museo Pirro Marconi
GUIDA BREVE
a cura di Agata Villa
Museo Pirro Marconi
Coordinamento generale e scientifico
Agata Villa
Depositi temporanei
Museo Archeologico Antonino Salinas
Ideazione
Enrico Caruso, Agata Villa
Video “Il Tempio della Vittoria”
No Real, Torino, regia di Davide Borra
Progetto espositivo e direzione lavori
Enrico Caruso
Modelli del Tempio e della gronda leonina
Eikon, Marsala, di Carola Salvaggio e Emanuele Canzonieri
Responsabile Unico Procedimento
Giuseppe Comparetto
Restauri
Trasmissione al Futuro Conservazione Immagine, Roma,
di Anna Maria Carruba
Coordinamento tecnico e organizzativo, comunicazione
Maria Rosa Panzica
Consulenti scientifici
Nunzio Allegro, Franco D’Angelo, Dieter Mertens, Stefano Vassallo
Collaborazione scientifica
Matteo Valentino
Selezione reperti e immagini, ricerche di archivio, didascalie
Valentina Consoli
Redazione
Nunzio Allegro, Valentina Consoli, Agata Villa
Rilievi, disegni, progettazione grafica, pannellistica,
collaborazione al progetto espositivo
Francesco Scirè
Fotografie, acquisizioni immagini, elaborazioni digitali
Giuseppe Blanda, Salvatore Perdichizzi, Francesco Scirè
Fotografie di archivio
Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Palermo
Museo Archeologico Antonino Salinas, Palermo
Collaborazione al restauro
Manuela Faieta, Laura Pillitteri; Lorenzo De Masi per le fotografie
Calco della coppia di sposi
Paolo Scirpo
Ditta esecutrice dei lavori
Ati Himera, Favara (Agrigento)
Vetrine ed espositori
Wood artigiani del legno, Carini (Palermo)
Traduzioni
Elizabeth Fraser
Stampa materiale divulgativo
Officine Tipografiche Aiello e Provenzano, Bagheria (Palermo)
Hanno collaborato
Anna Maria Fazio, Giuseppe Gargano, Antonio Librizzi,
Grazia Mantia, Maria Martines, Giuseppa Palumbo
e tutto il personale del Parco Archeologico di Himera
Introduzione
Agata Villa Direttore del Parco Archeologico di Himera
Un museo per raccontare l’altra Himera, quella
lambita dal mare e attraversata dal fiume, il sito che
offrì l’approdo ai primi coloni giunti dalla Grecia, il
luogo delle grandi battaglie, delle vittorie e delle
sconfitte, delle fosse comuni, del monumentale
tempio dorico, delle vaste necropoli che noi archeologi
abbiamo violato, sottraendo tuttavia all’oblio migliaia
di individui con le loro storie da narrare… E molte cose
ci raccontano indubbiamente le sepolture e i corredi
che vengono esposti per la prima volta: ci aiutano a
conoscere i costumi funerari, le cause di morte, i
rapporti intessuti con altri centri del Mediterraneo, la
produzione artigianale locale e così via.
All’interno del nuovo museo si può rivivere, attraverso
le immagini del video, una pagina fondamentale della
storia antica: la sanguinosa battaglia del 480 a.C. fra
Greci e Cartaginesi, la successiva edificazione del
Tempio della Vittoria (impresa titanica e grande
esempio di architettura greca che meritava di essere
illustrata), infine la battaglia del 409 a.C. e la
distruzione di Himera.
Questi i temi sviluppati nel nuovo percorso espositivo.
Ed è risultato naturale decidere di intitolare il museo
a Pirro Marconi, lo studioso che non solo ha portato
alla luce l’edificio templare [
Pirro Marconi durante
lo scavo del Tempio della Vittoria (1929-30)], ma ha
segnato l’avvio delle ricerche sistematiche nel sito di
Himera, condotte poi dall’Università e dalla
Soprintendenza di Palermo.
Degli scavi eseguiti nell’area del Tempio, a partire da
quelli di Marconi, non erano mai stati esposti i reperti,
custoditi nei depositi del Parco. Di questi scavi viene
proposta ora un’ampia selezione, in grado di offrire
una visione completa delle fasi di vita che hanno
interessato il Tempio e la zona circostante.
La sezione dedicata all’edificio sacro è stata poi una
preziosa occasione per riprenderne lo studio e
presentare al pubblico una ricca documentazione
relativa all’analisi del monumento e al contesto più
generale dell’architettura dorica coeva.
Il progetto di allestimento del nuovo museo è
divenuto realtà grazie all’eccellente lavoro di squadra
portato avanti con entusiasmo da Enrico Caruso,
Valentina Consoli, Maria Rosa Panzica, Salvatore
Perdichizzi, Francesco Scirè e da chi scrive. Davide
Borra ed Emanuele Canzonieri hanno realizzato con
grande professionalità rispettivamente il video e i
modelli del tempio e della gronda leonina.
Fondamentale è stata la consulenza scientifica
prestata con amichevole cordialità da Nunzio Allegro,
Franco D’Angelo, Dieter Mertens e Stefano Vassallo.
Un grazie sincero va a tutto il personale del Parco per
la disponibilità e la fattiva collaborazione.
5
Himera. Profilo storico archeologico
Nunzio Allegro Università di Palermo
9
La città bassa e le necropoli
Stefano Vassallo Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Palermo
Matteo Valentino Archeologo
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Il Tempio della Vittoria nel contesto
dell’architettura di Stile Severo
Dieter Mertens già Direttore Istituto Archeologico Germanico di Roma
Valentina Consoli Archeologa
21
Rilievo e restituzione grafica del Tempio della Vittoria
Francesco Scirè Architetto
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Buonfornello dal Medioevo agli inizi Novecento
Franco D’Angelo Archeologo medievista
31
Un nuovo museo alla foce dell’Imera
Enrico Caruso Progettista e direttore dei lavori
35
Itinerario di visita del museo e del Tempio della Vittoria
Valentina Consoli Archeologa
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Bibliografia
Himera. Profilo storico archeologico
Nunzio Allegro Università di Palermo
Fondata dai Calcidesi di Zankle nel 648
a.C. sulla riva destra del fiume Imera, la città
occupò un settore della piana costiera (città
bassa) ad Est del fiume e i due terrazzi
retrostanti denominati Piano di Imera e Piano
del Tamburino (città alta). Il Piano di Imera,
sede del santuario poliade di Athena, doveva
costituire l’acropoli della città.
Alla fondazione parteciparono tre gruppi
di coloni guidati da tre ecisti: Eukleidas,
Simos e Sakon. Due erano probabilmente
calcidesi, di Zankle e della madrepatria
Calcide, il terzo era costituito dai Myletidai,
profughi provenienti dalla dorica Siracusa.
Per questo motivo il dialetto parlato ad
Himera era un misto di dorico e ionico;
mentre le istituzioni erano calcidesi (Tucidide,
VI 5,1).
Della città dei coloni fondatori
conosciamo pochi resti di abitazioni sul Piano
di Imera, sufficienti, comunque, per ipotizzare
un impianto urbano per strigas, costituito da
una maglia di isolati orientati NO-SE in cui si
inseriva, all’angolo NE del pianoro, il
santuario di Athena, dove già alla fine del VII
sec. a.C. venne costruito il primo edificio di
culto (Tempio A). Sull’estensione e sulla
struttura della città bassa delle prime
generazioni sappiamo ancora poco, ma è certo
che il settore più vicino alla riva sinistra del
fiume, dove agli inizi del V sec. a.C. sorgerà il
Tempio della Vittoria, era stato occupato dai
primi coloni. E’ probabile che già alla fine del
VII sec. a.C. si fosse sviluppato, sulla riva
opposta del fiume, e certamente in rapporto
con le attività emporiche della città, un
quartiere portuale, di cui gli scavi recenti
hanno portato alla luce resti significativi.
Nei primi decenni del VI sec. a.C. l’abitato
sul Piano di Imera, e forse anche i quartieri in
pianura, subiscono una distruzione violenta:
un evento che non ha lasciato traccia nelle
fonti antiche. La città viene subito dopo
ricostruita, forse con un perimetro più ampio,
che abbracciava anche il Piano del Tamburino
e l’area pianeggiante a Nord di esso. Viene
ridisegnato anche l’impianto urbano: nella
città alta una maglia di isolati larghi m 32 ca,
orientati E-O e separati da strade larghe m
5,60-5,80 ca, sono attraversati da un asse
viario nord-sud largo m 6,20, che doveva
collegare la porta sud della città con il temenos.
5
Anche i limiti del santuario di Athena
vengono ridefiniti in relazione alla nuova
struttura urbana. Sulle rovine del Tempio A
viene costruito un tempio più grande e
monumentale, il Tempio B, dotato di
terrecotte architettoniche policrome e di un
fregio in terracotta con la rappresentazione
delle fatiche di Erakle, l’eroe greco che per
primo, secondo la tradizione, aveva
attraversato il territorio di Himera (Diodoro
IV 23,1; V 3). Nel corso del VI sec. a.C. a
Nord e a Sud del Tempio B vennero costruiti
due sacelli di minori dimensioni (Tempio C e
Tempio D) e lungo i lati nord ed ovest del
temenos due stoai.
La ricostruzione interessò anche la parte
bassa della città e il quartiere portuale alla foce
del fiume Imera. La nuova struttura era un
impianto per strigas con isolati larghi m 42 ca,
orientati nord-sud e separati da strade larghe
m 6,20 ca. Un grande asse viario est-ovest
(plateia) doveva limitare a Nord l’agora;
un’altra plateia est-ovest doveva attraversare
l’abitato più a Sud.
Sulla storia di Himera in età arcaica
abbiamo poche notizie. La città avrebbe dato i
natali a Stesicoro, il più grande lirico
dell’Occidente greco, vissuto negli anni della
tirannide dell’akragantino Falaride, al quale la
tradizione attribuisce la mira al dominio su
Himera. Tra la fine del VI e gli inizi del V sec.
a.C. Himera è retta dal tiranno Terillo ed è
inserita in una rete di relazioni “tirreniche”
che comprende le città dello stretto, Zankle e
Rhegion, allora sotto la tirannide di Anassilao,
e Cartagine. La cacciata di Terillo da parte del
tiranno akragantino Terone intorno al 483 a.C.
(Erodoto VII, 165) determina l’intervento
militare di Cartagine che, nel 480 a.C., assedia
Himera. La vittoria, che darà una svolta
epocale alla storia dei Greci d’Occidente,
arride ai tiranni di Akragas e di Siracusa
(Erodoto VII, 167; Diodoro XI 20, 3 ss.), e
sancisce il dominio akragantino sulla città, ora
governata da Trasideo, figlio di Terone
(Diodoro XI 48, 4-8).
Nel 476 a.C. gli Imeresi si ribellano al
dominio di Trasideo e Terone mette a ferro e a
fuoco la città, causandone un forte
depauperamento demografico, tant’è vero che
chiama a ripopolarla 10.000 coloni dori
provenienti dalle città della madrepatria
(Diodoro XI 49, 3 ss.), tra cui Ergotele di
Cnossos, celebrato da Pindaro per la sua
vittoria nella corsa a Olimpia (Pindaro,
Olimpiche XII). Ma pochi anni dopo, nel 472
a.C., muore Terone e gli Imeresi, con l’aiuto
dei Siracusani, si liberano della tirannide di
Trasideo.
Gli anni della dominazione akragantina
sono anni tormentati, che hanno lasciato
tracce palesi nell’abitato, dove è ben
riconoscibile un’intensa attività di
ristrutturazione delle case, a seguito delle
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distruzioni provocate dalla repressione di
Terone e dei frequenti cambiamenti di
proprietà determinati dall’arrivo dei nuovi
coloni. E se è vero che dopo la vittoria sui
Cartaginesi venne eretto a Himera il Tempio
della Vittoria, è pur vero che questo
monumentale edificio, del tutto estraneo alla
cultura architettonica della colonia calcidese,
venne costruito per celebrare la vittoria dei
tiranni di Akragas e di Siracusa.
Nonostante il periodo travagliato seguito
alla battaglia del 480 a.C., gli Imeresi, liberatisi
dal dominio akragantino e trovata un’intesa
per una convivenza pacifica con i coloni
portati da Terone, risollevano le sorti della
loro città e godono nel corso del V sec. a.C. di
un lungo periodo di prosperità e di pace,
interrotto soltanto da qualche azione militare
ai confini della chora e dal sostegno dato a
Siracusa nell’epico scontro con l’esercito
ateniese nella guerra del
415-413 a.C.
La nuova offensiva militare cartaginese,
iniziata con la distruzione di Selinunte nel 409
a.C., travolge pochi mesi dopo anche Himera
(Diodoro XIII 59, 4 ss; XIII 62, 5) e, dopo
qualche anno, altre importanti città greche
della Sicilia, come Akragas, Gela e Kamarina.
Segni di una distruzione violenta sono ben
evidenti in tutta la città, che non sopravviverà
a questa catastrofe e verrà abbandonata per
sempre. Ai margini di quella che era stata la
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chora di Himera sorgono nuovi insediamenti
che ne ereditano il controllo territoriale:
Thermai ad Ovest, l’erede diretta dell’antica
colonia calcidese, Kephaloidion ad Est e, tra la
media e la bassa valle del fiume Imera, il
centro anonimo di Monte Riparato presso
Caltavuturo.
La città bassa e le necropoli
Stefano Vassallo Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali di Palermo
Matteo Valentino Archeologo
La città bassa
La peculiare conformazione del sito della
colonia di Himera, che occupa in parte la
zona costiera, in parte le colline che la
delimitano a monte, determinò una netta
divisione dell’abitato in due parti, definite,
convenzionalmente, città bassa e città alta.
La città bassa, dove agli inizi del V sec. a.C
venne costruito il Tempio della Vittoria, si
estende per circa 60 ettari sulla pianura
costiera ed era delimitata a Nord dal mare e a
Est dal corso del fiume Imera Settentrionale.
Le ricerche degli ultimi decenni hanno
consentito di riconoscere alcuni degli elementi
più significativi di questo settore dell’abitato,
che probabilmente costituì l’area più vitale e
ricca dell’antica colonia.
Le fortificazioni. All’angolo nord/ovest della
città bassa è stato messo in luce un lungo
tratto della fortificazione, databile tra la
seconda metà del VI e il V secolo a.C. Si
tratta di una solida struttura in blocchi
calcarei ed elevato in mattoni crudi; l’angolo
venne rafforzato, probabilmente nella prima
metà del V secolo, con una torre
quadrangolare.
L’impianto urbanistico. A partire dalla prima
metà del VI sec. a.C., l’abitato della città bassa
fu ristrutturato secondo un ordinato impianto
urbanistico, con strade e isolati orientati in
senso nord/sud e con almeno una grande
strada (plateia) est-ovest. La sistemazione
urbanistica dell’intera area, che comprendeva
anche la città alta, costituisce uno degli esempi
più importanti di pianificazione urbana del
mondo greco arcaico.
L’agorà. A nord/ovest del Tempio della
Vittoria è stata localizzata l’agorà, lo spazio
dove si concentravano le principali attività
politiche, economiche e sociali della colonia.
Le prime indagini hanno accertato che,
almeno sul lato orientale, la piazza era
delimitata da edifici pubblici.
Il fiume. Sul lato orientale la città bassa era
definita dal corso del fiume Imera, sulle cui
sponde, probabilmente in prossimità del
10
tratto finale, si dovevano trovare gli
apprestamenti portuali. La vallata di questo
fiume costituì per Himera anche una via
naturale di penetrazione verso l’entroterra
abitato dalle popolazioni sicane.
Le necropoli
Le necropoli erano ubicate lungo le strade
di ingresso e di uscita dall’abitato, poco al di
fuori delle mura cittadine. Sulla pianura poco
distante dal mare erano situate a Est la
necropoli di Pestavecchia, a Ovest quella di
Buonfornello; entrambe occupavano una
fascia parallela alla spiaggia, probabilmente
lungo la strada costiera. Inoltre, in direzione
Sud, lungo il percorso verso l’entroterra, vi era
una terza necropoli, in località
Scacciapidocchi.
Sono state esplorate oltre 13000 sepolture,
databili tra la seconda metà del VII e la fine
del V sec. a.C. Si tratta di una delle ricerche
più significative e importanti per gli studi sui
costumi funerari delle colonie di Sicilia e
Magna Grecia.
Il paesaggio funerario. La presenza delle
tombe era indicata, in superficie, da
segnacoli di vario tipo: semplici pietre che
sporgevano sul terreno; circoli o rettangoli
di pietre che probabilmente delimitavano
tumuli di terra; piccoli monumenti funerari
[ ]. Tutti questi “segni” marcavano il sito
della deposizione e costituivano l’elemento
tangibile della memoria dei defunti e il luogo
dove raccogliersi, in particolari ricorrenze, al
fine di perpetuarne il ricordo, con cerimonie
legate alla loro commemorazione. Numerose
deposizioni votive, composte da piccoli
oggetti quali lucerne oppure ossa bruciate di
piccoli animali, attestano i riti che dovevano
accompagnare le celebrazioni funerarie.
Rituali e modalità funerarie. Sono attestati sia
il rito dell’inumazione (88% circa) sia quello
dell’incinerazione (12% circa). Si tratta, in
genere, di deposizioni singole (monosome)
orientate prevalentemente in senso est/ovest,
con cranio a Est.
Le inumazioni. Sono attestate tutte le
tipologie più comuni nel mondo greco;
prevalgono quelle del tipo ad enchytrismòs,
ma frequenti sono quelle a fossa.
Nelle tombe ad enchytrismòs venivano
utilizzati come contenitori soprattutto anfore
da trasporto, ma anche pithoi, chytrai e
stamnoi. Questo tipo di sepoltura era usato in
particolare per le deposizioni infantili.
Altissima era la percentuale di bambini morti
tra il momento della nascita e i primissimi
mesi di vita (oltre il 50% di tutte le sepolture).
Il più delle volte i piccoli venivano deposti
entro grandi contenitori in posizione
rannicchiata, spesso con pochi oggetti di
corredo, tra cui era frequente il guttus.
Tra le tombe a fossa si distinguono diverse
tipologie:
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- “alla cappuccina” (usate soprattutto per
adulti), coperte da tegole piane poste a doppio
spiovente, raramente sormontate da coppi e da
due testate. All’interno della tomba, il piano di
posa poteva essere costituito dalla semplice
terra o da un letto di tegole piane [ ];
- “a cassa”, rivestite interamente da tegole piane;
- “a fossa terragna”(il tipo più comune), in cui
il cadavere veniva deposto abitualmente in
posizione supina dorsale, con gli arti distesi
lungo i fianchi [
Inumazione di neonato entro
fossa];
- entro vaschette fittili (in origine destinate alla
lavorazione di prodotti agricoli o artigianali),
riutilizzate per le sepolture infantili e dotate
talvolta, su uno dei lati corti, di un beccuccio
di versamento, sull’altro, di un incasso.
12
Le incinerazioni. Si presentano come semplici
lenti di bruciato o come uno strato vero e
proprio di carbone, all’interno di fosse
rettangolari o ovali, entro cui era collocata la
pira lignea.
Circa il 90% è costituito da incinerazioni
primarie, il 10% da quelle secondarie.
Nelle incinerazioni primarie i resti del
cadavere combusto venivano lasciati sul fondo
della fossa. La disposizione delle ossa e dei
resti dei corredi ha consentito di ipotizzare
che il cadavere veniva sistemato sulla pira,
disteso su un “letto funebre”.
Nelle incinerazioni secondarie le ossa,
dopo la combustione, venivano raccolte e
conservate per lo più entro vasi di terracotta,
solitamente crateri, e, in percentuale minore,
chytrai. Il recipiente poi era collocato
all’interno dello strato di carbone, o, in rari
casi, in fossette appositamente scavate.
La riscoperta della storia: le fosse comuni dei
caduti nelle battaglie di Himera del 480 e del
409 a.C.
I corredi funerari. Circa il 40% delle tombe
ha restituito corredi funebri, destinati ad
accompagnare il defunto oltre la vita. In
genere si tratta di vasi ceramici di mediocre
qualità; ma non mancano vasi figurati attici, di
maggiore pregio. Numerose sono le sepolture
collegabili a particolari aspetti della società o
della cultura imerese. Tra i casi più interessanti
si segnalano:
- le tombe di tre schiavi, caratterizzate dagli
anelli di ferro alle caviglie;
- alcuni crani con fori di trapanazione;
- lo scheletro di un uomo affetto da nanismo,
che rappresenta il caso più antico di questa
patologia genetica attestato nel mondo
greco;
- alcune laminette di piombo (defixiones)
legate a pratiche magiche, in cui si
affidavano al mondo degli inferi le persone a
cui si voleva del male;
- alcune tombe di animali (tre cani e un
agnello) che, oltre alle sepolture di cavalli,
attestano un’usanza non comune nelle
necropoli greche.
Dal punto di vista storico, riveste
eccezionale importanza la scoperta di nove
fosse comuni e di varie sepolture singole
relative ai morti in due delle più importanti
battaglie della Sicilia greca. La prima si
svolse nel 480 a.C. quando Imeresi,
Siracusani e Agrigentini, guidati da Gelone
tiranno di Siracusa, sconfissero l’esercito
punico di Amilcare davanti a Himera, nello
stesso anno in cui a Salamina gli Ateniesi
fermavano i Persiani. Settanta anni dopo, nel
409 a.C., l’esercito cartaginese assediava e
distruggeva Himera, facendo strage di
soldati e di cittadini; la colonia veniva
abbandonata per sempre.
Nella necropoli, decine di deposizioni di
giovani uomini – con ferite mortali e talvolta
con le armi (cuspidi di lancia, lame e punte
di freccia) ancora infisse nelle ossa –
attestano questi tragici eventi, restituendo
alla memoria il ricordo del loro sacrificio in
battaglia e della loro morte a difesa della
città. Oltre alle tombe dei soldati caduti,
sono state messe in luce centinaia di
sepolture attribuibili ai cittadini massacrati
in città, i cui cadaveri, distrutta la colonia,
vennero portati e sepolti affrettatamente
13
nell’area della necropoli [
Deposizione di
cittadini morti probabilmente nella distruzione della
città]. Sono state rinvenute anche numerose
tombe di cavalli, uccisi negli scontri davanti
alle mura della città. Si tratta di una
documentazione eccezionale e unica nel
mondo greco, in cui si percepisce in modo
straordinario il collegamento tra i dati
archeologici e la narrazione storica delle
battaglie e della fine di Himera, tramandata
dal racconto dello storico Diodoro Siculo.
14
Il Tempio della Vittoria nel contesto
dell’architettura di Stile Severo
Dieter Mertens già Direttore Istituto Archeologico Germanico di Roma
Valentina Consoli Archeologa
All’indomani della battaglia combattuta
nel 480 a.C. alle porte di Himera tra Greci e
Cartaginesi fu edificato, sulla riva sinistra del
fiume Imera, l’unico tempio periptero della
città. Il sito scelto includeva una porzione di
abitato d’età arcaica, interessata da attività
artigianali, ai margini orientali della città
bassa. Per far posto alla nuova costruzione, le
abitazioni private furono espropriate e
demolite e fu delimitato il recinto sacro
comprendente il tempio. I saggi archeologici
effettuati nell’area non hanno restituito dati
sufficienti all’individuazione del temenos, che
possiamo tuttavia immaginare racchiuso entro
un muro perimetrale accessibile da un
ingresso e abbellito probabilmente da portici e
altri piccoli edifici, come testimoniato dagli
elementi architettonici di modulo minore
provenienti dall’area [ Tempio della Vittoria.
Ricostruzione 3D del temenos].
Sulla base del passo di Diodoro Siculo
(XII,26,2), si attribuisce l’edificazione del
tempio alla volontà di celebrazione della
vittoria sui Cartaginesi da parte di Gelone di
Siracusa e Terone di Agrigento, che
ordinarono di costruire due templi nei quali
conservare i trattati di pace; tale
interpretazione ha poi determinato la corrente
denominazione di “Tempio della Vittoria”. La
costruzione dell’imponente edificio periptero,
estraneo alla cultura architettonica della
colonia calcidese, potrebbe inoltre essere
riferita alla volontà di dominio politico
esercitata dal tiranno agrigentino Trasideo,
figlio di Terone, sulla città. Pur non avendo
certezza riguardo la divinità alla quale il
tempio fu dedicato, esso è stato
convenzionalmente attribuito ad Atena per
analogia con il coevo Athenaion di Siracusa. I
pochi frammenti della decorazione scultorea
sembrano indicare la scelta del tema della
Gigantomachia per lo spazio frontonale.
L’architettura severa in Occidente
Il Tempio della Vittoria di Himera si inserisce nella scia di una nuova sperimentazione
architettonica che procede di pari passo in
Occidente e in madrepatria, portando alla
formulazione di una cultura artistica e figurativa denominata Stile Severo, che si sviluppa
nella prima metà del V secolo a.C. In Sicilia in
particolare, a seguito della consolidata tradizione dorica di età arcaica, soprattutto selinuntina, una nuova stagione architettonica,
aperta agli influssi provenienti dalla Grecia
(Tempio degli Alcmeonidi a Delfi), è annunciata dalla realizzazione del Tempio di Erakle
ad Agrigento agli inizi del V a.C. Tale cultura
architettonica si manifesta nella creazione di
un modello canonico di tempio dorico, che
esprime sia una concezione innovativa dello
spazio interno dell’edificio, sia un maggiore
equilibrio tra le fronti, mediante la simmetrica
disposizione del pronao e dell’opistodomo in
16
antis, in sostituzione dell’arcaico spazio inaccessibile dell’adyton sul fondo.
Dopo la battaglia di Himera del 480 a.C.,
il nuovo modello si manifesta pienamente
nella realizzazione di due coevi edifici peripteri, il Tempio della Vittoria a Himera [
Tempio della Vittoria. Pianta] e l’Athenaion di Siracusa [
Parte della peristasi inglobata nei muri del
Duomo], simili nelle dimensioni e nelle scelte
architettoniche. Queste si rivelano soprattutto
nel simmetrico equilibrio della planimetria,
nell’attento dimensionamento dei singoli
elementi e nell’armoniosa proporzione delle
parti tra pianta ed elevato, ricercati sulla base
dell’insegnamento pitagorico. In particolare,
tali edifici risolvono in maniera ponderata la
questione del conflitto d’angolo dato dall’alternanza di metope e triglifi nel loro rapporto
con il colonnato. Mentre le dimensioni delle
colonne vengono definite in relazione all’interasse, la trabeazione, grazie alla sua chiara articolazione interna fra triglifi e metope, è
progettata con poche ma efficaci proporzioni
fondamentali: il rapporto 2:3 nello sviluppo
orizzontale e quello 3:5 per il corpo del
triglifo, che assume la valenza di modello per
tutto il progetto (così come esposto nel
famoso trattato di Vitruvio, l’unico “manuale”
teoretico sull’architettura antica pervenutoci).
Carattere distintivo dei templi severi, infine, è
il profilo rigido che contraddistingue i capitelli
Siracusa, Athenaion. Capitello dorico].
[
La raffinata concezione plastica e spaziale
dell’architettura severa troverà ulteriori
esemplificazioni negli edifici peripteri di altre
poleis di Sicilia e Magna Grecia alla metà del
V a.C.: il Tempio E di Selinunte [ ], pur
con la conservazione del tradizionale adyton, e
il cosiddetto Tempio di Nettuno a Poseidonia
(che ispirò a Goethe la definizione di stile
“severo”), per concludersi con l’imponente
serie sulla Collina dei Templi di Agrigento.
Tali costruzioni confermano la spiccata
tendenza alla sperimentazione architettonica
delle colonie d’Occidente, perseguita tramite
il costante interagire con le coeve soluzioni
della madrepatria (Tempio di Zeus ad
Olimpia) [ ]. Nuovi edifici di Stile Severo
verranno realizzati in altre fiorenti città
coloniali, quali Crotone, Gela e ancora
Selinunte, in cui sarà ravvisabile anche
l’influsso dell’esperienza attica, giunta in
Occidente insieme alle maestranze itineranti
con i preziosi marmi al seguito.
Il Tempio della Vittoria
Il lacunoso stato di conservazione
dell’edificio in pietra calcarea, limitato per lo
più al basamento, alla sima e a pochi elementi
dell’elevato, rende difficile la restituzione
dell’architettura del tempio nella sua
interezza. La presente ipotesi di ricostruzione
si basa sull’indispensabile pubblicazione di
Pirro Marconi del 1931 e sui recenti rilievi
effettuati in occasione del nuovo allestimento
museale e della realizzazione del plastico, oltre
che sul confronto con il coevo Athenaion di
Siracusa.
L’edificio poggia su un basamento
(krepidoma) di quattro gradini concluso dallo
stilobate, su cui si elevano le colonne della
peristasi (6 sui lati brevi e 14 su quelli lunghi),
tutte di uguale diametro (m 1,91) e interasse
regolare (m 4,19); variano soltanto i primi due
interassi angolari di entrambe le fronti, che si
contraggono progressivamente per superare il
conflitto d’angolo tipico dell’ordine dorico.
Sulla base di un’equilibrata concezione
spaziale, la cella è posta all’interno della
peristasi rispettando la corrispondenza tra le
ante terminali dei muri e le terze colonne dei
lati lunghi. Secondo una medesima simmetria,
l’ampio naos centrale è preceduto dal pronaos
e concluso dall’opistodomo, entrambi in antis;
tra il naos e il pronaos, leggermente più
profondo dell’opistodomo, si collocano le due
18
torri scalari che raggiungevano il soffitto
verosimilmente per motivi cultuali: questi
ultimi porteranno in seguito all’apertura della
finestra sul timpano del Tempio della
Concordia ad Agrigento per l’epifania della
divinità. L’edificio mostra elementi
dell’avvenuta chiusura dell’intercolumnio dei
lati lunghi mediante blocchi parallelepipedi in
calcare, effettuata verosimilmente in età non
successiva alla distruzione della città, per
ragioni forse di tipo cultuale.
Procedendo per analogia con i coevi
templi di Stile Severo e considerando la rigida
regola dell’ordine dorico, è stato restituito un
elevato basato sull’altezza della colonna (m
8,40) pari al doppio della misura
dell’interasse. Nella trabeazione, invece, sono
stati rispettati il rapporto di 2:3 tra la
larghezza del triglifo e quella della metopa, e il
rapporto di 3:5 tra la larghezza e l’altezza del
triglifo, come già noto a Siracusa; all’altezza
del fregio dorico (m 1,40) si aggiunge quindi
quella dell’architrave, conservato per intero
(m 1,46). Della cornice di coronamento,
infine, è possibile ricostruire il geison
orizzontale, decorato dai mutuli a goccia, sia
sui lati lunghi sia su quelli brevi, mentre è del
tutto ipotetica la restituzione dei rampanti del
timpano sulle fronti; la loro inclinazione,
tuttavia, può essere ricostruita sulla base del
rapporto di 1:4 tra altezza e lunghezza, già
rilevato su altri templi di età classica in Sicilia.
Ben conservata, invece, è la grandiosa serie di
gocciolatoi a protome leonina che decoravano
la cornice della sima sui lati lunghi, a
terminazione della tegola di sima.
La restituzione del tetto a due spioventi di
tegole in terracotta, non pervenute, si fonda
sulla larghezza della tegola di sima in pietra
(m 1,13), modellata in forma di due tegole
giustapposte. In base al confronto con altri
edifici è stata ipotizzata la tessitura in travi
lignee degli spioventi e delle capriate.
Non sussistono elementi utili, infine, per
ricostruire le figure acroteriali a coronamento
del tetto e i gruppi plastici dei frontoni,
documentati da esigui frammenti.
La proposta di restituzione della
policromia, essenziale per l’immagine del
tempio di Stile Severo, è basata, oltre che sul
canone valido per il periodo, sulle osservazioni
di Pirro Marconi e sui disegni di Rosario Carta.
19
1. Tempio della Vittoria
2. Deposito scavi 1929-30
3. Museo
4. Mulino
20
Rilievo e restituzione grafica
del Tempio della Vittoria
Francesco Scirè Architetto
Lo studio del tempio e di alcune strutture
limitrofe è stato affrontato per mezzo di un
rilievo strumentale; con la tecnica fotogrammetrica si è proceduto alla documentazione di
alcuni setti murari interni alla struttura
museale, dove sono evidenti alcuni elementi di
reimpiego provenienti probabilmente dai
piccoli edifici che ricadevano all’interno del
temenos. I setti murari, non intonacati, sono
tutt’ora visibili all’ingresso del museo per
lasciare una testimonianza tangibile degli
elementi architettonici in essi presenti.
All’esterno del complesso è stato effettuato il
rilievo di tutta l’area, ivi compreso il fotopiano
di alcuni blocchi depositati durante gli scavi
condotti nel 1929-30 da Pirro Marconi [ ].
Ma l’obiettivo principale dello studio si è
rivolto al Tempio della Vittoria. Il rilievo topografico del monumento si è contraddistinto in
tre fasi: realizzazione del piano quotato – rilievo
di tutti gli elementi caratterizzanti le parti meno
deteriorate – rilievo del colonnato e dei setti
murari tra gli intercolunni. Effettuata una restituzione grafica planimetrica sono state riportate
delle considerazioni metriche secondo i dati
ottenuti. Abbiamo disegnato tutte le colonne
con raggio pari a 0.955 m riscontrato nelle due
del lato Nord e nelle tre del lato Sud. La loro
diversa posizione planimetrica, fa pensare che
tutte le colonne avessero uguale dimensione,
ma non abbiamo alcuna certezza per quelle
angolari del tutto mancanti. Di certo risulta
esserci una contrazione angolare del colonnato,
misurabile grazie alla presenza dei fori
quadrangolari presenti nello stilobate per la
collocazione dei primi rocchi di colonna.
Dall’analisi metrica risulta che l’interasse tra
tutte le colonne di 4.19 m, in corrispondenza
tra la terza e la seconda colonna diventa di 4.09
m mentre, nell’ultimo interasse risulta essere di
3.94 m.
La pianta disegnata in ambiente CAD è
stata sovrapposta a quella realizzata da Pirro
Marconi; sul campo inoltre è stato eseguito un
rilievo mediante laser scanner dalla ditta
Studio Tre Engineering di Pietro Furnari.
Anche la planimetria ottenuta con questa
moderna tecnica di rilievo è stata sovrapposta
a quella ricostruttiva del tempio. Già con il
rilievo topografico avevamo notato un
evidente cedimento strutturale delle
fondazioni e del crepidoma del fronte est,
21
quello cioè più esposto alle inondazioni in
epoche passate del fiume Imera. Abbiamo
volutamente omesso questa deformazione
metrica mantenendo una pianta geometrica
del tutto analoga, per le restanti parti, ai rilievi
condotti in passato, ma con le più recenti
tecniche di rilievo. Il motivo di tale scelta è
stato l’obiettivo iniziale che ci eravamo posti;
la realizzazione di un plastico che ci facesse
tornare indietro nel tempo, ripercorrendo
dunque tutte le fasi progettuali del tempio e
non presentando lo stato di fatto dell’edificio
ben visibile all’esterno della struttura museale.
Una volta ottenuto l’elaborato planimetrico
definitivo, abbiamo iniziato a disegnare il
prospetto longitudinale e trasversale, pur
avendo pochi elementi architettonici relativi
agli alzati del tempio. Con il fondamentale
supporto di Dieter Mertens siamo comunque
riusciti nel nostro intento per mezzo di
riferimenti tipologici (Athenaion di Siracusa),
stilistici (Stile Severo) e dei dati metrici
22
(altezza della colonna calcolata in base
all’interasse delle stesse) e abbiamo infine
sviluppato gli elevati del tempio. Sono state
elaborate diverse sezioni interne per
comprendere appieno gli elementi che
componevano il pronao e l’opistodomo, la
cella e il sistema di apertura del grande
cancello di ingresso a essa, le due torri scalari
e tutti gli elementi che componevano la
trabeazione sia esterna che interna, fino ad
arrivare alla copertura, disegnata per mezzo di
due piante riportanti l’orditura orizzontale e
quella delle due falde inclinate del maestoso
complesso di travi lignee, grazie anche
all’analisi metrica dei molti frammenti di
tegole in pietra ancora esistenti in situ; lo
studio della copertura in pianta è stato poi
verificato e riportato nelle sezioni verticali [
Tempio della Vittoria. Piante e sezioni].
Definiti gli elaborati grafici bidimensionali,
la ditta No Real.it 3d agency di Davide Borra
si è occupata della modellazione
tridimensionale del monumento in ogni suo
singolo dettaglio architettonico, costruttivo, e
decorativo [ ]. Contemporaneamente si è
sentita l’esigenza di soffermarsi sulla
decorazione pittorica delle gronde leonine
poste sulla sommità dei lati lunghi del tempio.
Prendendo le mosse dal disegno ad acquerello
di Rosario Carta, abbiamo cercato di
ricostruire e completare tale decorazione
basandoci sui riferimenti suggeriti da Dieter
Mertens e sulle tracce di colore ancora
presenti su alcune gronde del Museo Salinas e
di Himera. Anche i tre becchi di civetta che si
collocavano subito al di sotto delle gronde,
restaurati a Himera ed esposti nel nuovo
museo, hanno dato l’occasione di identificare
e definire meglio il colore nero presente nelle
decorazioni che caratterizzavano questa parte
del tempio e che incorniciavano la testa
leonina. I due apparati espositivi – ossia il
plastico del tempio in scala 1:40 e quello della
gronda leonina in scala 1:1 – sono il risultato
di questa attività di studio e di elaborazione
condotti preliminarmente. Essi sono il frutto
di una precisa definizione e corrispondenza
rispetto ai disegni ricostruttivi, in quanto
ottenuti per mezzo della realizzazione degli
elementi principali con stampante 3d; ogni
singolo pezzo, una volta stampato e
assemblato con gli altri elementi è stato
definito con le più antiche tecniche artigianali
fornite dall’equipe di Emanuele Canzonieri
23
(Eikon servizi per i Beni Culturali) [
Gronda
leonina: dal disegno di Rosario Carta al modello
ricostruttivo]. All’interno della sala dedicata al
Tempio della Vittoria sono stati inoltre inseriti
sia una seduta a forma di rocchio di colonna
con indicazione delle tracce per la
realizzazione delle scanalature, sia una
gigantografia raffigurante la soluzione
angolare del prospetto longitudinale in
corrispondenza delle gronde leonine:
entrambi gli apparati sono di dimensioni reali
per consentire al visitatore di apprezzare la
maestosità di questo importante edificio
templare.
24
Buonfornello dal Medioevo
agli inizi Novecento
Franco D’Angelo Archeologo medievista
Sono numerose le città antiche che, dopo
la loro violenta distruzione, sono risorte nei
secoli successivi anche se in maniera diversa
e con inferiore importanza. Non si sa
esattamente quando, ma parte della città
bassa di Himera è tornata a vivere con il
nome di Bonfornello (poi divenuto
Buonfornello) grazie anche ad alcune attività
produttive: un trappeto di cannamele, una
fornace per ceramiche, un mulino a ruota
orizzontale e delle case contadine
sviluppatesi nei pressi del Tempio della
Vittoria. Anche sulle strutture del Tempio
stesso sorsero numerose costruzioni e,
osservando le fotografie scattate prima della
loro demolizione, tutti gli edifici appaiono di
epoca post medievale.
Pirro Marconi, negli anni 1929-30,
durante i lavori di abbattimento del borgo
che si era sovrapposto al Tempio della
Vittoria, lamentava che “[…] grandissima
era la mole delle fabbriche da demolire,
circa otto edifici, alcuni abbandonati e già
scompagnati, altri robustissimi fatti di malte
e impasti duri più della pietra […]. Oltre al
torrione fondato sull’opistodomo del tempio
e alle altre fabbriche laterali, nel XVII secolo
vi erano istallati una fabbrica di laterizi
disseminando grandi banchi di cocci e di
detriti, fino a determinare una montagnola
alta cinque metri e culminata da un rustico
belvedere […]. Nel lato meridionale, nel
terreno dove era la cappella, era sorto un
rustico cimitero dei secoli XVII – XVIII […]”
(Marconi 1931, pp.19-23).
Durante la ripresa e la prosecuzione delle
indagini archeologiche a Buonfornello,
rispettivamente nel 1966 e nel 1984-85
(Bonacasa 1976, pp.629-645; Allegro 198889, pp. 637-647) vennero recuperati pochi
frammenti ceramici riferibili alla
frequentazione del sito in età medievale e
moderna: due del tipo “a pavoncella” (X
secolo); uno di “forma da zucchero” con
bordo liscio, un’altro di un’anfora dipinta a
bande rosse (XII secolo); una lucerna
integra ( XIV secolo); un frammento di
“lustro” di area valenciana ( XV secolo).
25
Il trappeto di cannamele
L’industria saccarifera venne introdotta
nell’isola in età islamica come una delle tante
attività produttive utili agli uomini. Essa
divenne un’industria dispendiosa ma molto
redditizia nei secoli XV-XVII. Per questo
motivo sorsero trappeti di cannamele lungo
tutte le pianure costiere dell’isola a scapito di
altre coltivazioni più utili ma poco redditizie.
A Buonfornello è segnalato un trappeto di
cannamele nel 1433 (Termotto 2005, p. 3), ma
non è ancora accertato dove fosse ubicato.
Tuttavia, l’edificio rurale che si sviluppa in
lunghezza al Km 207 della SS 113, chiamato
“il Trappeto” (Case Artese, oggi sede dei nuovi
uffici del Parco) potrebbe essere lo stabilimento per cannamele dei secoli passati (Gulì
1985, p. 56, fig. 12). Inoltre si ha notizia che
nel gennaio del 1516 venivano estesi i “privilegi a favore dei trappeti” anche agli uomini
che lavoravano nel trappeto di Andrea Alliata
a Buonfornello (Trasselli 1982, pp.31-32).
L’incisione dal titolo “Saccharum” [ ]
realizzata nella seconda metà del XVI secolo
da Philip Galle di Harlem e Jan van der Straet
di Bruges descrive tutto il processo produttivo
dello zucchero: la raccolta delle canne e il loro
trasporto allo stabilimento; il taglio e la macinazione (manca la macina che in questa incisione è meccanica, mentre in Sicilia era
utilizzato un frantoio, o trappeto, munito di
26
ruota in pietra posta in senso verticale, che,
ruotando, schiacciava le cannamele); le canne
macinate erano sottoposte al torchio; il sugo
ottenuto era cotto e solidificato in grandi
caldaie; infine lo zucchero veniva raffinato in
apposite forme a cono, in primo piano a
destra nell’incisione.
Proprio per le esigenze della raffinazione
dello zucchero, sia nel trappeto di Buonfornello che in quelli limitrofi di Galbonogara, di
Brocato e di Roccella, erano necessarie migliaia
di forme a cono in terracotta [ ], per cui era
stata impiantata nei pressi del Tempio della
Vittoria la fornace per ceramiche.
La fornace
È probabile che a Buonfornello, per
riempire i tempi morti del trappeto, oltre le
forme da zucchero, si iniziò a produrre altra
ceramica. Nello scarico della fornace, della
quale rimane la camera di combustione, sono
stati trovati frammenti di boccali e di piatti
“tipo Polizzi” [ ], insieme a forme da
zucchero con bordo sagomato, molto
frammentate. Alcuni degli scarti presentano
delle fenditure, oppure sono ipercotti per
colpi di fiamma.
Per ottenere questi due prodotti è
probabile che gli artigiani di Buonfornello
abbiano utilizzato le argille scagliose brune
della vicina contrada Villaurea, in particolare
del Cozzo Rocca del Drago, lungo il corso del
Fiume Imera Settentrionale (Alaimo,
Anzalone, Calderone, Ferla, Vianelli 1974,
pp.15-19).
Le ceramiche “tipo Polizzi” devono il loro
nome al fatto che proprio a Polizzi Generosa,
presso il Convento dei Cappuccini, sono stati
rinvenuti scarti di una produzione eseguita in
maniera diversa da quella tradizionale
dell’isola, in quanto non veniva realizzato il
consueto schiarimento superficiale (ottenuto
durante la prima cottura), bensì il rivestimento
di ingobbio. Su di esso era applicata la
decorazione geometrica in bruno, in verde, a
volte in giallo, ricoperta da vetrina al piombo
trasparente, mentre la superficie interna era
rivestita da vetrina color bruno-verde.
(D’Angelo, Gioia, Reginella 2011, pp. 313-323).
Il mulino
Nei pressi del Tempio della Vittoria,
proprio alla foce del Fiume Imera
Settentrionale (o Fiume Grande del
Senescalco) si trovano i resti di un mulino
(ora parzialmente crollato ma ancora attivo
nel secolo scorso) costruito con grossi
ciottoli di fiume legati con malta di calce; gli
stipiti e le finestre cieche sono realizzati in
mattoni di cotto legati anch’essi con malta; il
canale di adduzione delle acque con grossi
27
blocchi di pietra di cava ben squadrata.
Lungo tutto il corso del fiume non si
individuano altri resti di mulini perché a
causa del regime torrentizio, alla fine della
stagione delle piogge, il fondo del fiume
rimaneva a secco e la totale mancanza
d’acqua non consentiva di alimentare
l’ingranaggio dei mulini. Nei pressi della
foce, invece, il mulino prendeva la forza
motrice dall’acqua stagnante in uno dei rami
occidentali dell’alveo.
28
A seconda delle esigenze, l’acqua veniva
captata da uno sbarramento detto prisa o
porta d’acqua e incanalata nella saia (canale di
alimentazione) in leggera pendenza, raccolta
in un invaso detto gurgo che alimentava la
gora o vutti che sovrastava il mulino. Da lì,
con la pressione acquisita dalla caduta,
l’acqua sfociava, attraverso un ugello, sulla
ruota idraulica orizzontale posta alla base del
mulino. L’impatto dell’acqua sulle pale della
ruota orizzontale imprimeva un movimento
rotatorio che, attraverso un asse di
collegamento, faceva girare la macina
superiore (o mola) chiamata anche currituri.
La mola inferiore detta frascino, insieme alla
mola superiore, avrebbero macinato i chicchi
di grano lasciati scivolare tra le due mole.
Esaurita la spinta propulsiva, l’acqua tornava
al fiume passando da una grande apertura
chiamata garraffo (Carcasio 2000, pp. 11-12;
Bresc, Di Salvo 2001).
Nei pressi del mulino si trovano numerose
grandi mole rotonde, spesse e compatte (cm
130x40; 123x36; 115x28) da identificarsi con
le mole inferiori, quelle fisse.
La casa contadina
Attorno al mulino ad acqua e alla fornace
si era creato un piccolo raggruppamento di
case abitate da artigiani che operavano nei due
stabilimenti e da contadini che curavano la
coltivazione di ortaggi e di frutti indispensabili
per la sopravvivenza di tutti gli abitanti.
La spoglia struttura della casa contadina
tra il mulino e il Tempio della Vittoria è stata
lasciata intatta a testimonianza della vita rurale
di un tempo non molto lontano. Lo spazio
interno è diviso orizzontalmente in zona notte
nella parte superiore, raggiungibile da una
scala a pioli, e da una zona riservata alle
attività domestiche nella parte inferiore.
In fondo alla stanza, nell’angolo destro, è
ancora visibile la mangiatoia destinata
all’animale da soma e alla capra. Gli animali
facevano parte integrante dell’economia e
della famiglia del contadino e il loro riparo
all’interno della casa era previsto nella
distribuzione degli spazi. Nell’angolo sinistro,
accanto all’ingresso, rimangono i resti di un
fornello chiamato “tannura” ed alcuni
elementi indicherebbero anche la presenza di
un piccolo forno per la cottura del pane. Due
finestrelle in alto davano luce alla casa.
29
Un nuovo museo alla foce dell’Imera
Enrico Caruso Progettista e direttore dei lavori
Nei pressi della foce del fiume Imera,
dove in antico sorgeva la città distrutta da
Cartagine nel 409 a.C., il luogo ha da tempo
dismesso i panni di sito della memoria delle
due memorabili battaglie che videro la città
greca prima trionfare nel 480 a.C. e 70 anni
dopo definitivamente soccombere. Il tempo
ha semplicemente fatto di questo luogo
un’area del lavoro manifatturiero, legato
all’attività agricola. Dalla fine dell’Ottocento
agli inizi del Novecento questo paesaggio
costiero che vide importanti viaggiatori
notare la presenza di un castello (in verità
solo un borgo con una torre), ha
ulteriormente cambiato volto, grazie anche
all’archeologia che da tempo sottrae terra,
pietre e frammenti fittili alla stratificazione
millenaria di troppe alluvioni e di palinsesti
architettonici anch’essi pluristratificati, al
fine di spiegare ai moderni come complessa
sia stata la storia del luogo e delle civiltà
susseguitesi nel medesimo posto. Quest’area,
divenuta poi un sito martoriato dal passaggio
della ferrovia e dall’autostrada, è a questo
punto di fatto separata dal mare e dalla vista
del Tirreno.
In questo spazio ormai senza tempo si
stagliavano recentemente solo le mute rovine
del basamento di un tempio, pomposamente
definito “della Vittoria”, glissando altrettanto
sommessamente sulla precoce sconfitta che è
subentrata appena due generazioni dopo la
sua creazione. Mute rovine però, perché
niente consentiva di capire la loro storia e il
loro valore, dal momento che le parti aeree
superstiti sono state trafugate in antico,
mentre una parte consistente restava celata
sotto il borgo rurale dalla torre massiccia,
fondata sull’opistodomo del tempio classico.
Negli anni venti del XX secolo Pirro Marconi,
archeologo insigne, grande filosofo e valente
storico dell’Arte, lavorò oltre due anni per
dismettere il borgo, dedicando un intero anno
allo smontaggio pietra su pietra della torre
cinquecentesca. La perdita del borgo è stata
un’operazione terribile! Ma erano altri tempi.
L’arte e in particolare l’architettura dei “tempi
oscuri” (medievali, barocchi e tardo barocchi),
era considerata – specie dagli archeologi – un
inutile fardello da cui liberarsi per lasciare
emergere l’unica Arte meritevole di
attenzione, la Greca: era quindi un imperativo
31
smontare per riportare alla luce, espressione
di una cultura ampiamente diffusa e
condivisa. Questo sentimento, al quale solo
pochi illuminati archeologi riescono ancora
oggi a sfuggire, portò a quell’episodio di
tesaurizzazione successivo allo scavo della
prima metà del Novecento: le straordinarie
sculture delle gronde policrome, esempio
illustre di un coronamento crollato alla base
del tempio, con le fauci leonine
minacciosamente aperte verso l’alto, furono
trasferite a Palermo nel grande Museo
Archeologico Nazionale, oggi “Antonino
Salinas”.
Sul posto solo rovine, sovente coperte
dall’erba, ed edifici rurali sette-ottocenteschi
che non nascondevano alcun importante resto
al loro interno: una modesta casa contadina, i
ruderi di un mulino in totale abbandono e un
magazzino senza tetto, senza infissi e
pavimento, tutt’uno con una bella casa solerata
contadina. In questo contesto il progetto
d’amenagement appena concluso prevedeva di
esporre i principali corredi tombali delle
Necropoli Occidentale ed Orientale di
Himera. Ma il bel magazzino, una struttura alla
lombarda, realizzata con materiali locali, belle
pietre antiche rubate a strutture sepolte,
mattoni di cotto forse prodotti in loco e tanti
ciottoli di fiume, portati lì dalla corrente
fluviale e forse lavorati dal mare, era un rudere:
bei muri massicci, costruiti con materiali non
32
proprio coerenti, con aperture sormontate da
trabeazioni in legno, forse in sostituzione di
antiche travi o introdotte da un precedente
tentativo di restauro mai completato. Il suo
recupero era stato progettato immaginando di
lasciare molte parti a faccia vista, sia all’interno
che all’esterno, con pavimentazioni in cotto
rustico e tetti con capriate in legno che,
purtroppo, ignoravano la struttura originaria
di un capannone scandito da muri trasversali e
massicci pilastri centrali che ben volentieri
avremmo voluto far ritornare alla loro funzione
portante originaria. Complice un capitolato
senza possibilità di varianti, con materiali
imposti anche quando non condivisi, il
progetto portato a compimento ha tuttavia
sovvertito diversi assunti obbligatori,
definendo una spazialità di ben altro respiro
rispetto alla tradizionale opera di restauro
pensata in un uniforme quanto poco brillante
lessico globalizzante. Oggi niente tetti in legno
color “legno scuro”, niente porte e finestre in
legno massello del medesimo colore che
avrebbero finito con il rendere buio, cupo,
l’interno del Museo, un luogo separato dal
mondo, sottratto al naturale dialogo con il
contesto. Oggi i vetri trasparenti lo lasciano
entrare, facendolo diventare a pieno titolo
elemento del percorso museale, una pausa che
scandisce ed amplia lo sguardo del visitatore
sul paesaggio circostante e verso il cielo con
tutte le sue variazioni di luce e colori.
L’interno, rivelatosi poi nel corso dei lavori
a forte pendio, è stato trattato come un
susseguirsi di ambienti a diversa altezza, con i
pavimenti a terrazzo che si adeguano alla
china e con rampe di discesa che permettono
di superare i forti dislivelli e creano
spostamenti e rotazioni del punto di vista,
offrendo di volta in volta scorci inaspettati.
Dal nuovo ingresso (ricavato sul lato minore
sud dell’edificio, di fronte al Tempio “della
Vittoria”, a rimarcare che il Museo intende
dialogare con le mute rovine dando una voce
e un colore ai suoi resti) gli ambienti interni –
con il tetto ligneo e con capriate alleggerite dal
colore chiaro, posto sulla stessa linea di
gronda – diventano via via sempre più alti
grazie all’artificio dei piani che si abbassano.
Separati da muri divisori, lasciati nella loro
altezza pervenuta e con i pilastri conservati
con tutti i difetti (che poi finiscono con il
diventare dei pregi), ciascun settore si articola
con bianche vetrine che esaltano il colore
rosato del cocciopesto delle pareti e dei
mattoni pavimentali in cotto, però non
rustico. A un solo fronte o bifacciali, le vetrine
cambiano forma secondo lo spazio in cui sono
inserite e lo definiscono, destinate ciascuna ai
temi sviluppati dal percorso espositivo e dal
racconto delle battaglie legate alla fondazione
del Tempio ed alla sua distruzione.
L’esposizione dei reperti è improntata alla
semplicità, la maniera è moderna, senza
artificiose e invasive soluzioni. Alla piccola
saletta, in cui viene presentato il filmato che
sintetizza la storia del luogo e le fasi di vita e di
morte del vicino tempio, si contrappongono i
piani espositivi, per lo più bianche pedane: su
di una le anfore riusate in antico come
sepolcri, sono semplicemente poggiate a
scandire tipologicamente e cronologicamente
un percorso che senza soluzione di continuità,
collega un ambiente all’altro. Su altre
prendono forma i calchi degli scheletri degli
sposi o di uomini uccisi in battaglia e la
sepoltura di un cavallo. Ma dopo la tristezza
della morte, con le sue sfaccettature e gli
enchytrismoi dei bambini imeresi sepolti con il
loro corredo di biberon e vasetti per bevande
che dovevano accompagnarli nel loro viaggio
verso gli Inferi, ecco un nuovo capitolo aprirsi
alla conoscenza: la Storia del luogo, fin qui
misconosciuta.
Dagli Studi di primo Ottocento (tra cui
quelli fondamentali di L. Mauceri) si giunge
alla documentazione dello scavo del Tempio
da parte di Pirro Marconi, cui il Museo è
dedicato e, dopo di lui, agli scavi degli anni
Sessanta ed Ottanta del secolo scorso che
hanno permesso di chiarire meglio le fasi
d’uso del sito: dalla soppressione del tessuto
abitativo arcaico per la costruzione del
Tempio nel 480 a.C. alla sua distruzione; dalle
fornaci aperte accanto al Tempio nel periodo
medievale per la produzione dello zucchero di
33
canna ai resti degli stipiti delle finestre
cinquecentesche della Torre, realizzate quasi
certamente con i materiali di spoglio di pezzi
del Tempio, presentati in una nuova luce,
quale documentazione di una fase importante
ma dimenticata, fin qui cancellata.
Dulcis in fundo, nell’ambiente finale, il più
alto, ecco il Tempio magistralmente
presentato in forma efficace, sia con l’ausilio
di mezzi moderni – fotografie ricostruttive e
touch screen – che di mezzi classici, quali il
bellissimo plastico in scala 1:40 [ ] e, infine,
la riproduzione in scala 1:1 con i colori
originali, impressionanti e ai più sconosciuti,
di una testa leonina. Ma sono soprattutto le
gronde originali, una riproposta nello stato in
cui a suo tempo l’aveva esposta Franco
Minissi e un’altra prestata dal Museo
Antonino Salinas di Palermo, a porsi
all’interno del percorso con tutta la potenza
dirompente della scultura classica, mentre tre
34
frammentarie sono poste a simulare il crollo
emerso nello scavo di primo Novecento,
insieme ad alcune tegole tanto pesanti da
essere rimaste in sito.
Apparati didascalici essenziali, finalmente
ridotti al minimo per scongiurare le
logorroiche esposizioni auto-referenziate che
ci hanno da tempo mostrato come non si
debba concepire un museo, ritmano il
percorso con spiegazioni che chiariscono le
ragioni dell’esposizione. Alcuni bianchi sedili
completano e scandiscono il percorso della
“Conoscenza”.
Infine, ecco il magnifico Tempio “della
Vittoria”, costruito con la bella pietra portata
qui da lontano e la cui presenza nel sito non
può più passare inosservata. La dea Athena,
cui era probabilmente dedicato, sarà grata agli
sforzi fatti oggi dagli uomini per dare
Giustizia alla Storia del luogo. Questa storia,
adesso, è diventata finalmente protagonista di
un Museo.
Itinerario di visita del museo
e del Tempio della Vittoria
Valentina Consoli Archeologa
Il Museo Pirro Marconi, realizzato
all’interno del caseggiato moderno di
Buonfornello che insiste sull’area del Tempio
della Vittoria, intende offrire una panoramica
generale del sito della città bassa di Himera, a
completamento dell'’itinerario di visita già
fruibile nel Museo presso la città alta. Lo spazio
espositivo si articola in cinque sale collegate da
rampe e termina con la sala 6, raggiungibile da
un percorso esterno lungo l’edificio. Esso
illustra le principali realtà archeologiche della
città bassa note attraverso una lunga tradizione
di studi e ricerche, inaugurata da Pirro Marconi
nel 1929 e proseguita fino ad oggi grazie alle
indagini dell’Università e della Soprintendenza
di Palermo.
1
3
4
2
6
Mulino
5
Sala 1
Il percorso di visita si apre con
un’introduzione al sito della colonia, che
mostra la distribuzione delle aree
d’insediamento dei coloni con particolare
attenzione agli spazi della città bassa e alle
necropoli. Oltre l’ingresso, su una pedana è
esposta una tipologia di anfore provenienti da
vari centri di produzione del Mediterraneo sia
orientale che occidentale, utilizzate come
contenitori per sepolture infantili nella
necropoli est. La sala è dedicata all’esposizione
dei corredi che accompagnavano i defunti
nelle tombe delle necropoli est ed ovest;
spiccano i due crateri figurati con scene di miti
attici [ Cratere attico con il mito di Trittolemo] e
alcuni oggetti di produzione greco-orientale,
come i balsamari configurati. I reperti
mostrano la varietà delle produzioni locali e
delle importazioni che circolavano a Himera
tra il VI e il V a.C., e forniscono indicazioni
sulle attività artigianali della colonia e sulla rete
di scambi commerciali con le altre aree della
Sicilia e del Mediterraneo.
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Sala 2
L’area è dedicata alla proiezione di filmati
e ad attività didattiche e divulgative.
Sala 3
Vengono illustrate le differenti tipologie
funerarie documentate nella necropoli ovest,
oggetto di recenti indagini. È attestato sia il
rito dell’inumazione che quello dell’incinerazione primaria e secondaria, con netta prevalenza del primo. Sopra una pedana, sono
esposti vasi ed elementi fittili utilizzati come
contenitori per sepolture di vario tipo, quali
enchytrismoi [ ] e tombe a fossa. Tra questi
si distinguono i due coppi, uno con protome
femminile [ ] e l’altra con protome leonina,
utilizzati in tombe alla cappuccina, e la
vaschetta fittile dove era stato inumato un
bambino accompagnato da corredo.
La visita prosegue nell’ala destra della sala
destinata alla straordinaria scoperta delle fosse
comuni e delle sepolture di cavalli, rinvenute
nelle recenti indagini condotte nella necropoli
ovest. Probabilmente connesse alle due
battaglie avvenute alle porte di Himera nel
480 e nel 409 a.C. e narrate da Diodoro
Siculo, le fosse comuni contenevano numerosi
corpi allineati uno accanto all’altro e recanti
segni di traumi violenti e armi ancora infisse.
Il calco dello scheletro di un corpo inumato in
una fossa si accompagna a quello di una
coppia di sposi e al cranio di un cavallo,
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dotato di morso in bronzo [ ]. In questa
sezione sono esposti i reperti relativi alla fossa
comune 9, databile alla fine del V a.C., e le
armi rinvenute nelle sepolture riferibili alle
battaglie, tra cui due pregevoli schinieri di
produzione iberica [ ].
Sala 4
Si prosegue lungo l’itinerario di visita
dedicato al Tempio della Vittoria. Parte della
sala illustra le campagne di scavo effettuate
nell’area in tre momenti successivi: 1929
(scavo del Tempio a opera di Pirro Marconi),
1966 (saggi dell’Università di Palermo a Nord
e a Sud del Tempio) e 1984-85 (saggio
dell’Università di Palermo lungo la fronte
ovest). Le indagini hanno documentato non
solo l'occupazione dell’area dalla fine del VII
a.C. fino alla distruzione della città nel 409
a.C., con un cambiamento di destinazione
d'uso (da quartiere abitativo a santuario dopo
la battaglia del 480 a.C.), ma anche la
frequentazione in epoche successive, fino
all'età moderna. Di notevole interesse è,
inoltre, la presenza di un'officina di ceramista
attiva nel V a.C., probabilmente all'esterno del
santuario.
La rimanente parte della sala è dedicata
alla fase medievale e moderna. Vengono
presentati gli stipiti di una finestra realizzata
sulla facciata del torrione cinquecentesco,
sorto sui ruderi del Tempio e poi demolito dal
Marconi. Oltre a frammenti ceramici di età
medievale, sono altresì esposti reperti riferibili
all’attività di una fornace del XVI secolo per la
produzione di ceramica invetriata “tipo
Polizzi” e di forme da zucchero utilizzate nel
vicino trappeto della cannamela.
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Sala 5
L’intero spazio espositivo è dedicato alla
storia e all’architettura del Tempio della
Vittoria, unico edificio periptero della colonia.
Al centro della sala è situato il plastico
ricostruttivo del Tempio, realizzato in scala
1:40 sulla base del rilievo topografico e di
quello tridimensionale.
Il tempio imerese è contraddistinto, sui
lati lunghi, dalla serie di gronde a protome
leonina in calcare, rinvenute dal Marconi
durante lo scavo del 1929-30. Sono qui esposti
due esemplari pertinenti al lato nord [ ], e
tre grandi frammenti dal lato sud. A questi si
accompagna un modello plastico che
riproduce l’effetto cromatico dell’originale,
sulla base dell’acquerello realizzato al
momento del rinvenimento da Rosario Carta e
delle tracce di colore tutt’ora riscontrabili.
L’accostamento dei due tipi (nord e sud)
permetterà di cogliere le differenze tra le due
serie di sculture. Lungo le pareti sono esposti
altri materiali architettonici in calcare
pertinenti all’elevato del Tempio (elementi di
trabeazione con modanatura a becco di
civetta, tegole di sima), alcuni dei quali
preservano ancora tracce di policromia. Sul
lato opposto si trovano reperti lapidei
rinvenuti durante i saggi del 1966 e riferibili a
edifici sacri di modulo minore presenti nel
temenos, dei quali non è pervenuta purtroppo
altra testimonianza.
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Al termine della visita, un touch screen
consente di approfondire le tematiche
proposte dal percorso espositivo, tramite una
ricca documentazione grafica e fotografica
corredata da didascalie.
Uscendo dal Museo si possono osservare
resti di muri relativi all’abitato di VI-V secolo
a.C. Si passa a visitare poi una struttura a
pianta quadrangolare adibita a mulino ad
acqua per la molitura del grano nel corso
dell’età moderna. Proseguendo verso destra,
lungo il muro perimetrale del Museo, si
accede all’ultima sala espositiva (sala 6)
ospitata all’interno di una vecchia abitazione
rurale fornita di mangiatoia per animali, forno
per il pane e soppalco per il giaciglio
notturno: essa illustra la realtà contadina e la
vita quotidiana delle famiglie nell’area
madonita fino al secolo scorso.
Il percorso di visita termina con una sosta
davanti alle strutture del Tempio della
Vittoria, realizzato in calcare conchiglifero
piuttosto poroso sulla sponda sinistra del
Fiume Imera. La scarsa compattezza del
materiale da costruzione, le continue
esondazioni del fiume e l’opera di spoliazione
avvenuta a più riprese già a partire dall’età
antica hanno determinato le attuali condizioni
di conservazione. L’edificio dorico, eretto su
un krepidoma a quattro gradini, presenta
pianta periptera [ ] con 6 colonne sulle
fronti e 14 sui lati lunghi, pronao e
opistodomo distili in antis e torri scalari fra il
pronao e la cella. Dello stilobate e del
pavimento lapideo del naos rimane ben poco,
così come dei blocchi dell’elevato del tempio,
reimpiegati nella costruzione del borgo
cinquecentesco e del caseggiato Buonfornello.
Alcuni elementi della trabeazione del Tempio,
tra cui blocchi del geison e della sima, sono
ancora visibili lungo i lati lunghi dell’edificio
in posizione di crollo, così come furono trovati
durante lo scavo del Marconi nel 1929.
L’edificio mostra elementi dell’avvenuta
chiusura dell’intercolumnio dei lati lunghi
mediante blocchi parallelepipedi di calcare,
effettuata verosimilmente in età non
successiva alla distruzione della città, per
ragioni forse di tipo cultuale. Lungo la fronte
ovest del Tempio sono visibili tracce della
fornace del XVI secolo con relativo cumulo di
scarico, mentre sul lato meridionale sono
ancora preservati resti delle strutture costruite
con materiali architettonici di reimpiego
pertinenti al Tempio.
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