Il problema della competizione e del conflitto, dell'io e dell'altro nella Cultura Occidentale: delucida il o i lati e periodi storici di tale problema LA “DEA MADRE”: UNA NUOVA PROSPETTIVA SOCIALE Il dibattito etico attorno alle problematiche della competizione e del conflitto ha assunto, nel corso della storia, un ruolo chiave nella ricerca di una morale o di un'etica (dove la distinzione tra le due sta nel fatto che la prima è un insieme di principi che dovrebbero indirizzare e guidare il comportamento dell'uomo verso un ipotetico “bene”, mentre la seconda è la pratica in sé, ovvero la realizzazione concreta di tali norme attraverso la loro messa in atto) capace di tracciare delle linee guida sia per i comportamenti del singolo individuo ma, più importante, per la costruzione di una politica funzionale a tale etica, basata su essa e giustificabile tramite essa. Già nell'antica Grecia si può individuare l'ambizioso progetto di un'educazione all'etica e alla morale, attraverso la nota sentenza iscritta al tempio di Apollo a Delfi “gnôthi sautón”, ovvero “conosci te stesso”. Non solo, secondo quanto riportato nell' “Apologia di Socrate” e nel “Fedone” di Platone, lo stesso Socrate si faceva portavoce ed esempio vivente di un comportamento morale, basato sull'utilizzo della ragione, quella facoltà tutta umana che permette di non cadere vittima degli istinti più primitivi e animali, spesso destinati a sfociare nella paura non giustificata dell'ignoto (si veda il momento finale del Fedone, dove Socrate accetta di bere la cicuta perché non spaventato dalla morte). Più avanti Aristotele riprenderà l'utilizzo della ragione come strumento morale, infatti considererà il raziocinio come una virtù dianoetica, mentre la sua applicazione come una virtù etica perché capace di dominare gli impulsi istintuali. Considerando ciò, rimane comunque il problema del conflitto: perché il solo rifarsi alla ragione non rende esplicito in che misura una cosa sarebbe razionalmente più etica di un'altra: la logica della sopravvivenza sarebbe più morale di una logica amorevole? E in che modo? Insomma, nel corso della storia le varie filosofie Occidentali che si sono occupate di etica e morale hanno sempre fatto appello a qualche principio primo che giustificasse l'uno o l'altro comportamento: la ragione per Socrate o Aristotele, la fede per i grandi filosofi cristiani come Sant'Agostino e San Tommaso, le categorie a priori dell'intelletto in Kant, la realizzazione dello spirito soggettivo in Hegel, Macchiavelli attraverso tesi storiche e via discorrendo. Con tutto ciò tuttavia il dibattito non si è mai esaurito. Ad oggi, la predominanza della validità delle tesi scientifiche, nei vari dibattiti, fa si che la questione etica si rifaccia ad un'indagine sulla natura dell'uomo in modo tale che, di conseguenza, diventi etico ciò che è conforme al naturale. Quest'atteggiamento era già stato affrontato storicamente e trovò la sua massima espressione nel confronto giusnaturalista tra i due filosofi britannici John Locke e Thomas Hobbes: attraverso lo studio dell'ipotetico “stato di natura” dell'uomo si potrebbe riuscire non solo a costruire un'etica razionalmente lecita, ma anche a determinare univocamente ciò che dovrebbe essere un diritto per l'uomo e ciò che invece risulterebbe essere un artificio o una convenzione sociale. Dunque la domanda può esser così esplicitata: la competizione e il conflitto sono comportamenti leciti? Se venisse dimostrata una loro giustificazione naturale la questione volgerebbe in loro favore, in caso contrario sarebbero da condannare. L'atteggiamento in tale senso più condiviso potrebbe ridursi ad alcune considerazioni evoluzionistiche, ad esempio la cosiddetta “legge del più forte” o ancora la “legge dell'adattamento”, le quali storicamente sono state oggetto di abuso per giustificare comportamenti repressivi, violenti e fintamente progressisti. Difatti postulando queste “leggi” in un contesto estraneo a quello biologico, ovvero quello storico-sociale, ma anche politico ed economico, parrebbe lecita una corsa alla supremazia, all'affermazione violenta e all'accettazione di un potere superiore (il Leviatano di Hobbes in tale senso potrebbe essere un esempio chiarificatore). Nondimeno l'atteggiamento degli storici non fa che riflettere quest'idea di storia di affermazioni, di conflitti e di successioni di poteri. Indice di ciò potrebbe essere il fatto che la storia che fin dalle primarie ci viene insegnata è composta proprio da guerre, da processi dinamici che studiano ascese e cadute di imperi, governi, politiche, rivoluzioni e nomi illustri. La stessa rivoluzione francese, tanto esaltata nell'epoca dell'Europa democratica e pacifica, è avvenuta attraverso lo spargimento di sangue; il motore che diede il via alla conquista della libertà individuale tanto aspirata da filosofi illuministi come Beccaria, Voltaire, Diderot, D'Alambert, Rousseau ecc, ha dovuto attraversare la morte, la violenza, la rivolta e la protesta contro una forma di potere a lei antecedente. I risultati non sono tardati a mancare: dopotutto siamo figli di due conflitti mondiali, di una guerra fredda, del bombardamento di città intere, della repressione di movimenti giovanili (anch'essi spesso violenti). Di più, ancor oggi l'intero continente europeo si trova incapace ad affrontare una problematica umana come quella dell'immigrazione di massa, questione spesso ricondotta al campo economico e strumentalizzata dalla politica. Il confronto con l'altro e con il diverso ci spaventa talmente tanto da non riuscire ad ascoltare un grido d'aiuto; la chiusura nel nostro io sociale ci riporta ancora una volta alla domanda “esiste questo “bene” al quale la morale aspira?”. La risposta sembrerebbe essere univoca e ben definita: no. Solamente ora un atteggiamento nuovamente giusnaturalista e storicista potrebbe accorrerci in aiuto. I lavori condotti negli anni '70 e '80 dello scorso secolo dall'archeologa Marija Gimbutas rivoluzionarono il mondo accademico tanto da dividerlo in due. Nei tre volumi Bronze Age cultures in Central and Eastern Europe (1965), The Gods and Goddesses of Old Europe (1974) e The Language of the Goddess (1989) espose e divulgò la propria interpretazione dei ritrovamenti avvenuti dopo anni di scavi e studi archeologici. Dopo la pubblicazione di questi testi gli storici, i sociologi e i filosofi di tutto il mondo dovettero fare i conti con una nuova proposta evoluzionistica e una rivoluzionaria lettura della storia dei nostri “antenati” indoeuropei. Gli studi sulle popolazione preistoriche che abitarono l'Europa centrale tra il 7000 a.C. e il 3000 a.C. portarono alla luce indizi riguardanti un'ipotetica civiltà sino ad allora non considerata: tale civiltà pare avesse sviluppato sia la metallurgia, sia delle abilità artistiche, oltre che un senso religioso e comunitario di gran lunga superiore alle popolazioni di origine indoeuropea. Questa società avrebbe trovato il suo epilogo nell'incontro con i “kurgans” (così denominati dalla Gimbutas), una popolazione addestrata al combattimento e alla guerra, organizzata con un modello patriarcale ed autoritario. La popolazione kurga si sarebbe poi evoluta nel corso della storia fino a dare avvio ai popoli di matrice indoeuropea, nostri “antenati di sangue”. Il motivo di tanto scalpore in seguito a tali ritrovamenti sta nel fatto che tutti gli indizi suggeriscono che questa società vivesse in maniera estremamente pacifica e non fosse basata sul nostro modello sociale patriarcale. La sociologa Riane Eisler nel libro The Chalice and the Blade (1987) proporrà poi un'intera analisi della storia contrapponendo questi due modelli di organizzazione: quello rappresentato dalla spada, androcratico, patriarcale e autoritario; e quello che parrebbe essere il metodo sviluppato dalla popolazione scoperta dalla Gimbutas: matriarcale e mutuale. I due termini potrebbero sembrare in contraddizione per il fatto che “matriarcale” potrebbe indicare una forma di controllo anch'essa autoritaria, quando invece la Eisler sottolinea come il modello matriarcale dovrebbe essere mutuale per definizione, basato sui valori e sui comportamenti tipici di una madre: il rispetto, la condivisione, l'accettazione delle diversità. Così la sociologa statunitense coniò il termine gilania ,dalle parole greche gynè, "donna" e anèr, "uomo", per riferirsi all'organizzazione gerarchica adottata dalla “popolazione della dea madre”. Si parla di “dea madre” in quanto tutti i dipinti rupestri scovati ritrarrebbero, anziché scene di guerra o di caccia, varie rappresentazioni di un'unica donna incinta. Da subito si coglie la rilevanza nel nostro dibattito di una tale scoperta: il modello competitivo e violento che è stato il solo paradigma sociale nella storia occidentale inizia ad aprire la possibilità ad una prospettiva totalmente differente. Innanzitutto viene messo in crisi il rapporto consequenziale evoluzione-progresso, difatti il nuovo paradigma proposto dalla Eisler fa si che si debba accettare un'alternanza cronologica tra periodi di progresso e periodi di regresso, pur quando biologicamente l'evoluzione non cessa. Questa concezione presenta una sottile critica al modello dominatore, ovvero il nostro, necessariamente considerato come di organizzazione inferiore a quello mutuale. Inferiore da un punto di vista non biologico bensì etico. In tutto ciò bisogna considerare che per progresso ora non si intende solamente quello tecnologico, ma anche quello morale e sociale. Quello che la Eisler ci sta dicendo è che anche se da un punto di vista scientifico, biologico e filosofico la società contemporanea (o quantomeno la sua storia) potrebbe essere più evoluta della popolazione della dea madre, da un punto di vista etico-sociale andrebbe considerata meno progredita. Rimane implicito che il raggiungimento di una pace duratura, ovvero l'abbandono stesso del concetto di guerra e di conflitto, coinciderebbe con la corretta idea di progresso. Si potrebbe dunque affermare che la storia indoeuropea sarebbe un periodo di regresso rispetto a quello analizzato dalla Eisler. Inoltre tali momenti storici sembrerebbero essere collegati tra loro da rapporti caotici, tanto da indurre la sociologa a studiare questi comportamenti rifacendosi a studiosi del calibro di Ilya Prigogine (premio Nobel per la chimica nel 1977) sull'auto-organizzazione degli organismi viventi. Da un punto di vista maggiormente filosofico, le implicazioni della scoperta della società gilanica probabilmente acquisiscono una rilevanza ancora maggiore. Il rapporto con l'altro, con il diverso e anche con l'oggetto (contrapposto all'io soggetto) perde ora la necessità della conflittualità e dello scontro e questo non solo in base a principi filosofici, bensì grazie ad una nuova prospettiva storica, accettata oggi dalla maggior parte degli studiosi come una realtà di fatto. Lo stesso Claudio Naranjo, noto psicoterapeuta e candidato al premio Nobel per la pace nel 2015, ne L'ego patriarcale assume toni più critici verso quella che definisce “società malata”, analizzando i disvalori della società contemporanea da un punto di visto psichiatrico ed educativo. La tesi di Naranjo esprime la necessità di un cambiamento del sistema educativo, prima di tutto quello familiare, considerato la causa di un degenerazione generalizzata della moralità e dei valori moderni. Il richiamo ai lavori della Gimbutas e della Eisler è evidente ed esplicito, tanto da direzionare il discorso verso l'analisi dei rapporti neuropsichiatrici che si instaurano tra madre e figlio, tra padre e figlio e all'interno del nucleo familiare stesso. La proposta di Naranjo in questa direzione coincide con l'instaurazione di un modello familiare matristico (differenziato da matriarcale, poiché il secondo potrebbe esser oggetto di fraintendimento fino a esser letto come un modello dominante basato sulla figura femminile), appoggiato su una linea filosofica gilanica e un modello organizzativo trasformativo e mutuale, non competitivo. Così la filosofia si trova nella posizione di dover prendere atto di una vicenda storica e il dibattito etico deve rendersi consapevole di alcune considerazioni fattuali. Nel vivere la storia bisognerebbe dunque kierkegardianamente tenersi aperti a nuove possibilità, considerare cioè che un modello di dominio autoritario potrebbe non essere l'unico possibile non solo filosoficamente, ma anche storicamente. Il conflitto e la competizione assumono ora dei ruoli non più necessari bensì contingenti nella storia Occidentale e trovano dei modelli sostitutivi, con l'obiettivo di riuscire dove una propaganda errata di alcune considerazione evoluzionistiche (legge del più forte o del più intelligente) ha fallito e sta fallendo. Di più, se l'obiettivo è la pace, bisogna anche accettare che un paradigma mutuale non è solo un'alternativa a quello autoritario, ne è il superamento. Accettando ciò la competizione ed il conflitto, fondamentali per l'affermazione ai vertici sociali in un modello androcratico, iniziano a mettere in chiaro come siano in contrasto evidente con una qualsiasi idea di pace. Fondamentale è quindi una presa di coscienza di una problematica sempre più stringente, che si presenta dinnanzi ad ognuno giorno dopo giorno, sia microscopicamente che macroscopicamente. Non solo, grazie agli studi e ai lavori dei sociologi, filosofi, storici, psichiatri ecc. sopracitati, vi è anche una notevole spinta storica e scientifica che si fa garante dell'esistenza di una possibilità che tutto ciò sia ammissibile storicamente e neurologicamente, oltre ad essere necessario, direbbe Naranjo, per una “società felice”.