La clausole regolamentari limitative della proprietà esclusiva dei condomini tra obbligazioni propter rem, oneri reali e servitù atipiche Nota a Cass. II sez. civile n.21021/2016 Pres. E. Migliucci Est. F.Manna di Andreina Mazzariello SOMMARIO 1. Il caso 2. La quaestio iuris 3. L’orientamento giurisprudenziale consolidato 4.La pronuncia della Corte di Cassazione n.21021/2016 5. Riflessioni conclusive 1.Il caso Dinanzi al Tribunale di Palermo veniva impugnata una delibera condominiale, lamentando, i condomini, che con tale delibera si era provveduto ad integrare il regolamento condominiale con una clausola limitativa dei diritti di proprietà esclusiva dei singoli condomini, senza che l’approvazione fosse avvenuta all’unanimità. La clausola in parola, infatti, faceva divieto di destinare le unità di proprietà esclusiva ad attività quali casefamiglia, bed and breakfast, pensioni, alberghi o affittacamere. Resisteva il condominio facendo leva sulla circostanza che la delibera si era limitata a reintrodurre, nel regolamento vigente, un precedente divieto già contenuto nel regolamento condominiale originario andato perduto, e che perciò il divieto in parola era in ogni caso opponibile a tutti i condomini, a prescindere dal fatto che la delibera non fosse stata approvata all’unanimità. Il giudizio viveva di vicende alterne essendo stata la domanda accolta in primo grado ma rigettata in appello; in sede di legittimità i condomini ricorrenti insistevano nel sostenere che, in assenza di trascrizione dell’originario regolamento, le clausole limitative in esso contenute diventavano inopponibili nei confronti dei successivi acquirenti delle singole unità abitative, mancando nei rispettivi atti di acquisto il richiamo a quel regolamento e quindi alle clausole limitative. La Corte di Cassazione veniva, dunque, chiamata a statuire in ordine all’opponibilità delle clausole regolamentari, volte ad imporre limiti alle proprietà esclusive, nei confronti degli stessi proprietari dei piani o porzioni di piano dell’edificio in comune ovvero nei confronti dei terzi aventi causa dai singoli condomini. 2. La quaestio iuris La disamina del profilo dell’opponibilità del regolamento condominiale coinvolge la più ampia problematica della qualificazione giuridica delle clausole limitative della proprietà individuale dei singoli condomini. È ben pacifico che siffatte limitazioni possono essere introdotte, oltre che negli atti di acquisto anche con il regolamento di condominio1 1 Cass. 21 maggio 1997 n. 4509 1 Occorre, a questo punto, premettere che esistono due tipi di regolamento condominiale: quello assembleare approvato con le maggioranze di cui all’art.1136 c.c. comma 2, che contiene le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino. Si tratta di un regolamento a rilevanza interna che non può in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, come risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, né può derogare il nucleo sostanziale dei diritti dei partecipanti sulle cose comuni disciplinati dagli artt.1118 e ss. c.c. Proprio da tale statuizione, sancita dal quarto comma dell’art.1138 c.c, si fa derivare l’impossibilità ad opera del regolamento assembleare, e quindi con una deliberazione approvata con un numero di voti che rappresentino la metà più uno degli intervenuti e quanto meno la metà del valore dell’edificio (art.1136 co2 c.c.), di limitare i diritti dei condomini, soprattutto se incidenti sulle proprietà esclusive; una simile limitazione richiederebbe l’approvazione del regolamento all’unanimità dei partecipanti al condominio. Al regolamento assembleare, in virtù di un esplicito richiamo alla norma sulla comunione, si applica l’art.1107 c.c., per cui esso può essere impugnato da parte dei condomini dissenzienti, con la conseguenza che, decorso invano il termine previsto per l’impugnazione, le statuizioni del regolamento si estendono anche agli eredi e agli aventi causa dei singoli partecipanti, risultando a questi ultimi, dunque, direttamente opponibili. Dal regolamento assembleare si distingue il regolamento contrattuale sia dal punto di vista del contenuto sia con riguardo alla modalità di formazione. Il regolamento contrattuale è lo strumento attraverso cui sovente si introducono clausole che impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà ovvero con cui si ampliano i diritti di alcuni condomini in danno di altri. Le norme regolamentari che incidono sulla utilizzabilità e la destinazione delle dell’edificio di proprietà esclusive, essendo atti dispositivi del diritto di proprietà, carattere convenzionale; ne deriva che l’approvazione con delibera assembleare norme e dunque di questo tipo di regolamento deve avvenire con il consenso di condomini e non già con la semplice maggioranza di cui all’art.1136 co2 diversamente si tratterebbe di delibere nulle perché eccedenti i limiti dei dell’assemblea condominiale2. parti hanno di tali tutti i c.c.c.; poteri Lo stesso dicasi per tutte le successive modifiche dello stesso, del resto avendogli riconosciuto natura convenzionale il regolamento sortisce la medesima efficacia del contratto producendo effetti solo tra le parti (art.1372 c.c.) 2 Cfr. Cass. 9 luglio 1994 n. 6501 così massimata: “Le norme dei regolamenti che investono i poteri e le facoltà che i singoli condomini hanno, "iure domini", sulle loro parti esclusive, restringendo in tal modo, nell'interesse comune, il contenuto del loro diritto di proprietà sulle parti stesse, debbono assumere carattere convenzionale nel senso che, se precostituite, debbono essere accettate dai condomini nei contratti di acquisto o, con separati atti esprimenti la volontà di accettare, se deliberate dall'assemblea dei condomini” 2 Invero, spesso e volentieri il regolamento contrattuale viene predisposto dal proprietario originario dell’edificio ovvero dal suo costruttore e viene allegato all’atto di vendita dei singoli appartamenti ovvero semplicemente richiamato nello stesso. L’allegazione fisica del regolamento contrattuale all’atto di compravendita, così come il mero richiamo ad esso, implicano conoscenza e dunque accettazione delle clausole in esso contenute da parte degli acquirenti, con la conseguenza che il regolamento contrattuale sarà vincolante e dunque opponibile a tutti i neo condomini3, nonché a tutti i successivi acquirenti dei piani o porzioni di piani, qualora dall’atto d’acquisto risulti, anche attraverso il mero richiamo, il regolamento contrattuale; e ciò, secondo la giurisprudenza di legittimità, anche indipendentemente dalla trascrizione nell’atto di acquisito4. La trascrizione, infatti, in disparte le ipotesi in cui svolge funzione di pubblicità-notizia oppure funzioni costitutive, ha il compito di risolvere i conflitti tra diritti reciprocamente incompatibili, facendo prevalere quello il cui atto di acquisito è stato trascritto per primo nel registro immobiliare. Quando dall’atto di compravendita del piano o della porzione di piano del condominio risulti richiamata, in maniera chiara ed esplicita, la clausola limitativa della proprietà, così che l’acquirente acquista la proprietà già limitata, non si verifica alcun conflitto che la trascrizione debba risolvere, e la clausola limitativa vincolerà, per il solo fatto del richiamo, il terzo acquirente; non si pone affatto, in questa ipotesi, una questione di opponibilità5. È del medesimo avviso la pronuncia della Corte di Cassazione in commento. È ben possibile, tuttavia, che il regolamento condominiale contrattuale e quindi le clausole limitative dei diritti dei singoli condomini sull’unità immobiliare di proprietà esclusiva non vengano richiamate nei successivi atti di compravendita dei piani o porzioni di piani del condominio: in tali casi la possibilità che gli acquirenti dall’originario proprietario ovvero gli aventi causa dai singoli condomini rispettino gli obblighi di fonte regolamentare passa attraverso la questione del se, ed eventualmente in che modo, tali clausole siano opponibili nei loro confronti. La risoluzione della questione coinvolge tematiche di più ampio respiro: occorre, infatti, a tale fine qualificare giuridicamente la previsione del regolamento contrattuale che fissa limiti al diritto o all’esercizio di esso sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, per poterne successivamente individuare la disciplina applicabile. 3 In verità il vincolo degli acquirenti nei confronti del venditore non si discute, piuttosto si pone il problema della possibilità da parte di ciascun proprietario di far valere il regolamento rispetto agli altri proprietari, che nei suoi confronti non si sono obbligati, una volta che il venditore originario abbia alienato tutti i piani o porzioni di piano e non è più proprietario di nessun edificio. La ricostruzione più convincente operata dalla giurisprudenza a tale proposito ritiene che “ le clausole contenute nei distinti contratti di compravendita costituiscono altrettante manifestazioni di adesione, in base alle quali ciascun acquirente assume l’obbligo di osservare il regolamento. Sempre che il primo atto di vendita costituisca un contratto aperto agli acquirenti successivi e che, nei susseguenti atti di vendita, i compratori dichiarino di aderire al regolamento richiamato nella prima compravendita...Il regolamento contrattuale di condominio diventa efficace nei confronti di tutti una volta che l’ultimo acquirente abbia aderito. In seguito a ciò, diventa regola del condomino”. (Cass. 3749/1999) 4 Cfr. Cass. 17886/2009 5 Cfr. Cass. n.10523/2003; Cass.395/93 3 Le soluzioni che nel tempo si sono alternate in giurisprudenza oscillano tra le obbligazioni propter rem, gli oneri reali e le servitù reciproche. Appare evidente che propendere per l’una o per l’altra soluzione comporta risvolti di non poco momento in ordine alla disciplina concretamente applicabile, soprattutto sotto il profilo dell’efficacia rispetto agli aventi causa dalle parti stipulanti. Diviene opportuno, allora, soffermarsi sui caratteri principali di tali istituti giuridici. Le obbligazioni propter rem e gli oneri reali non possono vantare, a differenza delle servitù, una espressa definizione codicistica, così che l’elaborazione di entrambe le categorie si deve agli sforzi suppletivi della dottrina e della giurisprudenza. Le obbligazioni propter rem o obbligazioni reali rappresentano un vero e proprio ossimoro del diritto civile ponendosi a metà strada tra i diritti reali e quelli obbligatori. Dei diritti reali conservano il carattere dell’inerenza trattandosi di obbligazioni che insistono su un bene, così che il debitore dell’obbligazione reale è individuato in base alla titolarità del bene su cui l’obbligo insiste: dette obbligazioni si trasferiscono cioè con il trasferimento della proprietà del bene (cd. obbligazioni ambulatorie)6; tuttavia sono pur sempre obbligazioni e in quanto tali hanno ad oggetto indifferentemente un obbligo di dare, di facere o non facere. Laddove, dunque, il debitore risultasse inadempiente risponderebbe con tutti i suoi beni, presenti e futuri, anche oltre il valore economico del bene su cui insiste l’obbligazione, e secondo le regole della responsabilità patrimoniale generica di cui all’art.2740 c.c. Siamo di fronte, dunque, ad un peso che grava su un soggetto debitore e non su un bene, atteso che quest’ultimo risulta funzionale esclusivamente all’individuazione del soggetto tenuto all’obbligazione. In caso di circolazione del bene sarà l’acquirente il soggetto onerato ad adempiere le obbligazioni che sono sorte prima dell’atto di trasferimento del bene. Un esempio pacifico di obbligazione propter rem è quello riguardante le spese per la conservazione della cosa comune che gravano su ciascun proprietario ai sensi dell’art.1104 c.c., in quanto in caso di alienazione della quota di comproprietà sarà il successivo comproprietario ad essere tenuto al pagamento delle spese di conservazione7. L’onere reale, invece, è un peso gravante su un determinato bene che si concretizza nell’erogazione di una prestazione periodica da parte del proprietario del bene in favore di un altro soggetto8. Tale onere, dunque, è un peso che grava sul bene (e non sul soggetto come avviene per le obbligazioni reali) consistente nell’obbligo di dare un prestazione periodica a vantaggio 6 Rappresentano per tale motivo una forma anomala di successione nel rapporto obbligatorio dal lato passivo per il fatto che prescindono dal consenso del creditore ceduto. 7 Altri esempi tipici di obbligazioni reali sono quelli disciplinati dagli artt. 888 e 1070 c.c. in tema rispettivamente di spese per la conservazione del muro divisorio e di spese per l’uso e la conservazione della servitù. 8 Secondo parte della dottrina non si rinvengono più nel nostro ordinamento esempi di oneri reali trattandosi di un retaggio di epoche antiche, secondo altri, invece, se ne ravvisano i requisiti sia con riguardo al contributo di bonifica previsto dall’art.860 c.c. sia con riguardo al canone enfiteutico. 4 dell’utilità personale del soggetto creditore (e in questo si distingue dalla servitù prediale che è concepita ai fini dell’utilità del solo fondo prediale). Quest’ultimo, in caso di inadempienza da parte dell’onerato, ha la possibilità di vendere il bene e soddisfarsi sul ricavato con preferenza sugli altri creditori, alla stregua di una vera e propria garanzia reale. Il debitore inadempiente, dunque, risponde in ogni caso nei limiti del valore economico del bene gravato, e non, come nelle obbligazioni propter rem, ai sensi dell’art.2740 c.c. In definitiva, si deve parlare di oneri reali quando oltre al rapporto obbligatorio con l’obbligato (da cui deriva un’azione personale in caso di inadempimento) viene in rilevo anche un rapporto immediato con il bene: res non paersona debet Il carattere ibrido delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali ha posto il problema del loro atteggiarsi sia con riguardo al principio di tipicità, latu sensu inteso, che informa la categoria dei diritti reali, sia con riferimento all’operatività della trascrizione. Tradizionalmente il principio del numero chiuso e quello di tipicità hanno permeato la categoria dei diritti reali: per esigenze di certezza dei traffici giuridici e quindi di tutela dei terzi, ai privati è fatto divieto sia di costituire diritti reali atipici, potendo essi derivare solo dalla legge (principio del numerus clausus), sia di modificare il contenuto di quelli già previsti dal legislatore (principio di tipicità). Nonostante negli altri settori del diritto civile, soprattutto nell’ambito dei contratti e delle obbligazioni, si sia assistito ad una significativa evoluzione nel senso della valorizzazione dell’autonomia contrattuale e dunque del potere delle parti di autoregolamentare i propri interessi9, quando si entra nell’ambito dei diritti reali tale evoluzione si arresta. Le ragioni che sostengono l’atteggiamento “garantista” della giurisprudenza, ma anche di parte della dottrina, sul punto ruotano tutte attorno alla necessità di garantire, appunto, la corretta circolazione e commerciabilità dei beni e dunque della ricchezza immobiliare10. Consentire la creazione in via negoziale di diritti reali atipici, avrebbe significato consentire ai privati la creazione di nuove limitazioni al diritto di proprietà, nuove figure di iura in re aliena con la conseguenza che i potenziali acquirenti non sarebbero in grado di accertare l’esistenza di eventuali pesi sul bene che intendono comprare, né di valutare i rischi dell’operazione; così come i creditori non sarebbero in grado di valutare se il bene dato in garanzia sia idoneo a soddisfare in modo adeguato le loro pretese. Se dunque l’autonomia contrattuale, nell’ambito di un mutato assetto ideologico volto ad assecondare le nuove esigenze economiche e dei traffici commerciali, trova un fondamento Costituzionale nell’art.41 della Costituzione, così che solo di fronte ad interessi di pari grado può soccombere, i principi del numero chiuso e della tipicità trovano analogo fondamento costituzionale che giustifica la loro permanenza a scapito dell’autonomia negoziale: le esigenze di tutela dei terzi e la sicurezza dei traffici giuridici 9 Vedi amplius Coordinate Ermeneutiche di diritto civile, Maurizio Santise, Giappichelli Editore, 2016 Parte VII Cap.1 pag.439 Sull’argomento Coordinate Ermeneutiche di diritto civile, Maurizio Santise, Giappichelli Editore, 2016, Parte V cap.1 pag.263 10 5 Tuttavia, non si può negare che tali principi, sebbene non abbiano subito un vero e proprio superamento, si siano quanto meno adattati alle nuove esigenze. Da un lato, sul fronte del principio del numerus clausus, parte della dottrina, sebbene di gran lunga minoritaria, ritiene applicabile anche al mondo dei diritti reali l’art.1322 c.c. così che le parti possono creare diritti reali atipici purchè perseguano un interesse meritevole di tutela e che tale interesse abbia un valore sociale equivalente al principio di cui all’art.41 della Costituzione. Dall’altro lato si ammette, in verità con maggiore favore, che le parti possano modificare o innovare il contenuto dei diritti reali di origine legale, a patto che ne siano rispettati i caratteri fondamentali, e dunque il nocciolo duro della disciplina tipica, attenuando così di gran lunga la vigenza del principio di tipicità strictu sensu inteso. Spetterà all’interprete valutare se l’intervento modificatore in via convenzionale delle parti abbia lasciato inalterato i caratteri salienti del diritto reale ovvero ne abbia travalicato i confini, facendo sorgere un mero rapporto obbligatorio. In proposito la Corte di Cassazione, proprio in materia di servitù prediali, ha statuito che “è consentito alle parti sottrarsi alla regola della tipicità dei diritti reali su cose altrui, attraverso la costituzione di rapporti meramente obbligatori11”. Il superamento tout court del principio di tipicità dei diritti reali, del resto, avrebbe comportato considerevoli difficoltà con riguardo alla disciplina della trascrizione: l’art.2643 c.c. individua in modo tassativo gli atti suscettibili di trascrizione, per cui gli eventuali diritti reali atipici di creazione convenzionale non sarebbero trascrivibili e in quanto tali rimarrebbero irrisolti gli eventuali conflitti tra diversi aventi causa. Riprendendo le fila del discorso e dovendo verificare se il principio di tipicità, inteso in senso ampio, possa estendersi anche alle obbligazioni propter rem e agli oneri reali, si deve osservare una certa unanimità di opinioni nel senso di considerare sia le obbligazioni che gli oneri reali avvinti dal requisito della tipicità: la relazione con il bene è tale da rendere valide anche per loro le ragioni che sostengono il principio di tipicità con riferimento ai diritti reali. A tale proposito la Corte di Cassazione si esprime nel senso che “le obbligazioni propter rem (e gli oneri reali), oltre che dalla accessorietà e dalla ambulatorietà dal lato soggettivo passivo, sono caratterizzate, al pari dei diritti reali, dal requisito della tipicità, con la conseguenza che non possono essere liberamente costituite dall'autonomia privata, ma sono ammissibili soltanto quando una norma giuridica consente che in relazione ad un determinato diritto reale e in considerazione di esigenze permanenti di collaborazione e di tutela di interessi generali il soggetto si obblighi ad una prestazione accessoria, che può consistere anche in un facere”12. La valorizzazione della stretta relazione con il bene e quindi dell’elemento di realità, tuttavia, non è tale da aprire la strada verso la trascrizione delle obbligazioni propter rem né degli oneri reali: riemerge, sotto questo profilo, il loro carattere obbligatorio. 11 12 Cfr. Cass.n.2651/2010 Cfr. Cass.n.8/1997 6 Soprattutto con riguardo alle obbligazioni propter rem, come evidenziato, si tratta di un obbligo che ricade sulla persona del debitore, per cui si origina un rapporto obbligatorio tra due soggetti che in quanto tale non è trascrivibile. Secondo i principi generali sono soggetti a trascrizione i contratti traslativi della proprietà di beni immobili e i contratti che costituiscono o modificano un diritto reale immobiliare di godimento. Di qui il carattere tassativo dell’art.2643 c.c. che individua gli atti soggetti a trascrizione. Non sono trascrivibili, dunque, i contratti ad effetti obbligatori. Tanto è vero ciò che quando il legislatore ha avvertito la necessità, per la peculiarità della fattispecie, che un contratto ad effetti obbligatori fosse trascritto, lo ha previsto espressamente, come ha fatto, ad esempio, nel caso del contratto preliminare (art.2645bis c.c.). Nonostante ciò, non è mancato chi in dottrina ha sostenuto, valorizzando l’osmotica relazione con il bene, la trascrivibilità degli oneri reali: l’art.2645 c.c. prevede che la trascrizione con i suoi effetti possa operare anche per quell’atto che produce in relazione ai diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’articolo 2643c.c.; si è detto, a tale proposito, che la tassatività in tema di trascrizione riguardi, piuttosto, gli effetti e non i singoli atti menzionati dalla norma. Ne deriva che, secondo tale dottrina, il regolamento contrattuale nella parte in cui contiene clausole limitative del diritto di proprietà dei condomini potrebbe assimilarsi, quod effectum, ai contratti previsti dal n.4) dell’art.2643 c.c., tra cui rientrano, non a caso, le servitù prediali. Del resto, dalla lettura dell’art.1027 c.c., anche le servitù prediali, come gli oneri reali, rappresentano un peso gravante su un bene, e più in particolare, un peso imposto sopra un fondo (cd. servente) per l’utilità di un altro fondo appartenente ad un diverso proprietario (cd. dominante). La servitù è un diritto reale di godimento che può trovare la sua fonte nelle legge, in un atto dell’autorità amministrativa, in una sentenza, e anche nel contratto; spetta ad un soggetto in quanto proprietario di un fondo e consiste nel diritto o di realizzare un’attività tramite il fondo servente ovvero di proibire qualcosa al proprietario di quel fondo, il quale per tale via subisce una compressione delle sue facoltà di godimento (cd.servitù negative). Il diritto di servitù presenta tutte le caratteristiche della realità: l’inerenza, ovvero l’attitudine della servitù a seguire il fondo servente presso tutti i successivi proprietari; l’assolutezza e dunque la possibilità per il titolare di far valere il diritto erga omnes; l’immediatezza per cui il titolare ha il potere di esercitare il diritto senza l’intermediazione del proprietario del fondo servente. Invero quest’ultimo requisito risulta un po’ sbiadito con riguardo alle servitù negative, le quali si risolvono in uno ius prohibendi da parte del proprietario del fondo dominante al proprietario di quello servente: in questi casi, secondo una parte della dottrina, si dovrebbe più correttamente parlare, non di servitù, bensì di obbligazione negativa con carattere di realità. 7 Anche il principio di tipicità informa, in quanto diritto reale, il diritto di servitù, sebbene esso si atteggi, a tale riguardo, in modo peculiare. La definizione di cui all’art.1027 c.c. disciplina il modello legale di servitù che consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a un diverso proprietario: la giurisprudenza unanime ha ritenuto che una volta rispettato tale modello legale, le parti sono libere di riempirlo di qualsivoglia contenuto. Ciò che il legislatore disciplina non sono i singoli tipi di servitù, bensì la categoria generale delle servitù. Nello stesso modo in cui è tipico il diritto di proprietà, il cui contenuto differisce a seconda dell’oggetto, così pure è tipica la categoria delle servitù13. Del resto sarebbe stata inesigibile la tassativa elencazione da parte del legislatore di tutti i possibili tipi di servitù, considerato che nell’ambito dei rapporti reali si possono riscontrare una serie variegata di tipi di servitù tutti rientranti nello schema generale dell’art.1027 c.c. Ciò non toglie che quando le parti, nell’esercizio dell’autonomia negoziale deviano dal modello legale, mutandone i connotati essenziali, il principio di tipicità riemerge con tutta la sua forza, facendo perdere a quel diritto i connotati della realità; si realizza cioè una trasposizione dal piano della realità a quello obbligatorio, con tutto ciò che ne deriva in termini di strumenti di tutela e dunque di trascrivibilità. È quello che accade quando i diritti incidenti sul godimento del fondo sono posti a vantaggio non del fondo dominante, bensì del titolare di quel fondo. In questo caso non si versa più nell’ambito delle servitù, ma si tratta di semplici obbligazioni personali non trasmissibili al successivo proprietario del fondo con la vendita del bene; si parla, a tale proposito, di servitù irregolari. Non sono travalicati, invece, i confini del modello legale qualora il vincolo che lega il fondo dominante e quello servente sia concepito come reciproco, ovvero posto tra due fondi a reciproco vantaggio: in questo caso ciascuno dei due fondi risulta, al contempo, fondo servente rispetto ad una servitù e dominante rispetto all’altra. Le servitù reciproche mantengono in ogni caso la loro autonomia. Trattandosi di un diritto reale di godimento, l’atto con cui si costituisce una servitù rientra negli atti soggetti a trascrizione ai sensi dell’art.2643 c.c. n.4), per cui ai fini dell’opponibilità di tale diritto, limitativo del diritto altrui, ai terzi acquirenti si rende necessario assolvere all’onere pubblicitario. Così delineati i tratti salienti degli istituti coinvolti, occorre analizzare il contenuto del peso imposto dal regolamento condominiale sulle proprietà esclusive dei singoli condomini: a seconda della tipologia di clausola e dunque delle formule impiegate dai regolamenti deve essere identificato il tipo di rapporto che ne deriva. Così che “possono costituirsi pesi a carico dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva a vantaggio di altre unità abitative, con restringimento e ampliamento dei poteri dei rispettivi proprietari, possono imporsi prestazioni positive a carico dei medesimi e a favore degli altri condomini, ovvero possono limitarsi l’esercizio o il godimento dei diritti del proprietario. Nel 13 Cfr. Cass. n.3749/1999 8 primo caso è configurabile un diritto di servitù, trascrivibile nei registri immobiliari; nel secondo un onere reale e nel terzo un’obbligazione propter rem, non trascrivibile”14 Nel caso di specie si è chiamati ad analizzare la clausola del regolamento contrattuale implicante il divieto per i condomini di destinare l’unità immobiliare ad una determinata attività (nella specie si trattava del divieto di destinazione dell’immobile a bed and breakfast o affittacamere). La limitazione del diritto del condomino attinente alla destinazione d’uso dell’immobile di proprietà si concretizza in un non facere o comunque in un pati analogamente a quanto accade, come ravvisto in precedenza, per le obbligationi propter rem e per le servitù. Già solo per il contenuto dell’obbligo, dunque, bisogna escludere che tali clausole siano riconducibili alla categoria degli oneri reali che per definizione consistono solo ed esclusivamente in un obbligo di dare e dunque in prestazioni positive a carico dei proprietari. La propensione per l’una o per l’altra delle due categorie rimanenti passa attraverso la verifica del se il peso così concepito gravi sul bene di proprietà esclusiva piuttosto che sulla persona del condomino, configurandosi nel primo caso una servitù, nel secondo un’obbligazione propter rem Sul punto si sono confrontati due orientamenti contrastanti. 3. L’orientamento giurisprudenziale consolidato Secondo un orientamento, prevalente in giurisprudenza, le clausole regolamentari volte ad impedire una determinata destinazione d’uso dell’immobile danno vita ad obbligazioni propter rem. Si legge in una pronuncia che aderisce a tale orientamento che “la semplice limitazione al godimento degli immobili, senza la determinazione di un peso di prestazioni positive, non raffigura né una servitù, né un onere reale…il divieto di svolgere una determinata attività negli appartamenti costituisce un rapporto obbligatorio reale di non facere ; precisamente, una obbligazione propter rem con contenuto negativo, di non conferire all’immobile una certa destinazione”15. La pronuncia in parola sembra, dunque, aderire a quell’impostazione dottrinale che riconduce, come sopra evidenziato, le servitù negative nel campo delle obbligazioni, sebbene reali, per il solo fatto che risulta attenuato il requisito dell’immediatezza. A sostegno delle sue conclusioni la Corte adduce l’assenza, nelle clausole di cui si discute, del connotato tipico della servitù: la soggezione di un bene, in questo caso l’immobile, a vantaggio di un altro immobile. Per costituire una vera e propria servitù sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva a vantaggio delle altre unità abitative, secondo la Corte, il regolamento contrattuale di condominio deve prefigurare da un lato un vincolo di soggezione, un peso sugli appartamenti gravati e, dall’altro, un 14 15 Cass.n.3749/1999 Cfr. Cass. n. 11684/2000 9 vantaggio, un ampliamento dei poteri dei proprietari degli immobili beneficiari; tale vincolo, non si configura nel caso di clausole regolamentari incidenti sulla destinazione d’uso degli immobili. Si tratterebbe piuttosto di una previsione concepita nell’interesse e a vantaggio dei condomini che ne beneficiano. Sulla stessa scia si pongono varie pronunce di legittimità16 per le quali l’obbligo dei condomini di non eseguire sul piano di proprietà esclusiva attività che rechino fastidio ai condomini ha i connotati dell’obbligazione reale, trattandosi di un obbligo di non facere, collegato ad un bene, ma che ricade in capo al condomino obbligato. Con la conseguenza che non essendo una servitù, la violazione di tale obbligo, anche se protratta per venti anni, non determina l’estinzione del diritto degli altri condomini, come avviene nel caso dei diritti reali limitati, ad esigere l’osservanza del divieto. Del resto, secondo l’opinione in parola, il divieto di cui si discute non potrebbe, in ogni caso, dare vita ad un’ipotesi di servitù reciproca: stante il principio “nemini res sua servit” , la servitù non può costituirsi su cosa propria. All’obiezione secondo cui per il principio della tipicità dei diritti reali, alle parti non sarebbe consentito creare in via convenzionale, e dunque per il tramite del regolamento condominiale, nuove ipotesi di le obbligationi propter rem, la dottrina in parola evidenzia che l’applicazione del principio di tipicità non sempre comporta un’assoluta e incondizionata limitazione dell’autonomia negoziale: laddove sia funzionale al raggiungimento di un’utilità generale che trascende l’interesse del singolo, come potrebbe essere l’utilità connessa ad una migliore utilizzazione delle parti comuni dell’edificio, la creazione di un’ipotesi atipica di obbligazione propter rem sarebbe legittima ai sensi dell’art.1322 c.c. e 42 Cost. Si è allineata a questo pensiero anche una recente sentenza della Corte di Cassazione del 28 settembre 2016 n. 19212. Secondo il ragionamento della Corte la clausola limitativa del diritto di proprietà dei condomini costituisce una obbligazione propter rem e in quanto tale, sebbene non trascrivibile, astrattamente idonea a vincolare i successivi aventi causa del proprietario stipulante. Di conseguenza, ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti, è sufficiente la mera indicazione del regolamento condominiale nell’atto di acquisto. Interviene a mescolare le carte la pronuncia della Corte di Cassazione del 18 ottobre 2016, n.20124 4. La pronuncia della Corte di Cassazione n.21021/2016 In disarmonia con l’orientamento giurisprudenziale consolidato la Corte, nella pronuncia in commento, qualifica le clausole regolamentari di natura contrattuale che impongono limiti alla proprietà privata come servitù reciproche e non come obbligazioni reali. 16 Crf. Cass. n.15763/2004; Cass. 16 ottobre 1999 10 Il riferimento alle servitù appare, secondo la Corte, maggiormente confacente atteso che il peso imposto sulla res dalla clausola limitativa incide, sull’esercizio del diritto, menomandone la possibilità di godimento. Che si tratti di servitù e non di obbligazione reale passa attraverso la considerazione che il peso imposto è funzionale ad un’utilitas reciproca tra le unità immobiliari coinvolte. La limitazione dunque è inerente al bene e il fatto che lo sia in maniera reciproca tra le unità immobiliari coinvolte esclude a monte la possibilità che si possa trattare di un’obbligazione: la reciprocità, così intesa, è incompatibile con lo schema obbligatorio. Si legge nella pronuncia che “la reciprocità ove riferita alle obbligazioni comporta che ciascun soggetto del rapporto assume ad un tempo entrambe le posizioni, debitoria e creditoria, in virtù di una causa di scambio, la quale a sua volta ha ad oggetto delle utilità differenti. Pertanto, non vi può essere obbligazione reciproca quando ciascuno debba all’altro un uguale speculare a quello cui questi è tenuto verso di lui”, come avviene nelle servitù reciproche. Inoltre, per la Corte la configurabilità di un’obbligazione reale è subordinata alla presenza del presupposto dell’agere necesse volto a soddisfare il corrispondente interesse creditorio, interesse che nella specie non è configurabile. O meglio, nella pronuncia si legge che il fatto che dalla limitazione derivi un vantaggio che soddisfa per lo più un interesse personale, e non già quella dei fondi, (rectius immobili) non fa venire meno il carattere reale del peso. Prima facie l’affermazione della Corte sembrerebbe dare la stura all’ammissibilità di servitù atipiche, perchè a vantaggio della persona e non della res, aventi carattere reale, in spegio al principio di tipicità. A bene vedere, volendo interpretare la pronuncia in parola in maniera conforme ai principi generali in tema di diritti reali, si deve ritenere che la Corte abbia voluto intendere che ferma la configurabilità di un’utilitas funzionale al migliore godimento delle parti comuni dell’edificio, e dunque a vantaggio reciproco di tutte le unità immobiliari, per l’utilità generale dell’intero edificio, il fatto che ne derivi anche il soddisfacimento di un interesse attinente alla sfera personale dei condomini non incide sulla realità del peso. Del resto si tratta di una conseguenza comune a tutte le servitù di carattere negativo (servitus altius non tollendi ovvero inaedificandi), senza che se ne debba, per ciò solo, mettere in discussione il carattere di diritto reale. Non osta a tali conclusioni il principio per cui è giuridicamente impossibile che una servitù sussista tra due fondi appartenenti al medesimo proprietario non potendosi riunire in capo alla medesima persona posizioni contrapposte (nemini res sua servit): nel condominio di edifici non sussiste l’identità delle posizioni soggettive, dovendosi distinguere tra la posizione del soggetto come proprietario e come comproprietario. La possibilità di costituire servitù prediali sulla proprietà condominiale esclusiva a vantaggio delle parti comuni dell’edificio passa attraverso la considerazione che il condomino proprietario dell’immobile servente e comproprietario di quello dominante. Trattandosi di una servitù prediale, il regolamento condominiale di origine convenzionale, ai fini dell’opponibilità erga omnes delle clausole ivi contenute dovrà essere trascritto ai sensi dell’art.2643 n. 4. A tale proposito la Corte, nella pronuncia in commento, sostiene che a tal fine non è sufficiente indicare nella nota di trascrizione il regolamento medesimo, ma ai sensi dell’art. 11 2659 co1, n.2 e 2665 c.c. occorre indicarne le specifiche clausole limitative: affinchè si producano gli effetti della trascrizione è necessaria la completezza della nota, sia dal punto di vista soggettivo, che da quello oggettivo, nel senso che la stessa deve indicare il contenuto essenziale del titolo di cui si chiede la trascrizione e menzionare con chiarezza i negozi giuridici cu si vuole dare pubblicità. Un’incertezza vertente su siffatti elementi non può essere sanata, poiché l’effetto della trascrizione di rendere opponibile l’atto ai terzi si raggiunge solo laddove questi siano messi nella condizione di identificare correttamente l’oggetto della trascrizione, in ossequio non solo al principio di pubblicità, ma anche di correttezza e buona fede. 5. Riflessioni conclusive La pronuncia in commento si pone in totale disaccordo con le posizioni che la giurisprudenza di legittimità aveva, nel tempo, assunto sul tema; non per questo le conclusioni a cui giunge non sono condivisibili. Non si può tacere, infatti, che l’orientamento contrario, seppur consolidato, si fondi su premesse incerte, concependo un’ipotesi di obbligazione propter rem al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, forzando in maniera eccessiva il principio di tipicità, ancora solido nell’ambito dei diritti reali. Sarebbe opportuno allora un intervento chiarificatore della Corte di Cassazione riunita nel suo Supremo Consesso anche in considerazione dell’impatto sociale che la problematica riscuote, non fosse altro che per la frequenza di simili clausole limitative nei regolamenti condominiali. 12