SPS/01 FILOSOFIA POLITICA: filosofia politica
Sulla violenza: un percorso storico-concettuale
Georeges Sorel, Riflessioni sulla violenza
16/03/2010: sulla violenza
1. Contesto
Riflessioni sulla violenza è il frutto di un ben determinato momento storico e di uno
specifico stadio nella storia del marxismo. Tra il 1895 e il 1914 si stabilisce in Francia
(con forte influenza in Italia) quello che viene chiamato sindacalismo rivoluzionario,
che si oppone sia all’organizzazione della politica all’interno di partiti sia al
sindacalismo riformista, e propugna l’emancipazione dei lavoratori ad opera dei
lavoratori stessi (come da statuto della Prima Internazionale). Nel 1895 viene fondata la
CGT, che propugna lo sciopero generale come strumento di emancipazione per
rovesciare lo stato borghese capitalista. Sorel si avvicina progressivamente a questo
movimento e ne diviene uno dei maggiori teorici.
2. Riflessioni sulla violenza
In pillole: Sorel (1847-1922) non era un intellettuale di professione. Ingegnere civile,
nel 1892 lascia la professione, si trasferisce vicino Parigi, si converte al Marxismo, e
comincia a studiare e scrivere. Rivendica sempre di essere un autodidatta. Il movimento
sindacale lo interessa fin dagli anni a cavallo del secolo, ma è a partire dal 1902, quando
la CGT lancia una serie spettacolare di scioperi, che il sindacalismo rivoluzionario
diventa il centro dell’attenzione di Sorel: si convince quindi che esso incarna il “vero”
Marxismo della lotta di classe e della rivoluzione catastrofica. Tra il 1905 e il 1906
pubblica, sulla rivista italiana Il Divenire sociale di Enrico Leone, una serie di articoli
su violenza e sindacalismo che poi rielabora e pubblica nel 1908 con il titolo di
Riflessioni sulla violenza. Il testo non è quindi un’esposizione organica e sistematica,
una “teoria” della violenza (63), ma una serie di riflessioni attorno all’argomento;
inoltre presenta una serie di riferimenti a persone, fatti e teorie del tempo la maggior
parte dei quali sono oggi quasi dimenticati, e che rendono la lettura alquanto faticosa.
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3. Cosa non è la violenza per Sorel
È importante sottolineare che nella sua apologia della violenza Sorel si sforza di dare
una definizione precisa di violenza che la distingua da una serie di fenomeni e dalla sua
accezione popolare. Vediamo quindi prima di tutto che cosa non è la violenza per Sorel.
3.1. La violenza proletaria non può essere compresa dalla prospettiva della filosofia
borghese che la considera solo un resto della barbarie primitiva destinato a scomparire
sotto l’influenza del progresso e dei lumi (89). Essa non è per Sorel un regresso
all’interno della storia della civilizzazione e dell’evoluzione umana. La filosofia
borghese considera la pace come il bene supremo e la condizione essenziale di ogni
progresso materiale e sociale, e quindi l’educazione borghese è diretta ad attenuare le
tendenze sociali alla violenza (231). A livello politico ed economico, l’ideologia della
pace ha portato filosofi, economisti e politici a sostenere poteri forti che garantiscano la
stabilità sociale, a scapito anche delle libertà politiche. Il riformismo all’interno del
marxismo e dei partiti socialisti si inserisce per Sorel in questa traiettoria.
3.2. La violenza proletaria non è nemmeno, per Sorel, una versione o un’evoluzione
della violenza giacobina che ha insanguinato la Rivoluzione Francese. In ogni fase
dell’evoluzione del suo pensiero, Sorel è stato infatti sempre e ferocemente
antigiacobino. La Rivoluzione Francese è stata per Sorel – come per Arendt – una
“rivoluzione borghese” che ha ingabbiato lo spirito rivoluzionario all’interno di una
lotta statalista caratterizzata da operazioni di polizia, da proscrizioni e da tribunali
servili (123). Sorel sposa la tesi di Toqueville [L'Ancien Régime et la Révolution, 1856]
di una sostanziale continuità tra l’ancien régime e la rivoluzione, a cui conferisce un
tono anarchico sottolineando la sostanziale continuità dell’apparato statale e statalista
tra ancien régime, Rivoluzione e Impero. La violenza proletaria non dev’essere quindi
confusa con
quegli atti di ferocia che la superstizione dello Stato ha suggerito ai rivoluzionari
del 93, quando avevano il potere nelle loro mani e potevano opprimere i vinti
[…]. Abbiamo il diritto di sperare che una rivoluzione socialista condotta da puri
sindacalisti non sarà affatto infangata dalle abominazioni che insudiciarono le
rivoluzioni borghesi. (144)
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3.3. La violenza proletaria non è quindi brutalità. È la brutalità infatti, non solo nel
terrore rivoluzionario, ma nella vita di tutti i giorni, dalle scuole agli istituti religiosi alle
fabbriche, che ha portato i moralisti ad avversare con ogni mezzo la violenza. Per Sorel,
al contrario, la violenza proletaria ha, come vedremo, una forte valenza morale ed
educativa. Il problema per la causa rivoluzionaria è che i ricordi del terrore
rivoluzionario e la brutalità della vita quotidiana fanno sì che anche i socialisti del
tempo di Sorel facciano di tutto per convincere il pubblico che sono pieni di buoni
sentimenti e che sono accesi da una sola passione, l’odio per la violenza (124).
3.4. Infine, la violenza proletaria non è da confondere con la violenza esercitata dallo
Stato, o da qualsiasi organizzazione gerarchica, deve essere distinta da “atti di autorità”,
che Sorel denomina forza (force) per distinguerli dalla violenza proletaria: “la forza ha
come obbiettivo di imporre l’organizzazione di un certo ordine sociale nel quale una
minoranza governa” (219-20). La forza quindi tende all’autorità e cerca di realizzare
un’obbedienza automatica (225).
4. Completare la dottrina di Marx
Quello che Marx poteva osservare (in Inghilterra) per l’elaborazione delle sue teorie era
una forte borghesia e un proletariato scarsamente organizzato, e poteva trovare una
grande documentazione sulla storia dell’evoluzione borghese, ma pochi elementi per
riflettere sull’organizzazione del proletariato. I suoi scritti presentano dunque
un’elaborazione astratta e insufficiente del cammino del proletariato verso
l’emancipazione, il che ha dato luogo alle deviazioni del marxismo dalla sua “vera
natura” (224-5). Quindi, scrive Sorel (cfr. Saggi di critica del marxismo, 1903), Marx
non riesce ad andare oltre ad una teoria della forza borghese (227). In base alla nuova
situazione delle organizzazione proletarie (i sindacati), Sorel sostiene la necessità di
completare la dottrina di Marx nello spirito che lo ha animato. Quello che Marx chiama
“violenza levatrice della storia” è in realtà la potenza dello Stato, la forza concentrata e
organizzata al fine di precipitare violentemente il passaggio dall’ordine economico
feudale a quello capitalista e di abbreviare le fasi di transizione (222-3). Ma la missione
storica del proletariato non è, per Sorel, quella di imitare la borghesia. La teoria dello
sciopero generale fornisce dunque i mezzi per completare la dottrina di Marx e per
distinguere nettamente tra forza borghese e violenza proletaria (228).
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5. Che cos’è la violenza per Sorel
Se la forza ha come obbiettivo di imporre un ordine sociale, la violenza ha come
obbiettivo di distruggere quest’ordine (220), non tende a consolidare l’autorità ma vuole
piuttosto cancellarla (225). La sua funzione storica deve essere analizzata dalla
prospettiva di una filosofia della storia di stampo teleologico (marxista) che vede la
contrapposizione insanabile di due classi (sfruttatori e sfruttati, borghesi e proletariato)
e propugna una rottura epocale, una cesura catastrofica tra due epoche storiche, quella
dello sfruttamento e la nuova epoca della giustizia sociale. Se l’economia politica
liberale e l’ideologia borghese si basano sul presupposto che le relazioni create sotto il
regime di concorrenza sono giuste in quanto risultano dal corso naturale delle cose (26),
e se l’ideologia del progresso (quella dei riformisti ad esempio) propugna un cammino
di emancipazione progressivo e continuo – e quasi altrettanto naturale –, l’ideologia
rivoluzionaria vede in una rottura netta e definitiva l’unica possibilità di cambiamento.
La rivoluzione sociale deve costituire una “trasformazione irriformabile”, una
“rivoluzione catastrofica” (86) (kata-strophein), e deve marcare una separazione
assoluta tra due epoche storiche, per cui la nuova era non avrà alcun rapporto con il
tempo anteriore (173, 205, 206). C’è qualcosa di spaventoso (effrayant) in questa
cesura, ammette Sorel (173, 204, 371), ma questo costituisce il compite grave e sublime
del movimento rivoluzionario. Perché questa cesura abbia luogo, è necessaria quella che
Sorel chiama la “grande battaglia napoleonica”, quella che schiaccia completamente e
definitivamente l’avversario (86, 145-6, 370). In questo senso la violenza, che sola può
produrre questa cesura, ha grande valore di civiltà (371).
I teorici della pace sociale, sia liberali che socialisti, lavorano dunque contro il
cambiamento (87, 104, 107). Sorel si scaglia in modo particolare contro i socialisti
parlamentari e gli intellettuali: i primi usano il socialismo come mezzo per arrivare al
potere personale (90) ed hanno come obbiettivo di impossessarsi dello Stato e di
sostituirsi alle classi dirigenti borghesi (142-3); essi sono professionisti della politica
che quindi non fanno altro che rafforzare, nella loro azione, la macchina
governamentale (147-8):
essi vogliono rassicurare la borghesia e le promettono che non permetteranno al
popolo di abbandonarsi ai suoi istinti anarchici. Spiegano che non si sognano
lontanamente di sopprimere la grande macchina dello Stato, in modo che i
socialisti saggi desiderano due cose: impadronirsi di tale macchina per
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perfezionarne gli ingranaggi e farla funzionare al meglio degli interessi dei loro
amici – e rendere più stabile il governo, cosa che sarà assai vantaggiosa per tutti
gli uomini d’affari. (205)
Il rafforzamento dello Stato è quindi alla base di ogni loro concezione (214), ed ogni
loro azione è improntata a riprodurre la storia della forza borghese (226). Gli
intellettuali, per parte loro, costituiscono un’elite che si dà per missione quella di
pensare al posto di una massa non pensante (206), professionisti dell’intelligenza
borghese che tutto vogliono tranne la fine della società borghese.
Alla rivoluzione catastrofica si oppone anche quella che Sorel chiama la degenerazione
della borghesia: la razza dei capitani audaci che aveva fatto la grandezza dell’industria
moderna è scomparsa ed ha ceduto il posto ad una classe borghese timorosa, umanitaria
e che domanda solo di vivere in pace (98). Se l’obbiettivo è lo scontro finale e la
“grande battaglia napoleonica”, allora il “buon” capitalista è quello ancora animato da
uno spirito conquistatore, insaziabile e spietato, è il “capitano d’industria” (non per
nulla chiamato “capitano”) che assomiglia tanto al “tipo guerriero” e che ancora si
trova, scrive Sorel, negli Stati Uniti:
là si trova l’energia indomabile, l’audacia fondata su una giusta valutazione della
propria forza, il freddo calcolo degli interessi, che sono le qualità dei grandi
generali e dei grandi capitalisti. (103)
Più la borghesia sarà ardentemente capitalista, più il proletariato diverrà pieno di uno
“spirito guerriero” e confiderà nella forza rivoluzionaria (102). La classe capitalista
deve quindi essere “francamente e lealmente reazionaria”, in modo da marcare, insieme
alla violenza proletaria, la scissione netta tra le classi (234). La funzione della violenza
proletaria è di richiamare la borghesia al suo ruolo storico, di restituirle le “qualità
belliche” che possedeva un tempo e di portare la società capitalista alla sua “perfezione
storica” (107).
6. La morale del produttore
La violenza proletaria non ha solo grande valore di civiltà – perché è “levatrice” di una
nuova civiltà e di una nuova epoca storica – ma presenta per Sorel anche grande valore
etico e morale. Il progresso morale del proletariato deve tendere a creare quella che
Sorel chiama la “morale dei produttori futuri” (293-4). Se la morale borghese è la
morale del consumatore, che non presta la minima attenzione alle condizioni di
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produzione, allora la “nuova” morale dovrà essere una morale del produttore. Qui
l’elaborazione di Sorel presenta ingenuità e incongruità – che non sfuggiranno ad
Arendt – in quanto questa “nuova” morale, che non ha niente a che vedere con quella
borghese e rappresenta “il più alto ideale morale che l’uomo abbia mai concepito”,
viene definita allo stesso tempo come “ciò che è stato sempre considerato come le virtù
più alte” (298). Questa nuova morale è in realtà un melange di Nietzschianesimo,
anarchismo ed estetica del sublime, e che prende la guerra come suo modello:
Il proletariato si organizza per la battaglia, separandosi dalle altre parti della
nazione, considerandosi il grande motore della storia, subordinando ogni
considerazione sociale a quella del combattimento; ha un sentimento assai netto
della gloria legata al suo ruolo storico e dell’eroismo del suo atteggiamento
militante; aspira alla prova decisiva in cui infonderà tutta la misura del suo valore.
Non perseguendo alcuna conquista, non ha bisogno di fare piani per utilizzare le
sue vittorie: intende espellere i capitalisti dal dominio produttivo e prenderne il
posto. (213)
Lo sciopero è quindi un “fenomeno di guerra” (369), a cui Sorel dona spesso accenti
epici (329) ed omerici (316), ma il cui modello principale sono le “guerre di libertà”, le
guerre che la Francia rivoluzionaria dovette combattere contro le potenze europee a
partire dal 1792. Qui ogni soldato era un “uomo libero” che compiva nella battaglia
imprese eroiche senza subordinare la sua condotta e il suo ardore a un piano d’insieme
e senza tenere in conto vantaggi materiali o ricompense (317-8). Lo sciopero generale,
come le guerre di libertà, sono la manifestazione più eclatante della “forza individualista
nelle masse sollevate” (319). Questo “spirito guerriero” (324) restaura nella morale quel
carattere “sublime” che nella cultura borghese è diventato solo un “valore di borsa”
(300-1). Com’è facile notare, l’elaborazione di Sorel non è né particolarmente originale,
né nuova, né è scomparsa dalla nostra cultura, e corrisponde a quello che Adriana
Cavarero chiamerebbe l’“ethos del guerriero”.
7. possibili temi di discussione
L’ethos del guerriero nella cultura popolare di oggi (ad es. cinema)
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17/03/2010: sullo sciopero
1. Contesto
Verso la fine del diciannovesimo secolo, il sindacalismo rivoluzionario in Francia e in
Italia teorizzò lo sciopero generale, cioè l’astensione dal lavoro di tutte le categorie in
tutto il paese, come il mezzo principe per paralizzare e quindi distruggere lo Stato
capitalista (cfr. Rosa Luxemburg, Massenstreik, Partei und Gewerkschaften [Lo
sciopero generale, il partito e i sindacati], 1906). La strategia degli scioperi si rivelò
gestibile dai governi e non portò alla distruzione dello stato; inoltre il sindacalismo
rivoluzionario evolse verso strategie riformiste, per cui Sorel se ne allontanò a partire
dal 1909. La prima guerra mondiale decretò la fine di quest’ideologia.
2. Sciopero generale politico e sciopero generale proletario
Sorel identifica nello sciopero generale non solo una strategia di lotta, ma il mito stesso
che incarna e compendia l’intera rivoluzione marxista. Egli distingue però due tipologie
di sciopero generale: lo sciopero generale politico è quello organizzato con il fine di
ottenere risultati immediati e concreti, come il miglioramento delle condizioni di lavoro
o aumenti salariali, o al fine di ricattare l’establishment per fini puramente politici. Può
quindi venire facilmente strumentalizzato dai politici (dai socialisti parlamentari, ad
esempio) e non ha come fine la distruzione dello Stato; anzi, Sorel sostiene che questo
tipo di sciopero strumentalizza il proletariato per fini che servono lo Stato o
l’establishment politico-intellettuale, ed ha come unico risultato di far passare il potere
da un gruppo di politici ad un altro gruppo di politici (197): lo sciopero generale
politico “ci mostra come lo Stato non perderà nulla della sua forza, come avverrà una
trasmissione [di potere] da privilegiati a privilegiati, come il popolo dei produttori
cambierà [solo] padrone” (226-7). Lo sciopero generale proletario, al contrario, non
presenta alcuna rivendicazione materiale, non propugna alcuna miglioria organizzativa
o economica, ma è una rivolta “pura e semplice” (171-2) che ha come unico fine quello
di abolire lo Stato. Rappresenta quella catastrofe, quel punto di non ritorno che inaugura
l’inizio di una nuova era, e quindi “racchiude in sé tutto il socialismo proletario” (200).
3. Mito e utopia
Sorel definisce lo sciopero generale proletario un mito:
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Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si rappresentano le loro
azioni future sotto forma di immagini di battaglie che assicurano il trionfo della
loro causa. Propongo di chiamare miti queste costruzioni. (32)
Il mito non è una descrizione, ma l’“espressione di volontà” delle masse popolari che si
preparano alla lotta, è identico alle “convinzioni di un gruppo” e in quanto tale non è
scomponibile in parti analizzabili e, soprattutto, non può essere confutato da
argomentazioni logiche ed è indipendente dalla critica (42-3). Prerequisito della prassi
politica rivoluzionaria sono sentimenti di certezza, speranza e anticipazione, che devono
fornire il necessario impeto emotivo; il mito fornisce un insieme di immagini capaci di
evocare in blocco e attraverso la sola intuizione questa massa di sentimenti (150). Il
mito è quindi:
un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti
che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra ingaggiata dal
socialismo contro la società moderna. (156)
Inoltre, risultati insufficienti o un insuccesso non provano la falsità di un mito, in
quanto esso viene solo interpretato come un lavoro di preparazione (47). I miti non sono
“almanacchi astrologici” per prevedere il futuro (successo/insuccesso), ma dei “mezzi
per agire sul presente” (155). Gli esempi storici che Sorel dà del mito – la speranza
millenarista del cristianesimo primitivo, l’impulso che ha dato origine alla Riforma
protestante o alla Rivoluzione Francese, il romanticismo politico-religioso di Mazzini –
non hanno portato alla realizzazione del disegno che li ispirava, ma hanno comunque
costituito uno straordinario impulso all’azione e al cambiamento.
[Questa nozione di mito deve molto alle teorie di Henry Bergson, alle cui lezioni Sorel
spesso assisteva, in particolare al concetto di “conoscenza totale” (150) e di “esperienza
integrale” (161) che Bergson opponeva al positivismo del suo tempo. La “conoscenza
totale” è una forma di conoscenza che è intensa, istintiva, totale, indivisibile e
istantanea.]
Al mito Sorel contrappone l’utopia, che caratterizza per lui sia l’economia politica
liberale che il socialismo riformista. Al contrario del mito,
l’utopia è il prodotto di un lavoro intellettuale; essa è l’opera di teorici che, dopo
aver osservato e discusso i fatti, cercano di stabilire un modello con cui si possano
comparare le società esistenti per misurare il bene e il male che esse contengono;
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è una composizione di istituzioni immaginarie, ma che offre delle analogie con le
istituzioni reali sufficientemente grandi perché i giuristi vi possano ragionare; è
una costruzione smontabile i cui pezzi sono stati tagliati in modo tale da poter
passare (con qualche correzione e aggiustamento) in una prossima legislazione.
(43)
Le utopie sono proiezioni del presente e sono legate al presente (o al passato)
dall’analogia; non sfuggono quindi al condizionamento del presente. La rivoluzione
catastrofica deve costituire, al contrario, una cesura netta ed una separazione assoluta tra
due epoche storiche. È importante agire sul futuro, ma in modo non deterministico, e
quindi attraverso miti e non attraverso utopie (152).
4. Walter Benjamin
Dello sciopero generale teorizzato da Sorel Walter Benjamin dà una lettura originale in
un saggio importante, Per la critica della violenza (1921), che ha ripercussioni anche su
certa filosofia politica contemporanea. Per la critica della violenza è un saggio
estremamente denso e complesso, e quindi mi limito a qualche breve considerazione
sullo sciopero. Prima considerazione: Benjamin non parte da una prospettiva marxista
ed esplicitamente distingue il suo approccio “puramente teoretico” dall’approccio
“politico” di Sorel. Benjamin inserisce l’analisi soreliana dello sciopero all’interno della
sua analisi del rapporto fra violenza, diritto e giustizia. Il diritto e la legge (Recht,
Gesetz) hanno sempre una relazione con la violenza, che utilizzano come mezzo, sia nel
loro momento fondativo (rechtsetzende Gewalt, violenza che pone la legge) sia nella
loro conservazione (rechtserhaltende Gewalt, violenza che conserva la legge). Questa
relazione con la violenza preclude al diritto l’accesso alla giustizia; il diritto quindi, e lo
Stato che su di esso si fonda, devono essere distrutti. Benjamin usa qui il termine
Vernichtung, annichilamento, il che ha portato a letture estremamente critiche di questo
saggio (Habermas, Derrida).
Tuttavia, la prospettiva da cui Benjamin parte è una prospettiva messianica: il
messianismo o messianesimo è quella dottrina religiosa (di marca principalmente
ebraica) che vede nella venuta del Messia (“l’unto”, Cristo, Mahdi) l’evento che pone
fine alla storia post-lapsaria, (la storia umana in quanto caratterizzata dal peccato e dal
male) e dà inizio ad una nuova epoca, dà accesso alla salvezza. La venuta del Messia
costituisce dunque una cesura che divide la storia in un prima e in un dopo. Questa
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struttura viene secolarizzata e diventa una filosofia della storia per cui, a prescindere
dalla fede religiosa nell’avvento del Messia, la storia viene vista come un cammino
progressivo di emancipazione diretto verso un qualche tipo di salvezza. Sia l’ideologia
del progresso che ancor più il marxismo hanno forti componenti messianiche. Il
peculiare messianismo di Benjamin (o di Kafka, o di Agamben), detto in soldoni,
consiste nel guardare alla storia dalla prospettiva della sua fine, come se ogni attimo
fosse “la porta stretta attraverso cui potrebbe entrare il Messia” (Sul concetto di storia).
Leggere la storia della relazione inestricabile tra diritto e violenza da una prospettiva
messianica significa individuare la necessità della dissoluzione di questa relazione, per
cui Beniamin stabilisce la necessità di quella che lui chiama “violenza divina” (göttliche
Gewalt) o “violenza pura” (reine Gewalt) che sciolga questa relazione. Questa violenza
pura non può essere violenta nel senso in cui è violenta la legge, non può essere un
mezzo diretto ad un determinato fine, com’è la violenza della legge, ma deve essere un
mezzo-senza-fine. Lo sciopero, in quanto è non-azione, un’“interruzione delle
relazioni” che legano capitalisti e lavoratori, potrebbe sembrare un mezzo nonviolento.
Lo sciopero generale politico teorizzato da Sorel, sia che presenti caratteri violenti sia
che non li presenti, rimane però violento nel senso che esercita un’estorsione, un ricatto
(Erpressung), con il fine di ottenere miglioramenti delle condizioni di lavoro. Lo
sciopero generale proletario, al contrario, viene equiparato da Benjamin ad un mezzosenza-fine, in quanto non si propone altro scopo che l’abolizione e il superamento dello
Stato. La Vernichtung del diritto e dello Stato a cui deve condurre la violenza pura è
anche definita da Benjamin Ent-setzung, de-posizione.
5. Afformativo e désoeuvrement
Il significato della violenza pura rimane ambiguo e ha dato luogo a interpretazioni
molto diverse. Ne propongo due che riguardano in qualche modo lo sciopero.
Werner Hamacher, in un saggio dal titolo “Afformativ, Streik” (1994), usa, per
interpretare la violenza pura, un’analogia con la teoria degli speech acts di John L.
Austin (How to Do Things with Words, 1962; John Searle, Speech Acts, 1969), ed in
particolare con il concetto di “performativo”. In soldoni, l’azione che l’espressione
performativa descrive (“vi dichiaro marito e moglie”, “ti condanno a 10 anni di
prigione”) è performata, cioè compiuta, eseguita, dall’enunciazione stessa della frase.
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La violenza pura come mezzo-senza-fine, come pura Ent-setzung, non performa nulla, è
non-azione, è la de-posizione della relazione tra diritto e violenza, quindi sciopero
nell’accezione di ex-operari; è quindi a-formativa.
Anche Giorgio Agamben interpreta la violenza pura come Ent-setzung “afformativa” ed
elabora poi tutta la sua filosofia politica sulla de-posizione di quella che lui chiama
l’oikonomia dello Stato, del rapporto tra legge e violenza. In pillole: Agamben assume
una prospettiva messianica Benjaminio-Kafkiana per cui la politica viene identificata
come mezzo-senza-fine, e l’uscita dallo stallo biopolitico della modernità viene vista
nella de-posizione della macchina politica dell’Occidente. Questa de-posizione non è
una distruzione, che sostituisca una nuova organizzazione politica alla vecchia, una
nuova legge alla vecchia, ma è il désoeuvrement del dispositivo, il suo renderlo
inoperativo (non faccio la storia del termine) per aprirlo and un nuovo “uso”. Nel
messianismo di San Paolo Agamben trova la formula di questo désoeuvrement: l’arrivo
del Messia nella soteriologia paolina comporta il “compimento” della legge, ma questo
compimento non è né la distruzione della legge né la sostituzione della vecchia legge
con una nuova. San Paolo usa il termine katargesis, che viene dal verbo argeo, e quindi
da argos, a-ergon, “senz’opera”. Agamben non fa alcun riferimento a Sorel o allo
sciopero, ma katargesis è appunto ex-operari, sciopero.
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