A10 128 Avrei un'infinità di parole per ringraziare chi in questo scritto ha con me creduto e non ha mai smesso di starmi vicino. Basterà comunque ricordare che nei dubbi e nelle ansie mi sono rifugiata nei consigli di Paola, che ha dato un nuovo e più sereno senso ai miei studi; nel conforto della mia famiglia che, con immensa pazienza, sopporta i miei lunghi periodi di assenza; nelle premure quotidiane di Aldo che riesce a prendermi sempre per il verso giusto; negli incoraggiamenti di Sara, Angela e Rosita, vittime innocenti dei miei mal/umori… A tutte/i loro dedico questo scritto. a.t. Annarita Taronna The languages of the ghetto Rap, break–dance e graffiti art come pratiche di ® esistenza Copyright © MMV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978 – 88–548–0039–7 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: marzo 2005 INDICE 7 Prefazione di Paola Zaccaria 13 Introduzione 27 Capitolo I In cerca di roots/routes: l’hip–hop o del cronotopo del ghetto 27 42 50 1. Le origini e i luoghi 2. Le tracce della memoria 3. Hip–hop: cultura, sotto–cultura o contro–cultura? Estetica vernacolare 63 Capitolo II Rap, break–dance e graffiti art: la resistenza del soggetto diasporico 63 69 89 1. (Ri)leggendo la diaspora 2. Rap, or talking b(l)ack 3. Politica dell’appartenenza e identità culturale nella break–dance e nella graffiti art 97 Capitolo III Black Power is Black Language La (in)traducibilità del ghetto 97 110 121 1. Black English: lingua o dialetto? 2. Principali caratteristiche fonetiche e morfo-sintattiche 3. Il lessico dei testi rap 5 6 Indice 137 (Ri)capitolando 149 Nota al glossario 153 Glossario 157 Appendice 179 Bibliografia 189 Discografia PREFAZIONE di Paola Zaccaria Le lingue del ghetto: le contro–lingue, le lingue della lotta, della resistenza, dell’intelligenza, dell’ironia, della dissacrazione, della rigenerazione, del popolare e della sofisticazione, delle radici (roots) e delle strade (streets/routes), dell’ibridazione e dell’innovazione. Tutto questo e molto altro ancora, racconta Annarita Taronna, s’incarna nel linguaggio parlato, cantato, musicato, dipinto, ballato dalle ultime generazioni dei figli del ghetto, questo spazio urbano che non si riesce ad eradicare dalle metropoli, anzi si pluralizza — il ghetto nero, quello chicano, quello cinese, ecc. Tutto questo va ad indagare, interrogare, interpellare l’autrice di questo volume, non il primo di una serie di studi recenti sulla musica rap e il fenomeno dell’hip–hop negli Stati Uniti e nelle costellazioni che si dipartono in tutte le ex–colonie, in tutti gli ex–imperi, intorno a pratiche che siamo soliti definire “giovanili”. L’originalità di questo volume discende non tanto dall’aver tracciato origini, motivazioni ed estensione del fenomeno negli Stati Uniti, che pure fa in modo documentato, ma di essersi soffermata: 1 sulla funzione di esercizio di resistenza con conseguente empowering della consapevolezza di sé e della propria eccedenza rispetto al mainstream americano che l’orgoglio per le proprie capacità creative di tipo estetico suscita nei figli del ghetto; 2 sulle questioni della traducibilità/intraducibilità di queste lingue, da cui discende un riconoscimento dell’afroamericano o Black English, non come un sotto–linguaggio, un dialetto, ma come vera lingua, come emerge dal manifesto che Taronna riporta in Appendice, “Hip–hop declaration of Peace”, dove si dichiara che “l’hip–hop è il nome della nostra coscienza collettiva” e si esprime (dunque usa come linguaggio) attraverso la break–dance, i graffiti, il djing, la moda di strada, il linguag7 8 Prefazione gio di strada, la conoscenza di strada e il commercio di strada. Lingua e pratiche di strada sono qui definite cultura “multi– artistica, multi–culturale, multi–razziale”. La strada e il ghetto, dunque, ancora una volta come spazio di comunità, coscienza, conoscenza, arte. Il ghetto, come fu per Harlem, quando un’altra musica, il jazz, infiammò corpi e speranze. Il ghetto e la strada come culla e shuttle di espressioni black “muti–skilled”, che diventano subito pratica politica, potente mezzo per far circolare con il più cheap degli strumenti, il registratore, la voce del ghetto nel ghetto, o esportarla fuori dalle mura del ghetto sparandola ad alto volume nei parchi delle metropoli in cui i ghetti hanno sede e da lì diffonderla oltre i confini della città, della regione, dello stato, della nazione: il ghetto e le sue lingue si fanno navicella spaziale (shuttle) che trasporta i suoni della musica, i movimenti del corpo in danza, i segni così significanti differenza, “devastanti” (to devastate, spiega Taronna nel glossario, significa colorare i muri, tracciare segni) dei graffiti. La musica rap, la break–dance, la graffiti art come manifesto delle avanguardie nere, dell’inesauribile, sempre rinnovata energia creatrice che si srotola dal gomitolo di memoria che ha le sue radici in Africa e che ha saputo, nel work song, nello spiritul, nel blues, nel jazz, nel rythm’n blues, nel rock, nel rap, trovare sempre altre strade, altri suoni con cui irrorare i suoni delle origini e accompagnarsi sulle strade della diaspora, riuscendo sempre, come per miracolo, a sounding black, far risuonare il nero dentro l’altrove della deportazione. Taronna qui parla di almeno tre linguaggi artistici — musica, danza, pittura — che appartengono all’esperienza nera diasporica, ma che sono anche lingue del mondo, panmusicalismo nero che ha saputo, prima ancora che si teorizzasse il transnazionalismo e l’attraversamento dei confini, travalicare stati nazioni e lingue nazionali per approdare, sempre in modo originale, in tanti altrove. Il dizionario di questo lavoro si concrea intorno a parole che hanno a che fare con gli studi culturali (tracce, diaspora, identità Prefazione 9 e appartenenza, resistenza, ecc.) e ne mette in discussione ogni tentativo di “sistematizzare” le culture entro le griglie basso/alto, sotto(cultura)/sopra (“la” cultura egemonica), nazionale/vernacolare, ecc. Il dizionario e l’analisi di questo saggio diventano davvero affinati laddove, nel 3° capitolo, affronta questioni di lessico e traducibilità delle lingue del ghetto, le questioni di traduzione essendo campo d’indagine privilegiato dell’autrice, che questa volta si cimenta con le lingue afroamericane, che sono plurali perché le esperienze da cui discendono sono plurali. Nel pervenire alla consapevolezza della intraducibilità di certi termini della lingua nera del rap in quanto sono “cultural specific”, cioè specifici di quella cultura, Taronna ne esalta la portata reattiva contro la lingua standard dell’ex– padrone e l’effetto di ipervisibilità di una specificità della cultura nera all’interno della cultura neutra prodotta dalla disseminazione della lingua del ghetto nel panmusicalismo odierno. In fondo siamo nell’epoca dell’incessante traduzione, dove liberismo e globalizzazione hanno scoperto di dover fare i conti con la resistenza di coloro su cui si voleva imporre la lingua universale del mercato, e in questo traffico di traduzione di lingue e culture richieste dal transnazionalismo, dobbiamo tutti fare i conti con la scoperta della impossibilità della traduzione totale di una lingua–cultura in un un’altra. Così, in questo gioco inevitabile di tensione fra globale e locale cui tutti si è sottoposti, il rap, dice Taronna, permette «al sottoproletariato giovanile nero di sviluppare una voce critica, di darsi un ‘alfabeto comune’», ma in qualche modo il sistema globale esporta, come detto in precedenza, il (linguaggio del) ghetto altrove e ovunque, e il rap diviene linguaggio comune di generazioni che eleggono la strada luogo d’incontro e creazione d’arte — la strada come fuoriuscita da gallerie e musei1, da teatri e discoteche, dal com- 1 I musei, in Mumbo Jumbo (1972, tr. it. 2003, Milano, ShaKe), sono definiti da Ishamel Reed “Centri per la detenzione dell’arte”. 10 Prefazione mercio e sacralizzazione dell’arte2. Generazioni che in strada imparano a disfarsi del concetto di copyright e, insieme agli utenti della rete, nel riarticolare, rimixare e rimessare testi e stili altrui, si accostano a concezioni non occidentali di opera d’arte come messa in figura di “suoni” e “sensi” della comunità di riferimento (locale), ma anche di quella (globale) a cui ci si sente affiliati planetariarmente tramite la diffusione di suoni immagini e sensi tramite le odierne tecnologie che hanno messo in discussione i diritti d’autore, e dunque la proprietà, e si sono mostrati solidali nell’evitare che il “contagio” della musica nera fosse combattuta con l’immunoterapia destinata ad espellere, uccidere il negro dentro i neri d’America, direbbe Ishmael Reed, scrittore consapevole che il Testo afroamericano negli anni ’20 è riuscito a salvarsi dall’immunoterapia perché “disperso”, “diviso”, “disseminato in giro” nelle mani di portieri, facchini, lustrascarpe, musicisti. Ed è quel testo salvato dalla deportazione e schiavitù che risuonava per Harlem che oggi riecheggia a New York e nel sound panafricano che fa muovere dappertutto a tutti i fianchi, i bacini e i piedi, e “persino la linfa degli aceri canadesi”(Reed, MumboJumbo). 2 La mia lettura tiene conto del rap e della break-dance di strada, non prende in considerazione i fenomeni di commercializzazione e degenerazione del fenomeno. La musica è nostra testimone e nostra alleata. Il beat è la confessione che riconosce, cambia e conquista il tempo. In quel momento la storia diventa un abito che possiamo indossare e condividere, e non un mantello sotto il quale nascondersi e il tempo diventa un amico. James Baldwin 11 12 Introduzione INTRODUZIONE Questo studio nasce da due giornate seminariali tenute nel dicembre del 2003 presso l’Università di Bari e rivolte agli studenti del corso di laurea in Scienze della Comunicazione nell’ambito dell’insegnamento di Lingue e Letterature Americane. Il titolo dato al seminario, Rap Music e Hip–hop: the Languages of the Ghetto, doveva non solo incuriosire, ma indurre un gruppo di giovani interessati alla letteratura e alla cultura americana a constatare come un fenomeno musicale globale quale l’hip–hop, avesse radici antiche e profonde. Partendo dalla riflessione sul titolo, gli studenti si sono da subito interrogati sulla scelta linguistica, “metà in italiano” e “metà in inglese”, che intendo qui illustrare perché si ritrova, in parte, a intitolare questo volume. La scelta del titolo bilingue è legata alla complessità del termine language e alla difficoltà di tradurre in una sola parola italiana la polivalenza semantica insita nel termine inglese. In particolare, la sua polisemia si dispiega nel riferirsi sia alla lingua parlata dagli esseri umani, cioè l’idioma (l’equivalente in francese è langue, in spagnolo lengua) sia al linguaggio, ossia il codice semiotico della comunicazione verbale e non verbale (in francese language, in spagnolo lenguaje). Appare evidente che là dove le lingue di origine latina hanno un termine differente per ciascuno dei due concetti citati, l’inglese, invece, possiede una peculiarità semantica che ingloba due significati in una sola parola. Di conseguenza, l’espressione the languages of the ghetto segue una duplice via allusiva e interpretativa, che confluisce qui nella proposta di un’analisi approfondita del rap, e in generale della break–dance e della graffiti art in quanto strumenti per codificare certi elementi della comunicazione sia verbale che non verbale. Difatti, da un lato si esploreranno le componenti socio–linguistiche della musica rap (dall’uso di un inglese non standard a quello di un lessico concreto ed emotivo, dalla funzione poetica del linguaggio incisa nell’accordo tra rime e 13 Introduzione 14 ritmo, all’introduzione e manipolazione di voci e suoni “fuori campo” che rimandano a personaggi storici e politici, sirene delle automobili della polizia, al decollo degli elicotteri, ai colpi di pistola, al rumore di un bicchiere che si frantuma o a quello di gocce che cadono) e loro relazione con le strategie verbali proprie della tradizione orale africana; dall’altro, si tenterà di presentare una descrizione più breve ma esauriente di certe espressioni del linguaggio non verbale, quali quelle visive e corporee che caratterizzano la break–dance e la graffiti art, per interrogarsi su come la gestualità, il movimento, il ritmo scandito dal corpo possano sottendere una politica dell’appartenenza (politics of belonging) e dell’identità culturale (politics of cultural identity). Tornando all’analisi del titolo, si scopre che la parola language non è l’unica ad avere valenza polisemica. Vi è, difatti, il termine rap che assume diverse e straordinarie connotazioni, a cominciare dall’ uso come sostantivo per alludere, nello slang, o a (a) imputazioni della polizia contro un individuo o (b) a certe cose farfugliate dai giovani per fare colpo sulle donne. Nello street language, con tale sostantivo si intende anche a guy’s line of bullshit, his pick–up line, cioè il cumulo di fandonie, di “stronzate” a cui ricorre un ragazzo per spavalderia. Come verbo to rap ha diversi usi1. Da semplice sinonimo di to speak al più specifico to have a conversation with someone, cioè intessere una conversazione con qualcuno, come nella frase I’m rappin’ with my homie2 che equivale all’inglese più standard I’m having a conversation with my homeboy. Ma il verbo to rap significa anche to knock on someone’s door or window, cioè bussare alla porta o alla finestra di qualcuno sperando di essere ricevuto o per constatare che sia in casa. Dunque, quasi tutti questi significati sottendono concettualmente quanto è noto come rap music. 1 Cfr. la voce rap sia nel Dizionario Il Ragazzini 2003, Zanichelli, Bologna, 2003 che in Oxford Advanced Learner’s Dictionary, Oxford, OUP, 1990. 2 Con homie o homeboy si intende un amico dello quartiere, un vicino di casa.