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SULLA LIBERTA': RIFLESSIONI
Introduzione
La libertà è una delle questioni centrali e più dibattute di tutta la filosofia.
Alcuni sostengono, addirittura, che sia, in fondo, l'unico grande “problema” filosofico, perchè tutti
gli altri, alla fine, si ridurrebbero a questo.
E infatti, non solo la filosofia se n'è costantemente occupata, pur non addivenendo a nessuna
soluzione “definitiva” - aspetto, questo, che fa sempre dire ai detrattori della disciplina che con la
filosofia non si va mai da nessuna parte e che, all'opposto, fa dire ai filosofi che la apertura sempre
non dogmatica e sempre “in divenire” è proprio ciò che rende nobile, “onesta” e proficua la ricerca
– ma anche la teologia, le religioni, le diverse tradizioni spirituali, la letteratura e, mi viene da dire,
l'uomo stesso che, volente o nolente, non può eludere questa tematica.
Mi spiego meglio: che noi si abbia riflettuto o meno sulla libertà, che noi si sia o meno tematizzato
esplicitamente il “problema”, comunque, de facto, viviamo secondo una certa idea, una certa
concezione di libertà che crediamo essere quella adeguata, quella “vera”.
Mi spiego ancora meglio: le posizioni, anche filosofiche, sul tema in questione, sono
tradizionalmente, ma anche intuitivamente, fondamentalmente due, pur con una serie di diverse
declinazioni e sfumature interne.
Sembriamo, a prima vista, posti di fronte ad un aut aut: o la libertà esiste o non esiste. O siamo
liberi o non lo siamo. Tertium non datur. O almeno così pare.
Vediamo di dettagliare meglio queste due opposte visioni del mondo e del nostro ruolo nel mondo,
senza pretese di esaustività e, purtuttavia, analizzando, almeno per sommi capi, le conseguenze che
derivano da un convincimento piuttosto che dall'altro.
Facciamo, cioè, un primo ragionamento filosofico, dato che una delle caratteristiche della filosofia è
proprio quella di “stressare” i concetti, cioè di cercare di “tirarli” fino ai limiti estremi per
verificarne la “tenuta”.
Se io penso di essere libero
Ora, se io penso di essere libero, si capisce subito quali implicazioni pratiche abbia questa idea sulla
mia vita, anche quotidianamente: penserò di poter fare ciò che voglio, di essere padrone delle mie
scelte e delle mie decisioni, sarò convinto che tutto ciò che succede e/o non succede dipenda da me.
Questa è una posizione molto forte, molto sostenuta in ambito filosofico, in tutte le epoche, ma
forse, soprattutto, in quei momenti storici che hanno visto l'uomo come potente, come “artefice del
proprio destino”.
A me sembra che questa sia anche la posizione dominante in questo nostro tempo dove, complice
l’estremo sviluppo della scienza e della tecnica, l’essere umano si sente molto “forte” e gli sembra
di poter conoscere, e anche di dominare, molti ambiti della sua vita e di quella del mondo.
Se io penso di non essere libero
Ora, se invece penso di non essere libero, mi muoverò nella vita credendo di non avere alcun potere
su di essa (e magari neanche su me stesso), penserò che tutto ciò che mi accade dipenda da “altro”,
mi sentirò “vittima” del destino o “cullato” dalle braccia del fato. (Nota 1)
Se volessimo fare un ulteriore passo avanti, potremmo anche notare che, in questo secondo caso, il
fatto di non essere libero potrei intenderlo in diversi modi: potrei pensare che un “Essere superiore”
abbia già stabilito la mia vita, l’abbia, come si dice, “predestinata”, e potrei vivere questa idea con
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un senso di frustrazione e impotenza o, al contrario, sentendomi molto sollevato che “qualcuno” – o
“qualcosa” – abbia già predisposto tutto per me. (Nota 2)
Ma, sempre all’interno di questa posizione, potrei anche pensare che non ci sia nessun Essere
superiore che ha già scritto la mia vita, ma semplicemente che la mia mancata libertà derivi da un
certo determinismo, fisico e/o psicologico, cioè potrei pensare che le mie scelte dipendano dalla mia
“costituzione”, da come sono fatto, in una catena “scientifica” di “azione e reazione”.
Dopo aver posto, seppur per sommi capi, le due idee base sulla libertà umana, vediamo le maggiori
conseguenze che ne scaturiscono.
Se io penso di essere libero: conseguenze
Orbene, se io sono convinto di essere libero, vivrò con grande senso di responsabilità ogni mia
scelta perché, dal momento che essa dipende da me e da me solo, quello che ne scaturirà sarà solo
“merito” o “colpa” mia.
Allo stesso tempo, avrò una idea dell’uomo molto “forte”: penserò che egli è dotato di tutte le
strutture adeguate a guidarlo nelle scelte, penserò che “volere è potere” e penserò anche di poter
agire sulla mia stessa volontà e, nondimeno, sul mondo esterno, che utilizzerò e userò per
perseguire quegli scopi che mi sono liberamente scelto utilizzando i mezzi che liberamente riterrò i
più opportuni.
Il problema maggiore che deriva da questa posizione è la constatazione che, spesso o raramente,
nella vita ci “accadono” delle cose che non dipendono affatto da noi (o almeno così sembra) e sulle
quali non abbiamo alcun potere (o almeno così sembra) se non quello di farvi fronte come meglio
possiamo.
Lasciamo per il momento in sospeso questo discorso e vediamo le conseguenze dell’altro punto di
vista, ovvero di quello che sostiene che io non sono libero.
Se io penso di non essere libero: conseguenze
Come accennato, questo può provocare due sentimenti opposti: o sarò terribilmente frustrato o sarò
assolutamente confortato da questa prospettiva. O mi sentirò “incatenato” o del tutto tranquillo,
perché nulla dipende da me e quel che arriva arriva. Il rischio maggiore di questo approccio è quello
di cadere in una sorta di “immobilismo” e deresponsabilizzazione totale: potrei, estremizzando,
sedermi sul divano e aspettare, tanto niente posso io su ciò che accade.
Butto lì un pensiero che non svilupperò oltre: ma anche ammesso che io stia “fermo” in attesa degli
eventi, non sono forse io che ho “scelto” di fermarmi? E scegliere non è forse esercitare la libertà?
O c’è “qualcosa” che mi “costringe” all’immobilismo e che da me non dipende e che io solo
“subisco”?
Come si intuisce da queste prime riflessioni, la questione non è affatto banale e, soprattutto, non
può non riguardarci molto molto da vicino.
“Libero arbitrio” e “Libertà”
A questo punto, però, vi devo confessare che sono stata filosoficamente scorretta, seppur
volontariamente e per un ben preciso scopo. Ovvero: ho parlato finora di “libertà”, ma non ho mai
detto che cosa intendo con questo termine. Questa operazione, invece, l’operazione di definizione, è
la prima da fare, sempre, quando si voglia affrontare seriamente un discorso filosofico. Bisogna
preventivamente capirsi sui termini che si usano, perché l’idea di libertà che ho in testa io non è
affatto detto che sia quella che avete in testa voi: pur se la parola che usiamo è la stessa e, almeno
nel suo significato letterale, ci possiamo intendere (altrimenti non potremmo nemmeno parlarci),
non è detto – anzi, non è mai così – che il “senso” che noi attribuiamo al termine sia il medesimo.
Ho appositamente condotto il ragionamento in questo modo per farvi riflettere sul fatto che è quello
che facciamo tutti, tutti i giorni, in tutti i contesti. E per mettervi in guardia sul fatto che è una delle
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principali cause di incomprensione e conflitto, con gli altri, ma prima ancora con noi stessi.
Cosa vuol dire, quindi, “libertà”?
Innanzitutto, è bene specificare che “libertà” e “libero arbitrio” non sono esattamente sinonimi,
anche se spesso vengono utilizzati come tali.
Il “libero arbitrio” attiene ad un livello base, per cui io sono libero di fare/non fare delle cose/azioni,
determinandomi secondo una scelta autonoma e senza costrizioni e ce l’abbiamo tutti (se crediamo
di averlo).
La “libertà” rimanda non solo al concetto di libera scelta, ma ha in sé qualcosa di più “alto”, nel
senso che io – oltre a fare/non fare delle cose/azioni – tendo anche a “realizzarmi come progetto” o
a “realizzare me stesso”, a esplicare le mie potenzialità, se così si può dire. (Nota 3)
La “libertà” rimanda all’idea di una conquista che si può raggiungere o meno, alla realizzazione di
un progetto più “alto” (senza nessuna accezione religiosa), e non ce l’abbiamo tutti, anche se tutti,
potenzialmente, possiamo raggiungerla.
Per semplicità, comunque, credo sia utile continuare a usare il termine “libertà”, senza, ogni volta,
specificare ulteriormente.
Libertà assoluta?
Eccoci quindi giunti a quello che, a me pare, è il nocciolo vero della questione.
Ecco che si reimpone, in maniera forte, la domanda: di che genere di libertà stiamo parlando quando
ci chiediamo se siamo o non siamo liberi?
Intendiamo che possiamo fare/essere tutto quello che vogliamo, senza limitazione alcuna, o
intendiamo che possiamo (e/o, forse, dobbiamo) fare/essere quello che possiamo (e/o, forse,
dobbiamo) essere?
Mediamente, quando noi chiamiamo in causa il concetto di libertà, ci riferiamo ad una idea di essa
che sembra rimandare all’assenza di vincoli, una sorta, diciamo così, di “libertà assoluta” (adsolutus = sciolto, slegato).
Ma ha senso parlare di libertà assoluta nella nostra dimensione umana, anche solo pensando che
siamo qui, in un certo tempo e in un certo luogo e che non possiamo essere altrove (non
simultaneamente, almeno) e che, lo si voglia o no, siamo qui “fatti” in un certo modo, ma che,
soprattutto, non abbiamo scelto noi di essere, ma ci siamo trovati “gettati nell’essere”, come
avrebbe detto Heidegger?
Ora, una trattazione esaustiva e rigorosa della faccenda, renderebbe necessario, io credo, affrontare
discorsi assai profondi inerenti lo spazio, il tempo, il nostro destino, l’immortalità o meno di quella
che chiamiamo “anima”, la sua preesistenza o meno rispetto a quello che chiamiamo “corpo”, la
credenza o meno nella reincarnazione, e molto altro ancora. E’ evidente che non possiamo pensare
di affrontare tutti questi temi in un unico incontro…ammesso che basti una vita per dare una
risposta.
Se la questione viene così posta, non se ne esce e si è costretti a optare per una delle due ipotesi
sopradescritte, con tutte le conseguenze del caso. Ma, forse, c’è un altro modo di impostare il tema,
che può fornirci, se non necessariamente una soluzione, magari nuovi spunti di riflessione.
Proviamo ora a riflettere in maniera nuova anche se vedremo che, in realtà, nuova non è per niente,
ma piuttosto è una via che è stata “dimenticata”, ma che permea nel profondo tutta la nostra cultura,
pur se nel tempo ha seguito vie sotterranee.
E partiamo da un fatto - incontrovertibile – ovvero dal fatto che noi “ci siamo”, “esistiamo”.
Non è banale, anzi, è l’origine di tutto il discorso successivo.
Indipendentemente dalla nostra cultura, dalla nostra fede religiosa, dal nostro carattere e dalle nostre
idee, più o meno esplicite e consapevoli sul destino, dobbiamo constatare che il fatto di essere qui,
in questa vita, non dipende da noi.
Questo non significa necessariamente che dobbiamo credere di essere stati creati da un essere
superiore, né che dobbiamo per forza tirare in ballo Dio e/o gli dei, ma il fatto resta: noi siamo qui,
e non l’abbiamo - in nessun modo – “deciso” noi.
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Ora, anche coloro i quali non abbiamo mai affrontato esplicitamente tale ardua tematica, hanno
comunque dovuto fare i conti con questo “fatto”, anche se, in parole povere, magari non se lo sono
mai detto.
Ognuno di noi si trova così a dover decidere, per forza, in una situazione di partenza che è del tutto
al di fuori del suo potere di determinazione.
“Ci piaccia o no, essa ha vigore non perché prendiamo interesse a essa, ma, al contrario (…) non
può non interessarci, perché s’impone necessariamente.” (Nota 4)
Qui scatta automaticamente una delle grandi domande filosofiche: Perché continuare a esistere? E,
si noti bene, questo non vuol dire necessariamente pensare alla possibilità di una nostra
“soppressione fisica”, ma significa chiedersi cosa vuol dire “esistere”, “essere”, nel senso più pieno,
bello e profondo del termine.
“La scelta non è quindi un fenomeno primario, ma è radicata e resa possibile da un atto originario
di obbedienza, qual è il riconoscimento di una necessità”. (Nota 5)
La libertà dell’uomo si gioca solo e tutta dentro questo “spazio”, che non è uno spazio assoluto, ma
per forza di cose “limitato” da questa condizione originaria.
E non è affatto semplice riconoscere e accettare questo “qualcosa” che esiste indipendentemente da
me e che io posso solo accettare o meno, ma non posso cambiare in alcun modo.
“(…) l’atto con cui mi risolvo ad assumere come un tutto la mia esistenza è ciò in virtù di cui, per
la prima volta, nasco per me a partire da me stesso”. (Nota 6)
Riflettere su questo, oppure non riflettere ma fare questo, è come nascere una seconda volta…e
questa volta sì per mia decisione!
“In questo atto altissimo di cui è capace ogni essere umano si ha la perfetta unità di ricevere e
offrirsi a ciò che si è ricevuto: paradossalmente, il nostro primo atto veramente libero, è un
“sacrificio”. Ricevo la vita e il mio legarmi ad essa significa da un lato, dire “sì” alla necessità
originaria (che non dipende da me) e dall’altro dire “no” alla semplice sopravvivenza legata solo
agli istinti e ai bisogni, tipica del mondo animale o del nostro stadio istintuale. L’epoca moderna,
soprattutto, si è dimenticata in maniera drammatica di questo “sacrificio originario e
indispensabile”, perché ha creduto di poter esercitare una libertà assoluta, ma forse questo è solo
un sogno (…) sogno di diventare felici rinunciando al peso del destino. Per non portare pesi, mi
libero dell’essere. Come se la beatitudine coincidesse con la vacuità.” (Nota 7)
E ancora: “Il mio inizio e il mio esser principiato è un dono di me a me. E la mia iniziativa, il mio
cominciare, è un mio consenso a essere. (…) L’uomo dunque, in quanto si trova come libertà e
identità di dono e consenso, cioè è nient’altro che libertà”. (Nota 8)
Prospettiva terribile?
“Cos’è allora questo riconoscimento del limite, questo esporsi a ciò che trascende e da noi non
dipende, questa accettazione piena e consapevole di vita ma anche di pensiero, del nostro situarci
in un orizzonte? E’ Amor fati. Amare la realtà per quel che è, amare l’avvenire per quel che sarà,
come si accoglie il passato da cui discendiamo (…). Lasciar essere le cose, gli altri, la vita, il
cosmo; riconoscere il mondo, e accettare la destinazione.” (Nota 9)
La “terza via”
A questo punto del ragionamento, probabilmente abbiamo le idee ancora più ingarbugliate…quindi
cerchiamo di seguire quella che potremo definire la” terza via” rispetto alle due posizioni estreme
sopracitate che vedono, da un lato, l’uomo come “libertà assoluta” in grado di decidere tutto per sé
e per la propria vita e, dall’altro, l’uomo in totale balia di una vita già tutta decisa e predeterminata
da “qualcosa” o “qualcun altro”. E cerchiamo anche di capire come si inserisce nel ragionamento
questo “strano” discorso della “necessità originaria” per cui ci troviamo a esistere senza che questo
dipenda da noi.
La “terza via”, come si diceva, non è per niente nuova, anzi, è antichissima solo che si è un po’
“persa”: in parte è stata dimenticata, in parte è stata tramandata in modo diverso, così da rendere
difficile riconoscerne l’origine e il significato vero e profondo.
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Ci aiutano, ancora una volta, gli antichi Greci, e ci permettono di recuperare alcune idee che –
seppur apparentemente lontane nello spazio e nel tempo – sono attualissime e, anche ripensate in
chiave moderna, possono offrirci interessanti spunti di riflessione.
Vediamo allora cosa pensavano i Greci del Destino e a cosa può “servire”, a noi, saperlo.
Per esaustività di informazione, ricordiamo che il mondo greco non ha una unica e monolitica idea
su questo argomento e, all’interno della stessa cultura, ci sono state delle evoluzioni del pensiero e,
comunque, sono state sostenute posizioni differenti o non perfettamente uguali. Per il nostro
discorso, ci baseremo sulla celebre narrazione che Platone fa nel “Mito di Er” (Repubblica, Libro X)
I Greci, che amavano spiegare le cose della vita, grandi e piccole, attraverso i miti, raccontano che,
nell’aldilà, le anime singole – prima di essere “gettate” in questo mondo - hanno la possibilità di
scegliere il loro destino tra una vasta gamma di “vite disponibili” che esse hanno modo di poter
“visionare” (Tralasciamo i dettagli di come ciò avvenga e tralasciamo, anche, il fatto che una parte
della cultura greca credesse alla reincarnazione: questi argomenti ci porterebbero troppo lontani dal
nostro ragionamento e ci farebbero entrare in territori che meriterebbero ben più ampio
approfondimento. Tuttavia, possiamo seguire ugualmente il ragionamento, nei suoi tratti
fondamentali, anche senza approfondire questi due aspetti e anche senza “credere” alla
reincarnazione).
Nel “Mito di Er” troviamo la prima – celeberrima - formulazione del concetto di libertà di scelta
individuale del pensiero occidentale: “Non sarà un dèmone a ricevervi in sorte, ma sarete voi a
scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita cui sarà poi
irrevocabilmente legato. La virtù non ha padrone; secondo che la onori o la spregi, ciascuno ne
avrà più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile”. (Nota 10)
Ebbene, una volta che ogni anima ha scelto la sua vita e che – attraverso una particolare operazione
– essa viene privata della facoltà di ricordare, una volta quaggiù, sia la vita scelta che il motivo per
cui l’ha scelta, interviene Ananke, la dea Necessità, che la tradizione rappresenta come colei che
ruota il fuso sul quale è avvolto il filo della nostra vita. Ananke (Necessità) siede su un trono e
vicino a lei stanno le Moire, sue figlie, compagne e aiutanti. Con il termine Moira i Greci
designavano il Fato e, letteralmente, significa “la parte assegnata”. Quindi, quando è giunto il
momento che l’anima lasci l’aldilà per venire al mondo, Ananke recide di netto il filo di quella vita
particolare, che stava filando, dando inizio all’esistenza terrena e rendendo quella vita “necessaria”.
Solo che, una volta qui, come abbiamo detto, nessuno può “ricordare” quanto avvenuto e quindi si
trova a “brancolare nel buio”, anzi, “si troverebbe a brancolare nel buio”, se ad ognuno di noi non
venisse affidato un daimon personale (o se ognuno di noi non fosse affidato a un daimon…) che ha
il compito di “prendersi cura di noi” e, anche, di “manifestarsi”, a tratti, per farci ricordare il
“motivo” per cui siamo qui.
Ecco, succede quindi che ci sia un “disegno intelligente” della nostra vita, e che questo sia un
disegno “necessario”, nel senso che siamo qui con un “compito”, per “fare qualcosa” e la “necessità”
sta nel fatto che lo “dobbiamo” proprio fare.
Attenzione che il “compito” non deve essere inteso come un “compito eccezionale”: qualsiasi e
ogni vita ha il “suo” compito, e non è meno importante il compito di un uomo “qualunque” rispetto
al compito di un uomo “eccezionale”.
Questo “compito” non ci viene “imposto” dall’”esterno” da qualche dio e/o divinità, “buona” o
“cattiva”, ma “in qualche modo”, l’abbiamo “scelto” e “condiviso” e, anzi, in ogni momento
dobbiamo “ri-scegliere” e “ri-condividere”. Il “problema” sta nel fatto che noi non “ricordiamo”
niente di tutto ciò…ma potremmo anche dire che abbiamo “perso il collegamento” con la nostra
parte più “profonda” e “divina”.
Il nostro daimon personale “serve” da “monito”, da “campanellino” per farcela ricordare, almeno
ogni tanto.
Estremizzando – e forse anche un po’ semplificando troppo – potremmo, al limite, dire che, se ci
fosse perfettamente chiaro il “motivo” per cui stiamo vivendo la nostra vita, non saremmo così
angosciati di fronte alle scelte e al futuro, anche se queste scelte dipendono sempre da noi, pur
situandosi in un “orizzonte” più ampio.
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Ma la condizione umana non è evidentemente questa, potremmo però provare a riflettere sul
perchè… Potremmo chiederci perché, di fronte alle scelte della vita, spesso ci sentiamo come
“smarriti”… Potremmo anche chiederci quali “facoltà” entrano in gioco di fronte agli eventi grandi
e piccoli della nostra esistenza: la ragione? il cuore? l’istinto? un mix di queste? o di altre?
Mi rendo conto che questo linguaggio, per noi non usuale, può ingenerare una serie di
fraintendimenti e, spesso, può far subito pensare ad una prospettiva impregnata di religiosità, ancor
più di un tipo di religiosità molto distante dal nostro comune sentire.
Insomma, non è semplice né immediato leggere tra le righe di “dei”, “daimon”, “reincarnazione”,
viaggi nell’aldilà dai quali poi torniamo, ma forse si tratta solo di tradurre in un linguaggio a noi più
affine tutta questa questione.
Priviamo allora a fare questo, cioè proviamo a leggere in maniera metaforica, se così si può dire, il
mito platonico. A ben guardare, se non ci focalizziamo sul significato letterale ed esuliamo da alcuni
elementi specifici tipici della mentalità e del periodo storico in cui Platone formulò il suo pensiero,
questo racconto può avere un significato “universale” e classico, ovvero valido per tutti e in tutti i
tempi.
Possiamo intendere, a mio avviso, che il grande filosofo abbia voluto dirci che la nostra vita è in
mano nostra, ma non secondo l’idea moderna di libertà assoluta, quanto piuttosto secondo la
raffinatissima idea greca che percepiva un profondo connubio tra la libertà e la necessità, tra noi e il
mondo, tra l’uomo nella sua parte “umana” e la sua parte “divina”.
L’uomo greco pensava che tutte le cose del mondo, e quindi anche l’uomo, e anche tutte le “cose
divine”, e quindi anche gli dèi, avessero un “limite”, cioè fossero fatte in un certo modo, che
costituiva la loro “essenza” più profonda. Ora, in questo contesto, ciò significa che, per esercitare la
propria libertà, l’uomo non deve comunque superare il suo proprio limite: l’essere umano in
generale – e ognuno di noi in particolare – ha alcune caratteristiche e non altre, può fare alcune cose
e non altre e questo gli deriva dalla “natura”, cioè dalla sua “costituzione effettiva”, potremmo dire.
Pertanto, esercitare davvero la libertà significa, in primo luogo, comprendere profondamente quale
sia questo limite, cioè quali siano i “confini” entro i quali abbiamo spazio di manovra e, dentro a
questi, esprimerci al massimo. Non a caso, ricorre spesso, nel pensiero greco antico, il famoso
precetto dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”, che è operazione quanto mai difficile e per nulla
scontata, solo esperendo la quale, tuttavia, possiamo pensare di vivere questa vita non solo
“liberamente”, ma, addirittura, felicemente. Eh sì, perché la “felicità” non è intesa come fare tutto
ciò che si vuole e/o avere tutto ciò che si desidera, quanto piuttosto come fare tutto ciò che
dobbiamo/possiamo fare e desiderare tutto ciò che dobbiamo/possiamo desiderare.
Un piccolo esempio ci può forse aiutare. Se io, ad esempio, volessi fare la ballerina, dovrei
ragionare più o meno così, se volessi immedesimarmi in questo tipo di pensiero: ho la struttura
adatta, fisicamente, per fare la ballerina? Ho il carattere adatto per sopportare la disciplina
dell’allenamento e i sacrifici che ne derivano? Se la risposta è sì, allora posso “legittimamente”
pensare che questo desiderio che sento sia “buono per me” e che perseguirlo mi porterà alla
realizzazione e, quindi, alla felicità, perché arriverò ad esprimere la mia “virtù”, cioè la mia
“eccellenza” (senza nessun significato moralistico). Se la risposta è no, la conclusione non è che
allora non sono libera di fare la ballerina: posso comunque decidere di intraprendere questa strada,
nessuno me lo “vieta” (libero arbitrio salvo!), tuttavia, poiché i miei “limiti” mi impediranno di
raggiungere la “virtù”, mi autocondanno alla frustrazione e alla infelicità, perché ho scelto di fare
una cosa che non era quella che “dovevo” fare, per cui ero “destinato”, se vogliamo dire.
Si capisce, credo, che in questa ottica non ci si immagina nessun Dio onniscente che “sa già” quello
che farò e non farò e del quale io devo misteriosamente indovinare i progetti, quanto piuttosto si
tratta di capire, ognuno per sé, “come” siamo fatti, “cosa” ci si addice, “quali” sono i nostri desideri
“leciti” e quali no, così da operare e vivere in armonia e conformità ad essi. Questa, all’uomo greco,
non sembrava una diminutio della libertà, ma l’espressione massima della libertà stessa, che egli
percepiva come alta conoscenza e consapevolezza della nostra natura e costituzione, fisica e
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psicologica, diremmo noi.
Si può intuire, inoltre, come capire – davvero – quale sia questa nostra “natura” non sia poi così
semplice e immediato, dal momento che molti sono gli elementi “disturbanti” e “ingannatori”.
Mi viene qui in mente Baruch Spinoza, importantissimo filosofo del ‘600, che nella sua Etica molto
ha disquisito di libertà e che, semplificando, pensa questo: solo per Dio libertà significa assenza
totale di condizionamenti, perché Egli è la causa stessa del suo esistere, cioè non ha “bisogno” che
qualcuno o qualcosa “lo faccia esistere”, mentre per l’uomo che, come abbiamo già visto, non si dà
l’essere da sé, ma “si trova” ad esistere, la libertà non può che essere “condizionata” dai “motivi” e
dalle “ragioni” per cui esiste ed esiste in un certo modo. Idealmente, ci dice Spinoza, anche noi
potremmo essere liberi incondizionatamente, se arrivassimo a comprendere in maniera totale e
completa alla maniera di Dio, cosa che, però, di fatto, non è possibile raggiungere.
Conclusioni e questioni aperte
La questione della libertà non può certo intendersi così esaurita né dettagliata in tutte le sue
numerose sfumature, tuttavia, l’intento della presente trattazione ha voluto essere quello di
introdurre molti concetti, molte idee, forse alcune per alcuni nuove, e questo per inserire nuovi
elementi che ci diano la possibilità di provare a riflettere in maniera nuova.
Questo è uno dei compiti della filosofia, con la doverosa specifica che la riflessione che viene
proposta in ambito filosofico non intende mai essere fine a se stessa perché la filosofia sa – da
sempre – che il pensiero e, si auspica, la comprensione, non è il punto di arrivo bensì
l’imprescindibile punto di partenza. E’ condizione necessaria ma non sufficiente – e purtuttavia
necessaria – per poter poi legittimamente pensare di trarre dal pensiero quelle che noi potremmo
chiamare le “conseguenze pratiche”, cioè “qualcosa” da “applicare” poi nella vita “concreta”.
Ho detto “quelle che noi potremmo chiamare” perché un filosofo – tantomeno un filosofo greco –
mai si esprimerebbe così, dal momento che la contrapposizione tra “teoria” e “pratica”, tra
“pensiero” e “vita” viene sentita solo “dall’esterno” della filosofia, mai dall’interno.
Chi “fa” il filosofo potrebbe esprimersi così, ma chi “è” filosofo mai! Perché, a ben guardare, c’è
davvero differenza tra ciò che penso e ciò che faccio? Tra ciò che comprendo e ciò che sono?
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Note
Nota 1: “Destino”, “fato”, ma anche la loro accezione cristiana di “provvidenza” non sono perfettamente sinonimi. Per
agilità di trattazione, tuttavia, in questo contesto noi li utilizzeremo come se lo fossero. In filosofia il fatalismo è la concezione che considera le vicende del mondo governate da un destino predeterminato, già stabilito. È spesso usato nel
senso di determinismo sociale. Il fato può essere vissuto come provvidenziale, tramite la fede che un ordine cosmico,
detto Logos, presieda alla vita di tutti i giorni. In questo caso si è disposti ad accettare passivamente il corso degli eventi
senza tentare di modificare lo status quo. Ma esiste pure un fatalismo ritenuto esiziale, rovinoso, funesto, illogico, disordinato e perciò indegno di fede/fiducia;
Nota 2: Nemmeno “predestinazione” e “predeterminazione” sono perfettamente sinonimi, ma, anche in questo caso e
per le stesse ragioni indicate in Nota 1, qui li utilizzeremo come se lo fossero;
Nota 3: Il “libero arbitrio” è il concetto filosofico e teologico secondo il quale ogni persona è libera di scegliere da sé
gli scopi del proprio agire, tipicamente perseguiti tramite volontà, nel senso che la sua possibilità di scelta è liberamente
determinata. Ciò si contrappone alle varie concezioni secondo cui questa possibilità sarebbe in qualche modo
predeterminata da fattori sovrannaturali (destino), o naturali (determinismo), per via dei quali il volere degli individui
sarebbe prestabilito prima della loro nascita: si parla allora a seconda dei casi di predestinazione, servo
arbitrio o fatalismo. Il servo arbitrio è quel concetto filosofico e teologico secondo cui l'essere umano, nella condizione
in cui attualmente si trova, non è libero nello scegliere di compiere ciò che è bene di fronte a Dio e quindi di essergli
gradito e così guadagnarsi la salvezza, perché la sua volontà è asservita al peccato e non può fare altro che ciò che Dio
considera un male. Secondo questa dottrina, infatti, l'essere umano non può liberamente scegliere tra bene e male. Solo
un sovrano e diretto intervento di Dio lo Spirito Santo lo può liberare. Questo è ciò che Dio fa in coloro che dall'eternità
egli ha deciso, immeritatamente da parte loro, di impartire la grazia della salvezza;
Nota 4: FRANCO CHIEREGHIN, Possibilità e limiti dell’agire umano, Genova, Marietti, 1990, pag. 121;
Nota 5: Ivi;
Nota 6: Ivi, pag. 123;
Nota 7: MARCELLO VENEZIANI, Amor fati, Milano, Mondadori, 2010, pag. 9;
Nota 8: LUIGI PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Giulio Einaudi Ed., Torino 1995 e 2000,
pag. 17;
Nota 9: MARCELLO VENEZIANI, Op. cit., pagg. 14-15;
Nota 10: Una precisazione va fatta sulla figura del daimon: innanzitutto non si tratta di un “demonio”, come verrebbe
d’istinto pensare.
In secondo luogo, daimon è un termine di genere neutro, quindi né maschile né femminile, e quindi non rimanda a una
“entità personale”, ma quanto piuttosto a un “fatto”, un “evento”. Tale “fatto”, “evento” o fenomeno è sicuramente di
origine soprannaturale o divina. Non è semplice per noi afferrare questo concetto in maniera completa perché
diversissima è la nostra cultura e anche il nostro approccio “religioso” rispetto a quello greco. “Accontentiamoci”
quindi di sapere che ognuno di noi ha il suo daimon, il quale “in qualche modo” si fa “sentire” e ci fa “accorgere” della
sua “presenza”, ma non sempre, solo “qualche volta”. Possiamo azzardare a dire che al daimon greco sono stati dati
anche altri nomi nel corso del tempo…quali, ad esempio, “vocazione”, “carattere”, “anima”, “angelo (custode)”. Questi
concetti non sono perfettamente sinonimi, ma la realtà alla quale rimandano è la stessa. (GIOVANNI REALE, Storia
della filosofia antica, Vol. I, Milano, Vita e pensiero, 1975 – 1980, pagg. 346-352 e JAMES HILLMAN, Il codice
dell’anima, Milano, Adelphi, 1997, pag. 259);
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