Emanuele Zinato - Primo Levi: la memoria, il lavoro e la scienza Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animaleuomo di fronte alla lotta per la vita.(P. Levi, Se questo è un uomo) Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni). ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi. Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua nei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, “essi” sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera, e c’è un rubinetto, e Wessertrinken verboten. Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude. Questo è l’inferno. Oggi ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. .(P. Levi, Se questo è un uomo) Erano allegri, tristi, stanchi, e si compiacevano del cibo, del vino, come i compagni di Ulisse dopo tirate in secco le navi (La tregua, p. 66) Come se un argine fosse franato. Proprio in quell’ora in cui (…) la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini dalla coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell’esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno. (P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino, 1962, p. 14) In quei giorni, in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi. (La tregua. p. 36) Aveva grossi occhi scialbi ed acquosi e un gran naso ricurvo; il che conferiva all’intera sua persona un aspetto insieme rapace ed impedito, quasi di uccello notturno sorpreso dalla luce, o di pesce da preda fuori del suo naturale elemento (La tregua , pp. 38-39) Era venuto il Lager per entrambi: io lo avevo percepito come un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie. “Guerra è sempre”, l’uomo è lupo all’uomo: vecchia storia. Dei suoi due anni di Auschwitz non mi parlò mai. (La tregua, p. 58) A notte fatta passammo il Brennero, che avevamo varvato verso l’esilio venti mesi prima: i compagni meno provati, in allegro tumulto; Leonardo e io, in un silenzio gremito di memoria. Di seicentocinquanta, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. (La tregua, p. 250) I gabbiani di Settimo Di meandro in meandro, anno per anno, I signori del cielo hanno risalito il fiume Lungo le sponde, su dalle foci impetuose. Hanno dimenticato la risacca e il salino, Le cacce astute e pazienti, i granchi ghiotti. Su per Crespino, Polesella, Ostiglia, I nuovi nati più risoluti dei vecchi, Oltre Luzzara, oltre Viadana spenta, Ingolositi dalle nostre ignobili Discariche, d’ansa in ansa più pingui, Hanno esplorato le nebbie di Caorso, I rami pigri fra Cremona e Piacenza, Retti dal fiato tepido dell’autostrada, Stridendo mesti nel loro breve saluto. Hanno sostato alla bocca del Ticino, Tessuto nidi sotto il ponte di Valenza Tra grumi di catrame e lembi di polietilene. Han veleggiato a monte, oltre Casale e Chivasso, Fuggendo il mare, attratti dalla nostra abbondanza. Ora planano inquieti su Settimo Torinese: Immemori del passato, frugano i nostri rifiuti. 9 aprile 1979 La bambina di Pompei Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna Che ti sei stretta convulsamente a tua madre Quasi volessi ripenetrare in lei Quando al meriggio il cielo si è fatto nero. Invano, perché l’aria volta in veleno È filtrata a cercarti per le finestre serrate Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso. Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata A incarcerare per sempre codeste membra gentili. Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso, Agonia senza fine, terribile testimonianza Di quanto importi agli dèi l’orgoglioso nostro seme. Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella, Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani: La sua cenere muta è stata dispersa dal vento, La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito. Nulla rimane della scolara di Hiroshima, Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli, Vittima sacrificata sull’altare della paura. Potenti della terra padroni di nuovi veleni, Tristi custodi segreti del tuono definitivo, Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo. Prima di premere il dito, fermatevi e considerate. 20 novembre 1978 Meleagrina Tu, sanguecaldo precipitoso e grosso, Che cosa sai di queste mie membra molli Fuori del loro sapore? Eppure Percepiscono il fresco e il tiepido, E in seno all’acqua impurezza e purezza; Si tendono e distendono, obbedienti A muti intimi ritmi, Godono il cibo e gemono la loro fame Come le tue, straniero dalle movenze pronte. E se, murata fra le mie valve pietrose, Avessi come te memoria e senso, E, cementata al mio scoglio, indovinassi il cielo? Ti rassomiglio più che tu non creda, Condannata a secernere secernere Lacrime sperma madreperla e perla. Come te, se una scheggia mi ferisce il mantello, Giorno su giorno la rivesto in silenzio. 30 settembre 1983 DELEGA Non spaventarti se il lavoro è molto: c’è bisogno di te che sei meno stanco. Poiché hai sensi fini, senti Come sotto i tuoi piedi suona cavo. Rimedita i nostri errori: C’è stato pure chi, fra noi, S’è messo in cerca alla cieca Come un bendato ripeterebbe un profilo, E chi ha salpato come fanno i corsari, E chi ha tentato con volontà buona. Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro, Perché insicuro. Vedi Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia Dei nostri dubbi e delle nostre certezze. Mai siamo stati così ricchi, eppure Viviamo in mezo a mostri imbalsamati, Ad altri mostri oscenamente vivi. Non sgomentarti delle macerie Né del lezzo delle discariche: noi Ne abbiamo sgomberate a mani nude Negli anni in cui avevamo i tuoi anni. Reggi la corsa, del tuo meglio. Abbiamo Pettinato la chioma alle comete, Decifrato i segreti della genesi, Calpestato la sabbia della luna, Costruito Auschwitz e distrutto Hiroschima. Vedi: non siamo rimasti inerti. Sobbarcati, perplesso; Non chiamarci maestri. 24 giugno 1986 Ho visto Venere bicorne Navigare soave nel sereno. Ho visto valli e monti sulla Luna E Saturno trigemino Io Galileo, primo fra gli umani; Quattro stelle aggirarsi intorno a Giove, E la Via Lattea scindersi In legioni infinite di mondi nuovi. Ho visto non creduto, macchie presaghe Inquinare la faccia del Sole. Quest’occhiale l’ho costruito io, Uomo dotto ma di mani sagaci: Io ne ho polito i vetri, io l’ho puntato al Cielo Come si punterebbe una bombarda. Io sono stato che ho sfondato il Cielo Prima che il Sole mi bruciasse gli occhi. Prima che il Sole mi bruciasse gli occhi Ho dovuto piegarmi a dire Che non vedevo quello che vedevo. Colui che m’ha avvinto alla terra Non scatenava terremoti né folgori, Era di voce dimessa e piana, L’avvoltoio che mi rode ogni sera Ha la faccia di ognuno (P. Levi, Sidereus Nuncius, 1984) Mi piacerebbe che in tutte le facoltà scientifiche si insistesse a oltranza su un punto: ciò che farai quando eserciterai la professione può essere utile per il genere umano, o neutro, o nocivo. Non innamorarti di problemi sospetti. Nei limiti che ti saranno concessi, cerca di conoscere il fine a cui il tuo lavoro è diretto. Lo sappiamo, il mondo non è fatto solo di bianco e di nero e la tua decisione può essere probabilistica e difficile: ma accetterai di studiare un nuovo medicamento, rifiuterai di formulare un gas nervino. Che tu sia o no un credente (...) se ti è concessa una scelta non lasciarti sedurre dall'interesse materiale o intellettuale, ma scegli entro il campo che può rendere meno doloroso e meno pericoloso l'itinerario dei tuoi compagni e dei tuoi posteri. Non nasconderti dietro l'ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se da ciò che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla." (Primo Levi, Per non covare il cobra (1984) , in Opere, Einaudi, p. 993). Tutti sanno come vive un corsaro, un avventuriero, un medico, una prostituta. Di noi chimici trasmutatori di materia, un mestiere di ascendenza illustre, non c’è molta traccia e mi sembrava giusto “turare il buco”. Così è nato Il sistema periodico. E’ indubbiamente una provocazione il titolo e l’aver dato a ogni capitolo, come titolo, il nome di un elemento. Ma mi sembrava opportuno sfruttare il rapporto del chimico con la materia, come i romantici dell’800 hanno sfruttato il “paesaggio”: elemento chimico-stato d’animo, come paesaggio-stato d’animo. Perché, per chi lavora, la materia è viva: madre e nemica , neghittosa e alleata, stupida, inerte, pericolosa a volte, ma viva come ben sapevano i fondatori che lavoravano da soli, misconosciuti, senza appoggi con la ragione e la fantasia.(…) Al mio mestiere devo la vita. Non sarei sopravvissuto ad Auschwitz, se dopo dieci mesi di dura manovalanza non fossi entrato in un laboratorio, dove ho continuato a fare il manovale, ma al coperto. (…) E la chimica mi ha fornito argomento per un libro e per due racconti. Me la sento in mano come un serbatoio di metafore: più lontano è l’altro campo, più la metafora è tesa. (…) Anche il mio chimico ha dunque una lunga ombra simbolica; misurandosi con la materia attraverso successi e insuccessi, è simile al marinaio di Conrad, al suo misurarsi col mare. E’ simile anche ad un cacciatore primitivo. Alla sera quando disegna la formula di struttura della molecola che domani dovrà costruire, compie lo stesso rito propiziatorio del cacciatore di Altamira che 50 mila anni fa disegnava sulle pareti delle caverne l’alce o il bisonte che il giorno dopo avrebbe dovuto abbattere: per appropriarsene, far suo l’antagonista. Gesti sacrali ambedue. Sono quasi sicuro che l’esperienza del chimico sia la stessa del remoto passato dell’uomo, guidata dallo stesso intento che lo conduceva a intraprendere la lunga strada che lo avrebbe portato alla civiltà. (Lo scrittore non scrittore, Conferenza per l’Associazione Culturale Italiana, 19 novembre 1976) “Sa, non è per il padrone. A me del padrone non me ne fa mica tanto, basta che mi paghi quello ch’è giusto e che coi montaggi mi lasci fare alla mia maniera. No, è per via del lavoro: metter su una macchina come quella, lavorarci dietro con le mani e con la testa per dei giorni, vederla crescere così, alta e dritta, forte e sottile come un albero, e che poi non cammini, è una pena: è come una donna incinta che le nasca un figlio storto o deficiente, non so se rendo l’idea.” La rendeva, l’idea. Nell’ascoltare Faussone si andava coagulando dentro di me un abbozzo di ipotesi, che non ho ulteriormente elaborato e che sottopongo qui al lettore: il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo. (La chiave a stella, Einaudi, Torino, 1978) Le avevo davanti agli occhi, le mani di Faussone: lunghe, solide e veloci, molto più espressive del suo viso (…) Mi avevano richiamato alla mente lontane letture darwiniane, sulla mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, e che ancora lo guida e stimola e tira come fa il cane con il padrone cieco. (La chiave a stella, Einaudi, Torino, 1978) La sovrappopsizione di una rudimentale volontà (o iniziativa) della macchina sulla volontà (o iniziativa) umana: la quale peraltro, nell’atto di guidare attraverso il traffico cittadino, deve in qualche modo essere debilitata e depressa. Monto acconciamente, a questo proposito, è stato ricordato dagli autori il “clinamen” degli epicurei..(…) E’ di pochi giorni addietro l’osservazione di Beilstein, che ha potuto dimostrare e fotografare tracce evidenti di tessuto nervoso nella tiranteria dello sterzo della Opel-Kapitain: tema che ci ripromettiamo di trattare diffusamente in un prossimo articolo. Cladonia rapida in Vizio di forma, ora in P. Levi, Opere, I, a c. di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997, p. 445