’avvio più
aderente ad una drammatica, in realtà la comprometterebbe, perché presentare i “personaggi” nella
loro azione già svolta, porterebbe a perdere la qualità di indeducibilità della libertà (e quindi a
compromettere la drammaticità dell’azione)6. Così questa parte porta alla luce il rapporto dialettico
(“drammatico”), tra primo e secondo Adamo, tra libertà umana e libertà di Cristo, tra disobbedienza
umana e obbedienza di Cristo, tra finitezza e universalità, tra identità e missione, tra antropologia e
cristologia.
Lo scontro effettivo fra la libertà finita e infinita è al centro della soteriologia drammatica (volume
quarto): la tensione teologica intorno ai rapporti fra croce e Trinità (e quindi la questione circa la
mutabilità e la passibilità di Dio) hanno il loro correlato antropologico nel tema della serietà del
peccato. Il cuore dell’interpretazione balthasariana sarà la tesi della vicarietà di Cristo: solo il
compimento della libertà finita che Gesù realizza sulla croce può svelare all’uomo il suo male (e in
questo, la profondità di Dio e dell’uomo).
Infine si pone a tema l’escatologia (volume cinque): la riuscita o il fallimento definitivo del piano
trinitario della creazione, l’eventualità della perdizione, portano all’estremo la possibilità
d’indurimento della libertà finita e la possibilità dell’amore di Dio.
Nel quadro di Theodramatik, dunque, Prolegomena s’impegna ad approntare le categorie capaci di
rendere possibile una drammatica divina collocata fin dal principio sul terreno dell’antropologia; gli
altri volumi sono rispettivamente un’antropologia, una cristologia, una soteriologia e un’escatologia
trinitaria sviluppati in chiave drammatica.7
Da qui, l’obiettivo del presente lavoro: esplorare il primo volume di Theodramatik, Prolegomena, per
far emergere la “theoria” della metodologia drammatica che Balthasar sceglie di utilizzare come
metodologia teologicamente più rilevante (e rispettosa) per l’approccio umano alla rivelazione di Dio
in Gesù Cristo. L’interesse sta nel fatto che Balthasar stesso non ha esplicitamente espresso l’
“oggetto materiale” della metodologia drammatica. Ha ripercorso in lungo e in largo la storia della
drammatica, ha fatto emergere le categorie centrali della drammatica stessa; ma, alla fine, non ha
espresso formalmente e organicamente la metodologia drammatica da lui impiegata per “rileggere”
la rivelazione cristiana. Nonostante l’intento del volume stesso fosse proprio quello di giungere ad
una fondazione/giustificazione della teologia e della metodologia drammatica che trova sviluppo nei
successivi quattro volumi.
Sulla “terza via” fra il cosmologico e l’antropologico, fra il razionale e l’etico, fra l’assoluta unità e l’assoluta differenza si confronti:
Solo l’amore è credibile, Roma 1982 (tutta l’opera ha quest’intento, in particolare, però, 54-55); TeoDrammatica. Volume due. Le
persone del dramma. L’uomo in Dio, Milano 1992, 43-55; Teologica. Volume uno. Verità del mondo, Milano 1989, 17.34; La mia
opera ed Epilogo, Milano 1994, 97-106
6 Cfr. TeoDrammatica. Volume tre. Le persone del dramma. L’uomo in Cristo, Milano 1992, 14
7 Cfr. TeoDrammatica. Volume cinque. L’ultimo atto, Milano 1986, 13
5
2
L’obiettivo spiega facilmente anche il percorso che seguiremo:
la prima parte intende mostrare – passo passo – l’articolazione interna del volume, il percorso che
Balthasar compie attraverso l’analisi storico-critica dei contenuti e delle categorie centrali del
dramma, con l’attenzione a far emergere quanto è funzionale all’enucleazione di una drammatica
teologica;
la seconda parte – centrale, perché risponde all’obiettivo proposto – intende far emergere dal
volume stesso la “theoria” della drammatica proposta da Balthasar. Con questo intendiamo
affermare che nostro interesse non sono (più e tanto) i contenuti e le categorie che possono essere
istruttivi per una drammatica teologica (la drammatica come “grammatica” della teologia); il centro è
l’esplorazione della proposta di Balthasar di una teologia drammatica (la drammatica come “logica”
della teologia – o meglio, più correttamente, a dire dell’autore stesso, di “una parte” ben precisa della
teologia: l’azione rivelativa). Detto diversamente: ricercheremo la metodologia (i suoi fondamenti e le
sue articolazioni) della teologia drammatica (o teodrammatica) com’è stata riflessamente – seppur
indirettamente – proposta da Balthasar.
Quest’oggetto proprio della nostra indagine, lo riteniamo – in ipotesi di lavoro – interessante e
proficuo per una recezione critica di quest’opera teologica di Balthasar: con la sua teologia (o i
contenuti della sua opera... che generalmente – ma talora anche genericamente8 – sono la parte più
apprezzata di Theodrammatik), confrontarsi con il teologare che sorregge e motiva le conclusioni cui
successivamente si perviene;
la terza parte intende offrire alcuni spunti critici che nascono dalla riflessione balthasariana sulla
teologia drammatica e alcune indicazioni di percorso per l’odierno panorama teologico alla luce di
Theodramatik. Prolegomena.
8
Si provi a confrontare, a questo proposito, anche solo: E. GUERRIERO, Teatro e Teologia. La Teodrammatica di Hans Urs von
Balthasar, Communio 105(1989) 74-81; E. GUERRIERO, L’estremo amore di Dio nella gloria del suo morire: la Teodrammatica,
Communio 120(1991) 60-71.
3
PRIMA PARTE
IL PERCORSO DI PROLEGOMENA9
Prolegomena fu pubblicato nel 197310. Questo primo volume di Theodramatik come Apokalypse11,
come tante monografie pubblicate tra il 1939 e il 195812, come Herrlichkeit13 è un volume che apre
alla teologia una vasta “terra incognita”, gravida di potenzialità, attraverso una riflessione sul teatro e
sulla filosofia del teatro.
Balthasar, nel suo lavoro teologico, si è sempre occupato, in diversi approcci, implicitamente o
esplicitamente, di “teologia della letteratura”, cioè ha sempre ritenuto la letteratura (come tale)
rilevante anche per la teologia, a tal punto da considerarla un “locus theologicus”14.
E ancora una volta, in Prolegomena mostra di possedere una cultura eccezionalmente abbondante
e sicura15, intessendo e dipanando il suo16 ragionamento attraverso continue citazioni e allusioni ai
testi e agli autori considerati17.
9
Il testo che utilizziamo è la prima ristampa (1987) della Jaca Book di Milano, TeoDrammatica Volume uno. Introduzione al dramma.
Quando citeremo Prolegomena, nella prima e seconda parte del nostro lavoro, non indicheremo più neppure il titolo dell’opera, ma solo
le pagine a cui stiamo facendo riferimento. Per le citazioni del testo, seguiamo questo criterio: quando la citazione è estesa, preferiamo
separarla dal corpo del testo utilizzando anche un “corpo” minore; diversamente (alcune parole o brevissime frasi) resteranno
all’interno del corpo del testo ponendole sempre tra due “virgolette”.
10 Questo lavoro fu contrassegnato dalla malattia. Da gennaio fino a marzo 1973 egli fu “da mezzo malato a totalmente malato, con forti
febbri, che alla fine lasciano uno totalmente senza forze. Io potei soltanto nel letto leggere una gran quantità di drammi per i
Prolegomena della Teodrammatica; vorrei, se in qualche modo è possibile, ad autunno uscir fuori con la pubblicazione, poiché alla fine
dovrei di nuovo tornare alla teologia” [citazione in P. HENRICI, Primo sguardo su Hans Urs von Balthasar, in K. LEHMANN – W.
KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 17-85 (qui 31-32)].
11 Apokalypse der deutschen Seele (Salzburg 1937-1939; pubblicata in tre volumi - 1600 pagine! - non tradotti in italiano) è la
prosecuzione del lavoro di tesi di laurea in germanistica (discussa nel 1929 nell’Università protestante-liberale di Zurigo) Geschichte
des eschatologischen Problems in der modernen deutschen Literatur.
12 Queste le biografie “teologiche” di questo periodo: quella su Massimo il Confessore (Kosmische Liturgie. Höhe und Krise des
griechischen Weltbilds bei Maximus Confessor, Freiburg 1941 - riedito, aggiornato, a Einsiedeln nel 1961 - e Die Gnostischen
Centurien des Maximus Confessor, Freiburg 1941), Gregorio di Nissa (Présence et pensée. Essai sur la Philosophie religieuse de
Grègoire de Nysse, Paris 1942), Teresa di Lisieux (Thérèse von Lisieux. Geschichte einer Sendung, Köln-Olten 1950), Karl Barth (Karl
Barth. Darstellung und Deutung seiner Theologie, Köln-Olten 1951), Elisabetta di Digione (Elisabeth von Dijon und ihre geistliche
Sendung, Köln-Olten 1952), Reinold Schneider (Reinold Schneider. Sein Weg und sein Werk, Köln-Olten 1953), Bernanos (Bernanos,
Köln-Olten 1954; ritornerà più tardi con un altro volume, Gelebte Kirche. Bernanos, Einsiedeln 1971), Origene (Parole et Mystère chez
Origène, Paris 1957), Martin Buber (Einsame Zwiegegespräche. Martin Buber und das Christentum, Köln-Olten 1958).
13 Cfr. i due volumi Fächer der Stile (II/I Klerikale Stile e II/II Laikale Stile) del 1962 e i due volumi Im Raum der Metaphysik (III/1
Altertum e III/2 Neuzeit) del 1965. In italiano (sempre ad opera della Jaca Book di Milano), Gloria. Un’estetica teologica. Volume due.
Stili ecclesiastici (1978); Volume tre. Stili laicali (1976); Volume quattro. Nello spazio della metafisica: l’antichità (1977); Volume
cinque. Nello spazio della metafisica: l’epoca moderna (1978).
14 Si confronti in merito la riflessione di A. MASS, L’”Apocalisse dell’anima tedesca”di Hans Urs von Balthasar. Nell’ambito di
germanistica, filosofia e teologia, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale
Monferrato 1991, 87-107 (qui 92). Nel 1952 Balthasar stesso annunciava: “Dopo (cioè il commentario a s. Tommaso –ndr) viene il
turno finalmente del mio lungamente atteso tema: Theatrum Dei (teologia del teatro)” [citazione in P. HENRICI, Primo sguardo su
Hans Urs von Balthasar, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato
1991, 17-85 (qui 70)].
15 In 637 pagine Balthasar passa al setaccio un po’ tutto il teatro euroamericano citando più di 900 autori! Ricordiamo che Balthasar,
enfaticamente, fu definito “il Tommaso d’Aquino del XX secolo”, oppure “il Pico della Mirandola del nostro secolo”, o “l’uomo forse
più colto del nostro secolo” (cfr. H. DE LUBAC, Un testimone di Cristo nella Chiesa: Hans Urs von Balthasar, in Paradosso e mistero
della Chiesa, Milano 1979, 135-156). Certamente, comunque, è stato uno dei teologi più fecondi del nostro secolo: la sua bibliografia
comprende 85 volumi propri, più di 500 saggi e contributi ad opere in collaborazione, quasi 100 traduzioni, lavori minori e l’opera di
trascrizione/pubblicazione dei 60 volumi di Adrienne von Speyr. Si confrontino le considerazioni di G. SOMMAVILLA, Hans Urs von
Balthasar nella memoria di un suo traduttore, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera,
Casale Monferrato 1991, 357-365 (in particolare 357-359).
16 È importante conoscere la modalità con cui Balthasar “utilizza” gli autori e i testi da lui citati: “le singole figure di pensatori non sono
mai significative per Balthasar in se stesse; ciò che egli scorge e descrive è piuttosto un movimento storico-spirituale, che, come tale, nel
suo traguardo, nelle sue peripezie ed evoluzioni, soprattutto nelle sue decisioni, è una figura significativa… raccoglie(re) e
sintetizza(re)… un movimento che è già di per sé disegnato in forma sintetica. Tuttavia soprattutto va rilevato che Balthasar stesso si
mantiene al di fuori di questo movimento; egli lo abbraccia con il suo sguardo contemplativo, lascia intravedere giudizi di valore su
questa o quella svolta o decisione, però non sulla base di una saccenteria assolutistica (in ogni caso teologica), bensì nella conoscenza
storica previa dell’esito e col cuore colpito da ciò. Egli legge la storia dello spirito non tanto a partire dalla sua propria opinione
preconfezionata (come in un primo momento si sarebbe inclinati a ritenere), ma lascia invece che questa sua opinione cresca a poco a
poco con il decorso della storia spirituale (e in reazione con essa)” [P. HENRICI, La filosofia di Hans Urs von Balthasar in K.
LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 305-334 (qui 314-315)].
4
Da questo suo stile teologico deriva la nostra scelta metodologica che caratterizza il procedimento di
questa parte: seguire linearmente il percorso di Prolegomena senza però perdere l’integralità del
ragionamento di fondo (soprattutto in ordine al nostro intento)18.
Il primo volume di Theodramatik si divide in tre parti: la prima è essenzialmente una giustificazione
della proposta; la seconda – che forma il corpo del volume – è una raccolta di “dati” in due cammini
complementari di segno opposto (il primo analizza l’interpretazione dell’esistenza umana alla luce
della rappresentazione del dramma; il secondo, in senso contrario, esamina la realtà del teatro a
partire dall’esistenza); la terza, a mo’ di transizione verso la proposta teologica vera e propria, si
concentra sulla questione che pare emergere come centrale da tutto il percorso fatto: chi è l’uomo? o
meglio (più direttamente): chi sono io?19
“L’autore della Teodrammatica è forse il solo scrittore contemporaneo che osa riempire il suo testo di frasi, se non di pagine intere,
prese a prestito da altri autori. Se questo non costituisse giustamente uno stile proprio e premeditato, si potrebbe dire che è tutto
semplicemente un plagio. Poiché non si hanno delle pure citazioni (anche se i riferimenti vengono scrupolosamente addotti in nota). Si
tratta di una intima assunzione di parole, di una specie di infiltrazione del testo da parte di frasi venute da altrove e che lo colorano in
maniera precisa. Esse non ne rompono mai il movimento, ma fanno intendere le armonie dei suoni di fondo” [C. DUMONT, Un genio
musicale, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 289-304
(qui 300-301)].
18 La riflessione critica intorno a Prolegomena non è cospicua e non va molto oltre la segnalazione dell’importanza dell’utilizzo della
categoria “drammatica” e del suo significato in ordine al cambiamento di paradigma teologico. Di fatto si rileva un difetto di
penetrazione dei temi teologici stessi affrontati da Balthasar, ma ancor più una scarsa considerazione teorica circa la scelta
metodologica. A questo proposito si possono vedere (in ordine di importanza): R. CARELLI, La libertà colpevole. Perdono e peccato
nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Milano 1999, 165-367 (per Prolegomena 165-205): il miglior contributo che abbiamo
trovato nell’analisi teologica, seppur l’intento di illustrare il rapporto perdono-peccato, impedisce di apprezzare e considerare a fondo
la scelta metodologica; J.M. FAUX, Gloire et liberté. Sur quelques publication récentes de H. U. von Balthasar, Nouvelle Revue
Theologique 107° 6(1975) 529-541 (per Prolegomena, 536-538): buona recensione, anche se breve, dell’opera con acutezza
nell’analisi teologica; G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Brescia 1997, 375-391 (in particolare
383-389): recensione delle tematiche fondamentali, con alcune buone osservazioni teologiche, senza però un adeguato
approfondimento che giustifichi l’itinerario balthasariano; P. MARTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario
nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Milano 1995, 205-273: istruttiva e notevole è l’analisi teologica della parte dell’opera
dedicata al tema della morte nel teatro occidentale come centro del “teatro patetico del mondo”; G. SOMMAVILLA, La teodrammatica
di Hans Urs von Balthasar, Rassegna di teologia 4(1981) 323-330: il traduttore italiano dell’opera recensisce bene l’ultima parte del
volume, ma non mostra acutezza teologica, finendo per ripercorrere pari pari solo alcuni momenti dell’opera; A. MODA
Balthasariana. Per gli anni 80 di Hans Urs von Balthasar, Studia Patavina 3(1985) 561-596 (in particolare 570-573): il taglio vuole
essere teologico, ma non ci pare che l’autore colga l’intenzionalità di Prolegomena e ancor più di Theodramatik. Anche nel presente
studio, riprende di fatto il lavoro di tesi dottorale, pubblicata col titolo Hans Urs von Balthasar. Un’esposizione critica del suo
pensiero, Bari, 1976 (per la teologia drammatica, 245-256), anche se, a quel tempo, erano stati pubblicati solamente due volumi di
Theodramatik e l’autore fa riferimento solo al primo (252-256).
19 Prima di affrontare Prolegomena è bene – almeno a grandi linee – mettere a fuoco la categoria chiave dell’impianto balthasariano:
dramma. Etimologicamente, dramma deriva dalla parola greca Üma, sostantivo derivato dal verbo corrispondente drçv, che indica
un “fare” specifico rispetto al più generico prçttv: innanzi tutto indica l’agire di un uomo, un uomo, generalmente, al servizio di
qualcuno, con una specifica responsabilità (anzi, di per sé, drçv più che la realizzazione effettiva dell’atto, indica proprio l’assunzione
umana, responsabile dell’azione da svolgersi). Da qui il verbo è passato anche all’ambito liturgico, indicando lo svolgimento dei riti.
Così, da quest’area semantica, Üma è venuto ad indicare “un atto pieno di conseguenze” (in Eschilo), “un dovere” o una “funzione”
(in Platone); più genericamente un “fatto”, una “vicenda”. Mai, però, il termine è utilizzato in senso specifico per indicare l’opera
teatrale [Cfr. P. CHANTRAINE (a cura di), Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Paris 1983, 297].
Linguisticamente parlando il termine italiano dramma, in senso lato, indica, secondo la retorica classica tradizionale, un genere
letterario: l’opera di poesia o anche un qualunque componimento letterario in forma dialogica senza interventi narrativi, che comporta
l’azione non come un’eventuale integrazione, ma come un elemento essenziale (per questo era destinato alla rappresentazione scenica).
Normalmente si catalogano così i drammi: satiresco, sacro o liturgico, pastorale, musicale o lirico, storico, tragico, sentimentale,
comico o buffo, borghese, giallo. Da qui, drammatica, che è l’arte che riguarda questo genere letterario, che, essendo il più complesso,
si pensa storicamente ultimo a costituirsi, dopo l’epica e la lirica. Di qui anche i vocaboli drammaturgia (la teoria e la tecnica che
governano la composizione di un dramma) e drammaturgo (colui che è l’autore dell’opera letteraria drammatica) [Cfr. “dramma” e
“drammatica” in Dizionario Enciclopedico Italiano (Treccani) IV, Roma 1970, 192; in Grande dizionario della lingua italiana IV (a
cura di Salvatore Battaglia), Torino 1967, 1000; e in Le muse. Enciclopedia di tutte le arti IV, Novara 1965, 261-263 (voci a cura di
Raffaele Spongano). Cfr. anche “teatro” e “testo per teatro” in Gli strumenti del sapere contemporaneo I. Le discipline, Torino 1985,
730-743 e Gli strumenti del sapere contemporaneo II. I concetti, Torino 1985, 884-887 (entrambe le voci sono a cura di Luigi Allegri)].
In senso specifico, dramma indica un genere letterario teatrale autonomo che si è affermato alla metà del secolo XVIII, in età
illuministica, come superamento della classica distinzione dei generi della tragedia (perché il tragico non coincide più con l’eroico, ma
con la quotidianità della vita) e della commedia (perché la dura realtà ha ben poco di “comico”). I primi drammi – a questo riguardo –
sono considerati Miss Sarah Sampson di G.E. Lessing (1755) e Le fils naturel di D. Diderot (1757), che tra l’altro, fu il primo
teorizzatore di questa nuova forma teatrale (Discorso sulla poesia drammatica), che in sostanza era indicata come una “commedia
seria” o come una “tragedia borghese”. Infatti, centro era la rappresentazione di una vicenda umana, che - pur esemplare – non è
straordinaria, non è accentuata nei suoi toni eroici, ma è connotata dalla concretezza dei problemi dell’uomo della società borghese del
tempo. Il dramma viene infatti considerato un frutto della borghesia giunta alla consapevolezza della propria maturità e identità. Questa
17
5
“I. INTRODUZIONE: DETERMINAZIONE DI LUOGO”20
L’introduzione di Prolegomena è essenzialmente una giustificazione della proposta balthasariana.
Dedicheremo, nella seconda parte del nostro lavoro, una particolare e approfondita attenzione ai
primi due paragrafi 21 e al paragrafo conclusivo 22 di questa “Introduzione”, perché istruttivi
all’elaborazione dell’obiettivo della nostra ricerca.
Basti ricordare, per ora, che Balthasar è preoccupato di esporre 23 la risposta alle critiche
fondamentali circa la possibilità di una relazione teologica istruttiva (per la teologia stessa) fra teatro
e cristianesimo, critiche che nascono sia dal punto di vista della teoria del teatro24 e della riflessione
filosofico-teologica sul teatro25; sia dal punto di vista della storia del teatro26 e delle relazioni storiche
intercorse tra la Chiesa e il teatro27.
forma si affermò in particolare in Francia (Voltaire, Beaumarchais, Mercier), in Germania (Lessing) e in Inghilterra (Cumberland). Con
Schlegel (Sull’arte e sulla letteratura drammatica, 1809-1810) e in particolare con Hegel (che considera il dramma il più alto dei generi
letterari dopo epica e lirica) si afferma il termine nell’accezione romantica (che in parte conserva fino ad oggi) d’espressione artistica di
carattere tormentato, conflittuale, patetico. La storiografia letteraria del secolo XIX ne individuò gli esempi più rappresentativi –
retrospettivamente - nelle opere di Shakespeare e nel teatro spagnolo del secolo XVII.
Balthasar utilizza dramma e drammatica in senso lato, sottolineando un aspetto semantico particolare attraverso il quale, poi, rilegge
l’intero, cioè il suo legame con l’azione liturgica. Per Balthasar il teatro greco (e poi il teatro in generale), conserva sempre un certo
livello di liturgicità, d’apertura al divino, ora in maniera esplicita, ora in maniera implicita e confusa; ora conservando la pienezza di un
orizzonte e di una problematica, ora mutilandola ed oscurandola fin quasi alla disgregazione; sempre però illuminando almeno un poco
l’esistenza, tanto da poter trovare in essa una risposta, frammentaria fin che si vuole, al mistero del mondo e in esso al mistero
dell’uomo. Così, in senso peculiare nell’opera balthasariana la categoria dramma viene ad essere il centro catalizzatore di alcune
dimensioni essenziali: la libertà dai confini tra la platea e l’attore; la possibilità, quindi, di percepire se stessi come co-attori, perché
immersi nel pieno della logica rappresentativa; il coinvolgimento radicale nelle questioni che toccano l’esistenza stessa come tale. Il
dramma cioè, “tramuta l’evento in un’immagine visuale” e obbliga a ripensare l’esistenza personale alla luce di un ruolo e di una
missione che toglie dall’ovvietà di pensare se stessi come frutto della casualità e di riconoscersi, invece, posti davanti ad un “Regista”
(Dio) e ad un “co-attore”, “co-protagonista” che ha identificato umanamente la sua esistenza come “pura” missione (Gesù) in
obbedienza al Padre. Ripercorrendo il testo di Prolegomena, apparirà allora chiaro che Balthasar, di fatto, non solo amplia la categoria
“dramma” a valore onnicomprensivo della storia del teatro, ma ne radicalizza la figura come la figura del teatro in sé (o del meglio della
rappresentazione teatrale), in funzione di un chiaro intento teologico.
20 17-123
21 “Drammatica tra estetica e logica” (19-26) e “Tendenze della teologia contemporanea” (27-50).
22 “Teologia e dramma” (117-123).
23 “Ripensamenti” (51-84).
24 Il confronto è con il grande storico-teorico del teatro “Rudolf Kassner” (51-54), che non solo nega una possibile analogia fra la realtà
drammatica e la realtà cristiana, ma che anzi conclude per una loro totale contrapposizione, perché l’evento cristiano si pone come
semplice superamento del tragico, nel quale il dramma antico si è determinato.
25 Il confronto è con la proposta filosofica di “G.W.F. Hegel” (54-64), che non solo considera il “Dramma come vertice dell’arte”
(54-58), ma “nessun pensatore prima di lui ha sentito non solo, ma pensato, la rivelazione cristiana in modo più forte in base a categorie
drammatiche” (65); eppure la “Comprensione hegeliana del cristianesimo” (58-61) [“autorappresentazione dell’assoluto dove le
persone solo soltanto ‘maschere' dello spirito” (65) e “l’analogia... si risolve in identità” (66)] conclude per indicare il “Cristianesimo
come fine dell’arte” (61-64), perché l’azione non è più davvero drammatica, ma – ultimamente – già risolta in una sintesi superiore e
necessaria (“sistema”, non “dramma”): l’evento cristiano, pur rappresentando il dramma assoluto, dissolve il teatro. Questo non toglie
il rilievo decisivo di Hegel nella storia della filosofia del dramma e della teologia stessa, tanto da poterlo indicare – in questo preciso
caso – come “L’avamposto cattolico” (65-68) attorno al quale si catalizza la riflessione cristiana sul tema: “... il problema di fondo di
ogni teodrammatica, a cui ha mirato in ultima analisi Hegel e che già nel principio che abbiamo delineato definisce l’orizzonte
conclusivo: in che senso il dramma teologico è un dramma di Dio stesso? Dio entra nell’azione? E in tal modo Dio non viene degradato
a un momento di un processo più vasto? Oppure Egli rimane... lo spettatore superiore? Ma un simile ruolo è degno di lui? (...) In che
rapporto stanno la Trinità immanente e quella economica (che in Hegel in ultima analisi coincidono)? Che cosa significa kenosi riferita
a Dio? In che senso Dio è engagé nel gioco del mondo? Queste questioni teologiche vengono in chiara luce grazie alla filosofia di
Hegel” (68).
26 Sotto il titolo significativo di “Morte del dramma?” (69-84), si traccia un bilancio dell'alterna fortuna dell'azione teatrale,
determinata da “La perdita del quadro” (69-74) [cioè l’orizzonte “verticale”, teologale: “bisogna tener fermo che in un’ultima analisi
un’azione drammatica diventa significativa soltanto sullo sfondo o nella premessa di un senso assoluto” (72)] prima, e da “La perdita
dell’immagine” (74-77) [cioè la dimensione orizzontale, antropologica: “la questione esistenziale si fa più oscura a causa
dell’illuminazione scientifica, ancora più oscura di quanto lo fosse perfino nel mito” (75)] poi. Queste “perdite”, sono in fondo motivate
da “Il sovvrappeso del reale” (77-84), cioè dal fatto di riconoscere che “il tragico assume oggi dimensioni tali da far dire che l’umanità
ha sofferto più angosce e dolori di quanti se ne possano rappresentare a teatro” (79).
27 Storicamente, nelle relazioni fra “Chiesa e dramma” (85-116), è innegabile rilevare come “un’antipatia e opposizione al teatro
sembra congenita alla Chiesa” (85). La “Critica antica e cristiana del teatro” (85-89) ha vissuto storicamente un “Conflitto insoluto”
(89-106), alternandosi fin dall’inizio “Tra applauso e proscrizione” (89-100); solo la sacra rappresentazione medioevale ed il
passaggio “Dal mysterium al dramma” (100-103) porteranno in piena luce la “Neutralità precaria” (104-106) che la Chiesa ha vissuto
nei confronti del dramma.
6
Balthasar può così iniziare il poderoso corpo centrale del volume, con la convinzione che potrebbe
essere così espressa: il teatro (e non solo il teatro cristiano28) è paradigma dell’esistenza umana non
solo perché “copia”, ma perché “copia riflessa e agita”. Ecco perché, esplorando la drammatica, è
possibile far emergere “dati” teologicamente significativi.
“II. STRUMENTARIO DRAMMATICO”29
La seconda parte di Prolegomena è strutturata in due cammini complementari di segno opposto: la
via che porta ad “una centrale illuminazione dell’esistenza” attraverso la “intelligenza del teatro” (“A.
Il topos ‘teatro del mondo’ “) e “la via inversa che fa scaturire il teatro dall’esistenza”30 (“B. Elementi
del drammatico”).
“A. Il topos ‘teatro del mondo’ “31
Il primo cammino proposto da Balthasar analizza, attraverso la letteratura teatrale dell’Occidente, il
topos “teatro del mondo”:
“il nostro assunto è il motivo ‘teatro del mondo’, che sembra offrire un accesso essenziale all’importanza teologica del
teatro”, perché “è cifra che con una sola immagine esprime qualcosa che, per concetti, potrebbe essere dicibile solo
dialetticamente; nella filosofia essa è l’immagine che vi sopravvive e intorno alla quale si aggrappano estreme intuizioni
circa il senso e la struttura dell’esistenza“.32
Per questo, il corpo centrale dell’opera è uno studio vasto, puntiglioso e organico sulle forme
assunte dall'azione drammatica nella sua storia (una specie di “storia del teatro” riletta
teologicamente).
Balthasar osserva che già l’orizzonte antico33 del teatro si muoveva entro una visione della vita
terrena che non è “né pura fatalità, né pura libertà”, interpretando il margine di libertà umana
nell’oscillazione fra il suo essere “di fronte al ruolo” e il suo interpretarsi “nel ruolo”34. Il mondo è
come una scena dove gli uomini stanno recitando un dramma davanti al “divino” e con il “divino”
(comunque concepito), il quale “divino” è, in questo dramma, insieme l’autore e il regista, che
assegna e concerta i ruoli; quindi, lo spettatore e (alla fine) il critico o il giudice. Ma anche, in qualche
L’autore pone l’attenzione “Sul valore teologico del teatro cristiano storico” (106-116) enucleando quattro filoni di ricerca
interessanti: la “Drammatica della salvezza contemplata” (106-109), la “Centralità eucaristica” (109-111), la relazione tra “Mito e
rivelazione” (111-112) nelle rappresentazioni drammatiche, e la possibile conclusione del “Cristiano come partner ultimo possibile”
(112-116) per una vera drammatica, perché il dramma sta se la libertà finita rimane “drammatica” (cioè se c’è una trascendenza che è la
verità dell’esistenza; perché la libertà finita, recisa da quella infinita, è tragedia senza sbocco).
29 125-464
30 251. Il percorso, infatti, corre “lungo due linee di idee. Anzitutto con l'indagare che cosa ci sa dire in proposito il topos già dato di
‘teatro del mondo’ da Platone fino ai nostri tempi; e poi, dal momento che la varietà delle affermazioni raccolte, indirette in gran parte,
non porta a chiarezze sufficienti, lungo una nuova linea di riflessione diretta. In questa riflessione, intensamente praticata
dall'antropologia contemporanea, noi scopriamo la franca domanda che spuntando dall'esistenza umana viene posta alla rivelazione e in
tal modo anche l'inevitabile ‘punto di raccordo’ della drammatica cristiana con la mondana. Anche il teatro filosofico del nostro tempo
accende questa domanda che in senso proprio è anche la sola sua domanda. Ma ad essa non si deve rispondere isolatamente bensì nel
contesto dell'esistenza e del suo drammatico attuarsi. Si delinea così il compito per elaborare dalla drammatica dell'esistenza uno
strumentario che sia utilizzabile per una teodrammatica cristiana, in cui la drammatica ‘naturale’ dell'esistenza (tra assoluto e relativo)
si compie nella drammatica ‘sovrannaturale’ tra il Dio di Gesù Cristo e l'umanità. Questo strumentario può dapprima appoggiarsi
all'interpretazione già data del mondo come ‘teatro’ ed elaborare le categorie in essa già presenti” (121-122).
31 127-249
32 127, nota 1; 127
33 La ricognizione storica sulla concezione del teatro nell’antichità [“Cose antiche” (128-142)] viene condensata in tre nuclei di fondo:
la “Mimesi” (128-131), l’ “Etica dello spettacolo” (132-136), ma soprattutto la “Metafisica del ruolo” (136-142).
34 138. I concetti di ruolo e di teatro del mondo sono stati introdotti per la prima volta dal filosofo e letterato greco Bione di Borsitene
(nato a Olbia, Ponto Eusino nel 325 circa e morto nel 265 a.C.) e noi li conosciamo dai frammenti che Telete riporta. Da qui si rileva
come il teatro è stato visto fin dall’inizio come una metafora della vita umana, che è essa pure e innanzi tutto un dramma (dimensione
etica e antropologica del teatro). Ma, in ultima analisi, subito si è arrivati ad una chiave teologica di comprensione: ogni dramma è in
fondo un teodramma.
28
7
arcano modo, uno degli attori o agonisti: “gli dei sono più che tutto degli spettatori, ma molto
impegnati”35.
Questa visione è passata all’interno della concezione del teatro nel cristianesimo36, raggiungendo il
suo apice con il teatro barocco 37 , dove, a dispetto della nettezza del quadro (“la vita è una
commedia, il mondo un teatro, gli uomini sono attori, Dio è l’autore, a Lui tocca distribuire le parti, agli
uomini ben recitarle” 38 ), l’omologia con la vita reale e le tensioni ad essa immanenti sono
puntigliosamente mantenute, soprattutto nella figura eminente del commediografo spagnolo
Calderòn de la Barca (1600-1681)39.Questi conferisce profondità e vastità teologica al “ruolo” di Dio
e di Gesù Cristo nel dramma della storia del mondo (creazione e redenzione), tanto da arrivare nel
suo capolavoro La vita è sogno (1635) ad identificare ruolo e missione: l’uomo recita il ruolo a lui
affidato da Dio e in questo egli rappresenta (è) un frammento della sapienza eterna40.
La ricognizione storica termina con i moderni e i contemporanei, che per l’accentuata intonazione
antropocentrica, non riescono ad articolare libertà e necessità41. L’esito non può che essere “La
dissoluzione del topos teatro del mondo... In avvenire domina la scena da una parte il dramma
sociale o psicologico, dall’altra il dramma utopico - assurdo, due specie teatrali dello stesso genere.
A entrambe manca quella dimensione che fa del teatro del mondo una cifra dell’esistenza nel suo
insieme. (...) Tutta la domanda metafisica di un senso dell’esistenza sparisce semplicemente”42. Ma
la china lungo la quale “il topos teatro del mondo” stava inesorabilmente scivolando, culmina nel
“...teatro del mondo di Pirandello, un teatro perverso perché intimamente contraddittorio e perciò
irrapresentabile. (...) Non è più possibile trovare un punto fermo a partire dal quale il gioco delle
maschere e dei ruoli possa essere giudicato e valutato”43.
Certo, questa lunga ed erudita proposta, è in gran parte, per Balthasar, una pars destruens,
soprattutto con il confronto con i tempi moderni dove si perde quell’orizzonte antico che consentiva
alla drammatica di sfociare in una teodrammatica. In ogni modo, rimane salda in Balthasar la
convinzione che anche nel “buio” della drammatica si ritrovano “frammenti del mistero”:
128. Ma il problema che resterà da esplorare sarà proprio questo: chi è questo “altro” che distribuisce i “ruoli” del “dramma” della
vita? il destino? le circostanze? l’uomo stesso? il divino? un Dio? “Nasce allora il pericolo che l’accadere terreno degradi a gioco di
marionette” (129).
36 “Cose cristiane” (142-167): dalle origini [“L’atleta e il circo (età prima)” (142-146)] alla sacra rappresentazione medievale [“Storia
della salvezza e caducità (da Agostino a Calderon)” (146-153)]. Balthasar vede in Giovanni di Salisbury (1100-1180) la pietra miliare
della risposta cristiana all’interrogativo che la concezione greca aveva lasciato aperto: non il destino (o il “divino”) sta dietro ad ogni
uomo che recita la sua parte, ma Dio stesso. Così, è posto il “ponte” teologico per arrivare ai “misteri” del Medio Evo, che - quali
“espansioni” della liturgia cristiana dal tempio alla realtà “profana” - investono tutta la realtà di senso sacro e di tensione salvifica.
37 “Teologia e metafisica del teatro del mondo nel barocco” (153-167). Le acquisizioni (decisive) del teatro barocco, sono così
riassunte da Balthasar: “1) La corte è il vero palco del grande teatro del mondo... esiste una vera rappresentazione dell’Assoluto nella
storia del mondo: mondanamente come corte principesca, spiritualmente come chiesa gerarchica” (159); “2) Dove l’esistenza viene
immediatamente interpretata come teatro, l’io deve essere inteso come ruolo”, con una dialettica di fondo irrisolta: “.. là l’io deve
interamente adattarsi al ruolo ... per essere il ruolo stesso; qui l’io deve penetrarlo con lo sguardo e Agganciarsi all’eterno per non essere
sopraffatto dal ruolo” (163).
38 153-154. È la formulazione di Quevedo.
39 Non è inutile ricordare che già nel 1958 Balthasar aveva tradotto in tedesco Il grande teatro del mondo di Calderòn per la messa in
scena ad Einsiedeln (dove poi però viene preferita un’altra traduzione del testo) [Cfr. P. HENRICI, Primo sguardo su Hans Urs von
Balthasar, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 17-85 (qui
58)].
40 Buona analisi in chiave teologica si può utilmente ritrovare in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar,
Brescia 1997, 383-389
41 L’irrisolta tensione fra libertà e necessità mostra il suo acme nella formalizzazione kantiana, dove la libertà finita non può essere
assolutamente relativizzata, ma pure rimanda ad un Dio che si deve postulare. Si apre con ciò l’epoca moderna [“Cose moderne”
(167-241)] con il dramma idealistico tedesco [“Idealismo” (167-178)], con il dramma realistico europeo [“Disiecti membra poetae:
dopo l’idealismo” (179-205) con particolare attenzione a Franz Grillparzer (181-187), Friedrich Hebbel (187-192) e a Henrich Ibsen
(193-205)]. In questo panorama, singolare è il tentativo solitario di Hofmannsthal [“Ultimo atto del teatro del mondo: Hofmannsthal”
(205-222)] di “rappresentare all’uomo moderno il simbolo del teatro del mondo così come il cristianesimo, assumendo e completando
l’antichità, lo ha elaborato, un’operazione in cui si fanno i conti anche con la mutata problematica psicologica e sociale” (205).
42 204
43 222. Inizia così l’esplorazione delle “Maschere nude” (222-241) nella riflessione di “Nietzsche” (222-225), sia nelle opere di
“George Bernard Shaw” (226-236) e di “Luigi Pirandello” (236-241), appunto, culmine ed epigono dell’irrapresentabilità dell’esistenza umana.
35
8
“Il topos ‘teatro del mondo’ è stato scelto in vista dell’allestimento di uno strumentario drammatico ad uso della teologia,
perché questo topos nella sua ricca ed intensa concentrazione... contiene gli elementi che, attinti dal processo drammatico
stesso, offrono lo spunto a un’interpretazione religiosa, in ultima analisi teologica, dell’esistenza”44.
Quali sono questi “elementi”? Secondo Balthasar si condensano in tre differenze [la “Differenza tra
la finitezza (spazio-temporale) dell’opera rappresentata e il suo significato in-finito”45; la “Differenza
tra io e ruolo assunto”46; la “Differenza tra autoresponsabilità dell’attore per la sua recita e la sua
responsabilità davanti a un regista” 47 ] che vanno considerate “come area concessionaria della
tensione dell’azione drammatica”48.
“B. Elementi del drammatico”49
L’analisi precedente ha confermato che nel teatro è sempre possibile ritrovare “frammenti” della
verità del dramma umano 50 , anche se talora sub contrario. Per questo, dopo (e più della) la
ricostruzione storica, è possibile ripercorre il cammino in “senso contrario” (rispetto al topos “teatro
del mondo”), esaminando la realtà del dramma, per vedere come le situazioni, le questioni, le azioni
e le passioni degli uomini vi sono lì rappresentate e, a partire da qui, chiarire l’esistenza. È una
prospettiva più “teoretica”, che ha l’intento di evidenziare la forma e la struttura dell’azione
drammatica, per dare luce all’esistenza umana. Lunghe analisi, perciò, sono dedicate a sondare
“l’essenza” delle componenti del modello teatrale (autore, attore, regista, pubblico e spettatore,
orizzonte di precomprensione, tempo e situazione, ruolo e rapporto attore-ruolo) e delle due
dimensioni-chiave della rappresentazione drammatica (il tempo e lo spazio).
È indagata dapprima la “Triade della produzione” 51 che è all'origine dell'azione drammatica,
mettendo in gioco le persone che “fanno nascere” il dramma: “L’autore”52, “L’attore”53, “Il regista”54.
“Risultato: teatro del mondo come strumentario” (241-249; qui 241). Cfr. anche 204-205
242-244. Tre passaggi. a) L’opera teatrale è inesorabilmente “finita” come azione nel tempo, così come lo è l’esistenza umana; e la
possibilità di giudicare (solo dopo che il “gioco immanente e limitato della vita è finito”) il senso di una rappresentazione “è soltanto il
riflesso di un atto trascendente di giudizio”: questo fatto indica allo spettatore “che anch’egli sottostà a una valutazione trascendente”.
b) C’è una “ineliminabile anfibolia tra apparenza e serietà, nullità ed alta significatività del gioco scenico”: ogni ruolo è “effimero”,
eppure lì si gioca la “serietà radicale”; “Un significato eterno si fa – inconcepibilmente – trasparente nel gioco del tempo in quanto
tale”. c) ”la serie temporale delle azioni può contenere certo momenti deterministici, i quali però non possono togliere la libertà
dell’interpretazione”.
46 244-245. È il problema anche esistenziale dell’attore, del suo rapporto con il “ruolo” che deve rappresentare. Importante è questa
parte, perché risulta alla fine il rapporto massimamente centrale, la cellula madre del dramma (e dunque - previa trasposizione dal ruolo
alla missione, e dall’attore all’uomo semplicemente - del teodramma): “qui si è al mistero fontale dell’uomo”. Anche qui tre passaggi.
a) la differenza tra io e ruolo non è un “dualismo puro... c’è nella differenza anche una certa identità”. b) “La identificazione nella
distanza... viene intravista ovunque come il compito centrale”: “l’io non se ne sta intangibile dal ruolo, dietro il ruolo, anzi mediante il
ruolo l’io si gioca il suo stesso destino”. c) C’è un “rinvio sociale vicendevole dei ruoli”. Certo, “Esiste un punto di solitudine, perché di
incomunicabilità in ogni ruolo” (...) ma questi ruoli solitari formano tutti insieme un unico gioco, nel procedimento del quale soltanto
essi hanno il loro senso”.
47 246-247. Ancora tre passaggi. a) “Le due differenze indicate finora alludono a una identità più in alto, a una sorgente od origine, che
sia responsabile per il gioco che si recita all’interno della finitezza scenica, sia per i vari ruoli con la loro dialettica di libertà e
disponibilità, di persona e contesto sociale”. Eppure gli attori “non sono schiavi del supremo signore del gioco”; “la libertà degli attori
non è assoluta, ma si realizza veramente solo nella differenza del ruolo”. b) “Se la responsabilità dell’attore ha un rapporto a monte
verso l’autore e regista dell’opera, questi non può allora, lui che porta la responsabilità per l’insieme del gioco, comportarsi come uno
spettatore puramente passivo. Egli è spettatore... in quanto il gioco si svolge davanti a lui ed egli non vi entra di persona. Ma la sua
responsabilità... non consente alla sua posizione di essere quella del puro spettatore”. c) “la differenza tra la responsabilità universale
del maestro per l’esecuzione e l’autoresponsabilità del singolo attore per la sua recita cela in sé tutta l’ampiezza delle questioni
escatologiche”.
48 247-249. Questa la riflessione: a) “il contenuto (nel ‘teatro del mondo’) può essere soltanto l’uomo, nella sua problematica tra io e
ruolo, tra ciò che egli è e ciò che egli rappresenta, dove la sua rappresentanza è solo inadeguatamente separabile dal suo io”. b) La
domanda centrale, allora, è: “dove è riconoscibile nel costrutto dei ruoli, i quali come tali sono sempre e solo ‘rappresentativi’, la
rappresentanza autentica dell’autorità definitivamente valida (della divina volontà)?”. c) “Dal momento che l’uomo è ogni volta un io
in un ruolo alto o basso, potente o impotente, un’azione da teatro del mondo sarà sempre condeterminata da come l’uomo è stimato nel
suo ruolo infimo”.
49 251-464
50 “Dramma e illuminazione dell’esistenza” (251-260).
51 260-295
52 260-272
53 272-287. Il tema viene svolto attraverso la problematica inerente alla “Presenzializzazione” (272-276), sviluppata sia nel “Problema
psicologico-tecnico” (277-282), sia nel “Problema esistenziale” (282-287).
54 288-295
44
45
9
Questa parte è importante perché orienta la riflessione intorno al gioco delle libertà sulla verticale
della necessità, attraverso l’intricata relazione tra l’autore dell’opera55 e chi la rappresenta in scena,
il quale è libero addirittura fino all’improvvisazione, ma anche responsabile di fronte all’autore e
all’opera stessa56. Ora: questa distanza tra “fedeltà dell’attore per il ruolo e la fedeltà verso se stesso
non possono arrivare semplicemente alla identificazione”, cosicché l’unità del dramma (aggravata
dalla pluralità dei personaggi) deve essere assicurata dalla presenza di un regista, la cui
caratteristica è quella di annullarsi per “svegliare le energie creative nell’attore”57. Così, nelle figure
dell’autore e dell'attore scoperto è il rapporto fra libertà divina e umana e nella figura del regista è
prefigurata “una mediazione interiore, insieme cristologica e pneumatica“58.
La “Triade della realizzazione”59 (cioè le relazioni che intercorrono all’interno della rappresentazione
drammatica), rinforza l’evenemenzialità drammatica, con il rilievo che, se da una parte sulla scena si
agisce davanti a qualcuno e per qualcuno, “l’assistenza del pubblico è tutto il contrario che
passiva”60. Fra palcoscenico e pubblico si insatura un con-gioco particolare, in cui “i ponti sono fluidi”
(contemporaneamente “essere uno spettatore e un coattore nel gioco dell’esistenza” 61): l’azione
drammatica riproduce simbolicamente l’atto esistenziale per offrirlo ri-elaborato all’accoglienza o al
rifiuto del pubblico, il quale si lascia guidare dagli attori per poter-si guidare nella vita. Questo “ gioco”
sempre mette in rilievo un determinato orizzonte, corrispondente alla questione esistenziale che
l'interprete solleva, dando voce all'intenzione dell'autore ed alla realizzazione del regista.
Il tempo e l’azione, poi, cioè le due dimensioni-chiave della rappresentazione drammatica (due
topoi), sono riletti esistenzialmente da Balthasar in termini di finitezza/morte e di bene/male, sempre
con un’attenzione teologica62.
A proposito del primo topos, Balthasar ha cura di rilevare innanzi tutto come il teatro sia
co-implicazione di orizzontalità e verticalità, aristotelicamente “imitazione di un’azione completa e
totale”63. La costrizione temporale è poi responsabile, secondo Balthasar, della percezione della
“Situazione” del dramma, come costellazione di azioni in continuo mutamento ma pure “dentro una
stessa partita”: il dramma rimane in vita solo laddove il “si deve” non incomba sull’uomo senza che al
tempo stesso non inabiti nel suo intimo più profondo “come il suo compito più proprio”64. Ma il cuore
di questa parte dedicata alla “temporalità” è data dall’analisi sulla morte65. Nel dramma, infatti, la
Il quale deve “stare dentro-sopra il suo dramma” (262) eppure, nello stesso tempo, “non esiste creazione drammatica senza una certa
autoalienazione del drammaturgo a favore degli esseri a cui ha dato vita” (262-263).
56 “… la presenzializzazione non è un fatto meccanico, ma è essa stesa creativa”, eppure “egli deve dare l’impressione che lui vuole ciò
che deve secondo l’imperativo del ruolo”(275): “il vero paradosso consiste nel fatto che l’arte dello spettacolo è appunto un’arte –e
quindi anche una tecnica -, il cui materiale compone tutto intero l’io corporeo, psichico e spirituale dell’autore” (278).
57 281; 291
58 293. Infatti, il regista “dev’essere un impegnato al punto da conferire attualità all’opera da rappresentare; e nello stesso tempo
interiormente formato al punto da non identificare questa attualità con una qualche limitata dottrina sociale”.
59 295-312. La triade è questa: “Offerta” (295-297), “Pubblico” (297-303) e “Orizzonte” (303-312). Chiude questa parte un “Excursus
su Brecht e Ionesco” (312-334. In particolare: per Brecht, 312-321; per Ionesco, 321-334), nel quale si mostrano emblematicamente –
in questi due autori, che vengono messi continuamente a confronto tra di loro – le relazioni e i rapporti possibili tra la triade della
produzione e la triade della realizzazione.
60 296
61 298
62 “Finitezza” (334-402) e “La lotta per il bene” (402-450). “la finitezza e la morte appartengono nel modo più serio – più serio che in
qualsiasi altro schema ideologico – all’azione, e la lotta per il bene è portata a una profondità che solo qui si raggiunge... e l’immagine
estetica diventa ora appunto ‘drammaticamente tridimensionale’ “ (623).
63 “Il tempo dell’azione” (334-344; qui 335). Infatti, costituito come un’”abbreviazione o un condensato dell’esistenza”, il dramma
“nella sua angustia orizzontale - temporale e nella costrizione di condurvi a conclusione significativamente un’azione, rende - nel
simbolo - visibile il significato in genere della finitezza umana, e in essa anche un (verticale) elemento di infinità” (335). “All’interno di
un tempo finito... si deve mostrare un ultimo senso dell’esistere”, dove “la tensione obiettiva sta nell’interna trascendenza di una
rigorosa immanenza” (336).
64 “Situazione” (344-351; qui 344 e 349). Così l’incrocio della verticalità e orizzontalità del “tempo dell’azione” ricade nella
“situazione”: gli aspetti “dell’istanza verticale che determinano insieme la situazione drammatica, sono interamente incarnati nei dati
della realtà orizzontale (interumana e interspirituale), senza risolversi semplicemente in essa” (351). Esemplare, ancora una volta, di
questa tensione (senza ri-soluzione) tra immanenza e trascendenza, rimane il teatro di Calderòn [“Excursus: destino, libertà,
provvidenza in Calderon” (351-360)], nel quale il “gioco” tra libertà finita e infinita impegnate nel problema della salvezza, sono in un
dramma già teodrammaticamente illuminato. Si noti l’importanza attribuita a Calderòn da Balthasar : “Tommaso d’Aquino dovrebbe
essere a lui (Calderòn – ndr) come Omero si rapporta a Sofocle” (68).
65 “Opere intorno alla morte” (360-397). Istruttivo e notevole, a questo proposito, è il lavoro di P. MARTINELLI, La morte di Cristo
come rivelazione dell’amore trinitario nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Milano 1995; soprattutto, per quanto riguarda questa
55
10
morte rappresenta la parte essenziale, perché diventa visibile il limite estremo dello “scontro” tra
trascendenza e immanenza (comunque esse siano pensate), aprendo così alla domanda di senso
“globale”. A tal punto che, proprio nella drammatica della morte, Balthasar riesce a far emergere
espressamente anche nei drammaturghi contemporanei 66 , l’orizzonte drammatico che
caratterizzava il “topos teatro del mondo” e che pareva perduto (nella considerazione del resto del
dramma).
Il confronto con la morte, quindi, radicalizza la connotazione essenziale del dramma, il suo essere
“azione umana in senso enfatico”, aprendo decisamente il momento etico del dramma (è il secondo
topos, “La lotta per il bene”). Balthasar ha buon gioco a mostrare come ogni vero dramma non sia
altro che un processo dove si lotta per il bene, o meglio ancora, come anzi tutto esso sia una ricerca
dove sia esattamente il bene dell’uomo, la cui azione e decisione (se hanno un senso) consistono
nel raggiungimento di questo bene. Ma il “dramma” sta nel fatto che “Il bene (che) sfugge”: “l’uomo
per poter vivere, è costretto a scegliere”, ma i criteri di scelta non possono essere ritrovati “su
dimensione astratta” (o “puramente oggettivi” - il “bene in sé” -, né “puramente soggettivi” - il “bene
per lui”), ma solo “nell’intreccio di entrambi questi punti di vista, intreccio che risulta dall’essere
uomini tra uomini, dal carattere dialogico dell’esistenza”67. Ma, pure se talvolta identificato, il bene è
un bene che quasi mai si realizza a dispetto delle migliori buone scelte e volontà e che, anzi, vede al
suo posto la realizzazione del suo contrario: il male, la tragedia68.
“III. PASSAGGIO: DAL RUOLO ALLA MISSIONE”69
I guadagni dell’attraversamento del teatrale sono messi a frutto nella terza parte del volume nel
passaggio alla domanda più direttamente filosofico-esistenziale implicata nel dramma e che
continuamente è emersa come sottofondo del percorso fin qui effettuato: chi in realtà “gioca” il gioco
drammatico dell’esistenza? Chi sono io, posto sulla scena di questo dramma?
Fin dall’inizio Balthasar aveva indicato la necessità di confrontare “la varietà delle affermazioni
raccolte, indirette in gran parte” di tutta la parte storico-teoretica del dramma, “lungo una nuova linea
di riflessione diretta”. Infatti, tanta ricchezza di lavoro e d’indagine sulla drammatica “non porta a
chiarezze sufficienti”70. Occorre, cioè, direttamente confrontarsi con l’interrogazione, socratica ed
eterna, della conoscenza di se stessi. Per questo, in quest’ultima parte di Prolegomena, Balthasar
ripresenta al centro la questione del senso, non più solo alla luce della drammatica (in senso stretto),
parte di Prolegomena, il capitolo quinto, La morte nel teatro occidentale: tentativi di significazione (205-227) e il capitolo sesto, La
morte come centro del “teatro patetico del mondo” (229-273).
66 Tre punti culmine l’autore scopre nella rappresentazione anche contemporanea della morte: il suo senso morale assoluto; il suo senso
quasi ossessivo; un certo postulato di mutamento radicale dell’uomo e della società. Infatti la morte (più di ogni altro tempo del
dramma) assume dimensioni che hanno del sacrale e del misterico: “La morte come destino” (362-365) o come “Interprete della vita”
(365-367); “L’immanenza della morte” (367-370) nella vita o il suo essere “Sul confine” (370-374) del tempo; la “Morte come
espiazione” (374-377); il legame tra “Morte e amore” (377-382) fino alla “Morte vicaria per altri” (382-389); la morte come
“Detronizzazione dei re” (390-397), come “caduta” di ogni patetica assolutizzazione degli individui. A questo segue un breve
“Excursus: il dramma delle generazioni” (397-402).
67 “Il bene che sfugge” (402-412; qui 404). E questo, si noti, è un rilievo insuperabile perché “l’assoluto si rende presente non in
persona semplicemente, ma si mostra soltanto a riguardo di beni e valori relativi” (407). Così, il dramma è chiamato sì a illuminare il
bene e a discriminarlo dal male, a porre l’agire umano “sotto un’ultima luce che giudica”, ma anche (e insieme) a suggerire che “questo
giudizio non compete a nessun uomo” (411-412).
68 “Tragico, comico, tragicomico” (412-438): “fin dove arriva il disordine nelle profondità dell’essere? E in che rapporto sta la colpa
con questo disordine?” (418). Si tocca così un’altra dimensione fondamentale: il giudizio su giusto e ingiusto [“Il giusto e il giudizio”
(438-450)]: “dramma significa azione, e l’agire umano è determinato da un fine giudicato degno che vi si tenda, da ciò che all’agente in
una certa situazione appare giusto. Con il concetto del giusto è dato anche quello di senso” (438). Nel dramma, a pronunciare il
giudizio, è lo spettatore o il critico o lo pronuncia spesso internamente il dramma stesso (che non per nulla spesso si configura a guisa di
tribunale). Ma è palese la frequente incertezza circa la colpevolezza o innocenza e le inestricabili ambiguità finali in cui simili giudizi
spesso sfociano. Cosicché “se il dramma è necessariamente giudizio, il drammaturgo stesso deve porsi sotto giudizio” (446). Non
stupisce allora, al termine di questa parte, che Balthasar dedichi un “Excursus: Shakespeare e il perdono” (450-464), in cui si mostra e
documenta che il motivo del perdono è quello più onnipresente nella drammatica di Shakespeare. La impraticabilità di un giudizio nel
tempo, porta il vertice dell’umano possibile a vivere il perdono come “soluzione” del dramma esistenziale.
69 465-624
70 Cfr. 121-122
11
ma anche della riflessione esplicita in merito (ri-esplorata e ri-catalogata, però, alla luce delle
categorie drammatiche). Scorre, così, un’impressionante rassegna storico-critica delle soluzioni
presentate alla domanda del senso, ai tentativi proposti per dare risposta all’io, a ciò che realizza ora
il mistero dell’individuo, ciò che altro dall’io gli permetta, però, di essere compiutamente se stesso.
La domanda fondamentale che sorge nel dramma, allora, è quella che costituisce la radice
dell’esistenza personale: “chi sono io?”71. Occorre precisare “il senso della domanda”: nessuno,
infatti, può rispondere a questa domanda senza almeno essersi implicitamente identificato con una
parte o con un ruolo72. Questo significa che la differenza tra io e ruolo (a sua volta costituita nel
mistero di una trascendenza a cui tale differenza intrinsecamente e interlocutoriamente rimanda) è
rischiarata non oltre, ma nella contingenza. Chiaramente non si dà “altro punto di partenza che il
concreto, che il singolo”73. Chiaro, allora, che Balthasar chiami ruolo ciò mediante cui l’io (l’uomo
singolare) diventa veramente se stesso: è la sua missione, il senso del suo mistero e destino, quell’
“altro” in cui si adempie in quanto io.
La rigorosa immanenza dell’accesso alla trascendenza giustifica le due direzioni a cui si presta fin
dall’inizio “L’anfibolia del Gnothi Sauton”: per un verso “attraverso la distanza che nella domanda si
rende possibile per noi nei riguardi del mondo, l’uomo attinge il suo ‘theion’, anche se quanto al resto
egli rimane condizionato dai principi del mondo”74 (e qui sta la grandezza dell’uomo); per altro verso
“da parte dell’assoluto l’uomo viene riconsegnato al luogo che gli spetta, alla sua finitezza, alla sua
mortalità”75 (qui sta, invece, la piccolezza dell’uomo).
L’equilibrio delle due direzioni non è di facile stabilizzazione, tanto è vero che su questa piattaforma
sono chiamate a raccolta tutte le teorie moderne che per qualche aspetto si interessano dello scarto
di identità e di ruolo nella dinamica della libertà finita e nel rapporto di questa con la libertà divina. I
pensatori che si sono occupati di questa problematica durante la storia del pensiero occidentale,
sono divisi da Balthasar tra chi ha interpretato il ruolo come un destino di delimitazione dell'io 76 o,
come alienazione dell’io 77 . Tra chi, cioè, identifica l'io semplicemente col ruolo che egli gioca
71
467-478
467-473. Infatti, il ruolo fa emergere “quel dualismo che ogni uomo sperimenta (in superficie o in profondità, in modo passeggero o
durevole) tra ciò che io rappresento e ciò che io realmente sono, tra i vestiti più o meno accessori che ho dovuto o voluto portarmi
addosso per tirare avanti a vivere e il corpo che là dentro si nasconde e che non è toccato dal mutamento di abito” (467).
73 468. Per questo la domanda sul soggetto non può tematizzare la differenza a prescindere dalla fatticità in cui si offre: non può, cioè,
prendere la forma essenzialista di “che cosa è o che essere è l’uomo?”, ma solamente la forma singolare “chi sono io?”. E se alla
domanda è possibile dare delle risposte, queste non saranno organizzabili entro una chiusura sistematica, perché questa domanda “tutti
la devono fare, ma ciascuno la può fare soltanto isolatamente per sé solo” (469).
74 473-478; qui 473
75 474
76 "Ruolo come delimitazione" (479-527). Per i "delimitativi" l’io si ritaglia come "Articolazione della totalità" (479-490), cosicché
l’idea che la singolarità dell’io possa essere attribuita al singolo da parte di Dio stesso non riesce in alcun modo ad affiorare: “la risposta
che noi siamo una articolazione del tutto non ha potuto garantire agli individui la loro personale irripetibile singolarità” (527). Così, per
primi, gli stoici per i quali, secondo il loro panteismo monistico, l'io non è che particola o favilla effimera del fuoco divino universale.
Così anche i neostoici romantici alla Spinoza, Herder, Goethe, Hölderlin. “L'io muore affinché il tutto esista” secondo Herder, per il
quale “tutto ciò che è frammisto di personalità [singolare] dev'essere buttato nell'abisso”, cosicché “l'io perviene a se stesso negando se
stesso” (490). Ma, dopo i romantici, è soprattutto la moderna “Psicologia” (490-515) e “Sociologia” (515-527) che considera
“delimitativo il ruolo” dell’io: l’io adempie il suo significato limitandosi al suo ruolo immanente e rinunciando a compiti superiori,
oppure riducendosi a parte dell’inconscio, o ancora perdendosi semplicemente nel superiore, poiché l’io muore, affinché il tutto esista.
Per la "Psicologia", Balthasar prende in considerazione "Sigmund Freud" (491-499), "C.G. Jung" (499-507) e "Alfred Adler"
(507-515), per i quali “l'inarticolazione [dell'io] nella totalità universale [è] la meta ultima della terapia” (491). Freud più di tutti, per il
quale “l'io è solo un pezzo dell'es”: “È una povera cosa che sta sotto tre specie di dipendenze e conseguentemente patisce sotto le
minacce di tre specie di pericoli: da parte del mondo esterno, della libido dell'es e del rigore del super-io. Tre specie di angosce
corrispondono a questi tre pericoli” (citazione a pag. 497). Nessuna meraviglia che l'io sia ben presto afferrato dall'istinto di morte
(rientro nell'Es) e di distruzione. Le pagine che seguono, dedicate ai superatori di Freud, dimostrano che almeno in questo punto
particolare non l'hanno superato. Sia Jung, che Adler non sanno, alla fine, che suggerire una drastica moderazione dei desideri d'infinito
dell'io (a es. di un'immortalità personale), denunciati come egoistici e fonte di nevrosi. Ma anche la "Sociologia" non sa proporre nulla
di meglio, in quanto non si fa che sostituire una totalità ("psicologica o psichiatrica") con un'altra non meno vorace: “Ancora una volta
il ruolo emerge dal grande tutto, che ora non è più il cosmos-logos stoico, né più l'inconscio freudiano o junghiano o il sentimento di
comunità adleriano ma la socialità umana” (526).
77 "Ruolo come alienazione" (529-569). Gli “alienativi” sono diversi dai “delimitativi” ma non opposti, perché propongono
semplicemente un altro modo di risolvimento dell'io singolare in una totalità. Questi, infatti, sostituendo alla matrice stoica quella
neoplatonica, ri-solvono l’io (come individuo apparente) nel “Ritorno all'essenza" (529-541): l’idea di fondo è che “il produttore sta più
in alto ed è più universale del prodotto”, e che “le cose in Dio sono più buone e più vere, perché eterne e immutabili” (530-531). Questo
modo gli idealisti ["Idealismo" (541-569): "Fichte" (542-548), "Schelling" (548-559) e "Hegel" (559-569)] lo mutuano dai neoplatonici
72
12
nell’insieme del mondo (l’individuo rinuncia ad un compimento superiore e illimitato e si rassegna ad
essere una pura parte di un tutto che non comprende), e chi dissolve il ruolo nel ritorno all’unità
(l’individuo si aliena lasciandosi assorbire nel superiore e illimitato, nel Tutto che annienta il
singolare).
Se ci si fermasse ai risultati riflessi delle scienze profane - conclude allora Balthasar - non sarebbe
salvaguardata l’irripetibilità di ognuno, la propria singolarità: “I due tentativi recensiti fin qui per una
risposta alla domanda ‘Chi sono io?’, sbagliano il bersaglio perché tutt’e due le volte l’io personale si
deve buttare via a favore di una vita o di un’essenza più vasta, e non si riesce a indicare nessun
legame necessario tra questa via o essenza e questo io determinato”78. “Non dovrebbe, perciò,
l'uomo ardire di avventurarsi e di fissare la sua singolarità là dove il pensiero religioso aveva già
puntato il dito: in Dio?”79.
Questo indice su Dio del pensiero religioso a fondamento della personalità singolare, Balthasar lo
rileva in alcuni tentativi80 (che rappresentano altrettanti approcci al cristianesimo), come possibile
mediazione tra i due estremi sopra ricordati; tra questi, un posto di rilievo assumono i cosiddetti
“dialogici” 81 , per i quali la radice vivente e garante dell'io è nel “tu”, ossia nel dialogo vivente
esistenziale tra persone umane. Ma questa è per loro solo la radice penultima. Imbevuti del grande
dialogo profetico tra l’uomo e Dio, identificano l'ultima radice del dialogo interumano nel Tu eterno e
divino, con cui ogni io sta primordialmente in relazione ontologica immediata, identica alla creazione
individuale di un Dio personale che chiama creando ciascuno inconfondibilmente per nome: una
chiamata che è, insieme, il conferimento del ruolo (o missione) d'amore anche verso altri io così
creati. Questa, che è l'unica, vera e nitida risposta alla domanda guida “Chi sono io?”, si trova
minacciata in Buber da un certo riduzionismo filosofico82. Più limpidamente Rosenzweig, invece,
riconosce “il nostro essere immediatamente interpellati, chiamati da Dio”: è anzitutto Dio che si va
cercando un tu 83 . Il guadagno è essenziale: è nella concretezza dell’incontro con Dio che la
(Plotino), nonché da certi mistici, (in specie Eckhart). L'io singolare o “empirico” non è più neanche una “parte” reale dell'Assoluto,
comunque questo s'intenda, ma una “parte” fenomenica, un’apparenza, una degradazione o caduta, un'alienazione appunto, il cui più
alto destino è di rientrare e di scomparire nuovamente e definitivamente nell'Assoluto: “l’io non viene assunto come tale, ma decade a
momento inapparente” (568). Così, paradossalmente, quello che era un “orgoglio umanistico” (571) finisce per radicalizzare la
negazione dell’uomo: se per i "delimitativi" c'era ancora realmente qualcosa che poi si risolve nella totalità, per gli "alienativi" non c'è
realmente niente. L'idealismo in tutt'e tre le sue forme è una tomba dell'io singolo in quanto persona.
78 571
79 527
80 "Tentativi di mediazione" (571-620). Due tentativi sono pre-cristiani. Nell’antichità, soprattutto nelle religioni babilonesi, assire ed
egiziane, la figura del re ["Rappresentanza: il re" (571-578)]: “il re non è soltanto rappresentante di Dio davanti al popolo, ma insieme
dà forma in se stesso agli individui del suo polo e li rappresenta davanti alla divinità” (572). Così l’io – almeno quello del re – viene
salvato nella sua singolarità, perché vive un ruolo di rappresentazione dell’umano (presso il divino) e del divino (presso l’umano).
Qualcosa di simile, ma su un piano minore e più incerto, avviene anche nell’altro tentativo pre-cristiano: nell'idea platonica di daimon
o in quella latina arcaica di genius ["Dignità garantita: il genio" (578-584) ], questo spirito protettore di ciascuna persona (inteso spesso
come elemento divino dell’anima) diventa l’identità fondante la personalità dell’individuo (massimamente nelle personalità
eccezionali). Due tentativi di “mediazione”, invece, sono “post–cristiani”, cioè contemporanei: l'ebreo postcristiano Georg Simmel
["La legge individuale" (584-604)] e gli ebrei dialogici ["Il principio dialogico" (604-620)]. L' “individuologia” di Simmel, fortemente
polemica contro ogni forma di totalitarismo metafisico e sociologico (illuministico, kantiano, idealista, socialista), riconosce la
percezione della singolarità umana come eredità tipicamente cristiana: “nell’assoluta autoresponsabilità dell’anima, nuda davanti a
Dio, e in ogni ora della sua vita, io vedo il più profondo nocciolo meta-etico del cristianesimo” (586). Anzi, Simmel riconosce che per
il cristianesimo non ci può essere vera singolarità umana, senza reciprocità delle libertà (in senso finito e infinito): “La singolarità
personale del Dio cristiano creò il senso per la singolarità di volta in volta della sua immagine, della persona umana” (586). Ma nella
sua proposta, il concetto “stranamente problematico di Dio” (601), che per essere affermato nella sua singolarità e personalità deve
annullare la singolarità e personalità dell’uomo, porta a considerare impraticabile e intollerabile questo aggancio trascendente
dell'individualità.
81 Sotto questa denominazione, vengono raccolti alcuni pensatori che si avviano un po' tutti insieme (e indipendentemente l'uno
dall'altro) proprio nel 1818 (anno della morte di Simmel) a porre al centro della riflessione la categoria del “dialogo”. Questi pensatori
sono soprattutto gli ebrei Rosenzweig, Ehrenburg, Marcel, Buber, e l'austro-tedesco cristiano cattolico Ebner.
82 “fintantoché si occupa del divenire della persona dell’io mediante il tu” non si è più in grado di restituire questa intuizione alla
“verticale della rivelazione biblica”, finendo come “filosofia libera (che) si impadronisce della nuova scoperta e la riduce” (606-607).
83 614. “L'uomo si nasconde davanti alla domanda: ‘Dove sei tu?’. Allora arriva su di lui il vocativo di Dio: ‘Il nome proprio. Il nome
proprio, che è appunto non un nome-proprio, non un nome che l'uomo si è arbitrariamente dato, ma il nome che Dio stesso gli ha creato,
e che solo perciò, solo come creazione del creatore, è il suo proprio [...]. Qui sono io. Qui è l'io. L'unico io umano’. In esso penetra il
comandamento, che domanda ed esige amore, adesso e oggi. Ma ‘il nome proprio esige nomi anche fuori di sé. Giacché, veramente, il
nome non è, come la miscredenza vorrebbe sempre di nuovo verificare in un vuoto ostinato e altero, risonanza e fumo, bensì parola e
fuoco’ ” (citazione a pag. 616).
13
personalità umana (armonia di identità e ruolo) è donata a se stessa. E, finalmente, con Ebner, il
dialogismo assume la concretezza cristologica e la sua determinazione etica. L'uomo è sempre
“come il singolo davanti a Dio”84. Ogni uomo è inoltre, così, “un assoluto caso unico”. Ma lo è non da
se stesso, bensì solo da Dio e davanti a Dio, anzi, davanti a un Dio che gli parla veramente solo
mediante la sua Parola, Gesù Cristo85.
Interessante che, lungo tutto il cammino fatto, la tappa decisiva, che rende possibile una drammatica
teologica (perché fa esistere il partner di Dio e pone in maniera corretta la domanda esistenziale: chi
è questo uomo che si ritrova nella scena del mondo come un libero co-attore con Dio?), si trovi con
l’aiuto dell’Antico Testamento, ridivenuto sorgente d’ispirazione nel pensiero contemporaneo,
soprattutto tramite la mediazione di alcuni filosofi ebrei86.
“Ci resta ora unicamente il compito di mostrare perché nell'ambito biblico appare necessario il passaggio dal Vecchio al
Nuovo Testamento... come radicalmente questo io e questo nome unico significhi missione, si rende chiaro soltanto in
Gesù Cristo, dove l'io e il ruolo diventano nella realtà missione in assoluto e di fronte ad ogni meta terrestramente
raggiungibile diventano irripetibilmente e infinitamente identici. Theodor Haecker l'ha visto: ‘Soltanto nel dramma
dell'Uomo-Dio c'è identità tra lo stesso attore e lo stesso ruolo che egli deve recitare’.
Questa identità Tommaso di Aquino la interpreta con la ‘processio’ intradivina di Cristo, che fa del Figlio l'interlocutore del
Padre e che nell'uscita di Dio nel mondo è identica alla ‘missio’ del Figlio verso gli uomini, e a cui infine appartiene anche la
missione del Pneuma, che procede dal Padre e dal Figlio e che da entrambi viene inviato al mondo. Nell'identità di persona
e missione in Cristo è in modo assolutamente unico superata la dualità di essere ed apparire che attraversa l'intera
struttura dell'uomo, ma in un modo che essa non viene eliminata come fosse di valore ambiguo o minore, bensì
nell'umanità di Gesù - che da ‘servo di Dio’ fa la volontà del Padre - resta custodita in nitida distinzione”87.
Ma qui Prolegomena si ferma. Perché l’ingresso nel Nuovo Testamento, nella persona cristologica
come paradigma dell’uomo e di Dio, verrà sviluppato soprattutto nei due successivi volumi di
Theodramatik: Der Mensch in Gott e Die Personen in Christus.
84
Citazione a pag. 618
“un assoluto caso unico... lo diventa solo mediante Cristo, lo diventa nella richiesta di fede che Cristo gli rivolge e in questa sua fede”
(618). Così il rapporto che costituisce l'io è un rapporto di fede radicale: “solo a partire da Dio e da Cristo si rende possibile l'amore
cristiano del prossimo. Poiché ora si può dire che divino è soltanto il tu (perché Dio in Cristo è presente nel tu), e mai l'io, che ha da
confessare in umiltà solo la propria umanità che non può fare di sé un tu, ma può solo ricevere e accogliere come tu di un Altro io questa
qualità della divinità" (619).
86 “Conclusione” (621-624). “La direzione della strada era data dalla domanda: ‘Chi sono io?’: si trattava di uscire dall'arbitrarietà del
‘ruolo’, che viene gettato addosso all'io incolore come un vestito casuale che si può ogni momento cambiare con un altro e di pervenir
e a un ‘io’ che come tale è incommutabile e che solo così è reso idoneo a portare un ruolo davvero drammatico nello spazio non del
teatro ma dell'esistenza. Senza aver trovato questo ‘nome’ unico e irripetibile (Rosenzweig) del singolo interpellato da Dio e dotato di
nome-proprio, senza aver trovato l'uomo ininterscambiabile, l' ‘assoluto caso singolo’ (Ebner), non avremmo mai potuto avventurarci
in una teodrammatica, perché non ci sarebbe stato il partner per il Dio unico e irripetibile. Nessuna meraviglia che questo partner
compaia finalmente proprio ora mentre mettiamo il piede sul terreno della teologia biblica e dopo aver superato tutti i tentativi
esplicativi della mistica, della filosofia, della psicologia e della sociologia: egli stesso è appunto un prodotto e un elemento di quella
drammatica che secondo noi si dispiega unicamente nell'ambito biblico e che il coattore di Dio che si prende sul serio sarà in grado per
parte sua di dispiegare ulteriormente” (621).
87 621-622
85
14
SECONDA PARTE
LA METODOLOGIA DRAMMATICA IN PROLEGOMENA
Preliminari
Balthasar ha ripercorso in lungo e in largo la storia della drammatica, ha fatto emergere le categorie
centrali della drammatica stessa; ma non ha espresso organicamente la teologia drammatica88, né
tanto meno ha formalmente proposto una riflessione “sistematica” (e forse, adeguata) sulla
metodologia drammatica come metodologia teologicamente più rilevante (e rispettosa) per
l’approccio umano alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo, o meglio, all’azione con cui Dio si è rivelato
in Gesù Cristo. Eppure, fino a prova contraria, proprio questo primo volume della Theodramatik
voleva essere una giustificazione/fondazione dell’intera successiva opera. Dobbiamo concludere,
come Balthasar stesso dice, che “in ultima analisi solo l’esecuzione della nostra ‘drammatica’ può
esibire la prova della sua utilità o meno” e che “soltanto la sua esecuzione può alla fine dimostrare
l'efficienza del metodo qui tentato”89?
Che cosa vuol dire questo? Solo la possibilità di una concretizzazione effettiva rende ragione della
fatica dell’opera? Solo la possibilità di una drammatica teologica (cioè dell’impiego dei contenuti e
delle categorie del dramma così come si evincono dalla storia e dalla teoria del teatro) giustifica
l’esistenza (oltre che la plausibilità) di una teologia drammatica (cioè di una specifica metodologia
più confacente alla riflessione sull’agire di Dio nei confronti dell’uomo e dell’uomo nei confronti di
Dio)? Più drasticamente: solo perché si “travasano” in teologia contenuti della drammatica
(considerazioni, conclusioni...) e i contenuti della rivelazione stessa “hanno a che fare” con un agire,
la metodologia assunta trova ipso facto fondazione?
È evidente che l’approccio teologico di Balthasar non possa essere così superficiale. Questo non
rende ragione, non solo della fatica della sua opera (più di 2500 pagine!), ma nemmeno dell’onestà
intellettuale del teologo. È vero: Balthasar non ha riflettuto esplicitamente sulla teologia drammatica
(a differenza dell’estetica teologica90 e della teo-logica; e questo, comunque, - a nostro avviso rimane un deficit). Ed è altrettanto chiaro che Balthasar, proprio in acto, utilizzi una determinata
metodologia teologica. Ma non possiamo fermaci qui: Prolegomena vuole essere una fondazione
anche “teorica” (se non “teoretica”) di una particolare metodologia, quella drammatica, appunto. E a
nostro avviso, non si deve (si potrebbe?) cercare “al di fuori” di questo volume, l’intento che lo stesso
scritto “programmaticamente” aveva91.
L’ipotesi di lavoro - che vogliamo ora mettere alla prova - vede in tre paragrafi della “Introduzione.
Determinazioni di luogo” la chiave per comprendere il senso teologico di Prolegomena. Si vuole,
cioè, esplorare dall’interno del primo volume di Theodramatik quanto poi - eventualmente - Balthasar
stesso applicherà (o potrebbe applicare) nei volumi successivi. L’obiettivo, chiaramente, è
circoscritto: esula dalla nostra ricerca verificare se Balthasar nella sua opera sia riuscito
88
Seppur, per sommi capi, ha offerto sintetici spunti riassuntivi (come si è visto) al termine dei vari affondi nella storia e nella teoria del
teatro.
89 27; 123. Curioso che una simile affermazione Balthasar già la fece nella prefazione alla tesi di laurea Geschichte des
eschatologischen Problems in der modernen deutschen Literatur del 1929: “L’aspetto di novità e magari anche di rischio, di audacia, di
questo tentativo (cioè rischiarare la letteratura tedesca moderna dal punto di vista teologico - ndr) giustifica forse una certa
apprensione… La maniera in cui qui filosofia e teologia vengono addotte per la chiarificazione di opere d’arte e, queste viceversa, senza
essenziale riguardo per le loro qualità estetiche, vengono addotte per ricerche circa la storia del problema può sorprendere, e il successo
di simile metodo sarà la sua unica giustificazione” [citazione in P. HENRICI, Primo sguardo su Hans Urs von Balthasar, in K.
LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 17-85 (qui 31-32)].
90 Che meglio avrebbe dovuto (e potuto) dirsi teologia estetica (in continuità con la teologia drammatica e logica). Ma – come
espressamente indicato da Balthasar stesso - ormai questo sintagma, nella storia del pensiero, è venuto ad indicare una prospettiva che
ben poco ha a che fare con l’opera Herrlichkeit. Cfr. Gloria. Volume uno. La percezione della forma (Milano 1994²) soprattutto, l’
“Introduzione”, con i paragrafi dedicati alla ricostruzione storica del sintagma [“La disestetizzazione protestante della teologia”
(36-47), “Un’estetica teologica protestante” (47-59), “La disestetizzazione cattolica della teologia” (60-67)] e alla differenziazione
della proposta balthasariana [“Dalla teologia estetica all’estetica teologica” (68-102)].
91 Cioè, si intende ricostruire la metodologia solo e soprattutto alla luce dei successivi volumi; il percorso deve essere proprio l’esatto
contrario: è alla luce di Prolegomena che può essere data la giusta consistenza al teologare di Balthasar in tutta l’opera Theodramatik.
15
nell’elaborazione pratica dell’obiettivo (e ancor di più, esprimere una critica al risultato della teologia
di Theodramatik). A noi interessa comprendere l’intento e la giustificazione che Balthasar stesso
porta alla metodologia che intende utilizzare per accostarsi all’agire di Dio in Cristo.
A questo fine paiono particolarmente (e decisamente) istruttivi, innanzi tutto, (pur nella loro
sintomatica brevità) i primi due paragrafi della ”Introduzione”: “A. Drammatica tra estetica e
logica” e “B. Tendenze della teologia contemporanea”. Per anticipare l’ipotesi conclusiva e
offrire la possibilità di seguire meglio il nostro itinerario, affermiamo che, per Balthasar, “A.” è la
risposta soddisfacente a “B.” (quindi la drammatica vuole essere una risposta metodologicamente
più corretta all’approccio della rivelazione rispetto alle tendenze della teologia contemporanea - ma
meglio, dovremo dire, ad alcune “cristallizzazioni” conseguenti l’impostazione metodologica di
alcune teologie), ma che “B.” è la chiave per comprendere la proposta di “A.” (proprio l’intento di
superare alcuni limiti della metodologia teologica contemporanea portano Balthasar a ricercare la
drammatica; ergo, la si può comprendere più criticamente solo alla luce delle provocazioni a cui
vuole rispondere). Dunque: è possibile - in prima battuta - ricavare riflessivamente (e non solo
“astraendola” dal compimento dell’opera) la metodologia drammatica, in obliquo, cioè dal confronto
in cui Balthasar stesso la pone, sia all’interno del suo percorso teologico (A.), sia all’esterno nel
confronto con “altre” metodologie (B.).
E poi, il paragrafo conclusivo della “Introduzione”: “E. Teologia e dramma”. Chiaramente il lavoro
dei primi due paragrafi portava a quest’ultimo. Se “B.” è il presupposto remoto e contestuale della
ricerca metodologica di Balthasar e “A.” l’indicazione/enunciazione della strada da percorrere (con
l’articolazione interna all’intero progetto teologico balthasariano), “E.” è il tentativo di
specificare/abbozzare la metodologia drammatica e le conseguenti conclusioni/soluzioni
dell’itinerario di teologia drammatica.
Per questo dedicheremo ampia considerazione 92 a questi tre paragrafi, che effettivamente,
all’interno dell’opera stessa, rischiano di passare pressoché inosservati (38 pagine su 637!) e che ci
paiono - per quanto almeno siamo riusciti a conoscere in lingua italiana - anche ampiamente
disattesi nella considerazione dell’opera Theodramatik. Si passa frettolosamente ai “contenuti” dei
successivi quattro volumi, ma non si tocca la questione del metodo balthasariano. Questione
ineludibile, al dire dello stesso autore, nell’affrontare la sua Trilogia93.
“A. Drammatica tra estetica e logica”94
Per comprendere l’azione di Dio che acconsente a confrontarsi con la creatura (che diviene
co-attore nel suo dramma), Balthasar prende a prestito il linguaggio del teatro, nella particolare
forma del dramma. La denominazione Theodramatik, allora, (sorprendente per un’opera di teologia)
allude (metodologicamente) al teatro, delle cui categorie espressive Balthasar intende servirsi per
esprimere (contenutisticamente) l’azione di Dio nei confronti della creatura umana. Ma perché
Balthasar ritiene che le categorie drammatiche siano le categorie umane che più esprimono in verità
l’agire (dramma) dell’uomo, e che, quindi, permettono di offrire uno “strumentario” più consono al
dato indisponibile della rivelazione che ha il suo centro nell’azione di Dio in Gesù Cristo?
Si tenga presente che l’obiettivo di ricostruire i fondamenti del teologare balthasariano ci porterà, a differenza della scelta fatta nella
presentazione del volume nella nostra prima parte, a non seguire pari pari il pensiero di Balthasar solo così come è stato espresso nelle
pagine iniziali di Prolegomena, ma a “riutilizzare” il discorso al fine dell’esplicitazione della metodologia drammatica. Questo spiega
il fatto che, di volta in volta, ci lasceremo aiutare - in nota - anche da passi del resto del volume o (anche) di altre opere di Balthasar,
qualora questo ci sembri aiutare la comprensione e l’approfondimento di quanto espresso in nuce nelle poche pagine iniziali.
93 Si corre, cioè, il rischio - di fatto - di accostarsi indifferentemente a Gloria, o alla TeoDrammatica o alla Logica, presupponendo una
pressoché uguale metodologia e quindi una pressoché omogenea “trattabilità” teologica dei contenuti portati in luce dalla proposta
balthasariana (con l’intuibile pericolo di non comprendere l’intento dell’autore e di far dire, poi, ciò che l’opera stessa non voleva dire).
Che questo non sia compito facile, chiaro, data la mole degli scritti balthasariani e dalla tendenziale “a-sistematicità” delle sue opere.
Però, senza questa fatica, oltre a non rendere ragione della teologia del teologo Balthasar, è impedito il cogliere il suo teologare (che
forse, invece, potrebbe essere la questione più interessante da pensare).
94 19-26
92
16
la funzionalità della drammatica
Il primo (e introduttivo) sguardo ci porta a soffermarci sulla concezione di Balthasar circa la
funzionalità del dramma in ordine alla teologia, specificatamente, su come intenda “l’applicabilità
delle categorie drammatiche per la comprensione della rivelazione” 95 . L’attraversamento della
drammatica teatrale (come si è potuto facilmente notare nella parte prima di questo nostro lavoro) ha
comportato un continuo passaggio dal dramma teatrale al dramma esistenziale al dramma
teologico; ma, alla fine, richiede un’opera di trasposizione e ultimamente di superamento. Come
intendere, allora, la possibilità della drammatica rispetto alla teologia? Ricostruendo il percorso di
Balthasar, ci pare di individuare queste declinazioni (in ordine di fondamento) della plausibilità del
teatro “per la comprensione della rivelazione”.
Innanzi tutto una funzionalità ermeneutica rispetto all’oggetto, che è e rimane sempre il primum. Le
categorie drammatiche sono innanzi tutto (e chiaramente) funzionali rispetto all’avvicinarsi
all’oggetto della rivelazione; sono, cioè, propedeutiche e secondarie (cronologicamente,
logicamente e metodologicamente), non certamente fondative e primarie rispetto al centro: l’azione
di Dio in Gesù Cristo. Anzi: il dar-si stesso di Dio ha orientato Balthasar a ricercare nell’esperienza
umana un dar-si “corrispondente”. Se Dio ha agito come Dio in questa storia umana, questa storia
umana (almeno in alcune sue strutture) ha la “capacità” di accogliere l’agire di Dio. Quindi dovrebbe
essere rintracciabile un linguaggio umano che renda possibile/esprimibile la rivelazione (agita) di
Dio.
“Il nostro proposito è di rendere le categorie drammatiche utili alla teologia cristiana. Il proposito può apparire da una parte
astruso, dall’altra banale. Astruso perché qui ancora una volta (come già nell’ ‘Estetica’) si infila apparentemente una
strada laterale che porta lontano dal centro d’interesse, si introduce un momento giocoso nella serietà della rivelazione, si
oscura la sua chiarezza con i doppi sensi di una parabola (teatro del mondo), la cui portata è inoltre diventata oggi per noi
discutibile. Banale, perché ognuno sa che nella rivelazione biblica si tratta di un agire di Dio, che la vita di Abramo, Mosè,
Davide, dei profeti, di Gesù, dei suoi apostoli contiene una quantità di peripezie drammatiche, le quali sono in sé intuitive e
non hanno bisogno di costruzioni ausiliarie da parte di una drammatica mondana”.
Ma “Ciò che qui interessa è questo grande complesso che è il teatro: il fatto che si dà qualcosa che assume struttura di
rappresentazione in movimento. Ed interessa in ultima analisi ciò che viene rappresentato. Questo complesso dev’essere
reso trasparente in ordine alla teologia, e tutti i suoi elementi devono essere resi utili per essa”.
Perciò il compito/obiettivo si delinea come il “trovare e valorizzare una analogia portante tra drammatica intramondana
(che acquista la sua forma intuitiva nel teatro) e drammatica umano-divina (teodrammatica)”, cioè “il compito di elaborare
dalla drammatica dell’esistenza uno strumentario che sia utilizzabile per una teodrammatica cristiana, in cui la drammatica
naturale dell’esistenza (tra assoluto e relativo) si compie nella drammatica sovrannaturale tra il Dio di Gesù Cristo e
l’umanità”96.
È, di conseguenza, poi una funzionalità euristica: è l’oggetto proprio della teologia ad orientare
esplicitamente anche la scelta e l’analisi stessa del teatro e la modalità stessa di considerazione
degli autori e delle opere97:
“qui in recto non si fa della vera teologia ma si raccolgono solo materiali preparatori per una teologia. (...) La scelta stessa
dei drammi recensiti è fatta inoltre in base alla loro disponibilità teologica” 98.
95
89
27; 14; 65; 122. Si confronti anche TeoDrammatica. Volume due. Le persone del dramma: L’uomo in Dio, Milano 1992, 17, dove si
afferma che la teodrammatica è un’impresa teologica: “ciò significa che essa considera il carattere drammatico dell’esistenza nella luce
della rivelazione biblica”, e quindi si muove non “da un’autocomprensione umana, bensì a partire dal dramma già da Dio inscenato”.
97 “Il fatto che Balthasar dà la precedenza alla ricognizione attraverso la storia del pensiero, piuttosto che ad una propria costruzione
sistematica, fa intravedere… un primo inconfondibile tratto del suo pensiero. Egli vede la filosofia (e la letteratura - ndr) sempre alla
luce della Rivelazione; non come ulteriore comprensione della Rivelazione (ciò sarebbe teologia), ma come conscio o inconscio andare
incontro alla Rivelazione. Nella controluce di questo suo punto finale (da cui essi talvolta si allontanano) egli vede tutti gli altri
pensatori, e per questo essi sono per lui importanti, anzi imprescindibili, tali che egli non ne può fare a meno” [P. HENRICI, La filosofia
di Hans Urs von Balthasar in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato
1991, 305-334 (qui 328-329)]. Chiaramente, quindi, (se ci possiamo così esprimere), il fine illumina la ricerca dei mezzi: “È
naturalmente la teologia a dirigere la mano di Balthasar, poiché la letteratura è assoggettata ad una reduplicazione; tuttavia non vi è per
la letteratura solo il ruolo di ancella, quasi si trattasse semplicemente di fornire materiale; vi è piuttosto in essa la scoperta di un
problema che attende il suo inveramento” [A. MODA, Letteratura e filosofia come interrogativi per la teologia: l’esempio di H.U. von
Balthasar, Credere oggi, 36 6(1986) 49-63 (qui 62-63)].
98 13
96
17
È una funzionalità “relativa”, non assoluta: non è “scontato” (seppur una chiara visione positiva guidi
e muova il percorso balthasariano nei confronti del teatro) che la drammatica umana possa
esprimere adeguatamente l’agire di Dio; a tal punto che la drammatica può (non può che) risultare
“ambigua”, perché comunque “altra” rispetto alla rivelazione:
La rappresentazione teatrale “colloca lo spettacolo teatrale in una vicinanza molto grande, anche se certo ancora ambigua,
alla rivelazione (cristiana): il mondo estetico del processo scenico somministra un modello irreale - ma come tale realmente
incarnato - di quel senso ulteriore che la rivelazione incarna non irrealmente, ma realmente al massimo grado, nella realtà
della storia. Il tal modo è manifesta la estrema ambiguità di senso del teatrale: esso offre un modello schematico della
rivelazione storicamente incarnatasi, ma nulla di più”, perché “la profondità autentica, in cui affonda cristianamente il nodo
teologico-dogmatico, non consente di essere rappresentata teatralmente, e neppure la decisiva sortita dell’evento: il
cambiamento dello stato del mondo in totale, il segreto arrivo del nuovo eone”. Infatti, anche “nella teatralizzazione del
mistero di Cristo, l’autentica peripezia - l’espiazione vicaria - non è rappresentabile”99.
Questa “funzionalità”, cioè la relatività rispetto alla rivelazione di Dio (in definitiva la sua “non
ultimità”), giustifica il necessario superamento del teatrale:
Il mondo del teatro “dimostra in linea già previa che lo strumentario concettuale della drammatica mondana è sì una
precomprensione, ma non può in nessun modo offrire una concezione adeguata”, e perciò non solo “potrà essere utilizzato
solo previa trasposizione di fondo”, ma esso, indicando già naturalmente oltre se stesso, dovrà essere poi lasciato: “Il
bisogno dell’esistenza di rispecchiarsi (speculari) in altra cosa da se stessa fa del teatro uno strumento legittimo della
conoscenza e dell’illuminazione che l’uomo può avere di sé, legittimo ma essenzialmente indicante oltre l’uomo. Come
specchio dell’esistenza esso offre uno strumentario per la sua estrema (teologica) autocomprensione; come specchio però
esso deve poi buttarsi via, insieme con tutto il suo strumentario... per poter dare spazio alla verità che brilla in esso
indirettamente”. Questo però non toglie il fatto che “tra i due drammi non vige discontinuità pura, ma un intimo nesso” 100.
la motivazione della drammatica
Chiarita la funzionalità dell’uso del teatrale, rimane però ancora da chiarire più profondamente la
motivazione che giustifica, in fin dei conti, il ricorso al teatro piuttosto che ad altre espressioni
dell’arte umana.
La riflessione balthasariana muove da due presupposti intrinsecamente connessi: la rivelazione di
Dio è azione (il dar-si di Dio nella storia e nel tempo della libertà di Gesù Cristo); l’esistenza umana è
azione (movimento della libertà nella storia e tempo).
Il titolo stesso, Theodramatik, che si rifà al secondo trascendentale dell’essere101 offre una prima
indicazione di percorso: nella bontà irradia l’azione di Dio, il teo-dramma. Non basta mostrare come
Dio e Cristo (e l’uomo in loro) si percepiscono (Herrlichkeit), occorre una pratica, una drammatica
teologica (Theodramatik):
Infatti, “il bene centralmente non sta nel dire o nel vedere; il vedere può essere bello, il dire può essere vero: buona può
essere solo l’azione in cui si dona attivamente qualcosa, da parte della libertà personale del donante, all’esistenza
personale del donato”102.
La Teodrammatica, allora, indicherà l’infinita volontà di bene di Dio, il quale crea la volontà finita, ma
soprattutto interviene, agisce (dramma) quando questa, nella sua libertà ricevuta in dono, sceglie
una strada che la allontana anziché riportarla all’incontro con l’infinita volontà di bene, secondo il
disegno originario di Dio. Dunque, la bontà di Dio si manifesta essenzialmente come azione, perché,
anche se in stretta relazione con il percepire e il riflettere, la drammatica è “la storia di un impegno di
Dio per il suo mondo, di un cimento tra Dio e la sua creatura”103. Infatti, non solo Dio si rivela agendo,
ma anche l’uomo esiste agendo: solo nella storicità e temporalità la libertà umana esprime, dice se
stessa, si attua. Per questo Dio è intervenuto “drammaticamente” nella storia.
99
257; 106; 101
84; 23. Più chiaramente ancora: “questo materiale sarà utile solo quando si capirà che esso non si potrà applicare se non previa
rottura e superamento: Dio è nel teodramma il personaggio primo, a suo riguardo la trascendenza dell’autore verso l’opera
rappresentata non è che una debole metafora; non meno deludente è il paragone dell’Uomo-Dio con l’eroe protagonista, e il paragone
dello Spirito divino con il regista” - TeoDrammatica. Volume due. Le persone del dramma: L’uomo in Dio, Milano 1992, 25
101 È noto che la Trilogia è strutturata sui trascendentali dell’essere: all’Estetica corrisponde il bello; alla Drammatica il buono; alla
Logica il vero.
102 22-23. “La manifestazione di Dio (theophania) è solo il preludio all’evento centrale: lo scontro, nella creazione e nella storia, tra la
libertà divina infinita e la libertà umana finita” (Il filo di Arianna attraverso la mia opera, Milano 1980, 50).
103 118 (sottolineatura nostra).
100
18
Da qui, il bisogno di trovare/giustificare un linguaggio capace di esprimere e fare “da ponte” rispetto
a queste due rivelazioni (del divino e dell’umano) nell’agire. E Balthasar muove la sua riflessione
prendendo in considerazione la “struttura” della realtà umana. Ora: la rilevazione del “fenomeno”
dell’esistenza umana non si dà mai - da parte dell’uomo - nella sua nuda “cosità”, ma è sempre
compreso attraverso strumentari metodologici che possono (più o meno) rispettare il darsi della
realtà. Secondo Balthasar, il teatro (più d’ogni altra esperienza umana) rispetta la “drammaticità”
dell’esistenza umana (cioè il fatto che la vita umana è azione - nel senso più ampio del termine;
infatti, un’opera teatrale è un’azione) senza rinunciare a pensare, riflettere l’agire umano (l’opera
teatrale è un’azione rappresentata). Ciò che a Balthasar interessa, allora, è lo statuto
rappresentativo evenemenziale del teatro:
“Tra la drammatica dell’esistenza e la sua rappresentazione in teatro esistono molteplici rapporti che appartengono
essenzialmente alle categorie drammatiche... Il carattere dell’esistenza non si svela mai altrettanto quanto nel dramma
rappresentato”. Infatti, “il paragone del teatro è un punto di partenza favorevole per una teodrammatica come agire sociale
intramondano degli uomini; nel teatro viene tentata una specie di trascendenza in cui gli uomini potrebbero insieme vedere
e giudicare la loro propria verità, in forza di una metamorfosi - la dialettica della maschera come velamento e rivelazione mediante cui essi potrebbero trovare una purezza a proprio riguardo. Essi stessi fanno in tal modo pervenire a se stessi
una rivelazione attraverso se stessi. Qui, nel paragone, può aprirsi una porta verso la verità della vera rivelazione” 104.
Certo: la funzione del teatro di “esser uno spazio in cui l’uomo si specchia per conoscersi e per
essere presso se stesso”, già porta in evidenza una dimensione intrinseca ed essenziale all’essere
umano105. Ma non è questo fatto che giustifica in radice il ricorso al teatrale. L’importanza (decisiva)
del teatro (rispetto ad altro) è data dal fatto che questa rappresentazione (specchio) della vita
umana, è rappresentazione riflessa e agita nello stesso tempo; anzi: riflessa, proprio perché agita:
“il desiderio stesso dell’uomo spettatore, del pubblico, di avere davanti a sé rappresentato l’evento della sua esistenza
secondo uno schema illuminante e di comprendere in questo meglio se stesso, significa che c’è nell’esistenza stessa una
riflessione concomitante e immanente, la quale nel processo drammatico viene resa soltanto più esplicita; in questo senso
il teatro... è un’immagine che è al tempo stesso più che un’immagine, che è realmente un ‘simbolo del mondo’ in quanto
specchio immediato di autovisione dell’esistenza”. “Chi sa qualcosa di teatro lo intende come la proiezione dell’esistenza
umana sulla scena che interpreta per se stessa l’esistenza aldilà di se stessa” 106.
Il punto centrale e discriminante, allora, sta nel fatto che nella rappresentazione drammatica (rispetto
alla poesia e all’epica - già approfondite in Herrlichkeit - o anche alle altre espressioni del “genio”
umano - anche rispetto alla filosofia e alla letteratura) non solo si pensa e si sente, ma ci si muove:
questa “terza dimensione” è la dimensione per cui soltanto qualcosa è reale, dove idee e immagini si
eseguiscono, dove si deve ogni volta a un certo punto, specialmente al culmine o epistrophe del
dramma, anche scegliere e decidersi. Così - come Balthasar mostra nella parte centrale di
Prolegomena - nella rappresentazione teatrale, proprio nell’agire, vengono in luce le domande
teodrammatiche cruciali, quelle in cui la libertà finita si vuole rappresentare nel suo intimo paradosso
di ruolo e identità o, che è lo stesso, nel riconoscimento del necessario orizzonte di Dio unitamente al
Suo libero coinvolgimento: il teatro è in grado di suggerire che gli uomini stessi “fanno... pervenire a
se stessi una rivelazione attraverso se stessi“107.
“La drammatica è una agogica, teoria del movimento, e allo stesso modo che nel rapporto tra la vita e la scena i confini
sono confusi, così nell’agire di Dio con l’umanità è tolta la barriera tra Colui che agisce e la ‘platea’, l’uomo non è spettatore
ma coattore, ed egli non guarda soltanto sulla scena ma realmente agisce in essa. Vero è che la scena nella
teodrammatica è di Dio... l’inclusione dell’uomo nell’agire divino appartiene all’azione di Dio, non è una premessa a
tanto”108.
conclusione
104
21; 16
83-84. A tal punto da potersi dire che “il teatrale si può intendere come un istinto primordiale dell’uomo” (14). E - nota Balthasar il “teatrale”, nell’uomo, è ancora più primitivo e necessario dell’ “estetico” [arriva persino a parlare di una specie di “ecumene del
teatro” (312)], perché porta una comune interrogazione dell’esistenza umana.
106 241; 24
107 16
108 22
105
19
Chiara l’impostazione metodologica di Balthasar: Dio si rivela all’uomo non solo mostrandosi, ma
soprattutto agendo nella vita di Gesù (anzi: si dovrebbe dire che si mostra agendo). Questo dato è
prioritario e indisponibile all’uomo. Non lo può “fondare”; lo può solo accogliere. Ma se Dio ha agito
come Dio in questa storia umana, questa storia umana (almeno in alcune sue strutture fondamentali)
ha la “capacità” di accogliere l’agire di Dio. Quindi dovrebbe essere rintracciabile anche un
linguaggio umano che renda possibile/esprimibile la rivelazione (agita) di Dio. Ma quale linguaggio
permetterà una rispettosa accoglienza dell’agire di Dio? Un linguaggio “estetico”? Un linguaggio
“logico”, concettuale? Umanamente, afferma Balthasar, il linguaggio drammatico è quello che
permette all’agire di rappresentarsi, di dar-si, perché coinvolge nell’azione stessa (nel prendere
posizione, nel giudicare...) colui che sta di fronte. Questo significa, in ipotesi di lavoro, che, allora,
sarà l’esplorazione della drammatica il referente speciale per poter umanamente dire, o meglio
lasciar-dire, l’azione di Dio, perché questa salvaguarda la reciprocità, l’asimmetria e la irriducibilità
delle libertà che sono in gioco:
“È importante creare una rete di rapporti composta di concetti e di rappresentazioni, la quale sia in qualche modo
appropriata ad ospitare l’agire divino così singolare nel nostro intendere e dire”.
“(L’estetica teologica) delinea la per-cezione (Wahr-nehmung) del fenomeno della divina rivelazione (nella sua ‘gloria’
specifica) quale lo si incontra nel mondo. (...) Chi prendeva sul serio l’incontro, come l’estetica lo descriveva, doveva
riconoscere di essere da sempre incluso nel fenomeno dell’incontro... Già a mezzo dell’estetica è dunque cominciata la
‘drammatica teologica’. Nella ‘visione’ (Erblickung) - così ci esprimevamo allora - si annidava già ‘l’estasi’ (Entrückung). (...)
Ora si tratta di lasciare a colui che ci viene incontro la sua propria lingua, o meglio: di lasciarci coinvolgere da lui nella sua
drammatica. La rivelazione di Dio non è appunto un oggetto da contemplare, ma è l’agire di Dio nel mondo e sul mondo, e
che da parte del mondo può avere risposta solo agendo, e solo agendo lo si può anche ‘comprendere’. Solo a partire da
questa drammatica si apre poi anche un accesso alla parte terza e ultima, la quale deve considerare il modo della
disponibilità di un simile agire sotto forma di concetti e di parole”109.
Non sarà sfuggita la profondità della riflessione balthasariana. Sottolineiamo due aspetti di questo
denso passo:
1) esiste una circolarità ermeneutica fondamentale tra “comprensione” (teoria) e “azione” (prassi):
all’azione si risponde agendo, e solo agendo ci si apre alla comprensione dell’azione: “Il bene che
Dio ci fa non vien esperito in quanto verità senza la nostra collaborazione”110.
2) la metodologia drammatica non solo non esclude una considerazione dell’agire di Dio “logica”
(sotto forma “di concetti e di parole”), ma è “la strada obbligata” per riuscire a giungervi in maniera
adeguata. Anzi: meglio ancora si dovrebbe dire che come nell’estetica già si “annidava” la
drammatica, così la drammatica “porta e trasporta” se stessa nella logica:
“(il dramma teatrale) tramuta l’evento in una immagine visuale, cambia perciò l’estetica in qualcosa di nuovo che la
trascende e che tuttavia la continua e nello stesso tempo rende disponibile l’immagine per la parola. (...) L’azione non viene
raccontata ma si attua insieme con la parola; non vi si esibisce nessuna trattazione, l’azione porta e trasporta se stessa
nella parola”111.
Da questa impostazione, Balthasar deduce, allora, che “l’analogia tra agire di Dio e teatro non è una
pura metafora”:
“Non dovrà Dio, per agire sull’uomo in modo efficace e comprensibile, calcare egli stesso la scena del mondo e intricarsi
così nelle ambiguità del teatro del mondo? Qualunque sia il modo in cui Egli viene in contatto con questo teatro (...)
l’analogia tra agire di Dio e teatro del mondo non è una pura metafora, ma è fondata nell’essere: tra i due drammi non vige
discontinuità pura, ma un intimo nesso. (...) O si dovrà dire che l’azione di Dio, là dove si inserisce nelle leggi del teatro del
mondo, diventa invisibile e inverificabile in quanto azione distinta? Sulla scena degli uomini Egli recita mediante uomini, e
alla fine come uomo tra gli uomini: andrà in tal modo a nascondersi come un puro ‘incognito’ dietro la maschera uomo?” 112
Chiara risulta anche, così, la presa di distanza polemica veicolata dall’assunzione delle categorie
drammatiche: il “concetto” (la “concettualizzazione”) dell’esistenza e dell’agire umano non solo corre
il rischio di sottodeterminare la dinamicità, la storicità, l’imprevedibilità, la libertà, la “drammaticità”...
(che comunque potrebbero - in caso - essere categorie espresse o esprimibili), ma
109
21; 20
24
111 21
112 23
110
20
necessariamente, comunque, non le può realmente “esprimere”, perché sarebbero al massimo
pensate, ma non agite.
“Tutti vogliono rimettere in movimento una teologia inaridita e cristallizzata nelle sabbie della tradizione razionalistica”, ma
“Il teatro diventa (...) una riserva contro tutte le filosofie già bell’e fatte: esso mantiene alto il carattere esistenziale
dell’esistenza contro tutti i superamenti, lo delinea davanti agli occhi come qualcosa che appartiene a una nuova realtà
vasta e totale. (...) In tal modo il teatro tradisce segrete prestazioni di teologia fondamentale”. Tutto questo anche perché “è
una fondamentale esigenza cristiana che l’esistenza si rappresenti drammaticamente. (...) il puro annuncio del messaggio
di salvezza a parola non ha ... nessuna credibilità quando chi annuncia non modella la sua esistenza in testimonianza
drammatica”113.
Per questo Balthasar può (sorprendentemente) concludere che nella verità della vita umana intesa
come teo-drammatica vanno ormai convergendo - a loro insaputa - varie correnti odierne di
rivitalizzazione della teologia:
“vogliamo anticipare un argomento a suo favore (cioè della drammatica - ndr)... L’insoddisfazione circa la forma della
teologia tramandata nei secoli scorsi ha evocato negli ultimi decenni nuovi punti di partenza metodologici (...). Vogliono tutti
rimettere in movimento una teologia inaridita e cristallizzata nelle sabbie dell’astrazione razionalistica. Tutti questi tentativi
hanno un aspetto giusto, perfino indispensabile. Ma nessuno di essi basta per se stesso come principio base di una
teologia cristiana. (...) Se li si guarda tutti nella positività del loro contributo come nella loro parzialità, risulta chiaro che tutti
insieme convergono precisamente su ciò che noi chiamiamo teodrammatica”114.
“B. Tendenze della teologia contemporanea” 115
Questo secondo paragrafo dell’introduzione mette in luce praticamente tutti i nuclei centrali
contenutistici della teodrammatica, da una parte affermando che essi si possono ricavare anche
dall’analisi della situazione del pensiero contemporaneo (di per sé non sarebbe necessario il
riferimento alla drammatica per venirne a conoscenza), dall’altra sostenendo che solo in una
teodrammatica questi contenuti trovano adeguata posizione e soluzione.
Balthasar è del parere che, fondamentalmente, la teologia contemporanea stia cercando la via per
“rimettere in movimento una teologia inaridita e cristallizzata nelle sabbie dell’astrazione
razionalistica”116, dopo la riscoperta della centralità della storicità. Il ritorno al fatto come punto di
partenza (rispetto all’idea) è acquisizione di portata epocale. Ma la difficoltà sta proprio
nell’articolazione della storicità/libertà all’interno della prospettiva teologica. Prospettiva non unitaria,
tant’è che Balthasar parla di “tendenze”, perché i vari approcci non si compongono ancora in un
quadro sistematico coerente; ma, comunque, inequivocabile: è per lo meno chiaro che non si possa
regredire dall’orizzonte che le diverse “tendenze” suggeriscono. E con rapidissimo sguardo,
Balthasar affronta in nove categorie le “tendenze” che, a suo avviso, stanno “muovendo” la teologia
contemporanea117.
Che l’intento di Balthasar - in questa parte - sia strettamente funzionale all’esplicitazione della
drammatica, è palese dal fatto che non si citano mai (se non sommariamente e a grandi linee)
teologi, né tanto meno opere teologiche (anzi, sono indicate anche “tendenze” non esplicitamente
teologiche), ma si nominano “tendenze” simbolicamente “tipizzate” in concetti-chiave. Questo fatto
“supera” la possibile e giusta obiezione della correttezza e della troppo facile frettolosità
dell’interpretazione balthasariana sulla teologia contemporanea. A Balthasar non interessa
enunciare correttamente la prospettiva di singoli teologi, né offrire giudizi; ma, per così dire, da
questo “humus” contemporaneo, radicalizzare le possibili (non è detto, “verificate”) conseguenze per
la teologia. Tutto questo fa solo da pretesto118.
113
27; 24; 25-26
27-28
115 27-50
116 27
117 Per un quadro migliore occorre rifarsi anche a TeoDrammatica. Volume due. Le persone del dramma: L’uomo in Dio, Milano 1992,
65-78, dove tutte le nove categorie vengono riprese e ridiscusse.
118 Cfr. quanto detto alla nota 8 di pagina 4.
114
21
Lo stesso “schema” 119 d’approccio alle “tendenze” lo mostra: enunciata la prospettiva se ne
evidenziano
1) gli elementi positivi (che hanno introdotto in teologia aspetti interessanti, se non decisivi, e
comunque ormai più ineludibili, rispetto al passato, in specie alle “secche manualistiche”);
2) gli elementi negativi (o forse, meglio, problematici che derivano da una conseguente
assolutizzazione di quell’impostazione in teologia);
3) la confluenza di 1) e 2) nella metodologia drammatica (perché acquisizione delle istanze positive
e superamento degli impasse negativi), come possibile risposta/proposta più rispettosa del dar-si di
Dio nella storia umana.
“L’eventuale”120
Aspetto positivo:
In teologia, la categoria dell’”evento” ha “liberato la rivelazione biblica di Dio dalle trappole del razionalismo sia ortodosso
sia liberale, il quale in questo o in quell’altro modo era anche storicismo e fatticismo”: sottraendo la storia alla pura identità
con il divenire fattuale, si interpreta la rivelazione piuttosto come “tempo qualitativo”, come “irruzione perpendicolare nella
catena intramondana dei fatti”, cosicché “a partire da questo evento – morte e risurrezione di Gesù – il tempo si diffonde
non in modo neutrale”.
Aspetto problematico:
Ma “dall’altra parte un evento condensato in assoluto in un evento ha un che di puntualistico senza tempo che non
corrisponde alla genuina storicità della rivelazione biblica”. Occorre salvare insieme al “rapporto verticale dell’evento” (è
“un’irruzione verticale nel tempo”, è fatto e parola insieme), il “rapporto orizzontale dell’evento” (il rapporto tra promessa
vecchiotestamentaria e adempimento nuovotestamentario “era la prova della verità dell’evento escatologico verificatosi in
Cristo”).
Per la teologia drammatica:
“L’evento verticalmente inseritosi si è dispiegato in una serie di tempi di salvezza, comparabili agli atti di un dramma. Ciò
non significa scioglimento del tempo verticale dell’evento in un tempo puramente orizzontale di fatti di salvezza allineati,
ma significa bensì che il tempo verticale dell’evento, assumendo e plasmando il tempo orizzontale, si serve di questo per
esplicare drammaticamente se stesso. Non si dà soltanto il quinto atto, e non soltanto la scena decisiva della peripezia.
Tutta l’opera viene recitata da Dio con l’uomo singolo e con l’umanità”.
“Lo storico”121
Aspetto positivo:
“L’eventuale”, sottolineando l’aspetto esistenziale, di “incontrabilità” e “rilevanza” per l’uomo, rischiava di "eleva(re) il
kairos, la situazione, a criterio valutativo dell'agire cristiano: il valido, il vero è ciò che si esige di volta in volta nel momento".
Occorre salvare la fattualità concreta, storica dell’evento in rapporto alla libertà dell’uomo e rapportare il tempo con Dio,
“salvaguardando” la storia come se fosse un “puro fluire (di) qualcosa che è presente in Dio...”
Aspetto problematico:
Per salvare la continuità tra storia e definitività, non si può intendere l’irruzione del definitivo come “volontà trascendente” e
come a priori trascendentale indiscriminatamente inerente a tutte le situazioni storiche: “... l'istante singolo non viene reso
riconoscibile nella sua singolarità unica": "è l'orizzontale che assorbe il verticale", è la perdita dell’ "elemento escatologico".
Per la teologia drammatica:
Rispetto ad un’esagerazione “esistenziale” del factum, occorre riconoscere che senza "un punto della storia in cui ‘Dio
compare sulla scena della storia mondiale’: disgiunta da questa drammatica la ‘storicità’ teologica si risolverebbe in un
modo o nell'altro in pura filosofia". Questa questione porta “a ciò che la rivelazione biblica ci pone sott'occhio e che dovrà
essere il problema estremo di una teodrammatica: che cosa significa il fatto che Dio stesso si inserisce nella storia del suo
mondo e, facendosi uomo, diviene un coattore del dramma del mondo? Lo spirito assoluto (Hegel) e l'essere assoluto
(Heidegger) può essere attinto dalla storicità? Non avevano forse ragione i miti che annunciavano tutto ciò nella lingua
delle immagini? Rischio, pericolo, incertezza dell'esito diventano in tal modo la cosa estrema? Il creatore nell'abbandono
della sua creatura non finisce con il dipendere da essa? Come dice H. Jonas, l'uomo diventa in tal modo non solo il pastore
dell'essere, ma il custode e difensore di Dio stesso? Ma allora Dio è ancora Dio?”
“L'ortopratico”122
Aspetto positivo:
Sarà lo stesso che anche noi seguiremo nell’esposizione delle “tendenze”, evidenziando meglio i tre momenti.
28-30
121 30-33
122 33-35
119
120
22
“Il cristianesimo si è offerto troppo a lungo, così, molti sostengono, come una teoria, una dottrina, una teologia.
Inavvertitamente il cristianesimo ha tradito il Verbo incarnato, crocifisso e risorto consegnandolo al logos greco che
abbraccia tutti questi storici accidenti e accadimenti, trasformandoli in una ‘dottrina’ che non ha nulla di storico”; ma “nel
suo fare Dio ci dimostra la sua verità, nel suo fare anche il cristiano nell'azione dell'amore per il prossimo (anche il cristiano
anonimo, il samaritano) dimostra che batte le orme di Cristo”.
Aspetto problematico:
“La parola d'ordine dell'ortopratica fa uscire, è vero, il cristianesimo dalle aule dei dotti e lo colloca sulla scena del mondo,
dove deve essere e mantenersi attivo, ma lo raccorcia entro i limiti di un'etica indicativa di umana attività. Essa non rispetta
la distanza che c'è tra la prassi di Dio sull'uomo e la prassi dell'uomo corrispondente. ‘Dio dimostra il suo amore verso di noi
perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi’ (Rm 5,8). Questa azione è solo la prima di una serie,
rende possibile dall'alto, da fuori e da sotto tutta la catena. Altrimenti non avremmo che della filantropia, la quale per
Nietzsche, come per chiunque non sia un ingenuo, è pur sempre solo una parte, una maniera di comportarsi sulla scena
del mondo accanto ad altre parti”.
Per la teologia drammatica:
Di qui: “Che cosa fosse l'azione originaria di Dio in realtà, quale la sua portata a riguardo del mondo, lo si può accettare e
pensare un'altra volta soltanto in una fede che anticipa ogni prassi personale. Cristo ha inteso il suo stesso fare come
un'obbedienza incondizionata al Padre... Solo entro questo quadro -Io potremmo chiamare effettiva donazione nella fedesi situano poi i singoli impegni etici dei cristiani e in base ad esso si misurano. Ancora una volta il campo di azione su cui si
esercita l'azione cristiana, appare essenzialmente più ricco di tensioni e più drammatico di quanto faccia intravedere la
formula dell'ortoprassi”.
“Il dialogico”123
Aspetto positivo:
“Uno dei nuovi e più fecondi punti di partenza della vita e del pensiero cristiani è il principio dialogico. Se si guarda ai due
millenni di teologia cristiana, stupisce che gli sia stato finora riservato così poco spazio. Alla fin fine l'evento biblico ha pure
il suo centro nella conclusione del Patto tra Dio e l'uomo, dove all'uomo da Dio creato e fornito di libertà è stata consentita
una zona di autonomo essere, di libero ascolto e di libera risposta, e infine di azione responsabile insieme con Dio. Non
esiste soltanto la parola dell'Onnipotente che si ascolta con la faccia a terra e si esegue come fa il servo col suo signore;
esiste anche lo spazio riservato al comprendere, al prendere posizione, a un possibile rifiuto. Dire no alla verità, che è
buona per sua essenza, è senza dubbio insensato; ma Dio accetta in anticipo questa insensatezza piuttosto che sopraffare
da fuori la sua creatura; egli realizza l'inconcepibile stratagemma di conseguire il sì del suo partner a partire dalla sua più
interiore libertà”.
Aspetto problematico:
Ma “esiste dall'altro capo la rottura del dialogo: là dove nessuna parola viene più concessa, nessuna offerta di sé più aiuta,
dove crollano i ponti di ogni possibile comprensione, l'odio, il fanatismo, la gelosia, l'estrema estraniazione innalzano muri
insuperabili, dove è possibile ancora solo tacere, perché ogni ulteriore discorso ingrandirebbe la distanza e cadrebbe come
una scintilla sulla polvere da scoppio”.
Per la teologia drammatica:
“Ora tutto questo vuol dire che il dialogico è sì una categoria assai essenziale del cristianesimo, ma non la sua unica
categoria, come categoria non basta ad esprimere in tutta la sua drammaticità tutto quanto passa fra Dio e il mondo, Cristo
e la chiesa, la chiesa e il mondo, l'uomo e l'uomo. Nessun dramma è senza dialogo; anzi proprio nella struttura e nella lama
del dialogo si manifesta la forza di un autore drammatico. Ma il processo di cui si tratta non si risolve in esso; non ogni nodo
annodato si scioglie nella parola e nella controparola, qualcosa di più alto può rivelarsi che sopraffà coloro che parlano, ne
siano o non ne siano consapevoli”.
“Il politico”124
Aspetto positivo:
“Se il principio dialogico mirava a una demonologizzazione del kerygma ecclesiastico, del magistero e della teologia, così
la parola d'ordine del senso politico dell'impegno cristiano e della teologia mira a una deprivatizzazione”.
Aspetto problematico:
“Dischiudendo un orizzonte oltre la immediata realtà statale-politica, indirettamente (le narrazioni evangeliche e
neotestamentarie – ndr) la delimitano e la sottomettono a una critica escatologica. Un re che non è di questo mondo ma
che agisce in tutta serietà sulla scena pubblica del mondo, resta inevitabilmente implicato nel dramma politico. La
questione è soltanto: secondo quale significato? Budda stesso non sottopone forse tutto intero il teatro del mondo e dello
stato a una critica analoga, ma in quanto egli lo proietta verso un orizzonte apolitico? Anche il giudaismo e l'islam non
dinamizzano e drammatizzano il politico oltre se stesso in quanto vi insinuano una energia di spinta messianica ed
123
124
35-38
38-41
23
escatologica? Lo specifico cristiano sta stranamente inafferrabile tra questi due progetti o aldilà; ciò gli conferisce una
dinamica altamente sui generis che il termine politico esprime in modo insufficiente”.
Per la teologia drammatica:
Per tutto questo, “La drammatica situazione in cui sono inseriti il cristiano consapevolmente e il mondo e la sua storia
inconsapevolmente, trascende di gran lunga la categoria politica e le aggiunge una dimensione che a seconda della luce
con cui si guarda sarà definita come irrimediabilmente tragica o come utopica o come in ultima analisi risolutiva. Ma se il
politico non vuole dichiararsi incompetente a riguardo della questione del senso supremo - ciò che esso non può senza
rinunciare alla applicazione di norme valide anche nell'intratemporale - deve allora lasciarsi relazionare oltre se stesso a
questa drammatica dell'esistenza umana, che raggiunge la sua tensione suprema unicamente nel cristianesimo”.
“Il futurico”125
Aspetto positivo:
“Si può dire che questo pathos del futuro domina la nostra generazione quanto l' ‘escatologico’ aveva determinato il pathos
della teologia paleocristiana ed anche successiva. I due termini sono affini: nell' ‘escatologico’ predominava l'esperienza di
attingere ogni volta, nella caducità dell'esistenza individuale e storica che va verso la morte, il confine intimo tra tempo ed
eternità; il ‘futurico’ -senza con questo perdere del tutto ogni pathos della caducità di ogni presente-apre tuttavia quale
unica via di uscita dall'intollerabilità uno spazio per una ‘fuga verso avanti’ ”.
Aspetto problematico:
“Dietro questo pathos secolare ce n'è uno teologico che non di rado ha suono più ingenuo di quello di coloro che sanno e
sono inquietati più a fondo, e che trae la sua forza migliore dall'idea che, come Gesù stesso viveva e operava
costantemente volto all'avvento del regno, come (in altra maniera) l'esistenza della chiesa primitiva era radicalmente rivolta
al futuro, così la cristianità di oggi, portata da un impulso secolare da essa stessa essenzialmente risvegliato, ha da vivere
nel modo giusto la dinamica fondamentale del salto verso l'avvenire del mondo”. Inoltre “È facile vedere che la soluzione
‘futurismo’ comporta vicine a sé altre soluzioni care al nostro tempo: utopismo da una parte, rivoluzione dall'altra. L'
‘utopismo’ manifesta più la volontà di evincere con la libertà dello spirito ciò che non ha possibilità nella natura, né un luogo
all'interno del mondo; la ‘rivoluzione’ mira ai mezzi pratici per imporre questa realtà u-topica, ma che ha da essere,
mediante radicali alterazioni dei rapporti”.
Per la teologia drammatica:
“Inutile dire quanto in tali programmi, che vengono seriamente posti al centro delle pianificazioni dell'uomo, si annunci
l'elemento drammatico nella sua più forte concentrazione. Una teologia che ne è stata colpita, non potrà più essere
riportata all' ‘epicità’ delle Summae medioevali o alla ‘liricità’ dei trattati spirituali dell'era di Bernardo o di Francesco di
Sales, ma dovrà assumere intimamente forma drammatica, una forma ormai fattasi inevitabile alla forma esistenziale
dell'umanità, sia cristiana che non cristiana”. Inoltre, “La situazione generale umana appare oggi come un invito pressante
a riportare in valore precisamente questa forma di teodrammatica agli occhi della riflessione cristiana”. Ma “Il ‘futurismo’
non ha, neppure fiancheggiato dall' ‘utopia’ e dalla ‘rivoluzione’, un campo di tensioni vasto quanto la drammatica
teologica. Esso lo attinge soltanto nel quadro della mobilità apocalittica tra mondo e Dio, cielo, terra e inferno. In questo
contesto l'apocalittico biblico, che torna a parlarci in modo così nuovo in quest'ora dell'umanità, deve essere visto pur
sempre come lo sfondo disvelato di ciò che ci rappresenta il reale dramma biblico della salvezza dentro la nostra storia”.
Curioso - ma conseguente l’intento di Balthasar - che in queste “tendenze della teologia
contemporanea” si debba “trattare ancora di due altre parole-soluzione (connesse tra loro) che in
campo sociologico e psicologico sono penetrate nella coscienza comune e hanno perciò valore
anche per la teologia: funzione e ruolo”126.
“Il funzionale”127
Aspetto positivo:
“Come su piano personale il ‘dialogico’ infranse una certa restrittività ed essenzialità greco-cartesiana del soggetto per poi
fondarlo in modo originario nello scambio personale del prendere e del dare, così il ‘funzionalismo’ mira a realizzare la
stessa cosa su piano sociale dove in genere e primariamente si tratta non della comunicazione spontanea di liberi soggetti,
bensì delle regole precostituite in un essere comune, regole di un gioco di scambi reciproci. Si tratta perciò di strutture, le
quali costituiscono una ‘lingua’ presoggettiva (...) nello ‘strutturalismo’ che (in Claude Lévi-Strauss soprattutto) iniziò con
una generale teoria di relazione tra le cose, per poi (dopo l'incontro con l'opera di Roman Jakobson) assumere la linguistica
come modello fondamentale”.
Aspetto problematico:
125
41-43
43
127 43-46
126
24
La conseguenza di questa impostazione però è fatale: “Nessuna meraviglia se il totale assorbimento del libero soggetto
storico nel code universel si lascia al fondo un sedimento di follia, tutta l'impresa si tradisce alla fine per una forma estrema
di neokantismo, in cui il ‘sensibile’ mai logicizzabile è costituito dalle persone storiche che si oppongono all'assorbimento
nello strutturale”.
Per la teologia drammatica:
Eppure, “Se si mettono tra parentesi le esagerazioni sistematiche dello strutturalismo, il quale si arroga un valore generale
di scienza senza perno stabile (tra natura e cultura, tra idealismo e materialismo), il tema del funzionale resta ad ogni modo
un utilissimo strumentario: esso indica non soltanto i rapporti sociali portanti ipersoggettivi, ma comprende i soggetti e la
loro verità ogni volta nella luce e nella realtà di questi rapporti: l'uomo non è separabile da ciò a cui serve e che gli serve”.
“Le sue relazioni all'interno del tutto, nel ‘corpo’, determinano il suo luogo e il suo agire in quanto parte, come ‘membro’,
dunque nella reciprocità. Ciò accende immediatamente una domanda indubbiamente decisiva: Che cosa è questo tutto
entro cui la funzione riceve il suo significato? È o può essere una ‘ragione finita’, come per esempio ‘la società umana’? Ma
un'entità finita da che cosa potrebbe derivare il suo carattere normativo, se questo non le venisse delegato o da una
ragione infinita o da un momento assoluto infinito immanente nei soggetti che in esso funzionano?“. La fecondità dello
strutturalismo “in cui si spegne ogni drammaticità” può trovare nuove prospettive in una teodrammatica: “Il ‘funzionalismo’
del corpo mistico della chiesa in Paolo si accende in una tensione per il fatto che i ‘carismi’ dei singoli membri da una parte
vengono donati esclusivamente da Dio (Rm 12,3) o da Cristo (Ef 4,1s.) o dallo Spirito Santo (1 Cor 12,18ss.), ma dall'altra
parte esclusivamente a favore dell'organismo ecclesiale (1 Cor 12,12-30): in questa differenza sta tutta l'immensa tensione
dell'esistenza cristiana tra appoggio mediante un compito assoluto e immediata espropriazione nella funzione
corrispondente a questo incarico, funzione che ha da essere esplicata in una struttura -appunto la chiesa- che è superiore
all'individuo e che contribuisce a costituirlo e a sollecitarlo”.
“Il ruolo”128
Aspetto positivo:
“Il motivo è vecchio quanto il paragone del teatro per la vita umana e contiene implicitamente tutta la problematico che
viene insinuata da questo paragone: non solo nel senso che il singolo ha da eseguire una determinata funzione a lui
affidata da chissachi (da Dio? dalle circostanze? da lui stesso?), ma anche nel senso che egli non è identico con il ruolo
che rappresenta, ma ha tuttavia da identificarsi con esso per essere veramente se stesso”.
Aspetto problematico:
Come articolare identità singola e ruolo? Bisogna “mantenere una distanza tra sé ed esso, nella coscienza che egli
potrebbe essere ‘in fondo’ anche un altro, che per essere se stesso non deve perdersi nel ruolo? (...) La mia identità la
trovo se mi identifico con il ruolo che la società ha assegnato a tutte le dramatis personae?“
Per la teologia drammatica:
“Ma chi mi propone il ruolo in cui io possa diventare realmente me stesso?”. “La domanda ‘Chi sono io?’ (...): il problema
passa, al di sopra di tutte le sfere sociali e psicologiche, nella sfera della teodrammatica”.
Ma le “sorprese” non sono finite. Non solo nelle “tendenze della teologia contemporanea” si sono
indicate due tematiche proprie del campo sociologico e psicologico; ora, ex abrupto, Balthasar
immette non più delle “correnti”, ma una tematica (funzionale - evidentemente - al suo fine): “Un
ultimo tema (che) dev’essere menzionato, un tema che oggi possiede un’incombenza diversa da
quella della teologia paleocristiana e medievale”129.
“La libertà e il male”130
Aspetto positivo:
“la teologia cristiana tradizionale pensa a partire dalla certezza che un Dio buono ha creato il mondo, che la libertà delle
creature gli rimane subordinata e che il male è un fenomeno di deficienza del bene. Vero è che se ne deriva per
conseguenza che esso scaturisce da un'autentica libertà di scelta della creatura: possibilità e realtà dell'eterna condanna:
lo choc di tale conseguenza vibra senza interruzione: ci si arrovella a capire le oscurità della divina predestinazione...
Tuttavia la problematica rimane rinchiusa all'interno di una certa ingenuità paradisiaca; il concetto di Dio non viene sfiorato
da tutte queste oscurità: Dio non può essere altrimenti che buono e giusto, anche là dove non lo comprendiamo”.
Aspetto problematico:
“Gli accenti si spostano quando con l'avvento dell'età moderna le tenebre e gli abissi della creazione vengono proiettati nei
fondamenti divini (Jakob Böhme) e la speculazione scopre il momento dell'assoluto nella libertà umana (lo Schelling
intermedio, che continua l'autonomia etica di Kant). Oramai è Dio che reca in se stesso la contraddizione (fino all'inferno),
e nella stessa linea è l'uomo che con la sua contraddizione si insinua nel posto dell'Assoluto... C.G. Jung conferisce a
questo nuovo clima del pensiero e del sentimento l'espressione più forte postulando l'amplificazione della Trinità cristiana
128
46-48
48
130 48-50
129
25
in una Quaternità dove deve essere albergata nella divina totalità anche l'opposizione di bene e male, del figlio buono del
Padre (Cristo) e del suo rovescio, il figlio fallito (il diavolo)”.
Per la teologia drammatica:
“Il confronto tra libertà divina e umana ha raggiunto un'intensità inaudita, il processo tra le due si sposta al centro - il centro
una volta tanto veramente drammatico - del problema dell'esistenza... Ora vale la pena guardare il problema negli occhi. In
che rapporto stanno tra loro la libertà divina e la umana? Dio ha dovuto privarsi d'una parte della sua libertà quando creò
l'uomo mediante il quale il suo mondo poteva dirsi compiuto ma anche rovinato? Dio è inerme davanti al no dell'uomo
autonomo? E in che rapporto sta questa divina impotenza con l'abbandono di Dio che ha raggiunto il Figlio di Dio sulla
croce?”
Ma tutto questo è solo un approccio iniziale ai contenuti della teodrammatica:
“Interrompiamo qui l'enumerazione delle vie di accesso che paiono condurre concentricamente dalle più diverse attuali
regioni del pensiero alla teodrammatica, la quale, è vero, sulla toponomastica della teologia non è che una macchia bianca.
La macchia non potrà essere riempita mediante semplice combinazione dei motivi riportati, la cui lista non pretende a
nessuna completezza sistematica. Essa dovrà essere elaborata in modo originario nel confronto tra drammatica e
rivelazione cristiana”131.
conclusione
In questo secondo paragrafo, Balthasar di fatto presenta/indica tutti i nuclei tematici centrali di
Theodramatik, cioè i contenuti che la teologia drammatica deve articolare e coniugare
adeguatamente. Di fatto sono due i perni (correlati) attorno a cui tutto ruota e converge: la storicità e
la libertà.
La “storicità” evidenzia il rapporto tra temporalità ed eternità, tra presente e futuro (l’ “eventuale” e il
“futurico”); tra mondo e Regno di Dio, tra contemporaneità ed escatologia, tra singolarità e
universalità/definitività (lo “storico”).
La “libertà” porta alla luce la dinamica della relazione tra uomo e Dio, tra volontà umana e volontà di
Dio, tra le opere dell’uomo e la grazia di Dio, tra il male del peccato umano e la risposta di Dio che
vuole il bene (“la libertà e il male” e “il dialogico”); tra l’agire dell’uomo e la salvezza come dono di Dio
(l’ “ortopratico”); tra persona/identità e funzione/missione (il “funzionale” e “il ruolo”); tra individualità
e socialità (il “politico”).
Risulta chiaramente, allora, che “storicità” e “libertà” non solo siano “le colonne portanti” di ogni
rappresentazione drammatica, ma ancor più che esse sono strutturalmente determinanti l’esistenza
umana132. Ecco: questi due fuochi tematici che in un linguaggio “solo” logico/concettuale danno vita
a conflitti apparentemente insolubili (come le “tendenze” teologiche contemporanee mostrano), in un
linguaggio drammatico (cioè in movimento), trovando la loro posizione naturale (“logica”!),
potrebbero/dovrebbero riuscire ad esprimersi senza ri-solversi (idealisticamente), ma mantenendo
tutte le tensioni di cui la realtà, in effetti, è portatrice. Questo spiega la seconda
motivazione/giustificazione addotta da Balthasar all’impiego della drammatica in teologia: qui i
contenuti centrali rivelati dall’agire di Dio e dell’uomo non solo si ritrovano tutti, ma si esprimono in un
contesto linguistico più adeguato alla “natura” della storicità e della libertà… che come tali debbono
essere mantenute nella loro irriducibile e irrisolvibile dialetticità. Questo, ci pare, “risolva” anche la
questione circa la reiterata insistenza di Balthasar nell’indicare - a giustificazione di Theodramatik che “in ultima analisi solo l’esecuzione della nostra ‘drammatica’ può esibire la prova della sua utilità
o meno”133 e che “soltanto la sua esecuzione può alla fine dimostrare l'efficienza del metodo qui
tentato”134.
131
50
“la finitezza e la morte appartengono nel modo più serio - più serio che in qualsiasi altro schema ideologico - all’azione, e la lotta per
il bene è portata a una profondità che solo qui si raggiunge... e l’immagine estetica diventa ora appunto ‘drammaticamente
tridimensionale “ (623).
133 27
134 123
132
26
“E. Teologia e dramma”135
Chiaramente il lavoro dei primi due paragrafi dell’introduzione portava a quest’ultimo paragrafo
come tentativo di specificare/abbozzare i lineamenti di un itinerario di teologia drammatica.
“si è mostrato all'inizio che tutte le tendenze della teologia moderna fornite di mordente contemporaneo e consapevoli dei
difetti della sistematica praticata finora convergono a raggiera verso il centro di una drammatica teologica, senza poterlo
raggiungere come tendenze singole, perché non sono consapevoli della loro convergenza e pensano spesso di bastare
ciascuna da sola o soltanto in due o tre. È dunque tempo di tentare una sintesi dal momento che la teologia sospinge in
questa direzione, e da fuori - dal dramma - si è ormai raccolto del materiale rilevante”136.
Importante e fondamentale la rinnovata indicazione di Balthasar del “come” sia nata all’interno della
sua teologia l’idea di una metodologia drammatica: non - primariamente - dal confronto con altre
metodologie teologiche (anche se, come visto, egli ritiene che tutte le “tendenze della teologia
contemporanea”, portino a questa metodologia), ma dal confronto con l’oggetto stesso della
Rivelazione (e Balthasar sottolinea la “non novità” del suo metodo):
“Non si tratta certamente di rifondere la teologia in una nuova forma fin qui sconosciuta. Essa deve evocare questa forma
da se stessa, deve anzi già averla in sé implicita da sempre, anzi già esplicita in più punti. Giacché la teologia non ha mai
potuto essere altro che una spiegazione della rivelazione del Vecchio e Nuovo Testamento, unitamente alle loro premesse
(del mondo come creato) e mete (del mondo creato compenetrato di divina vita). Ma questa rivelazione è, nell'intera sua
forma sia nel grande che nel piccolo, drammatica. Essa è la storia di un impegno di Dio per il suo mondo, di un cimento tra
Dio e la sua creatura, e il senso e la salvezza di questa, e già affiora la domanda se questo cimento avrà esito certo o
incerto. Lo conosciamo l'atto quinto? (...) Dalla risposta a tale domanda tutto dipende... Tutto questo è campo d'inesauribile
riflessione per la teologia; e in tutto il suo faticoso lavoro sistematico essa deve tenere aperto lo spazio a tutta questa
dimensione drammatica e trovare, a tanto, un'appropriata forma speculativa” 137.
Ancora una volta, Balthasar indica che la teologia drammatica non è la teologia: è solo un approccio
metodologico conseguente al dar-si di Dio nell’azione, che può/deve sfociare in una “appropriata
forma speculativa” che lasci aperta però “tutta questa dimensione drammatica” (esplorata con
“faticoso lavoro sistematico”) senza risolverla in un sistema che paralizzi la dinamicità dell’evento
rivelativo.
le “due facce” della teologia drammatica
Ma, più direttamente, in cosa consisterebbe il “per-corso”, la metodologia di una teologia
drammatica? Secondo Balthasar, “fin dal principio questa teologia ha due facce”138. La prima indica,
per così dire, lo sfondo ermeneutico in senso lato (indisponibilità dell’oggetto e correlazione
theoria-praxis); la seconda, il “genere letterario” dell’opera teologica stessa (la forma “aperta”,
“inquisitiva”, “dialogica”, “responsoriale”).
Più precisamente, ecco come illustra la “prima faccia”:
“Una faccia contemplativa, rivolta all'interno, che pesa e ripesa ciò che ci è stato mostrato e a cui non si può se non
guardare e riguardare sempre di nuovo, perché esso è sempre più grande dello sguardo umano, e semplicemente
guardare non basta, così che questa contemplazione ha poi ogni volta spinto ad alternative di azione: questa legge è poi fin
dal principio commento biblico, come lo fu il ‘rispecchiamento’ (speculatio) di Clemente, dei Cappadoci, di Agostino, di
Dionigi, sempre attuale per il loro tempo come lo sarà la teologia monacale dei padri di Siria e di Egitto, poi degli ordini
monastici dell'oriente e dell'occidente fino al medioevo e all'età moderna. Ogni speculazione contemplativa e mistica ha
sempre avuto nel cristianesimo il suo versante attivo, con il quale essa partecipa al combattimento cattolico per la salvezza
del mondo”139.
Interessante la denominazione di questa “faccia” della metodologia (quella più “teologica”, cioè
interna all’oggetto stesso della teologia) come “contemplativa” e “mistica”, termine con il quale come si è visto - Balthasar intende due dimensioni intrinsecamente legate. La prima dimensione è il
“rispecchiamento”: l’oggetto proprio di questa metodologia (l’azione di Dio) sovrasta a tal punto
l’umano (nel senso che non può essere “ri-solto”, né mai compiutamente “esaurito” e
135
117-123
117
137 117-118
138 118
139 118
136
27
“concettualizzato”) che, innanzi tutto, occorre continuamente tornare e ritornare alle mille
sfaccettature della drammatica divina (sintomatico il riferimento al “commento biblico”). Che poi è un
altro modo per dire che l’umano può solo “ospitare”, “accogliere” il dar-si di Dio, che appunto,
essendo di Dio, comunque è sempre “oltre” l’umano (l’umano sia “estetico”, sia “drammatico”, sia
“logico”):
“Una visone di Dio, del mondo, dell’uomo sarà sviluppata a partire non primariamente dall’autocomprensione umana, ma
dal dramma già da Dio stesso inscenato con il mondo e con l’uomo, dramma nel quale noi ci troviamo come coattori”140.
Ma questa dimensione sussiste solo se correlata al “suo versante attivo”: non si da - né si può dare una teologia drammatica senza un “combattimento” attivo e vissuto “per la salvezza del mondo”.
Ancora una volta viene riproposta la circolarità ermeneutica tra theoria e praxis, figura che ci pare di
poter cogliere come centrale nella prospettiva metodologica balthasariana, così come viene qui
continuamente evocata.
E l’altra “faccia” della teologia drammatica?
“L'altra faccia della teologia è rivolta all'esterno: apologetica, critica, se necessario polemica, essenzialmente in dialogo
con lontani e vicini che non capiscono o che fraintendono. Ci sono anche degli autodialoghi drammatici (Agostino, Boezio),
imitazioni del dialogo platonico o della sfida oratoria come nel Simposio (Metodio). La scuola teologica medioevale
procede ancora a ritmi dialogici: in mezzo la quaestio, a sinistra le ragioni pro, a destra le ragioni contro, sic et non, viene
elaborata la risposta, che nella sua forma finale reca a fianco ancora obiectiones e responsiones. Con queste cellule
drammatiche unicamente si costruiscono i grandi organismi delle Summae. Questo genere letterario si mantiene intatto
fino avanti nel barocco, anche se viene sempre più sopraffatto dal trattato monologico. Vero è che c'è anche assai presto il
condensato, la ‘guida’ quasi turistica attraverso il vasto paese della teologia, come ‘manualetto’ (Agostino e poi di nuovo
Erasmo, che introducendosi anche si batte per una ‘forma breve’ della fede), come ‘itinerarium’ (Bonaventura), come
‘compendium’ (Tommaso); ma in nessun caso presso i grandi teologi questo genere di tascabili minaccia di soffocare la
grande forma che sola è valida, e questa è sempre aperta, interrogativa, inquisitiva”.141
Da non sottovalutare che sì, la teologia drammatica deve essere dialogica perché “in dialogo”
(anche critico) con “l’esterno”; ma il punto centrale ci pare, ancora una volta, un altro. Qui emerge
subito che cosa non deve essere in sé (e non tanto e solo nei confronti “dell’esterno”) un’opera
teologica che utilizza la metodologia drammatica: un “monos-logos”. E il riferimento ai dialoghi
dell’antichità e alla scuola teologica medievale, è finalizzato ad evitare il risolvimento dell’agire di Dio
nel concetto, nel sistema, che non lascia più lo spazio della libertà e della storicità non solo
all’ascoltatore/interlocutore della teologia, ma all’oggetto stesso della teologia. Insomma, “la paura”
che Balthasar intende ad ogni costo fugare è che nell’uomo si insinui la presunzione di aver
concettualizzato (e quindi com-preso, “immobilizzato”) Dio, l’uomo e il loro reciproco agire. Questo è
un rischio che - seppur palesemente e volutamente tenuto presente - comunque si corre (al dire di
Balthasar), ogni qual volta la metodologia assunta per “accogliere” l’agire di Dio non sia drammatica
(cioè “aperta”, “interrogativa”, “inquisitiva”, “dialogica”), ma mono-logica (cioè, tendenzialmente
“chiusa”, “assertiva”, “conclusiva”). Da ricordare, ancora una volta: non che Balthasar disdegni una
logica teologica, anzi; il problema è quando questa è monos-logos, l’unica logica considerata
possibile (e quindi di fatto utilizzata) in teologia, tanto più in riferimento all’Azione di Dio in Gesù
Cristo.
conclusione
Balthasar ribadisce più volte che, in ultima analisi, è la struttura stessa della rivelazione che permette
di apprezzare una teologia drammatica. È l’agire di Dio, il dramma di Dio, che indica la drammatica
umana (quindi, anche teologica) quale referente principale e primo (in senso cronologico e logico)
che permette il teo-dramma, il dar-si di Dio nel linguaggio umano. E si giunge qui, finalmente, al
“problema”: che rapporto si dà tra Dio e uomo, tra agire di Dio e agire dell’uomo, tra linguaggio di Dio
e linguaggio dell’uomo (quel rapporto che, storicamente, ha assunto la figura della “dialettica tra
natura e grazia”)?:
17. Infatti l’uomo non è mai “primariamente l’avvio del teodramma, lo è piuttosto Dio” (TeoDrammatica. Volume due. Le persone
del dramma. L’uomo in Dio, Milano 1982, 80).
141 118-119
140
28
“Se dunque la teologia è per contenuto come per forma tutta quanta una drammatica, siamo nel giusto se ora cerchiamo di
enucleare esplicitamente questo momento e di delineare una specie di sistema categoriale del drammatico. La ‘dialettica’
cattolica tra natura e grazia è in ultima analisi il presupposto che depone a favore dell'importanza di un simile sistema per
la teologia: una drammatica naturale è pre-supposta a una drammatica sovrannaturale e viene ripresa da quest'ultima, ma
in un chiarimento di trasformazione che la fa finalmente approdare alla sua vera destinazione. (...) Questa ‘dialettica’ di
natura e grazia si fonda nel fatto che l'uomo è stato dal creatore consegnato nella libertà e perciò rifornito di una certa
conoscenza naturale della sua origine, conoscenza che può oscurarsi nei miti, ma che sullo sfondo rimane sempre
presupposta”142.
Questa è la “pre-supposizione” da cui Balthasar parte, ma che in Prolegomena non è esplicitata, né
fondata. Senza questo “cuore”, di fatto, tutto l’impianto della metodologia drammatica (ma anche di
qualsiasi altra metodologia che intenda dire qualcosa di Dio) cade. Questo fondamento ermeneutico
Balthasar lo svilupperà altrove143 (su questo ritorneremo in conclusione).
È utile, però, indicare subito le “coordinate” che Balthasar riassume dalla sua analisi della storia del
dramma e dalle categorie centrali della drammatica. Saranno la “pre-supposizione” drammatica
(umana) che sorreggerà/coordinerà l’esposizione della teo-drammatica successiva:
nella sua problematica di fondo (rapporto tra libertà di Dio e libertà umana e quindi di come Dio - in
Gesù Cristo - si rapporti con la storicità della sua creazione e del male):
“A causa di questa liberalizzazione della creatura Dio, a partire dalla creazione, è ‘engagé’ da sempre nel mondo; già di qui
si dà dunque una drammatica umano-divina, di cui si deve attingere notizia dalla rivelazione biblica, ed essa assume così
un vero peso teologico. In questa zona preliminare non si riesce a vedere di più. Non vi si dice che l'esistenza di Dio è
identica al suo impegno per il mondo, come afferma l'idealismo, né è ancora manifesto che il fondo assoluto di ogni
drammatica tra Dio e mondo è il mistero della vita intradivina tra i centri divini (‘persone’) di questa vita: questa particolare
rivelazione può compiersi - in quanto ultima - solo insieme con la rivelazione della radicalità dell'impegno di Dio per il
mondo nell'evento di Cristo”144.
nell’articolazione della risposta (rapporto Trinità economica e Trinità immanente e identificazione del
ruolo/missione nella persona di Gesù di Nazareth, fondata nella sua missio - e quindi, processio intradivina):
“Ma già prima di questo estremo evento (cioè l’evento di Cristo - ndr) è in corso un ‘gioco’ come davanti al ‘velo del tempio’,
un gioco non unicamente intramondano, ma che può essere ‘giocato’ soltanto con un occhio all'Assoluto. Senza domanda
previa l'uomo è collocato sulla scena del mondo; quando il bambino impara a parlare viene iniziato nella sua parte: è già
previamente data o se la sceglie e se la elabora il bambino? Nessuno può rispondere come chiamata viva a una domanda
senza essersi almeno implicitamente identificato a una parte o ruolo, a un ‘prosopon’, a una ‘persona’. Non alla domanda
sfingica ‘Chi è l'uomo?’ si deve rispondere in questo caso da parte dell'attore della rappresentazione, ma, volere o meno,
previamente o nel corso del gioco della vita, alla domanda: ‘Chi sono io?’. Persona - ruolo è un concetto limite nella
dialettica tra immanenza e trascendenza, natura e sovranatura” 145.
TERZA PARTE
INDICAZIONI DI “PER-CORSO”
Balthasar nelle pagine finali dell’ultimo volume di Theodramatik, si domanda se l’intera sua opera (e
la teologia in genere) non appaia (e non sia) “un castello d’aria” per tutti quegli uomini che non vivono
(appieno) la fede cristiana:
142
120
La relazione analogica tra libertà finita e libertà infinita è svolta da Balthasar in TeoDrammatica. Volume due. Le persone del
dramma. L’uomo in Dio, Milano 1982, 183-316
144 120-121
145 121
143
29
“E allora bisognerà anche, alla fine di questa impresa teodrammatica, domandarsi: non è un castello d’aria quello che
abbiamo rappresentato, da misantropi fuori del mondo, a cui i miliardi di persone che vedono il mondo in tutt’altro modo - ivi
compresa la maggior parte dei cristiani - guarderanno come a un’impresa illusionistica e inefficace?”146
La questione radicale che Balthasar pone è la reale possibilità che la teologia possa
aiutare/illuminare/parlare alla vita degli uomini del tempo, o meglio ancora, che la stessa figura di
Gesù Cristo possa essere compresa e percepita come credibile per la vita nel tempo che gli uomini
vivono (quindi non solo la dicibilità, ma anche e soprattutto l’accessibilità dell’evento cristologico
come verità dell’uomo)147.
Ecco: quest’ultima parte del nostro lavoro, vuole approntare alcune indicazioni di “per-corso”
(metodologici) su aspetti (decisivi, a nostro avviso) del “sottofondo” della teologia drammatica.
Lasciandosi provocare dal teologare balthasariano da “mare aperto”, dalla vastità dell’obiettivo di
ricercare che tutta la rivelazione (nella sua percepibilità, nella sua drammaticità, nella sua logicità)
potesse auto-attestarsi come credibile all’interno di tutto l’umano, sottolineeremo (tentando di
istruirle) le linee portanti che la metodologia drammatica ha voluto articolare. Questa provocazione ci
pare mostrare l’attualità di un insieme teologicamente interessante. Anzi, forse più interessante
(rispetto ad alcuni punti o temi teologici particolari di Balthasar) per la comprensione della fede
cristiana oggi: “non è poi così importante che la teologia sia attuale, bensì che sia vera - e questo
implica naturalmente che sia anche all’altezza delle esigenze intellettuali di un’epoca. Quando però
è vera, è indifferente se sia attuale. E se non è vera, anche l’attualità non serve molto, alla lunga”148.
il percorso balthasariano
Da Prolegomena, sono risultate evidenti l’attenzione e la preoccupazione teologiche di Balthasar:
ciò che ha di mira è la possibilità di meglio rispettare il dar-si storico del “dramma” dell’azione di Dio
nei confronti dell’uomo (sua oggettività sia dal versante divino che umano), e la ricerca
dell’esprimibilità (la meno inadeguata possibile) umana di questo teodramma. Ora: perché risulti
massimamente istruttiva la concezione balthasariana della teologia (come metodologia)
drammatica, occorre far almeno per sommi capi riferimento alla struttura-base che riconosciamo in
Balthasar149.
TeoDrammatica. Volume cinque. L’ultimo atto, Milano 1985, 417. E d’altra parte, la teologia contemporanea, nei confronti
dell’opera balthasariana, avverte “la necessità di un più paziente e analitico approfondimento dei suoi materiali costruttivi e della loro
lunga messa in opera”; occorre “farsi istruire dalla decifrazione dei modi di formazione e dei processi di rielaborazione che concorrono
allo svolgimento effettivo del pensiero. (...) La riflessione di Balthasar, infatti, che più di altre mostra in ogni frammento il volto della
sintesi, nasconde anche più facilmente di altre - allo sguardo superficiale - le pieghe non infrequenti di una sua istruttiva incompiutezza,
di una sua problematica dialetizzazione delle tesi, di certi suoi impetuosi azzardi ermeneutici, evocati in tensione vistosa con un
puntiglioso corredo di circospette consapevolezze analitiche” [P.A. SEQUERI, La Musa che è la Grazia, Teologia 15(1990) 104-129
(qui 104)]. Anche altri commentatori sono dell’avviso che proprio la “superficie” (se così si può dire) del teologare balthasariano (il suo
modo di citare e immettere lo scibile umano nel discorso teologico) nasconde/rivela un’istruttiva centralità metodologica/ontologica
sulle “strutture” stesse dell’accessibilità della verità (anche teologica). Così Dumont, accostando lo stile balthasariano alla musica [C.
DUMONT, Un genio musicale, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale
Monferrato 1991, 289-304]. Così Mass, affermando anche che Balthasar si è occupato della letteratura quale “locus theologicus” per la
teologia da tre punti di vista (escatologico - nell’Apokalypse der deutschen Seele; estetico - in Herrlichkeit; drammatico - soprattutto in
Prolegomena) [A. MASS, L’”Apocalisse dell’anima tedesca”di Hans Urs von Balthasar. Nell’ambito di germanistica, filosofia e
teologia, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 87-107 (qui
93)].
147 Solo all’interno di questa questione più vasta (riguardante la fede e la teologia), ci si deve porre il problema della rilevanza e della
significatività (nell’odierno panorama teologico) di Balthasar, il quale, non senza ombra di tristezza, in Epilog, ha descritto la sua opera
con l’immagine emblematica di una bottiglia gettata in mare aperto che galleggia fino a quando, forse, qualcuno la troverà.
148 Così si esprime Pannenberg in un’intervista del 31 luglio 1992, pubblicata in G.L. BRENA, La teologia di Pannenberg.
Cristianesimo e modernità, Casale Monferrato 1993, 211. C’è, addirittura, chi ha visto - in questo senso - il compito di Balthasar
proprio nel “trasmettere ciò che è inattuale” [cfr. I. BAUMER, Trasmettitore di ciò che è inattuale. Hans Urs von Balthasar come
autore, editore e direttore, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato
1991, 119-144]. Viceversa, obiezioni sono state poste riguardo alla sua opera, soprattutto in campo italiano, per cui si accusa in fondo
Balthasar di aver elaborato una teologia che non solo non nasce dalle esigenze della modernità/contemporaneità (perché comunque, si
afferma, lette in maniera distorta e riduttiva), ma che non ha nulla (o poco) da dire ai problemi reali e concreti della contemporaneità
(teologica ed ecclesiale). Si vedano anche solo: G. RUGGIERI, Il principio estetico nella teologia di Hans Urs von Balthasar,
Humanitas XLIV 3(1989) 352-353; A. MODA, La ricezione dell’opera di Hans Urs von Balthasar in Italia, Teologia 1(1989) 44-45;
A. MODA, Struttura e fondamento della logica teologica secondo H.U. von Balthasar. II, Rassegna di teologia 32(1991) 59-60.
Lasciamo al lettore valutare la portata delle critiche mosse da questi autori e la loro reale congruenza con l’opera balthasariana.
149 A distanza di anni, così Balthasar stesso rilegge la sua intera opera teologica: “Giacché da parte di molte persone, perplesse di fronte
alla mole della mia produzione, mi è stata spesso posta la domanda: ‘Da dove bisogna partire per comprendere il Suo pensiero?’ voglio
146
30
tentare di mettere assieme i miei numerosi frammenti in a nutshell (come dicono gli inglesi), nella misura in cui questo si possa fare
senza troppe cancellature. (…) Qui però dobbiamo limitarci a offrire uno schema della Trilogia: Estetica, Drammatica e Logica. Cominciamo con una considerazione della situazione umana: l'uomo esiste come un essere limitato in un mondo limitato, e tuttavia la
sua ragione è aperta all'Illimitato, all’Essere tutt'intero. La prova di ciò consiste nella conoscenza della sua finitezza: io sono, ma potrei
anche non essere. E molte delle cose che esistono potrebbero non essere. Le esistenze sono limitate, mentre l'Essere non lo è. Questa
voragine che si spalanca, questa distinzione reale di S. Tommaso, è la fonte di ogni pensiero religioso e filosofico dell'umanità. Non è
necessario dire che ogni filosofia umana (ad eccezione di quelle del mondo biblico o che hanno subìto il suo influsso) è allo stesso
tempo religiosa e teologica, poiché essa pone la domanda circa l'Essere assoluto, sia che questo venga pensato come personale oppure
no. Ora, quali sono le soluzioni principali di questo enigma tentate dall'umanità? Si può tentare di colmare questa spaccatura apertasi tra
Essere ed essenza, tra Infinito e finito, dicendo o che tutto è Essere illimitato e immutabile (Parmenide), o che tutto è movimento, ritmo
tra elementi opposti, divenire (Eraclito). Nel primo caso il finito e il limitato sarà in sé Non-Essere, e dunque apparenza, che si deve
togliere: questa è la soluzione della mistica buddista del lontano Oriente nelle sue mille colorazioni. E la soluzione anche di Plotino: alla
verità si perviene solo nell'estasi, in essa si tocca l'Uno, che è allo stesso tempo Tutto e Nulla (di tutto il resto che sembra esistere). Il
secondo caso si contraddice da sé: il puro divenire nella pura finitezza può essere pensato solamente in una identificazione di elementi
opposti: vita e morte, salute e sventura, sapienza e stoltezza (così Eraclito). Dunque si devono prendere le mosse a partire da un
dualismo insuperabile: il finito non è l'infinito. Platone: il mondo sensibile terreno non è quello ideale divino. Con questo ne consegue
l'inevitabile domanda: da dove proviene questa spaccatura? Perché noi non siamo Dio? Primo tentativo di una risposta: ci deve essere
stata una caduta, un cader giù, e la via verso la salvezza può consistere solo nel ritorno del sensibile finito nel sovrasensibile infinito. E
questa la via di ogni mistica non-biblica. Secondo tentativo: l'Infinito, Dio, ha bisogno di un mondo finito. Perché? Per compiersi, per
sondare e vivere tutte le sue possibilità? Oppure per avere un oggetto del suo amore? Entrambe le soluzioni conducono al panteismo. In
entrambe l'Assoluto, Dio, è divenuto di nuovo in sé bisognoso, carente, dunque finito. Se Dio però non ha in alcun modo bisogno del
mondo, torna ancora una volta la domanda: perché c'è un mondo? Nessuna filosofia potrà dare a questa domanda una risposta
soddisfacente. Paolo dirà ai filosofi che Dio ha creato l'uomo affinché questi cerchi il Divino, tenti di raggiungerlo. Per questo tutta la
filosofia pre-cristiana è, al suo vertice, teologica. E di fatto alla filosofia la vera risposta può venir data solo dall'Essere stesso, se questi
rivela se stesso. Sarà capace l'uomo di ricevere questa rivelazione? Una risposta positiva viene data solo dal Dio della Bibbia. Da una
parte questo Dio, creatore del mondo e dell'uomo, conosce la sua creatura. ‘Io, che ho creato l'occhio non dovrei esser capace di vedere?
Io che ho creato l'orecchio non dovrei esser capace di udire?’ E noi aggiungiamo: Io, che ho creato il linguaggio, non dovrei essere
capace di parlare e di rendermi comprensibile? E questo conduce come conseguenza anche all'altro aspetto: per poter udire e
comprendere l'autorivelazione di Dio, l'uomo stesso deve essere un ricercare Dio, una domanda a Lui posta. Dunque non c'è alcuna
teologia biblica senza filosofia religiosa. L'intelletto umano deve esser aperto all'Infinito.
Qui si inserisce la mia idea di fondo. Diciamo in primo luogo ancora una volta che l'antica espressione ‘metafisica’ significa l'atto di
oltrepassare la Physis, che per i Greci comprendeva tutto il cosmo, di cui l'uomo era una parte. Per noi la fisica è qualcosa d'altro, e cioè
la scienza del mondo materiale. Il cosmo, per noi, si compie nell'uomo, che è allo stesso tempo riassunto del mondo e suo superamento.
La nostra filosofia sarà dunque essenzialmente una meta-antropologia, che ha come presupposto non solo le scienze cosmologiche, ma
anche quelle antropologiche, e le supera in direzione della domanda dell'uomo circa l'essere e l'essenza. L'uomo però esiste solo nel
dialogo con il suo prossimo. Un bambino viene destato alla coscienza per mezzo dell'amore, del sorriso della madre. In questo incontro
si apre a lui l'orizzonte dell'intero essere infinito e gli mostra quattro cose: 1. che egli è uno nell'amore con sua madre, sebbene posto di
fronte a lei, e dunque che tutto l'essere è uno; 2. che questo amore è buono, e dunque tutto l'essere è buono; 3. che questo amore è vero,
e dunque tutto l'essere è vero; 4. che questo amore suscita gioia, e dunque tutto l'essere è bello. Aggiungiamo che l'epifania dell'Essere
è piena di significato solo se nel fenomeno afferriamo l'ente - la cosa in sé - che si mostra. Il bambino riconosce non una pura e semplice
apparizione, ma la sua madre in se stessa. Ciò non esclude che noi cogliamo l'ente solo attraverso la sua manifestazione, e non in se
stesso (S. Tommaso). L'uno, il buono, il vero, il bello: noi le chiamiamo proprietà trascendentali dell'essere, poiché esse superano ogni
limitazione dell'ente e sono coestensive all'essere. Se vi è una distanza insuperabile tra Dio e la creatura, se vi è tra essi anche una
analogia, che non si lascia ridurre a nessuna forma di identità, allora deve esserci parimenti una analogia dei trascendentali tra quelli
della creatura e quelli che sono in Dio. Da ciò risultano due conseguenze, una positiva e una negativa. Quella positiva: l'uomo esiste
solo per mezzo del dialogo inter-umano, dunque per mezzo del linguaggio, della parola (in gesti, mimica o parole). Perché dunque voler
negare la parola all'Essere stesso? ‘In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio’ (Gv 1, 1). Quella negativa:
supponiamo che Dio sia veramente Dio (cioè la totalità dell'essere, che non ha bisogno di alcuna creatura); allora sarà anche la pienezza
dell'Uno, del Buono, del Vero e del Bello, e di conseguenza la creatura, limitata, partecipa solo in parte, frammentariamente, ai
trascendentali. Facciamo un esempio: in che cosa consiste l'unità del mondo finito? È il genere, la specie (ogni uomo è interamente
uomo, in ciò consiste la sua unità). Oppure è l'individuo (ogni uomo è indivisibilmente se stesso)? L'unità è dunque polarizzata,
nell'ambito del finito. La stessa polarità può venir dimostrata per il Buono, il Vero e il Bello. Corrispondentemente a ciò ho tentato di
costruire una filosofia e una teologia a partire dall'analogia, dunque non partendo da un Essere astratto, ma piuttosto da un Essere come
lo si incontra concretamente nelle sue proprietà fondamentali (non categoriali, bensì trascendentali). E poiché i trascendentali
compenetrano e animano tutto l'essere, devono per forza di cose essere anche intimi l'uno all'altro: ciò che è davvero vero, deve essere
anche buono e bello e uno. Un essere appare, ne consegue una epifania: in essa esso è bello e ci rallegra. Apparendo si dà, si dona a noi:
è buono. E dandosi si dice anche, si esprime, svela se stesso: è vero (in sé e nell'altro al quale si rivela).
Così si può sviluppare dapprima una Estetica (Herrlichkeit): Dio appare. Egli appare ad Abramo, a Mosè, Isaia, infine appare in Gesù
Cristo. Una domanda teologica: Come può la sua apparizione, la sua epifania venir riconosciuta in mezzo ai mille altri fenomeni di
questo mondo? Come si può distinguere l'unico e vero Dio vivente da tutti gli dèi circostanti, da tutti i tentativi filosofici e religiosi di
afferrare Dio? Come si può percepire l'incomparabile gloria di Dio nella vita, nella croce e nella risurrezione di Cristo, in mezzo a tutte
le altre glorie di questo mondo?
Così si può procedere ulteriormente con una Drammatica, poiché questo Dio stringe con noi un patto di alleanza: come si incontra la
libertà assoluta di Dio con la libertà relativa, ma reale, dell'uomo? Non si giungerà qui ad una battaglia mortale tra le due, nella quale
ognuna difenderà contro l'altra quello che essa ritiene buono e come tale sceglie? Quale sarà lo sviluppo di questa battaglia, e la vittoria
finale?
31
Per realizzare l'unicità irripetibile di Cristo e della sua universalità di modello realizzato per ogni
umana situazione (centro dell’interesse balthasariano), Balthasar:
o
avvia un triplice “punto di vista” (“estetico”, “drammatico”, “logico”) all’unico centro, la
singolarità irripetibile dell’uomo-Dio Gesù di Nazareth;
o
attraverso un triplice approccio metodologico [Gesù Cristo la Gestalt centrale della
rivelazione trinitaria; Gesù Cristo l’Inviato che è la sua Missione, l'universale-concretum; Gesù
Cristo che è l’Ausbruck di Dio, la corrispondenza perfetta tra il “linguaggio” di Dio che si rivela
(Theós-legón) e l' “espressione” della Figura di Gesù, il Dio rivelato nella carne mortale
(Theós-legómenos)] in forza di un’analogia “concreta” (concreta analogia entis);
o
corrispondente alla triplice modalità dell’autocomunicazione di Dio in Gesù Cristo (il rivelar-si
di Dio - vedere; il dar-si di Dio - agire; il dir-si di Dio - comunicare);
o
che si fonda/rivela la concreta esperienza per noi possibile dell’essere nei suoi tre
trascendentali (bello, buono, vero).
o
Questo - a livello dell’esperienza umana - comporta la triplice dimensione dell’incontro con la
rivelazione di Dio: la percezione della Gloria di Dio nell’esperienza umana, la partecipazione
etica (libera e storica) al “dramma” di Dio nel mondo, la conoscibilità e dicibilità di Dio nel
linguaggio dell’umanità.
Da questo modo di impostare la problematica teologica, proviamo ad evidenziare il nodo teoretico
sotteso alla metodologia drammatica, che sta nel tentativo di correlare originariamente Dio (e la sua
verità cristologicamente determinata) e l’uomo (e la sua verità) nel “gioco” dell’azione (libertà e
storicità).
Balthasar aveva già salvaguardato la sua impostazione teologica da un assorbimento
dell’antropologico nel cristologico 150 , quando (nell’analisi della percepibilità della realtà e della
rivelazione) aveva posto come centrale la categoria di Gestalt: la figura cristologica non conferma
(solo) il processo umano, ma lo sorprende e lo contraddice (fra il teologico e l’antropologico non c’è
“corrispondenza” se non grazie a un’ “interruzione”). L’Estetica teologica di Balthasar, così,
riproponeva le tesi barthiane del “primato dell’oggetto” non più nel registro attualistico di un’ontologia
dell’evento, ma in quello “estetico” della figura, in cui l’antropologico è mantenuto e valorizzato
all’interno stesso del polo teologico (il primato della manifestazione sull’anticipazione - Vorgriff,
dell’impostazione trascendentale rahneriana – co-include il “contenuto” della rivelazione e il “fatto”
della rivelazione). La precedenza della Gestalt sottolineava, così, il dato originario e intrascendibile
della rivelazione: il realismo della sua storicità. La “verità” di Dio non è accessibile che nell’evento
cristologico in quanto evento storico, perché questo non manifesta una “verità” di Dio che sarebbe
Si può terminare con una Logica (una Teo-logica). Come si renderà Dio comprensibile agli uomini, e come può una Parola infinita
esprimersi in una parola finita, senza rimetterci il suo significato? Qui si pone il problema delle due nature di Cristo. E come può il
limitato spirito afferrare il senso illimitato della Parola di Dio? Qui si pone il problema dello Spirito Santo.
Questa è l'articolazione della mia Trilogia.Ho menzionato solamente le questioni che sono state poste dal metodo, senza accennare alle
risposte, cosa che oltrepasserebbe di gran lunga l'ambito di questa mia introduzione. Come conclusione bisogna tuttavia pur sempre
toccare brevemente il punto che contiene la risposta cristiana alle domande sollevate all'inizio dalle filosofie religiose del mondo. Dico:
la risposta cristiana, poiché l'Antico Testamento e più ancora l'Islam (che essenzialmente fa parte dell'ambito della religione di Israele)
non sono in grado di dare una soddisfacente risposta alla domanda: Perché Yahwé, perché Allah ha creato un mondo del quale egli, in
quanto Dio, non ha bisogno? In entrambe le religioni viene posto il dato di fatto, ma non viene data alcuna fondazione e motivazione.
La risposta cristiana è contenuta nei due dogmi fondamentali, quello della Trinità e quello dell'Incarnazione. Nel dogma trinitario Dio è
uno, buono, vero e bello, perché essenzialmente egli è amore, e l'amore presuppone l'Uno, l'Altro e la loro Unità. E se in Dio si deve
porre l'Altro, il Verbo, il Figlio, allora l'alterità della creazione non è una caduta, un abbassamento, ma è invece un'immagine di Dio,
senza essere essa stessa Dio. E poiché il Figlio è l'eterna icona del Padre, potrà allora accogliere in sé senza contraddizione l'immagine
speculare che la creazione è, purificarla senza dissolverla (in una falsa mistica), introdurla nella communio della vita divina. Qui si
dovrà distinguere ‘natura’ e ‘grazia’. Ogni autentica soluzione offerta nella fede cristiana dipende da questi due misteri, che vengono
categoricamente rifiutati da un intelletto umano che si pone come assoluto. Per questo la vera e propria battaglia fra le religioni
comincia solo dopo la venuta di Cristo. L'umanità rinuncerà piuttosto ad ogni domanda filosofica - marxismo, positivismo di qualsiasi
colorazione - anziché accettare una filosofia che trova la sua risposta ultima nella Rivelazione di Cristo. Prevedendo questo, Cristo
invia i suoi fedeli fuori in tutto il mondo ‘come pecore in mezzo ai lupi’. Prima di mettersi a dialogare con il mondo, è opportuno tenere
presente questo paragone” [Un ultimo resoconto, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e
Opera, Casale Monferrato 1991, 17-23].
150 Per Balthasar, meglio sarebbe sempre parlare di libertà di Dio (teologico), di libertà di Cristo (cristologia) e di libertà dell’uomo
(antropologia). Questo per salvaguardare la concretezza e l’irriducibilità delle libertà i gioco, che non possono mai essere ri-solte in
nessuna “logica” astratta. Per comodità e comprensibilità, però, adottiamo il linguaggio più consono alla riflessione teologica dopo e
alla luce dell’effettivo vissuto di queste tre libertà.
32
data indipendentemente da esso, ma realizza - per così dire - la “struttura” dell’accesso a Dio. E
questo riguarda non solo il destinatario, ma Dio stesso: non solo, cioè, la “verità” di Dio è accessibile
(percepibile) all’uomo nella storia, nell’evento storico; ma, correlativamente, la “verità” di Dio è
“esprimibile” (solo) storicamente, mediante l’evento storico. Il primato della rivelazione cristologica
che è la “verità” di Dio, mostra che la “verità” non è un’ “idea” (e che l’accesso alla “verità”, quindi,
non è innanzi tutto intellettualistico), ma una “relazione” (e quindi vi si accede primariamente nella
dinamica della libertà).
Ora: la teologia drammatica comporta, a nostro parere, un proseguimento-compimento
dell’impostazione iniziata (ma non ultimata) nell’estetica. Infatti, la “ragione estetica” risolveva - di
fatto - la reciprocità di attività e passività interna a ciascuno dei due poli (teologico e antropologico)
della correlazione originaria della Gestalt, “semplicemente” in una relazione di attività riferita al polo
teologico e di passività riferita al polo antropologico. Infatti, essendo lo “stupore” (il “lasciarsi rapire”,
il “lasciarsi prendere”, cioè una forma passiva della coscienza) il corrispondente antropologico della
“apparizione” della Gestalt, la “ragione estetica” non riusciva ad affermare consistenza effettiva alla
storicità e alla libertà dell’uomo (perché la storicità e la libertà del destinatario sono quasi
completamente “passive” di fronte alla storicità e libertà della figura che si “impone”): lo
sbilanciamento è ancora unilateralmente teologico (secondo l’orientamento tipico di Barth che
Balthasar intendeva correggere nella sua sottodeterminazione antropologica, proprio mediante il
ricorso alla ragione estetica).
L’intenzione e la fatica della ragione drammatica la individuiamo nel proseguo-completamento di
questa riflessione: consiste, cioè, in una maggiore integrazione della dimensione “pratica” (e quindi
della libertà e della storicità) sia sul versante teologico-cristologico (salvaguardare la libertà di Dio e
la “singolarità” della libertà/storia di Gesù Cristo), ma soprattutto sul versante antropologico (l’uomo
non accede alla “verità” se non “determinandola” a sua volta, cioè non può riconoscerla, “percepirla”
se non determinandosi nei confronti di essa). Per questo, illustriamo cosa comporti una “ragione
drammatica” in teologia, sia sul versante teologico sia sul versante antropologico (solo per
comprenderli meglio “separiamo” i due momenti che sono indisgiungibili, seppur non indistinti, come
la ragione estetica ha già mostrato). Infatti, non si tratterà solamente di mostrare che la verità (di Dio
in Cristo) si dà nella storicità e nella libertà e che la storicità e la libertà umane sono implicate
nell’accesso alla verità (di Dio in Cristo). Non sono due “realtà” diverse; occorre mostrare che questi
aspetti si fondano su una medesima necessità, o meglio ancora, su un “punto d’incontro” che mostra
la reciproca necessità (altrimenti si giungerebbe - non oltre - semplicemente alla giustapposizione
tra Dio e uomo). Per dirla diversamente: non basta a garantire il primato dell’oggetto (storicità e
libertà dell’evento) il partire materialmente dalla rivelazione, né assicura la consistenza ontologica
del soggetto (libertà e storicità dell’uomo) il considerare materialmente la dimensione antropologica.
Si rischia la giustapposizione estrinseca delle due istanze fondamentali, dei due versanti della
questione che sono irriducibili e insuperabili. Occorre un’adeguata riflessione sul “centro” di questi
“due fuochi”: i due versanti, infatti, si correlano alla dualità irriducibile dell’unico punto di partenza
della teologia (che è il fondamento della fede), la rivendicazione che l’evento Gesù di Nazareth
rivolge all’uomo. La rivelazione (pur non riducendosi ad essa) include la destinazione che essa
rende possibile (cioè un autentico presupposto antropologico). Alla luce di Gesù Cristo l’uomo si
rivela incluso come libero destinatario della verità stessa di Dio.
1. IL FATTO GESÙ CRISTO
il versante teologico della metodologia drammatica
1.1 il fatto Gesù Cristo: il primato oggettivo della Rivelazione e il suo incontro con l’uomo
Al di là del primato affermato (che è ormai pacificamente acquisito, soprattutto dopo Barth), occorre
giungere ad un’assunzione rigorosa del principio di rivelazione nel suo rapporto istitutivo e costitutivo
con la fede151. Certo: è pacifico che Dio si rivela agendo: la persona di Cristo non è separabile dalla
La provocazione balthasariana su questo punto è di una chiarezza inequivocabile. Balthasar vive una “concentrazione cristologica”
in tutta la sua teologia: parla spesso di Gesù Cristo quale realtà assolutamente unica e irripetibile (l'essere “unico irripetibile” o
“l'assolutamente irripetibile”). La singolarità di Cristo ha nella formula giovannea del Verbum caro (Gv 1,14) la sintesi più concisa e
più alta; essa abbraccia l'intero problema cristologico; ma proprio esso è “la questione più centrale e più spinosa di ogni dottrina
151
33
sua missione, la sua azione è rivelativa della sua identità152. Ma ciò non significa solamente (e
superficialmente) porre al centro la dimensione fattuale, la consapevolezza dell’orizzonte di libertà e
storicità nei quali la rivelazione (e la fede che vi consente) risulta “iscritta”. L’oggetto è nel suo darsi
(non, si badi bene, che l’oggetto è il suo darsi): questo indica la questione teorica decisiva, che verte,
allora, sul ruolo dell’agire libero di Dio (prima ancora che dell’uomo) in riferimento al darsi della
verità.
La condizione evenemenziale del fondamento genera - in prima battuta - una verifica storica come condizione
intrinseca; però, soltanto nell’esplicitazione della necessità intrinseca al carattere evenemenziale della verità,
l’imprescindibile riferimento alla storia di Gesù non rimane un semplice rinvio positivistico. La storicità
dell’evento - in altre parole - non è un corollario della sua forma veritativa, ma la modalità originaria della sua
oggettività (poiché l’evidenza della fede è originariamente un’evidenza storica). Si deve, così, certamente
concedere che il pragmatico segnala una qualità impreteribile del veritativo e impone una redifinizione dello
statuto proprio del sapere critico. La teoria non può mai precedere la pratica, poiché questa appartiene
all’istituzione originaria della verità153.
Se l’assolutezza del fondamento essenzialmente storico della fede è il punto di partenza
indeducibile, di conseguenza, il nodo teoretico riguarda il tipo di razionalità in grado di istituire
criticamente il nesso tra l’universalità della pretesa di fede e la singolarità del suo fondamento.
Occorre, cioè, una teoria che giustifichi il perché la verità di Dio si sia data storicamente in Gesù
Cristo (non è più pensabile articolare la storicità come esterna alla verità154). Per questo è il versante
ermeneutico della questione (“umano”), che può riuscire a mostrare la ragionevole necessità del
darsi storico e libero della verità (teologica in Gesù di Nazareth).
Ciò spiega, in primis, la scelta di uno svolgimento drammatico del ragionamento teologico: l’azione
salvifica di Dio in Gesù è da trattarsi sotto il profilo drammatico (il gioco delle libertà e storicità di Dio
e dell’uomo è l’a-priori pratico), più che logico (ri-solvere il rapporto secondo un a-priori razionale),
per evitare la pura sintesi e la pura dialettica tra Dio e uomo. L’insuperabile profilo fattuale della
cristiana della fede”, soprattutto perché la caro, fatta propria dal Verbo di Dio nell’atto di calarsi nell’abisso dell’umanità, sta non solo
per uomo, ma anche per finitezza e caducità mortale. Ricercare le vestigia trinitarie dell'essere creaturale e mondano, fatte proprie dal
Verbo eterno nel diventare uomo per poter rivelare il mistero supremo di Dio, è uno dei grandi solchi che attraversano l'intera opera
balthasariana, dai primi saggi teologica fino all'opera conclusiva Teologica. In che modo l'uomo Gesù, sul cui volto (prósopon)
risplende “la conoscenza della gloria divina” (2 Cor 4,6), può essere la rivelazione o l'espressione definitiva e visibile del Dio
invisibile? Come può un uomo con l'atto più oscuro del suo destino di dolore, qual è appunto la morte in croce, essere la manifestazione
dell'amore assoluto di Dio e l'evento della salvezza universale? In che modo poi la logica umana può costituire la base per una
raffigurazione autentica della logica divina, della verità assoluta? Queste tre domande sottendono tutte il rapporto tra natura e grazia, tra
l'umano e il divino, tra il contingente e l'eterno; sono gli stessi interrogativi che soggiacciono alle tre parti della trilogia di Balthasar:
Estetica, TeoDrammatica e Teologica.
152 Impostando la trattazione sulle Persone del dramma della salvezza (Dio, l'uomo, Gesù Cristo), Balthasar ci invita a non separare
nell'opera del Cristo la rivelazione divina dalla sua azione salvifica; come - secondo l'antico adagio filosofico - agere sequitur esse, così
pure esse sequitur agere. Ciò significa che rivelazione e azione salvifica sono inseparabili. Si confronti, al riguardo, quanto afferma il
documento della Commissione Teologica Internazionale, dedicato alla tematica della redenzione: “In realtà, per la rivelazione biblica,
e quindi per la fede cristiana, conoscere Dio significa professarlo sulla base di ciò che Egli stesso ha fatto per gli esseri umani,
rivelandoli pienamente a se stessi proprio nell'atto di rivelare Se stesso a loro, precisamente entrando in relazione con loro: stabilendo
e offrendo loro un'Alleanza, e arrivando al punto, per raggiungere questo scopo, di entrare e d'incarnarsi proprio nella loro condizione
umana” [COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Alcune questioni sulla teologia della redenzione, n. 38, Civiltà
Cattolica IV(1995) 551-599 (qui 561. Corsivo nel testo)]. Ora possiamo comprendere il vero motivo del ricorso al teatro: col cardinale
Newman il teologo svizzero amava affermare: “Il cristianesimo è una storia soprannaturale e molto simile a un'opera di teatro. Ci dice
chi è l'autore dicendoci quello che ha fatto” [J.H. NEWMAN, The Tarnworth Reading Room (1841), in Discussions and Arguments on
various Subjects (1872), citato in TeoDrammatica. Volume due. Le persone del dramma. L’uomo in Dio, Milano 1982, 19].
153 Esiste un primato assoluto del fenomenologico, che è anche primato ermeneutico: occorre riconoscere l’irriducibilità dell’evento
sulla sua ripresa critica e quindi l’originaria subordinazione del piano riflessivo all’a posteriori dell’evento, il quale soltanto ne fonda
l'autentico carattere di a-priori. Arrivando, evidentemente, però a salvare il primato della prassi dal pragmatismo. Non si tratta,
evidentemente, di una riduzione immanentistica della verità alla storia, ma del riconoscimento che non si dà per l’uomo adeguata
determinazione dell’assolutezza della verità che quella ch’essa stessa rivela manifestandosi.
154 In fondo è un ritornare alla provocazione di Lessing: “casuali verità storiche non possono mai diventare la prova di necessarie verità
razionali” [G.E. LESSING, Sul cosiddetto “argomento dello spirito e della forza”, in La religione dell’umanità, (a cura di N.
MERKER), Bari 1991, 65-71 (qui 68)], partendo però da un punto di vista diverso. Infatti, alla luce della riconosciuta originarietà dello
statuto ermeneutico del sapere, occorre approntare una figura di ragione capace di dire la necessaria storicità della verità (superando
così l'ideologismo della ragione intellettualistico-scientifica). Infatti, se non si mostra il carattere costitutivamente storico dell’a-priori,
l’economia della rivelazione rimane - di fatto - subordinata ad una condizione pensata in modo a storico. E, in fondo, la perdita della
storicità sul piano del discorso veritativo è derivata dalla figura della ragione separata. Per questo, l’istanza ermeneutica che impone di
ripensare la questione della verità sul piano della sua essenziale storicità (e quindi, per la teologia, giustificare la rivendicazione di
assolutezza della fede proprio nel suo fondamento singolare), impone anche la ripresa del rapporto tra storicità e verità sul piano
radicalmente ontologico (cioè mostrare il carattere originariamente evenemenziale della verità).
34
realtà e la relativa qualità drammatica della libertà impediscono la ri-soluzione dei nodi problematici;
si dovrebbe parlare piuttosto di una “sospensione”, di un mantenimento della problematicità delle
polarità messe in gioco, che non va imputato ad una generica debolezza teorica, ma istruisce sulla
fondamentale preoccupazione di sbarrare la strada ad ogni riduzione sistematica che in qualche
modo possa comportare la perdita dell’irriducibile storicità e libertà (quella di Dio prima ancora di
quella dell’uomo). Da qui il rifiuto del sistema 155 (e il tendenziale “sospetto” sul modello
trascendentale156) e l’aderenza fenomenologica157 all’oggettività della rivelazione, perché “la realtà è
azione e non teoria”158.
Questo motiva la forma generale dell’impianto teologico: una theologia crucis159 in cui il discorso su
Dio (theo-logia) è aperto dalla libertà di Dio (e degli uomini) che si attua nell’evento della croce
(theo-dramma), come scandaloso esito della luminosa e piena manifestazione di Dio al mondo
(theo-phania). La soluzione invoca però una nuova figura del sapere, e la verità della teologia esige
un nuovo quadro dell’ontologia, perché questa sia in grado di tematizzare e interpretare l’immediata
e storica reciprocità e dialogicità delle libertà di Dio e dell’uomo 160. Fattualità (singolarità) e libertà,
rappresentano le cifre fondamentali dell’ontologia161. La riformulazione globale del sapere teologico
deriva dall’assunzione radicale dell’oggetto rivelato nella sua singolare storicità-libertà, rimettendo
perciò in gioco in modo originale i rapporti fra cristologia e antropologia162. Questa cor-relazione
potrebbe essere inizialmente formulata così: se è vero che esiste un primato ontologico - e quindi
logico e cronologico - di Dio sull’uomo (il punto di partenza e il centro è Gesù Cristo e non l’uomo), è
Perché “la croce rompe ogni sistema” [TeoDrammatica. Volume quattro. L’azione, Milano 1986, 297].
La “singolarità” della storia di Gesù Cristo che non può mai essere ridotto a “un caso supremo di antropologia trascendentale”
[Mysterium paschale in Mysterium salutis 6, Brescia 1971, 171-412 (qui 286). Questo saggio è stato poi ripubblicato come Teologia dei
tre giorni, Brescia 1990].
157 “Nella percezione delle forme il metodo filosofico (teologico - ndr) di Balthasar non si può chiamare né sistematico (né tanto meno
concettuale-analitico o concettuale-costruttivo), né propriamente storico; è più prossimo, a detta di lui stesso alla fenomenologia, ove
confluisce anche però una buona parte di critica della letteratura” [P. HENRICI, La filosofia di Hans Urs von Balthasar in K.
LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 305-334 (qui 313-314)].
158 TeoDrammatica. Volume uno. Prolegomena, Milano 1987, 66
159 Così sintetizza Mondin la theologia crucis in Balthasar: “Il teologo, quando interpreta la rivelazione, non deve portare con sé nessun
criterio prefabbricato. Il criterio deve prenderlo da Dio, e questi gli dà come criterio la croce. (...) Il teologo non deve crocifiggere la
Rivelazione dentro i suoi concetti, ma deve lasciar crocifiggere i suoi concetti dalla Rivelazione. Però, osserva acutamente Balthasar,
neppure la croce può essere strumentalizzata per determinare a-priori il significato della Rivelazione” [B. MONDIN, Hans Urs von
Balthasar, in AA.VV., I grandi teologi del secolo XX, Torino 1969, 285-286]. Insistentemente Balthasar è tornato nella sua opera sulla
centralità della croce. Si veda anche solo Gloria. Un’estetica teologica. Volume due. Stili ecclesiali, Milano 1985, 318: “La croce è
senz’altro la chiave di ogni cosa; omnia in cruce manifestatur: non solo il peccato, non solo l’uomo, ma Dio stesso”. Non è indifferente,
al proposito, che lo svolgimento trinitario della dottrina della kenosi (rivelata nel Crocifisso) sia individuato come il tratto più
“sistematico” di Balthasar [Cfr. F.G. BRAMBILLA, Salvezza e redenzione nella teologia di K. Rahner e H.U. von Balthasar, La
Scuola Cattolica 108(1980) 167-234].
160 Ci pare condivisibile la tesi che Rahner e Balthasar siano i due autori più significativi (in campo cattolico) che hanno tentato
quest’obiettivo di fondo comune. Entrambi tentano una rigorizzazione della mediazione cristologica della storia e della verità, convinti
del primato della fede e della derivazione della cogitatio fidei. E anche i differenti punti di partenza e di arrivo dei due progetti
costituiscono un incrocio significativo in ordine al mostrare la comune intenzione critica: mentre in Rahner la comprensione dell’uomo
come soggettività trascendentale termina nel mistero inoggettivabile di Dio, in Balthasar l’oggettività della rivelazione dell’amore
trinitario rimanda all’esperienza originaria del “consenso ontologico” che costituisce la dinamica fondamentale dell’esistenza umana
(tipizzata nell’esperienza dl risveglio all’essere del bambino nell’amore della madre). Cfr. V. HOLZER, Le Dieu Trinité dans l’histoire.
Le différend théologique Balthasar-Rahner, Paris 1995. Non condividiamo però la conclusione della ricerca dell’autore, il quale, pur
manifestando un apprezzamento particolare per il teologare balthasariano, in sede conclusiva indica la soluzione rahneriana come più
confacente e istruttiva.
161 Questo è il nodo a cui la drammatica, “ontologicamente”, vuole rispondere. Cfr. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans
Urs von Balthasar, Brescia 1997, 220-251
162 Così possiamo comprendere (meglio) il valore teorico della categoria balthasariana: dramma significa l’irriducibile fatticità e
singolarità; drammatica indica una forma di sapere che non com-prenda le polarità irrisolvibili della singolare storicità e libertà (divine
e umane); Teodrammatica vorrebbe essere il luogo dell’elaborazione della drammatica come plesso categoriale adeguato
all’esplicazione della realtà della rivelazione nella sua implicazione antropologica (la costituzione drammatica della libertà e della sua
storia vietano una sintesi sistematica di natura e grazia, analogia e dialettica, esistenza e finitezza, dramma e compimento, evento e
definitivo, apertura e chiusura della storia, peccato e perdono). Così anche Fisichella, che però afferma: “non si può negare, comunque,
che l’insistenza riguardo all’oggettività del dato ha fagocitato il necessario e insostituibile ruolo del soggetto. Chi è, alla fine, il credente
che si pone davanti al mistero? O chi il semplice soggetto umano che si trova di fronte l’evidenza oggettiva della rivelazione” [R.
FISICHELLA, Hans Urs von Balthasar, in Storia della teologia 3, Bologna 1996, 765-789 (qui 785)]. Non condividiamo questa
conclusione, anche se rimane vero che Balthasar, in un tempo segnato da un’eccessiva accentuazione antropologica, abbia voluto
innanzi tutto (polemicamente) salvaguardare il primato e l’importanza di Dio e della rivelazione; ma in Balthasar proprio questo è stato
il modo (adeguato) per assicurare consistenza ontologica all’umano.
155
156
35
altrettanto vero che è impossibile una comprensione della rivelazione senza l’uomo (anche se la
libertà dell’uomo non è comprensibile senza quella di Dio così come si è rivelata in Gesù Cristo).
1.2 il fatto Gesù Cristo e la sua dicibilità teologica
Da qui, la fatica pratica di costruire una teologia “conseguente” 163 , cioè l’elaborazione di una
metodologia teologica che lasci a Colui che ci viene incontro la propria lingua. L’intuizione di base
che la rivelazione ha costitutivamente forma drammatica (cioè si dà nella libertà-storicità), conduce a
ricercare l’aderenza a questa forma che realizzi compiutamente la percezione e ne apra la
dicibilità164. L’aspetto decisivo starà nel rapporto tra ontologia e cristologia165, più precisamente:
quale ontologia deriva dalla cristologia? e di conseguenza: quale “linguaggio” è più aderente ad
un’ontologia “comandata” dalla cristologia?
È necessario, infatti, costruire una filosofia e una teologia, partendo non dal concetto astratto di
essere, ma dall’essere quale lo si incontra concretamente - sul piano dell’esperienza vissuta, alla
luce dell’ “esperienza Gesù di Nazareth - nelle sue “proprietà trascendentali” di vero, buono e
bello166. L’orizzonte di tale analisi fenomenologica (o meglio ancora: cristologico/fenomenologica,
intendendo con quest’espressione il partire dal fenomeno Gesù di Nazareth167) non potrà che essere
illuminato dall'amore quale “trascendentale in assoluto” (G. Siewerth). Infatti, questo punto di avvio
cristologico non è un astratto “a-priori” (anche se teologico), perché trova corrispondenza nel
fenomeno dello spirito umano nel suo primo atto di risvegliarsi all'essere, all'autocoscienza
(l'esperienza stessa ci ricorda che un bambino è svegliato alla coscienza solo dall'amore, dal sorriso
di sua madre).
Con Gadamer possiamo affermare: “Il problema del metodo è completamente determinato dall’oggetto” (H.G. GADAMER, Verità
e metodo, Milano 1972, 365). Non è possibile determinare un sapere altrimenti che in base all’ “oggetto” intorno a cui esso verte,
nonché in base al metodo secondo cui questo stesso sapere viene conquistato: actus specificatur ab obiecto (TOMMASO D’AQUINO,
Summa Theologiae I, q. 73, a. 3; II-II, q. 26, a.7). È in questa linea che si comprende anche la relazione che Balthasar riconosce fra
“teologia fondamentale” e “teologia dogmatica”. Il primato della seconda è una conseguenza del riconoscimento che la riflessione sulla
fede è aperta dal primato della sua effettuazione reale: “Non bisogna riportare l’impressione che noi vogliamo sviluppare una teologia
fondamentale distinguibile dalla dogmatica e ad essa contrapposta. Il cammino delle nostre riflessioni tenderà piuttosto a comunicare la
convinzione della inseparabilità di ambedue gli aspetti della teologia” [cfr. Gloria. Un’estetica teologica. Volume uno. La percezione
della forma, Milano 1994, 3. Per una fondazione dell’affermazione vedere pag. 110-111, dove si dice, tra l’altro: “dottrina della
percezione o teologia fondamentale” e “dottrina del rapimento o teologia dogmatica”. Si veda anche Gloria. Un’estetica teologica.
Volume sette. Nuovo patto, Milano 1991, 32: ”teologia fondamentale e teologia dogmatica sono inseparabili”]. La dimensione
fondamentale non può misconoscere la “dogmatica”, perché “fa buona apologetica colui che fa buona e centrale teologia; colui che
espone validamente la teologia, ha fatto la migliore apologetica” [Il filo di Arianna, Milano 1980, 54]. Però, quello che Balthasar dice in
Gloria a proposito del fatto che una “teologia fondamentale” non può che essere già “dogmatica”, ci pare ribaltabile: una “teologia
dogmatica” non può che essere sempre “fondamentale”. E proprio questo punto-di-vista diventa il punto-di-forza della teologia di
Balthasar, che - per dirla con Rahner - è “un apologeta nel senso migliore del termine, che risponde con comprensione ai problemi su
Dio dell’uomo contemporaneo” [K. RAHNER, Hans Urs von Balthasar, Humanitas 1965, 853. Si confronti anche P. HENRICI, La
filosofia di Hans Urs von Balthasar in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e Opera, Casale
Monferrato 1991, 305-334 (in particolare 329)]. Questa preoccupazione onnipresente, spiega anche (in parte) la non-sistematicità del
procedere balthasariano, il ricorso continuo a citazioni da diverse regioni dello scibile umano, il fatto di tornare e ritornare - da
prospettive diverse - sui medesimi aspetti, per “rendere credibile e accettabile il messaggio cristiano al mondo” [Solo l’amore è
credibile, Torino 1978, 17] meditando “sulla forma della rivelazione per giungere, mediante l’intelligenza, l’intuizione, la sapienza, a
comprendere più profondamente l’atto di fede” [Con occhi semplici, Roma-Brescia 1970, 40].
164 “Se si dà qualcosa che si chiama teodrammatica... e se essa centralmente è l’incarnazione di Dio, il suo impegno per il mondo, si
devono o si possono dare allora forme drammatiche per una sua rappresentazione, per quanto esse possano essere indirette, rischiose,
precarie e ambigue” [TeoDrammatica. Volume uno. Prolegomena, Milano 1987, 106].
165 Il nostro punto di partenza in questa parte è stata l’osservazione di Ruggieri: “Non è facile ridurre ad unità la complessità, le
sfumature, il convergere differenziato degli approcci metodologici del nostro autore. Sembra tuttavia poter individuare il nucleo
centrale della sua prospettiva nel delicato rapporto tra ontologia e cristologia. In Cristo ‘una volta (e una volta per tutte!) l’ESSERE fu
nell’esserci’ “ [G. RUGGIERI, Introduzione alla lettura di “Gloria” (Herrlichkeit), in Gloria. Una estetica teologica. Volume uno. La
percezione della forma, Milano 1994, XVII].
166 Partendo dalle proprietà trascendentali dell'essere: uno, vero, buono e bello - oggetto della grande speculazione scolastica - e
presupponendo che esse sono inseparabili e “convertibili” (l'una include il valore dell'altra e l'una esprime l'altra), sorge
necessariamente il problema circa il rapporto tra l'essere finito e l’essere infinito, tra creato e Creatore: “Se vi è una distanza
insuperabile tra Dio e creatura, e se vi è tra di loro un’analogia che non si lascia ridurre ad alcuna forma d’identità, allora vi deve essere
anche un’analogia dei trascendentali, tra quelli della creatura e quelli di Dio” Creatore [Teologica. Volume uno. Verità del mondo,
Milano 1989, 93]. Quindi le conoscenze teologiche sulla gloria, bontà e verità di Dio presuppongono (o meglio: rivelano) una struttura
ontologica, non solo gnoseologica, della natura più profonda dell'essere del mondo.
167 Per il linguaggio e la questione si veda Teologia 3(1998): tutto il numero è dedicato a La “fenomenologia di Gesù”; si confrontino,
però, soprattutto gli articoli di A. BERTULETTI, Il significato di una formula inconsueta, 241-247 e di P. SEQUERI, L’interesse
teologico di una fenomenologia di Gesù: giustificazione e prospettive, 289-329.
163
36
Da qui si apre tutta la fatica dell’identificazione di una figura di analogia168 capace di articolare
correttamente il rapporto, la correlazione, tra cristologia e ontologia 169 e, quindi, la corretta
esprimibilità dell’evento della rivelazione. E il problema se parlare di “analogia” (per dirla con la
comune tradizione aristotelica-tomistica), “analogia dialettica”170 (per dirla con K. Barth) o “analogia
katalogica”171 (per dirla con A. Gerken), non è solo questione linguistica. Qui si gioca il dato centrale
(irrinunciabile per la teologia cristiana): la proportio 172 dell’uomo e di Dio è custodita, donata
nell’immanenza dell’amore di Dio in Gesù (la sua finitezza antropologica è determinazione della sua
verità teologica). Il radicamento della tesi dell’analogia, dunque, è cristologica 173 , non
immediatamente teologica, né tanto meno antropologica (anche se questo non significa
assolutamente disconoscenza del discorso filosofico, anzi174). Alla luce di questo rapporto (e solo
alla luce di esso) è possibile discutere le categorie ermeneutiche utilizzate in teologia.
Nei tre tempi dell’unica sinfonia teologica balthasariana, è sempre indicata come via maestra di riflessione e di risposta, la via
dell'analogia dell'essere (analogia entis), che è presupposta dall'analogia della fede (analogia fidei). Per un approfondimento della
dottrina dell’analogia, occorre fare riferimento al primo volume di TeoLogica. Per una sintesi della prospettiva si confronti: A. MODA,
Struttura e fondamento della logica teologica secondo H.U. von Balthasar, Rassegna di teologia 31(1990) 548-566 e 32(1991) 31-60.
169 Che è da preferirsi “linguisticamente” al corrispondente “grazia–natura” (perché meno astratto/formale e più direttamente
cristologico/esistenziale) o “creazione-redenzione” (perché, anche se si riconduce immediatamente alla figura cristologica, si corre il
rischio di accentuare una dimensione ingenuamente “irenica” nella ‘creazione’ o eccessivamente “amartiocentrica” nella ‘redenzione’).
Si noti, comunque, che in Balthasar, come già detto, sarebbe sempre più corretto parlare concretamente di libertà di Dio, libertà di Gesù
Cristo e di libertà dell’uomo.
170 “Theodramatik rappresenta lo sforzo di fondare una theologia crucis in cui l’analogia dialettica possa essere sul piano concettuale
la cifra riassuntiva capace di assicurare tanto la condizione di possibilità del peccato e della redenzione in chiave trinitaria (similitudo),
quanto la reale discontinuità presente nella libertà che pecca e nella libertà del Crocifisso che la redime (dissimilitudo)” [R. CARELLI,
La libertà colpevole. Perdono e peccato nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Milano 1999, 19]. Sull’analogia dialettica, cfr.
Teologica. Volume due. Verità di Dio, Milano 1991, 32-49 e 277-318.
171 Cfr. W. TREITLER, Veri fondamenti di autentica teologia, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar.
Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 229-250 (in particolare 231-244).
172 Balthasar parla spesso di proportionalitas, admirabile commercium, connubium. Filosoficamente si tratta di riproporre la dottrina
tomista della partecipazione, mostrandone la sua intenzione ed il suo fondamento analogici. Balthasar ritorna a S. Tommaso; ma vi
ritorna cercando di rispondere esattamente alla problematico moderna: “Balthasar sa che nessuna filosofia può dischiudere
definitivamente il mistero dell'essere; tutte sono sentieri, vie, itinerari; se la via imboccata dal pensiero moderno è un'erranza, non per
questo è erramento senza sbocchi. Nella sua concezione (ed in ciò è erede delle istanze del pensiero moderno) la via dell'essere non può
che essere via della soggettività; non tuttavia di una soggettività puramente trascendentale od integralmente fenomenologica, ma di una
soggettività che ha con l'essere che si rivela mentre si vela e si vela mentre si rivela un rapporto non dubbio (qui la dottrina dei
trascendentali è al servizio della comunicazione, della soggettività, del coinvolgimento), sebbene un tale rapporto resti fluido ed in
definitiva fondato, ma non illegittimamente, sulla reduplicazione teologica. Donde la struttura analogica del pensiero balthasariano; di
un'analogia non radicata nelle possibilità trascendentali dell'essere (quindi nel dinamismo ontologico-intellettuale dell'uomo) in
maniera strutturale (ma solo, eventualmente, euristica) come accade ad esempio in Rahner o più a monte in Maréchal; ma di un'analogia
dall'alto, in cui una riflessione sulle possibilità di una nostra conoscenza dell'essere suppone, essenzialmente, l'avvenuta
comunicazione-manifestazione dell'essere” [A. MODA, Struttura e fondamento della logica teologica secondo H.U. von Balthasar. II,
Rassegna di teologia 32(1991) 51].
173 Qui si può notare l’eredità di Barth che Balthasar studierà/criticherà (alla luce del maestro Przywara) proprio sulla questione
dell’analogia in una monografia dei primi anni [il confronto con Barth comincia con una serie di articoli - Analogie und Dialektik,
Divus Thomas 22(1944) 17ss.; Analogie und Natur, Divus Thomas 23(1945) 3ss.; Deux notes sur K. Barth, Recherches de science
religieuse 25(1948) 92ss. - poi confluiti nella già citata grande monografia del 1951]. Attualmente, però, si sta sviluppando la tesi di un
maggior influsso di Massimo il Confessore (piuttosto che di Barth e di Przywara) nella determinazione della concezione cristologica
balthasariana dell’analogia entis, come concreta e proportionalis: cfr. G. DE SCHRIJVER, Le merveilleux accord de l’homme et de
Dieu. Étude de l’analogie de l’être chez Hans Urs von Balthasar, Leuven 1983.
174 “Senza filosofia nessuna teologia” afferma Balthasar categoricamente: “Un teologo può seriamente esistere solo se è anche, e prima,
filosofo e si è immerso - anche e precisamente con la luce della rivelazione - nelle misteriose strutture dell’essere creato”; ma quanto
più la filosofia si avvicina all'oggetto concreto della sua indagine, cioè all'essere caratterizzato dalle proprietà trascendentali (“uno”,
“vero”, “buono” e quindi “bello") e dalla "distinzione reale" tra essenza ed essere, allora, “tanto più si troverà a includere,
consapevolmente o meno, dati teologici. Il soprannaturale si radica appunto nelle più intime strutture dell'essere, per impregnarle come
un lievito, per attraversarle come un soffio e un aroma onnipresente. È non solo impossibile, ma sarebbe anche folle, voler bandire ed
escludere con ogni mezzo quest'aroma della verità soprannaturale dalla ricerca filosofica; il Soprannaturale è troppo fortemente
impregnato nella natura perché questa possa essere ancora ricostruita nel suo stato di natura pura”. Anzi: “Poiché la questione circa
l'essere come tale è la questione fondamentale (Grundfrage) della metafisica, essa non è evitabile per il teologo, di qui consegue.per lui
unicamente che egli non può essere ex professo un teologo senza essere insieme un metafisico” [Teologica. Volume uno. Verità del
mondo, Milano 1989, 13.17 e 159]. L’essere, dunque, accomuna e distingue le due scienze, filosofia e teologia. La filosofia percorre
soprattutto la via “ana-logica”: partendo dalle strutture dell’essere finito ascende verso il mistero supremo di Dio che nella rivelazione
cristiana è la Unità-Trinità di Dio. La teologia inglobando il dinamismo della prima via, percorre soprattutto la via “katalogica”: dalla
Trinità scende verso il mondo, dall’Assoluto verso il contingente.
168
37
Così ci pare di aver un poco meglio esplicitato il “sottofondo” inespresso che giustifica (sul versante
teologico) l’impiego della categoria drammatica. E ciò sia detto, però, senza dimenticare che
Balthasar (e qui forse sta l’originalità feconda del suo teologare 175 ) afferma che non si deve
unilateralmente affermare questa categoria rispetto ad altre possibili (seppur essa sia la più
corrispondente e confacente alla struttura dell’azione rivelativa), perché la “verità è sinfonica”176.
Così egli stesso propone - di fatto - non un approccio metodologico, bensì tre: non ci può essere una
metodologia di approccio alla verità cristologia “solamente estetica”, “solamente drammatica” o
“solamente logica”, perché questo porterebbe “all’autodistruzione” della cristologia177.
2. TEOLOGIA E SANTITÀ
il versante antropologico della drammatica
L’abbiamo già detto: esiste una chiara relazione “polare” tra il primato della verità indeducibile di
Gesù (irriducibile a qualsiasi presupposto antropologico) e la sua destinazione all’uomo. E proprio
mettendo a tema la verità antropologica della fede (mostrare come la fede si iscriva nella condizione
fondamentale dell’uomo), si possono esplicitare le condizioni perché di principio si mostri a tutti che
Gesù è la verità propria e originaria - quindi definitiva e necessaria - dell’uomo. Per giungere a
questo, non è sufficiente affermare che nell’autocomunicazione della verità di Dio l’uomo accede alla
sua propria verità (e ciò può essere mostrato nell’esplicitazione del presupposto antropologico della
fede). Una più attenta fenomenologia del comprendere, infatti, impone di considerare l’attuazione,
non come una semplice conseguenza (occorre mostrare l’essenziale dimensione pratica della
Così Moda, nella conclusione della sua indagine sulla metodologia teologica di Balthasar: “L'attenzione non andava posta sulla
dottrina dei trascendentali, chiaramente al servizio di un problema più grande (il recupero della soggettività epistemologica in una
ontologia non fenomenologica), ma sulla struttura di pensiero (essere, partecipazione, analogia) e nel suo punto qualificante (la
reduplicazione teologica). Ciò significa che l'articolazione della teologia balthasariana in estetica, drammatica e logica è sì importante
ed utile (anzi inalienabile secondo Balthasar), ma solo in tanto in quanto queste tre forme, al limite interscambiabili perché necessitano
della reduplicazione, esprimono tutte e ciascuna, il medesimo discorso teologico, metodologicamente unitario” [A. MODA, Struttura e
fondamento della logica teologica secondo H.U. von Balthasar. II, Rassegna di teologia 32(1991) 55-56]. Balthasar stesso lo ha detto
in molti modi, soprattutto nei due interventi autobiografici Rechenschaft (Einsiedeln 1965) e Noch ein Jahrszehnt (Einsiedeln 1978)
integrati in Il filo di Arianna attraverso la mia opera (Milano 1980); parimenti sulle prefazioni ai volumi di G. MARCHESI, La
cristologia di Hans Urs von Balthasar. La figura di Gesù Cristo espressione visibile di Dio (Roma 1977), R. VIGNOLO, Hans Urs von
Balthasar: estetica e singolarità (Milano 1982), E. BABINI, L’antropologia teologica di Hans Urs von Balthasar (Milano 1988).
176 Evidente l’allusione a La verità è sinfonica. Aspetti del pluralismo cristiano, Milano 1974.
177 Balthasar stesso fin dal 1977 enunciava questo, partendo (ancora una volta) dalla struttura complessiva della cristologia, la quale
giustificava/esigeva la diversità di approcci metodologici. Dopo aver ricordato che la prima parte (Estetica) della sua Trilogia, al tempo
già redatta, era incentrata sul trascendentale “bello” e quindi sul “fascino” divino e umano della Figura di Gesù Cristo, così affermava in
vista di una cristologia attraverso la Teodrammatica e la Teologica:
“E poiché Cristo non è soltanto l'apparizione centrale di Dio, ma è anche l'apice dell'agire di Dio con l'uomo (e dell'uomo con Dio),
nella ‘Drammatica’ si richiederà di nuovo una cristologia, nella quale ci si dovrà interrogare in modo tematico sulla Persona di Cristo
che agisce e allo stesso tempo sulla sua azione (soteriologica). Parimenti la ‘Logica’ esige una terza cristologia, la quale ci indichi che
cosa significa che il Logos eterno vuol farsi presente nei limiti della finita logica creaturale. Naturalmente si sa che i trascendentali, a
differenza delle categorie, non sono separabili in modo netto l'uno dall'altro. Nell'apparizione della Gloria di Dio non c'è uno spettacolo
teatrale per l'uomo, ma vi è già sempre l'agire di Dio con lui, come anche l'ordinamento di quest'agire a tradursi in parola comprensibile.
Perciò la prima cristologia contiene già in se stessa, almeno in nuce le altre non ancora sviluppate purché la si legga nella sua apertura
ad esse. Chi chiudesse in sé la prima cristologia, ‘estetica’, ma, in quanto autosufficiente, ‘soltanto estetica’, cadrebbe necessariamente
in aporie, che porterebbero tale cristologia all'autodistruzione. Di fatto, si può forse ancora operare col concetto di Gestalt-Figura
(anche se in una trasposizione analogica per la teologia) là dove nella croce e nel vuoto del Sabato Santo non c'è niente altro da vedere
se non la Ungestalt (Non-Figura)? Si può affermare che la ‘Figura’ di Cristo abbraccia questo chaos magnum, che l'al di qua e l'al di là
possono ‘essere colti in una visione d'insieme’? Qui, nel centro!, sembra che le categorie ‘estetiche’ eliminino se stesse e ne esigano
altre, quelle drammatiche. E solo se queste si saranno mostrate sufficientemente capaci di sostenere il compito, la Teo-logica potrà
affermare che Dio parla anche quando tace nel modo più profondo, quando egli ‘è morto’. Ancora. Il primo volume dell' ‘Estetica’ più
che da tutta l'esegesi moderna si è lasciato impressionare dal fenomeno di Gesù; gli ultimi due volumi hanno tenuto conto, almeno in
certo qual modo, della problematica di quest'esegesi. Ma finora le obiezioni esegetiche non sono state ancora realmente scardinate,
mentre dovrebbero esserlo, se lo sviluppo della cristologia fino a Calcedonia deve essere legittimo. Proprio in Calcedonia e nella sua
formula asciutta si scoprirà il vortice centrale della Teodrammatica. Sia per quanto concerne la cristologia dell'essenza [la cristologia
metafisica]: nella visione introspettiva (ignaziana come giovannea) della Persona e della Missione (divine) deve dischiudersi anche
l'enigma della ‘Personalità’ umana di Gesù. Sia per quanto riguarda la soteriologia: nell'identificazione di Gesù con la volontà ultima
del Padre come con l'intera colpa dei fratelli umani la sua coscienza diventa l'esecuzione concreta del dramma del giudizio e della
riconciliazione. Proprio da questa suprema e drammatica concentrazione e scomposizione emerge infine la Parola radicalmente
compiuta: la Parola assoluta di Dio, la quale è nello stesso tempo il compendio del mondo” [H.U. VON BALTHASAR,
Vorwort-Prefazione a G. MARCHESI, La cristologia di Hans Urs von Balthasar. La figura di Gesù Cristo espressione visibile di Dio,
Roma 1977, VIII-XI. Ora in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar, Brescia 1997, 620-625].
175
38
verità): non solo, per l’uomo, la verità (di Dio) si è data (e si dà) nella storia, ma anche
“intrinsecamente” l’uomo vi può accedere solo attraverso la “mediazione” della sua libertà storica.
E non sembri strana la dicitura del titolo qui impiegato per esprimere questo plesso tematico.
Balthasar stesso, fin dal 1950 poneva, infatti, questa correlazione: “filosofia e teologia della
drammaticità (della actio, dell’evento. Cosa che in fin dei conti ritorna sempre al vecchio problema di
azione e contemplazione)”178. In fondo, nel linguaggio balthasariano, parlare di “santità” in teologia, è
la conseguenza diretta (e inevitabile) dell’evidenza (drammatica) del coinvolgimento della praxis
(libertà e storicità dell’uomo) nell’accesso alla theoria (verità di Dio e dell’uomo), della “faccia
contemplativa” della metodologia drammatica, che implica “un versante attivo”.
Risulta chiaro, quindi, cosa significhi per Balthasar affermare la necessità per la comprensione della
rivelazione della santità riflessa179, in altre parole quella conoscenza amante, o meglio, quell’amore
conoscente che non razionalizza, ma vive, “entra” nel gioco della libertà di Dio180. Questa è una
diretta conseguenza dell’impostazione dell’accesso alla verità da parte dell’uomo: la verità non è e
non può mai essere qualcosa di indifferente, di assolutamente neutrale, “distante” rispetto all’uomo
che vi accede. La verità ha a che fare con la libertà. La riduzione della verità “a un’evidenza
puramente teoretica, dalla quale sono state staccate tutte le decisioni vive, personali ed etiche,
significa una così sensibile contrazione del campo della verità che essa, proprio per questo, resta
spoglia della sua universalità e in tal modo della sua vera essenza” 181 . La verità, non è
essenzialmente una “cosa” da “intelligere”, ma è “ciò” per cui ne va radicalmente di noi stessi (per cui
co-implica essenzialmente e il volere e il conoscere, cioè tutta la nostra libertà nel suo determinarsi
verso la “verità”). Questo è tanto più vero e originario per il cristianesimo: se la “verità” è Gesù Cristo,
l’uomo accede alla verità non “conoscendo” il “che cosa è” (was ist) né il “come è” (wie ist) di Gesù
Cristo, ma, primariamente, decidendosi liberamente pro o contro questo “chi” (wer ist).
Citazione in P. HENRICI, Primo sguardo su Hans Urs von Balthasar, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von
Balthasar. Figura e Opera, Casale Monferrato 1991, 17-85 (qui 70). Per meglio comprendere il nesso, si vedano le pagine 20 e 27-28
del nostro lavoro.
179 Già nel 1948 Balthasar pubblicò un articolo che, denunciando l’indebita separazione tra teologia e santità, lanciava lo slogan
divenuto presto proverbiale di “teologia a tavolino” e “teologia in ginocchio” [in seguito quell’articolo fu ampliato e pubblicato con il
titolo Teologia e santità, in Verbum Caro. Saggi teologici. Volume uno, Brescia 1968, 200-229 (l’espressione citata è a pag. 228)]. Alla
luce di due fatti storici [1) a partire dalla scolastica ci sono pochi teologi riconosciuti come santi. 2) dallo sdoppiamento all’interno della
teologia tra dogmatica (nella quale prevale l’aspetto teorico) e spiritualità (nella quale prende forma sempre più autonoma la mistica, la
devozione). Cfr. Teologia e santità, in Verbum Caro. Saggi teologici. Volume uno, Brescia 1968, 206], Balthasar propone di
riconoscere l’intrinseco nesso tra teologia e santità, partendo dal concetto originario di teologia: teologo, colui che parla di Dio, è
anzitutto ed esclusivamente il Logos, il Verbo di Dio; Gesù Cristo, il Figlio di Dio è l’unico “espositore” (esegeta) del Padre [a sostegno
di quest’affermazione Balthasar può portare non solo la filologia, ma tutta una serie di affermazioni del Nuovo Testamento che fanno di
Gesù l’unico vero “esegeta” del Padre (cfr. Mt 11,27; Gv 1,18 e 10,8), perché il Figlio non ha null’altro da dire se non quanto ha
ricevuto e udito dal Padre (cfr. Gv 7,14)]. Da qui (e solo da qui), si delinea la figura “del teologo” e il ruolo “della teologia”. Se il
teologo, come ogni cristiano, vuole dare testimonianza e spiegazione dell’ “unico e incomparabile testimone di Dio suo Padre (la cui
testimonianza centrale fu resa con l’offerta totale, la sua morte in croce), allora ciò può essere testimoniato soltanto con la prontezza
alla stessa offerta totale di sé”. E questo a tal punto che “Se un testimone di Cristo ha ottenuto il carisma dell’insegnamento… allora il
suo parlare di Dio (Theo-logia) recherà necessariamente e analiticamente in sé la forma della conoscenza esistenziale. (…) E forse la
dimensione del suo impegno esistenziale come testimone sarà più fecondo di certe ristrettezze delle sue formulazioni e difetti che gli
vengono perdonati volentieri a causa dell’interezza della testimonianza”. Di conseguenza, “Laddove una scienza che si definisce come
teologia cessa di restare nella sequela della testimonianza apostolica, e quindi nella missione di Gesù e nella santità che la porta avanti,
ha cessato di avere importanza per la fede ecclesiale”; “Solo una teologia come unità di santità e testimonianza nella vita della Chiesa
merita questo nome” [Teologia e santità, in Communio 96(1987) 7-16 (qui 12-13. Sottolineature nostre)]. Balthasar pone tre regole
essenziali per correlare il rapporto teologia e santità: 1) “Laddove una scienza che si definisce come teologia cessa di restare nella
sequela della testimonianza apostolica, e quindi nella missione di Gesù o nella santità che la porta avanti, ha cessato di avere importanza
per la fede ecclesiale”. 2) La testimonianza di Gesù è affidata allo Spirito che ha il compito “di esplicare questa pienezza a partire dalla
Pentecoste, nella predicazione, nella dottrina e negli scritti degli Apostoli ed Evangelisti”. L’inizio normativo dell’evento cristiano non
può essere superato, ma solo spiegato nella forza dello Spirito. 3) La testimonianza di Gesù nello Spirito è affidata alla Chiesa: per
questo al Chiesa è uno spazio di santità cristologica, che oggettivamente (soprattutto nei sacramenti e nell’infallibilità della sua guida)
supera ogni somma di santità soggettiva dei testimoni della fede [cfr. Teologia e santità, in Communio 96(1987) 7-16 (qui 14-15)].
180 Balthasar è un deciso fautore dell’assoluta-priorità del vissuto credente sul e nel lavoro teologico, fino al punto da trovare difficile
discernere in numerosi passaggi del suo procedere teologico il momento riflessivo da quello mistico, la formulazione concettuale e
quella metaforica, il richiamo alla storia e l’assunzione critica di essa. Questo spiega il richiamo costante di Balthasar alla necessità di
non separare mai, anche dal punto di vista epistemologico, la teologia dalla santità e spiega, più d’ogni altra ragione, il forte legame
spirituale, teologico ed esistenziale con Adrienne von Speyr.
181 Teologica.Volume uno. Verità del mondo, Milano 1987, 32
178
39
La conseguenza è chiara: il fondamento della teologia (e di chiunque altro che vuole proporsi come
espositore della Parola) sarà adeguato nella misura della sua sequela al Dio di Gesù Cristo182.
Per questo, il rapporto di teologia e santità in Balthasar, potrebbe essere così declinato: se l’uomo ha
accesso alla verità della rivelazione storica e libera di Dio in Gesù Cristo solo mediante la presa di
posizione della sua libertà storica nei confronti di questa manifestazione, è “teologia” (“discorso su
Dio” che ha accolto il “discorso di Dio”) solo se è “santa” (esprimendo con “santità” l’esigenza
imprescindibile di entrare nella dinamica della sequela entro cui solo si dà la verità di Dio)183.
Ma come riuscire a mostrare che l’indeducibilità e l’autointellegibilità della rivelazione e l’universalità
della fede si annodano nella singolarità cristologica? A ciò, non basta una generica riflessione
teologica sull’offerta di grazia che la rivelazione è; né è sufficiente una generica riflessione
antropologica sulla domanda di senso che l’uomo è. Qui sta la difficoltà cruciale entro cui si muove la
drammatica, nell’incrocio con-determinantesi tra la libertà di Dio, libertà di Cristo e la libertà
dell’uomo. Occorre chiarire le condizioni ontologiche dell’essenziale storicità della manifestazione
della verità. Insieme alla normatività intrinseca al darsi della verità (la razionalità deve essere
pensata a partire dalla verità e non viceversa) 184 , occorre chiarire l’imprescindibile mediazione
antropologica nell’accesso alla rivelazione (e del suo carattere di necessità) 185 . Per questo, la
questione deve essere chiarita, ancora una volta, sul piano del nesso reciproco tra cristologia e
ontologia, tra teologia e antropologia (anche filosofica186).
Come acquisizione fondamentale della drammatica balthasariana, possiamo dire che l’accesso alla
realtà del trascendentale (evidenza veritativa) non è, originariamente, di tipo trascendentale187 né
Da qui, si comprende come “ogni pur sottile o elevata teologia umana ha il suo vertice nella omologia: adorante celebrazione di
Colui che anche e proprio nella sua manifestazione resta l’Inafferrabile” [La semplicità del cristiano, Milano 1987, 88]. Così, occorre
riconoscere che “Quello della connessione fra teologia e santità non è un discorso sentimentale o pietistico, ma ha il suo fondamento
nella logica delle cose e ha dalla sua parte la testimonianza di tutta la storia” [J. RATZINGER, Teologia e Chiesa, Communio 87(1986)
101]. Che così continua: “Non è pensabile Anastasio senza la nuova esperienza di Cristo fatta da Antonio Abate; Agostino senza la
passione del suo cammino verso la radicalità cristiana; Bonaventura e la teologia francescana del sec. XIII senza la nuova gigantesca
riattualizzazione di Cristo nella figura di san Francesco d’Assisi; Tommaso d’Aquino senza la passione di Domenico per il Vangelo e
l’evangelizzazione; e si potrebbe continuare, così, lungo tutta la storia della teologia”. Anzi: la “santità” richiesta (da Balthasar) alla
teologia e ai teologi “è piuttosto una questione oggettiva che soggettiva, addirittura ‘metodologica’ più che ascetica e morale” [A.
SICARI, Hans Urs von Balthasar: teologia e santità, in K. LEHMANN – W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Balthasar. Figura e
Opera, Casale Monferrato 1991, 251-268 (qui 252)]
183 Balthasar sa bene che l’attenersi al concreto della storia (anche di santità) è necessario e insufficiente nello stesso tempo. Questi
orientamenti sulla posizione derivata della teologia rispetto al vissuto ecclesiale e spirituale, anche se sostanzialmente acquisiti
dall’autocoscienza teologica contemporanea, attendono però ancora di declinarsi secondo modelli adeguati. Sull’inevitabilità e
l’urgenza della messa a punto si veda P.A. SEQUERI, Il Dio affidabile, Brescia 1996, 11-16, dove si mostra che se la teologia è il
sapere critico della fede, proprio dalla fede essa assume i suoi concetti qualificanti, ma tale assunzione non risulta ovvia.
184 Istanza sollevata dal punto 1. di questa terza parte della nostra ricerca.
185 Finché non si mostra che il concetto di rivelazione realizza la stessa necessità del concetto antropologico-razionale, dal punto di
vista critico si rimane sul piano della correlazione, il quale (necessariamente) porta alla ricerca di un medium tra “divino” e “umano”. Si
confrontino al riguardo le acute analisi e conclusioni di Epis, che riconosce i due possibili (e coerenti) emblematici approdi della
definizione di questo medium: sul versante “dell’umano” nella prospettiva rahneriana (che mette a tema l’uomo come presupposto della
rivelazione), sul versante “del divino” nella prospettiva seckleriana (che introduce un concetto antropologico di rivelazione). Si
confronti al proposito: M. EPIS, Ratio fidei. I modelli della giustificazione della fede nella produzione manualistica cattolica della
teologia fondamentale tedesca post-conciliare, Roma-Milano 1995 (per la prospettiva di K. Rahner: 90-107 e 254-256; per la
prospettiva di M. Seckler: 185-199 e 262-264).
186 Per mostrare razionalmente l’universalità dell’autoevidenza della rivelazione si deve mettere a tema lo statuto veritativo della fede,
la sua logica. Il che è come dire che per rendere ragione del credere si deve anche filosofare: infatti, nel mettere a tema il carattere di
destinazione universale della rivendicazione che appella alla fede, la teologia incrocia la riflessione filosofica, cioè quell’esercizio della
razionalità che autonomamente esplicita le condizioni di universalità della verità. La riflessione critica, quindi, non aggiunge nulla alla
fede, è solo a servizio dell’esplicitazione dell’universale sua verità: lo specifico consiste, infatti, nell’esplicitare l’irriducibile
mediazione antropologica che l’iniziativa indeducibile di Dio include senza riassorbire. In definitiva, tutto dipende dal modo nel quale
si pensa la libertà del destinatario come costitutiva dell’evento di rivelazione (della libertà di Dio). Occorre ripensare le condizioni
dell’evidenza resa possibile dalla singolarità di Gesù di Nazareth, in rapporto alla struttura originaria dell’evidenza che è tematizzata
sul piano filosofico.
187 In un’ontologia intellettualistica, che vedeva come criterio normativo dell’istanza veritativa la riconducibilità di ogni contenuto
all’universale formale della teoria, il riferimento alla dinamica del volere rimaneva confinato nelle condizioni periferiche dell’accesso
alla verità. E comunque non poteva che risultare ininfluente sul piano ontologico, perché l’uomo era pensato come ordinato a
riconoscere una verità che egli non concorre a determinare. L’affermazione della verità non poteva che concorrere in modo estrinseco
alla costituzione dell’orizzonte veritativo, perché questo le era per definizione precostituito. Di conseguenza, là dove - come nel caso
della fede - sul piano dell’istanza veritativa era rivendicato come costitutivo il rinvio alla decisione personale, questa non poteva che
182
40
solo “passivo” (come nell’estetica), ma essenzialmente “drammatico” (“pratico”), perché l’originarietà
della verità include l’autodeterminazione della libertà. Questa costituzione/co-istituzione è indicata,
secondo Balthasar, dall’esperienza umana stessa: l’uomo non sperimenta mai la finitezza come
pura finitezza, ma nell’atto della libertà (io non raggiungo la mia singolarità se non quando decido di
essa). Non è possibile prendere coscienza del proprio non essere origine, se non quando si prende
coscienza dell’essere origine di un atto in cui si decide del mio essere. Prima di questo non c’è
coscienza. Perciò il primato dell’essere si declina originariamente come il primato del bello, il quale
istituisce la dinamica decisionale che fonda la mia singolarità.
Per questo la questione del “chi sono io?” indica che il luogo originario della fede è l’esperienza del
singolo, che è sempre mediata in una particolarità storica che non può essere messa da parte188. La
“verità” del sé (e di Dio) non è “intellettualistica” (è la forma della domanda: “chi/che cosa è
l’uomo?”); non solo perché l’uomo non esiste se non nel modo dell’autodeterminazione, ma perché
l’uomo accede alla “verità” (parafrasando san Bonaventura) più che attraverso un itinerarium mentis
in Deum, attraverso un itinerarium libertatis in Deum (che include, cioè tutto l’uomo, non solo la
mente ma anche e soprattutto la volontà). Se questo sta, non solo è giustificato l’insuperabile
carattere di scienza positiva della teologia, (giacché è fondata in un positum indeducibile, nell’evento
cristologico), ma è fondata l’affermazione che l’accesso alla verità non si dà originariamente
nell’argomentazione, ma nella forma del consenso-fede189. La teologia, così, chiarirà sul piano della
razionalità che l’evidenza pratica della fede non è correlativa ad un difetto d’evidenza, ma è la forma
originaria d’accesso alla verità di Dio: la forma originaria dell’esperienza è quella del
decidersi-di-lasciarsi-decidere190.
essere intesa come giustapposta alla razionalità. In quest’itinerario la fede è pensata come un sapere posto al di là dell’evidenza
disponibile, e che, come tale, fa appello a un esercizio della libertà che ha spazio dove termina la ragione. Qui non si tratta di postulare
come correttivo un concetto di libertà, ma di mostrare la sua appartenenza alla dinamica reale del comprendere: l’analisi dello statuto
ermeneutico del comprendere consente di mostrare l’implicazione radicale dell’autoattuazione nell’accesso alla verità.
188 Sarebbe interessante ricercare gli influssi del pensiero di Kierkegaard in Balthasar. Per giustificare l’interesse della questione,
bastino qui questi riferimenti all’impostazione del grande pensatore danese in riferimento al nostro tema. Infatti, egli, come è noto,
parte dalla rivalutazione del singolo e della storicità: “Il ‘Singolo’ (Enkelte) è la categoria attraverso la quale deve passare - dal punto di
vista religioso - il tempo, la storia, l’umanità… il ‘Singolo’: con questa categoria sta o cade la causa del cristianesimo… Come
‘Singolo’ ogni uomo è solo: solo in tutto il mondo, solo al cospetto di Dio” [Diario IV, Brescia 1980, 1616]. Anzi: “L’oggetto della
fede è la realtà di Dio nell’esistenza, cioè come singolo, cioè che Dio è esistito come un singolo uomo” [Postilla conclusiva non
scientifica alle ‘Briciole di filosofia’, in Opere, Firenze 1972, 438]. E si noti: “la figura di servo non era un mero abbigliamento
esteriore. Perciò Dio dovette tutto soffrire, sopportare tutto, sperimentare tutto” [Briciole di filosofia, in Opere, Firenze 1972, 217]. Per
questo, “la difficoltà è di diventare cristiano, perché ogni cristiano è tale coll’essere inchiodato al paradosso di aver fondato la propria
beatitudine eterna nel rapporto a qualcosa di storico. Trasformare con la speculazione il cristianesimo in una storia eterna, Dio nel
tempo in un eterno divenire di Dio, ecc., non sono che scappatoie e giochi di parole” [Postilla conclusiva non scientifica alle ‘Briciole
di filosofia’, in Opere, Firenze 1972, 582]. Da qui: “La fede non è una commozione estetica… non è l’impulso immediato del cuore, ma
il paradosso dell’esistenza”, perché “ogni movimento dell’infinità avviene con passione e nessuna riflessione può produrre un
movimento. Questo è il salto continuo nell’esistenza che spiega il movimento…” [Timore e tremore, in Opere, Firenze 1972, 61.58].
Anzi: “dal punto di vista cristiano, la verità non consiste nel conoscere la verità, ma nell’essere la verità” [Esercizio del cristianesimo,
in Opere, Firenze 1972, 793]; “il cristianesimo è l’unico fenomeno storico il quale, non malgrado la sua reale storicità, anzi
precisamente grazie alla sua realtà storica, ha voluto essere per l’individuo il punto di partenza della sua certezza eterna” [Briciole di
filosofia, in Opere, Firenze 1972, 257]. “Il paradosso del cristianesimo consiste in questo, ch’esso sempre usa il tempo e la realtà storica
in rapporto all’eterno…”. Di conseguenza “per la riflessione oggettiva la verità diventa qualcosa di oggettivo, un oggetto, e si tratta di
vederlo separato dal soggetto; per la riflessione soggettiva invece la verità diventa appropriazione, interiorità, soggettività e si tratta
appunto di approfondirsi esistendo nella soggettività”. “Solo la verità che edifica è la verità per te. Cioè: la verità è interiorità, interiorità
dell’esistenza… nella determinazione etica” [Postilla conclusiva non scientifica alle ‘Briciole di filosofia’, in Opere, Firenze 1972,
309.362.397].
189 Il pratico, ricordiamolo ancora, non riguarderebbe allora l’attuazione di una verità precostituita sul piano riflessivo, ma si riferirebbe
alla forma dell’esperienza che assicura l’accesso al fondamento.Sul piano della riflessione, questo significa che il primato del
fondamento deve essere pensato come primato fenomenologico della sua manifestazione, quale fondamento appunto della libera
attuazione del soggetto.
190 Per questo, la verità non si dà all’uomo nella forma di un sicuro possesso, di un’apoditticità inconfutabile: la sua acquisizione
soggiace ad una costitutiva precarietà. Infatti, l’affermazione dell'autofondazione della verità di Dio (può essere conosciuto solo se si fa
conoscere) coincide con la riserva escatologica circa la sua accessibilità. E la riflessione filosofica è in grado di mostrare che la forma
dell’evidenza originaria comporta come momento costitutivo della sua essenza veritativa il profilo del consenso: nell’accesso alla
verità è costitutivo il momento pratico. Perciò è sempre possibile il dubbio. La possibilità permanente del dubbio non è da ascrivere ad
un’insufficiente evidenza di partenza, ma allo stesso statuto dell’evidenza originaria che co-implica la decisione del soggetto.
41
CONCLUSIONE
Le due acquisizioni che fondano la metodologia drammatica (versante teologico-cristologico e
versante antropologico) sono fatte valere in Teodramatik in tutto il loro spessore e in tutta la loro
portata teoretica: la rivelazione stessa è una drammatica che co-implica Dio, Cristo e l’uomo nello
stesso “gioco” della correlazione delle reciproche libertà che si manifestano non in un “evento”
(puntualmente inteso; questo era gia un dato conquistato dalla riflessione sull’estetica), ma nella
storicità del divenire. La “drammatica”, ponendo al centro l’evento salvifico nella sua forma
cristologica, è preoccupata dell’intreccio storico delle libertà in gioco: quella di Dio (libertà infinita),
quella di Gesù Cristo (libertà infinita-finita), quella degli uomini (libertà finita). Il tentativo
balthasariano, quindi, è quello di articolare la reciprocità della libertà infinita (teologia) e finita
(antropologia) alla luce di Gesù Cristo (cristologia)191.
La reale azione di Dio, di Gesù Cristo e dell’uomo evita l’assorbimento delle libertà in gioco,
mantenendole nella loro asimmetria e irriducibilità. Questo deve fare una teologia cristiana192.
È riuscito Balthasar nel suo intento? Ha davvero considerato la reciprocità della libertà di Dio, di
Cristo e dell’uomo, rispettandone l’asimmetria e irriducibilità? Per rispondere a queste domande
occorrerebbe percorrere la proposta teologica dei successivi volumi di Theodramatik. Ma questo
esula evidentemente dall’intento di questo lavoro, che è stato interessato più all’aspetto
“metodologico” che “contenutistico”.
Vogliamo, perciò, riassumere i nodi imprescindibili dell’impostazione teoretica drammatica, nodi che
ci paiono essere acquisizioni “fondamentali” (perché di fondo, strutturali) per un discorso teologico
cristiano:
o
il punto di partenza non può che essere un’assunzione rigorosa del principio di rivelazione.
Non solo la rivelazione di Dio ha dimensione fattuale (consapevolezza dell’orizzonte di libertà e
storicità nei quali la rivelazione risulta iscritta), ma è nel suo darsi (il dar-si di Dio nella storia e nel
tempo della libertà di Gesù Cristo che non è separabile dalla sua missione: la sua azione è
rivelativa della sua identità). Non è lecito in prima battuta parlare “di Dio”, né “dell’uomo”
genericamente o generalmente intesi. È la storia della libertà di Gesù Cristo (concentrazione
cristologica) che ha il suo culmine rivelativo nei “tre giorni” (concentrazione staurologica) il punto
discriminante e intrascendibile della teologia: qui sono in gioco, nel tempo della storia, la libertà
infinita di Dio (momento teologico), la libertà infinita-finita di Gesù Cristo (momento cristologico),
la libertà finita degli uomini (momento antropologico).
Non risultano adeguati, quindi, quei modelli teologici che vedono la vicenda della libertà di Gesù
come deducibile dalla stessa verità di Dio (la sua storia, in fondo, è “solo” l’attuazione storica di
un rapporto immanente, quasi che “l’infinito” possa essere definibile, ipostatizzabile
ontologicamente a prescindere dall’esistenza concreta di Gesù), con cui Egli, pure, si rivela
identico. La storia di Gesù ha la pretesa di mostrare il reale incontro di queste libertà, nella loro
asimmetria e irriducibilità; quindi, non è lecito l’assorbimento di nessuna delle libertà in gioco
(questo significa che non è possibile né la rivelazione “oggettivata” - il momento teologico e/o
cristologico assorbe l’antropologico), né la fede “soggettivata” (il momento antropologico non
risulta fondato nel teologico/cristologico), ma solo la reciprocità fra la verità di Dio in Cristo e
l’uomo al quale essa è destinata.
191
La relazione analogica tra libertà finita e libertà infinita viene svolto da Balthasar in TeoDrammatica. Volume due. Le persone del
dramma. L’uomo in Dio, Milano 1982, 183-316
192 Balthasar è preoccupato di “salvare” la verità della reciprocità delle libertà in gioco (Dio non può essere considerato come un
“platonico ‘sole del bene' sopra una ‘gigantomachia’… del mondo”, né l’uomo può rimanere “solo passivo, insonnolito sul tavolo
operatorio, mentre l’ascesso canceroso della colpa viene reciso via da lui” [TeoDrammatica. Volume quattro. L’azione, Milano 1986,
296) nella loro asimmetria (così che non accada che il coinvolgimento trinitario di Dio nella croce di Gesù produca un irretirsi di Dio
nella storia del mondo e, reciprocamente, l’implicazione dell’uomo e del peccato/male nella salvezza comporti l’eternizzazione della
sofferenza in Dio). Per questo, le coordinate del teodramma saranno una teologia della Trinità che si può svolgere solo a partire dalla
teologia della croce e reciprocamente una teologia trinitaria come intimo presupposto della staurologia.
42
o
La riformulazione del sapere teologico deve essere “conseguente”, perché “l’ontologia deve
lasciarsi orientare dalla fede e non ammaestrarla”193. Un nodo teoretico decisivo starà nella
determinazione del rapporto tra momento teologico e cristologico (quale ontologia deriva dalla
cristologia?). Alla luce della rivelazione cristologica si deve affermare che fattualità (singolarità) e
libertà rappresentano le cifre fondamentali dell’ontologia. Ma ciò indica solo un versante della
questione: il principio del sapere teologico è la verità cristologica di Dio, alla quale l’antropologico
appartiene da sempre.
Non è sufficiente, quindi, affermare l’illegittimità dell’astrazione dalla reale azione di Gesù Cristo
(“predeterminando”, cioè, chi sia “Dio” o “uomo”, cosa “gli sia lecito o no” “prima”, “sopra” e “fuori”
la storia di Gesù). Assumere radicalmente l’oggetto rivelato nella sua singolare storicità, significa
(di più) rimettere in gioco in modo originale i rapporti fra il piano teologico, cristologico e
antropologico, mostrandone l’intrinseco nesso: non si può giustificare la storicità singolare
(cristologica) della rivelazione (teologica) senza comprendere la ragione della sua destinazione
(antropologica) che si realizza nella fede. Questa cor-relazione potrebbe essere formulata così:
se è vero che esiste un primato ontologico - e quindi logico e cronologico - di Dio sull’uomo (il
punto di partenza e il centro è Gesù Cristo, Figlio di Dio mandato all’uomo in forma umana), è
altrettanto vero che è impossibile una comprensione della rivelazione senza l’uomo (non solo
l’uomo entra nella relazione della rivelazione con-determinandola, ma l’uomo stesso Gesù di
Nazareth non è estrinseco al fatto rivelativo). La storia di Gesù Cristo mostra che la verità (di Dio
in Cristo) si dà nella storicità e nella libertà e che la storicità e la libertà umane sono implicate
nell’accesso alla verità (di Dio in Cristo).
o
Un sapere teologico così determinato, necessita una ragione conseguente la fenomenologia
della storia di Gesù e la fenomenologia del comprendere umano.
Sul primo versante: se l’assolutezza del fondamento essenzialmente storico della fede è il punto
di partenza indeducibile, il nodo teoretico da sciogliere riguarda “quale tipo” di ragione sia in
grado di istituire criticamente il nesso tra l’universalità della pretesa di fede e la singolarità del
suo fondamento. Occorre, cioè, una teoria che giustifichi il perché la verità di Dio si sia data
storicamente in Gesù Cristo (non è più pensabile articolare la verità come esterna alla storicità).
La testimonianza biblica indica l’iniziativa di Dio (rivelazione) come storica, poiché inclusiva della
libertà umana e della sua contingenza: si andrebbe nella linea del considerare la “verità” come
dischiudentesi nella libertà/storicità dell’esistenza di Gesù (e dell’uomo). La reciprocità fra la
manifestazione della verità (momento teologico/ontologico) e l’attuazione della libertà (momento
antropologico/etico), si realizza nell’uomo-Dio Gesù di Nazareth nella modalità originale e
singolare (perché in lui vi è identificazione dei due momenti - teologico e antropologico - senza
reciproco assorbimento), ma egli manifesta anche la struttura universale della fede come forma
veritativa dell’esistenza dell’uomo (nell’evento cristologico verrebbe fondata anche la storicità
della fede, per la reciprocità dell’appartenenza della libertà umana alla verità di Dio).
Sul secondo versante: una più attenta fenomenologia del comprendere, impone di considerare
l’attuazione, non come una semplice conseguenza: l’uomo accede alla verità solo attraverso la
“mediazione” della sua libertà storica. La “verità” di me non è definibile (cioè separabile) dalla mia
storia di libertà (non esiste un’essenza estrinseca di me cui io dovrei accedere per essere me
stesso): la “verità” dell’uomo non può dirsi senza prendere in considerazione le attuazioni
storiche della sua particolare esistenza (qui si radica la necessità del momento fenomenologico,
sia in rapporto alla rivelazione, sia in rapporto all’esistenza dell’uomo), anche se non si può
ridurre ad esse (la persona di Gesù e dell’uomo non è semplicemente “la somma” delle
attuazioni storiche delle rispettive libertà). L’esperienza umana si attua in nome della “verità” da
assumere come non disponibile all’uomo (è evitata una concezione relativistica, perché nella
decisione di sé non solo si “apre” il fondamento, ma ne va del fondamento) e come accoglibile e
riconoscibile nella decisione della libertà umana (è evitato il concetto astratto di verità come
“esterno” all’uomo, quasi fosse oggettivabile, posto-di-fronte-a): nella decisione particolare
l’uomo, decidendo di sé, decide e si decide nei confronti della verità. La verità, non è
193
K. RAHNER, Teologia dell’incarnazione, in Saggi di cristologia e mariologia, Roma 1967, 93-121 (qui 109).
43
essenzialmente una “cosa” (indifferente, “neutrale”) da “intelligere”, ma è “ciò” per cui ci si
decide, perché ne va radicalmente di noi stessi (è intrinsecamente co-implicato e il volere e il
conoscere, cioè tutta la libertà umana nel suo determinarsi verso la “verità”).
E i due versanti sono due aspetti dell’unico movimento: la decisione (intesa non tanto
“puntualisticamente” ma come la libera attuazione storica) è la forma dell’esperienza per la quale
il teologico e l’antropologico non sono due elementi giustapposti, ma due aspetti inseparabili
dello stesso evento. É l’attuazione stessa della coscienza dell’uomo che presenta lo statuto
peculiare di una verità che precede l’attuazione della libertà (poiché la rende possibile), ma che
non è effettiva se non nell’attuazione (intesa come autoattuazione, decisione in cui l’uomo
decide di sé). Questo - si badi bene - non vuol dire, allora, che la “verità” (il fondamento, l’origine,
Dio) non sia se non nel momento in cui la libertà dell’uomo decida di sé; ma che umanamente,
questa è l’unica struttura dell’esistenza umana, “ricavabile” e confermata dalla struttura
dell’evento rivelativo cristologico: Dio (la “verità”) non è un momento “esterno” alla libertà di
Gesù, ma “si manifesta” nell’attuazione storica di questa libertà. Infatti, poiché la rivelazione di
Dio è intrinsecamente mediata dalla libertà (e di Cristo e dell’uomo), Dio “non può” che rivelarsi
storicamente, realizzando la libertà che egli stesso ha posto come condizione del suo
riconoscimento; e reciprocamente, la risposta dell’uomo non potrebbe determinare
l’autorivelazione di Dio, se l’evento che la realizza non fosse già operante nella costituzione
dell’uomo come libera trascendenza (è questo il significato della predestinazione in Cristo).
L’antropologico non si aggiunge, quindi, al cristologico, ma è un momento costitutivo della sua
verità precisamente in quanto non “deducibile” dal teologico.
o
Da qui, è possibile discutere il modello teoretico della drammatica. La scelta di uno
svolgimento drammatico del ragionamento teologico, vuole primariamente salvaguardare
l’insuperabile profilo fattuale della realtà e della libertà di Dio, di Gesù Cristo e dell’uomo
implicate nell’evento della rivelazione (le libertà in gioco sono date, poste prima che com-prese).
E la necessità della fenomenologia della libertà di Gesù per la cristologia, ci pare un’acquisizione
imprescindibile (per evitare i modelli teorici in cui, di fatto, la storia di Gesù è relativizzata a mera
“copia” economica di un momento immanente presupposto).
L’azione salvifica di Dio in Gesù è, innanzi tutto (anche se non esclusivamente), da trattarsi sotto
il profilo drammatico perché il gioco della libertà di Dio, di Gesù Cristo e dell’uomo sono realtà,
più che idea (la verità, l’originario è un a priori pratico più che razionale). Il “drammatico” vuole
opporsi (come modello) al “concettuale”: il “drammatico” determina un “genere letterario”
dell’opera teologica stessa come forma “aperta”, “inquisitiva”, “dialogica”, “responsoriale”; il
“concettuale” porta ad una sistematicità che tendenzialmente sottodetermina la dinamicità, la
storicità, la temporalità, la libertà.
Questo non vuol dire - ingenuamente - misconoscere il momento “logico”. Anzi! La teologia
drammatica non è la teologia: è solo l’approccio primo e necessario conseguente al dar-si di Dio
nell’azione, che può/deve sfociare in una appropriata forma speculativa che lasci aperta però
tutta “la dimensione drammatica” senza risolverla in un sistema che paralizzi la dinamicità
dell’evento economico o lo renda semplicemente “secondo” (attuativo) rispetto ad un momento
“immanente”.
Questo, ci pare voler dire, concretamente (se non osiamo troppo), che una teologia drammatica
voglia porre l’attenzione, in maniera particolare, sui modelli teorici impiegati dalla teologia per
esprimere
il
rapporto
“Dio”-“uomo”
(“finito”-“infinito”;
“economico”-“immanente”;
“storia”-“eternità”; “libertà”-“verità”…), cioè l’articolazione del momento teologico e del momento
antropologico (o, corrispondentemente, del momento ontologico e momento etico): questi
modelli teorici non possono prescindere dall’attuazione storica (la libertà) cristologica, che è il
punto di partenza e di arrivo della relazione “Dio”-“uomo” (teologico e antropologico).
La distinzione dei due momenti è necessaria quanto l’unità: se si rimane sul piano
dell’antropologico, l’antropologico risulta non fondato e non dischiudibile intrinsecamente al
piano teologico; inversamente, se si risolve l’antropologico nel teologico, si sottrae la base che
garantisce il carattere insieme fenomenologico e fondativo del processo (per cui il momento
teologico non risulta davvero fondante intrinsecamente l’antropologico, perché a lui “esterno”, e
44
non si comprende come l’antropologico possa accedere al teologico e corrispondentemente,
come il teologico manifestarsi all’antropologico).
La fenomenologia della libertà di Gesù impedisce non solo quei modelli teorici che vedono una
giustapposizione, un’alterità radicale dei piani (quasi che l’uomo possa accedere ad una forma
“pura” di “infinito” senza “finito”, di “immanente” senza “economico”, ecc.) o che indicano uno dei
due piani (di solito quello “di Dio”) come la semplice negazione dell’altro (l’ “infinito” non solo è il
“non finito”, ma è ciò che nega il “finito”, per cui quando c’è “l’infinito” non c’è più il “finito” e,
quindi, “l’infinito” si può dare solo a scapito del “finito”). Anzi: la storia di Gesù (il cristologico
“concreto”) spinge a ricercare modelli teorici in grado di mostrare l’intrinseca correlazione del
momento teologico e antropologico, entrambi “fondati” nell’unica necessità che li correla, senza
che questo comporti una “con-fusione e mutamento” (non si può affermare che quando c’è il
teologico non c’è l’antropologico, o se c’è il teologico questo comporti un assorbimento
dell’antropologico o un “cambiamento” della struttura del teologico e/o dell’antropologico) o una
“divisione e separazione” (non si può affermare che il teologico sia “diviso” e “separato”
radicalmente dall’antropologico e/o viceversa, pena la giustapposizione estrinseca, la
“tangenzialità” del teologico rispetto all’antropologico e/o viceversa)194.
194
Evidente il richiamo al Simbolo di fede del Concilio di Calcedonia (22 ottobre 451) [cfr. H. DENZINGER, Enchiridion Symbolorum
(a cura di P. Hünermann), Bologna 1995, 302] che afferma l’unità del Cristo riconosciuta “in due nature” (, glossando
subito questa “formula chiave” con quattro avverbi che ne esplicitano il senso: contro Eutiche si dice “senza confusione” ()
e “senza mutamento” (), perché non vi è alterazione della natura divina e della natura umana, né trasformazione del Verbo
nella carne, né alcuna “mescolanza” o “fusione” tra le due nature; contro Nestorio, si dice “senza divisione” ( e “senza
separazione” (), perché la differenza mantenuta tra le due nature non comporta divisione concreta di due sussistenti separati
e congiunti. Non indifferente - per la nostra riflessione - che “il movimento della definizione (uno-due-uno-due-uno) mostra che il
pensiero parte dall’unità concreta per ritornarvi. È nel quadro di quest’ottica che viene analizzata e affermata la distinzione” [B.
SESBOÜÉ, Cristologia e soteriologia. Efeso e Calcedonia (secoli IV e V), in B. SESBOÜÉ (direzione di), Storia dei dogmi I (B.
SESBOÜÉ – J. WOLINSKI, Il Dio della salvezza. I-VIII secolo. Dio, la Trinità, il Cristo, l’economia della salvezza), Casale
Monferrato 1996, 309-376 (qui 372)].
Come già detto (nota 32, pagg. 38-39), non è un caso questa conclusione della metodologia drammatica con il riferimento al dogma
cristologico calcedonese, dato che, per Balthasar, “Proprio in Calcedonia e nella sua formula asciutta si scoprirà il vortice centrale della
Teodrammatica. Sia per quanto concerne la cristologia dell'essenza [la cristologia metafisica]: nella visione introspettiva (ignaziana
come giovannea) della Persona e della Missione (divine) deve dischiudersi anche l'enigma della ‘Personalità’ umana di Gesù. Sia per
quanto riguarda la soteriologia: nell'identificazione di Gesù con la volontà ultima del Padre come con l'intera colpa dei fratelli umani la
sua coscienza diventa l'esecuzione concreta del dramma del giudizio e della riconciliazione. Proprio da questa suprema e drammatica
concentrazione e scomposizione emerge infine la Parola radicalmente compiuta: la Parola assoluta di Dio, la quale è nello stesso tempo
il compendio del mondo” [H.U. VON BALTHASAR, Vorwort-Prefazione a G. MARCHESI, La cristologia di Hans Urs von
Balthasar. La figura di Gesù Cristo espressione visibile di Dio, Roma 1977, VIII-XI. Ora in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria
di Hans Urs von Balthasar, Brescia 1997, 620-625 (qui 624-625)].
45