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La clausole regolamentari limitative della proprietà esclusiva dei
condomini tra obbligazioni propter rem, oneri reali e servitù atipiche
Nota a Cass. II sez. civile n.21021/2016 Pres. E. Migliucci Est. F.Manna
di Andreina Mazzariello
SOMMARIO 1. Il caso 2. La quaestio iuris 3. L’orientamento giurisprudenziale consolidato
4.La pronuncia della Corte di Cassazione n.21021/2016 5. Riflessioni conclusive
1.Il caso
Dinanzi al Tribunale di Palermo veniva impugnata una delibera condominiale, lamentando,
i condomini, che con tale delibera si era provveduto ad integrare il regolamento
condominiale con una clausola limitativa dei diritti di proprietà esclusiva dei singoli
condomini, senza che l’approvazione fosse avvenuta all’unanimità. La clausola in parola,
infatti, faceva divieto di destinare le unità di proprietà esclusiva ad attività quali casefamiglia, bed and breakfast, pensioni, alberghi o affittacamere.
Resisteva il condominio facendo leva sulla circostanza che la delibera si era limitata a
reintrodurre, nel regolamento vigente, un precedente divieto già contenuto nel regolamento
condominiale originario andato perduto, e che perciò il divieto in parola era in ogni caso
opponibile a tutti i condomini, a prescindere dal fatto che la delibera non fosse stata
approvata all’unanimità.
Il giudizio viveva di vicende alterne essendo stata la domanda accolta in primo grado ma
rigettata in appello; in sede di legittimità i condomini ricorrenti insistevano nel sostenere
che, in assenza di trascrizione dell’originario regolamento, le clausole limitative in esso
contenute diventavano inopponibili nei confronti dei successivi acquirenti delle singole
unità abitative, mancando nei rispettivi atti di acquisto il richiamo a quel regolamento e
quindi alle clausole limitative.
La Corte di Cassazione veniva, dunque, chiamata a statuire in ordine all’opponibilità
delle clausole regolamentari, volte ad imporre limiti alle proprietà esclusive, nei
confronti degli stessi proprietari dei piani o porzioni di piano dell’edificio in comune
ovvero nei confronti dei terzi aventi causa dai singoli condomini.
2. La quaestio iuris
La disamina del profilo dell’opponibilità del regolamento condominiale coinvolge la più
ampia problematica della qualificazione giuridica delle clausole limitative della
proprietà individuale dei singoli condomini.
È ben pacifico che siffatte limitazioni possono essere introdotte, oltre che negli atti di
acquisto anche con il regolamento di condominio1
1
Cass. 21 maggio 1997 n. 4509
1
Occorre, a questo punto, premettere che esistono due tipi di regolamento
condominiale: quello assembleare approvato con le maggioranze di cui all’art.1136 c.c.
comma 2, che contiene le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese
secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino. Si tratta di un regolamento a
rilevanza interna che non può in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino,
come risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, né può derogare il nucleo
sostanziale dei diritti dei partecipanti sulle cose comuni disciplinati dagli artt.1118 e ss.
c.c.
Proprio da tale statuizione, sancita dal quarto comma dell’art.1138 c.c, si fa derivare
l’impossibilità ad opera del regolamento assembleare, e quindi con una deliberazione
approvata con un numero di voti che rappresentino la metà più uno degli intervenuti e
quanto meno la metà del valore dell’edificio (art.1136 co2 c.c.), di limitare i diritti dei
condomini, soprattutto se incidenti sulle proprietà esclusive; una simile limitazione
richiederebbe l’approvazione del regolamento all’unanimità dei partecipanti al condominio.
Al regolamento assembleare, in virtù di un esplicito richiamo alla norma sulla comunione,
si applica l’art.1107 c.c., per cui esso può essere impugnato da parte dei condomini
dissenzienti, con la conseguenza che,
decorso invano il termine previsto per
l’impugnazione, le statuizioni del regolamento si estendono anche agli eredi e agli aventi
causa dei singoli partecipanti, risultando a questi ultimi, dunque, direttamente opponibili.
Dal regolamento assembleare si distingue il regolamento contrattuale sia dal punto di vista
del contenuto sia con riguardo alla modalità di formazione.
Il regolamento contrattuale è lo strumento attraverso cui sovente si introducono
clausole che impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini
sulle parti di loro esclusiva proprietà ovvero con cui si ampliano i diritti di alcuni
condomini in danno di altri.
Le norme regolamentari che incidono sulla utilizzabilità e la destinazione delle
dell’edificio di proprietà esclusive, essendo atti dispositivi del diritto di proprietà,
carattere convenzionale; ne deriva che l’approvazione con delibera assembleare
norme e dunque di questo tipo di regolamento deve avvenire con il consenso di
condomini e non già con la semplice maggioranza di cui all’art.1136 co2
diversamente si tratterebbe di delibere nulle perché eccedenti i limiti dei
dell’assemblea condominiale2.
parti
hanno
di tali
tutti i
c.c.c.;
poteri
Lo stesso dicasi per tutte le successive modifiche dello stesso, del resto avendogli
riconosciuto natura convenzionale il regolamento sortisce la medesima efficacia del
contratto producendo effetti solo tra le parti (art.1372 c.c.)
2
Cfr. Cass. 9 luglio 1994 n. 6501 così massimata: “Le norme dei regolamenti che investono i poteri e le facoltà che i singoli condomini
hanno, "iure domini", sulle loro parti esclusive, restringendo in tal modo, nell'interesse comune, il contenuto del loro diritto di
proprietà sulle parti stesse, debbono assumere carattere convenzionale nel senso che, se precostituite, debbono essere accettate dai
condomini nei contratti di acquisto o, con separati atti esprimenti la volontà di accettare, se deliberate dall'assemblea dei
condomini”
2
Invero, spesso e volentieri il regolamento contrattuale viene predisposto dal
proprietario originario dell’edificio ovvero dal suo costruttore e viene allegato all’atto
di vendita dei singoli appartamenti ovvero semplicemente richiamato nello stesso.
L’allegazione fisica del regolamento contrattuale all’atto di compravendita, così come il
mero richiamo ad esso, implicano conoscenza e dunque accettazione delle clausole in esso
contenute da parte degli acquirenti, con la conseguenza che il regolamento contrattuale
sarà vincolante e dunque opponibile a tutti i neo condomini3, nonché a tutti i
successivi acquirenti dei piani o porzioni di piani, qualora dall’atto d’acquisto risulti,
anche attraverso il mero richiamo, il regolamento contrattuale; e ciò, secondo la
giurisprudenza di legittimità, anche indipendentemente dalla trascrizione nell’atto di
acquisito4.
La trascrizione, infatti, in disparte le ipotesi in cui svolge funzione di pubblicità-notizia
oppure funzioni costitutive, ha il compito di risolvere i conflitti tra diritti reciprocamente
incompatibili, facendo prevalere quello il cui atto di acquisito è stato trascritto per primo
nel registro immobiliare.
Quando dall’atto di compravendita del piano o della porzione di piano del condominio
risulti richiamata, in maniera chiara ed esplicita, la clausola limitativa della proprietà, così
che l’acquirente acquista la proprietà già limitata, non si verifica alcun conflitto che la
trascrizione debba risolvere, e la clausola limitativa vincolerà, per il solo fatto del richiamo,
il terzo acquirente; non si pone affatto, in questa ipotesi, una questione di opponibilità5.
È del medesimo avviso la pronuncia della Corte di Cassazione in commento.
È ben possibile, tuttavia, che il regolamento condominiale contrattuale e quindi le
clausole limitative dei diritti dei singoli condomini sull’unità immobiliare di proprietà
esclusiva non vengano richiamate nei successivi atti di compravendita dei piani o
porzioni di piani del condominio: in tali casi la possibilità che gli acquirenti
dall’originario proprietario ovvero gli aventi causa dai singoli condomini rispettino
gli obblighi di fonte regolamentare passa attraverso la questione del se, ed
eventualmente in che modo, tali clausole siano opponibili nei loro confronti.
La risoluzione della questione coinvolge tematiche di più ampio respiro: occorre, infatti, a
tale fine qualificare giuridicamente la previsione del regolamento contrattuale che
fissa limiti al diritto o all’esercizio di esso sulle unità immobiliari in proprietà
esclusiva, per poterne successivamente individuare la disciplina applicabile.
3
In verità il vincolo degli acquirenti nei confronti del venditore non si discute, piuttosto si pone il problema della possibilità da parte
di ciascun proprietario di far valere il regolamento rispetto agli altri proprietari, che nei suoi confronti non si sono obbligati, una
volta che il venditore originario abbia alienato tutti i piani o porzioni di piano e non è più proprietario di nessun edificio. La
ricostruzione più convincente operata dalla giurisprudenza a tale proposito ritiene che “ le clausole contenute nei distinti contratti di
compravendita costituiscono altrettante manifestazioni di adesione, in base alle quali ciascun acquirente assume l’obbligo di
osservare il regolamento. Sempre che il primo atto di vendita costituisca un contratto aperto agli acquirenti successivi e che, nei
susseguenti atti di vendita, i compratori dichiarino di aderire al regolamento richiamato nella prima compravendita...Il
regolamento contrattuale di condominio diventa efficace nei confronti di tutti una volta che l’ultimo acquirente abbia aderito. In
seguito a ciò, diventa regola del condomino”. (Cass. 3749/1999)
4
Cfr. Cass. 17886/2009
5
Cfr. Cass. n.10523/2003; Cass.395/93
3
Le soluzioni che nel tempo si sono alternate in giurisprudenza oscillano tra le
obbligazioni propter rem, gli oneri reali e le servitù reciproche.
Appare evidente che propendere per l’una o per l’altra soluzione comporta risvolti di non
poco momento in ordine alla disciplina concretamente applicabile, soprattutto sotto il
profilo dell’efficacia rispetto agli aventi causa dalle parti stipulanti.
Diviene opportuno, allora, soffermarsi sui caratteri principali di tali istituti giuridici.
Le obbligazioni propter rem e gli oneri reali non possono vantare, a differenza delle servitù,
una espressa definizione codicistica, così che l’elaborazione di entrambe le categorie si deve
agli sforzi suppletivi della dottrina e della giurisprudenza.
Le obbligazioni propter rem o obbligazioni reali rappresentano un vero e proprio
ossimoro del diritto civile ponendosi a metà strada tra i diritti reali e quelli obbligatori. Dei
diritti reali conservano il carattere dell’inerenza trattandosi di obbligazioni che insistono
su un bene, così che il debitore dell’obbligazione reale è individuato in base alla
titolarità del bene su cui l’obbligo insiste: dette obbligazioni si trasferiscono cioè con il
trasferimento della proprietà del bene (cd. obbligazioni ambulatorie)6; tuttavia sono pur
sempre obbligazioni e in quanto tali hanno ad oggetto indifferentemente un obbligo di
dare, di facere o non facere. Laddove, dunque, il debitore risultasse inadempiente
risponderebbe con tutti i suoi beni, presenti e futuri, anche oltre il valore economico del
bene su cui insiste l’obbligazione, e secondo le regole della responsabilità patrimoniale
generica di cui all’art.2740 c.c.
Siamo di fronte, dunque, ad un peso che grava su un soggetto debitore e non su un
bene, atteso che quest’ultimo risulta funzionale esclusivamente all’individuazione del
soggetto tenuto all’obbligazione.
In caso di circolazione del bene sarà l’acquirente il soggetto onerato ad adempiere le
obbligazioni che sono sorte prima dell’atto di trasferimento del bene.
Un esempio pacifico di obbligazione propter rem è quello riguardante le spese per la
conservazione della cosa comune che gravano su ciascun proprietario ai sensi dell’art.1104
c.c., in quanto in caso di alienazione della quota di comproprietà sarà il successivo
comproprietario ad essere tenuto al pagamento delle spese di conservazione7.
L’onere reale, invece, è un peso gravante su un determinato bene che si concretizza
nell’erogazione di una prestazione periodica da parte del proprietario del bene in
favore di un altro soggetto8.
Tale onere, dunque, è un peso che grava sul bene (e non sul soggetto come avviene per le
obbligazioni reali) consistente nell’obbligo di dare un prestazione periodica a vantaggio
6
Rappresentano per tale motivo una forma anomala di successione nel rapporto obbligatorio dal lato passivo per il fatto che
prescindono dal consenso del creditore ceduto.
7
Altri esempi tipici di obbligazioni reali sono quelli disciplinati dagli artt. 888 e 1070 c.c. in tema rispettivamente di spese per la
conservazione del muro divisorio e di spese per l’uso e la conservazione della servitù.
8
Secondo parte della dottrina non si rinvengono più nel nostro ordinamento esempi di oneri reali trattandosi di un retaggio di
epoche antiche, secondo altri, invece, se ne ravvisano i requisiti sia con riguardo al contributo di bonifica previsto dall’art.860 c.c. sia
con riguardo al canone enfiteutico.
4
dell’utilità personale del soggetto creditore (e in questo si distingue dalla servitù prediale
che è concepita ai fini dell’utilità del solo fondo prediale). Quest’ultimo, in caso di
inadempienza da parte dell’onerato, ha la possibilità di vendere il bene e soddisfarsi sul
ricavato con preferenza sugli altri creditori, alla stregua di una vera e propria garanzia
reale. Il debitore inadempiente, dunque, risponde in ogni caso nei limiti del valore
economico del bene gravato, e non, come nelle obbligazioni propter rem, ai sensi
dell’art.2740 c.c.
In definitiva, si deve parlare di oneri reali quando oltre al rapporto obbligatorio con
l’obbligato (da cui deriva un’azione personale in caso di inadempimento) viene in rilevo
anche un rapporto immediato con il bene: res non paersona debet
Il carattere ibrido delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali ha posto il
problema del loro atteggiarsi sia con riguardo al principio di tipicità, latu sensu
inteso, che informa la categoria dei diritti reali, sia con riferimento all’operatività
della trascrizione.
Tradizionalmente il principio del numero chiuso e quello di tipicità hanno permeato la
categoria dei diritti reali: per esigenze di certezza dei traffici giuridici e quindi di tutela dei
terzi, ai privati è fatto divieto sia di costituire diritti reali atipici, potendo essi derivare solo
dalla legge (principio del numerus clausus), sia di modificare il contenuto di quelli già
previsti dal legislatore (principio di tipicità).
Nonostante negli altri settori del diritto civile, soprattutto nell’ambito dei contratti e delle
obbligazioni, si sia assistito ad una significativa evoluzione nel senso della valorizzazione
dell’autonomia contrattuale e dunque del potere delle parti di autoregolamentare i propri
interessi9, quando si entra nell’ambito dei diritti reali tale evoluzione si arresta.
Le ragioni che sostengono l’atteggiamento “garantista” della giurisprudenza, ma anche di
parte della dottrina, sul punto ruotano tutte attorno alla necessità di garantire, appunto, la
corretta circolazione e commerciabilità dei beni e dunque della ricchezza immobiliare10.
Consentire la creazione in via negoziale di diritti reali atipici, avrebbe significato consentire
ai privati la creazione di nuove limitazioni al diritto di proprietà, nuove figure di iura in re
aliena con la conseguenza che i potenziali acquirenti non sarebbero in grado di accertare
l’esistenza di eventuali pesi sul bene che intendono comprare, né di valutare i rischi
dell’operazione; così come i creditori non sarebbero in grado di valutare se il bene dato in
garanzia sia idoneo a soddisfare in modo adeguato le loro pretese.
Se dunque l’autonomia contrattuale, nell’ambito di un mutato assetto ideologico volto ad
assecondare le nuove esigenze economiche e dei traffici commerciali, trova un fondamento
Costituzionale nell’art.41 della Costituzione, così che solo di fronte ad interessi di pari
grado può soccombere, i principi del numero chiuso e della tipicità trovano analogo
fondamento costituzionale che giustifica la loro permanenza a scapito dell’autonomia
negoziale: le esigenze di tutela dei terzi e la sicurezza dei traffici giuridici
9
Vedi amplius Coordinate Ermeneutiche di diritto civile, Maurizio Santise, Giappichelli Editore, 2016 Parte VII Cap.1 pag.439
Sull’argomento Coordinate Ermeneutiche di diritto civile, Maurizio Santise, Giappichelli Editore, 2016, Parte V cap.1 pag.263
10
5
Tuttavia, non si può negare che tali principi, sebbene non abbiano subito un vero e proprio
superamento, si siano quanto meno adattati alle nuove esigenze.
Da un lato, sul fronte del principio del numerus clausus, parte della dottrina, sebbene di
gran lunga minoritaria, ritiene applicabile anche al mondo dei diritti reali l’art.1322 c.c.
così che le parti possono creare diritti reali atipici purchè perseguano un interesse
meritevole di tutela e che tale interesse abbia un valore sociale equivalente al principio di
cui all’art.41 della Costituzione.
Dall’altro lato si ammette, in verità con maggiore favore, che le parti possano modificare o
innovare il contenuto dei diritti reali di origine legale, a patto che ne siano rispettati i
caratteri fondamentali, e dunque il nocciolo duro della disciplina tipica, attenuando così di
gran lunga la vigenza del principio di tipicità strictu sensu inteso.
Spetterà all’interprete valutare se l’intervento modificatore in via convenzionale delle parti
abbia lasciato inalterato i caratteri salienti del diritto reale ovvero ne abbia travalicato i
confini, facendo sorgere un mero rapporto obbligatorio. In proposito la Corte di Cassazione,
proprio in materia di servitù prediali, ha statuito che “è consentito alle parti sottrarsi alla
regola della tipicità dei diritti reali su cose altrui, attraverso la costituzione di rapporti
meramente obbligatori11”.
Il superamento tout court del principio di tipicità dei diritti reali, del resto, avrebbe
comportato considerevoli difficoltà con riguardo alla disciplina della trascrizione: l’art.2643
c.c. individua in modo tassativo gli atti suscettibili di trascrizione, per cui gli eventuali
diritti reali atipici di creazione convenzionale non sarebbero trascrivibili e in quanto tali
rimarrebbero irrisolti gli eventuali conflitti tra diversi aventi causa.
Riprendendo le fila del discorso e dovendo verificare se il principio di tipicità, inteso in
senso ampio, possa estendersi anche alle obbligazioni propter rem e agli oneri reali, si
deve osservare una certa unanimità di opinioni nel senso di considerare sia le
obbligazioni che gli oneri reali avvinti dal requisito della tipicità: la relazione con il
bene è tale da rendere valide anche per loro le ragioni che sostengono il principio di tipicità
con riferimento ai diritti reali.
A tale proposito la Corte di Cassazione si esprime nel senso che “le obbligazioni propter
rem (e gli oneri reali), oltre che dalla accessorietà e dalla ambulatorietà dal lato soggettivo
passivo, sono caratterizzate, al pari dei diritti reali, dal requisito della tipicità, con la
conseguenza che non possono essere liberamente costituite dall'autonomia privata, ma sono
ammissibili soltanto quando una norma giuridica consente che in relazione ad un
determinato diritto reale e in considerazione di esigenze permanenti di collaborazione e di
tutela di interessi generali il soggetto si obblighi ad una prestazione accessoria, che può
consistere anche in un facere”12.
La valorizzazione della stretta relazione con il bene e quindi dell’elemento di realità,
tuttavia, non è tale da aprire la strada verso la trascrizione delle obbligazioni propter rem
né degli oneri reali: riemerge, sotto questo profilo, il loro carattere obbligatorio.
11
12
Cfr. Cass.n.2651/2010
Cfr. Cass.n.8/1997
6
Soprattutto con riguardo alle obbligazioni propter rem, come evidenziato, si tratta di un
obbligo che ricade sulla persona del debitore, per cui si origina un rapporto obbligatorio tra
due soggetti che in quanto tale non è trascrivibile.
Secondo i principi generali sono soggetti a trascrizione i contratti traslativi della proprietà
di beni immobili e i contratti che costituiscono o modificano un diritto reale immobiliare di
godimento. Di qui il carattere tassativo dell’art.2643 c.c. che individua gli atti soggetti a
trascrizione.
Non sono trascrivibili, dunque, i contratti ad effetti obbligatori. Tanto è vero ciò che quando
il legislatore ha avvertito la necessità, per la peculiarità della fattispecie, che un contratto
ad effetti obbligatori fosse trascritto, lo ha previsto espressamente, come ha fatto, ad
esempio, nel caso del contratto preliminare (art.2645bis c.c.).
Nonostante ciò, non è mancato chi in dottrina ha sostenuto, valorizzando l’osmotica
relazione con il bene, la trascrivibilità degli oneri reali: l’art.2645 c.c. prevede che la
trascrizione con i suoi effetti possa operare anche per quell’atto che produce in relazione ai
diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’articolo 2643c.c.; si è
detto, a tale proposito, che la tassatività in tema di trascrizione riguardi, piuttosto, gli
effetti e non i singoli atti menzionati dalla norma.
Ne deriva che, secondo tale dottrina, il regolamento contrattuale nella parte in cui contiene
clausole limitative del diritto di proprietà dei condomini potrebbe assimilarsi, quod
effectum, ai contratti previsti dal n.4) dell’art.2643 c.c., tra cui rientrano, non a caso, le
servitù prediali.
Del resto, dalla lettura dell’art.1027 c.c., anche le servitù prediali, come gli oneri reali,
rappresentano un peso gravante su un bene, e più in particolare, un peso imposto sopra
un fondo (cd. servente) per l’utilità di un altro fondo appartenente ad un diverso
proprietario (cd. dominante).
La servitù è un diritto reale di godimento che può trovare la sua fonte nelle legge, in
un atto dell’autorità amministrativa, in una sentenza, e anche nel contratto; spetta ad un
soggetto in quanto proprietario di un fondo e consiste nel diritto o di realizzare
un’attività tramite il fondo servente ovvero di proibire qualcosa al proprietario di
quel fondo, il quale per tale via subisce una compressione delle sue facoltà di
godimento (cd.servitù negative).
Il diritto di servitù presenta tutte le caratteristiche della realità: l’inerenza, ovvero
l’attitudine della servitù a seguire il fondo servente presso tutti i successivi proprietari;
l’assolutezza e dunque la possibilità per il titolare di far valere il diritto erga omnes;
l’immediatezza per cui il titolare ha il potere di esercitare il diritto senza l’intermediazione
del proprietario del fondo servente. Invero quest’ultimo requisito risulta un po’ sbiadito con
riguardo alle servitù negative, le quali si risolvono in uno ius prohibendi da parte del
proprietario del fondo dominante al proprietario di quello servente: in questi casi, secondo
una parte della dottrina, si dovrebbe più correttamente parlare, non di servitù, bensì di
obbligazione negativa con carattere di realità.
7
Anche il principio di tipicità informa, in quanto diritto reale, il diritto di servitù, sebbene
esso si atteggi, a tale riguardo, in modo peculiare.
La definizione di cui all’art.1027 c.c. disciplina il modello legale di servitù che consiste nel
peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a un diverso
proprietario: la giurisprudenza unanime ha ritenuto che una volta rispettato tale modello
legale, le parti sono libere di riempirlo di qualsivoglia contenuto. Ciò che il legislatore
disciplina non sono i singoli tipi di servitù, bensì la categoria generale delle servitù. Nello
stesso modo in cui è tipico il diritto di proprietà, il cui contenuto differisce a seconda
dell’oggetto, così pure è tipica la categoria delle servitù13. Del resto sarebbe stata
inesigibile la tassativa elencazione da parte del legislatore di tutti i possibili tipi di servitù,
considerato che nell’ambito dei rapporti reali si possono riscontrare una serie variegata di
tipi di servitù tutti rientranti nello schema generale dell’art.1027 c.c.
Ciò non toglie che quando le parti, nell’esercizio dell’autonomia negoziale deviano dal
modello legale, mutandone i connotati essenziali, il principio di tipicità riemerge con tutta
la sua forza, facendo perdere a quel diritto i connotati della realità; si realizza cioè una
trasposizione dal piano della realità a quello obbligatorio, con tutto ciò che ne deriva in
termini di strumenti di tutela e dunque di trascrivibilità.
È quello che accade quando i diritti incidenti sul godimento del fondo sono posti a
vantaggio non del fondo dominante, bensì del titolare di quel fondo. In questo caso non si
versa più nell’ambito delle servitù, ma si tratta di semplici obbligazioni personali non
trasmissibili al successivo proprietario del fondo con la vendita del bene; si parla, a tale
proposito, di servitù irregolari.
Non sono travalicati, invece, i confini del modello legale qualora il vincolo che lega il fondo
dominante e quello servente sia concepito come reciproco, ovvero posto tra due fondi a
reciproco vantaggio: in questo caso ciascuno dei due fondi risulta, al contempo, fondo
servente rispetto ad una servitù e dominante rispetto all’altra. Le servitù reciproche
mantengono in ogni caso la loro autonomia.
Trattandosi di un diritto reale di godimento, l’atto con cui si costituisce una servitù
rientra negli atti soggetti a trascrizione ai sensi dell’art.2643 c.c. n.4), per cui ai fini
dell’opponibilità di tale diritto, limitativo del diritto altrui, ai terzi acquirenti si rende
necessario assolvere all’onere pubblicitario.
Così delineati i tratti salienti degli istituti coinvolti, occorre analizzare il contenuto del
peso imposto dal regolamento condominiale sulle proprietà esclusive dei singoli
condomini: a seconda della tipologia di clausola e dunque delle formule impiegate dai
regolamenti deve essere identificato il tipo di rapporto che ne deriva.
Così che “possono costituirsi pesi a carico dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva a
vantaggio di altre unità abitative, con restringimento e ampliamento dei poteri dei rispettivi
proprietari, possono imporsi prestazioni positive a carico dei medesimi e a favore degli altri
condomini, ovvero possono limitarsi l’esercizio o il godimento dei diritti del proprietario. Nel
13
Cfr. Cass. n.3749/1999
8
primo caso è configurabile un diritto di servitù, trascrivibile nei registri immobiliari; nel
secondo un onere reale e nel terzo un’obbligazione propter rem, non trascrivibile”14
Nel caso di specie si è chiamati ad analizzare la clausola del regolamento
contrattuale implicante il divieto per i condomini di destinare l’unità immobiliare ad
una determinata attività (nella specie si trattava del divieto di destinazione dell’immobile
a bed and breakfast o affittacamere).
La limitazione del diritto del condomino attinente alla destinazione d’uso dell’immobile di
proprietà si concretizza in un non facere o comunque in un pati analogamente a quanto
accade, come ravvisto in precedenza, per le obbligationi propter rem e per le servitù.
Già solo per il contenuto dell’obbligo, dunque, bisogna escludere che tali clausole siano
riconducibili alla categoria degli oneri reali che per definizione consistono solo ed
esclusivamente in un obbligo di dare e dunque in prestazioni positive a carico dei
proprietari.
La propensione per l’una o per l’altra delle due categorie rimanenti passa attraverso
la verifica del se il peso così concepito gravi sul bene di proprietà esclusiva piuttosto
che sulla persona del condomino, configurandosi nel primo caso una servitù, nel
secondo un’obbligazione propter rem
Sul punto si sono confrontati due orientamenti contrastanti.
3. L’orientamento giurisprudenziale consolidato
Secondo un orientamento, prevalente in giurisprudenza, le clausole regolamentari
volte ad impedire una determinata destinazione d’uso dell’immobile danno vita ad
obbligazioni propter rem.
Si legge in una pronuncia che aderisce a tale orientamento che “la semplice limitazione al
godimento degli immobili, senza la determinazione di un peso di prestazioni positive, non
raffigura né una servitù, né un onere reale…il divieto di svolgere una determinata attività
negli appartamenti costituisce un rapporto obbligatorio reale di non facere ; precisamente,
una obbligazione propter rem con contenuto negativo, di non conferire all’immobile una certa
destinazione”15.
La pronuncia in parola sembra, dunque, aderire a quell’impostazione dottrinale che
riconduce, come sopra evidenziato, le servitù negative nel campo delle obbligazioni,
sebbene reali, per il solo fatto che risulta attenuato il requisito dell’immediatezza.
A sostegno delle sue conclusioni la Corte adduce l’assenza, nelle clausole di cui si
discute, del connotato tipico della servitù: la soggezione di un bene, in questo caso
l’immobile, a vantaggio di un altro immobile. Per costituire una vera e propria servitù
sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva a vantaggio delle altre unità abitative,
secondo la Corte, il regolamento contrattuale di condominio deve prefigurare da un
lato un vincolo di soggezione, un peso sugli appartamenti gravati e, dall’altro, un
14
15
Cass.n.3749/1999
Cfr. Cass. n. 11684/2000
9
vantaggio, un ampliamento dei poteri dei proprietari degli immobili beneficiari; tale vincolo,
non si configura nel caso di clausole regolamentari incidenti sulla destinazione d’uso degli
immobili.
Si tratterebbe piuttosto di una previsione concepita nell’interesse e a vantaggio dei
condomini che ne beneficiano.
Sulla stessa scia si pongono varie pronunce di legittimità16 per le quali l’obbligo dei
condomini di non eseguire sul piano di proprietà esclusiva attività che rechino fastidio ai
condomini ha i connotati dell’obbligazione reale, trattandosi di un obbligo di non facere,
collegato ad un bene, ma che ricade in capo al condomino obbligato. Con la conseguenza
che non essendo una servitù, la violazione di tale obbligo, anche se protratta per venti
anni, non determina l’estinzione del diritto degli altri condomini, come avviene nel caso dei
diritti reali limitati, ad esigere l’osservanza del divieto.
Del resto, secondo l’opinione in parola, il divieto di cui si discute non potrebbe, in ogni
caso, dare vita ad un’ipotesi di servitù reciproca: stante il principio “nemini res sua servit” ,
la servitù non può costituirsi su cosa propria.
All’obiezione secondo cui per il principio della tipicità dei diritti reali, alle parti non sarebbe
consentito creare in via convenzionale, e dunque per il tramite del regolamento
condominiale, nuove ipotesi di le obbligationi propter rem, la dottrina in parola evidenzia
che l’applicazione del principio di tipicità non sempre comporta un’assoluta e
incondizionata limitazione dell’autonomia negoziale: laddove sia funzionale al
raggiungimento di un’utilità generale che trascende l’interesse del singolo, come potrebbe
essere l’utilità connessa ad una migliore utilizzazione delle parti comuni dell’edificio, la
creazione di un’ipotesi atipica di obbligazione propter rem sarebbe legittima ai sensi
dell’art.1322 c.c. e 42 Cost.
Si è allineata a questo pensiero anche una recente sentenza della Corte di Cassazione del
28 settembre 2016 n. 19212.
Secondo il ragionamento della Corte la clausola limitativa del diritto di proprietà dei
condomini costituisce una obbligazione propter rem e in quanto tale, sebbene non
trascrivibile, astrattamente idonea a vincolare i successivi aventi causa del proprietario
stipulante. Di conseguenza, ai fini dell’opponibilità ai terzi acquirenti, è sufficiente la
mera indicazione del regolamento condominiale nell’atto di acquisto.
Interviene a mescolare le carte la pronuncia della Corte di Cassazione del 18 ottobre 2016,
n.20124
4. La pronuncia della Corte di Cassazione n.21021/2016
In disarmonia con l’orientamento giurisprudenziale consolidato la Corte, nella pronuncia
in commento, qualifica le clausole regolamentari di natura contrattuale che
impongono limiti alla proprietà privata come servitù reciproche e non come
obbligazioni reali.
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Crf. Cass. n.15763/2004; Cass. 16 ottobre 1999
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Il riferimento alle servitù appare, secondo la Corte, maggiormente confacente atteso che il
peso imposto sulla res dalla clausola limitativa incide, sull’esercizio del diritto,
menomandone la possibilità di godimento. Che si tratti di servitù e non di obbligazione
reale passa attraverso la considerazione che il peso imposto è funzionale ad un’utilitas
reciproca tra le unità immobiliari coinvolte.
La limitazione dunque è inerente al bene e il fatto che lo sia in maniera reciproca tra le
unità immobiliari coinvolte esclude a monte la possibilità che si possa trattare di
un’obbligazione: la reciprocità, così intesa, è incompatibile con lo schema obbligatorio. Si
legge nella pronuncia che “la reciprocità ove riferita alle obbligazioni comporta che ciascun
soggetto del rapporto assume ad un tempo entrambe le posizioni, debitoria e creditoria, in
virtù di una causa di scambio, la quale a sua volta ha ad oggetto delle utilità differenti.
Pertanto, non vi può essere obbligazione reciproca quando ciascuno debba all’altro un uguale
speculare a quello cui questi è tenuto verso di lui”, come avviene nelle servitù reciproche.
Inoltre, per la Corte la configurabilità di un’obbligazione reale è subordinata alla presenza
del presupposto dell’agere necesse volto a soddisfare il corrispondente interesse creditorio,
interesse che nella specie non è configurabile. O meglio, nella pronuncia si legge che il fatto
che dalla limitazione derivi un vantaggio che soddisfa per lo più un interesse personale, e
non già quella dei fondi, (rectius immobili) non fa venire meno il carattere reale del peso.
Prima facie l’affermazione della Corte sembrerebbe dare la stura all’ammissibilità di servitù
atipiche, perchè a vantaggio della persona e non della res, aventi carattere reale, in spegio
al principio di tipicità. A bene vedere, volendo interpretare la pronuncia in parola in
maniera conforme ai principi generali in tema di diritti reali, si deve ritenere che la Corte
abbia voluto intendere che ferma la configurabilità di un’utilitas funzionale al migliore
godimento delle parti comuni dell’edificio, e dunque a vantaggio reciproco di tutte le
unità immobiliari, per l’utilità generale dell’intero edificio, il fatto che ne derivi anche il
soddisfacimento di un interesse attinente alla sfera personale dei condomini non incide
sulla realità del peso. Del resto si tratta di una conseguenza comune a tutte le servitù di
carattere negativo (servitus altius non tollendi ovvero inaedificandi), senza che se ne debba,
per ciò solo, mettere in discussione il carattere di diritto reale.
Non osta a tali conclusioni il principio per cui è giuridicamente impossibile che una servitù
sussista tra due fondi appartenenti al medesimo proprietario non potendosi riunire in capo
alla medesima persona posizioni contrapposte (nemini res sua servit): nel condominio di
edifici non sussiste l’identità delle posizioni soggettive, dovendosi distinguere tra la
posizione del soggetto come proprietario e come comproprietario. La possibilità di costituire
servitù prediali sulla proprietà condominiale esclusiva a vantaggio delle parti comuni
dell’edificio passa attraverso la considerazione che il condomino proprietario dell’immobile
servente e comproprietario di quello dominante.
Trattandosi di una servitù prediale, il regolamento condominiale di origine convenzionale,
ai fini dell’opponibilità erga omnes delle clausole ivi contenute dovrà essere trascritto ai
sensi dell’art.2643 n. 4.
A tale proposito la Corte, nella pronuncia in commento, sostiene che a tal fine non è
sufficiente indicare nella nota di trascrizione il regolamento medesimo, ma ai sensi dell’art.
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2659 co1, n.2 e 2665 c.c. occorre indicarne le specifiche clausole limitative: affinchè si
producano gli effetti della trascrizione è necessaria la completezza della nota, sia dal punto
di vista soggettivo, che da quello oggettivo, nel senso che la stessa deve indicare il
contenuto essenziale del titolo di cui si chiede la trascrizione e menzionare con chiarezza i
negozi giuridici cu si vuole dare pubblicità. Un’incertezza vertente su siffatti elementi non
può essere sanata, poiché l’effetto della trascrizione di rendere opponibile l’atto ai terzi si
raggiunge solo laddove questi siano messi nella condizione di identificare correttamente
l’oggetto della trascrizione, in ossequio non solo al principio di pubblicità, ma anche di
correttezza e buona fede.
5. Riflessioni conclusive
La pronuncia in commento si pone in totale disaccordo con le posizioni che la
giurisprudenza di legittimità aveva, nel tempo, assunto sul tema; non per questo le
conclusioni a cui giunge non sono condivisibili.
Non si può tacere, infatti, che l’orientamento contrario, seppur consolidato, si fondi su
premesse incerte, concependo un’ipotesi di obbligazione propter rem al di fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge, forzando in maniera eccessiva il principio di tipicità,
ancora solido nell’ambito dei diritti reali.
Sarebbe opportuno allora un intervento chiarificatore della Corte di Cassazione riunita nel
suo Supremo Consesso anche in considerazione dell’impatto sociale che la problematica
riscuote, non fosse altro che per la frequenza di simili clausole limitative nei regolamenti
condominiali.
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