Così la fisica spiega l`inspiegabile origine dell`universo

Così la fisica spiega l’inspiegabile origine dell’universo
Il paradosso di Pasteur: un po’ di scienza allontana da Dio, molta riconduce a lui. Tre secoli di modelli cosmologici, mai
definitivi. L’ultimo, il neoateista, basato su un’ipotesi che finisce per essere più metafisica di quella creazionista
di Umberto Minopoli – Il Foglio, sabato 27 giugno 2015
Un po’ di scienza allontana da Dio ma molta scienza riconduce a lui”. Louis Pasteur, il padre della microbiologia, è stato il primo a
formulare questa paradossale conclusione. Applicata alla cosmologia, lo studio delle origini e del destino dell’universo, ha la forza
di una profezia verificata: la domanda su Dio è ridiventata una controversia nella cosmologia contemporanea, dopo esserne stata
espulsa per quasi due secoli. Al culmine di un avanzamento esponenziale delle conoscenze sul cosmo nella seconda metà del
Novecento, la scienza è tentata da due suggestioni. La prima è inquietata dal paradossale contrasto tra l’immensa progressione
delle conoscenze dell’ultima metà del secolo e la portata delle domande inevase e irrisolte sull’universo: cosa è stato veramente il
Big Bang? Perché riusciamo a spiegarci solo il 4 per cento della materia che vediamo? Come è iniziata veramente la vita cellulare?
Questa parte della scienza non se la sente ancora, dinanzi a tanta incertezza, di dichiarare inammissibile scientificamente l’ipotesi
di disegno intelligente, l’ipotesi di Dio. “Molta scienza” ci riporta a domande fondamentali e senza risposta. Dio non è escluso. Ma
c’è una seconda suggestione, opposta, che ritiene invece che l’accumulo di conoscenza cosmologica degli ultimi settant’anni
consenta finalmente all’umanità di dichiarare chiuse le domande su Dio. Ormai sappiamo quanto basta, ha scritto Stephen
Hawking: gli interrogativi fondamentali della vita hanno risposte e noi siamo vicini alla verità sul Grande disegno: non c’è un
disegnatore! Su questa convinzione è nata una cosmologia che ha avuto un successo straordinario nella letteratura divulgativa, con
i bellissimi libri di Hawking, Lawrence Krauss, Brian Greene, Richard Dawkins e altri, dichiaratamente neoateisti, come li
definisce Amir Aczel, matematico, fisico e impareggiabile divulgatore, nel suo libro “Why Science Does Not Disprove God”.
Perché “neo”? Perché la negazione di Dio, che questa cosmologia intende dichiarare, non fa leva sui tradizionali attrezzi
dell’agnosticismo: trappole delle prove ontologiche, dubbi razionali, ingenuità del letteralismo biblico: Insomma tutto
l’armamentario che tanto piace al nostro professor Odifreddi. La cosmologia neoateista ritiene di disporre, addirittura, delle prove
scientifiche dell’inesistenza di Dio e di essere vicina al Graal di una Teoria del Tutto (Hawking).
E’ davvero così? Esistono davvero argomenti scientifici che abilitino la pretesa neoateista ? Le sue asserzioni in larghissima parte
non sono sottoponibili alla verifica della prova e dell’osservazione, Anzi. Vedremo come la sua pretesa finisce addirittura, per gli
argomenti che adduce, per apparire più metafisica delle ipotesi teologiche che intende combattere, per dirla con Alex Vilenkin,
fisico russo e uno dei padri della cosmologia quantistica.
Gli ultimi tre secoli potrebbero essere descritti, in termini di modelli cosmologici, come la progressiva liberazione dal dominio
della magia e del racconto mitologico, sulla nascita e il funzionamento del mondo, per approdare a una cosmologia compiutamente
scientifica. Un superficiale sunto della storia moderna della cosmologia, vista dal lato del rapporto con la religione, ci darebbe tre
modelli prevalenti e in successione tra loro.
Con la fine della spiegazione tolemaica e con le scoperte di Keplero, Newton e Galilei, il primo modello, nel Sei-Settecento, è la
meravigliosa architettura barocca dell’universo meccanismo, del cosmo orologio. Regolato dalla legge universale della
gravitazione fantasmatica di Newton, il cosmo è un ordine complicato e meccanico in cui un Grande orologiaio interviene per
aggiustarne i movimenti, lubrificarne i meccanismi e correggerne gli ingranaggi. La magia dei miti dell’origine e il rigido schema
tolemaico si trasfigurano nel cosmo regolato e ordinato in cui la figura del Grande meccanico orologiaio tiene la giovane
cosmologia copernicana saldamente ancorata alla presenza del divino.
Con il secondo modello, la cosmologia dei Lumi, l’Orologiaio esce di scena e dalla trama del cosmo. Il divino precipita al rango
delle spiegazioni antinomiche, metafisiche e contraddittorie denunciate nelle due “Critiche” di Immanuel Kant. L’interpretazione
del filosofo di Königsberg dominerà fino a tutto l’Ottocento. E fisserà i paradigmi dominanti della cosmologia scientifica della
modernità: oggetti e forze si muovono, sulla tela dello spazio e del tempo assoluti, governati unicamente da leggi deterministiche e
dal causalismo meccanico di Newton. Il cosmo è decifrabile esclusivamente con prove, esperimenti e osservazioni tradotte nel
linguaggio matematico. Nato da una “nebulosa primordiale”, intuisce Kant anticipando la scoperta dell’origine del sistema solare
(tutto l’universo conosciuto del suo tempo), il cosmo illuminista si è evoluto nella figura dell’immenso e del sublime.
Perfettamente comprensibile, per Kant, solo con i mezzi della scienza. Il resto è speculazione. Solo ciò che si può osservare si può
descrivere. Solo ciò che è percepibile dai sensi è oggetto di scienza e pronunciabile nel linguaggio della scienza. Nessuno spazio
per il divino, per ordini nascosti o finalità intenzionali: le domande ammissibili, continua Kant, sono quelle circoscritte alla
descrizione di ciò che c’è nello spazio e nel tempo. E lì Dio non appare. Non è il suo territorio, afferma Kant. E’ pura antinomia e
contraddizione, per Kant, cercare Dio nei fenomeni del cosmo. Dio è oltre. Cercarlo negli eventi fisici è non sense. Dio non è mens
insita omnibus come volevano Bruno e Spinoza. E non è dato dire, con i mezzi dell’indagine naturalista, se sia mens super omnia.
Dal cosmo dei Lumi scompare lo spazio per ipotesi di atto creativo e di presenza del sacro. E’ lo scacco della teologia. Dio diventa
oggetto opaco e precluso ai sensi: non si tocca, non si vede, non se ne avvertono profumi. E’ pura speculazione. Il suo territorio si
restringe a quello della morale o delle scommesse di Pascal.
L’ottimismo e l’autosufficienza della fisica dei Lumi motivano la straripante utopia del marchese di Laplace: “Se esistesse un
intelletto umano superiore, scrive orgoglioso il marchese di Laplace, che riuscisse a calcolare, con le attuali conoscenze della
meccanica e della fisica, i moti e le direzioni di ogni corpo e di ogni forza che agisce nell’universo, sarebbe possibile spiegare
passato, presente e futuro di ogni cosa”. Aufklärung: la prima versione nella storia di un’agognata Teoria del Tutto. La cosmologia
si laicizza. Diventa agnostica. E’ la giustapposizione kantiana e il definitivo divorzio tra scienza e fede. Che segnerà una lunga
pagina della modernità. La morale del tempo è plasticamente fissata nel famoso apologo del perplesso Bonaparte, che sfogliando la
prima edizione della “Exposition du système du monde” (1796) di Pierre Simon marchese di Laplace, l’opera più importante sulla
meccanica celeste dopo i “Principia Mathematica” di Newton, chiede all’autore: “Non capisco, cittadino, come mai non abbiate
fatto cenno all’azione del Creatore”. E poi, per inciso: “Eppure essa spiega molte cose”. Cui Laplace replica sorpreso: “Cittadino
Primo Console, non ho avuto bisogno di questa ipotesi”. La storia ha immortalato la risposta di Laplace. Il paradosso sarà che il
tempo (e più scienza) ridarà dignità all’inciso del Bonaparte. L’universo meccanicista, increato, deterministico e agnostico di Kant
e Laplace evolverà nel modello del cosmo illuminista: infinito e statico, senza storia, meccanico, immoto nell’eternità. Bastevole a
se stesso produce da sé, continuamente, la materia di cui ha bisogno. Questo modello di universo resisterà fino agli anni Venti del
XX secolo. Poi vacillerà.
Il cosmo è veramente infinito, statico ed eterno? Sarebbe bastato prestare più attenzione a una strana ed enigmatica domanda che
aveva turbato, fin dal Seicento, menti come quella di Keplero, di Halley e di altri. E che aveva la forma del quesito ingenuo di un
bambino o del delirio di un innamorato: “Perché di notte il cielo è buio?”. Heinrich Wilhelm Olbers, medico tedesco e astronomo
amatoriale, riprovò a formularla un anno prima della morte di Laplace: “Se l’universo fosse davvero infinito, statico ed eterno e
visto che la luce ha velocità finita, quella delle stelle, di tutte le stelle, dovrebbe aver avuto tutto il tempo di raggiungerci. E allora
perché, di notte, c’è il buio?”. Provate a smontare la logica stringente di un tale assunto. La spiegazione verrà un secolo dopo, negli
anni Venti e Trenta del XX secolo, appunto. Un arruffato, confusionario e scapestrato impiegato di Berna aveva, letteralmente,
spazzato via il cosmo meccanicista di Newton e ciò che di esso era passato nella cosmologia dei Lumi e nelle idee dell’Ottocento.
Mettendo a soqquadro paradigmi e certezze del racconto cosmologico da Newton a Kant a Laplace. E sfidando il senso comune e
le convinzioni più intuitive, popolari e radicate. Tutto era sottosopra nelle incredibili ma inoppugnabili affermazioni della
relatività: lo spazio come tela e scenario assoluti, il tempo che scorre uguale per tutti, le cause che precedono gli effetti, la
simultaneità degli eventi ecc. Eppure la prodigiosa mente di Einstein era inciampata in un problema imbarazzante. Causato da un
residuo di conservatorismo culturale. E da un maldestro tentativo di soluzione. Il mondo fantastico ma più reale e aderente alla
realtà della relatività, ristretta e generale, era stupendamente raccontato da Einstein in un gruppo di equazioni tormentate, eleganti,
ricche di fattori “misteriosi”: spazi curvi, ruolo della luce, nuove versioni del fattore tempo, una geometria non euclidea, e una
matematica non lineare. Una meraviglia, complessa ma elegante, che spiegava il cosmo assai meglio di quanto non facesse la
scarnificata, povera e lineare matematica di Newton. Eppure le equazioni contenevano un baco. Avevano un problema: si
sbilanciavano, portavano a risultati impossibili. In quelle equazioni l’universo non stava fermo. Rischiava di implodere o
collassare. Non era statico e stabile come i moderni, Einstein compreso, pensavano che fosse. Prevalse un atto conservatore,
insieme ingenuo e maldestro, di Einstein: la sua “più grande stupidaggine” come lui stesso la definirà. Nel tentativo di arrestare
quelle equazioni e quell’universo che non stava fermo, che tendeva al collasso o evaporava negli abissi della morte termica,
Einstein ricorse a una trovata, una soluzione ad hoc delle equazioni: la “costante cosmologica”, la chiamò. Aggiunse un numero
alle sue formule. Un semplice numero: inspiegato, ineffabile, venuto dal nulla ma con le quantità giuste per stabilizzare l’universo.
Inserito nelle equazioni della relatività generale esso consentiva ai risultati matematici di consegnarci, di nuovo, l’universo statico
e senza tempo della credenza illuminista. Il grande innovatore pensò, così, di riconciliarsi col tempo e con la logica. Ma era solo un
trucco. E neanche elegante. Infatti scomparirà. Grazie a una scoperta, quella forse più importante degli ultimi trecento anni:
l’universo si espande. Edwin Hubble, l’astronomo americano che lo scoprì, dette il colpo mortale a una convinzione plurisecolare:
l’immobilità del cosmo. A un tasso costante e persino matematico, ogni attimo le galassie si allontanano le une dalle altre. Tra loro
si crea sempre nuovo spazio. Il cosmo non è statico. Inesorabile. Olbers aveva, finalmente, una spiegazione. Non c’era paradosso:
il cielo di notte è buio perché le galassie si allontanano. E la luce delle stelle non fa in tempo a raggiungerci. Fu un prete cattolico,
astrofisico belga, Georges Lemaître, a intuire la sconvolgente portata della scoperta di Hubble. Egli ragionò: “Se l’universo si
espande, vuol dire che se riavvolgessimo mentalmente all’indietro, come una pellicola rivista dalla fine all’inizio, quello che
Hubble ha osservato, l’espansione, dovremmo esperire una contrazione”. Elementare! E dove finisce, indietro nel tempo, la
contrazione? Dov’è che l’espansione comincia? Le equazioni di Einstein, finalmente liberate dalla mostruosità del numero ad hoc,
provavano che il film riavvolto dell’espansione di Hubble si concludeva con la contrazione del cosmo in un “punto”: ineffabile,
senza dimensioni. Una singolarità. Era l’inizio del tutto. Al sacerdote cattolico non sembrò vero: “C’è allora scientificamente
l’inizio!”, addirittura testato da equazioni matematiche! L’universo non solo non è statico ma ha un’origine indietro nel tempo:
“Chi ha messo lì quel punto? Da dove salta fuori un punto, una singolarità, da cui inizia un cammino, al posto del niente?”,
chiedeva trionfante Lemaître. E poteva concludere: lì, nel punto, ci sono le “carte di Dio”! Il punto, l’inizio, sarà sarcasticamente
chiamato da Fred Hoyle, un geniale diffidente, Big Bang. Non era un bang: era un punto che, all’improvviso, iniziò a dilatarsi,
dando vita a un’espansione. Che continua ancora oggi. E, persino, accelera. Il cosmo di Einstein, Hubble e Lemaître, quello del
Big Bang, raccontava che l’universo ha una storia. Non è sempre esistito. E’ nato da un punto che conteneva un’infinita energia
che, per qualche ragione ha preso a dilatarsi, a farsi materia e a dare vita ai costituenti dell’universo. Ovvio che, da allora, una
domanda inevitabile cominciasse a inquietare la cosmologia scientifica: quale ragione fisica spiega il Big Bang? A che si deve
l’enigmatica dinamica dell’inizio e dell’espansione? Perché il punto, la singolarità, prese improvvisamente a crescere e dilatarsi?
Non c’è spiegazione fisica (almeno fino a Krauss e Hawking). Solo ipotesi. Per la scienza, però, è tornata in campo la domanda
che Kant riteneva un’antinomia, metafisica e contraddittoria: “Com’è nato tutto?”, perché c’è qualcosa e non il nulla? La
cosmologia scientifica del Big Bang ridà dignità a dilemmi che gli illuministi (e sant’Agostino) avrebbero definito “speculazione”:
cos’è, realmente, il Big Bang? Cosa c’era prima del “punto”? Dove porterà l’espansione di Hubble? Con il processo a Galileo la
teologia si era distaccata dalla modernità. Con Kant e l’illuminismo aveva, addirittura, divorziato dalla scienza. Con la fisica del
Big Bang, il terzo modello della cosmologia della modernità, domande che si pensavano teologiche, quelle sull’origine e sulla fine,
tornano a far capolino nella discussione cosmologica. E proprio nel momento, per dirla con Pasteur, in cui “molta scienza” era
entrata, in progressione esponenziale, nella spiegazione dei fenomeni fisici. Relatività e scienza quantistica realizzeranno nella
seconda metà del Novecento due imprese impensabili: ricostruiranno, con esattezza scientifica stupefacente, la storia dell’universo,
la ricostruzione esatta, fisica e chimica, del film dell’evoluzione cosmica (13,7 miliardi di anni) fino al Big Bang e ai suoi primi
istanti di vita; scenderanno nelle abissali profondità dell’atomo per scoprire i costituenti ultimi della materia e, persino, con le
stupefacenti macchine del Cern, ricostruendo in laboratorio le impensabili energie del Big Bang. Per guardare dentro e da vicino
l’inizio di tutto.
Sorge insomma un paradosso imprevisto dall’ottimismo illuminista: più scienza e fisica entrano nelle spiegazioni dell’universo,
più domande emergono, più cresce l’opacità, l’ineffabilità della materia, l’inquietante dissimulazione dell’origine. Quel punto,
l’inizio, quella singolarità non si lascia decifrare. Non solo. Più penetriamo gli abissi della materia e le profondità del cosmo, più
inciampiamo in misteri disarmanti: conosciamo, ancora approssimativamente, solo il 4 per cento della materia di cui è fatto
l’universo; misuriamo la presenza certa di un’energia oscura ma nulla sappiamo di essa (e servirebbe saperlo per declinare ipotesi
sul futuro del cosmo); non sappiamo ancora come è emersa effettivamente la vita, ecc. Molta fisica, insomma, ci è ancora velata.
Sulle cose significative del Tutto possiamo solo fare ipotesi, congetture, illazioni. Su quelle famose “carte di Dio” sembra si debba
dire quello che Churchill pensava della Russia comunista: un mistero che cela un enigma che nasconde un segreto.
Alcuni anni fa, in un libretto stupefacente, “Dio e la scienza”, duettando con i fratelli Bogdanov, astrofisici e istrioni televisivi, un
po’ geni e un po’ lestofanti, nipoti dell’omonimo autore otzovista, amico-nemico di Lenin, Jean Guitton, forse il più eminente
filosofo cristiano del nostro tempo, metteva a nudo le due lacune che, a suo dire, invalidavano l’ottimismo illuminista e la sua
pretesa di realizzare, attraverso l’impresa scientifica, il programma di Nietzsche: far morire Dio. La prima lacuna è, appunto, il
mistero dell’origine, l’inizio del Big Bang. Guitton lo chiama, elegantemente, “vertigine d’irrealtà”: come si è prodotto? Da quali
processi fisici ed energetici? Cosa c’era prima del primo istante? E’ il tempo oscuro del Big Bang. Si vaga nel buio. E’ curioso:
grazie alla fisica relativista sappiamo quasi tutto dell’evoluzione dell’universo in 13,7 miliardi di anni. Ma dell’inizio vero
sappiamo poco, anzi nulla. La scienza si ferma, sorprendentemente, solo ad un attimo (in senso letterale) dal Bang. Non è
veramente riuscita a penetrare l’inizio. E’ costretta a fermarsi un po’ di tempo prima. Quanto tempo prima? Un attimo. La cui
lunghezza e durata ci sono note: 10-43 secondi dopo l’inizio. Un muro. Si chiama “tempo di Planck”. E’ considerato in fisica la più
piccola durata di tempo concepibile: miliardesime di miliardesime di miliardesime volte più piccola di un secondo (c’è anche una
misura di Planck che riguarda l’estensione: 10-33 centimetri: la più piccola dimensione concepibile). Quando si giunge, con la
ricostruzione della storia fisica dell’universo a questa distanza dal Bang, tutto si annebbia: la fisica che utilizziamo smette di
funzionare, la matematica salta, le equazioni vacillano, le conoscenze fisiche diventano inservibili. Entra in campo la fisica
quantistica, che riguarda ogni cosa microscopica, più piccola dell’atomo, con le sue stranezze. Ma in un modo che fa a cazzotti con
la fisica relativistica. Che poi sarebbe quella che ci ha consentito di arrivare così vicini al Bang. A 10-43 secondi dopo il Bang si
manifesta un divieto. Una sorta di “censura cosmica” evita alla scienza di proseguire oltre e penetrare il momento vero dell’inizio.
E’ il mistero più grande del Big Bang: il tempo di Planck! Non è incredibile? Della storia cosmica di 13,7 miliardi di anni siamo
riusciti a ricostruire quasi tutto tranne quel microscopico tempo di 10-43 secondi. Cosa succede lì? Possiamo solo congetturare. La
fisica ipotizza che lì funzioni un mondo diverso da quello che conosciamo: il tempo e lo spazio sono intrecciati tra loro e non sono
distinti; le quattro forze che governano l’universo conosciuto (forte, debole, gravitazionale ed elettromagnetica) sono tutt’uno; le
dimensioni non sono quattro (altezza, lunghezza, larghezza e tempo) ma infinite. L’universo del tempo di Planck è un vero
guazzabuglio. Definito dai fisici una “schiuma” in cui tutto è confuso e indefinito, avvolge ancora la vera conoscenza del Big
Bang. Direte: ma si tratta di una frazione di tempo così minuscola! Com’è possibile che contenga eventi significativi? E invece.
Non dimenticate che, in quella frazione di tempo, gli eventi sono quantistici. Il tempo non è quello macroscopico che conosciamo.
Non è ancora distinto dallo spazio, non scorre, non prosegue inesorabile come una freccia, non è lineare come lo misuriamo coi
nostri orologi. Al tempo di Planck, nella frazione di 10-43 secondi, attimo ed eternità non sono distinti, così come non lo sono
passato, presente e futuro. Quel tempo minuscolo, insomma, è anche immenso. Può essere davvero successo di tutto. E avendo a
disposizione tutto il tempo per succedere. Speculazione? Non tanto. Il tempo di Planck è un problema fisico reale. Entra negli
esperimenti quantistici. E’ una misura effettiva. Che funziona nelle prove quantistiche. E che inquieta i fisici: non si accorda con la
relatività. Lasciando così la fisica monca. E irrita i cosmologi: eleva un muro di opacità, mistero e ignoranza sulla vera dinamica
del Big Bang. E, soprattutto, lascia spazio a possibili, disturbanti ipotesi creazioniste.
Per Guitton, c’è una seconda lacuna della cosmologia scientifica. Lui la chiama il “miracolo matematico” o enigma delle
coincidenze. L’universo esibisce una strana particolarità: le sue leggi appaiono perfettamente decifrabili e traducibili per noi. Ma
solo grazie a un particolare: l’esistenza in natura di alcune costanti, numeri inspiegabili, adimensionali e immotivati che combinati
tra loro ci rendono i costituenti della materia e le forze che li fanno stare insieme. Insomma esistiamo grazie a quei numeri. Se
anche uno di loro fosse solo leggermente diverso dal valore che ha… noi non ci saremmo. Ad esempio: se la “costante di struttura
fine” (la misura dell’intensità delle interazioni elettromagnetiche) fosse solo leggermente diversa da 1/137 (un numero primo e
senza decimali) la luce non interferirebbe con la materia e il mondo sarebbe opaco e informe; se la massa del protone non fosse
esattamente 1.836,153 quella dell’elettrone o se le cariche dei quark (le particelle costitutive di protoni e neutroni) non fossero
esattamente speculari e opposte a quelle degli elettroni, gli atomi non si formerebbero; se la costante gravitazionale di Newton non
fosse esattamente pari a 6,67384 moltiplicata per 10-11, ogni corpo fuggirebbe nel cielo da ogni altro e non ci sarebbero stelle e
pianeti. E così per altri parametri e costanti in natura. Da dove vengono fuori numeri così coincidenti? Come può essersi verificato
questo misterioso tuning? Può essere frutto del caso? Della lotteria di eventi prodotti solo dalla probabilità? Certo che no. La
probabilità che una combinazione plurima vincente di tante costanti, sintonizzate tra loro, si sia realizzata per caso, nel “breve”
tempo dell’evoluzione cosmica dal Big Bang, equivale a… zero. Solo un numero infinito di lanci, in un tempo infinito, della
pallina della roulette cosmica avrebbe consentito di realizzare combinazioni così precise di numeri. No. Il caso non spiega! Guitton
ha argomenti solidi: o si ipotizza un “miracolo matematico” o non abbiamo spiegazioni. Dilemmi urticanti per la cosmologia
ateista.
Come ci si può atteggiare dinanzi a essi? In due modi: alla maniera di Einstein. Se il cosmo presenta ancora zone d’ombra,
dilemmi e misteri, è lecito pensare che ciò avviene perché esistono variabili nascoste, ribatteva Einstein a Bohr e agli ortodossi
delle “stranezze” quantististiche, e la scienza non è ancora arrivata a scoprirle. Un ragionevole esempio di sobrietà scientifica.
Hawking, Krauss, Greene e Dawkins hanno sposato la tesi opposta: la realtà non presenta variabili nascoste. Il microcosmo è,
realmente, controintuitivo. L’evidenza quantistica non si raggiunge con lo sperimentalismo “classico”. Se è coerente con la
“stranezza” intima degli assunti quantistici, una teoria può essere dichiarata vera. Opportunamente interpretata, la fisica dei quanti
consente ipotesi accettabili per spiegare, insieme, il mistero dell’origine e quello delle coincidenze. La prova dell’inesistenza di
Dio è, rassicurano i neoateisti, a portata di mano. Un irragionevole esempio di eccesso intellettuale. Che, forse, prima o poi, porterà
a far fioccare premi Nobel secolarizzati.
Due sono le fascinose e stravaganti ipotesi che la cosmologia neoateista ha ideato per produrre la prova. La prima è la fluttuazione
quantistica. Che dovrebbe spiegare l’inizio del Big Bang. Secondo Lawrence Krauss (“L’universo dal nulla”) la fisica quantistica
ha svelato il meccanismo per cui possono darsi fenomeni privi di causa: eventi che sorgono, letteralmente, dal nulla.
Effettivamente c’è in fisica quantistica un fenomeno accertato: si chiama “pair production”. Afferma che in uno spazio vuoto può
manifestarsi, senza causa apparente, una coppia di particelle, prima “virtuali” e poi “reali”, che sembrano emergere dal niente. Si
chiama fluttuazione quantistica del vuoto. Attenzione: del vuoto, non del nulla. Per la fisica nulla e vuoto non sono sinonimi. Il
nulla è banalmente il niente. Il vuoto è, invece, un oggetto fisico reale. Non è il niente. E’ un qualcosa. In fisica quantistica il vuoto
è, in realtà, un pieno: di campi di forze e di energia, potenziale e latente. E dunque invisibile. Attraverso la fluttuazione quantistica
questa energia potenziale si trasforma, per via della formula E=mc2 e senza una causa osservabile o un evento scatenante, in
energia cinetica di particelle reali. Dal vuoto è nato qualcosa. Dal vuoto, appunto. Non dal nulla. Nella fase del tempo di Planck
questo può essere successo: che dalle fluttuazioni di un vuoto ricchissimo di energia potenziale si sia prodotto qualcosa. Quella di
Krauss, scrive Amir Aczel, è una “meravigliosa bugia”, un trucco ingenuo per motivare la non necessità scientifica di ipotesi
creazioniste: il mondo può essere emerso dal niente, dal nulla. E invece no. L’energia non si crea dal nulla. All’attimo del Big
Bang non poteva esserci il nulla. Preesisteva qualcosa: energia potenziale! Dal nulla non nascono fiori. Ma allora siamo al punto di
partenza: chi ha messo lì quell’energia? Come si è prodotto quel potenziale? Krauss non ci fa fare passi avanti. Il dilemma
dell’origine resta.
La seconda prova, immaginata dalla cosmologia neoateista, è la teoria del multiverso. Essa dovrebbe liquidare, ad avviso dei suoi
sostenitori, il dilemma delle coincidenze. Se nel caso della teoria di Krauss, del qualcosa dal nulla, si trattava di una “meravigliosa
bugia” qui impattiamo una vera bizzarria metafisica. Anche in questo caso i cosmologi neoateisti distorcono, forzano e
strumentalizzano un’effettiva, ma reale e verificata, stranezza quantistica: la teoria dei “molti cammini”, secondo la definizione di
Richard Feynman, uno dei padri più geniali della fisica quantistica. L’esperimento più enigmatico della fisica quantistica, e quello
più noto e praticato, è l’esperimento della doppia fenditura. Esso prova il carattere ambivalente della luce: insieme onda e
particella. Lanciate un fotone di luce o una particella subatomica verso uno schermo con su incisa una doppia fenditura. Da dove
passa la particella? Da quale fenditura? Il risultato dell’esperimento non lascia dubbi: il fotone o la particella mostrano,
inequivocabilmente, di essere passati da entrambe le fenditure. Pazzesco. Come ha fatto la particella a scegliere? Non ha scelto,
afferma Feynman: ha semplicemente percorso istantaneamente tutti i cammini a essa consentiti: è passata da entrambe le fenditure
e, anche, da nessuna di esse. Tutti i cammini possibili si sono sovrapposti, dice Feynman. Com’è stato possibile? Ipotesi: essendo
un’onda, la particella (pensate a un’onda del mare) non è in un punto preciso, ma si distribuisce su uno spazio esteso. Esperisce,
così, tutti i cammini che le sono consentiti, in quanto onda, dalle sue misure: lunghezza, frequenza, altezza. E’ così? Non si sa. Ma
è una spiegazione. Che fanno i neoateisti? Estrapolano questa ipotesi del mondo subatomico e delle sue enigmatiche stranezze e la
applicano al mondo macroscopico. Traendone una conclusione bizzarra e metafisica: l’universo intero e tutti gli eventi che in esso
avvengono si comportano come una singola particella di luce o di materia: messo davanti alla decisione di una scelta, l’equivalente
macroscopico della doppia fenditura, non sceglie! Semplicemente: percorre tutti i cammini a disposizione. Come? Biforcandosi,
moltiplicandosi, realizzando ogni possibilità a disposizione. A ogni istante le versioni dell’universo si moltiplicano. In un numero
infinito. Ci sono, secondo i teorici del multiverso, infinite versioni reali di ognuno di noi in universi lontani o vicinissimi
(compattati in dimensioni sconosciute) che non si toccano. Infinite versioni di noi, reali e coscienti. Pensateci: fosse vero avremmo
realizzato la vita eterna. Ovviamente non abbiamo indizi o segnali di esistenza di tali universi. Essi non sono osservabili in alcun
modo. C’è solo da credere. Che significa il multiverso per il dilemma delle coincidenze? Semplice. Non c’è più dilemma. Esse non
sono dovute al caso e, tantomeno, a un miracolo. Noi osserviamo solo le costanti, i numeri, le combinazioni che, nell’infinita
produzione del multiverso, si sono realizzate qui consentendoci di esistere. Ma ogni altra versione dei numeri si è realizzata da
altre parti. Non c’è tuning e non c’è il caso. Decisamente un’ipotesi “dispendiosa”, la definisce Samir Aczel. E decisamente più
metafisica dell’ipotesi creazionista.