Concorso Scrosoppi 2015-2016 (1)

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Il problema della competizione e del conflitto, dell'io e dell'altro nella Cultura Occidentale:
delucida il o i lati e periodi storici di tale problema
LA “DEA MADRE”: UNA NUOVA PROSPETTIVA SOCIALE
Il dibattito etico attorno alle problematiche della competizione e del conflitto ha assunto, nel corso
della storia, un ruolo chiave nella ricerca di una morale o di un'etica (dove la distinzione tra le due
sta nel fatto che la prima è un insieme di principi che dovrebbero indirizzare e guidare il
comportamento dell'uomo verso un ipotetico “bene”, mentre la seconda è la pratica in sé, ovvero la
realizzazione concreta di tali norme attraverso la loro messa in atto) capace di tracciare delle linee
guida sia per i comportamenti del singolo individuo ma, più importante, per la costruzione di una
politica funzionale a tale etica, basata su essa e giustificabile tramite essa.
Già nell'antica Grecia si può individuare l'ambizioso progetto di un'educazione all'etica e alla
morale, attraverso la nota sentenza iscritta al tempio di Apollo a Delfi “gnôthi sautón”, ovvero
“conosci te stesso”. Non solo, secondo quanto riportato nell' “Apologia di Socrate” e nel “Fedone”
di Platone, lo stesso Socrate si faceva portavoce ed esempio vivente di un comportamento morale,
basato sull'utilizzo della ragione, quella facoltà tutta umana che permette di non cadere vittima degli
istinti più primitivi e animali, spesso destinati a sfociare nella paura non giustificata dell'ignoto (si
veda il momento finale del Fedone, dove Socrate accetta di bere la cicuta perché non spaventato
dalla morte).
Più avanti Aristotele riprenderà l'utilizzo della ragione come strumento morale, infatti considererà il
raziocinio come una virtù dianoetica, mentre la sua applicazione come una virtù etica perché capace
di dominare gli impulsi istintuali.
Considerando ciò, rimane comunque il problema del conflitto: perché il solo rifarsi alla ragione non
rende esplicito in che misura una cosa sarebbe razionalmente più etica di un'altra: la logica della
sopravvivenza sarebbe più morale di una logica amorevole? E in che modo?
Insomma, nel corso della storia le varie filosofie Occidentali che si sono occupate di etica e morale
hanno sempre fatto appello a qualche principio primo che giustificasse l'uno o l'altro
comportamento: la ragione per Socrate o Aristotele, la fede per i grandi filosofi cristiani come
Sant'Agostino e San Tommaso, le categorie a priori dell'intelletto in Kant, la realizzazione dello
spirito soggettivo in Hegel, Macchiavelli attraverso tesi storiche e via discorrendo. Con tutto ciò
tuttavia il dibattito non si è mai esaurito.
Ad oggi, la predominanza della validità delle tesi scientifiche, nei vari dibattiti, fa si che la
questione etica si rifaccia ad un'indagine sulla natura dell'uomo in modo tale che, di conseguenza,
diventi etico ciò che è conforme al naturale.
Quest'atteggiamento era già stato affrontato storicamente e trovò la sua massima espressione nel
confronto giusnaturalista tra i due filosofi britannici John Locke e Thomas Hobbes: attraverso lo
studio dell'ipotetico “stato di natura” dell'uomo si potrebbe riuscire non solo a costruire un'etica
razionalmente lecita, ma anche a determinare univocamente ciò che dovrebbe essere un diritto per
l'uomo e ciò che invece risulterebbe essere un artificio o una convenzione sociale.
Dunque la domanda può esser così esplicitata: la competizione e il conflitto sono comportamenti
leciti? Se venisse dimostrata una loro giustificazione naturale la questione volgerebbe in loro
favore, in caso contrario sarebbero da condannare.
L'atteggiamento in tale senso più condiviso potrebbe ridursi ad alcune considerazioni
evoluzionistiche, ad esempio la cosiddetta “legge del più forte” o ancora la “legge
dell'adattamento”, le quali storicamente sono state oggetto di abuso per giustificare comportamenti
repressivi, violenti e fintamente progressisti. Difatti postulando queste “leggi” in un contesto
estraneo a quello biologico, ovvero quello storico-sociale, ma anche politico ed economico,
parrebbe lecita una corsa alla supremazia, all'affermazione violenta e all'accettazione di un potere
superiore (il Leviatano di Hobbes in tale senso potrebbe essere un esempio chiarificatore).
Nondimeno l'atteggiamento degli storici non fa che riflettere quest'idea di storia di affermazioni, di
conflitti e di successioni di poteri.
Indice di ciò potrebbe essere il fatto che la storia che fin dalle primarie ci viene insegnata è
composta proprio da guerre, da processi dinamici che studiano ascese e cadute di imperi, governi,
politiche, rivoluzioni e nomi illustri. La stessa rivoluzione francese, tanto esaltata nell'epoca
dell'Europa democratica e pacifica, è avvenuta attraverso lo spargimento di sangue; il motore che
diede il via alla conquista della libertà individuale tanto aspirata da filosofi illuministi come
Beccaria, Voltaire, Diderot, D'Alambert, Rousseau ecc, ha dovuto attraversare la morte, la violenza,
la rivolta e la protesta contro una forma di potere a lei antecedente.
I risultati non sono tardati a mancare: dopotutto siamo figli di due conflitti mondiali, di una guerra
fredda, del bombardamento di città intere, della repressione di movimenti giovanili (anch'essi
spesso violenti). Di più, ancor oggi l'intero continente europeo si trova incapace ad affrontare una
problematica umana come quella dell'immigrazione di massa, questione spesso ricondotta al campo
economico e strumentalizzata dalla politica. Il confronto con l'altro e con il diverso ci spaventa
talmente tanto da non riuscire ad ascoltare un grido d'aiuto; la chiusura nel nostro io sociale ci
riporta ancora una volta alla domanda “esiste questo “bene” al quale la morale aspira?”.
La risposta sembrerebbe essere univoca e ben definita: no.
Solamente ora un atteggiamento nuovamente giusnaturalista e storicista potrebbe accorrerci in
aiuto.
I lavori condotti negli anni '70 e '80 dello scorso secolo dall'archeologa Marija Gimbutas
rivoluzionarono il mondo accademico tanto da dividerlo in due. Nei tre volumi Bronze Age cultures
in Central and Eastern Europe (1965), The Gods and Goddesses of Old Europe (1974) e The
Language of the Goddess (1989) espose e divulgò la propria interpretazione dei ritrovamenti
avvenuti dopo anni di scavi e studi archeologici. Dopo la pubblicazione di questi testi gli storici, i
sociologi e i filosofi di tutto il mondo dovettero fare i conti con una nuova proposta evoluzionistica
e una rivoluzionaria lettura della storia dei nostri “antenati” indoeuropei.
Gli studi sulle popolazione preistoriche che abitarono l'Europa centrale tra il 7000 a.C. e il 3000
a.C. portarono alla luce indizi riguardanti un'ipotetica civiltà sino ad allora non considerata: tale
civiltà pare avesse sviluppato sia la metallurgia, sia delle abilità artistiche, oltre che un senso
religioso e comunitario di gran lunga superiore alle popolazioni di origine indoeuropea.
Questa società avrebbe trovato il suo epilogo nell'incontro con i “kurgans” (così denominati dalla
Gimbutas), una popolazione addestrata al combattimento e alla guerra, organizzata con un modello
patriarcale ed autoritario. La popolazione kurga si sarebbe poi evoluta nel corso della storia fino a
dare avvio ai popoli di matrice indoeuropea, nostri “antenati di sangue”.
Il motivo di tanto scalpore in seguito a tali ritrovamenti sta nel fatto che tutti gli indizi suggeriscono
che questa società vivesse in maniera estremamente pacifica e non fosse basata sul nostro modello
sociale patriarcale.
La sociologa Riane Eisler nel libro The Chalice and the Blade (1987) proporrà poi un'intera analisi
della storia contrapponendo questi due modelli di organizzazione: quello rappresentato dalla spada,
androcratico, patriarcale e autoritario; e quello che parrebbe essere il metodo sviluppato dalla
popolazione scoperta dalla Gimbutas: matriarcale e mutuale. I due termini potrebbero sembrare in
contraddizione per il fatto che “matriarcale” potrebbe indicare una forma di controllo anch'essa
autoritaria, quando invece la Eisler sottolinea come il modello matriarcale dovrebbe essere mutuale
per definizione, basato sui valori e sui comportamenti tipici di una madre: il rispetto, la
condivisione, l'accettazione delle diversità. Così la sociologa statunitense coniò il termine
gilania ,dalle parole greche gynè, "donna" e anèr, "uomo", per riferirsi all'organizzazione gerarchica
adottata dalla “popolazione della dea madre”.
Si parla di “dea madre” in quanto tutti i dipinti rupestri scovati ritrarrebbero, anziché scene di
guerra o di caccia, varie rappresentazioni di un'unica donna incinta.
Da subito si coglie la rilevanza nel nostro dibattito di una tale scoperta: il modello competitivo e
violento che è stato il solo paradigma sociale nella storia occidentale inizia ad aprire la possibilità
ad una prospettiva totalmente differente.
Innanzitutto viene messo in crisi il rapporto consequenziale evoluzione-progresso, difatti il nuovo
paradigma proposto dalla Eisler fa si che si debba accettare un'alternanza cronologica tra periodi di
progresso e periodi di regresso, pur quando biologicamente l'evoluzione non cessa.
Questa concezione presenta una sottile critica al modello dominatore, ovvero il nostro,
necessariamente considerato come di organizzazione inferiore a quello mutuale. Inferiore da un
punto di vista non biologico bensì etico. In tutto ciò bisogna considerare che per progresso ora non
si intende solamente quello tecnologico, ma anche quello morale e sociale.
Quello che la Eisler ci sta dicendo è che anche se da un punto di vista scientifico, biologico e
filosofico la società contemporanea (o quantomeno la sua storia) potrebbe essere più evoluta della
popolazione della dea madre, da un punto di vista etico-sociale andrebbe considerata meno
progredita. Rimane implicito che il raggiungimento di una pace duratura, ovvero l'abbandono stesso
del concetto di guerra e di conflitto, coinciderebbe con la corretta idea di progresso.
Si potrebbe dunque affermare che la storia indoeuropea sarebbe un periodo di regresso rispetto a
quello analizzato dalla Eisler.
Inoltre tali momenti storici sembrerebbero essere collegati tra loro da rapporti caotici, tanto da
indurre la sociologa a studiare questi comportamenti rifacendosi a studiosi del calibro di Ilya
Prigogine (premio Nobel per la chimica nel 1977) sull'auto-organizzazione degli organismi viventi.
Da un punto di vista maggiormente filosofico, le implicazioni della scoperta della società gilanica
probabilmente acquisiscono una rilevanza ancora maggiore.
Il rapporto con l'altro, con il diverso e anche con l'oggetto (contrapposto all'io soggetto) perde ora la
necessità della conflittualità e dello scontro e questo non solo in base a principi filosofici, bensì
grazie ad una nuova prospettiva storica, accettata oggi dalla maggior parte degli studiosi come una
realtà di fatto.
Lo stesso Claudio Naranjo, noto psicoterapeuta e candidato al premio Nobel per la pace nel 2015,
ne L'ego patriarcale assume toni più critici verso quella che definisce “società malata”, analizzando
i disvalori della società contemporanea da un punto di visto psichiatrico ed educativo. La tesi di
Naranjo esprime la necessità di un cambiamento del sistema educativo, prima di tutto quello
familiare, considerato la causa di un degenerazione generalizzata della moralità e dei valori
moderni. Il richiamo ai lavori della Gimbutas e della Eisler è evidente ed esplicito, tanto da
direzionare il discorso verso l'analisi dei rapporti neuropsichiatrici che si instaurano tra madre e
figlio, tra padre e figlio e all'interno del nucleo familiare stesso.
La proposta di Naranjo in questa direzione coincide con l'instaurazione di un modello familiare
matristico (differenziato da matriarcale, poiché il secondo potrebbe esser oggetto di fraintendimento
fino a esser letto come un modello dominante basato sulla figura femminile), appoggiato su una
linea filosofica gilanica e un modello organizzativo trasformativo e mutuale, non competitivo.
Così la filosofia si trova nella posizione di dover prendere atto di una vicenda storica e il dibattito
etico deve rendersi consapevole di alcune considerazioni fattuali.
Nel vivere la storia bisognerebbe dunque kierkegardianamente tenersi aperti a nuove possibilità,
considerare cioè che un modello di dominio autoritario potrebbe non essere l'unico possibile non
solo filosoficamente, ma anche storicamente.
Il conflitto e la competizione assumono ora dei ruoli non più necessari bensì contingenti nella storia
Occidentale e trovano dei modelli sostitutivi, con l'obiettivo di riuscire dove una propaganda errata
di alcune considerazione evoluzionistiche (legge del più forte o del più intelligente) ha fallito e sta
fallendo.
Di più, se l'obiettivo è la pace, bisogna anche accettare che un paradigma mutuale non è solo
un'alternativa a quello autoritario, ne è il superamento. Accettando ciò la competizione ed il
conflitto, fondamentali per l'affermazione ai vertici sociali in un modello androcratico, iniziano a
mettere in chiaro come siano in contrasto evidente con una qualsiasi idea di pace.
Fondamentale è quindi una presa di coscienza di una problematica sempre più stringente, che si
presenta dinnanzi ad ognuno giorno dopo giorno, sia microscopicamente che macroscopicamente.
Non solo, grazie agli studi e ai lavori dei sociologi, filosofi, storici, psichiatri ecc. sopracitati, vi è
anche una notevole spinta storica e scientifica che si fa garante dell'esistenza di una possibilità che
tutto ciò sia ammissibile storicamente e neurologicamente, oltre ad essere necessario, direbbe
Naranjo, per una “società felice”.
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