SPS/01 FILOSOFIA POLITICA: filosofia politica Sulla violenza: un percorso storico-concettuale Georeges Sorel, Riflessioni sulla violenza 16/03/2010: sulla violenza 1. Contesto Riflessioni sulla violenza è il frutto di un ben determinato momento storico e di uno specifico stadio nella storia del marxismo. Tra il 1895 e il 1914 si stabilisce in Francia (con forte influenza in Italia) quello che viene chiamato sindacalismo rivoluzionario, che si oppone sia all’organizzazione della politica all’interno di partiti sia al sindacalismo riformista, e propugna l’emancipazione dei lavoratori ad opera dei lavoratori stessi (come da statuto della Prima Internazionale). Nel 1895 viene fondata la CGT, che propugna lo sciopero generale come strumento di emancipazione per rovesciare lo stato borghese capitalista. Sorel si avvicina progressivamente a questo movimento e ne diviene uno dei maggiori teorici. 2. Riflessioni sulla violenza In pillole: Sorel (1847-1922) non era un intellettuale di professione. Ingegnere civile, nel 1892 lascia la professione, si trasferisce vicino Parigi, si converte al Marxismo, e comincia a studiare e scrivere. Rivendica sempre di essere un autodidatta. Il movimento sindacale lo interessa fin dagli anni a cavallo del secolo, ma è a partire dal 1902, quando la CGT lancia una serie spettacolare di scioperi, che il sindacalismo rivoluzionario diventa il centro dell’attenzione di Sorel: si convince quindi che esso incarna il “vero” Marxismo della lotta di classe e della rivoluzione catastrofica. Tra il 1905 e il 1906 pubblica, sulla rivista italiana Il Divenire sociale di Enrico Leone, una serie di articoli su violenza e sindacalismo che poi rielabora e pubblica nel 1908 con il titolo di Riflessioni sulla violenza. Il testo non è quindi un’esposizione organica e sistematica, una “teoria” della violenza (63), ma una serie di riflessioni attorno all’argomento; inoltre presenta una serie di riferimenti a persone, fatti e teorie del tempo la maggior parte dei quali sono oggi quasi dimenticati, e che rendono la lettura alquanto faticosa. 1 3. Cosa non è la violenza per Sorel È importante sottolineare che nella sua apologia della violenza Sorel si sforza di dare una definizione precisa di violenza che la distingua da una serie di fenomeni e dalla sua accezione popolare. Vediamo quindi prima di tutto che cosa non è la violenza per Sorel. 3.1. La violenza proletaria non può essere compresa dalla prospettiva della filosofia borghese che la considera solo un resto della barbarie primitiva destinato a scomparire sotto l’influenza del progresso e dei lumi (89). Essa non è per Sorel un regresso all’interno della storia della civilizzazione e dell’evoluzione umana. La filosofia borghese considera la pace come il bene supremo e la condizione essenziale di ogni progresso materiale e sociale, e quindi l’educazione borghese è diretta ad attenuare le tendenze sociali alla violenza (231). A livello politico ed economico, l’ideologia della pace ha portato filosofi, economisti e politici a sostenere poteri forti che garantiscano la stabilità sociale, a scapito anche delle libertà politiche. Il riformismo all’interno del marxismo e dei partiti socialisti si inserisce per Sorel in questa traiettoria. 3.2. La violenza proletaria non è nemmeno, per Sorel, una versione o un’evoluzione della violenza giacobina che ha insanguinato la Rivoluzione Francese. In ogni fase dell’evoluzione del suo pensiero, Sorel è stato infatti sempre e ferocemente antigiacobino. La Rivoluzione Francese è stata per Sorel – come per Arendt – una “rivoluzione borghese” che ha ingabbiato lo spirito rivoluzionario all’interno di una lotta statalista caratterizzata da operazioni di polizia, da proscrizioni e da tribunali servili (123). Sorel sposa la tesi di Toqueville [L'Ancien Régime et la Révolution, 1856] di una sostanziale continuità tra l’ancien régime e la rivoluzione, a cui conferisce un tono anarchico sottolineando la sostanziale continuità dell’apparato statale e statalista tra ancien régime, Rivoluzione e Impero. La violenza proletaria non dev’essere quindi confusa con quegli atti di ferocia che la superstizione dello Stato ha suggerito ai rivoluzionari del 93, quando avevano il potere nelle loro mani e potevano opprimere i vinti […]. Abbiamo il diritto di sperare che una rivoluzione socialista condotta da puri sindacalisti non sarà affatto infangata dalle abominazioni che insudiciarono le rivoluzioni borghesi. (144) 2 3.3. La violenza proletaria non è quindi brutalità. È la brutalità infatti, non solo nel terrore rivoluzionario, ma nella vita di tutti i giorni, dalle scuole agli istituti religiosi alle fabbriche, che ha portato i moralisti ad avversare con ogni mezzo la violenza. Per Sorel, al contrario, la violenza proletaria ha, come vedremo, una forte valenza morale ed educativa. Il problema per la causa rivoluzionaria è che i ricordi del terrore rivoluzionario e la brutalità della vita quotidiana fanno sì che anche i socialisti del tempo di Sorel facciano di tutto per convincere il pubblico che sono pieni di buoni sentimenti e che sono accesi da una sola passione, l’odio per la violenza (124). 3.4. Infine, la violenza proletaria non è da confondere con la violenza esercitata dallo Stato, o da qualsiasi organizzazione gerarchica, deve essere distinta da “atti di autorità”, che Sorel denomina forza (force) per distinguerli dalla violenza proletaria: “la forza ha come obbiettivo di imporre l’organizzazione di un certo ordine sociale nel quale una minoranza governa” (219-20). La forza quindi tende all’autorità e cerca di realizzare un’obbedienza automatica (225). 4. Completare la dottrina di Marx Quello che Marx poteva osservare (in Inghilterra) per l’elaborazione delle sue teorie era una forte borghesia e un proletariato scarsamente organizzato, e poteva trovare una grande documentazione sulla storia dell’evoluzione borghese, ma pochi elementi per riflettere sull’organizzazione del proletariato. I suoi scritti presentano dunque un’elaborazione astratta e insufficiente del cammino del proletariato verso l’emancipazione, il che ha dato luogo alle deviazioni del marxismo dalla sua “vera natura” (224-5). Quindi, scrive Sorel (cfr. Saggi di critica del marxismo, 1903), Marx non riesce ad andare oltre ad una teoria della forza borghese (227). In base alla nuova situazione delle organizzazione proletarie (i sindacati), Sorel sostiene la necessità di completare la dottrina di Marx nello spirito che lo ha animato. Quello che Marx chiama “violenza levatrice della storia” è in realtà la potenza dello Stato, la forza concentrata e organizzata al fine di precipitare violentemente il passaggio dall’ordine economico feudale a quello capitalista e di abbreviare le fasi di transizione (222-3). Ma la missione storica del proletariato non è, per Sorel, quella di imitare la borghesia. La teoria dello sciopero generale fornisce dunque i mezzi per completare la dottrina di Marx e per distinguere nettamente tra forza borghese e violenza proletaria (228). 3 5. Che cos’è la violenza per Sorel Se la forza ha come obbiettivo di imporre un ordine sociale, la violenza ha come obbiettivo di distruggere quest’ordine (220), non tende a consolidare l’autorità ma vuole piuttosto cancellarla (225). La sua funzione storica deve essere analizzata dalla prospettiva di una filosofia della storia di stampo teleologico (marxista) che vede la contrapposizione insanabile di due classi (sfruttatori e sfruttati, borghesi e proletariato) e propugna una rottura epocale, una cesura catastrofica tra due epoche storiche, quella dello sfruttamento e la nuova epoca della giustizia sociale. Se l’economia politica liberale e l’ideologia borghese si basano sul presupposto che le relazioni create sotto il regime di concorrenza sono giuste in quanto risultano dal corso naturale delle cose (26), e se l’ideologia del progresso (quella dei riformisti ad esempio) propugna un cammino di emancipazione progressivo e continuo – e quasi altrettanto naturale –, l’ideologia rivoluzionaria vede in una rottura netta e definitiva l’unica possibilità di cambiamento. La rivoluzione sociale deve costituire una “trasformazione irriformabile”, una “rivoluzione catastrofica” (86) (kata-strophein), e deve marcare una separazione assoluta tra due epoche storiche, per cui la nuova era non avrà alcun rapporto con il tempo anteriore (173, 205, 206). C’è qualcosa di spaventoso (effrayant) in questa cesura, ammette Sorel (173, 204, 371), ma questo costituisce il compite grave e sublime del movimento rivoluzionario. Perché questa cesura abbia luogo, è necessaria quella che Sorel chiama la “grande battaglia napoleonica”, quella che schiaccia completamente e definitivamente l’avversario (86, 145-6, 370). In questo senso la violenza, che sola può produrre questa cesura, ha grande valore di civiltà (371). I teorici della pace sociale, sia liberali che socialisti, lavorano dunque contro il cambiamento (87, 104, 107). Sorel si scaglia in modo particolare contro i socialisti parlamentari e gli intellettuali: i primi usano il socialismo come mezzo per arrivare al potere personale (90) ed hanno come obbiettivo di impossessarsi dello Stato e di sostituirsi alle classi dirigenti borghesi (142-3); essi sono professionisti della politica che quindi non fanno altro che rafforzare, nella loro azione, la macchina governamentale (147-8): essi vogliono rassicurare la borghesia e le promettono che non permetteranno al popolo di abbandonarsi ai suoi istinti anarchici. Spiegano che non si sognano lontanamente di sopprimere la grande macchina dello Stato, in modo che i socialisti saggi desiderano due cose: impadronirsi di tale macchina per 4 perfezionarne gli ingranaggi e farla funzionare al meglio degli interessi dei loro amici – e rendere più stabile il governo, cosa che sarà assai vantaggiosa per tutti gli uomini d’affari. (205) Il rafforzamento dello Stato è quindi alla base di ogni loro concezione (214), ed ogni loro azione è improntata a riprodurre la storia della forza borghese (226). Gli intellettuali, per parte loro, costituiscono un’elite che si dà per missione quella di pensare al posto di una massa non pensante (206), professionisti dell’intelligenza borghese che tutto vogliono tranne la fine della società borghese. Alla rivoluzione catastrofica si oppone anche quella che Sorel chiama la degenerazione della borghesia: la razza dei capitani audaci che aveva fatto la grandezza dell’industria moderna è scomparsa ed ha ceduto il posto ad una classe borghese timorosa, umanitaria e che domanda solo di vivere in pace (98). Se l’obbiettivo è lo scontro finale e la “grande battaglia napoleonica”, allora il “buon” capitalista è quello ancora animato da uno spirito conquistatore, insaziabile e spietato, è il “capitano d’industria” (non per nulla chiamato “capitano”) che assomiglia tanto al “tipo guerriero” e che ancora si trova, scrive Sorel, negli Stati Uniti: là si trova l’energia indomabile, l’audacia fondata su una giusta valutazione della propria forza, il freddo calcolo degli interessi, che sono le qualità dei grandi generali e dei grandi capitalisti. (103) Più la borghesia sarà ardentemente capitalista, più il proletariato diverrà pieno di uno “spirito guerriero” e confiderà nella forza rivoluzionaria (102). La classe capitalista deve quindi essere “francamente e lealmente reazionaria”, in modo da marcare, insieme alla violenza proletaria, la scissione netta tra le classi (234). La funzione della violenza proletaria è di richiamare la borghesia al suo ruolo storico, di restituirle le “qualità belliche” che possedeva un tempo e di portare la società capitalista alla sua “perfezione storica” (107). 6. La morale del produttore La violenza proletaria non ha solo grande valore di civiltà – perché è “levatrice” di una nuova civiltà e di una nuova epoca storica – ma presenta per Sorel anche grande valore etico e morale. Il progresso morale del proletariato deve tendere a creare quella che Sorel chiama la “morale dei produttori futuri” (293-4). Se la morale borghese è la morale del consumatore, che non presta la minima attenzione alle condizioni di 5 produzione, allora la “nuova” morale dovrà essere una morale del produttore. Qui l’elaborazione di Sorel presenta ingenuità e incongruità – che non sfuggiranno ad Arendt – in quanto questa “nuova” morale, che non ha niente a che vedere con quella borghese e rappresenta “il più alto ideale morale che l’uomo abbia mai concepito”, viene definita allo stesso tempo come “ciò che è stato sempre considerato come le virtù più alte” (298). Questa nuova morale è in realtà un melange di Nietzschianesimo, anarchismo ed estetica del sublime, e che prende la guerra come suo modello: Il proletariato si organizza per la battaglia, separandosi dalle altre parti della nazione, considerandosi il grande motore della storia, subordinando ogni considerazione sociale a quella del combattimento; ha un sentimento assai netto della gloria legata al suo ruolo storico e dell’eroismo del suo atteggiamento militante; aspira alla prova decisiva in cui infonderà tutta la misura del suo valore. Non perseguendo alcuna conquista, non ha bisogno di fare piani per utilizzare le sue vittorie: intende espellere i capitalisti dal dominio produttivo e prenderne il posto. (213) Lo sciopero è quindi un “fenomeno di guerra” (369), a cui Sorel dona spesso accenti epici (329) ed omerici (316), ma il cui modello principale sono le “guerre di libertà”, le guerre che la Francia rivoluzionaria dovette combattere contro le potenze europee a partire dal 1792. Qui ogni soldato era un “uomo libero” che compiva nella battaglia imprese eroiche senza subordinare la sua condotta e il suo ardore a un piano d’insieme e senza tenere in conto vantaggi materiali o ricompense (317-8). Lo sciopero generale, come le guerre di libertà, sono la manifestazione più eclatante della “forza individualista nelle masse sollevate” (319). Questo “spirito guerriero” (324) restaura nella morale quel carattere “sublime” che nella cultura borghese è diventato solo un “valore di borsa” (300-1). Com’è facile notare, l’elaborazione di Sorel non è né particolarmente originale, né nuova, né è scomparsa dalla nostra cultura, e corrisponde a quello che Adriana Cavarero chiamerebbe l’“ethos del guerriero”. 7. possibili temi di discussione L’ethos del guerriero nella cultura popolare di oggi (ad es. cinema) 6 17/03/2010: sullo sciopero 1. Contesto Verso la fine del diciannovesimo secolo, il sindacalismo rivoluzionario in Francia e in Italia teorizzò lo sciopero generale, cioè l’astensione dal lavoro di tutte le categorie in tutto il paese, come il mezzo principe per paralizzare e quindi distruggere lo Stato capitalista (cfr. Rosa Luxemburg, Massenstreik, Partei und Gewerkschaften [Lo sciopero generale, il partito e i sindacati], 1906). La strategia degli scioperi si rivelò gestibile dai governi e non portò alla distruzione dello stato; inoltre il sindacalismo rivoluzionario evolse verso strategie riformiste, per cui Sorel se ne allontanò a partire dal 1909. La prima guerra mondiale decretò la fine di quest’ideologia. 2. Sciopero generale politico e sciopero generale proletario Sorel identifica nello sciopero generale non solo una strategia di lotta, ma il mito stesso che incarna e compendia l’intera rivoluzione marxista. Egli distingue però due tipologie di sciopero generale: lo sciopero generale politico è quello organizzato con il fine di ottenere risultati immediati e concreti, come il miglioramento delle condizioni di lavoro o aumenti salariali, o al fine di ricattare l’establishment per fini puramente politici. Può quindi venire facilmente strumentalizzato dai politici (dai socialisti parlamentari, ad esempio) e non ha come fine la distruzione dello Stato; anzi, Sorel sostiene che questo tipo di sciopero strumentalizza il proletariato per fini che servono lo Stato o l’establishment politico-intellettuale, ed ha come unico risultato di far passare il potere da un gruppo di politici ad un altro gruppo di politici (197): lo sciopero generale politico “ci mostra come lo Stato non perderà nulla della sua forza, come avverrà una trasmissione [di potere] da privilegiati a privilegiati, come il popolo dei produttori cambierà [solo] padrone” (226-7). Lo sciopero generale proletario, al contrario, non presenta alcuna rivendicazione materiale, non propugna alcuna miglioria organizzativa o economica, ma è una rivolta “pura e semplice” (171-2) che ha come unico fine quello di abolire lo Stato. Rappresenta quella catastrofe, quel punto di non ritorno che inaugura l’inizio di una nuova era, e quindi “racchiude in sé tutto il socialismo proletario” (200). 3. Mito e utopia Sorel definisce lo sciopero generale proletario un mito: 7 Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si rappresentano le loro azioni future sotto forma di immagini di battaglie che assicurano il trionfo della loro causa. Propongo di chiamare miti queste costruzioni. (32) Il mito non è una descrizione, ma l’“espressione di volontà” delle masse popolari che si preparano alla lotta, è identico alle “convinzioni di un gruppo” e in quanto tale non è scomponibile in parti analizzabili e, soprattutto, non può essere confutato da argomentazioni logiche ed è indipendente dalla critica (42-3). Prerequisito della prassi politica rivoluzionaria sono sentimenti di certezza, speranza e anticipazione, che devono fornire il necessario impeto emotivo; il mito fornisce un insieme di immagini capaci di evocare in blocco e attraverso la sola intuizione questa massa di sentimenti (150). Il mito è quindi: un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra ingaggiata dal socialismo contro la società moderna. (156) Inoltre, risultati insufficienti o un insuccesso non provano la falsità di un mito, in quanto esso viene solo interpretato come un lavoro di preparazione (47). I miti non sono “almanacchi astrologici” per prevedere il futuro (successo/insuccesso), ma dei “mezzi per agire sul presente” (155). Gli esempi storici che Sorel dà del mito – la speranza millenarista del cristianesimo primitivo, l’impulso che ha dato origine alla Riforma protestante o alla Rivoluzione Francese, il romanticismo politico-religioso di Mazzini – non hanno portato alla realizzazione del disegno che li ispirava, ma hanno comunque costituito uno straordinario impulso all’azione e al cambiamento. [Questa nozione di mito deve molto alle teorie di Henry Bergson, alle cui lezioni Sorel spesso assisteva, in particolare al concetto di “conoscenza totale” (150) e di “esperienza integrale” (161) che Bergson opponeva al positivismo del suo tempo. La “conoscenza totale” è una forma di conoscenza che è intensa, istintiva, totale, indivisibile e istantanea.] Al mito Sorel contrappone l’utopia, che caratterizza per lui sia l’economia politica liberale che il socialismo riformista. Al contrario del mito, l’utopia è il prodotto di un lavoro intellettuale; essa è l’opera di teorici che, dopo aver osservato e discusso i fatti, cercano di stabilire un modello con cui si possano comparare le società esistenti per misurare il bene e il male che esse contengono; 8 è una composizione di istituzioni immaginarie, ma che offre delle analogie con le istituzioni reali sufficientemente grandi perché i giuristi vi possano ragionare; è una costruzione smontabile i cui pezzi sono stati tagliati in modo tale da poter passare (con qualche correzione e aggiustamento) in una prossima legislazione. (43) Le utopie sono proiezioni del presente e sono legate al presente (o al passato) dall’analogia; non sfuggono quindi al condizionamento del presente. La rivoluzione catastrofica deve costituire, al contrario, una cesura netta ed una separazione assoluta tra due epoche storiche. È importante agire sul futuro, ma in modo non deterministico, e quindi attraverso miti e non attraverso utopie (152). 4. Walter Benjamin Dello sciopero generale teorizzato da Sorel Walter Benjamin dà una lettura originale in un saggio importante, Per la critica della violenza (1921), che ha ripercussioni anche su certa filosofia politica contemporanea. Per la critica della violenza è un saggio estremamente denso e complesso, e quindi mi limito a qualche breve considerazione sullo sciopero. Prima considerazione: Benjamin non parte da una prospettiva marxista ed esplicitamente distingue il suo approccio “puramente teoretico” dall’approccio “politico” di Sorel. Benjamin inserisce l’analisi soreliana dello sciopero all’interno della sua analisi del rapporto fra violenza, diritto e giustizia. Il diritto e la legge (Recht, Gesetz) hanno sempre una relazione con la violenza, che utilizzano come mezzo, sia nel loro momento fondativo (rechtsetzende Gewalt, violenza che pone la legge) sia nella loro conservazione (rechtserhaltende Gewalt, violenza che conserva la legge). Questa relazione con la violenza preclude al diritto l’accesso alla giustizia; il diritto quindi, e lo Stato che su di esso si fonda, devono essere distrutti. Benjamin usa qui il termine Vernichtung, annichilamento, il che ha portato a letture estremamente critiche di questo saggio (Habermas, Derrida). Tuttavia, la prospettiva da cui Benjamin parte è una prospettiva messianica: il messianismo o messianesimo è quella dottrina religiosa (di marca principalmente ebraica) che vede nella venuta del Messia (“l’unto”, Cristo, Mahdi) l’evento che pone fine alla storia post-lapsaria, (la storia umana in quanto caratterizzata dal peccato e dal male) e dà inizio ad una nuova epoca, dà accesso alla salvezza. La venuta del Messia costituisce dunque una cesura che divide la storia in un prima e in un dopo. Questa 9 struttura viene secolarizzata e diventa una filosofia della storia per cui, a prescindere dalla fede religiosa nell’avvento del Messia, la storia viene vista come un cammino progressivo di emancipazione diretto verso un qualche tipo di salvezza. Sia l’ideologia del progresso che ancor più il marxismo hanno forti componenti messianiche. Il peculiare messianismo di Benjamin (o di Kafka, o di Agamben), detto in soldoni, consiste nel guardare alla storia dalla prospettiva della sua fine, come se ogni attimo fosse “la porta stretta attraverso cui potrebbe entrare il Messia” (Sul concetto di storia). Leggere la storia della relazione inestricabile tra diritto e violenza da una prospettiva messianica significa individuare la necessità della dissoluzione di questa relazione, per cui Beniamin stabilisce la necessità di quella che lui chiama “violenza divina” (göttliche Gewalt) o “violenza pura” (reine Gewalt) che sciolga questa relazione. Questa violenza pura non può essere violenta nel senso in cui è violenta la legge, non può essere un mezzo diretto ad un determinato fine, com’è la violenza della legge, ma deve essere un mezzo-senza-fine. Lo sciopero, in quanto è non-azione, un’“interruzione delle relazioni” che legano capitalisti e lavoratori, potrebbe sembrare un mezzo nonviolento. Lo sciopero generale politico teorizzato da Sorel, sia che presenti caratteri violenti sia che non li presenti, rimane però violento nel senso che esercita un’estorsione, un ricatto (Erpressung), con il fine di ottenere miglioramenti delle condizioni di lavoro. Lo sciopero generale proletario, al contrario, viene equiparato da Benjamin ad un mezzosenza-fine, in quanto non si propone altro scopo che l’abolizione e il superamento dello Stato. La Vernichtung del diritto e dello Stato a cui deve condurre la violenza pura è anche definita da Benjamin Ent-setzung, de-posizione. 5. Afformativo e désoeuvrement Il significato della violenza pura rimane ambiguo e ha dato luogo a interpretazioni molto diverse. Ne propongo due che riguardano in qualche modo lo sciopero. Werner Hamacher, in un saggio dal titolo “Afformativ, Streik” (1994), usa, per interpretare la violenza pura, un’analogia con la teoria degli speech acts di John L. Austin (How to Do Things with Words, 1962; John Searle, Speech Acts, 1969), ed in particolare con il concetto di “performativo”. In soldoni, l’azione che l’espressione performativa descrive (“vi dichiaro marito e moglie”, “ti condanno a 10 anni di prigione”) è performata, cioè compiuta, eseguita, dall’enunciazione stessa della frase. 10 La violenza pura come mezzo-senza-fine, come pura Ent-setzung, non performa nulla, è non-azione, è la de-posizione della relazione tra diritto e violenza, quindi sciopero nell’accezione di ex-operari; è quindi a-formativa. Anche Giorgio Agamben interpreta la violenza pura come Ent-setzung “afformativa” ed elabora poi tutta la sua filosofia politica sulla de-posizione di quella che lui chiama l’oikonomia dello Stato, del rapporto tra legge e violenza. In pillole: Agamben assume una prospettiva messianica Benjaminio-Kafkiana per cui la politica viene identificata come mezzo-senza-fine, e l’uscita dallo stallo biopolitico della modernità viene vista nella de-posizione della macchina politica dell’Occidente. Questa de-posizione non è una distruzione, che sostituisca una nuova organizzazione politica alla vecchia, una nuova legge alla vecchia, ma è il désoeuvrement del dispositivo, il suo renderlo inoperativo (non faccio la storia del termine) per aprirlo and un nuovo “uso”. Nel messianismo di San Paolo Agamben trova la formula di questo désoeuvrement: l’arrivo del Messia nella soteriologia paolina comporta il “compimento” della legge, ma questo compimento non è né la distruzione della legge né la sostituzione della vecchia legge con una nuova. San Paolo usa il termine katargesis, che viene dal verbo argeo, e quindi da argos, a-ergon, “senz’opera”. Agamben non fa alcun riferimento a Sorel o allo sciopero, ma katargesis è appunto ex-operari, sciopero. 11