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CAPITOLO III
LE FONTI DEL DIRITTO COMUNITARIO
(N. Pignatelli)
S OMM A RIO : §1. Un quadro generale sul sistema delle fonti comunitarie. – §2. Il
diritto comunitario “originario”. – §3. Il diritto comunitario “derivato”. – §3.1. I
regolamenti. – §3.2. Le direttive. – §3.3. Le decisioni. – §3.4. Gli atti non vincolanti.
– §3.5. Gli atti atipici. – §4. “Diretta applicabilità” ed “effetto diretto” delle norme
comunitarie. – §5. L’“adattamento” dell’ordinamento italiano al diritto comunitario.
– §5.1. L’“adattamento” al diritto comunitario “originario”. – §5.2. L’“adattamento”
al diritto comunitario “derivato” da parte dello Stato. – §5.3. L’“adattamento” al
diritto comunitario “derivato” da parte delle Regioni. – §6. I contrasti tra norme
statali e norme comunitarie. – §7. Le differenze rispetto alla risoluzione dei
contrasti tra norme statali e norme internazionali. – §8. L’interpretazione conforme
al diritto comunitario. – §9. I contrasti tra provvedimenti amministrativi statali e
norme comunitarie. – §10. L’autotutela amministrativa e la violazione delle norme
comunitarie.
1. Un quadro generale sul sistema delle fonti comunitarie
Nel Trattato della CE non vi sono una esaustiva elencazione e classificazione
delle fonti del diritto, dovendo intendersi con questa nozione ogni fatto o
atto idoneo a produrre regole giuridiche all’interno dell’ordinamento comunitario. La classificazione delle fonti può quindi essere operata utilizzando
in via ausiliaria lo strumentario concettuale del diritto internazionale e di
quello costituzionale (statale).
Una prima distinzione utile può essere prospettata tra l’insieme dei
Trattati e le norme che sono adottate sulla base delle disposizioni contenute
nei Trattati stessi, potendo così parlarsi di fonti primarie, ovvero di diritto
comunitario originario, e di fonti secondarie, ovvero di diritto comunitario derivato. È evidente come l’adozione degli atti di diritto comunitario
derivato sia possibile perché all’interno dei Trattati vi sono norme c.d. “sulla
produzione” normativa, che disciplinano le procedure ed il riparto della funzione legislativa tra le istituzioni comunitarie.
Tra le fonti di diritto derivato possono distinguersi – come si vedrà meglio più avanti – atti vincolanti (regolamenti, direttive, decisioni) e atti non
vincolanti (raccomandazioni e pareri), per quanto alcuni di essi (decisioni)
abbiano una natura più simile a quella di un provvedimento amministrativo.
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Rientrano nell’alveo del diritto comunitario derivato anche gli atti atipici, quali ad esempio, gli atti interni con i quali le istituzioni regolano il
proprio funzionamento, le proposte, le richieste di dichiarazioni, che, pur
non essendo contemplate da nessuna norma dei Trattati, si sono sviluppate
nella prassi.
Tuttavia accanto alle fonti scritte (siano esse di diritto comunitario originario o derivato, vincolante o non vincolante) vi sono anche fonti comunitarie non scritte, quali sono i principi generali del diritto comunitario,
enucleati in via interpretativa ed ermeneutica dalla Corte di Giustizia nell’ambito della sua funzione di assicurare il rispetto del diritto nella interpretazione
e nella attuazione dei Trattati (art. 220 TCE); questa funzione ha determinato virtuosamente una integrazione pretoria del sistema normativo comunitario, che ha permesso di colmare talune “lacune” dell’ordinamento, anche alla
luce delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
Basta qui ricordare il principio di irretroattività delle norme penali, quello del
legittimo affidamento dei terzi in buona fede, quello dell’“effetto utile” (che impone di interpretare le norme in funzione della realizzazione dello scopo comunitario per il quale sono state adottate), quello di certezza del diritto, o ancora
quello di sussidiarietà (successivamente recepito in una fonte scritta). Tali principi sono qualificabili alla stregua del diritto comunitario “originario”.
Anche all’interno del sistema delle fonti comunitarie è operativo il criterio gerarchico, alla luce del quale la fonte superiore prevale su quella inferiore. Gli atti di diritto “derivato” non soltanto devono rispettare i limiti
generali di competenza delineati dai Trattati, che segnano il riparto di attribuzioni tra ordinamento comunitario e ordinamento statale, ma anche tutte
le altre previsioni del diritto comunitario originario, potendo parlarsi di una
primazia di quest’ultimo sulle altre fonti normative. In questa logica gerarchica, a presidio di tale supremazia, è previsto un sistema giurisdizionale,
strumentale all’accertamento della illegittimità e quindi all’annullamento degli atti normativi adottati in violazione di una disposizione dei Trattati (art.
230 TCE); i Trattati infatti possono essere modificati soltanto attraverso una
specifica procedura, che ne determina la natura “rigida”.
Deve altresì precisarsi che il diritto comunitario si informa al principio di
diritto internazionale consuetudinario, per quanto riguarda la sua applicabilità nel tempo; il dies a quo della efficacia dell’atto è quello della sua entrata
in vigore, così come è necessario fare riferimento alla medesima data per rilevare il momento di produzione di eventuali effetti modificativi o estintivi
di precedenti disposizioni.
2. Il diritto comunitario “originario”
Il diritto originario è costituito anzitutto dai Trattati di Roma del 25
marzo 1957 istitutivi della CEE e dell’EURATOM. Quello concluso
a Parigi il 18 aprile 1951, istitutivo della CECA, invece, non è più in
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vigore. Questi atti sono stati integrati dagli accordi internazionali che vi
hanno apportato delle modifiche, ossia dall’Atto Unico europeo del 17 e
28 febbraio 1986, dal Trattato istitutivo dell’Unione fi rmato a Maastricht
il 7 febbraio 1992, dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 e dal
Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 e dal Trattato di adesione del 16
aprile 2003.
I Trattati istituzionali sono completati da Protocolli e Dichiarazioni
allegate, che hanno la stessa forza giuridica nella gerarchia delle fonti. Tra
queste si ricordano, per la loro particolare rilevanza, il Protocollo sulla Banca
Europea per gli investimenti, quello sullo Statuto della Corte di Giustizia e
quello sullo Statuto della Banca centrale europea.
Tra le fonti primarie devono essere annoverati anche altri atti che hanno
modificato i Trattati, quali la Convenzione relativa a talune Istituzioni comuni, firmata contemporaneamente ai Trattati di Roma, il Trattato sulla fusione degli esecutivi dell’8 aprile 1965, l’atto del 20 settembre 1976 relativo
alla elezione a suffragio universale diretto dei membri del Parlamento europeo, i diversi atti di adesione dei nuovi Stati membri, che determinano modifiche sull’organizzazione istituzionale comunitaria.
Risulta evidente la frammentarietà e la stratificazione delle fonti comunitarie del diritto “originario”. Il Trattato di Lisbona, attualmente sottoposto alla ratifica degli Stati membri, recuperando l’obiettivo della “sfortunata”
Costituzione europea, ha tra i suoi principali fi ni proprio quello di dare vita
ad un corpo normativo organico e sistematico.
Tuttavia questa frammentarietà non delegittima certamente la natura
fondamentale del Trattato della Comunità europea, che, benché sia stato
concluso nella forma dell’accordo internazionale, è stato riconosciuto dalla
stessa Corte di Giustizia come la Carta fondamentale dell’ordinamento giuridico comunitario, valorizzando la sua natura peculiare rispetto agli altri Trattati internazionali. La stessa Corte di Giustizia, già nella sentenza
Van Gend & Loos, resa il 5 febbraio 1963, ha affermato chiaramente che lo
scopo originario della istituzione del mercato comune sarebbe dovuto andare al di là della mera instaurazione di obblighi in capo ai singoli Stati:
“ciò è confermato dal preambolo del Trattato, il quale, oltre a menzionare i governi,
fa richiamo ai popoli e, più concretamente ancora, alla instaurazione di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati
membri sia dei loro cittadini[...].Pertanto il diritto comunitario, indipendentemente
dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli
degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche
come contropartita di precisi obblighi imposti dal Trattato ai singoli, agli Stati membri alle istituzioni comunitarie”.
In questa pronuncia la Corte di Giustizia riconosceva per la prima volta
che le norme del Trattato istitutivo della Comunità potessero produrre “effetti diretti”, potendo far sorgere in capo ai singoli diritti ed obblighi, giustiziabili dinanzi alle autorità giurisdizionali nazionali. In questa stessa logica
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di valorizzazione la giurisprudenza europea ha affinato il criterio interpretativo dell’“effetto utile”, secondo cui è necessario dare ad una disposizione
comunitaria l’interpretazione che consenta di risolvere il caso concreto,
dando una risposta giuridica alla fattispecie, e non l’interpretazione che non
conduca ad alcun risultato pratico.
I Trattati sopra richiamati, per quanto “rigidi” (ovvero non modificabili dal diritto originario “derivato”) possono essere oggetto di revisione
o di modifiche. L’art. 48 del TUE espressamente riconosce, quale fonte
idonea alla propria modifica, l’accordo tra i Governi degli Stati membri,
che deve essere ratificato da questi ultimi nelle forme previste dalle rispettive Costituzioni statali. Più specificatamente l’iniziativa della revisione può essere adottata dal Governo di uno Stato membro ovvero dalla
Commissione, che ne investono il Consiglio, il quale, previo parere del
Parlamento europeo e della Commissione, può esprimersi favorevolmente
alla convocazione di una conferenza intergovernativa allo scopo di procedere alla revisione.
R isu lta ev idente come la procedura d i rev isione non si per fezioni nell’ambito comunitario, all’interno delle Istituzioni comunitarie
(Parlamento europeo, Commissione, Consiglio) realizzandosi, invece, nella
dimensione dell’ordinamento internazionale, dove rimangono sovrani gli
Stati nazionali, che decideranno sulla opportunità di modificare il diritto
“originario”.
Oltre alla procedura delineata dall’art. 48 TUE, deve ricordarsi una
ulteriore ipotesi di modifica dei Trattati, contemplata dall’art. 49 TUE,
che disciplina la procedura di adesione all’Unione di “nuovi” Stati;
anche questa procedura è caratterizzata da una fase procedimentale comunitaria e da una fase rimessa agli Stati membri. Più specificatamente,
ogni Stato europeo che rispetti i principi di libertà, democrazia, i diritti
dell’uomo e le libertà fondamentali ed il principio dello Stato di diritto,
può chiedere di aderire all’Unione; a questo fi ne trasmette la sua domanda al Consiglio, che decide all’unanimità, previa consultazione della
Commissione e previo parere conforme del Parlamento europeo, il quale
si pronuncia a maggioranza assoluta dei membri che lo compongono. Le
condizioni per l’ammissione ed i relativi adattamenti dei Trattati sono
oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato “candidato” alla
adesione; tale accordo viene successivamente sottoposto a ratifica da parte
di tutti gli Stati contraenti, conformemente alle loro rispettive norme
costituzionali.
Insieme ai Trattati istitutivi delle Comunità e a quelli successivamente
adottati vengono posti, al vertice del sistema delle fonti comunitarie, i
principi generali del diritto comunitario, di cui si è già detto; un riferimento esplicito a questa fonte si trova nell’art. 230 TCE, in materia di responsabilità extracontrattuale della Comunità.
Tali principi generali rappresentano ulteriori parametri, rispetto alle
norme contenute nei Trattati, per il giudizio di legittimità degli atti delle
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istituzioni e contribuiscono a fornire criteri interpretativi per tutte le
norme del sistema comunitario; la giurisprudenza comunitaria si è avvalsa
di questa categoria per introdurre, pur in assenza di uno specifico riferimento, una tutela dei diritti fondamentali. La Corte di Giustizia nella
sentenza Hauer, resa il 13 dicembre 1979, ha affermato che “i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, di cui essa garantisce l’osservanza; nel garantire la tutela di tali diritti essa è tenuta ad ispirarsi
alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e non potrebbe, quindi, ammettere provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti
dalle Costituzioni di tali Stati”.
Proprio su sollecitazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia,
mostratasi particolarmente sensibile, l’ordinamento comunitario ha dato
esplicito riconoscimento al valore della tutela dei diritti fondamentali. L’art.
6, par. 2, TUE afferma infatti che l’Unione rispetta i diritti fondamentali
quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali
del diritto comunitario.
Un ulteriore passo in avanti si è fatto in questo ambito con la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata a Nizza il 7 dicembre 2000 dal Consiglio, dal Parlamento e dalla
Commissione. Questa Carta rappresenta un lungo e puntuale catalogo
dei diritti che supera il mero richiamo generico alle tradizioni costituzionali comuni e il mero richiamo alla Carta dei diritti di un altro ordinamento, ovvero alla CEDU; tuttavia la Carta di Nizza non ha attualmente
un valore giuridico vincolante, per quanto richiamata in alcune pronunce
dei giudici nazionali come elemento retorico-argomentativo, essendo soltanto una sorta di manifestazione di intento culturale dell’ordinamento
comunitario.
Le cose cambierebbero invece se fosse ratificato il Trattato di Lisbona, a
cui la Carta è allegata, visto che è il Trattato stesso a riconoscere a tale catalogo di diritti una forza giuridica vincolante. In questo caso si produrrebbero
effetti pratici dirompenti, visto che una persona fi sica o giuridica potrebbe,
ad esempio, esperire l’azione di annullamento di un atto comunitario (non
soltanto per un vizio di incompetenza o per violazione del Trattato ma anche) per violazione di uno dei diritti contenuti nella Carta.
3. Il diritto comunitario “derivato”
Il diritto “derivato”, come anticipato, è costituito dagli atti che possono essere adottati dalle Istituzioni comunitarie, secondo le previsioni del Trattato.
Gli atti delle Istituzioni della Comunità europea sono quelli previsti dall’art.
249 TCE, che sono individuati con un ordine decrescente rispetto alla loro
obbligatorietà. Questi atti sono: i regolamenti, le direttive, le decisioni
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(atti dotati di forza vincolante), le raccomandazioni e i pareri (atti privi
di forza vincolante). L’art. 249 TCE dispone che essi sono emanati “per
l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dal presente Trattato”,
dal “Parlamento europeo, congiuntamente con il Consiglio, dal Consiglio e dalla
Commissione”.
Da questa previsione si desume chiaramente come la funzione legislativa all’interno dell’ordinamento comunitario sia “ripartita” tra più
Istituzioni, diversamente da quello che accade negli ordinamenti statali,
come quello italiano, in cui la Costituzione, nella logica liberale classica
della separazione tra i poteri, riconosce al Parlamento l’esclusività della titolarità del potere legislativo (art. 70 Cost.); nell’ordinamento italiano tale
esclusività è ribadita anche in relazione ai decreti legislativi e ai decreti
legge, su cui il Parlamento esercita il proprio potere rispettivamente con
l’approvazione della legge delega (art. 76 Cost.) e della legge di conversione (art. 77 Cost.).
Dal Trattato si desumono anche alcuni elementi che caratterizzano generalmente gli atti comunitari vincolanti del diritto derivato:
a) l’obbligo di motivazione (art. 253 TCE). Tale obbligo non richiede
l’adozione di formule particolari, essendo suff iciente che dal tenore
dell’atto nel suo complesso si evincano le ragioni di fatto e di diritto che
hanno indotto l’istituzione competente ad adottarlo. Il difetto e la carenza di motivazione dell’atto sono vizi che si traducono nella violazione
di forme censurabili ex art. 230 TCE;
b) l’indicazione della base giuridica. La esplicitazione delle norme applicate rileva sia in riferimento alla competenza comunitaria, sia in riferimento alle attribuzioni delle singole Istituzioni, sia in riferimento alla
procedura adottata;
c) l’efficacia nel tempo (art. 254 TCE): i regolamenti e le direttive rivolte a tutti gli Stati membri entrano in vigore, previa pubblicazione sulla
Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea, alla data in essi indicata o al decorso del periodo di venti giorni successivo alla pubblicazione, mentre le
decisioni e le direttive rivolte a singoli destinatari producono i loro effetti
a partire dal momento della notifica, ossia della conoscenza da parte del
singolo o dei singoli destinatari.
3.1. I regolamenti
I regolamenti sono atti a portata generale, obbligatori in tutti i loro
elementi e direttamente applicabili a ciascuno degli Stati membri
(art. 249 TCE). Diversamente da quanto avviene negli ordinamenti statali,
nei quali il termine regolamento è usato per le fonti secondarie subordinate
alla legge (ad esempio, regolamento governativo, regionale, provinciale o comunale), nell’ordinamento comunitario tale categoria è riservata al momento
normativo principale.
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La portata generale è determinata dalla loro astrattezza, alla luce della
quale il contenuto precettivo non è rivolto ad una limitata categoria di soggetti o a destinatari identificabili ma alla generalità dei soggetti dell’ordinamento comunitario, ossia agli Stati membri, alle Istituzioni comunitarie, alle
persone fisiche e alle persone giuridiche.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha precisato che la portata generale dei regolamenti può comunque comportare la incidenza
su interessi individuali, purché non sussista discriminazione per quanto
concerne la posizione dei destinatari. Deve anche precisarsi che questa
caratteristica non esclude che i destinatari siano individuabili, alla stregua
del contenuto dell’atto, quando la loro determinazione dipenda da situazioni obiettive.
Sembra certamente significativo che il testo della Costituzione europea utilizzasse il nomen “legge comunitaria” in luogo di “regolamento”,
ribadendo anche simbolicamente la natura di questa fonte normativa
generale.
I regolamenti sono obbligatori in tutti i loro elementi, sul presupposto che le norme in essi contenute sono destinate a disciplinare la materia e devono essere osservate come tali all’interno dell’ordinamento
comunitario, per quanto possano essere successivamente adottate misure di esecuzione dalla stessa istituzione che ha emanato il regolamento,
dalla Commissione o dagli Stati membri. In questa logica gli Stati non
possono certamente applicare parzialmente il contenuto normativo o concedere deroghe a favore dei destinatari, limitando così l’effettività della
obbligatorietà.
L’ulteriore caratteristica è quella della diretta applicabilità. I regolamenti hanno efficacia negli Stati membri senza che sia necessario un atto di
ricezione o di adattamento da parte dei singoli ordinamenti statali, potendo
attribuire diritti ed imporre obblighi agli Stati, alle autonomie locali degli
Stati, ai privati, in modo analogo ad una legge ordinaria statale. Le norme
contenute nei regolamenti sono self-executing, differenziandosi dalle norme
di diritto internazionale pattizio, che vincolano soltanto gli Stati, potendo
produrre i propri effetti all’interno degli ordinamenti statali soltanto quando
vengano recepite con atto statale.
Da questo requisito discendono due corollari fondamentali, secondo cui
gli Stati non solo non possono adottare norme o atti amministrativi tesi a limitare la diretta applicabilità dei regolamenti ma devono anche tutelare in
sede giurisdizionale i diritti riconosciuti in capo alle persone fisiche e giuridiche dall’ordinamento comunitario; qualunque tipo di azione contemplata
dal diritto nazionale deve poter essere esperita per garantire il rispetto delle
norme comunitarie, aventi efficacia diretta alle stesse condizioni di ricevibilità e di procedura che valgono quando si tratta di garantire le situazioni giuridiche riconosciute dal diritto nazionale.
Quanto alla competenza ad emanare regolamenti, l’art. 249 TCE
dispone che spetti al Consiglio congiuntamente al Parlamento, nonché,
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disgiuntamente, al Consiglio e alla Commissione. Tuttavia deve precisarsi che la competenza della Commissione è soltanto subordinata ad una
delega del Consiglio, titolare in via principale della potestà regolamentare. Più specificatamente il Consiglio adottata i regolamenti attuativi del
Trattato (c.d. regolamenti di base), mentre la Commissione adotta i regolamenti di esecuzione dei regolamenti del Consiglio (c.d. regolamenti di
attuazione).
Quest’ultima categoria di atti, vista la subordinazione ai regolamenti del
Consiglio, può essere qualificata come una fonte secondaria, inferiore nella
gerarchia delle fonti ed assimilabile alla posizione dei regolamenti amministrativi nell’ordinamento italiano, visto il loro rapporto di sotto-ordinazione
con la legge.
Il requisito formale principale dei regolamenti è la motivazione (art.
253 TCE). Questa previsione risulta singolare, visto che negli ordinamenti statali può dirsi consolidato, alla luce della cultura del costituzionalismo liberale, il principio secondo cui la funzione legislativa, diversamente
da quella amministrativa, è sottratta alla motivazione. Tuttavia la Corte
di Giustizia ha avuto modo di precisare come la natura generale del regolamento possa far ritenere sufficiente l’indicazione della situazione complessiva che ha determinato l’adozione e gli scopi da realizzare. Questa
attenuazione dell’obbligo di motivazione evidentemente restringe, in sede
giurisdizionale, la possibilità di vedere un regolamento annullato per carenza motivazionale.
Oltre alla motivazione nei regolamenti deve esservi il riferimento alle
proposte e ai pareri obbligatori, previsti dai Trattati.
I regolamenti sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea ed entrano in vigore dopo un periodo di vacatio legis di venti giorni, salva
diversa disposizione del regolamento stesso (art. 254 TCE).
3.2. Le direttive
Le direttive sono gli atti che vincolano lo Stato membro cui sono
rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma
ed ai mezzi (art. 249 TCE); in altre parole, la direttiva comunitaria
fi ssa gli obiettivi e gli Stati fi ssano gli strumenti per la realizzazione di
tali obiettivi.
Le direttive, diversamente dai regolamenti, non hanno portata generale,
ma hanno come destinatari soltanto gli Stati membri.
A differenza dei regolamenti, le direttive generalmente non creano norme
giuridiche direttamente applicabili negli ordinamenti statali, avendo l’effetto
di imporre agli Stati l’adozione di norme legislative, regolamentari o di provvedimenti amministrativi al fi ne di raggiungere gli obiettivi individuati a livello comunitario. Si noti, però, come la disciplina di attuazione non debba
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