ASSOCIAZIONE DIMORE STORICHE ITALIANE XXXII Assemblea Nazionale Firenze, 24 - 27 Aprile 2009 Sezione Toscana XXXII Assemblea Nazionale Firenze, 24 - 27 Aprile 2009 Sezione Toscana 1 Organi Centrali dell'Associazione Dimore Storiche Italiane: Presidente Onorario: Niccolò Pasolini dall'Onda Presidente: Aldo Pezzana Capranica del Grillo Vice Presidenti: Ippolito Calvi di Bergolo Luciano Filippo Bracci Consiglio Nazionale: Ippolito Bevilacqua Ariosti Prospero Colonna Giuliano Malvezzi Campeggi Carlo Marenco di Santarosa Nicola de Renzis Sonnino Emanuela Varano Presidenti delle Sezioni Regionali: Massimo Lucà Dazio Annibale Berlingieri Francesco Zerbi Cettina Lanzara Francesco Cavazza Isolani Sergio Gelmi di Caporiacco Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini Giovanni Battista Gramatica di Bellagio Camillo Paveri Fontana Maddalena Trionfi Honorati Nicoletta Pietravalle Filippo Beraudo di Pralormo Rossella Arditi di Castelveterre Bernardo Tortrici di Raffadali Niccolò Rosselli Del Turco Antonia Marzani di Sasso e Canova Clara Caucci von Saucken Giorgio Zuccolo Arrigoni Abruzzo Basilicata Calabria Campania Emilia Romagna Friuli Venezia Giulia Lazio Liguria Lombardia Marche Molise Piemonte e Valle d'Aosta Puglia Sicilia Toscana Trentino Alto Adige Umbria Veneto 2 Consiglio di Presidenza: Aldo Mario Arena Mario Lolli Ghetti Arturo Nattino Stefano Passigli Probiviri: Aimone di Seyssel d'Aix Novello Cavazza Francesco Marigliano Caracciolo Carlo Patrizi di Ripacandida (suppl.) Vieri Torrigiani Malaspina (suppl.) Revisori dei Conti: Ferdinando Cassinis Luciana Faina Masetti Zannini Maria Termini, Francesco Bucci Casari (suppl.) Francesco Schiavone Panni (suppl.) Coordinatore dei Gruppi Giovanili: Valeria Bossi Fedrigotti von Lutterotti 3 Comitato Direttivo della Sezione Toscana: Presidente: Niccolò Rosselli Del Turco Vice Presidenti: Agostino Agostini Venerosi Della Seta Nicola Leone De Renzis Sonnino Segretario: Massimo Conti Donzelli Consiglieri: Rosanna Angelini Margherita Anselmi Zondadari Scarampi di Pruney Federico Barbolani di Montauto Maria del Carmen Bürgisser Mazzarosa Devincenzi Bernardo Gondi Luigi Malenchini Neri Martini Bernardi Aloisia Marzotto Caotorta Leopoldo Mazzetti Valentino Mercati Lorenzo Niccolini Sirigatti Patrizia Pampana Guayana di Bagnacavallo Andrea Pannocchieschi d’Elci Vanni Pozzolini Maria Luisa Ruschi Noceti Fontana Andrea Todorow di San Giorgio Alessandro Torrigiani Malaspina Pietro Torrigiani Malaspina Costituiscono la Giunta Esecutiva Delegato per Arezzo Delegato per Lucca Delegato per Massa Carrara Delegato per Pisa Delegato per Siena 4 La Sezione Toscana ha organizzato le visite nelle dimore grazie all'impegno e alla collaborazione dei consoci: Marchesi Piero e Francesca Antinori Piazza Antinori 3, 50123 Firenze Conte Professore Neri Capponi Via dei Bardi 36, 50125 Firenze Marchesa Sveva Gaetani dell’Aquila d’Aragona Cavalletti Via G.Mangili 12, 00197 Roma Contessa Lucrezia Corsini Miari Fulcis Via del Salviatino 1, 50014 Maiano Fiesole (FI) Principi Don Filippo e Donna Giorgiana Corsini Via il Prato 58, 50123 Firenze Duchi Don Duccio e Donna Clotilde Corsini Via San Piero di Sotto 1-3, 50026 San Casciano Val di Pesa (Firenze) Marchesa Bona de' Frescobaldi Marchi Via S.Spirito 13, 50125 Firenze Signor Gianfranco Luzzetti Via degli Scopeti 10, 50026 S.Casciano Val di Pesa (FI) Marchese Lionardo Lorenzo Ginori Lisci Via de' Ginori 11, 50129 Firenze Conte Architetto Piero Paolo Guicciardini Via dei Guicciardini 15, 50125 Firenze Baronessa Maria Luisa Maestrelli Locatelli De Hagenauer Lungarno Corsini 4, 50123 Firenze Marchese Luigi Malenchini Via de' Benci 1, 50122 Firenze Marchesa Francesca Malenchini Ginori Lisci Via de’ Benci 1, 50122 Firenze 5 Signora Grazia Marchi Via Santo Stefano 75, 40125 Bologna Signora Mariella Marchi Pallavicino Via Curtatone 2, 50123 Firenze Dottor Ingegnere Carlo Marchi Via Trento 16, 50129 Firenze Marchese Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano Via dei Serragli 8, 50124 Firenze Marchese Puccio Pucci di Barsento Via dei Pucci 4, 50122 Firenze N. D. Principessa Isabella Fabrizia Ruffo di Calabria Becherucci Borgo Pinti 68, 50121 Firenze N. D. Contessa Livia Sanminiatelli Branca di Romanico Lungarno Corsini 10, 50123 Firenze Conte Fabio Sanminiatelli Lungarno Corsini 10, 50123 Firenze Marchese Raffaele Torrigiani di Santa Cristina Via del Campuccio 53, 50125 Firenze Marchese Alessandro Torrigiani Malaspina Via dei Serragli 144, 50124 Firenze Marchese Vieri Torrigiani Malaspina Via dei Serragli 144, 50124 Firenze 6 La Sezione Toscana ringrazia per la collaborazione: Soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino Assessorato alla Cultura del Comune di Firenze Associazione Culturale Città Nascosta Giovanna Ciampi Massimo Conti Donzelli Gerardo Gondi Lorenzo Manzani Irene Borin Da Campo Paolo Palmerini Don Simone Nencioni L’emblema della XXXII Assemblea Nazionale A.D.S.I. è stato realizzato dallo Studio di Architettura del Consocio Architetto Agnese Mazzei. 7 8 Aldo Pezzana Capranica del Grillo Presidente dell'Associazione Dimore Storiche Italiane Le assemblee nazionali dell'A.D.S.I. si svolgono a rotazione nelle varie regioni d'Italia, il che è anche un modo per far conoscere ai Soci ed ai loro accompagnatori nuove bellezze del Paese e visitare dimore storiche normalmente non aperte al pubblico. Quest'anno l'assemblea si tiene a Firenze e non si poteva scegliere meglio. Delle incomparabili bellezze artistiche e storiche del capoluogo toscano è inutile parlare. L'efficienza della Sezione Toscana e del suo infaticabile Presidente è a tutti nota. Coloro che interverranno, e speriamo siano numerosi, potranno utilizzare per il loro soggiorno oltre agli alberghi, le “Residenze d'Epoca” fiorentine. Le “Residenze d'Epoca” sono una ospitalità, definita da una legge della Regione Toscana, che consente l'utilizzo di dimore storiche in una forma paralberghiera, molto utile per dare un reddito alla dimora senza alterarne il carattere abitativo. Naturalmente, oltre ai Soci che offrono l'ospitalità nelle loro dimore, è prevista la visita di altri palazzi e ville, che troverete descritti in questo libretto. Sono ben 28 i Soci che accoglieranno i partecipanti all'assemblea. I percorsi turistico - culturali sono certo una parte importante delle nostre assemblee, tuttavia i Soci debbono tenere ben presente che l'assemblea è il momento più importante della vita dell'Associazione: in essa i Soci hanno l'opportunità di discutere dei grandi problemi della vita associativa e fare sentire le loro voci agli organi direttivi nazionali. Pertanto io spero che alle visite previste durante lo svolgimento dei lavori assembleari partecipino solo gli accompagnatori, mentre i Soci non disertino la sala delle riunioni. Le dimore storiche sono una parte molto importante del patrimonio culturale della Nazione e speriamo perciò in una presenza alla nostra assemblea dei rappresentanti del potere politico nazionale e regionale. In questo libretto troverete l'elenco degli enti e delle società che hanno dato un sostegno economico: ad essi va il più sentito ringraziamento mio e dell'Associazione. A Niccolò Rosselli Del Turco ed a tutti i componenti del Consiglio Direttivo della Sezione Toscana i miei complimenti per l'entusiasmo con il quale si sono dedicati all'organizzazione dell'assemblea e per il risultato raggiunto. A tutti i Soci che interverranno ed ai loro familiari che li accompagneranno il mio più cordiale saluto. 9 10 Niccolò Rosselli Del Turco Presidente della Sezione Toscana dell’Associazione Dimore Storiche Italiane La Sezione Toscana di A.D.S.I. rivolge un caloroso saluto ai Soci intervenuti a questa edizione fiorentina dell'Assemblea annuale della nostra amata Associazione. Ringraziamo tutti gli enti che hanno voluto sostenerci economicamente nell'organizzare l'iniziativa: la Società CHOPARD, la Banca Cassa di Risparmio di Firenze spa, la Camera di Commercio di Firenze, la Banca Passadore e la Società TRASS. Infine ringraziamo i Consoci che hanno voluto donare un omaggio di benvenuti a Firenze agli ospiti arrivati da lontano: Wanda Ferragamo ed i suoi figli (Feroni Finanziaria Spa), Valentino Mercati (Aboca Spa), i fratelli de' Frescobaldi (Marchesi de' Frescobaldi Spa). La Sezione Toscana ha già organizzato l'Assemblea Nazionale in due precedenti occasioni. La prima fu a Firenze nel 1982, poche settimane in anticipo rispetto all'approvazione della fondamentale Legge 512. Si trattò anche della prima assemblea organizzata lontano da Roma e con accoglienza in dimore storiche di associati. Vi parteciparono circa 40 Soci ed una trentina di accompagnatori. La seconda volta fu nel 1977 a Lucca. I numeri furono sbalorditivi: parteciparono oltre 200 Soci e quasi altrettanti accompagnatori, in 4 giornate dense di visite ed eventi. Si riuscì anche ad ottenere la presenza di un rappresentante del Governo, nella persona dell'allora Sottosegretario per i beni culturali Willer Bordon. Ci fu una serata, quella presso la Villa Bruguier di Segromigno in Monte, in cui si raggiunsero 430 presenze tra Soci ed ospiti. Quest'anno, anche a causa dell'importanza dell'appuntamento per via delle modifiche allo Statuto Sociale, abbiamo deciso di tenere nuovamente i lavori assembleari a Firenze. Siamo nella città che ha il massimo numero di associati: i Soci ordinari sono 272, gli aderenti 26 e 24 gli aderenti giovani. Complessivamente sono 28 i Soci che, tra visite ed accoglienza nelle Residenze d'Epoca, vi ospitano. Ad essi va il sentito ringraziamento della Sezione Toscana. Siamo anche nella città che ha una delle maggiori concentrazioni di beni culturali del mondo. Per quanto ci interessa, i complessi vincolati presenti nel territorio comunale sono 812. Noi valutiamo che circa 500 possano definirsi dimore storiche. Quindi i nostri palazzi, torri e ville, con le loro collezioni, biblioteche ed archivi, contribuiscono a costituire per Firenze un importante segmento di quanto concorre a fare della città un crocevia fondamentale dell'attenzione mondiale di chi ama la cultura in tutte le sue manifestazioni: qui oltre ai beni culturali vi sono Istituti italiani e stranieri e numerose espressioni di creatività, che partecipano a formare quello che oggi si definisce una città d'arte. Tutto questo influisce in modo sostanziale sull'economia cittadina e toscana in genere. Infatti, anche se a Firenze il distretto industriale, agricolo e dei servizi forma una delle maggiori economie nazionali, il settore dei beni culturali è parte fondamentale di questo complesso, determinando uno dei maggiori turismi d'arte del nostro paese. Tutti gli anni si registrano in città quasi 3.000.000 di arrivi per circa 7.500.000 presenze, soltanto nelle 920 strutture alberghiere ed extra-alberghiere (complessivamente 40.000 posti letto). A questi vanno aggiunti i numerosi turisti accolti in appartamenti di affitto, che sfuggono alle statisti- 11 che (ad esempio gli studenti universitari sia italiani che dei 35 istituti nord-americani presenti in città). Nel panorama dell'accoglienza turistica si inserisce anche la nostra Associazione, che volle fortemente l'introduzione nella legge regionale del turismo della fattispecie di accoglienza denominata Residenza d'Epoca. Si tratta di piccole strutture ricettive, realizzabili soltanto in edifici storico-artistici soggetti alla legge nazionale di tutela (cioè il Codice dei Beni Culturali): in Firenze ve ne sono circa 30 per oltre 500 posti letto. Un momento di rammarico deriva dalla pessima urbanistica ed edilizia realizzate negli ultimi 60 anni. Chi arriva a Firenze con il treno o con l'auto provenendo dalle uscite autostradali di ponente, ha un ben triste panorama delle nuove periferie di quella che in epoche passate veniva chiamata la città del fiore. Vi auguro a tutti buona permanenza! Attendo anche il vostro giudizio su quanto complessivamente la Sezione Toscana ha fatto per ben integrare nelle attività del territorio le Dimore Storiche, non solo come ideale sfondo dell'incomparabile panorama fiorentino, ma come parte vitale di questa antica città. Naturalmente auspico che il vostro giudizio possa essere positivo! 12 Palazzo Corsini, lungarno Corsini 10 Nel panorama tradizionale e conservatore dell'architettura fiorentina, palazzo Corsini costituisce una novità assoluta, in particolare per la scelta - di gusto barocco - di porre in evidenza la facciata sul fiume, quasi ad accompagnarlo. E sul fiume si apre anche il cortile, molto ampio, a cui si accede da un portone sormontato da uno stemma e fiancheggiato da colonne. Al di sopra del portone c'è una balaustra, che percorre la parte centrale della facciata del palazzo all'altezza del piano nobile, e al di là della quale si vede il corpo centrale dell'edificio, assai arretrato rispetto al fiume, con le sue due ali laterali. Al tutto fa da sfondo il coronamento del tetto, con vasi a cratere di tipo antico e statue, secondo un gusto tutto settecentesco, decorativo e scenografico, che ricorda l'idea del giardino e delle quinte di scena di un teatro. L'intera facciata è animata e mossa dal vuoto del cortile, in modo da impedire qualsiasi accenno di monotonia. Ai primi del Cinquecento l'area dell'attuale palazzo era di vari proprietari tra cui spiccava Bindo Altoviti, l'importante banchiere mecenate di artisti e grande nemico dei Medici. L'inimicizia con i Medici portò nel 1555 alla confisca dei suoi beni, e tra questi le case di via del Parione, che furono donate in un primo tempo al marchese di Marigano e in seguito a don Giovanni, figlio di Cosimo I ed Eleonora degli Albizi. Fu questi ad apportare i primi miglioramenti alle case ed a acquistarne altre, tanto da potersi dire l'iniziatore del palazzo. Morto Don Giovanni la proprietà passò nel 1621 al principe don Lorenzo e in seguito a Giovan Carlo, che nel 1640 vendette il palazzo vecchio e nuovo del Parione a Maddalena Machiavelli, vedova di un Corsini. Sarà lei a lasciarlo in eredità al figlio Bartolomeo Corsini, a far quindi entrare il palazzo tra le proprietà della famiglia a cui appartiene ancora. I lavori di trasformazione, cioè quelli che porteranno il palazzo all'aspetto odierno, furono voluti da Bartolomeo e dai suoi successori e si svolsero lungo l'arco di quasi un secolo (dal 1650 al 1735 circa). Vari furono gli architetti che vi si alternarono. I primi lavori sembra siano stati diretti da Alfonso Parigi il giovane responsabile dei lavori dal 1652, che aveva partecipato agli ampliamenti di palazzo Pitti. A questi probabilmente seguirono prima Ferdinando Tacca e poi, tra il 1679 e il 1681, Pierfrancesco Silvani, che in quegli anni lavorava anche alla cappella di famiglia nella chiesa del Carmine. All'architetto Antonio Ferri è comunemente attribuita la facciata sul lungarno e il prospetto sul cortile, lo scalone d'onore ed il grande salone monumentale al piano nobile. Al cortile, uno dei più ampi di Firenze, si può accedere tanto dal portone sul lungarno, quanto da via del Parione. Da questo lato, oltre un androne da cui parte anche lo straordinario scalone per il piano nobile, si apre un loggiato, controparte della balaustra che si affaccia sul fiume dalla parte opposta del cortile. Dal grande loggiato si entra negli appartamenti chiamati estivi in quanto rinfrescati da un sistema d'aereazione che immetteva al centro di ogni stanza, aria fresca, proveniente dagli scantinati. Soffitti e pareti furono inizialmente affrescati da Jacopo Chiavistelli e Antonio Giusti tra il 1688 e il 1697. Andrea Scacciati dipinse le decorazioni floreali, Rinaldo Botti quelle architettoniche, Andrea Landini si occupò invece delle grottesche. Poi, fra il 1776 e il 1792 i locali furono rinnovati da Stefano Fabbrini e dai suoi collaboratori. Sorprendente e affascinante la “grotta del Ninfeo” ideata da Antonio Ferri, decorata con madreperle, stucchi, spugne, conchiglie e tessere di vetro colorate da Carlo 13 Marcellini e dipinta da Alessandro Gherardini. Corredata da una fontana e da vari giochi d'acqua, recentemente ripristinati dopo un lungo periodo di inattività. Lo scalone, unico nel suo genere a Firenze, a due rampe parallele, viene messo a punto intorno al 1730 da Girolamo Ticciati con la collocazione entro una nicchia, nel pianerottolo intermedio, della statua di Clemente XII, opera di Carlo Monaldi. Coperto con una volta a forma di cupola, è impreziosito da decorazioni a stucco con lesene ioniche e da sfondati prospettici di mano di Jacopo Chiavistelli eseguiti nel 1695. Nello stesso anno Carlo Marcellini si occupa di restaurare e sistemare le statue dei gladiatori. Al centro il grande stemma Corsini Rinuccini introduce al salone del trono la cui preziosa e ricca decorazione scultorea prelude al grande affresco di Anton Domenico Gabbiani con “la gloria della famiglia Corsini” dove la maquette del palazzo è sorretta in cielo dalle figure allegoriche del Valore, dell'Architettura e dell'Ingegno. I vasti ambienti interni, - un susseguirsi di stanze, salotti, sale, camere affrescate e stuccate fra cui non dimentichiamo la galleria Aurora prima fra tutte ad essere decorata dalla mano di Alessandro Rosi e Bartolomeo Neri, ed ancora la sala da ballo di Alessandro Gherardini, la cappella del primo piano dipinta nel 1826 da Luigi Catani,- ci trasportano in un'atmosfera che lascia immaginare lo sfarzo e la sontuosità di allora. Non possiamo tralasciare di ricordare che il palazzo è anche la sede della più importante quadreria privata di Firenze i cui capolavori, sono stati rimossi per effettuare lavori di restauro. Oggi il palazzo è tornato a svolgere il ruolo per il quale è stato pensato e costruito, quello di rappresentanza. Grazie agli imponenti lavori di ristrutturazione e restauro compiuti dagli attuali proprietari, la contessa Lucrezia Corsini Miari Fulcis, la contessa Livia Sanminiatelli Branca e il conte Fabio Sanminiatelli, nel palazzo si svolgono ricevimenti esclusivi, sfilate, gala dinner, servizi fotografici, mostre ed esposizioni, tornando così ad essere un monumento non solo visitato ma anche studiato da numerosi studenti e professori di varie facoltà universitarie. 1) Palazzo Ximenes Panciatichi, borgo Pinti 68 L'origine del palazzo risale ai due noti architetti Giuliano (1445-1516) e Antonio da Sangallo (1455-1534), che possedevano diverse case nella zona acquistate in parte nel 1490 dai monaci cistercensi. Nel 1498 commissionarono la costruzione del nuovo palazzo, un edificio di pianta pressoché quadrata, con annesso un ampio orto, la cui lunghezza era circa il doppio di quello attuale. Lo storico Giorgio Vasari racconta di come in questo palazzo i due fratelli “condussero in Fiorenza nelle lor case una infinità di cose antiche di marmo bellissime …”, facendo del palazzo una sorta di museo personale, pari a quelli dei potenti signori che servirono nella loro vita; vi figuravano statue antiche e moderne, dipinti di celebri artisti quali Sandro Botticelli, Paolo Uccello e Antonio del Pollaiolo. Il complesso rimase di proprietà dei Sangallo fino al 1603 quando Jacopo e Giovanni vendettero la dimora con il giardino a Sebastiano di Tommaso Ximenes d'Aragona (1568-1633). Gli Ximenes d'Aragona, intraprendenti ebrei di origine portoghese che avevano accumulato una cospicua fortuna tramite i commerci con le Americhe, si erano trasferiti a Firenze nella seconda metà del Cinquecento. A seguito di ingenti investimenti nel Granducato di Toscana, Sebastiano ricevette in dono dal Granduca Ferdinando I dei Medici il feudo di Saturnia con 14 titolo marchionale, coprì diverse cariche pubbliche, tra le quali quella di senatore nel 1625, e, nel 1593, sposò Caterina, figlia di Raffaello de' Medici, marchese di Castellina. Sebastiano Ximenes, oltre a risistemare il giardino, incaricò un artefice di grido, l'architetto Gherardo Silvani, di rimodernare il palazzo, ingrandirlo verso sud e dotarlo di una nuova facciata caratterizzata, al piano terra, da un portale centrale affiancato da due coppie di finestre inginocchiate, e, al primo piano, da finestre trabeate laterali e un terrazzo centrale, sul quale si apre una porta-finestra sormontata dallo stemma di famiglia. Dopo l'intervento del Silvani il palazzo ed il giardino non subirono variazioni di rilievo, salvo abbellimenti e decorazioni dell'atrio e delle sale al piano nobile, incluso il rinomato salone da ballo, fino a poco dopo la metà del Settecento, quando Ferdinando Ximenes, nato nel 1747 e rimasto presto orfano del padre Anton Francesco, avendo ereditato l'immenso patrimonio familiare direttamente dal nonno nel 1753, ampliò l'edificio verso lo spazio verde retrostante. La nuova fabbrica articolata intorno ad un ampio cortile rettangolare preceduto da un grande androne, si affaccia sul giardino con un loggiato al piano terra, coronato da una serliana. Furono realizzate le due belle scale simmetriche a fasce curvilinee degradanti che si fronteggiano nel grande atrio di accesso. Il centro del cortile fu decorato da una statua di Ercole che lotta contro il leone, attribuita dall'architetto Francesca Screti allo scultore carrarese Giovanni Baratta, nato nel 1660 e allievo di Giovan Battista Foggini, e ai lati da due statue in marmo rappresentanti Apollo e Diana Cacciatrice. L'ampliamento promosso da Ferdinando comportò conseguentemente una riduzione del giardino che, probabilmente, venne sistemato in base alle nuove esigenze funzionali ed estetiche. Lo spazio verde fu suddiviso in aiuole di forma rettangolare allungata e coronato, sulla testata, da una fontana con “prospetto” che fungeva da quinta scenica all'ingresso del palazzo, seguendo il tradizionale schema del giardino urbano fiorentino. Nel 1775, in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose attuata dai Lorena, gli Ximenes ingrandirono la proprietà, acquistando il contiguo noviziato di San Salvatore. Il noviziato era stato fondato nel 1632 dai Padri Gesuiti di San Giovannino, i quali avevano ricevuto in eredità il grande complesso dal Cavaliere Benedetto Biffoli, con l'obbligo di istituirvi un noviziato. Ferdinando, che era malauguratamente affetto da squilibrio mentale fin da giovanissimo, viaggiò spesso all'estero, e fu proprio in occasione di un soggiorno a Parigi che gli fu fatta sposare per procura la sedicenne Charlotte de Lesteyre, figlia di Gian Carlo, marchese di Saillant e conte di Combour, gentiluomo di camera del re di Francia Luigi XVI. La giovane era anche nipote per parte di madre del conte di Mirabeau, alle prese con debiti di gioco. La famiglia de Lesteyre riuscì ad entrare nell'amministrazione dei beni del marchese, grazie anche all'aiuto del chirurgo personale di Ferdinando, Giovanni Utis, che era riuscito a far nominare suo fratello Antonio amministratore per conto dei de Lesteyre dell'intero patrimonio familiare Ximenes d'Aragona. I legami tra i de Lesteyre e i rivoluzionari sono testimoniati anche dal fatto che nel 1796 l'ambasciata francese a Firenze fu trasferita proprio nel palazzo Ximenes di Borgo Pinti; qui fu poi ospitato Napoleone nella notte tra il 30 giugno e il primo luglio 1796, in occasione della sua visita a Firenze, e qui pure si insediò nei primi giorni di aprile del 1799 (dopo la fuga 15 del Granduca) il Ministro Residente della Repubblica Francese, il cittadino Reinard. Circa la visita di Napoleone, che a quell'epoca non aveva ancora fondato il Regno d'Etruria e si trovava in Toscana per cercare le parentele con le quali costruire le sue pretese di nobiltà, racconta la cronaca dell'epoca: “………… Napoleone entrò a Firenze, accompagnato dal suo Stato Maggiore e da una scorta di dodici dragoni in alta uniforme. Dopo essersi alloggiato al Palazzo Ximenes presso il ministro francese Giot, ed aver passato la notte, il mattino successivo era in programma un pranzo a Palazzo Pitti, ospitato dal Granduca Ferdinando III di Toscana di Asburgo-Lorena. I due avevano in comune l'età di ventisette anni ma i caratteri e gli interessi opposti. Con una carrozza degna di un monarca, Napoleone lasciò il Palazzo Ximenes accompagnato oltre che dalla scorta personale da cento soldati dello sparuto esercito toscano, su sua esplicita richiesta, prima del pranzo visitò la Galleria Granducale degli Uffizi, il Corridoio Vasariano e la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, accompagnato dal direttore della collezione Tommaso Puccini. Le cronache ricordano come il futuro imperatore rimase colpito dalla Venere Medici, al punto di chiedere ironicamente al Puccini se lo Stato di Toscana avrebbe dichiarato guerra se "qualcuno" avesse pensato di trasferire a Parigi quel capolavoro. Durante il pranzo ciascuno cercò di rimanere su un effimero livello di cordialità evitando il più possibile di esprimere il proprio pensiero, mentre la sera Napoleone assistette a uno spettacolo teatrale, poi tornò al Palazzo Ximenes e riparti il mattino dopo. Napoleone aveva messo gli occhi su quella statua, così ad un suo preciso ordine, dopo l'occupazione francese e la fondazione del Regno d'Etruria, la statua prese la via per il Louvre.” Alla morte del marchese Ferdinando, ultimo discendente maschio della famiglia Ximenes, il palazzo e il giardino passarono nel 1816 ai figli Bandino (1764-1821) e Pietro Leopoldo (1766-1818) della sorella di Ferdinando, Vittoria, che si era sposata con Niccolò Panciatichi, esponente di un'importante famiglia pistoiese trasferitasi a Firenze nel XVII secolo, I nuovi proprietari, che avevano assunto il cognome Panciatichi Ximenes, ristrutturarono il noviziato di San Salvatore e lo integrarono al palazzo, in modo da creare un'unica unità immobiliare. I lavori, eseguiti tra il 1839 e il 1840, furono progettati dall'architetto Niccolò Matas che tuttavia conservò nel giardino l'originario impianto all'italiana. Nella seconda metà dell'Ottocento, il complesso fu ridotto con la costruzione del quartiere della Mattonaia e il conseguente prolungamento di via del Mandorlo, oggi via Giusti, fino a piazza d'Azeglio: la proprietà Panciatichi Ximenes fu così tagliata in due e fu distrutto l'antico giardino dei Gesuiti conservatisi fino ad allora. Dopo i tagli dovuti al prolungamento della strada di via del Mandorlo, nella seconda metà del XIX secolo, Marianna Panciatichi, ultima discendente della famiglia, sposata ad Alessandro Anafesto Paolucci delle Roncole, donna colta e studiosa di scienze naturali, fece ampliare e restaurare il palazzo, con l'aggiunta di un nuovo fronte verso mezzogiorno, e fece trasformare il giardino in un parco romantico secondo una configurazione che ancora oggi lo caratterizza. Spiccati elementi ottocenteschi nel giardino sono la grande aiuola centrale e i vialetti di ghiaia che le girano attorno e che permettono di avere visuali diverse del palazzo. Estintisi i Panciatichi con la morte di Marianna, sempre per mancanza di eredi maschi e quindi per linea femminile, il palazzo passò prima ai Rabitti-San Giorgio, poi da questi alla famiglia padovana degli Arrigoni Degli Oddi, l'ultima dei quali, Oddina, andò sposa a Francesco Ruffo di Calabria, principe di Scilla, e successivamente alla figlia e attuale proprieta- 16 ria, Isabella Fabrizia Ruffo di Calabria Becherucci, moglie del compianto Cavaliere del Lavoro Ing. Raffaele Becherucci, imprenditore industriale con la passione per il restauro. Dopo le ultime manomissioni avvenute nel 1934, quando il Conte di San Giorgio, allora proprietario dell'immobile, vendette una parte dell'antico giardino lungo via Giusti per costruirvi un edificio con più appartamenti, il palazzo soffrì gravi danni durante l'alluvione dell'Arno del 4 novembre 1966, che provocò la distruzione di tutti gli arredi laccati veneziani che adornavano il piano terreno. Nel corso del 2001/2002, in occasione di un matrimonio di famiglia dell'attuale proprietaria, e successivamente nel triennio 2005/2007, tutto il piano nobile del palazzo, compreso lo scalone di onore, è stato oggetto di un attento lavoro di restauro ad opera dell'Ingegnere Becherucci, che ha permesso il ritorno del salone da ballo centrale (200 mq x 11 m di altezza), e di tutte le sale e stanze adiacenti, al loro primitivo splendore, ritrovando stucchi, decorazioni e colori settecenteschi. La struttura è impreziosita da arazzi con stemmi, quadri e busti antichi, mobili di valore e lampadari e applique settecenteschi autentici. Il piano nobile è stato diviso in due parti, ciascuna con un proprio ingresso separato: il salone, con lo scalone di onore e le quattro sale adiacenti, e il rimanente delle stanze, formanti un appartamento a sé stante, dove è andata ad abitare la famiglia della proprietaria. Approfittando dei lavori di restauro, il salone da ballo centrale con alcune sale adiacenti, compreso il sottostante mezzanino, è stato aggiornato dal punto di vista tecnologico, per ospitare manifestazioni di vario genere, quali convegni, ricevimenti, matrimoni e dotato dei necessari servizi, tra cui l'aria condizionata, un efficiente sistema di illuminazione diretta e indiretta, efficienti servizi per gli ospiti e un intero circuito separato per il catering comprensivo di un'ampia cucina rispondente alle più strette normative, spogliatoi e servizi igienici, al fine di ottimizzare la logistica e favorire il servizio di catering. Il salone può ospitare fino a 210 persone a sedere e oltre 450 in piedi, nel rispetto della normativa specifica. Il palazzo è dunque tornato pienamente a vivere, riprendendo quel ruolo che lo aveva visto importante protagonista della vita fiorentina per quasi cinque secoli della sua storia. 2) Palazzo Gerini, via Ricasoli 42 Verso la fine del XV secolo la famiglia Da Gagliano, che possedeva alcune case in via del Cocomero, l'attuale via Ricasoli, commissionò a Baccio d'Agnolo (1462-1543) la costruzione di una più grande dimora. Del progetto di Baccio restano oggi solo il cortile interno, che doveva essere in asse con un portone centrale, e la parte alta della facciata con le finestre dal bugnato regolare, disposte ad intervalli piuttosto larghi. Nel 1579, l'edificio fu acquistato da Antonio di Filippo Salviati, famiglia di antica origine che fin dalla metà del XIII secolo ebbe un ruolo di primo piano nella Firenze politica, economica e sociale del tempo. Un ramo di questa famiglia, aveva acquistato nel 1546 lo splendido palazzo Portinari Salviati in via del Corso, ora della Banca Toscana, affrescato da Alessandro Allori nel 1572-1578. Acquistato il palazzo in via del Cocomero, Antonio di Filippo Salviati promosse, una decina di anni dopo, importanti lavori di ristrutturazione e decorazione dell'intero edificio. Sono 17 state fatte varie ipotesi sull'autore del progetto, tra le quali il nome del giovanissimo, all'epoca, architetto Gherardo Silvani (1579-1675), che lavorò spesso per la famiglia Salviati. L'occasione dell'intervento fu probabilmente le seconde nozze che Antonio Salviati celebrò nel 1593 con Lucrezia Guadagni, nobile fiorentina. L'architetto eliminò il portale centrale di Baccio d'Agnolo sostituito da due entrate laterali. La facciata, che si impone con nobile e misurata eleganza, distinguendosi dal tessuto edilizio della strada, è articolata su più piani e un mezzanino, e su molteplici assi di aperture. Il ritmo delle finestre e dell'aggettante cornicione marcapiano è bloccato da pilastrate di bozze in pietra forte lavorate a gradina di due dimensioni alternate. Il cornicione marcapiano, che forma il davanzale alle finestre del piano nobile, con la sua orizzontalità riequilibra l'accentuata altezza e l'assialità verticale delle aperture decorate da bozze rustiche. Raffinate le finestre inginocchiate al piano terra protette da belle inferriate in ferro battuto che, in lunga fila e con ritmo ravvicinato, si svolgono da un portone all'altro. Per la parte decorativa, Antonio di Filippo Salviati si avvalse del più aggiornato artista nel panorama coevo del tempo: Bernardo Barbatelli detto il Poccetti (1553-1612), insieme agli allievi, affrescò, tra il 1596 e il 1600, sette stanze al piano terreno, altre sette al primo piano e la cappella al piano nobile. Dello splendido ciclo decorativo del Poccetti, rimangono oggi solamente la cappella e quattro ambienti al piano terra, le altre decorazioni sono scomparse sotto gli affreschi e le ristrutturazioni avvenute nel corso del Settecento e dell'Ottocento. Splendidi sono gli interventi e le numerose commissioni promosse dai marchesi Gerini, successivi proprietari fino all'Ottocento inoltrato. Già nel corso del Cinquecento la famiglia Gerini, attraverso attività mercantili estese in Puglia, in Levante e anche a Londra dove avevano fondato un'agenzia di cambio in società con i Corsini, erano riusciti a creare una notevole potenza economica sancita ufficialmente con il matrimonio, avvenuto nel 1609, tra Ottavio Gerini e Caterina di Francesco dei Medici che diedero avvio, ad uno stretto rapporto con il casato granducale fino all'estinzione degli stessi granduchi. Nel 1650 il palazzo fu acquistato da Carlo di Ottavio Gerini (1616 - 1673), Cavallerizzo Maggiore del Cardinale Carlo de Medici e suo amministratore dei beni. Il Gerini, che si guadagnò la stima dei Medici, potenziò enormemente la fortuna economica della famiglia, tanto che gli fu conferito il titolo di marchese nel 1640. Sulla facciata spicca il loro stemma che, composto da tre catene poste in banda caricate da un corno da caccia con il motto “coelum non animum muto”, domina anche ogni piccolo particolare negli arredi degli ambienti interni. Il palazzo al n. 40 – acquistato da Giovanni Gerini nel 1798 - con belle finestre a timpano triangolare e ricurvo, con lesene terminanti in curiosi mostri di epoca manierista, fa parte del grande edificio che Giuseppe Poggi ristrutturò intorno alla metà dell'Ottocento trasformando il disegno fornito da Bernardo Buontalenti negli anni '80 del Cinquecento per i precedenti proprietari, la famiglia Serguidi: “... e di tutto punto edificò quella casa del Cavalier Serguidi in via del Cocomero, che poi venne ne' Martelli”. Con il radicale intervento operato dal Poggi, la facciata principale al n.42 fu allargata e il portone laterale destro spostato e reimpiegato nella posizione attuale incorporando parte dell'adiacente palazzetto al n.40. 18 Entrando nella dimora notiamo l'intervento di Giuseppe Poggi nella creazione del vasto androne per il passaggio delle carrozze, con le volte del soffitto evidenziate da fasce color pietra, decorato con statue antiche e da due grandi lumi in ghisa. Il loggiato - collegato da grandi porte finestre all'ingresso - aperto su tre lati, consta di belle colonne con capitelli dorici di fattura ottocentesca. É ornato da ritratti di imperatori in stucco e da busti posti su piedistalli in legno scolpiti - addossati alle pareti - rappresentanti figure mitologiche. L'androne dà accesso all'originario cortile di Baccio d'Agnolo, chiuso dal Poggi con grandi porte vetrate. Salendo il monumentale e neoclassico scalone a doppia rampa, disegnato da Gaspare Maria Paoletti (1727-1813) nel 1752 per Andrea Gerini (1691-1766) in occasione del matrimonio tra il nipote Carlo di Giovanni Gerini (1739-1796) e Camilla di Carlo Torrigiani, si accede ai numerosi salotti che compongono lo splendido piano nobile, che ha conservato in modo egregio tutti i suoi arredi, decori, affreschi commissionati dai Gerini nel corso di tre secoli. L'elemento dominante e unificante di tutti i salotti al piano nobile, è l'intervento progettuale e di arredamento realizzato da Giuseppe Poggi tra il 1850 e il 1860, per il quale studiò ogni minimo particolare, dalla tappezzeria, agli stucchi, ai mobili, alle vetrate, alle maniglie, agli specchi. Ancor'oggi i salotti conservano eccezionalmente il loro prezioso arredamento. Per la decorazione pittorica delle volte, furono coinvolti i migliori stuccatori e pittori del tempo quali Luigi Sabatelli (1772-1850), Giuseppe Bezzuoli (1784-1855), che in un salotto ha affrescato la “Follia che guida il carro di Amore” circondata da imponenti stucchi, Antonio Marini (1788-1861) e Annibale Gatti (1827-1909) il più giovane tra tutti. Gli artisti donarono un insieme omogeneo nonostante la varietà dei temi e delle mani. Questi imponenti lavori, furono resi possibili a seguito del matrimonio di convenienza, avvenuto alla fine degli anni '30 dell'Ottocento, tra Carlo Lorenzo Gerini ed Isabella Magnani, erede unica di Antonio Magnani, ricco e nobile di Pescia che nel 1821 aveva acquistato il palazzo Feroni in via dei Serragli 8. Con questo matrimonio, Carlo Lorenzo Gerini riuscì a risollevare le sorti economiche della famiglia che già sullo scorcio del Settecento aveva cominciato a vendere parte delle preziose opere che ornavano la grandiosa collezione di famiglia. Con le nuove disponibilità finanziare, Carlo Lorenzo poté dunque commissionare un generale restauro del palazzo e poté bloccare la vendita della quadreria, per la quale era stato addirittura stilato un catalogo di alienazione nel 1825. Ogni ambiente del piano nobile, è ancor'oggi arredato con molti dipinti dell'avita collezione Gerini che, composta da oltre trecento opere, era stata iniziata da Carlo Gerini allorché, nel 1666, ricevette in dono dal Cardinale Carlo dei Medici, del quale era amministratore dei beni, “copiosi lasciti e masserizie, argenterie e oggetti d'arte”. Fu in particolare con Carlo, con suo figlio Pierantonio e con il nipote Andrea, mecenati e appassionati di arte, che nel palazzo entrarono straordinari capolavori di artisti antichi e coevi, molti dei quali sono oggi alla galleria degli Uffizi ed in musei e collezioni straniere specie anglosassoni. In un salotto, arricchito da tappezzeria di seta blu, la volta è affrescata da una luminosa “Allegoria delle Arti” commissionata da Andrea Gerini a Giuseppe Zocchi (1711-1767) nel 1759. L'artista fu l'autore della celebre serie di disegni con vedute di Firenze e della campagna Toscana che, incisi nelle due serie pubblicate nel 1744, furono commissionate da Andrea 19 Gerini. Nell'affresco, dove sotto lo sguardo imperioso di Giove al centro del soffitto, si dipana una complessa raffigurazione allegorica, splendida è la scena con l'omaggio a Galileo, inedito documento della storia della fortuna iconografica dello scienziato pisano, con le geniali trovate del bimbo che ne mostra l'effigie e dei putti svolazzanti che osservano al cannocchiale i satelliti di Giove. Il committente Andrea Gerini viene esaltato dall'artista, nella scena con l'allegoria della pittura nella quale alla “Pittura” viene presentato il volume della “Raccolta di Stampe rappresentanti i Quadri più scelti”, pubblicato da Andrea nel 1759, aperto alla pagina in cui è raffigurato un gioiello della collezione: l' “Autoritratto” giovanile di Rembrandt (1606-1669) dono di Giovanni Guglielmo, Elettore Palatino, ai marchesi Gerini i quali tuttavia lo vendettero, nel 1818, a Ferdinando III di Lorena (oggi è alla galleria degli Uffizi). Adiacente si apre la splendida galleria commissionata da Carlo Gerini e affrescata da Cosimo Ulivelli, nel 1670 circa, con l'allegoria dei “Quattro Elementi”: la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco. Alla base dell'affresco corre un fregio nel quale, entro medaglioni, vennero ritratti al naturale gli uomini illustri in “armi e lettere di nostra città” come è riportato nella guida “Bellezze della città di Firenze” di Francesco Bocchi e Giovanni Cinelli pubblicata nel 1677. Come in altre dimore coeve, l'ambiente doveva custodire i preziosi dipinti collezionati, dei quali rimangono ancor'oggi alcuni capolavori. Su una parete, due splendide battaglie del francese Jacques Courtis detto il Borgognone (1621-1676), per il quale Carlo Gerini ne aveva commissionate un totale di sei, e sull'altro lato due paesaggi del polacco Pandolfo Reschi (1643-1696) commissionati dal figlio Pierantonio Gerini che, Maestro di Camera del Gran Principe Ferdinando de' Medici, possedeva dell'artista addirittura diciannove opere. Un salotto adiacente, affrescato sulla volta dal neoclassico Tommaso Gherardini (1715-1797) su commissione di Andrea Gerini alla metà degli anni '60 del Settecento, è arredato tra gli altri, da uno splendido stipo in legno impiallacciato d'ebano con intarsi in pietre dure e statuette dorate di Ercole, e da un dipinto di impronta caravaggesca realizzato da Cesare Dandini (1596-1657) che raffigura, con intento didascalico, “due giovani”: il giovane, con i capelli lunghi dalle bellissime vesti, indica la pistola preziosa, rivolta verso lo spettatore, mentre il compare alle sue spalle ricorda che con meno violenza si può corrompere col denaro. Straordinario è l'adiacente salone da ballo progettato da Giuseppe Poggi, alto 16 metri, ricavato eliminando alcuni ambienti interni più piccoli e decorato da specchi e magnifici stucchi bianchi dall'impeccabile orditura. Contrasta stilisticamente il contiguo salottino, completamente affrescato dal giovane Giuseppe Zocchi su commissione di Andrea Gerini negli anni '30 del Settecento. Le ariose storie dipinte, sono inerenti al tema di Adone e Venere tratto dalle Metamorfosi di Ovidio: la “Nascita di Adone”, l' “Incontro tra Adone e Venere” e la “Morte di Adone”. Straordinari sono inoltre gli specchi dipinti che, molto rari a Firenze, li ritroviamo nella galleria affrescata da Luca Giordano nel 1685 nel palazzo Medici Riccardi. In un altro salotto, affrescato sulla volta al tempo del Poggi con scene esaltanti i grandi poeti del passato, sono esposti due splendidi dipinti di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano (1611-1689): la giovanile “Fuga in Egitto” e la tarda “Andata al Calvario”. Mentre il primo dipinto era stato commissionato dal Cardinale Carlo dei Medici ed ereditato da Carlo Gerini, 20 la seconda opera fu espressamente commissionata da Carlo Gerini quale pendant del precedente dipinto: “Con questi due soggetti l'artista volle esprimere un pensiero devoto e cioè che per la salvezza del mondo Cristo prima dovette sfuggire alla morte e più tardi affrontarla”. Splendida è inoltre la grandiosa sala da pranzo il cui arredo, progettato appositamente come un unico insieme in legno di noce scuro intagliato, lucidato e rifinito con lumeggiature dorate, è composto da una gigantesca specchiera abbinata ad un elegante divano, ventiquattro sedie, otto seggioloni e i palchetti per le tende. Il grande stipo di noce, collocato nella stanza in un secondo tempo, fu intagliato da Francesco Morini nel 1860 su commissione specifica del Gerini. Il grandioso palazzo appartiene oggi alla marchesa Sveva Gaetani dell'Aquila d'Aragona Cavalletti, figlia del principe Filippo Gaetani dell'Aquila d'Aragona (1897-1967) e di Isabella di Gerino Gerini (1899-1973). Alla morte senza eredi dello zio Alessandro, Sveva Gaetani ereditò lo straordinario palazzo che ha mantenuto inalterato il suo spettacolare splendore, anche per i recenti impegnativi restauri che ella stessa vi ha condotto. 3) Palazzo Pucci, via de' Pucci 4 Lungo la via che ne prende il nome, si erge Palazzo Pucci, di proprietà di una delle più antiche famiglie fiorentine che vi dimorano ancora oggi e che fin dalle origini si distinsero per l'intelligente e proficuo mecenatismo nei confronti delle arti: nella vicina Chiesa di San Michele Visdomini, detta San Michelino, è conservata infatti ancora la splendida “Sacra Conversazione” commissionata ad Jacopo Pontormo da Francesco Pucci nel 1518. I primi componenti della famiglia Pucci giunsero a Firenze dal vicino contado nel XII secolo e si insediarono nel quartiere di Santa Croce. In seguito un ramo della casata trasferì la sua dimora nel popolo di San Michele Visdomini. Antonio Pucci, iscritto all'arte dei legnaioli, componente degli Otto di Guardia e di Balia nel 1412, fu il capostipite dei quattro rami di questa grande famiglia fiorentina che lasciò, e ha continuato a lasciare fino in tempi a noi prossimi, tracce importanti nella vita pubblica della città. Nonostante la famiglia si distinse per la fedeltà alla causa medicea che le procurò onori e poteri per tanti secoli, da Antonio Pucci e Piera Manetti, derivò uno dei rami noto per alcune famose congiure contro gli stessi Medici. Nel 1560 il nipote Pandolfo Pucci, figlio di Roberto, venne impiccato al Bargello per aver ordito una congiura contro Cosimo I de' Medici. Pochi anni dopo, suo figlio Orazio volendo vendicare il padre, preparò una seconda congiura contro il nuovo granduca Francesco I dei Medici che, sventata nel 1575, lo portò irreparabilmente all'immediata impiccagione. A seguito della congiura del 1560, il palazzo, con tutti i beni di famiglia, era stato confiscato per un breve periodo e, con grande magnanimità, restituito poco dopo ai legittimi proprietari dallo stesso Cosimo I dei Medici. Il primo nucleo del palazzo, che si affaccia sulla via omonima con le sue innumerevoli finestre, risale al 1480 quando Antonio Pucci acquista su via dei Calderai, oggi via dei Pucci, un complesso di case, orti e una piazza. Il Cardinale Lorenzo, figlio di Antonio, volendo “accrescere” e migliorare tutta una serie disarmonica e irregolare di edifici e “palagetti”, prima 21 del 1525 ne commissiona la sistemazione ad Antonio da Sangallo il giovane (1484-1546) il quale, tenendo conto delle successive divisioni patrimoniali, realizza due edifici contigui, uno sulla cantonata tra via dei Pucci e via dei Servi e l'altro in aderenza, lungo via dei Pucci, che si sviluppano attraverso un percorso diversificato e irregolare. Tra la fine del XVI e il XVII secolo le proprietà si erano ingrandite notevolmente, e si estendevano per tutta via del Cocomero, l'attuale via Ricasoli. Con i figli del senatore Niccolò Pucci (1556-1625) la proprietà si divise definitivamente: al secondogenito Alessandro (16031652) e alla sua discendenza, fino all'estinzione di questo ramo avvenuta nel 1808, spettò il palazzo sulla cantonata tra via dei Pucci e via dei Servi, mentre al primogenito Giulio (15901672) e alla sua discendenza, toccò il palazzo maggiore, ancor'oggi di loro proprietà. Con Orazio Ruberto (1625-1697), figlio di Giulio, questo ramo principale ottenne nel 1662, da Filippo IV di Spagna, anche il titolo di marchesi di Barsento. Nel 1681 Gian Lorenzo Pucci (1645-1728), figlio di Alessandro, proprietario del palazzo in cantonata tra via dei Pucci e via dei Servi, su disegno di Paolo Falconieri (1634-1704) diede inizio al cantiere che portò il complesso ad assumere l'attuale aspetto. Sono documentati sei pagamenti per un “cannone di disegni” che, a partire dal 1682 fino al 1683, con una certa regolarità arriva e riparte dal palazzo fiorentino verso Roma dove risiede il Falconieri. I consistenti lavori, per una somma complessiva di circa 15.000 scudi, si protraggono per circa quindici anni e riguardarono la facciata e l'ampliamento dell'edificio. Pittori e quadraturisti, quali Giovanni da San Giovanni, Jacopo Chiavistelli e Gian Domenico Ferretti, furono coinvolti nella decorazione degli ambienti interni tra la fine del Seicento e i primi del Settecento. Nel 1748, anche Orazio Roberto Pucci marchese di Barsento (1730-1802), proprietario del palazzo adiacente, diede inizio ai lavori che nel corso di un quinquennio portano il fronte su via dei Pucci, tra via Ricasoli e via dei Servi, ad assumere una veste unitaria con una facciata che collega e fonde i differenti frammenti dietro un unico maestoso prospetto, seguendo l'impianto della facciata adiacente progettata dal Falconieri. Orazio mantiene pressoché immutato l'antico impianto cinquecentesco; fa demolire tutte le unità edilizie limitrofe acquistate nel corso di quasi due secoli, fino ad allora oggetto soltanto di un intervento di ammodernamento nei primi anni del Settecento da parte di alcuni architetti tra cui Antonio Ferri, e in loro luogo fa erigere un complesso completamente nuovo. La contabilità documenta i pagamenti, dal 1748 al 1754, ad Antonio Giachi e Bernardino Ciurini. In seguito, dal 1751, quando tutti i lavori strutturali sono pressoché terminati, si iniziano a registrare spese per la realizzazione degli apparati decorativi interni nelle sale al piano terra e al piano nobile. Il lunghissimo fronte unico dei due palazzi, è organizzato secondo tre sezioni accostate, di cui quella centrale più ornata; il bugnato rustico definisce l'edificio dalle quattro finestre del piano terreno, prossime al portone centrale fino al fregio che divide il terreno dal primo piano, dove un finestrone arcuato rappresenta il fulcro del prospetto, incassandosi nel muro con un organismo di archi e colonne. Gli stucchi del finestrone che incorniciano lo stemma Pucci, è probabile che siano opera di Bartolomeo Portogalli per il quale risultano pagamenti per la nuova fabbrica nel 1758-1759. Molto più semplici e dilatate orizzontalmente le facciate laterali rispetto a quella centrale, con il bugnato rustico che inquadra i cantonali, in contrasto 22 con il bugnato liscio in corrispondenza degli accessi terreni. Mentre oggi la parte che fa angolo con via Ricasoli appartiene ai discendenti dello scomparso Emilio Pucci, primogenito di Orazio Pucci, insignito di medaglie al valor militare e che ha lasciato in eredità alla figlia Laudomia il marchio della prestigiosa casa di moda che porta il suo nome, la parte del palazzo più antico, cioè quella al centro della facciata di via Pucci, appartiene al marchese Puccio Pucci, fratello di Emilio, secondogenito di Orazio, “custode” dell'Archivio familiare che ha reso certa la discendenza del proprio nome con il figlio Giannozzo e il nipote Giacomo. Il cortile, frutto delle numerose ristrutturazioni avvenute nei secoli, è stato restaurato dal marchese Puccio Pucci negli anni Ottanta del Novecento con un lungo e intelligente lavoro da lui stesso ideato per trasformare gli ambienti in una sorta di galleria commerciale. Attraverso un vasto androne delimitato da una grande cancellata lignea si passa nel cortile. Si possono notare le belle colonne con capitelli tuscanici, che forse formavano l'antico cortile cinquecentesco, e le finestre che si affacciano sulla corte, la cui dimensione decresce col progredire dell'altezza. Sulla destra un prospetto di come erano le antiche case medioevali prima del rifacimento seicentesco, e adiacente, un grande cartello stemmato con l'arme dei Pucci composta dalla testa di moro cinta da una fascia d'argento. Al secondo piano si trova l'appartamento di rappresentanza del marchese Puccio Pucci, dove attraversando i vari salotti, la galleria e la sala da pranzo, si respira ancora l'atmosfera degli antichi fasti. Nel salone di ingresso, spicca un antico altare chiesastico riadattato in epoca imprecisata, come contenitore per antichi vasi da farmacia, esposti all'interno. Tele e tavole dal XIV al XVIII secolo, parte dell'avita collezione di famiglia il cui inventario è esposto in una delle camere da letto, ornano i vari ambienti concentrandosi in numero maggiore nell'apposita galleria. In quest'ultima, attira l'attenzione la seicentesca tela con “Deità marine” del bolognese Francesco Albani (1578-1660), allievo dei Carracci, la cinquecentesca opera con “Amanti Veneziani” di Francesco Torbido detto “il Moro” (1482-1562), allievo di Giorgione, e gli espressivi ritratti di artisti fiorentini del Seicento tra i quali spicca la “Testa di vecchio con goletta bianca” di Giovanni Mannozzi detto Giovanni da San Giovanni (1592-1636). Curiosa la settecentesca sedia portantina in legno dipinto. Nel salotto prospiciente via dei Pucci, ornato da mobili, specchiere, tende e tappezzeria ottocentesca, una parete ospita un'elegante “Giustizia” del caravaggesco Cesare Dandini e due opere seicentesche - “Santa Cecilia” e “Allegoria della musica” – del fiorentino Lorenzo Lippi. Nel vano che precede le due camere da letto, è esposta, in numerose vetrine, la preziosa raccolta di porcellane e maioliche antiche e moderne. Nella camera con letto a baldacchino, oltre agli oggetti di uso quotidiano e alle foto degli avi che ci illuminano su i vari legami familiari, splendido è il piatto eseguito da Francesco Xanto per i Pucci nel 1532, che attesta la fortuna della scuola di Raffaello. La sala da pranzo, apparecchiata con ceramiche ottocentesche della manifattura Ginori di Doccia e ornata sulle pareti da finte vedute architettoniche, è preceduta da un elegante salotto nel quale è esposta l'espressiva tela “Guerriero con scudo” attribuita al napoletano Salvator 23 Rosa ma probabilmente del meno noto Pietro Muttoni, detto Pietro della Vecchia (16051678). L'appartamento all'ultimo piano è dominato da un unico capolavoro. Dalle finestre e dalle terrazze siamo storditi dalla visione ravvicinata della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, dove sembra di toccare con mano l'immensa cupola brunelleschiana! Al primo piano ha sede infine il prezioso archivio sistemato dai proprietari in una sala appositamente arredata nel 1988. Sulle alte pareti campeggiano alcuni ritratti di famiglia di “Puccio Pucci” (1531-1560), “Roberto Pucci” (1463-1547), “Antonio Pucci” (1418-1484) e di “Orazio di Lorenzo Pucci” (1552-1625). Sulla balaustra del soppalco, sono stati dipinti gli stemmi delle varie famiglie con le quali i marchesi Pucci, tramite unione matrimoniale, si sono imparentati nel corso dei secoli. L'archivio è costituito complessivamente da 1.611 pezzi e, tra i rari documenti conservati, si ricordano le lettere di alcuni personaggi illustri della fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento: tra gli altri, le scritture di papa Paolo III, dell'Imperatore Ferdinando re di Ungheria, di papa Clemente VIII, del cardinale Innocenzo Cybo e, non ultimo il carteggio di Lorenzo de' Medici con Antonio Pucci tra il 1482 ed il 1483. 4) Palazzo Ginori, via de’ Ginori 11 L'origine di palazzo Ginori risale al 1515, quando Carlo Ginori, già proprietario di alcune case nel borgo di San Lorenzo, acquistò altri tre edifici sui quali fece costruire, tra il 1516 ed il 1520, l'attuale edificio, ricordato tra i più notevoli dell'epoca. La perdita, dall'archivio familiare, di un libro contenente alcune notizie attinenti la costruzione del palazzo, impedisce di stabilire con certezza l'autore del progetto. Tuttavia la critica è concorde, per varie ragioni, nel ritenerlo opera di Baccio d'Agnolo, architetto che aveva già lavorato per Carlo Ginori, e che sembra si fosse occupato anche della costruzione, per la stessa famiglia, della villa nei pressi di Calenzano, denominata la Torre di Baroncoli. L'attribuzione del progetto a Baccio d'Agnolo giustificherebbe inoltre le notevoli somiglianze tra palazzo Ginori e palazzo Guadagni in piazza Santo Spirito, opera del Cronaca, del quale Baccio fu allievo. La facciata di palazzo Ginori è scompartita in sei assi, si sviluppa su tre piani e termina con il loggiato superiore; le belle finestre a tutto sesto incorniciate da bugnato scandiscono i due piani, mentre il piano terreno presenta cinque finestre rettangolari ed il portone d'ingresso in legno chiodato - sistemato sotto la quarta finestra. Fino all'Ottocento il palazzo presentava esternamente la seggetta da via, tolta in quel secolo per ordine del Comune. Appena ne fu ultimata la costruzione, la facciata del palazzo fu decorata con pitture a chiaroscuro - oggi perdute - raffiguranti la storia di Sansone, opera di Mariano da Pescia, allievo di Ridolfo del Ghirlandaio; si trattava di uno dei primi esempi di un genere ornamentale delle facciate che ebbe una rapida affermazione agli inizi del XVI secolo, cadendo però ben presto in disuso. Tra il 1691 e il 1694, in seguito all'acquisto di una casa con orto prospiciente via Della Stufa, il palazzo fu ampliato sulla parte posteriore per opera del giovane architetto Lorenzo Merlini, il quale progettò un fabbricato che circonda su tre lati un giardinetto, con al centro una “fonte in terra alla francese” che veniva rifornita, per gentile concessione del granduca, dall'acqua proveniente dal Casino di San Marco. Il Merlini progettò una loggia a 24 due ordini di arcate tra paraste binate per il prospetto tergale, e un finto loggiato, sempre con paraste binate, per le facciate laterali e per quella su via della Stufa, che racchiudono al centro, rispettivamente, aperture timpanate e cancello affiancato da due nicchie con statue. Nella prima metà del Settecento, in seguito all'acquisto di un edificio contiguo che era appartenuto a Baccio Bandinelli, il palazzo fu ulteriormente ingrandito e conobbe in questi anni, durante la vita del marchese Carlo (1702-1757) e della consorte Elisabetta Corsini, un particolare splendore: feste e ricevimenti animarono le sue sale, frequentate da principi ed importanti personalità straniere. Risale a questi anni la creazione di un gabinetto di chimica e fisica nel quale furono compiuti i primi esperimenti che prelusero alla fondazione della storica manifattura di porcellane di Doccia (1737) ad opera dello stesso Carlo Ginori. I lavori che furono compiuti nel palazzo nei secoli seguenti riguardarono prevalentemente gli arredi ed alcune ristrutturazioni interne. In queste opere di restauro venne profondamente alterato l'antico cortile a colonne che, verso la metà dell'Ottocento, venne ripavimentato con lastre di marmo e chiuso da un lucernario in ghisa e cristallo. La scala, che dal cortile saliva ripida e stretta, fu eliminata e sostituita, in un ambiente attiguo, da un'altra più monumentale in fortissimo aggetto che gira le sue dieci larghe e comode rampe attorno ad un grande vano centrale. Queste trasformazioni, effettuate sotto la direzione dell'ingegner Felice Francolini e dopo il matrimonio, nel 1846, di Lorenzo Ginori Lisci (1823-1878) con Ottavia Strozzi, conferirono al cortile l'aspetto di un ambiente abitabile, impressione cui contribuisce il prezioso arredo che lo decora. Porticato su quattro lati, le volte sono sostenute da peducci e da colonne coronate da raffinati capitelli compositi. Una bella fontana marmorea, risalente al Cinquecento, è collocata al centro del cortile. Su di una parete è collocato un cartellone stemmato con le armi Ginori - Minerbetti mentre sulla parete adiacente è stato sistemato un affresco staccato proveniente da un tabernacolo di Sesto Fiorentino, con relativa sinopia, raffigurante l'“Incoronazione della Vergine”, opera di Francesco di Michele del 1385 circa. Di particolare interesse sono i due orci risalenti al XVI secolo, provenienti da Montelupo, e la robbiana con lo stemma Ginori - Bartolini Salimbeni, proveniente dalla villa di Baroncoli. Sulla parete di fondo è da osservare la lente ustoria, di fattura fiorentina, che servì per fare i primi esperimenti di lavorazione della porcellana: sistemata un tempo sul tetto del palazzo, la lente veniva orientata verso il sole, in modo tale da dirigere i raggi solari per la fusione delle terre. Di recente, nel 2003, il cortile ha subito un importante restauro durante il quale sono stati ritrovati gli originari colori settecenteschi che impreziosivano l'ambiente: il delicato verde salvia sulle pareti e il rosso pompeiano sul fusto delle colonne. Dal cortile è l'accesso all'archivio-biblioteca di famiglia che, ornato sulla volta da una leggiadra “Vittoria della Sapienza e della Pace sulla Guerra” affrescata da Gian Domenico Ferretti alla fine del Seicento, fu riordinato negli anni Quaranta del Novecento da Leonardo Ginori Lisci (1908-1985). Il marchese Ginori, sposato a Maria Cristina Torrigiani Malaspina e padre dell'attuale proprietario, il marchese Lionardo Lorenzo, era appassionato ed esperto di agricoltura ed anche Accademico dei Georgofili. Nel campo storico artistico firmò la prima monografia scientificamente attendibile sulla manifattura di Doccia e scrisse i fondamentali volumi sulla storia 25 dei palazzi di Firenze, tutt'ora strumenti imprescindibili per lo studio di questo argomento. L'andito, che accoglie lo scalone progettato dall'Ingegnere Francolini, è ornato da una bella scultura in porcellana ottocentesca, che ritrae il busto di Lorenzo Ginori Lisci, e da quattro cartelloni stemmati nei quali l'arme Ginori è unita, per via matrimoniale, agli emblemi Torrigiani, Lisci, Strozzi e Corsini. I marchesi Ginori, il cui stemma consiste in una banda dorata caricata di tre stelle azzurre nel campo azzurro, furono grandi mercanti e parteciparono attivamente alla vita cittadina fin dai tempi della Repubblica. Alla morte di Francesca Lisci, ultima discendente della sua famiglia e moglie, nel 1786, di Lorenzo Ginori, tutti i suoi beni passarono al figlio Carlo Leopoldo che, per rispettare la volontà della madre, aggiunse il cognome dei Lisci a quello dei Ginori. L'imponente ritratto dal vero di Bartolomeo Ginori – alto due metri e 32 centimetri e per questo preso a modello dal Giambologna nel 1583 quando scolpì il “Ratto delle Sabine” sotto la Loggia dei Lanzi - introduce allo splendido piano nobile che con i suoi arredi originali, la tappezzeria, il mobilio dorato e intagliato, gli arazzi, gli affreschi e le opere dell'avita collezione, ha mantenuto inalterata la magica atmosfera donatagli dalla famiglia nel corso dei secoli. Dopo la costruzione affidata al disegno di Lorenzo Merlini, e in occasione del matrimonio, avvenuto nel 1699, tra Lorenzo Ginori (1649-1709) e Anna Maria Minerbetti, il rinnovamento degli ambienti interni furono affidati all'architetto Antonio Ferri che si avvalse della collaborazione, tra il 1697 e il 1700, dei principali pittori e stuccatori fiorentini del tempo. Nel primo ambiente, stupenda è la collezione di ceramiche Ginori che ripercorre, attraverso oggetti curiosi ed originali, la storia “aurea” della celebre manifattura di Doccia, dagli esordi fino al 1896, quando fu ceduta ad Augusto Richard, il proprietario della milanese “Società Ceramica Richard”. Attraverso un andito, nel quale è collocata una bella statua di “Mercurio” della stessa manifattura, si accede al salotto celeste, ornato da uno stupendo lampadario in vetro di Murano e dalla tela con il “Ratto delle Sabine” del napoletano Luca Giordano, per continuare nel contiguo salotto rosso prospiciente via Ginori, la cui volta fu affrescata da Gian Domenico Ferretti alla fine del Seicento con un'ariosa “Allegoria dell'Abbondanza”. Il grandioso salone da ballo, insieme ad altri ambienti del piano nobile, fu rinnovato e riarredato su commissione del marchese Carlo Benedetto (1851-1905) che, uomo sportivo e dotato di uno “charme” tutto particolare, portò la prima automobile a Firenze. Augusto Burchi e Gaetano Bianchi nel 1880 arricchirono l'antico soffitto ligneo, inserirono i due meravigliosi lampadari di Murano e, sopra un alto zoccolo dipinto su tela, collocarono alle pareti i tre grandi arazzi fiamminghi della fine del Seicento provenienti dalla villa Ginori a Doccia e rappresentanti episodi di Alessandro Magno. Adiacente è il piccolo e prezioso salotto che, secondo la moda delle “cineserie” molto in voga nell'Europa del Settecento, è decorato sulle pareti con carte cinesi dipinte a mano nelle quali è rappresentato un mondo idealizzato e fiabesco, con fiori, uccelli esotici e scene quotidiane. In linea con il tema del salotto, i cuscini furono ricamati con temi simili da Corinna Civelli tra l'Otto e il Novecento che, moglie di Lorenzo Ginori Lisci (1877-1960), fu un'ottima disegnatrice allieva del famoso Giovanni Fattori, esponente dei Macchiaioli. 26 La sala da biliardo, con una “Allegoria della Notte” affrescata sulla volta da Pier Dandini alla fine del Seicento, immette nel contiguo salotto giallo che ospita un busto di Carlo Ginori, fondatore della manifattura, e un elegante camino “alla francese” della stessa manifattura modellato da Gaspero Bruschi nel 1758. Su una parete domina l'intenso ritratto di “Caterina Soderini”, realizzato da Alessandro Allori nel 1560 circa: moglie di Lionardo Ginori, donna colta e attraente al cui fascino è legato anche l'assassinio nel 1537 del cugino, il duca Alessandro dei Medici, figlio di papa Clemente VII. “Lorenzaccio”, nipote di Caterina Soderini, convinse con l'inganno Alessandro dei Medici a recarsi di notte in casa di lui facendogli sperare in un incontro con la bella zia, sorella della madre Maria Soderini. Il duca Alessandro come è noto, non incontrò la giovane donna, ma il nipote che insieme allo “Scoronconcolo”, Michele di Tavolaccino, lo uccise a tradimento. L'accesso alla sala da pranzo, il cui arredo fu rinnovato nel 1878 dal marchese Carlo Benedetto (1851-1905) con antichi arazzi fiamminghi e mobili disegnati ed intagliati appositamente dall'ebanista Luigi Frullini (1839-1897), è preceduto da una galleria unica nel suo genere. Composta da due ambienti, è ornata da ridondanti stucchi che simulano morbidi tendaggi sui quali campeggiano putti e stemmi con l'arme della famiglia Ginori unito, per linea matrimoniale, agli emblemi Rucellai, Guicciardini e Strozzi. In stucco compare anche l'emblema della contea di Urbeck, feudo nel Casentino alle pendici del monte Falterona ottenuto da Carlo, il fondatore della manifattura, con decreto granducale di Francesco Stefano di Lorena nel 1756. Due sculture rappresentanti “Mercurio” e il “Satiro danzante”, arricchiscono l'arredo della galleria nella quale il bianco candore dello stucco ben si armonizza con il ridondante gusto barocco. Mentre il secondo più piccolo ambiente è riferibile ad un intervento ottocentesco, il primo vano fu realizzato alla fine del Seicento, in occasione del rinnovamento operato da Antonio Ferri, e mostra la grande maestria degli stuccatori fiorentini che, con felice inganno, tradussero in gesso, oggetti, drappi e tessuti. 5) Palazzo Antinori, piazza Antinori 3 “Austero ma non altero, come un fiorentino di vecchio stampo, un po' ruvido e senza fronzoli”: così Leonardo Ginori nel libro sui palazzi di Firenze inizia la descrizione di questo palazzo che rispecchia con immediatezza assoluta le qualità essenziali dell'architettura domestica del Rinascimento: l'intimità ed il riposo. Tra i più bei palazzi rinascimentali di Firenze, fu costruito tra il 1461 e il 1469 su commissione del banchiere Giovanni di Bono Boni e, nel 1475, fu acquistato da Lorenzo de' Medici, “il Magnifico”, a seguito del fallimento dei Boni. Ceduto poi a Carlo e Ugolino Martelli, fu quest'ultimo a venderlo, nel 1506, a Niccolò di Tommaso Antinori, già residente in Oltrano, il quale vi fece apportare modifiche e mutamenti. La famiglia Antinori, i cui discendenti abitano ancora l'avita dimora, è di antica origine, documentata a Firenze fin dai primi anni del XIII secolo e distintasi fin dalle origini, per l'abilità nel commercio e gli interessi nel campo della letteratura e della giurisprudenza. Niccolò di Tommaso, oltre al palazzo acquistato dal Martelli, possedeva molte proprietà terriere in Toscana e molte compagnie mercantili a Firenze, in Abruzzo, a Lione, in Spagna e in Germania. 27 L'autore del palazzo commissionato dal banchiere Giovanni Boni – con l'esclusione del prospetto sul giardino che appare più tardo e di più mani - è ignoto, ma gli studiosi, viste le affinità con il senese palazzo Spannocchi, tendono ad individuarlo in Giuliano da Maiano (1432 – 1490). La forma del palazzo, a parallelepipedo con un elegante cortile porticato al centro ed il giardino retrostante, si ispira al palazzo Medici Riccardi progettato da Michelozzo, ma ha una forma architettonica più leggera ed elegante. A quest'ultimo architetto si ispira anche la ripresa di una sua originale invenzione ideata per il piano terra di palazzo Medici Riccardi: lo sfondamento prospettico ingresso-cortile-giardino. La facciata in pietra grezza, dal disegno lineare, armonico e tipicamente rinascimentale, presenta al centro lo stemma di famiglia composto da uno scudo con la parte superiore a losanghe ed il campo inferiore liscio. Il misurato cortile è porticato su tre lati, con volte a crociera e arcate a tutto sesto che poggiano su colonne in pietra serena con capitelli compositi scolpiti con particolare perizia. Il quarto lato presenta un tipico arco a sbarra con lunette sottostanti che sorregge la parte superiore in aggetto. Di particolare eleganza sono anche i peducci in pietra che definiscono le volte di questo armoniosissimo cortile. Da osservare inoltre il pozzo, di cui si ritrova la descrizione già nell'atto di acquisto del palazzo da parte di Lorenzo de' Medici. Per quanto riguarda la parte retrostante il palazzo, composta dal giardino con la sua controfacciata, fu Alessandro di Niccolò Antinori, come risulta dal catasto del 1538, che commissionò la realizzazione di un orto facendo demolire alcuni edifici nel nuovo lotto da lui acquisito. Con questi lavori il palazzo assunse l'attuale ampiezza corrispondente all'isolato posto tra piazza Antinori, il vicolo omonimo, la via delle Belle Donne e il vicolo del Trebbio. Questo primo giardino commissionato da Alessandro Antinori è rappresentato, dietro ad un grande muro merlato, nella famosa pianta di Firenze di Stefano Bonsignori del 1584 oggi al Museo di Firenze com'era. Interessante è osservare la somiglianza tra la porta che dal palazzo immette nel giardino, con il portone di palazzo Bartolini Salimbeni in piazza Santa Trinita costruito da Baccio d'Agnolo dal 1520 al 1523. Entrambe presentano colonnine tuscaniche che poggiano su alti plinti e sostengono il cornicione con timpano triangolare di ampio respiro classico. Questa somiglianza ha permesso pertanto di suggerire l'attribuzione della bella controfacciata che immette al giardino di palazzo Antinori, a Baccio d'Agnolo (1462-1543), già realizzata probabilmente negli anni '20 del Cinquecento. La controfacciata è completata dalle quattro finestre inginocchiate del piano terreno che, solo da pochissimo a Firenze, nel 1517, erano state messe in opera per la prima volta dal grande Michelangelo a palazzo Medici Riccardi. La presenza di Baccio d'Agnolo è avvalorata inoltre dal suo impegno in altre commissioni per gli Antinori come risulta dal testamento di Niccolò di Tommaso rogato nel 1520 che obbliga i suoi eredi a terminare una cappella iniziata nella chiesa di San Michele Bertelde, oggi chiesa dei Santi Michele e Gaetano, con l'aiuto di “Baccio d'Agnolo, architetto fiorentino”. La loggia è invece indubbiamente più tarda. Si deve ai restauri negli anni '60 del Novecento dell'ultimo proprietario, il marchese Niccolò Antinori (1891-1991), se il palazzo ed il giardino, ingentilito dalla fontana di Venere e con le sue quattro semplici aiuole geometriche e regolari, che riprendono la tipologia del chiostro 28 monatesco del Tre-Quattrocento, hanno riacquistato il loro antico splendore. I lavori hanno avuto un'impronta eccezionale: furono eseguiti sotto la direzione dell'architetto Emilio Dori e riguardarono l'intero edificio, dalle cantine alle soffitte al giardino. I singoli piani furono liberati dalle sovrastrutture ritrovando in tal modo le misure degli ambienti originali e furono ripristinati alcuni soffitti lignei risalenti all'epoca della costruzione. Lo scalone nobiliare prospiciente il cortile, conduce al primo piano ristrutturato recentemente, nel quale le sale sono coperte da grandiosi palchi in legno divisi in campate, suddivise a loro volta da travi minori che formano riquadri. Le mensole, intagliate a volute, sono decorate con foglie d'acanto e ovoli riprendendo motivi decorativi tipici della pietra. Secondo un uso antichissimo, i palchi sono ornati di pitture. A differenza della consuetudine di altri palazzi fiorentini, il secondo piano di palazzo Antinori ospita il quartiere di rappresentanza che il marchese Niccolò Antinori volle riservarsi facendolo arredare con mobili autentici, dipinti e sculture di pregio. Il marchese commissionò inoltre anche la sistemazione di un locale al piano terra adibito per la degustazione dei prodotti tipici delle fattorie di famiglia, fra i quali primeggia la produzione vinicola. Seguendo le orme e l'intraprendenza del padre Niccolò, l'attuale proprietario, il marchese Piero Antinori, ha dato nuovo impulso alla crescita dell'azienda diventata celebre in tutto il mondo grazie anche alla collaborazione delle figlie Albiera, Allegra e Alessia. Inoltre Piero ha voluto ripercorrere la storia della sua famiglia e del suo palazzo redigendo lui stesso un bel volume: “Palazzo Antinori. Futuro antico. Storia della famiglia Antinori e del suo palazzo” (2007). 6) Palazzo Gianfigliazzi, lungarno Corsini 4 L'illustre famiglia fiorentina dei Gianfigliazzi, ricordata da Dante nella Divina Commedia (Inferno XVII, vv. 58-60), possedeva numerose torri attorno alla chiesa di Santa Trinita. Prospicienti il lungarno Corsini avevano tre palazzi contigui di cui questo era il più importante. Dalle carte catastali sappiamo, che nel 1427 apparteneva a Lorenzo di Messer Jacopo Gianfigliazzi. Nel 1457 fu venduto ai Teghiacci, famiglia senese imparentata con loro, a cui si deve un primo ingrandimento della dimora. Pochissimi anni dopo, nel 1460, tornò ai Gianfigliazzi che ne termineranno la costruzione e ne rimarranno proprietari fino alla fine del Settecento. All'epoca la dimora si sviluppava attorno ad un cortile a loggiato, aveva sale e camere coperte con palchi ed era fornita di cantine, orto e giardino. Il prospetto era caratterizzato da un piano terreno molto alto con piccole finestre ed un grande stemma sormontava il portone. Due ordini di aperture centinate scandivano i piani superiori coronati da un grande loggiato, uno dei primi costruiti a Firenze. L'aspetto attuale risale alla seconda metà dell'Ottocento (1865) quando fu acquistato dal ricco barone belga Adrian Van Der Linden de Hooghworst che ingrandì il palazzo, uniformò la facciata, chiuse la loggia e aggiunse un grande balcone. Ai primi del Novecento fu costruito un ulteriore piano coronato da un loggiato ad imitazione di quello antico. Gli stemmi in pietra dei Hooghworts, dei Gianfigliazzi e dei Capponi decorano il prospetto. 29 Sopra il portone una lapide ricorda Alessandro Manzoni che nel 1827 abitò nel palazzo all'epoca adibito ad albergo. In questo edificio, il sommo scrittore, alludendo all'Arno che vedeva scorrere dalle finestre, scrisse la famosa frase: “… nelle cui acque risciacquai i miei cenci” dando vesti toscane al suo romanzo. Palazzo Gianfigliazzi fu dimora di altri illustri personaggi. Nell'atrio una lapide ricorda Luigi Bonaparte, conte di Saint Lou ed ex re d'Olanda, che nel 1825 lo acquistò dai discendenti della famiglia e vi abitò fino alla morte avvenuta nel 1846. Oggi non rimane nessuna traccia dell'epoca, ma le memorie coeve ricordano una dimora sontuosa dove erano conservate numerose vestigia napoleoniche e dove soggiornò il futuro Napoleone III. In seguito l'edificio fu acquistato dal celebre avvocato fiorentino Ranieri Lamporecchi e in questa dimora trascorse la sua infanzia Virginia Oldoini Castiglione, sua nipote e moglie di Francesco Verasis di Castiglione. La celebre e bellissima contessa che tanta importanza ebbe nella storia d'Italia. Un'altra iscrizione ricorda la baronessa Emilia d'Oultremont madre del barone Van der Linden d'Hooghvorts, fondatrice dell'ordine di Maria Riparatrice morta in questo palazzo nel 1878. Un ripido scalone abbellito da stucchi bianchi e oro, porta al piano nobile, dove si conservano intatti e perfettamente restaurati gli ambienti voluti dal barone Van der Linden sposato con la fascinosa marchesa Aurora Guadagni. Secondo il gusto eclettico in voga nella società cosmopolita dell'epoca, ogni stanza doveva ispirarsi ad un periodo storico diverso. Il barone fece appositamente venire i pittori e gli artigiani dal Belgio, suo paese natale. La prima sala imita i saloni rinascimentali, è ornata da boiseries in legno e coperta da un soffitto a cassettoni dipinto. La piccola galleria, perfetto collegamento tra gli spazi di rappresentanza, è decorata con pregevoli stucchi e sul soffitto un Padre Eterno con una musa, in stile neoclassico, firmato da “Cilig Marsrisbuch 1868”, ed altre pitture raffiguranti gli emblemi e gli stemmi araldici della famiglia Van der Linden. La sala da pranzo è arredata secondo un gusto nordico, le pareti sono rivestite da eleganti boiseries in legno scuro con incastonate dipinti raffiguranti nature morte e scene bucoliche in perfetta sintonia con la destinazione della stanza. Particolare attenzione merita il ricco e sontuoso fregio del camino. Fulcro del palazzo è il bellissimo salone in stile Luigi XVI abbellito da grandi specchiere e decorato con eleganti stucchi bianchi e oro. Raffinatissime le finiture e le maniglie in bronzo dorato con incisa la corona baronale. Le sale adiacenti conservano arredi più sobri, spiccano i bellissimi e raffinati camini. Le feste date a palazzo Gianfigliazzi dal barone Van del Linden e dalla bellissima Aurora erano le più sontuose di Firenze capitale, frequentate assiduamente da quella società cosmopolita che all'epoca risiedeva e soggiornava a Firenze. Memorabile fu un ballo durato fino alle undici di mattina, dove i domestici avevano chiuso ermeticamente le finestre per impedire il passare della luce del giorno. Venduto ai Cesaroni Venanzi e successivamente passato in proprietà ad un ramo dei Capponi il palazzo fu acquistato dalla famiglia Campodonico ai cui eredi ancora oggi appartiene. 7) Palazzo Davanzati, via di Porta Rossa 13 Affacciato sulla piazza che ne porta il nome, si trova Palazzo Davanzati che per la sua struttura e i suoi fastosi arredi, offre un ottimo esempio d'architettura residenziale fiorentina del Trecento. 30 Voluto dai Davizzi, una famiglia di ricchi mercanti appartenenti all'arte di Calimala, passò durante i secoli per molte mani fino ad assumere l'odierna identità di “ Museo della Casa Fiorentina Antica”. I proprietari originari, nel 1516, cedettero il palazzo alla famiglia Bartolini che a sua volta lo rivendette nel 1578 a Bernardo Davanzati. Costui, rifinendo il palazzo con una panoramica altana a loggia con un tetto spiovente sostenuto da colonnette in pietra, rivoluzionò la tipica merlatura difensiva delle case torre medioevali. L'imponente facciata di arenaria che porta ancora lo stemma Davanzati, era a quel tempo ingentilita da drappi multicolori, stendardi e gabbie decorative per uccellini, come testimoniano i numerosi roncigli di ferro ancora ben visibili. Nel 1838, dopo il suicidio di Carlo Davanzati, il palazzo subì varie ristrutturazioni e modificazioni fino ad arrivare, nel 1908, ad un facoltoso antiquario, Elia Volpi (1858-1938) che lo trasformò nel “Museo della Casa Fiorentina Antica” arricchendolo con oggetti d'epoca e aprendolo per la prima volta al pubblico. Tuttavia, nel 1916, l'intero arredo fu venduto, con sommo profitto, ad una prestigiosa asta di New York importando oltreoceano il gusto per l'arredamento antico e per la “fiorentinità”. Il palazzo, arredato con nuove opere, fu acquistato nel 1924 da altri due antiquari, Vitale e Leopoldo Bengijat fino ad arrivare, dopo vari passaggi, allo Stato che negli anni cinquanta lo riallestì con mobilia, quadri e suppellettili provenienti da altri musei fiorentini e collezioni private destinandolo definitivamente a diventare un museo. Attualmente il palazzo, che si sviluppa sui quattro piani, è stato sottoposto ad un lungo restauro ancora in corso, con il quale sono stati riportati al loro antico splendore il piano terra, caratterizzato da una loggia e da un cortile con pilastri ottagonali, il primo piano, con il salone madornale, la sala dei pappagalli e lo studiolo, e il secondo piano con la camera da letto della Castellana di Vergy, lo studiolo e la sala da pranzo. Ogni piano è scandito da piccoli ballatoi affacciati sul cortile muniti di scoli per l'acqua piovana e, sulle massicce mura interne, è possibile ammirare le antiche grondaie composte da segmenti di terracotta. Alcune stanze sono interamente affrescate con vivaci motivi geometrici, floreali e ornitologici, come la bellissima stanza dei pavoni e quella dei pappagalli chiuse da soffitti a cassettone in legno decorato. Le pareti non affrescate erano sicuramente ornate da arazzi e quadri. Tutti i mobili, i dipinti, i caminetti con grossi mantici, le ceramiche (alcune della scuola dei Della Robbia), i forzieri e anche gli utensili d'uso più comune, rispecchiano fedelmente quelli di una tipica dimora agiata fiorentina tra Medioevo e Rinascimento. I maestosi letti a baldacchino e a tortiglione e la deliziosa culla istoriata sono coperti di broccati antichi originali e si ha la sensazione, entrando nelle varie stanze, di visitare non un museo, ma un ambiente ancora vivo e abitato dove il tempo si è voluto fermare. Anche gli oggetti dedicati alle arti femminili, splendida la collezione di pizzi, imparaticci, trine e merletti con orditoi, tomboli e telai, documentano uno degli aspetti della quotidianità della vita in una casa antica, dove le dame intessevano e ricamavano complicati capolavori. Ancora in restauro è la cucina, posta all'ultimo piano non solo per motivi di sicurezza in caso di incendi, ma anche per non impregnare la casa, ricca all'epoca di arazzi e tessuti, con effluvi 31 di cibarie. Il museo ospita inoltre pregevoli opere d'arte come il bel Tabernacolo di Santo Stefano, opera di Spinello Aretino (1350-1410), alcuni dipinti di Giovanni di Ser Giovanni detto lo Scheggia (1406-1486), fratello di Masaccio, tra i quali “I triumviri che interrogano l'oracolo” e la serie dei “Trionfi” cantati dal Petrarca. 8) Palagio dei Capitani di Parte Guelfa, piazzetta di Parte Guelfa 1r Il Palagio di Parte Guelfa (detto anche Palazzo dei Capitani) nacque come sede del quartier generale dei Capitani di Parte Guelfa (da cui il nome), ovvero di una delle magistrature che, fino all'ascesa al potere della famiglia Medici, ebbe un forte controllo sulla vita politica di Firenze, grazie anche ad una solida potenza finanziaria. In particolare i Capitani nominavano i “giusdicenti”, cioè i Podestà ed i Vicari che venivano inviati a governare le città ed i paesi che componevano lo stato fiorentino. Con “parte guelfa” si intende propriamente il partito Guelfo, che nel 1266, con la vittoria di Benevento e la definitiva sconfitta imperiale, ebbe il sopravvento su quello Ghibellino. Anche a Firenze in quell'anno si affermò la pars guelfa, con conseguente esilio e confisca dei beni delle famiglie della fazione avversa. La tradizione storica infatti riporta che il Palagio venne costruito sui terreni delle case confiscate ai Lamberti, ghibellini, cacciati da Firenze nel 1267. La scelta dell'ubicazione non era casuale: la sede Guelfa si veniva così ad inserire nel cuore politico ed economico della Firenze medievale, vicino al fiume ed alla porta meridionale della città, Por Santa Maria, al Mercato Nuovo, al Palazzo dei Priori ed al Palagio dell'Arte della Seta. Il Palagio venne costruito a partire dai primi del Trecento, affiancando la chiesetta di San Biagio, ove dal 1267 i Capitani di Parte Guelfa si radunavano non disponendo ancora di una propria sede stabile. La chiesa nel 1304 fu interessata da un grave incendio e quindi ricostruita, e si deve probabilmente collocare in contemporanea a questi lavori anche la costruzione del Palagio, che risulta già edificato nel 1324. Il palazzo originario fu accresciuto in due fasi successive nel XV secolo, con progetto attribuito a Filippo Brunelleschi. L'aggravarsi delle condizioni economiche della Parte Guelfa, e la sua progressiva perdita di potere nella vita politica di Firenze dopo l'ascesa della famiglia Medici al governo della città, non permisero il completamento dei lavori, lasciando l'opera incompiuta fino al secolo successivo, quando il Monte Comune trasferì i propri uffici nel Palagio di Parte Guelfa (1557), occupando le sale quattrocentesche. I lavori di completamento ed adattamento dell'antica residenza della Magistratura Guelfa vennero affidati a Giorgio Vasari. I Capitani risedettero nel palazzo fino al 1769, quando, con l'avvento dei Lorena, la Parte Guelfa ed il Monte Comune vennero soppressi e nel 1781 l'edificio passò alla “Comunità di Firenze” nuova magistratura di carattere “municipale”. Negli anni il Palagio di Parte Guelfa ha poi ospitato il corpo dei pompieri, uffici comunali, e dal 1923 al 1944 il Gabinetto Vieusseux presieduto da Eugenio Montale. Fu proprio al Palagio che il giovane Mario Luzi consegnò a Montale alcune delle sue prime poesie. Nei successivi passaggi di proprietà e trasformazioni d'uso il palazzo subì drammatiche modifiche all'assetto architettonico e fu spogliato degli originari arredi interni, andati in gran parte dispersi. Un radicale intervento di restauro, teso a riportare l'edificio alle sue forme originarie, fu intrapreso nel 1921 sotto la direzione di Alfredo Lensi. Il restauro interessò gli ambienti interni ed esterni, e si basò sui pochi resti e documenti antichi, e vi 32 furono reimpiegate alcune pietre e materiali ricavati dalla demolizione della zona del Mercato Vecchio. Il Palagio come si presenta oggi, affascinante e suggestivo esempio di uno scorcio medievale al riparo delle imponenti architetture di via Por Santa Maria e piazza Repubblica, è in gran parte frutto del restauro del Lensi. Il fronte prospiciente la piazzetta rappresenta l'ala più antica, quella trecentesca. I documenti riferiscono che nel 1324 la Parte Guelfa aveva già una propria sede, che si presentava come un palazzo merlato, con affreschi nella parte superiore della facciata ed una scala esterna coperta da una tettoia. Al piano superiore vi era una grande sala ed annessa una piccola sacrestia. Al pian terreno invece si trovavano cinque botteghe che davano su via delle Terme e sulla piazzetta. Si doveva quindi presentare come un piccolo edificio turrito, non troppo lontano dall'effetto ricreato dai restauri novecenteschi con la merlatura alla guelfa, la scala in facciata e la finestra bifora. Sotto la tettoia della scala si nota lo stemma in pietra della Parte Guelfa: un'aquila rossa dal volo spiegato che tiene tra gli artigli un drago. Secondo le fonti l'affresco in facciata sarebbe stato eseguito ai primi del Quattrocento da Gherardo Starnina, importante pittore della corrente tardo gotica, e ricordava San Dionigi e la vittoria di Firenze su Pisa, avvenuta nel 1406. Avanzi laceri della pittura erano ancora presenti ai primi del secolo scorso ed oggi sono irrimediabilmente perduti. All'interno le alterazioni sono più marcate. La prima grande sala, detta “sala del camino”, costituiva la sede delle udienze dei Capitani e dai documenti sappiamo che era tutta affrescata e con scranni lignei lungo le pareti. Oggi presenta ancora un bel soffitto a capriate ed un grande camino cinquecentesco, collocato qui negli anni '20 del XX secolo, proveniente da una dimora signorile distrutta del centro cittadino. Sull'architrave del camino infatti si vede uno stemma appartenente alla famiglia Giamberti da Sangallo, mentre il grande stemma della Parte Guelfa - completato con gli stemmi del Comune e del Popolo - affrescato sulla cappa è frutto di un'integrazione di restauro. La sala intermedia, detta dei drappeggi, presenta una serie di affreschi in stile neo medievale, rifatti anch'essi negli anni venti. A questo nucleo originario si trova addossato il secondo corpo, parte dell'ampliamento quattrocentesco, affacciato tra via delle Terme e via del Capaccio. Il progetto di questo intervento viene attribuito a Filippo Brunelleschi, in particolare i lavori alla “sala grande” iniziati verso il 1430, che ancor oggi porta il suo nome. Essa è caratterizzata da pareti bianche intonacate, spartite in campiture regolari da lesene in pietra serena con capitelli corinzi, le finestre ad arco sono inquadrate da alte cornici rettangolari, che sono riproposte anche sulle aperture cieche nei lati brevi. La storiografia ha da sempre attribuito a Brunelleschi la direzione dei lavori per gli ampliamenti quattrocenteschi, tuttavia non esistono documenti che provino la sua effettiva partecipazione alla costruzione della Sala Grande, e si è potuto collegare la figura del Brunelleschi ai lavori alla residenza della Magistratura Guelfa solo grazie alle notizie riportate dal Manetti nella prima biografia del maestro ed in base a generici riferimenti stilistici. Il soffitto ligneo a lacunari venne aggiunto dal Vasari negli interventi cinquecenteschi, mentre gli stalli lignei che corrono lungo tutto il basamento sono in stile tardo-cinquecentesco, frutto del restauro del Lensi. Sopra il portale che mette in comunicazione con la sala dei drappeggi si trova una lunetta in terracotta policroma invetriata con la Madonna con il Bambino e due angeli, opera di Luca della Robbia proveniente dalla demo- 33 lita chiesa di San Pier Buonconsiglio, anch'essa andata distrutta con i lavori al centro cittadino. La costruzione del corpo della Sala Grande fu l'ultimo grande intervento di ampliamento commissionato dai Capitani di Parte Guelfa per la loro residenza e questa seconda ala è detta anche “Palagio Nuovo dei Capitani di Parte Guelfa”. La sala ancora oggi per la vastità e solennità dell'ambiente è il luogo ove hanno sede gli eventi principali che animano la vita culturale ed artistica del Palagio. Tra gli interventi cinquecenteschi vasariani, realizzati per adattare l'ala quattrocentesca del palazzo ad accogliere la magistratura del Monte Comune, si deve ricordare anche il nuovo accesso alla Sala Grande: uno scalone a due rampe, oggi completamente trasformato, che “sfociava” in una loggetta poggiata su mensoloni, ancora esistente, nodo di unione tra la Sala Grande e il palazzo che fu dell'Arte della Seta. Se il volto attuale del Palagio è dovuto in gran pare agli interventi del Lensi, che hanno cancellato gli interventi ed aggiunte degli ultimi tre secoli, riportando l'edificio ad un'ipotetica forma originaria, le vicende del Palagio non si esauriscono con questo radicale intervento. Dopo l'ultima guerra esso dovette subire ulteriori restauri a seguito dei danneggiamenti provocati dalle mine tedesche che colpirono tutto il quartiere di Por Santa Maria. L'ultimo lavoro si è concluso solo nel 2008, con la risistemazione del pavimento della sala del camino, oggi nuovamente valorizzata, e con la messa in sicurezza e l'abbattimento delle barriere architettoniche. Il Palagio oggi ospita convegni e manifestazioni artistiche, culturali e scientifiche, nonché le riunioni degli organizzatori del Calcio storico fiorentino. 9) Palazzo Malenchini, via de' Benci 1 Nella prima metà del XIV secolo la nobile famiglia degli Alberti, proveniente dal castello di Catenaia nel Valdarno casentinese - da cui deriva il loro stemma composto da due catene poste in una croce decussata-, cominciò ad acquistare alcune case verso via de' Benci, nelle immediate vicinanze del ponte di Rubaconte, oggi ponte alle Grazie. Tali possessi aumentarono nel 1358 con l'acquisto di 2.450 braccia quadre - pari a circa 800 metri quadrati - di terreno lungo l'Arno, vicino a “messer Rubaconte''. Alla famiglia appartenne il celebre architetto e teorico del Rinascimento, Leon Battista Alberti (1404-1472) che abitò in questo luogo. A Firenze, l'Alberti progettò tre capolavori su commissione della famiglia Rucellai: il completamento della facciata della chiesa di Santa Maria Novella nel 1456, il palazzo Rucellai in via della Vigna Nuova con la splendida facciata realizzata tra il 1450 e il 1460 e, nel 1467, il marmoreo tempietto del Santo Sepolcro nella cappella Rucellai della chiesa di San Pancrazio. Pur non potendo seguire esattamente le varie vicende costruttive del palazzo in questione, sappiamo tuttavia che la residenza gentilizia mantenne l'aspetto di un agglomerato di case, casette e botteghe che, riunite all'interno, davano sul retro verso una zona ad orto o giardino. Ricordiamo che una veduta delle case degli Alberti in via de' Benci e del relativo spazio verde annesso, si trova nel noto affresco di Giorgio Vasari (1511-1574), nella sala di Clemente VII a palazzo Vecchio, riproducente una “Veduta generale di Firenze da sud al tempo dell'assedio dell'esercito imperiale nel 1529-1530”. L'aspetto attuale del palazzo, con l'unificazione delle facciate delle numerose casette preesistenti, risale al 1760-1763 e si deve a Giovan Vincenzo Alberti (1715-1788), figlio del senatore 34 Braccio e consigliere del granduca Francesco Stefano di Lorena a Vienna e di suo figlio Pietro Leopoldo a Firenze. Alla morte di suo figlio, Leon Battista Alberti (1759-1836), scomparso senza eredi nel 1836, il complesso passò ad un nipote della famiglia Mori Ubaldini, che egli aveva affiliato con l'obbligo di rinnovare il nome degli Alberti. La nuova famiglia degli Alberti Mori Ubaldini, entrata in possesso di tali beni, incaricò nel 1840, l'architetto Vittorio Bellini (1798-1860) ed altri artisti, di ristrutturare, ampliare, decorare il palazzo e risistemare il giardino. L'architetto Bellini disegnò l'attuale facciata neoclassica prospiciente il lungarno inserendo una ringhiera sostenuta da un intercolumnio dorico con trabeazione che funge da terrazza panoramica, alla quale conducono due scalette gemelle elicoidali collocate ai lati del portale d'ingresso. Nel giardino l'architetto Bellini inserì su un lato un “tepidarium” poi trasformato in quartiere di abitazione. La costruzione del doppio loggiato o galleria lungo il lato nord del giardino, fu invece eseguita su progetto dell'architetto Niccolò Salvi in occasione di altri interventi avvenuti nel 1849. Vittorio Bellini fu, in un secondo tempo, nuovamente incaricato nel 1874 dagli Alberti Mori Ubaldini, di edificare sul proprio terreno un oratorio, per sistemarvi l'immagine miracolosa della Madonna. Ancor'oggi l'Oratorio di Santa Maria alle Grazie si erge sul lungarno Generale Diaz al confine con il giardino. Quest'ultimo, che fino alla metà dell'Ottocento, manteneva una conformazione all'italiana, fu trasformato in un giardino all'inglese, seguendo la moda del tempo. La sistemazione romantica data allo spazio verde retrostante il palazzo è pervenuta fino a noi ed è caratterizzata da una grande aiuola di forma curvilinea tenuta a prato e ombreggiata da piante ad alto fusto. La facciata prospiciente via de' Benci, fu sistemata in forma omogenea nel 1849 mediante l'opera dell'architetto Odoardo Razzi il quale creò, secondo la moda dell'epoca, un nuovo prospetto in stile neo-quattrocentesco con bugnato su tutta la superficie e un grande portale d'ingresso dal quale si poteva ammirare la parte centrale del giardino. Sul prospetto fece inoltre apporre due piccole lapidi, a ricordo dello stato di queste case nel lontano Quattrocento e all'inizio dei lavori del 1849. Nell'atrio d'ingresso al palazzo da via de' Benci, una lapide in marmo collocata sulla parete, ricorda il patriota garibaldino Vincenzo Malenchini, celebre antenato degli attuali proprietari. Nell'Ottocento infatti, il conte Arturo Alberti Mori Ubaldini, trasferitosi a Parigi assieme alla moglie Giulia Bartolini Baldelli, e costretto a liquidare gran parte del suo patrimonio per le spese eccessive e per le continue perdite al gioco, mise in vendita l'avito palazzo che fu acquistato dai duchi di Chaulnes, lontani discendenti degli antichi Alberti. Trasferitisi a Firenze, i duchi di Chaulnes, lasciarono tuttavia la città nel 1887 e il palazzo con l'annesso giardino, divenne nel 1895, di proprietà del marchese Luigi Malenchini, scomparso nel 1948. I nuovi proprietari si resero celebri a Firenze per la loro squisita ospitalità e per i loro sontuosi pranzi e balli, cui parteciparono principi reali italiani e stranieri. La famiglia Malenchini, di antica nobiltà livornese, si era distinta durante il Risorgimento con il patriota Vincenzo Malenchini (1813-1881), instancabile propugnatore dell'unità e generoso sovvenzionatore di volontari nelle guerre d'indipendenza, alle quali egli stesso partecipò personalmente e con grande eroismo. Queste sue qualità gli valsero la nomina a senatore. Nel grande androne che introduce all'area verde, troviamo varie opere di epoche diverse, tra 35 cui un frammento d'affresco degli inizi del XV secolo, che raffigura “San Cristoforo che trasporta Gesù Bambino sulle spalle”, proveniente probabilmente da una chiesa del nord Italia; una scultura della fine del XVI secolo raffigurante la “Lupa capitolina che allatta i gemelli Romolo e Remo e lo stemma della città di Siena”; due grandi pigne in maiolica invetriata verde della seconda metà dell'Ottocento che ripropongono, in misure più grandi, i vasi a pigna di Deruta di epoca rinascimentale usati in farmacia per contenere i pinoli. Le basi sono con molta probabilità della manifattura di Signa della fine dell'Ottocento. L'interno del palazzo fu restaurato e ristrutturato in occasione dei lavori architettonici progettati da Vittorio Bellini negli anni '40 dell'Ottocento. Dall'androne a piano terra si accede al grande scalone le cui pareti sono decorate da arazzi fiamminghi della fine del Cinquecento come “la Clemenza di Scipione”, e due frammenti delle dodici Fatiche di Ercole, qui raffigurato con il “ leone di Nemeo”, e con “Teseo che uccide il minotauro”. Sul pianerottolo della prima rampa due imponenti colonne russe (provenienti da casa Demidoff) in marmo nero con capitelli bronzei che “incorniciano” una grande tela cinquecentesca. La seconda rampa porta al piano nobile. Sulla sinistra si accede all'appartamento abitato da Francesca Malenchini Ginori Lisci. L'ingresso è ornato da un grande arazzo con la vita di Solimano - sultano dell'impero ottomano; nelle sale adiacenti (salotto e stanza da pranzo) è esposta, una pregevole collezione di porcellane della manifattura Ginori di Doccia con oggetti prodotti nel periodo che va dalla fondazione avvenuta nel 1735 alla seconda metà dell'Ottocento, riconoscibili sono i piatti con decoro a stampino e tulipano tipico del secondo periodo della manifattura. Nell'adiacente salotto giallo uno splendido mobile in pietre dure della metà dell'Ottocento, si accompagna a interessanti opere, la coppia di dipinti raffiguranti miracoli attribuiti a Domenico Beccafumi (1486-1551). Sulla destra del piano nobile troviamo ambienti di rappresentanza. Nel salone da ballo, ancora ornato dagli splendidi arredi della metà dell'Ottocento, le pareti sono affrescate con settecentesche scene di paesaggi e rovine incorniciate da eleganti stucchi. Nell'adiacente salone rosso oltre a delle rimarchevoli consolles del Settecento abbiamo uno splendido arazzo fiammingo avente come soggetto “Tobia che lascia la casa paterna accompagnato dall'arcangelo Raffaele” realizzato dalla manifattura di Bruxelles del 1535. L'ambiente è arricchito da un “San Francesco in preghiera” di Lorenzo Lippi (1606-1665) e da un cornicione affrescato con stemmi riproducenti gli emblemi di varie famiglie imparentatesi per via matrimoniale: Raggio; Bastogi; Dufour-Berte ; Canonici-Mattei - Malenchini e lo stemma della famiglia Alberti. Nella grande sala da pranzo le pareti sono ornate da stoffa con gli stemmi della famiglia Alberti in seta rossa e da tre grandi arazzi di epoche diverse: una scena con fanciulla che raccoglie acqua, di manifattura Enghien in Belgio del 1550 circa e una scena biblica con sovrano e condottiero, degli inizi del Seicento. Di rilievo inoltre la portiera con stemma mediceo del 1620 circa, la tela con il ritratto di tre gentildonne di scuola di Alessandro Allori, e il grande lampadario in vetro di Murano del tardo Ottocento. Le ultime due sale sono arricchite da due splendidi camini rinascimentali in pietra provenienti dal palazzo Ducale di Gubbio di Federico da Montefeltro e qua inseriti dai duchi di Chaulnes alla fine dell'Ottocento. 36 Dopo i gravi danni arrecati alla proprietà, sia dalla seconda guerra mondiale che dall'alluvione del 1966 con la quale l'archivio di famiglia Malenchini, sistemato a piano terra, venne totalmente distrutto, l'edificio ha ricevuto un importante e capillare restauro nel 2000-2003. 10) Palazzo Capponi, via de' Bardi 36 Collocato tra via dei Bardi e lungarno Torrigiani, Palazzo Capponi, dal nome di una tra le più illustri famiglie fiorentine durante la Repubblica e sotto il principato, è detto “Capponi alle Rovinate” per gli antichi smottamenti e frane della collina sovrastante. Costruito da Niccolò Da Uzzano, l'edificio viene descritto nel primo inventario del 1424 come “la casa nova”. Un busto dipinto di Niccolò Da Uzzano fu collocato nel 1703 nell'androne a ridosso del cortile sopra un affresco quattrocentesco nel quale due figure alate sorreggono l'arme della famiglia Da Uzzano. Fu infatti Niccolò Da Uzzano, esponente di spicco dell'oligarchia fiorentina del primo Quattrocento, gonfaloniere di giustizia e ambasciatore della Repubblica che commissionò la costruzione del palazzo a partire dal 1406. Nel 1411 i documenti informano che la “casa nova” era già in avanzato stato di costruzione. Il nome dell'architetto che fornì il progetto è piuttosto controverso. Mentre Giorgio Vasari nelle “Vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri”, menziona un disegno di Lorenzo di Bicci, recenti studi ipotizzano l'intervento del giovane Filippo Brunelleschi basandosi sulle strette assonanze con palazzo Busini Bardi in via de' Benci, progettato dall'architetto fiorentino nel 1430 circa, dopo la costruzione di palazzo Capponi alle Rovinate. Senza dubbio fu il ruolo e la personalità di Niccolò Da Uzzano, tra gli uomini di stato più rispettabili di Firenze, a creare le permesse per la realizzazione del palazzo, così innovativo per l'epoca. La facciata prospiciente via de' Bardi mostra ancora i caratteri dell'architettura tardogotica, con il severo bugnato fino al primo piano, tipico dell'edilizia fiorentina del XIV secolo, e le file irregolari di monofore oggi in parte tamponate e sostituite da aperture rettangolari. Elementi innovativi precorritori di una nuova sensibilità rinascimentale, sono tuttavia presenti nello sviluppo orizzontale della facciata, del tutto nuovo rispetto al tema verticale che caratterizzava le tipiche case-torri o i “palagi” trecenteschi, e nel disegno a pianta regolare, più o meno quadrata, sviluppata attorno allo splendido cortile centrale. La facciata prospiciente il lungarno Torrigiani fu disegnata ex novo da Giuseppe Poggi tra il 1872 e il 1878, ideando un prospetto “neoquattrocentista” per regolarizzare il nuovo fronte che affacciava sul lungarno. Giuseppe Poggi fu l'architetto che al tempo di Firenze capitale stravolse la fisionomia antica della città distruggendo gran parte delle mura comunali per creare gli attuali viali di circonvallazione e i lungarni, sacrificando quasi ogni struttura che si trovasse a ridosso del fiume. Considerato uno fra i primi esempi di architettura rinascimentale, il cortile di palazzo Capponi, a pianta pressoché quadrata, presenta eleganti pilastri ottagonali di forma fortemente allungata sormontati da capitelli a foglie d'acqua sui quali poggiano le volte a crociera. Secondo l'idea quattrocentesca di cortile come piazza privata, l'ambiente aveva in origine tutte e quattro i lati aperti, due dei quali furono tamponati nel XVIII secolo. Sopra i portici, le pareti 37 sono ornate da graffiti in parte risalenti agli anni Cinquanta del XV secolo. L'armonia dell'insieme, nonostante alcuni elementi siano ancora di impronta trecentesca, esprime già in embrione una sensibilità tutta rinascimentale. Sotto il loggiato a ridosso di via de' Bardi sono conservati tra gli altri, il modello in terracotta con la “Lapidazione di Santo Stefano” dello splendido paliotto bronzeo che lo scultore Pietro Tacca modellò nel 1656 per la chiesa di Santo Stefano al Ponte. Due cartelloni stemmati in legno dipinto ornano le pareti e contengono lo stemma della famiglia Capponi, trinciato di nero e d'argento, unito, per linea matrimoniale, agli emblemi delle famiglie Velluti e Corboli da una parte, e Pandolfini e Della Gherardesca dall'altra. A seguito della morte di Agnolo Da Uzzano, nel 1435 Niccolò Capponi (1406-1484), figlio di Piero Capponi e Dianora Da Uzzano, ereditò l'avita dimora. Lo scalone monumentale che sale al piano nobile, è ornato alla base da uno splendido leone in porfido rosso, opera romana del II secolo d.C. che aveva come pendant un altro leone oggi al Metropolitan Museum di New York. I salotti al primo piano hanno mantenuto inalterata l'antica atmosfera con i loro arredi e corredi, con le pitture e le opere dell'avita collezione. Il forte legame instaurato dalla famiglia nel corso dei secoli con la casa regnante dei Medici, è testimoniato dai numerosi ritratti dei membri della casa granducale. Nella “sala grande”, il cui soffitto fu rialzato nel XVIII secolo e le pareti ricoperte di tela dipinta nel XIX secolo, sono conservati diversi ritratti di scuola del fiammingo Giusto Sustermans raffiguranti il Cardinale Carlo e i fratelli Ferdinando II, Giovan Carlo e Leopoldo dei Medici. Di grande pregio il ritratto di “Giovan Battista Capponi” dipinto da Santi di Tito e le “marine” e “rovine” seicentesche realizzate dal napoletano Salvator Rosa tra cui il “Ponte Rotto” di Roma. Nell'adiacente salotto, tappezzato di seta rossa messa in opera alla fine dell'Ottocento, l'arredo è composto da due splendidi stipi olandesi in legno e pannelli d'avorio incisi e dipinti, ceramiche cinesi del 1777, una bella cassaforte genovese della fine del Cinquecento e diversi dipinti della quadreria tra i quali una cinquecentesca “Maddalena” del senese Arcangelo Salimbeni, una grande tela di Giovanni Bilivert con la “Maddalena penitente”, un ritratto di “Francesco Magalotti” di Ottavio Dandini, un ritratto originale di “Cosimo III bambino” del Sustermans e un bel ritratto moderno di Cesare Ciani con “Luise Sophie (Luisa) Vonwiller” bisnonna dell'attuale proprietario Niccolò Capponi e una delle fondatrici del fascio femminile nel 1920. Splendida è la piccola cappella che, ricomposta nel Settecento, reca ancora l'originale arredo cinquecentesco. Sull'altare è infatti una pregevole tavola di Jacopo Carrucci detto il Pontormo con la “Madonna col Bambino”, probabile parte dell'ex paliotto della Cappella Capponi in Santa Felicita la cui decorazione fu commissionata da Lodovico Capponi senior al Pontormo che vi realizzò uno dei suoi capolavori: la famosa “Deposizione” del 1525-1528. Da notare inoltre l'antico affresco con “San Girolamo” e l'originaria vetrata con la “Deposizione dalla Croce” ed il “Trasporto al Sepolcro”, eseguita nel 1526 da Guillaume de Marcillat. Nell'ultimo salotto l'arredo, la tappezzeria in seta gialla e la ricca mobilia dorata e intagliata di stile secondo impero, furono realizzate nel 1858 in occasione del matrimonio tra Luigi Ferrante Capponi e Eletta Giugni Canigiani dei Cerchi. Le pareti sono arricchite da tele e 38 tavole della quadreria di famiglia tra i quali una bella “Maddalena” attribuita ad Andrea del Sarto e bottega, un espressivo “Santo” di Lodovico Cardi detto il Cigoli e un “San Girolamo” di Michelangelo Cerquozzi detto “Michelangelo delle Bambocciante” o “delle Battaglie”. 11) Palazzo Guicciardini, via Guicciardini 15 La famiglia Guicciardini, trasferitasi a Firenze dalla Val di Pesa nella seconda metà del XIII secolo, possedeva numerose case in questo quartiere che continuarono ad acquistare nel corso dei secoli successivi. In particolare Piero Guicciardini, tra il 1342 e il 1365, si dedicò ad una campagna di acquisti che culminò nella creazione di una “casa grande”, nucleo originario del futuro palazzo. In seguito, nel 1515, anche Jacopo Guicciardini, fratello del famoso storico Francesco (1483-1540), comprò l'adiacente palazzo Benizzi, dove nel 1233 era nato San Filippo Benizzi. Lo storico Francesco Guicciardini ed il Santo fiorentino sono ricordati nell'iscrizione di due lapidi collocate sulla facciata durante i restauri del 1922. Nel 1604 fu acquistata infine anche la “Casa dei Barbadori”, un edificio interno rispetto alla strada, raggiungibile tramite un vicolo che passava accanto al palazzo Benizzi demolito quando fu allargata Piazza Pitti. Nel Seicento le diverse proprietà, che appartenevano ai fratelli Girolamo e Piero Guicciardini, furono riunite in un unico palazzo signorile. Fu il marchese Piero Guicciardini a commissionare la ristrutturazione del complesso di edifici, composto dalla “casa grande”, dalle torri dei Malefici e Guicciardini e dall'adiacente palazzo dei Benizzi, a Gherardo Silvani, uno degli architetti più in vista del tempo. A seguito della volontà di Piero Guicciardini, che impose alla discendenza che titolo e possedimenti si trasmettessero al solo figlio primogenito, la proprietà non ha subito sostanziali trasformazioni architettoniche mantenendosi inalterata fino all'Ottocento. La complessa risistemazione operata dal Silvani avvenne tra il 1620 ed il 1625 e comprese l'ampliamento del primitivo ingresso del palazzo Benizzi, l'unione dei due cortili, la realizzazione del nuovo scalone monumentale ricavato tra le pareti dell'antica torre dei Malefici e il loggiato del piano terreno. Esternamente unificò le facciate donando agli edifici la stessa altezza, ribassando la torre dei Malefici e lasciando inalterate le antiche murature, comprese le finestre e le pregevoli decorazioni a graffito a monocromo dell'ex palazzo Benizzi. L'attuale fronte che prospetta piazza Pitti, fu realizzato dall'architetto Orlando Orlandini nel 1837 allorché, per allargare la piazza, venne demolito l'adiacente palazzo Guidetti. In tale occasione, anche la facciata prospiciente via Guicciardini fu riorganizzata abbassando i davanzali di alcune finestre ed eliminando la cornice marcapiano che Silvani aveva progettato per scandire il ritmo della facciata. L'architettò sistemò inoltre anche gli ambienti di rappresentanza al primo piano, compreso il vestibolo a capo dello scalone, e il grande salone che si affaccia con tre finestre su via Guicciardini ornato, oggi, da ritratti di scuola del Sutterman. Gli ambienti al piano nobile hanno mantenuto inalterata l'atmosfera cinque - seicentesca attraverso gli originali arredi e corredi che la famiglia Guicciardini ancora conserva. Dal salotto alla sala da pranzo, le stanze sono ornate da dipinti dell'avita quadreria tra i quali molte tele di pittori caravaggeschi ricercati con passione tra i mecenati della Firenze seicentesca. Tra tutti 39 spiccano due tele di Bartolomeo Manfredi (1580-1620) con “Suonatore di liuto” e “Giocatori di carte”. La sala da pranzo è ornata da un antico fregio mediceo che corre lungo tutte le pareti sul quale sono incisi e dipinti alternativamente un ramo di mirto e una donnola, quest'ultima l'emblema di Francesco I dei Medici (1541-1587). Un lungo fregio dipinto ad affresco sulla parete in alto prospiciente il giardino, riporta in cartigli, ad esaltazione di virtù, i seguenti motti in latino: “Exaltabuntur cornua iusti” e “A magnanime imprese risvegliato”. Splendida è l'adiacente biblioteca, con le originarie scaffalature lignee, realizzata su commissione del conte Paolo Guicciardini (1880-1955) ritratto nell'espressivo busto bronzeo dallo scultore fiorentino Romano Romanelli. Paolo Guicciardini fece riunire le due precedenti sale della biblioteca in un unico grande ambiente suddiviso da tre archi su due colonne di pietra disegnati dall'architetto Giuseppe Castellucci. In questa occasione l'archivio familiare fu sistemato al piano terra nella parte terrena dell'antica torre Guicciardini con ingresso dal giardino e aperto al pubblico degli studiosi con esemplare liberalità. Di grandissimo pregio è il tavolo ottagonale del XVI secolo intagliato su disegno di Jacopo Vignola (1507-1573) dall'ebanista bergamasco Damiano Zambelli per il famoso storico Francesco Guicciardini. Governatore di Bologna dal 1531 al 1534, e celebre autore di scritti quali tra gli altri, la “Storia Fiorentina”, il “Dialogo del Reggimento di Firenze”, i “Ricordi politici e civili” e la “Storia d'Italia” (1537-1540), Francesco ricevette in dono il tavolo dai monaci di San Michele in Bosco a Bologna. La gamba del tavolo è ricavata dall'intaglio di un unico tronco scavato mentre il piano di appoggio è in realtà un insolito e originale doubleface ove il pernio centrale è ornato dallo stemma Salviati, riferibile a Maria Salviati moglie di Francesco, unito all'arme Guicciardini composta “d'azzurro a tre corni da caccia d'argento cerchiati e imboccati d'oro legati di rosso appesi l'uno sull'altro”. L'ingrandimento operato dal Silvani dell'antico ingresso, costituito da due vasti ambienti uno coperto da volte e l'altro ornato da un elegante porticato con colonne in pietra serena e capitelli ionici, pose in maggior risalto il bellissimo stucco quattrocentesco derivato forse da un'opera perduta di Antonio del Pollaiolo. L'opera è racchiusa in una bella cornice rinascimentale mentre al di sotto è stata collocata una vasca tratta da un sarcofago romano. L'attuale posizione dello stucco quattrocentesco è sicuramente quella originaria: risalente quindi all'epoca in cui la proprietà apparteneva alla famiglia Benizzi. Oltre il cortile si apre un piccolo ma significativo giardino, di cui si hanno notizie dall'epoca del Silvani. La struttura geometrica all'italiana con siepi di bosso tagliate e agrumi piantati a boschetto, venne modificata nel 1804, in occasione delle nozze di Lorenzo Guicciardini con Elisabetta Pucci, seguendo la moda dei giardini “all'inglese” nei quali gli elementi naturali e artificiali (collinette, alberi d'alto fusto e sentieri sinuosi) si confondevano a creare un'armonica visione d'insieme. Nel 1866, allorché Pietro Leopoldo abolì i fidecommessi che vincolavano l'unità immobiliare, il palazzo Guicciardini fu diviso, per un breve periodo, tra i due fratelli Piero e Luigi i quali eressero un muro divisorio all'interno del giardino. Con la morte di Piero, che non ebbe figli, la dimora fu nuovamente riunificata con il nipote Francesco, unico figlio del superstite Luigi. Il conte Francesco (1851-1915), economista e uomo politico, ricoprì l'incarico di sindaco di Firenze negli anni a cavallo tra Otto e Novecento e fu Ministro dell'Agricoltura sotto il governo di Antonio Starrabba e ministro degli Esteri sotto il gover- 40 no di Sidney Costantino Sonnino. L'attuale impianto del giardino risale al 1922 quando Paolo Guicciardini assieme alla moglie Augusta Orlandini del Beccuto, intrapresero una serie di restauri ed interventi all'intera proprietà poco prima della tragica e prematura scomparsa nel 1923 dell'unico figlio, il tredicenne Luigino. La facciata su piazza Pitti fu restaurata dall'architetto Giuseppe Castellucci, fu creato l'archivio dei documenti di famiglia e fu ridisegnato il giardino. L'impianto crea con le aiuole e i suoi vialetti, una serie di angolazioni prospettiche culminanti in una montagnola, sotto al cui arco è posta una statua di Venere, copia della splendida scultura del Giambologna che orna l'ultima stanza della Grotta del Buontalenti nel giardino di Boboli. Il muro di confine reca vestigia delle antiche collezioni di scultura: numerose iscrizioni, targhe in pietra e una fonte antica che, come ricorda una targa, fu ivi riscoperta nel 1845. Durante la seconda guerra mondiale il palazzo fu una delle poche architetture di via Guicciardini a salvarsi dalle mine tedesche, anche se vennero danneggiati lo scalone principale e le coperture mentre i graffiti della facciata, andarono quasi completamente distrutti. Un primo e immediato intervento di restauro avvenne nel 1950 quando Paolo Guicciardini incaricò l'architetto Emilio Dori di curarne il progetto generale. Un secondo intervento è avvenuto nel 2007 a cura dell'Architetto Piero Guicciardini, attuale proprietario, che grazie al ritrovamento di foto scattate prima della distruzione bellica, ripristinò gli antichi graffiti. 12) Palazzo Feroni Magnani, via dei Serragli 8 I numerosi edifici che la famiglia Serragli possedeva in antico lungo la via che oggi porta il loro nome, furono acquistati nel 1428 da Piero di Francesco Del Pugliese che, come è riportato nella denuncia del 1469, “di dette case ne ho fatte una”. Ricchi e facoltosi mercanti, i Del Pugliese trasformarono l'antico edificio in una lussuosa dimora che, come informa Giorgio Vasari nelle sue “Vite”, venne decorata da Fra Bartolomeo - con un “San Giorgio a Cavallo” in cima ad una scala - e da Piero di Cosimo - con “storie di figure piccole, (…) e altre fantasie che gli sovvennono per essere storie di favole”. Le pitture furono in seguito in parte distrutte e vendute all'estero. Degli interventi attuati per conto della famiglia Del Pugliese, rimane oggi solo lo stemma in facciata che, accanto all'arme dei Feroni, famiglia che in seguito acquistò il palazzo, è composto da un leone rampante di profilo nella parte alta ed in basso da tre righe. Alla metà del Cinquecento i Del Pugliese vendettero una sezione del palazzo per ritirarsi, definitivamente, nelle stanze di un edificio confinante con borgo San Frediano. Nel 1748 Pierfranceso Castelli riunificò nuovamente il palazzo acquistando i due edifici che, poco dopo, nel 1769, furono venduti al ricchissimo marchese Giuseppe Francesco Feroni (1733-1786) cugino di Francesco Antonio il Giovane (1710-1769) che aveva acquistato, nel 1768, lo splendido palazzo in piazza Santa Trinita, oggi della famiglia Ferragamo. La ricchissima famiglia Feroni aveva creato il proprio impero economico nel secolo precedente grazie all'ingegno del capostipite Francesco Feroni (1614-1696), uomo d'affari abilissimo ed imprenditore senza scrupoli. Nato ad Empoli da artigiani tessili e tessile lui stesso, aveva fatto fortuna in Olanda come mercante, trasportando “mori schiavi in gran numero” nelle colonie spagnole delle Americhe. In poco tempo aveva accumulato una ricchezza colossale ed 41 imbastito relazioni diplomatiche e commerciali con le ambascerie di molti stati, tra i quali la Toscana. Era stato in virtù della stima che godeva presso i funzionari della segreteria granducale se nel 1667 aveva conosciuto Cosimo III dei Medici che, in viaggio attraverso l'Olanda, aveva accettato la sua ospitalità ad Amsterdam gettando le premesse di una lunga amicizia che avrebbe recato vantaggi ad entrambi. Non appena Cosimo III divenne Granduca nel 1673 chiamò Francesco Feroni a Firenze, gli concesse la cittadinanza fiorentina, lo elesse depositario generale, cioè amministratore del patrimonio della Corona e delle entrate dello Stato, e lo invitò a fare parte della Deputazione per la Riforma dei Magistrati. Nel 1681 Cosimo III lo nominò marchese di Bellavista, cioè dell'enorme fattoria composta da 45 poderi che il Feroni aveva comprato dalle possessioni Granducali nel 1671 per la cifra eccezionale di oltre 170.000 scudi. Francesco Feroni incaricò immediatamente l'architetto Antonio Ferri ed i principali pittori dell'epoca, di trasformare la villa in una straordinaria dimora, emblema e sintesi di questa avvincente vicenda umana che vede l'ascesa sociale di un figlio di un modesto tintore di Empoli a personaggio tra i pù importanti del Granducato. Acquistati gli edifici di via dei Serragli nel 1769, il marchese Giuseppe Francesco Feroni commissionò un nuovo grandioso progetto all'architetto Zanobi del Rosso (1724-1798), autore, tra gli altri, della Limonaia (1785) e del fantasioso Kaffeehaus nel giardino di Boboli (1775). I lavori, iniziati nel 1770 e conclusi nel 1778, interessarono il cortile, che fu allargato e sistemato, lo scalone principale, la costruzione di un secondo edificio prospiciente borgo San Frediano comunicante con gli ambienti più antichi del palazzo, la realizzazione della facciata, sia su via dei Serragli che su borgo San Frediano, e la sistemazione degli ambienti interni che furono affrescati e decorati. L'ingresso principale rimase su via dei Serragli mentre l'accesso da borgo San Frediano, venne concepito come passaggio e rimessa delle carrozze in comunicazione con il cortile del palazzo. Zanobi Del Rosso disegnò una facciata caratterizzata da un lungo sviluppo orizzontale, contrastante con la stretta via dei Serragli, da un bugnato piatto al piano terra, uguale sulle due strade, e da sei eleganti finestre al piano terra munite di leggere inferriate caratteristiche dell'epoca. Ai piani superiori mantenne le finestre originali ad arco centinate segnate da cornici marcapiano. Al centro del piano nobile spicca lo stemma Feroni, composto da un braccio rivestito di ferro e armato di spada. Attraverso un seicentesco portone a formelle, che conserva le primitive ferrature dei quattro battenti e della mezzaluna superiore, si accede all'androne concluso da un artistico cancello in ferro battuto ornato in alto dalla caratteristica arme dei Feroni. Suggestivo è il vasto cortile nel quale Zanobi ha utilizzato in parte capitelli e colonne di reimpiego, per trasformare e allargare il precedente cortile quattrocentesco. L'architetto realizza due logge fronteggianti coperte da volte con archi a tutto sesto, mentre nei due lati pieni ripete il ritmo dei due loggiati aperti disegnando archi ciechi con lesene sormontate da finti capitelli con foglie e volute. Tipico elemento settecentesco, è l'inserzione di due esili terrazzini sostenuti da mensole di ferro che non turbano la lineare sobrietà del cortile. Le pareti piene sono inoltre movimentate da due porte monumentali, con cornici che terminano in alto nel fastigio con vasi e busti, e da due grandi finestre i cui vuoti bilanciano i pieni delle pareti. 42 Originale è la ricca decorazione antiquaria che, voluta da Zanobi del Rosso, riveste le pareti ed anima lo spazio del porticato: busti di personaggi antichi, statue classiche, dei, eroine, figure pastorali e capricciose popolano uno dei cortili più festosi di Firenze. Con Ubaldo Francesco Feroni (1767-1821) figlio di Giuseppe Francesco, furono intrapresi una seconda serie di lavori che interessarono l'ampio giardino retrostante confinante con piazza del Carmine. Quest'ultimo lotto, acquistato nel 1787 da Ubaldo Francesco, era sede di un orto e monastero - soppresso da Pietro Leopoldo di Lorena nel 1783 - della compagnia detta la “Bruciata” perché aveva come antica tradizione di fare dono, in occasione della festa del Patrono (18 Novembre), delle gustose castagne. Ancora oggi a Firenze le “bruciate” è il termine con il quale sono denominate le castagne grosse, i marroni incisi e cotti sui bracieri. L'architetto incaricato fu sempre Zanobi Del Rosso che, distruggendo le preesistenti casette e occupando l'antico orto del Convento, creò l'attuale giardino e costruì un vasto edificio a diciassette assi prospiciente piazza del Carmine. Con tale intervento, la proprietà Feroni si ingrandì notevolmente fino a comprendere il grande blocco confinante con le tre strade e la piazza posteriore. La monumentalità del palazzo era sottolineata inoltre dalle aperture di accesso collocate scenograficamente su di un unico asse centrale che, da via dei Serragli, terminava con il grande cancello prospiciente piazza del Carmine. Mentre nel corso del XX secolo il palazzo perse la sua unicità per la suddivisione in differenti unità abitative, il quartiere al piano terra, con lo splendido giardino retrostante, ha mantenuto inalterato l'antico fascino grazie all'attuale proprietario, il marchese Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano, di antica e nobile famiglia siciliana che vanta, tra molti personaggi di rilievo, Antonio Paternò Castello di San Giuliano (1852-1914) ambasciatore in Gran Bretagna e in Francia (1906-1910) e Ministro degli Esteri (1905-1906 , 1910-1914). Tutti i salotti, affrescati e arredati con opere ed oggetti di grande pregio, si susseguono ininterrottamente a ridosso del giardino. Elegante è la sala decorata con finte quadrature settecentesche che, sulle pareti, creano l'illusione di un loggiato aperto su di un idilliaco paesaggio. Sulla volta una finta balaustra, sulla quale si affacciano ridenti figure di giovani vestiti con abbigliamento dell'epoca, incornicia la volta celeste sulla quale si stagliano putti, zefiri ed aeree figure femminili. Ignoto è l'autore, anche se è ravvisabile una certa similitudine con la decorazione della palazzina di Livia Raimondi Malfatti in piazza San Marco affrescata da Giuseppe Del Moro (1718-1781) fra il 1778 e il 1780. In un salotto adiacente, la volta è affrescata con una “Glorificazione della famiglia Feroni” il cui soggetto ripete similmente la decorazione realizzata da Anton Domenico Gabbiani per palazzo Corsini (1696). L'ignoto autore della pittura in palazzo Feroni, ripropone la scena con figure allegoriche che sollevano il modello della villa Feroni a Borgo a Buggiano, con la quale la famiglia ottenne il titolo marchionale ed entrarono nella rosa dell'aristocrazia toscana al pari di altre antiche famiglie fiorentine, come i Corsini. Nella raffinata alcova, che in origine comunicava con un'ala del palazzo prospiciente borgo San Frediano, oggi sede dell'Hotel Magnani Feroni, figure allegoriche dipinte sulla volta esaltano le virtù, mentre le pareti sono affrescate con due scene bibliche: “Susanna tra i vecchioni” e “La distruzione di Sodoma e Gomorra”. L'ambiente è separato dall'alcova vera e propria, decorata sulle pareti con scene a monocromo, da un arco ornato da affreschi e 43 stucchi riproducenti le figure del sonno e della notte. Elegante è la sala da pranzo nella quale predomina un tono neoclassico nei finti bassorilievi di gusto antico e nelle figure mitologiche di Esculapio ed Eolo dipinti, rispettivamente, sulle pareti e sulla volta. Un piccolo salotto adiacente, completamente affrescato da paesaggi e piccole figure inerenti Diana ed il tema della caccia, introduce perfettamente al grande giardino fatto restaurare di recente dal marchese Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano. Nei primi anni dell'Ottocento, Ubaldo Francesco ed in particolare sua moglie Luisa Buondelmonti, grande appassionata di fiori e piante rare, curarono con passione il grande giardino divenuto celebre per le sperimentazioni di alcune specie botaniche tra le quali, nel 1804, la coltivazione, per la prima volta a Firenze, di una pianta di ortensia. La cura del giardino era stata affidata ad Angiolo Pucci, giardiniere espertissimo a capo di una vera e propria dinastia di grandi orticultori e botanici. Dalla fine del Settecento, con la gestione poco oculata del marchese Ubaldo Francesco Feroni, l'impero economico della famiglia si stava lentamente sgretolando: alla fine degli anni '20 dell'Ottocento la straordinaria villa Bellavista era stata venduta, molte opere di quella che era una tra le più belle collezioni private fiorentine, erano state vendute insieme agli arredi e nel 1821, alla morte dello stesso Ubaldo, gli eredi alienarono, alla ricca famiglia Magnani, anche il grande palazzo in via dei Serragli. Provenienti da Pescia, i Magnani si erano distinti nella nascente industria specializzata nella gestione delle filande di seta e soprattutto delle cartiere. Alcune nuove applicazioni tecniche ben sfruttate facilitarono la crescita del loro patrimonio tra le quali, basterà ricordare l'uso del cloro, che imbiancando gli stracci colorati, materia prima della carta di Pescia, permise di realizzare della buona carta bianca anche con gli stracci meno puri, e quindi meno costosi. Stabilitisi a Firenze, i Magnani scelsero come degna residenza questo palazzo, tra i più vasti della città. Attraverso alcuni matrimoni assai vantaggiosi, la famiglia conquistò l'amicizia e la fiducia della locale aristocrazia del tempo. Il matrimonio tra la figlia unica Isabella di Antonio Magnani, e un ventenne marchese fiorentino, Carlo Lorenzo Gerini, bello, forte ma con un patrimonio molto rovinato, fu oggetto di una divertente satira di Giuseppe Giusti intitolata “La Scritta”: cioè il contratto matrimoniale dal quale risulta, dopo un racconto incentrato nella descrizione ridicola dei parenti di lui e di lei che si incontrano, che la vera attrattiva nei confronti della ragazza, brutta e perfino un po' gobba, erano gli 800.000 scudi di dote. Alla fine dell'Ottocento il palazzo passò agli Amerighi, nobile famiglia di origine senese che tenne la proprietà fino al termine della prima guerra mondiale. In seguito l'immobile, diviso e venduto a diversi proprietari, perse definitivamente la sua unità mantenendo tuttavia, nel quartiere al piano terra, tutto il suo antico fascino nobiliare. 13) Giardino Corsini sul Prato, via il Prato 58 La facciata di uno dei palazzi lungo quello che era noto come il “Prato d'Ognissanti” quell'area della città non lastricata ma lasciata verde, come dice il nome stesso, e utilizzata fin dal Medioevo per giochi e spettacoli - nasconde, oltre ad un ampio e buio androne per le 44 carrozze, uno dei giardini più affascinanti di Firenze. Acquistato da Filippo di Lorenzo Corsini nel 1621, insieme ad un “casamento grande cominciato e non finito”, il giardino dei Corsini viene descritto nella guida “Bellezze della città di Firenze” di Francesco Bocchi e Giovanni Cinelli pubblicata nel 1677, come “delizioso ... e oltre le piante nobili che l'adornano... arricchito di statue antiche e moderne”. Autore di questo “delizioso giardino” è Gherardo Silvani (1579-1675), l'architetto a cui Maddalena e Filippo Corsini diedero l'incarico di portare a termine la casa iniziata da Bernardo Buontalenti nel 1591 per Alessandro Acciaioli (1545-1601) e la moglie Caterina Capponi, precedenti proprietari del terreno. Del Buontalenti, che realizzò una “dimora di delizia” tanto in voga in quel periodo tra le famiglie gentilizie fiorentine, riconosciamo la loggia e le grandi finestre inginocchiate, mentre l'opera architettonica del Silvani si intuisce in alcuni particolari degli ambienti terreni, quali le decorazioni araldiche di alcuni architravi. E' comunque nella parte del giardino all'italiana, con le sue limonaie, le aiuole geometriche, le siepi di bosso e il viale centrale con le statue, che si manifesta chiaramente lo spirito barocco dell'artista, la sua propensione per la scenografia. Per aumentare l'impressione di lunghezza e di profondità del viale, l'architetto usò l'artificio di realizzare una doppia fila di statue con i rispettivi piedistalli, ad altezze degradanti con l'aumentare della distanza dal casino. E ad ulteriore conferma che il punto di vista fondamentale era quello, dal loggiato posteriore del casino verso via della Scala e non viceversa, il Silvani pose il putto e i due leoni al di sopra del cancello e dei pilastri laterali con i musi rivolti verso l'interno e non verso la strada, come sarebbe logico aspettarsi. La “bella viottola di statue” è ornata anche da numerosi vasi di limoni, sistemati in aiuole di forma molto allungata, dove crescono odorose piante di lavanda i cui fiori azzurri si alternano al giallo degli agrumi e al bianco delle sculture marmoree. Ai lati del viale si estendono ampi parterres rettangolari, disegnati al loro interno da siepi di bosso e colorati dai fiori e dalle piante aromatiche che ancora oggi vengono piantate nelle aree delimitate dalle siepi. Il giardino dei Corsini non subì variazioni di rilievo fino all'inizio dell'Ottocento, quando Antonietta Waldstatten nei Corsini fece realizzare, al lato dei sei parterres centrali, i due boschetti romantici. Le due masse boscose, che inquadrano il giardino formale seicentesco enfatizzandone il disegno, sono composte prevalentemente da lecci e risultano articolate, al di sotto delle piante ad alto fusto, in siepi di alloro alternate a sentieri tortuosi e ad aree di sosta con sedute. Il boschetto più prossimo alla porta al Prato è stato probabilmente ottenuto trasformando una ragnaia già esistente, citata nei documenti seicenteschi e raffigurata nella pianta di Firenze di Ferdinando Ruggeri del 1731. Nelle nuove parti romantiche del giardino, furono realizzati anche un laghetto ed una montagnola, elementi tipici del parco all'inglese, oggi scomparsi. A questi primi lavori ottocenteschi che interessarono esclusivamente il giardino seguì, tra il 1834 ed il 1836 la ristrutturazione architettonica e decorativa dell'antico casino buontalentiano, scelto come residenza abitativa da don Neri Corsini (1805-1859) e da sua moglie Eleonora Rinuccini. Neri Corsini incaricò del progetto Ulisse Faldi e chiese consulenze all'architetto Gaetano Baccani. Venne rialzato il tetto, fu costruita una nuova scala a pozzo, alcune sale furono affrescate e un grande stemma di famiglia, affiancato da due ippogrifi e realizzato da 45 Luigi Giovannozzi, venne posto sulla facciata del palazzo. Ulisse Faldi progettò inoltre, nel 1843, anche il nuovo palazzo al lato del casino, realizzato soltanto nel 1860 circa, dall'architetto Vincenzo Micheli trasformando l'edificio a due piani con lunga balconata, dalla quale i Corsini assistevano alle corse dei cavalli che si svolgevano sul Prato. Il giardino fu interessato nella seconda metà dell'Ottocento, ad un altro intervento qualificativo. Adiacente all'edificio vi era un grande spazio verde che, nella seconda metà dell'Ottocento fu integrato al giardino Corsini con la realizzazione di un “viottolone”, perpendicolare a quello progettato dal Silvani. Al centro del nuovo viale era situata la vasca ellittica ornata da una scultura del Pozzi raffigurante un bambino seduto - il piccolo Filippo di Tommaso Corsini (1873-1926) all'età di cinque anni - sopra una grande tartaruga, animale simbolo del giardino Corsini dove vivono circa 100 esemplari di tartarughe. Scomparso negli ultimi decenni il “viottolone” ottocentesco, la fontana ellittica si trova attualmente circondata da un prato che occupa lo spazio compreso tra le due limonaie del giardino. Il grande spazio verde, fino a 40 anni fa coltivato e scompartito in riquadri delimitati da filari e pergolati, è stato recentemente smantellato e trasformato in un esteso prato con alberi sparsi. Attualmente il giardino, che ha ricevuto un intervento di sistemazione negli anni '80 del Novecento da parte di Oliva di Collobiano, architetto del paesaggio, su commissione della principessa Giorgiana Corsini, presenta inalterati, oltre ai due parterres geometrici seicenteschi, i due boschetti romantici, il prato con tigli secolari, le limonaie con pavimenti di terra, grandi sportelloni in legno e larghi muretti per sostenere le conche di circa 130 agrumi. Due muri lo separano, sul fondo, da via della Scala e, sulla sinistra, dall'esteso prato e da un frutteto. Il giardino formale dei Corsini, sopravvissuto alle trasformazioni ottocentesche che in molti casi hanno distrutto le precedenti sistemazioni, è uno dei pochi esempi di giardino all'italiana ancora presenti all'interno del centro storico e, senza dubbio, il più significativo sia per l'estensione dell'area a parterre che per l'ottima conservazione dell'impianto formale e degli arredi in esso presenti. 14) Giardino Torrigiani, via dei Serragli 144 Nella parte finale di via dei Serragli è situato il giardino dei Torrigiani, il più grande giardino privato entro le mura di Firenze. La proprietà appartiene alla famiglia dal XVI secolo, che già allora era nota per le coltivazioni rare, caratteristica che mantenne con lo scorrere dei secoli. Nel 1798 Pietro Guadagni (1773-1848) ereditò dallo zio materno, il cardinale Luigi Torrigiani, terreni e ville in tutta la Toscana e tre palazzi in città tra cui il casino ed il giardino in via del Campuccio. L'eredità sarebbe stata resa effettiva purché Pietro, per continuare la dinastia dei Torrigiani, cambiasse il proprio cognome paterno con quello della madre Teresa Maria Torrigiani. Accettato di buon grado la clausola, il marchese Pietro Torrigiani nel giro di pochi anni ingrandì il giardino dello zio, acquistando nuovi terreni, fino a raggiungere il convento della Calza, per un totale di dieci ettari! Pietro Torrigiani dedicò molto del suo tempo a far rivivere e a migliorare la sua proprietà. Tra il 1813 ed il 1814 l'architetto Luigi De Cambray Digny (1778-1843) fu incaricato di progettare un nuovo giardino. L'impostazione e l'ideazione dei percorsi rispecchiavano la moda di 46 costruire “all'inglese” - affiancando zone che ricostruivano un ideale Arcadia, a personaggi tratti dai poemi cavallereschi o architetture di ispirazione neogotica - ma erano anche la proiezione di un itinerario simbolico, interpretato in chiave massonica. Il giovane Gaetano Baccani (1792-1867) sostituì il Cambray Digny nella direzione dei lavori; costruì il torrino neogotico - alludente tra l'altro allo stemma ed al cognome dei Torrigiani il sepolcreto, ritagliò i merli delle mura medicee e allestì l'ippodromo. Il visitatore viene accolto all'ingresso da una raffigurazione di Osiride, divinità agricola e dio dei defunti e della resurrezione, che sorregge delle tavole sulle quali sono incise le regole a cui bisogna attenersi: infatti nel 1824 il giardino veniva aperto al pubblico. Le diverse vie da seguire nella visita al giardino erano indicate da mani di marmo poste su colonne; l'itinerario movimentato dall'alternanza, che aveva certo significati simbolici, di giardini formali, zone a prato e zone boscose, era contrassegnato dalla presenza di numerose opere, oggi non più esistenti. Alcune zone erano adibite al pascolo degli animali, tra cui cervi e caprioli, - che all'interno delle mura cittadine costituivano una ricercata rarità - mentre le mura di cinta erano state decorate con scene campestri ed architetture in rovina. Non lontano vi era la grotta di Merlino, figura che alludeva alle forze interiori dell'uomo, che ognuno può utilizzare secondo la propria volontà. Passando da un tempietto arcadico si arrivava al ginnasio dove si giocava al pallone, si tirava con l'arco, con la pistola e la carabina, davanti ad un anfiteatro in pietra. Un fitto bosco conduceva poi al torrino, simbolo con i suoi tre piani interni, dei tre gradi del passaggio dal mondo profano a quello iniziatico della tradizione massonica. Alto ventidue metri nascondeva al suo interno una libreria, un osservatorio astronomico e armi da difesa. Oltre ai suggestivi percorsi simbolici, il giardino era noto fin dal Seicento soprattutto per la sua importanza botanica: numerosissime le piante coltivate, 5.500 le piante in vaso e 13.000 in terra, tra cui anche piante esotiche. Agrumi, camelie, rododendri che ancora oggi possiamo vedere nel prestigioso vivaio di piante ornamentali e da appartamento del marchese Vieri Torrigiani Malaspina, costituivano le coltivazioni predilette. Il grandioso parco Torrigiani si è conservato sino ad oggi in ottimo stato e gli attuali proprietari, il marchese don Raffaele Torrigiani duca di Santa Cristina, per la parte di via del Campuccio, e i marchesi Torrigiani Malaspina, per la parte di via dei Serragli, continuano con amore e dedizione alla manutenzione di uno spazio verde così vasto che ha mantenuto inalterato, a differenza di altri giardini, il suo carattere di unitarietà nonostante il frazionamento immobiliare. Chiesa dei Santi Michele e Gaetano, piazza Antinori La chiesa dei Santi Michele e Gaetano in piazza Antinori è uno degli esempi più rappresentativi dell'architettura barocca a Firenze. L'edificio, che s'innalza su una scalinata realizzata nel 1701 da Carlo Marcellini, iniziato dai Teatini intorno al 1604, viene finanziato dalla granduchessa Cristina di Lorena e dal cardinal Carlo dei Medici su progetto di Matteo Nigetti. Tra il 1628 ed il 1630 la direzione dei lavori viene assunta da Gherardo Silvani e dal figlio Pier Francesco. Nella facciata (la cui costruzione si prolungò dal 1648 al 1683) Gherardo e Pier Francesco Silvani sono debitori di precedenti progetti per il Duomo, inserendo però un ricco apparato 47 scultoreo alla romana. Le paraste scanalate poggianti su un unico basamento, aumentando l'effetto del chiaroscuro già sottolineato dalla pietra forte, dividono la parte bassa in tre parti, con la campata mediana più ampia. Al centro il portale a edicola con colonne corinzie che sorregge lo stemma dei teatini, è fiancheggiato dalle figure allegoriche della Povertà e della Speranza, opere dello scultore tedesco Balthasar Permoser, che firma anche le grandi figure in marmo di Sant'Andrea e San Gaetano, posti nelle nicchie sopra gli ingressi. Sul fianco della chiesa insistono ancora le lesene scanalate che congiungono visivamente, oltre l'alta trabeazione, le belle fiaccole in marmo disegnate da Giovan Battista Foggini. L'ordine superiore della medesima ampiezza della navata centrale, è raccordato alla parte inferiore per mezzo di volute. Al centro l'occhio, sopra cui campeggia lo stemma mediceo, saluto ed omaggio alla dinastia regnante. Il grande timpano conclude la maestosa e monumentale facciata, dialogante e comunicativa nella sua luminosa partizione. L'interno a navata unica con alta volta a botte impostata su una trabeazione continua, si presenta austero e solenne: nell'aula si aprono tre cappelle su ciascun lato, delimitate da pilastri scanalati e capitelli corinzi, con festoni e ghirlande nella parete che corre sopra le cappelle ed il cui modulo decorativo è ripreso dalle profonde e ampie cappelle del transetto. Lungo la navata al centro dei pilastri campeggiano dodici grandi nicchie che racchiudono le statue degli apostoli realizzate da famosi scultori dell'epoca tra cui Giovanni Battista Foggini, Antonio Novelli e Giuseppe Piamontini. La severità dell'alzato in pietra serena, viene mitigato dalla policromia degli intarsi marmorei degli altari, dalle statue e dalla ricchezza degli stucchi, dalle ampie finestre che inondano di luce la navata, oltre che dagli straordinari parati in giallo e rosso. La decorazione delle cappelle venne realizzata su commissione delle numerose famiglie che si assunsero il patronato abbellendole con affreschi, stucchi, sculture e mirabili tele dipinte, tra gli altri, da Iacopo Vignali, Ottavio Vannini, Giovanni Bilivert, Matteo Rosselli, Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli. Il modulo decorativo con l'altare fiancheggiato da colonne, col frontone triangolare e le pareti laterali aperte con porte sormontate da tele incorniciate da pietra serena, si ripete in ciascuna cappella con variazioni fantasiose ma comunque caratterizzate sempre da un'elegante classicità. Il coro si innesta armoniosamente con un articolato impianto decorativo composto da cornici aggettanti “in bilico tra maniera e barocco” che trova rispondenza nella controfacciata. Ai lati, due serliane incorniciano due cantorie, mentre al centro un'edicola sorretta da due esili colonne e decorata da volute, festoni di frutta e racemi, ospita un bel crocifisso bronzeo di Giovan Francesco Susini. Di straordinaria fattura l'altare in marmi preziosi disegnato da Pier Francesco Silvani. Villa I Collazzi, via Volterrana 1, località Giogoli La villa dei Collazzi situata in posizione superba, sui colli intorno a Firenze, lungo la strada che conduce a Volterra, racchiude nella sua struttura quelle caratteristiche ritenute fondamentali per una villa di campagna: la comodità, la stabilità e la bellezza. L'autore di questa grandiosa costruzione è anonimo, anche se la tradizione annovera fra i 48 nomi quello illustre di Michelangelo, non suffragato però da alcun documento. Nella prima metà del Cinquecento Baccio e Agostino Dini comprarono la proprietà dagli eredi della famiglia Buondelmonti e fecero costruire la loro villa. L'unico progetto superstite, un disegno con la facciata della villa, è stato anche attribuito a Santi di Tito (1526 -1603), l'artista che eseguì, tra l'altro, l'altare della piccola cappella che si affaccia sulla grande terrazza. Da un viale di cipressi alberato, fiancheggiato da prati, si giunge alla villa, la cui facciata si apre su un piano rialzato circondato da una balaustra in pietra. Una doppia scalinata, fatta erigere nel Settecento, fiancheggiata alla sommità da due leoni recanti lo stemma dei Dini, conduce alla terrazza. La corte, aperta sui tre lati da un loggiato a due ordini, con colonne tuscaniche che sorreggono gli archi fasciati in pietra, è unicamente decorata da due pozzi. Tra i due piani corre una cornice di brunelleschiana memoria, mentre le estremità dei due lati brevi sono decorati da una doppia file di bozze, che ne esaltano la massiccia struttura. Da una porta si accede alla piccola ma preziosa cappella dedicata a Sant'Agostino, commissionata da Maria Dini Castelli al pittore Lorenzo del Moro, poi sostituito, nel 1735, da Vincenzo Meucci e Rinaldo Botti. Sull'altare la tavola di Santi di Tito reca l'immagine delle Nozze di Cana, ed è datata 1593. Allievo del Bronzino, Santi di Tito si forma con la pittura manierista di Pontormo e Andrea Del Sarto. Tende tuttavia dopo il suo viaggio a Roma del 1564, a semplificare la struttura delle composizioni così come incitavano le regole tridentine. In quest'opera ravvisiamo invece un'insistita complessità formale data dalla centralità del festino rispetto alla figura del Cristo seduto, posto in diagonale dietro cui campeggia un'arcata, che ricorda quella della villa. La villa, chiusa sui restanti tre lati, presenta sulla parte opposta della facciata una duplice scalinata curvilinea, che ricorda quella della villa medicea di Poggio a Caiano: essa permette di accedere ad un bel portale decorato in pietra forte a bugnato piano coronato da uno stemma; al piano superiore si aprono due logge dotate di terrazza, composte da triplici archi divisi da coppie di sottili colonne, da cui si gode un bellissimo panorama. Lungo i quattro lati dell'edificio sul piano rialzato si aprono una serie di eleganti finestre inginocchiate con timpano triangolare, mentre le finestre del piano nobile presentano una forma più semplificata di cornice in pietra forte. Il giardino assai semplice, si compone di un terrazzamento a prato che circonda sui tre lati la villa. Ai piedi del bastione di levante si sviluppa un altro giardino, costruito nel Settecento, con aiuole fiorite di forma quadrata, attorno alle quali sono state poste piante d'agrumi. Sono della prima metà dell'Ottocento i grandi ippocastani e lecci situati nei pressi della villa, mentre il viale dei cipressi risale al 1853. La piscina sul lato destro del viale è stata costruita da Pietro Porcinai nel 1938, col preciso intento di fare riflettere nel grande specchio d'acqua l'intera facciata dell'edificio. L'interno conserva oggi un arredo molto raro per omogeneità e integrità nel panorama delle grandi case italiane. Si tratta infatti ancora in gran parte di quello originario, dovuto alla committenza della famiglia Dini che conservò I Collazzi fino alla metà dell'Ottocento. I Bombicci Pomi e i Chierichetti, che si sono succeduti poi nella proprietà della Villa, hanno aggiunto dipinti, sculture e mobili che sono andati a integrarne il contenuto, rispettandone l'armonia e arricchendo quell'aspetto collezionistico dell'insieme che oggi ne determina la 49 valenza quasi museale. Dal 1933 la Villa dei Collazzi appartiene alla famiglia Marchi, che restaurandola completò la parte mancante dell'ala sinistra e integrò l'arredo con alcuni cassoni provenienti da Palazzo Davanzati e dalla collezione Pisa e con dipinti e sculture fiorentine del XVI e XVII secolo. Villa Poggio Torselli, via Scopeti 10, San Casciano in Val di Pesa - Firenze Ricordata già nel primo catasto fiorentino del 1427 con l'attuale nome, la proprietà si trova poco fuori dell'abitato di San Casciano, immersa nella vegetazione di vigneti e oliveti. E' attraversata da un maestoso viale di cipressi che congiunge i cancelli al palazzo e gode di una straordinaria vista sul tipico paesaggio collinare toscano. L'edificio, costruito nel XV secolo dalla famiglia Machiavelli, è passato di mano in mano ai maggiori rappresentanti della nobiltà fiorentina: dai Corsini, agli Antinori, ai Capponi, sino alla famiglia Orlandini che si estinse nel 1722. In realtà la famiglia, il cui ramo era già scomparso nel 1664, aveva chiamato alla successione Giovanbattista di Girolamo Corsini che assunse il cognome Orlandini. Nonostante il matrimonio nel 1679 con Olimpia del marchese Patrizio Patrizi di Roma, la successione non fu assicurata e, nel 1722, i Del Beccuto riunirono a loro il cognome Orlandini prendendone anche lo stemma. Grazie al suo prestigio, nella villa vi soggiornarono illustri personaggi. Tra questi, ricordiamo Paolo I (1754-1801) imperatore di Russia, e papa Pio VII (1742-1823) che vi sostò durante il suo viaggio a Parigi per celebrare, nel 1804 nella cattedrale di Notre Dame, l'incoronazione di Napoleone ad Imperatore dei francesi. La villa con il giardino circostante, è stata sottoposta negli ultimi anni ad un attento e capillare lavoro di restauro che ha riportato il grandioso complesso al suo antico splendore. Nel 1702 Giovanbattista Orlandini già Corsini, affidò a Lorenzo Merlini l'incarico di studiare un nuovo progetto architettonico che, inglobando le precedenti strutture delle quali restano tracce nella cantina seminterrata, nella grande cucina ed in alcuni locali di servizio, portò alla costruzione dell'attuale grandiosa villa. Giovanbattista Orlandini possedeva a Firenze anche lo splendido palazzo in via de' Pecori, oggi del Monte dei Paschi di Siena, che proprio in contemporanea agli interventi a Poggio Torselli, tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, fece ristrutturare dall'architetto Antonio Ferri e affrescare da Anton Domenico Gabbiani, Alessandro Gherardini e Pier Dandini. Il complesso della villa si sviluppa con un corpo centrale e due ali laterali a “L” che accolgono appartamenti, uffici, cappella e limonaia e che, a sud, racchiudono lo splendido giardino all'italiana. Lo stile dell'edificio, sobrio ed elegante tipico dell'architettura fiorentina, si caratterizza per la regolarità della sua volumetria: tre piani fuori terra e quattro prospetti a cinque assi di finestre ciascuno, resi omogenei dall'uso di un impaginato che si ripete nei vari fronti: il tema dominante è quello della tripartizione verticale del fronte. In quello principale, un ordine gigante di paraste segna verticalmente le tre porzioni della facciata delle quali il settore centrale, composto da tre assi e coronato da balaustra sulla quale si stagliano statue delle Quattro Stagioni, sovranza rispetto al piano delle ali laterali. Le finestre nei prospetti presentano al piano terra l'incorniciatura a timpano triangolare e curvilineo, di sapore cinquecentesco, mentre nei piani superiori sono a terminazione rettilinea, con andamento mistilineo 50 sotto il davanzale. L'ingresso principale è caratterizzato da un portale centinato fiancheggiato da paraste su cui si imposta un terrazzino in pietra balaustrato. Il tema delle stagioni è ripreso anche nelle allegorie affrescate all'interno della villa. In occasione del recente restauro, che ha riportato gli ambienti al loro assetto originario, sono stati riscoperti anche affreschi e decorazioni d'infissi e porte, recuperati in tutta la loro bellezza di tinte e stile. Il piano terra è composto da un vastissimo salone centrale sul quale si affacciano i salotti di rappresentanza affrescati, alla fine del Seicento, con ariose scene allegoriche da Pier Dandini, Matteo Bonechi e allievi. Interessante è un piccolo ambiente al piano terreno che in origine fungeva da saletta da bagno avendo, fino a pochi anni fa, una vasca incassata al centro del pavimento. E' una piccola sala completamente affrescata con quadrature e, sulla volta, l'allegoria de “La Gloria dei Principi” di Matteo Bonechi. Sulle pareti minori, due porte sono sovrastate da stemmi: da un lato lo stemma della famiglia Orlandini partito con quello della famiglia Patrizi di Roma, allusione al matrimonio di Giovanbattista Corsini Orlandini con Olimpia Patrizi, dall'altro, sopra l'ingresso attuale, lo stemma Corsini partito con quello Capponi, allusione al matrimonio tra Girolamo Corsini, fratello di Giovanbattista, ed Elisabetta Capponi, celebrato nel 1698. I piani superiori, ai quali si accede attraverso l'imponente scalone in pietra serena, accolgono camere e salotti che si distinguono per varietà e raffinatezza. Al fascino della villa contribuisce il recente arredamento che, curato dall'antiquario Gianfranco Luzzetti amministratore unico della proprietà, è costituito da bellissimi mobili d'epoca e da una straordinaria raccolta di quadri e di oggetti d'arte, tappeti e tappezzerie. La dimora è circondata dallo splendido giardino settecentesco formato da una zona a parco, sul lato nord, e da un giardino all'italiana, dislocato su due ripiani terrazzati, sul lato sud. Parte dell'originale parterre si è conservato a ridosso del lato ovest e su quello di sostegno della terrazza superiore, con aiuole oblunghe fornite di un ingegnoso impianto d'irrigazione a canaletta che ha un importante valore storico, essendo uno dei meglio conservati della Toscana. E' stato progettato con vaschette scolpite in pietra forte posate in modo da favorire lo scorrimento dell'acqua dal punto più alto a quello più basso. Trasformato a metà Ottocento per assecondare la moda del giardino all'inglese, il parterre ha subito un primo restauro attorno al 1925, con il rinnovo delle siepi di bosso, e un secondo più recente a cura dell'attuale proprietà, che durante i lavori ha riportato alla luce una delle aiuole originali con le relative vaschette d'irrigazione. Il recente intervento conservativo dei manufatti, eseguito sempre con passione da Gianfranco Luzzetti coadiuvato dalla preziosa collaborazione della Dottoressa Ada Segre, paesaggista e storica del giardino, ha previsto anche il ripristino della vegetazione tipica dei giardini di fine Seicento. Grazie alla rotazione della vegetazione stagionale, alberi da frutto nani, rose antiche, erbe aromatiche, erbacee perenni, annuali e bulbose, rinnovano l'interesse del giardino durante tutto l'anno e fanno da cornice alla cappella barocca e alle architetture del palazzo. Di particolare pregio è inoltre la secolare collezione di agrumi in vaso che, nella stagione fredda, sono conservati nella splendida limonaia. Con il restauro del complesso di villa Poggio Torselli, l'antiquario Gianfranco Luzzetti ha ottenuto notevoli riconoscimenti, sia nazionali, come il premio ricevuto nel 2003 dalla Fon- 51 dazione Giulio Marchi per il migliore restauro in Italia, sia internazionali, come il “Silver Best” ricevuto nella V edizione del concorso “Best of Wine Tourism 2008” per la categoria “Architettura, Parchi e Giardini”. Villa Le Corti, via San Piero di Sotto 1, San Casciano in Val di Pesa - Firenze Immersa nel verde di un grande parco con il viale costeggiato da cipressi secolari, è considerata una tra le più importanti dimore nobiliari del nostro territorio sulle dolci colline del Chianti. Come risulta fin dal primo catasto fiorentino del 1427, la villa, che si erge imponente nel suo isolamento accentuato dall'assenza di alberi e dalla posizione elevata rispetto al paesaggio circostante, appartiene ancora al celebre casato dei Corsini. Giunti in città da Poggibonsi alla fine del 1100, i Corsini sono tra le più antiche famiglie italiane che nel corso dei secoli si distinse nelle attività commerciali, bancarie e politiche. Grandi mecenati nei confronti delle arti, tra i celebri antenati vi è Andrea Corsini che, vescovo di Fiesole nel 1373, salì dopo tre secoli all'onore degli altari ricevendo la santificazione nel 1629 da papa Urbano VIII. Un altro membro della famiglia, Lorenzo Corsini (1652-1740), nel 1730 salì al soglio pontificio col nome di Clemente XII e concesse il titolo, ancor'oggi tramandato in famiglia, di principe di Sismano al suo nipote preferito Bartolomeo Corsini (1683-1752). In origine la villa era costituita da un semplice corpo di fabbrica rivolto a nord - ovest, probabilmente si trattava di una torre facente parte di una linea di fortificazione costruita sulla Valle della Pesa a difesa di Firenze. La bella forma rettangolare con le due possenti torri laterali sul fronte settentrionale, aperte entrambe alla sommità da un'elegante finestra bifora, è dovuta ad una radicale trasformazione del vecchio impianto commissionata da Bartolomeo Corsini, nei primissimi anni del Seicento, al pittore architetto Santi di Tito (1536-1603) che donò al complesso l'attuale maestosa forma tardo rinascimentale. Dopo l'intervento di Santi di Tito, una seconda consistente campagna di lavori fu promossa da Filippo Corsini (1647-1705) a partire dal 1680: venne realizzata una complessa riqualificazione decorativa degli interni, con la partecipazione di maestranze presenti in altre fabbriche corsiniane: sono documentati lo stuccatore Giovannozzo Giovannozzi, il pittore Alessandro Gherardini e l'architetto Antonio Ferri, in qualità di consulente generale. E' collocabile in questa fase di lavori anche l'ampliamento del 'prato' intorno alla villa, con la creazione di vaste cantine sotto la porzione meridionale di esso. Filippo Corsini fece realizzare nel 1697 anche un monumentale viale di accesso, in asse con l'ingresso settentrionale dove sono le torri, su progetto di Giovan Battista Foggini, impegnato in quel periodo nel cantiere corsiniano di Castello. Alla fine dell'Ottocento il Principe Tommaso Corsini (1835-1919), figura politica di grande rilievo, deputato del Regno d'Italia dal 1865 al 1882, senatore a vita, nonché fondatore della Fondiaria Assicurazioni, presidente della Cassa di Risparmio di Firenze e grande appassionato di archeologia, commissionò alcuni interventi di restauro alla villa ed incaricò il pittore Gaetano Bianchi (1819-1892) di decorare alcuni ambienti interni con numerosi stemmi aristocratici. I restauri realizzati da Tommaso Corsini, di cui si ha notizia in un suo “memoriale”, ma anche nelle epigrafi dei portali d'ingresso, rendono problematico stabilire quanti e 52 quali siano stati gli aggiornamenti tardo-seicenteschi e ottocenteschi apportati ai prospetti, e quanto invece risalga al progetto di Santi di Tito dei primi anni del Seicento. La splendida villa, che nei secoli fu per la famiglia Corsini luogo di breve villeggiatura e mai residenza per lunghi periodi dell'anno, è organizzata intorno al bel cortile quadrato, su cui prospetta un portico a tre arcate su colonne al piano terra, colonne trabeate al primo piano (oggi tamponate) e al mezzanino piccole finestre quadrate a orecchioni, impaginato che si ripete in ciascuno dei quattro lati. Il cortile è il cuore pulsante della villa poiché dà accesso alle sale a pian terreno e ai piani superiori. Quest'ultime includono la cappella di famiglia coperta con volta a botte preziosamente affrescata da Bernardino Poccetti (1548-1612): ultimo lavoro dell'artista che, morto nel 1612, lasciò terminare l'opera ad un suo collaboratore, Francesco di Alessandro Leoncini. Esternamente la villa presenta una facciata speculare sui tutti e quattro i lati, caratterizzata da finestre rinascimentali con inferriate al primo piano, al di sopra delle quali corre un marcapiano in pietra serena. Il piano superiore e le torri presentano aperture più leggere. Il fronte sud è a cinque assi di aperture, con il portale centrale bugnato, fiancheggiato da paraste doriche e stemma Corsini in chiave “bandato d'argento e di rosso, alla fascia d'azzurro attraversante sul tutto”; questo è sormontato da una porta-finestra centinata che è a sua volta caratterizzata da una cornice a bugne, inquadrata da paraste lisce; ai lati del portale esattamente tangenti, si aprono due piccole finestre rettangolari. Il fronte nord invece è a sette assi con un grande portale, in linea con il fogginiano viale d'ingresso, che riecheggia nell'uso del bugnato e nella sovrapposizione della porta-finestra quello meridionale, ma qui l'elemento superiore è molto più semplice, con la porta-finestra conclusa da un timpano spezzato curvilineo e cornici laterali che imitano quelle delle finestre del primo piano. Uguali in tutti e quattro i fronti, queste sono impostate su di una cornice marcapiano e si caratterizzano per l'estrema semplicità di tali listelli che in corrispondenza dell'architrave assumono l'aspetto di un ricciolo bidimensionale. Ancora più lineari ed austere sono le aperture del piano terra, definite da cornici in pietra, con davanzale e trabeazione sostenuti dalle consuete mensoline, decorate sul frontale con una patera. La creazione del viale nel 1697, deve aver modificato la gerarchia degli ingressi, facendo assumere al prospetto nord un'importanza maggiore. Allo stato attuale delle conoscenze, comunque, la definizione degli elementi decorativi (le finestre e i portali) si possono ascrivere al progetto di Santi di Tito in quanto si inseriscono a piano titolo nel suo vocabolario (si confrontino i portali bugnati con quello di palazzo Zanchini in via Maggio a Firenze e della villa dei Collazzi a Scandicci). Alle Corti, tuttavia, il linguaggio dei portali assume una complessità che non si riscontra nelle altre opere di Santi, evidentemente sempre più influenzato dall'ultimo Buontalenti e dalle esperienze architettoniche del Cigoli. Singolare è il collegamento tra le porte d'ingresso e le finestre sovrastanti: il davanzale di ogni finestra è allo stesso tempo il coronamento del portone e gli stessi stipiti lisci della finestra sono l'ideale continuazione di quelli bugnati dell'apertura sottostante. Da una scalinata gemella sul retro della villa, si accede ad un armonioso giardino all'italiana disegnato da geometriche siepi di bosso e restaurato secondo le linee essenziali tracciate nel periodo rinascimentale. Duccio Corsini e la moglie Clotilde Trentinaglia de Daverio, da pochi anni hanno intrapreso 53 una lunga opera di ricostruzione che ha riportato la villa al suo antico splendore e ha rilanciato con successo le attività agricole: il terrapieno del giardino nasconde infatti le ampie cantine organizzate su tre livelli e l'orciaia dove si producono e conservano i pregiati prodotti della fattoria (vino del Chianti Classico e olio extra vergine di oliva) mentre annualmente viene allestita nel grande parco, una manifestazione a raggio europeo dedicata al vivaismo e al giardino. 54 55 Programma Segreteria Sezione Toscana ADSI 055 21 24 52 Radio Taxi 055 42 42; 055 43 90; 055 47 98 Tutti gli eventi dei giorni 24, 25 e 26 Aprile sono programmati nel centro storico a ragionevoli distanze dalle Residenze d'Epoca e dagli Alberghi convenzionati. Pertanto tutti gli spostamenti sono a cura dei partecipanti. Per la gita verso il Chianti di lunedì 27 Aprile è previsto un servizio di pullman. Appuntamento alle 9,30 in piazza Santa Trinita. Venerdì 24 Aprile Arrivo nel pomeriggio e sistemazione nelle Residenze d'Epoca e negli Alberghi. 20,00 Pranzo a Palazzo Ximenes Panciatichi (borgo Pinti 68) della Principessa Isabella Fabrizia Ruffo di Calabria Becherucci. Sabato 25 Aprile 9,30 - 17,00 Assemblea Nazionale in Palazzo Corsini (lungarno Corsini 10) della Principessa Lucrezia Corsini Miari Fulcis e degli Eredi della Principessa Anna Lucrezia Corsini Sanminiatelli. 10,00 Per gli accompagnatori dei Soci, partenza da Palazzo Corsini (lungarno Corsini 10) in bus - navetta per la visita al Giardino Corsini del Principe Filippo Corsini ed al Giardino Torrigiani del Principe Torrigiani di Santa Cristina e dei Marchesi Torrigiani Malaspina - al termine rientro a Palazzo Corsini. 13,00 - 14,00 Colazione a Palazzo Corsini per tutti. 14,00 Riprendono i lavori assembleari. 20,00 Pranzo a Palazzo Gerini (via Ricasoli 42) della Marchesa Sveva Gaetani dell'Aquila d'Aragona Cavalletti. 56 Domenica 26 Aprile 9,30 Santa Messa nella Chiesa dei Santi Michele e Gaetano (piazza Antinori). Celebrante don Simone Nencioni. Maestro organista, il Consocio Paolo Palmerini. 10,00 - 18,00 I partecipanti saranno divisi in gruppi di 30 e, accompagnati da una guida, saranno ricevuti nei seguenti Palazzi del centro storico: - Palazzo Capponi del Conte Neri Capponi; - Palazzo Gianfigliazzi della Baronessa Maria Maestrelli Locatelli De Hagenauer; - Palazzo Ginori del Marchese Lionardo Lorenzo Ginori Lisci; - Palazzo Guicciardini del Conte Piero Paolo Guicciardini; - Palazzo Malenchini del Marchese Luigi Malenchini; - Palazzo Feroni del Marchese Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano; - Palazzo Pucci del Marchese Puccio Pucci di Barsento. 13,00 - 14,30 Colazione a Palazzo Antinori (piazza Antinori 3) del Marchese Piero Antinori (al termine proseguono le visite) 20,00 Aperitivo a Palazzo Davanzati (via di Porta Rossa 13) sede del Museo della Casa Fiorentina della Soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino a seguire pranzo nel vicino Palagio di Parte Guelfa del Comune di Firenze (piazzetta di Parte Guelfa 1r). Lunedì 27 Aprile 9,30 - 16,30 Appuntamento alle 9,30 in piazza Santa Trinita e partenza in pullman per la gita verso il Chianti. Visita a: - Villa I Collazzi dei Signori Mariella, Carlo, Grazia e Bona Marchi; - Villa di Poggio Torselli del Signor Gianfranco Luzzetti; - Villa Le Corti dei Principi Corsini ricevuti da Don Duccio e Donna Clotilde Corsini, (dove sarà servita la colazione). 57 58 59 Chiesa: Chiesa dei Santi Michele e Gaetano, piazza Antinori Giardini: 13) Giardino Corsini sul Prato, via il Prato 58 14) Giardino Torrigiani, via dei Serragli 144 Dimore storiche: 1) Palazzo Ximenes Panciatichi, borgo Pinti 68 2) Palazzo Gerini, via Ricasoli 42 3) Palazzo Pucci, via dei Pucci 4 4) Palazzo Ginori, via de' Ginori 11 5) Palazzo Antinori, piazza Antinori 3 6) Palazzo Gianfigliazzi, lungarno Corsini 4 7) Palazzo Davanzati, via Porta Rossa 13 8) Palagio di Parte Guelfa, piazzetta di Parte Guelfa 1r 9) Palazzo Malenchini, via de' Benci 1 10) Palazzo Capponi, via de’ Bardi 36 11) Palazzo Guicciardini, via Guicciardini 15 12) Palazzo Feroni Magnani, via dei Serragli 8 Palazzo Corsini, lungarno Corsini 10 Partenza dei pullman per la gita verso il Chianti Alberghi: 24) Hotel Albergotto, via de' Tornabuoni 13 25) Hotel De La Ville, piazza Antinori 1 26) Hotel Helvetia & Bristol, via dei Pescioni 2 27) Hotel Cavour, via del Proconsolo 3 28) Hotel Proconsolo, via del Proconsolo 18 29) Hotel Loggiato dei Serviti, piazza Santissima Annunziata 3 Residenze d'Epoca: 15) Residenza Santo Spirito, piazza Santo Spirito 9 16) Palazzo Magnani Feroni, borgo San Frediano 5 17) Palazzetto Sannini, via Santo Spirito 6 18) Antica Torre di Via Tornabuoni n.1, via de' Tornabuoni 1 19) Hotel Alessandra, borgo Santi Apostoli 17 20) La Casa del Garbo, piazza della Signoria 8 21) Palazzo Niccolini al Duomo, via dei Servi 2 22) Casa Howard Guest House, via della Scala 18 23) Residenza del Moro, via del Moro 15 Elenco dei Soci partecipanti all'Assemblea Nazionale 2009 e dei relativi accompagnatori (iscrizioni pervenute al 25 marzo 2009): U.E.H.H.A. Ghislain D’Ursel SEZIONE ABRUZZO Manuelita de Filippis Moschetta Gaetano Imperato di Spinete Massimo Lucà Dazio Maria Concetta Palmieri Celestino Totani SEZIONE CALABRIA Gianluca Marino Cosentino Marco Solima Francesco Zerbi SEZIONE CAMPANIA Bianca Jadicicco De Notaristefani di Vastogirardi Francesco Marigliano Caracciolo di Torella Maria Penta Toma Michelangelo Pisani Massamormile Maria Teresa Rocco di Torrepadula Enrica Sanfelice di Monteforte Nicola Tartaglione Antonio Mottola di Amato SEZIONE EMILIA ROMAGNA Maria Adelaide Annoni Campori Antonio Archi Iole Beghelli Pedretti Maria Paola Bellei Gioia Bertocchi Brizzi Ippolito Bevilacqua Ariosti Gianni Luigi Bragadin Francesco Cavazza Isolani Nicola Colelli Stephanie D’Ursel Francesco Saverio Moschetta Anna Maria Ruel Imperato Di Spinete Rossana Falconi Novella Fattore Annamaria Iannucci Sandra Betti Zerbi Antonio e Luisa De Notaristefani di Vastogirardi Rosellina Postiglione Stefania Como Maurizio Stocchetti Maria Rosaria Liguori Laura Malvezzi Paola Dall’Aglio Giorgetti Giuliano Manfredi Cesare Brizzi Maria Sole Vismara Currò Maddalena Bragadin Marina Cavazza Isolani Luisa Gallo e Gian Luigi Giuliattini 60 Alessandra Colombi Leonesi Ricciardelli Paolo Conforti Dal Pane Elvira Gianfranco Fontaine Panciatichi Giovanni Gagnoni Schippisi Casati Vincenzo Garagnani Graziella Giartosio Bertocchi Claudia Hercolani Maria Rosaria Malenchini Carolina Manaresi Franco Manaresi Carlo Emanuele Manfredi Galeazzo Marescotti Ubaldo Monari Sardè Giulia Orlando Gavotti Dialta Paresce Anna Pasquale Luca Paveri Fontana Antonia Pignatti Morano Jean Jacques Prati Lucca Giancarlo Ranuzzi De’ Bianchi Maria Teresa Santucci Fontanelli Paolo Senni Guidotti Magnani Piero Sinz Giuseppe Colombi Michele Conforti Renato Petrarchi Maria Teresa Marchesi Michela Garagnani Francesco Giartosio Eugenio Busmanti Maria Malfatti Manaresi Clara Manfredi Benedetta Marescotti e Clarice Marescotti Paola Conti Donzelli Monari Pier Luigi Bianchini Mortani Francesco Paresce Giulia Paveri Fontana Balbo di Vinadio Anna Archi Pia Piovesana SEZIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Carla Andreoli Giordano Flaminia Stringer Rubini Carlo del Torre Sabrina di Brazzà Anna Piccolomini Clementini Adami Giovanni Rubini SEZIONE LAZIO Piero Adorno Adorni Braccesi Maria Clementina Arena Loffreda Giuliano Malvezzi Campeggi Anna Maria Cavazza Marieni Novello Cavazza Filippo Cingolani Michele de Meo Cristina Fazio Fernanda Galli Brunelli Donatella Cagiano de Azevedo Malvezzi Maria Assunta De Altamer Margherita Montefusco 61 Sergio Gelmi Di Caporiacco Luciana Giuntoli Gentilini Francesco Giusso del Galdo Paola Guerrini Luciana Lanzara Pellicano Alessandro Mancini Caterini Marco Fabio Marenghi Vaselli Mauro Mossa Niccolo’ Pasolini Dall’Onda Adelaide Pezzana Capranica Del Grillo Aldo Pezzana Capranica Del Grillo Pier Paolo Piccinelli Enzo Maria Pinci Maria Prina Ricotti Lucilla Scelba Anna Maria Vandoni Corsanego SEZIONE LIGURIA Ferdinando Acqua Barralis Andrea Andreani Giuseppe Biancheri Giancarlo Bollero Giovanni Gramatica di Bellagio Italo Muratore Gian Rodolfo Quilici Emanuele Remondini Stefania Sardano Teresa Scotti d’Albertis Viviana Viviani SEZIONE LOMBARDIA Luigi Abbate Anna Maria Almici Merli Pier Fausto Bagatti Valsecchi Maria Antonietta Bruni Paveri Fontana Enrico Cramer Alessandra D’Amico Finardi Mirandola Annalisa de’ Sanna Crippa Giacomo De Vito Piscicelli Alda Faravelli Marchetti Maria Stefania Tempora Leppo Angela Mancini Caterini Maria Luisa Orlando Castellano Grazia Piccinelli Aldo Prina Ricotti Stefania Queirolo Anna De Cornè Biancheri Carola Bozzano Gandolfi, Giacomo Bollero e Maria Elvira Brichetto Angioletta Beccaria Gramatica Liliana Aprosio in Muratore Simonetta Pastorino Maria Teresa Salemi in Remondini Alberto Scotti Agostino Almici Enrichetta Mapelli Mozzi Bagatti Valsecchi Roberta Clerici Cramer Giorgio Mirandola Eduardo de’ Sanna Enrica De Vito Piscicelli Concettina Ascanio 62 Ugo Fumagalli Romario Cristina Litta Modignani Matilde Marazzi Maria Pia Marconi Meda Camillo Paveri Fontana Stefano Paveri Fontana Uberto Perego di Cremnago Donato Sagramoso Piero Sella Maria Cristina Silva Passerin d’Entreves Maria Giuseppina Sordi Guido Toja Franca Tremolada Torricelli Valerio Villoresi Micaela Gasparri Camilla Ginori Conti Angela Giannone in Paveri Fontana Laura Canal Perego di Cremnago Marina Canal Wanda Vaj Giovanni Silva Floriana Sordi Pierangela Toja Moroni Sita Boggio Sella SEZIONE MARCHE Anita Boccuccia Filippo Bracci Luigi Solari Giuseppe Trionfi Honorati Patricia Solari Ricci del Riccio Paola Gasparri SEZIONE MOLISE Ester Tanasso Silvana Sciaretta SEZIONE PIEMONTE - VALLE D’AOSTA Francesco Avogadro di Vigliano Roberta Avogadro Brioschi Filippo Beraudo di Pralormo Giorgio Brinatti Malvina Brinatti Von Stepski Francesco Cappa Emilia Cappa Rosetta Clara Cavalli D’Olivola Clemente D’Oria Ilaria Santucci Fontanelli Roberto Gabey Biancamaria Blasi Maria Golzio Elisa Ines De Paulis Carlo Marenco di Santarosa Carlo Morozzo della Rocca Carla Morozzo della Rocca Zunini Paolo Roda Maria Pia Salvaneschi Gorla Maria Antonietta Zagnoli Giuseppe Tarò Franz Zu Stolberg Jacqueline Zu Stolberg 63 SEZIONE PUGLIA Francesca Bardoscia Raffaela Bardoscia Giusi Bonomo Rucco Arturo Carrelli Palombi Angela Mongiò Giulio Seracca Arditi Giuseppe Seracca Guerrieri Biagio Tatò Mario Congedo SEZIONE SICILIA Pier Marino Albanese Trigona Franzo Bruno Statella Anna Maria Cosenz La Lumia Antonino Pecoraro SEZIONE TOSCANA Rosanna Angelini Guido Anzilotti Maria Cristina Archi Maria Petra Bargagli Petrucci Mary Ann Beckinsale Lucia Bovalini Donato Bramanti Ugo Bruni Orietta Carpi Bono Cristiana Casanova Sestini Giovanna Ciampi Gil Cohen Massimo Conti Donzelli Massimo M. da Cepparello Maria Pia D’Albertis Mazzetti Resy Fani Ciotti Cosentini Paolo Folonari Marcella Fontana Lorenzo Franchini Lionardo Lorenzo Ginori Lisci Bernardo Gondi Vittoria Gondi Niccolò Goretti de’ Flamini Teresa Olivieri Martino Bonomo Fabrizia Siciliani Maria Lucia Portaluri Lilia Fortunato Lucia Lazari Salvina e Venera Bruno Statella Antonello Cosenz Liliana Mirabella e Laura Pecoraro Giuseppe Salvi Carla Natali Bruni Paul Gervais De Bédeé Mario Boselli Alessandra Ginori Lisci 64 Giovanna Grado Dini Andreana Hedges Eugenia Levaggi Maria Luisa Maestrelli De Hagenauer Niccolò Malaspina Luigi Malenchini Gian Luca Mandorli Roberto Martinelli Elisabetta Marzotto Caotorta Giuseppe Maurigi Leopoldo Mazzetti Alessandro Menichini Pietro Ermanno Meschi Andrea Montini Giovanna Morozzo della Rocca Spinola Lorenzo Niccolini Sirigatti Gabriele Pagni Niccolò Pandolfini Antonello Pietromarchi Emanuela Ricasoli Lovatelli Lisa Rosselli Del Turco Frescobaldi Niccolò Rosselli Del Turco Anna Saccardi Pasquale Scrufari Donatella Tesi Pauline Traxler Rathobone Lucia Romani Beatrice Papi Aloisia Marzotto Caotorta Marina Fittipaldi Alessandra Niccolini Sirigatti Monica Attanasio Pagni Isabella Grati Giuseppina Pietromarchi Francesco Zan Cesare Degli Innocenti Martino Traxler e Patrizia Traxler SEZIONE TRENTINO ALTO ADIGE Maria Angelica Grillo Lamberta Marzani Amonn Antonia Marzani SEZIONE UMBRIA Alessandro Chiari Franca Pucci Della Genga Persichetti Ugolini Lorenzo Pucci Della Genga Nicoletta Raponi Lavinia Oddi Baglioni Giuseppe Santoro Cesare Selli 65 SEZIONE VENETO Marco Battaggia Pierantonio Battaggia Paola Ramanzini e Rita Bozzola Cesare Bonotto Ivonne Fin Elena Bonotto Antonio Caccianiga Emanuela Bardin Gherardo Degli Azzoni Avogadro Francesca Conean e Maria Sionti Manola Duse Masin Laura Braggion Ugo Fatini Del Grande Tiziana Fraccaroli Fatini Del Grande Giovanni-Battista Lanfranchi Biancaluisa Lanfranchi Fernanda Merlin De Romedi Cristina Luxardo Nogarin Nicolò Noto, Francesca Maria Sarzana Isabella Rocco di Torrepadula di Thiene Giancarlo Rocco di Torrepadula Rosa Alessandra Sagramoso Sacchetti Corazza Pia Maria Tolomei Frigerio Paolo Bruno Paolo Trentinaglia De Daverio Federica Wiel Marin Barbara Wiel Marin Isidoro Wiel Marin Neisa ten Bruggencate Wiel Marin Giorgio Zuccolo Arrigoni Giulia Maria Zuccolo Arrigoni SEGRETERIA NAZIONALE Manuela Bigonzi Francesca Bigonzi Mariastella Bellini Lucia Calabrese Marcello Morelli SEGRETERIA SEZIONE TOSCANA Irene Borin Da Campo Michele Ricceri 66 Indice: Consiglio Direttivo Nazionale di A.D.S.I. Comitato Direttivo della Sezione Toscana Ringraziamenti Aldo Pezzana Capranica del Grillo Presidente dell’Associazione Dimore Storiche Italiane Niccolò Rosselli Del Turco Presidente della Sezione Toscana dell’Associazione Dimore Storiche Italiane Dimore storiche a Firenze e nel Chianti: Palazzo Corsini Palazzo Ximenes Panciatichi Palazzo Gerini Palazzo Pucci Palazzo Ginori Palazzo Antinori Palazzo Gianfigliazzi Palazzo Davanzati Palagio dei Capitani di Parte Guelfa Palazzo Malenchini Palazzo Capponi Palazzo Guicciardini Palazzo Feroni Magnani Giardino Corsini sul Prato Giardino Torrigiani Chiesa dei Santi Michele e Gaetano Villa I Collazzi Villa Poggio Torselli Villa Le Corti Programma XXXII Assemblea Nazionale di A.D.S.I. Planimetria del centro storico di Firenze Soci partecipanti alla XXXII Assemblea Nazionale di A.D.S.I. 67 pag. 2 pag. 4 pag. 5 pag. 9 pag. 11 pag. 13 pag. 14 pag. 17 pag. 21 pag. 24 pag. 27 pag. 29 pag. 30 pag. 32 pag. 34 pag. 37 pag. 39 pag. 41 pag. 44 pag. 46 pag. 47 pag. 48 pag. 50 pag. 52 pag. 56 pag. 58 pag. 60 Progetto grafico: Designblu Communication Redazione e cura dei testi: Marcella Cangioli, Benedetta Chiesi, Ippolita Douglas Scotti, Arianna Nizzi Grifi e Francesca Parrini Associazione Culturale Città Nascosta Lungarno Cellini 25 - 50125 Firenze www.cittanascosta.it 68 BANCA CR FIRENZE BANCA PASSADORE