versione definitiva - Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna

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Filarmonica
del Teatro Comunale
di Bologna
n.02 febbraio 2010
Orchestra europea
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Antica Profumeria
Al SACRO CUORE
Galleria “Falcone – Borsellino”, 2/E
(entrata di via de’ Fusari)
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Mark Birley
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EDITORIALE
Ogni epoca, per trovare identità e
forza, ha inventato un’idea diversa di
‘classico’. Così il ‘classico’ riguarda
sempre non solo il passato ma il presente e una visione del futuro. Per dar
forma al mondo di domani è necessario ripensare le nostre molteplici radici.
Così scrive Salvatore Settis in Futuro
del ‘classico’ (Einaudi 2004). Apprezzato
archeologo e direttore della Scuola
Normale di Pisa, in questo piccolo ma
denso volume Settis esamina il senso del
‘classico’ nelle arti figurative, nella scultura,
nell’architettura. Le sue considerazioni mi
danno lo spunto per una breve riflessione
sul mondo della musica, in particolare la
musica detta per l’appunto ‘classica’ o, con
un’espressione che personalmente trovo
molto fuorviante, ‘colta’. Ovvero: come ci
poniamo, al di là delle lamentazioni per il
progressivo erodersi della presenza della
‘nostra’ musica nei mezzi di comunicazione, nei programmi culturali dei governi che
si succedono, in una parola nella società,
noi che viviamo di essa e voi che con entusiasmo ne siete partecipi come ascoltatori?
Torniamo ancora a Settis: via via che si
sa sempre meno dell’antichità greca o
romana, tanto più si consolida nel
nostro paesaggio culturale l’immagine delle civiltà ‘classiche’ (specialmente la greca) come la radice ultima
e unica di tutta la civiltà occidentale,
come il deposito dei valori più garantiti e alti. Tale immagine, potentemente operativa proprio perché data per
scontata, resiste, e anzi si consolida,
proprio mentre più marcato si va
facendo, e proprio in Occidente, il
distacco dal mondo ‘classico’ della
cultura più condivisa e dei più diffusi
percorsi educativi. Meno sappiamo il
greco e il latino, meno leggiamo quelle letterature, e più parliamo dei Greci
e dei Romani, ma in modo sempre più
sclerotizzato, convenzionale, morto.
Mi pare che l’uso scontato, la citazione
decontestualizzata, la banalità dei riferimenti di cui soffrono Mozart, Verdi, Rossini,
Wagner e molti altri - a opera di pubblicitari (mi viene in mente il recente strazio di
‘Va’ pensiero’, in cui il dolente testo di
Solera diventa un’ode a un vantaggioso
conto corrente…) o da parte di politici che
pretendono di rendere più sapido un discorso infilando riferimenti sconclusionati al
mondo dell’opera o della musica classica rappresentino sì un problema, ma che una
difesa arroccata e indignata da parte degli
appassionati rischi di aggravare il danno.
Credo infatti che, se ci sta a cuore il futuro del ‘classico’, sia necessario ripensare il
concetto stesso. Innanzitutto, concepire il
‘classico’ come sinonimo di immutabile non
rende un buon servizio a noi tutti, poiché
pone su un piedistallo irraggiungibile, pro-
ietta in una dimensione astorica, allontana
dal presente, quel che invece sentiamo vivo
e palpitante. In secondo luogo, rischia di
creare un canone entro cui diventa sempre
più impervio inserire la contemporaneità.
Probabilmente uno degli ostacoli maggiori
nell’identificazione di un criterio realmente
attuale di classicità è quella perfetta corrispondenza, percepita dai più, tra ‘classico’
e tonale, così che il classico si ferma alle
soglie del Novecento. C’è invece bisogno,
credo, di individuare un paradigma appropriato al XXI secolo, così da rivitalizzare il
concetto e creare una continuità che permetta di storicizzare l’esperienza degli ultimi cento anni. Si può raggiungere questo
obiettivo integrando, tra quanto di nuovo
c’è stato nel secolo scorso, quello che riteniamo rappresenti l’elemento caratterizzante di un’epoca culturale - appena conclusa ma ormai divenuta storia – rispetto
all’importante lascito dei secoli precedenti.
Per quanta parte della popolazione,
anche colta, Pierre Boulez o György Ligeti,
Bruno Maderna o John Adams fanno parte
della musica ‘classica’? Come scriveva Italo
Calvino a proposito dei classici in letteratura: è classico ciò che tende a relegare
l'attualità al rango di rumore di
fondo, ma nello stesso tempo di questo
rumore di fondo non può fare a
meno.
Guido Giannuzzi
Direttore Responsabile
“Filarmonica Magazine”
[email protected]
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Editoriale | 03
Filarmonica Magazine
n. 2 mese febbraio anno 2010
Aut. Tribunale di Bologna N. 7937 del 5 marzo 2009
Rubriche | 05
Editore
Associazione Filarmonica
del Teatro Comunale di Bologna
Via Bertoloni, 11 – Bologna
N° iscrizione al ROC:
Intervista a Sir Neville Marriner | 06
Filarmonica. Programma | 10
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Pubblicità
051 19982171
Note a margine | 12
Direttore responsabile
Guido Giannuzzi
[email protected]
Intervista a Philippe Entremont | 14
Pianisti e partiture | 16
Recensioni | 19
La tua Musica.
Il tuo sostegno.
Filarmonica
del Teatro Comunale
di Bologna
Orchestra europea
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Redazione
Via San Vitale, 22 – Bologna
Tel. 051 19982171 – Fax. 051 19982609
email: [email protected]
Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna
c/o Teatro Comunale di Bologna - Largo Respighi, 1
e-mail: [email protected]
www.filarmonicabologna.it
Progetto grafico
Punto e Virgola, Bologna
Foto di Copertina
© 2010 George Fletcher
Redazione
Daniela Marano, Michele Sciolla
Hanno collaborato
Tommaso Luison, Silvia Mandolini,
Isella Marzocchi, Cecilia Matteucci,
Andrea Rebaudengo, Alberto Spano
Stampa
ELIO '83
Via Marsala, 13/AB
40126 Bologna
Media partner
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LE MIE DOMANDE
LE VIE DEI CANTI
di Cecilia Matteucci
a cura di Guido Giannuzzi
A LUIGI FICACCI, SOPRINTENDENTE ALLE BELLE ARTI DI BOLOGNA
Luigi Ficacci, romano, dal 2008 a Bologna,
insegna alle Università di Viterbo (Storia
della critica d’arte) e di Pisa (Scienze del
turismo). Ha curato varie mostre sul
Seicento e sull’arte contemporanea.
La musica preferita?
Intende quella che ho desiderio di sentire adesso,
che mi risuona in testa mentre parlo con Lei?
Brahms, Prima sinfonia e quando sarà finita attaccherà la Quarta. In assoluto, la musica preferita è
quella necessaria. Indispensabile credo sia solo
Bach: Clavicembalo ben temperato, Arte della
Fuga, sperando, in caso di emergenza, di non perdere la memoria e non dimenticare mai l’Oratorio
di Natale.
L»Opera?
Anche qui: ora? Mentre parlo con Lei? Carmen,
direi. Ma poi preferita è sempre la passione del
momento. E questo è il momento del Faust di
Busoni. Appena riuscirò a emanciparmene sento
gran bisogno della Salome di Mitropoulos.
Opera e pittura: la prima cosa che Le viene in
mente?
E’ automatico:Verdi e tutto un pezzo di pittura italiana ‘di storia’, tra Hayez e Morelli. E mi dispiace,
perché è un’associazione esteriore. E’ voglia di
vedere una costruzione musicale illustrata in figure, come sentire mentalmente Monteverdi mentre
si guarda Bernini. Mi piacerebbe mi venissero in
mente invece le opere che contengono in sé la pittura: Pelleas et Melisande di Debussy, ad esempio.
Il colore è un’altra cosa: ogni opera lascia nella
memoria un colore o un complesso di colori come
traccia di sé, e mai analogie con la pittura, né
associazioni sceniche o registiche.Almeno per me.
La canzone della Sua adolescenza?
Non ricordo.
Cos»è per Lei la vanità?
Una condizione spirituale difficilissima da raggiungere: richiede un estro naturale da educare
con rigore inesausto. Non guardi me però, mentre
io guardo Lei.Appartengo alla norma: un livello di
molto inferiore a quello della vanità.
Naturalmente, come Lei, detesto gli equivoci: le
parodie di vanità, condizione primitiva, universalmente diffusa, molto rudimentale. La vanità emerge solo quando la normalità è così ben posseduta da poterla trascendere. E non è indispensabile
né obbligatorio farlo.
Cosa colleziona?
Di musica? Programmi d’opera e di concerti.
Averne trovati in casa, da ragazzo, moltissimi,
ordinati e anche di molto antichi, fu una delle scoperte più affascinanti della mia adolescenza.
Irresistibile continuare a raccoglierne, ma solo
delle rappresentazioni viste, se non altro per
accorgersi di esserci.
Alla Pinacoteca di Bologna: il Suo dipinto
preferito?
Sansone di Guido Reni.
In giro per il mondo, il Museo più emozionante?
Ancora oggi la National Gallery di Londra. Non è
il più simpatico, ma, dopo l’esperienza del museo
più sensuale del mondo, il Louvre della mia adolescenza e giovinezza, o quello più miracoloso, il
Prado della stessa epoca, la National Gallery di
Londra è straordinaria per la sua normalità, per il
suo meraviglioso e inapparente inserirsi nella quotidianità domestica della vita urbana. Ineventuale,
indispensabile, inevitabile: per me il cuore di un
modo londinese di rendere il forestiero normalmente cittadino del luogo. E poi, il suo opposto,
ovviamente: Roma, il museo aristocratico e oggi,
in primis, Galleria Borghese: la condizione innata
da cui partire per giungere al piacere della London
National Gallery e cui tornare, alla fine del viaggio.
Sua moglie, Anna Coliva, Direttrice della
Galleria Borghese a Roma, è molto bella:da
quale pittore del passato e/o del presente la
farebbe ritrarre?
Lei piuttosto, con quale abito la ritrarrebbe?
Potessi giocare col passato sarei a Roma, ovviamente, e nel Seicento, almeno nei suoi primi settant’anni. Il ritratto di Anna, non ho dubbi: lo commissionerei a Bernini. In epoca moderna vorrei
l’avesse fatto Lee Miller, con la sua macchina fotografica. In epoca post moderna, invece, lo hanno
fatto i Vedovamazzei e infatti è venuta fuori
una vicenda diabolicamente significativa.
Anna invece, credo avrebbe voluto essere
ritratta da Francis Bacon: avrebbe significato essere sua amica e trovarsi ritratta nella
più sconvolgente, veritiera, personale, sacrale umanità. Si, credo che lei sceglierebbe
Bacon.
“
Bisognerà
concedere ai pittori
e ai musicisti, cioè a
quegli artisti che non operano
sulla parola, un certo grado
di incapacità ad avere
lo spirito sveglio.
Ma si dovrà anche dire che in
ciò gli artisti generalmente
sorpassano l’arte e riescono a
soddisfare ben al di là della
misura consentita le esigenze
che si pongono alla sciocchezza
di una conversazione.
Karl Kraus
Detti e contraddetti
”
Il ricordo di un evento indimenticabile
legato all»arte e alla musica?
L’arte figurativa è sempre lì. Gli eventi li crea
la musica, che non esiste se non attraverso
l’esecuzione o la sua memoria.
Inevitabilmente indimenticabile, per me, la
prima andata all’opera… otto anni? Nove?
Non so, mi ci portarono: era un Ernani con
Del Monaco al Costanzi a Roma. L’evento
più caro al ricordo, la Tosca, sempre lì,
Kabaivanska Pavarotti, molti anni dopo,
ovviamente. Indimenticabile, per me, il
primo ascolto del Prigioniero, al Comunale
di Firenze, 1970 o giù di lì e vorrei fosse questa sera.
Luigi Ficacci
Cecilia Metteucci
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Sir NEVILLE MARRINER
di Isella Marzocchi
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Mozart, Haydn, Beethoven.
Marriner, soprattutto.
Sarà proprio Sir Neville a guidare la
Filarmonica del Teatro Comunale di
Bologna nel quarto appuntamento di
questa stagione particulier, deciso a far
salpare musicisti e pubblico per un
viaggio alla riscoperta di un paesaggio
sonoro familiare, per molti riconoscibile sin dalle prime battute. “Ci sarà la
semplicità di un Mozart sedicenne, lo
sviluppo tecnico di Haydn vent’anni
dopo e l’influenza che questi ebbe su
Beethoven”, dice il direttore britannico
della messa a fuoco del programma, in
cui la Sinfonia “Pastorale” di
Beethoven è l’approdo nell’esplorazione che prende il via dal mozartiano
Divertimento in Re maggiore K 136 e
prosegue con la Sinfonia n. 96 in Re
maggiore “Il Miracolo” di Haydn.
L’intento musicale è dichiarato, ma il
suono? Cosa rende unica un’orchestra? “La disciplina”, risponde diretto
Marriner. “E’ quanto serve a un ensemble per raggiungere la propria cifra tecnica e sonora”.
Lui, del resto, di orchestre se ne intende. La sua vita, nella musica, inizia con
lo studio del violino e dopo un’esperienza in formazioni da camera, entra a
far parte della London Symphony
Orchestra.
“A Bologna porto Haydn, considerato
allo stesso tempo il ‘padre’ sia del
quartetto che della sinfonia” dice
Marriner. “Nei giorni in cui suonavo in
quartetto prediligevo la musica da
camera, ora la sinfonica. Anzi, proprio
le sinfonie di Haydn”. Risale a quell’epoca - è il 1959 – la nascita
dell’Academy of St. Martin in the
Fields, che mutua il nome dalla chiesa
omonima su Trafalgar Square dove il
13 novembre di quell’anno la nuova
orchestra tiene il concerto di debutto,
con un organico ridotto e senza direttore. “Un caso, in un certo senso. C’era
il desiderio che venisse eseguita musica all’interno di quella chiesa. La
nostra novità è stata il repertorio, tedesco e italiano in particolare, ai tempi un
territorio piuttosto inesplorato”.
Oggi, dopo una rara e produttiva collaborazione durata oltre 50 anni (raccontati in un recente ritratto da Christian
Tyler nel suo libro “Making Music”), ne
è presidente a vita.
‘
Oggi, un repertorio immenso come
bagaglio artistico, confessa che “se i
cantanti non fossero così vulnerabili e
tanti registi non così invadenti” gli piacerebbe dirigere più opere di quanto, di
fatto, non faccia.
In un’intervista di Margaret Throsby in
diretta sull’australiana ABC Radio di
Melbourne dello scorso novembre Sir
Neville ricordava proprio l’esperienza
grandiosa del primo contatto
dell’Academy of St. Martin in the Fields
con l’opera, la registrazione delle
ouvertures rossininane (era il 1987).
Un disco fatto in studio, dove “non
Ci sarà la semplicità di un Mozart sedicenne,
lo sviluppo tecnico di Haydn vent’anni dopo
e l’influenza che questi ebbe su Beethoven
La Los Angeles Chamber Orchestra,
altro suo fiore all’occhiello, nasce dieci
anni più tardi, nel 1969, in concomitanza con il debutto da direttore dopo gli
studi con il suo mentore Pierre
Monteux. “Il successo di queste due
orchestre da camera è dovuto alla scelta di un repertorio alternativo a quello
sinfonico, budget proporzionalmente
ridotti e al successo con i solisti”. Alla
Los Angeles Chamber Orchestra ricopre
per dieci anni la carica di Direttore
Principale per poi passare alla
Rundfunk Sinfonie Orchester Stuttgart,
l’Orchestra Sinfonica della Radio di
Stoccarda. Il suo debutto operistico è al
festival d’Aix-en-Provence con Le
nozze di Figaro.
’
c’era nessuno stage director a intromettersi”.
Dieci anni fa, nel 2000, chiude un contratto per tre anni di produzioni con
l’Opéra de Lyon e dirige il Don
Giovanni al Teatro de la Maestranza di
Siviglia. E alla domanda sulla giusta
proporzione che dovrebbero occupare i
contenuti artistici e quelli di puro
management nella mente del direttore
musicale di un’orchestra, risponde con
la consueta, disinvolta chiarezza, sottolineando come quest’ultimo debba
curarsi delle performance, lasciando
l’economia a 360° a chi è operativo sul
fronte gestionale. Riflettendo in particolare sulla formazione, o per i più pessimisti, addirittura l’invenzione, del
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pubblico di domani, il Maestro sottolinea come la Spagna stia facendo un
lavoro eccezionale, in questo senso,
mentre a Germania e Giappone va il
primato dell’operato più significativo
con i giovani concertisti.
Sir Neville consiglia proprio di tenerne
d’occhio alcuni, di questi, e non si tira
certo indietro
quando è il
momento di
fare nomi: sono
Till Fellner e
Jonathan Biss,
pianisti, le violiniste Julia Fischer e Veronika Eberle e il
violoncellista Daniel Müller-Schott,
ospite lo scorso gennaio di un tour con
l’Academy of St. Martin.
Da allora, e prima di consegnare a
Bologna il trittico Mozart-Haydn-
Beethoven, Sir Neville è stato in
Germania, Spagna e Stati Uniti e in un
mondo che è più musicale che geografico individua un’altra triade. Di necessità, in questo caso. “Migliori qualità
musicali, una gestione illuminata e
nuove idee per attirare il pubblico che
va via via assottigliandosi è quel che
‘
direttore musicale e artistico per elaborazione e incisione, ottenendo tre
Grammy.
Di riconoscimenti, dall’evidente titolo
di Baronetto al prestigioso Ordre des
Art set Lettres del Ministero della
Cultura Francese e molti, molti altri
ancora,
è
costellata
la
carriera di Sir
Neville.
Non si può far
altro che ringraziarlo, dunque,
per aver scelto violino e bacchetta e
non il bisturi.
Per sua stessa ammissione avrebbe
fatto il chirurgo. Maestro, grazie… no!
Nei giorni in cui suonavo in quartetto
prediligevo la musica da camera, ora la sinfonica.
Anzi, proprio le sinfonie di Haydn
serve nel mondo musicale classico
oggi. Tutte e tre le cose in ugual misura”. Smisurata è invece la sua produzione discografica (180 titoli circa solo
per Decca e Philips), inclusa la colonna
sonora del film Amadeus, di cui fu
Sir Neville Marriner
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FILARMONICA. I CONCERTI 2009-2010
prossimi appuntamenti
lunedì 22 febbraio 2010
direttore e pianoforte
Philippe Entremont
programma
L. v. Beethoven
Concerto per Pianoforte e
Orchestra n. 5
in Mib maggiore op. 73
“Imperatore”
R. Schumann
Sinfonia n. 2 in
Do maggiore op. 61
martedì 16 marzo 2010
direttore
Sir Neville Marriner
© Rocco Casaluci
programma
W. A. Mozart
divertimento in Re maggiore
K 136
F. J. Haydn
Sinfonia n. 96
in Re maggiore “il miracolo”
L. v. Beethoven
Sinfonia n. 6 in Fa maggiore
op. 68 “pastorale”
Filarmonica
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SOSTIENI LA FILARMONICA
2010
Gentile Amica, caro Amico,
siamo lieti di comunicarti che dal 1
Febbraio 2010 è iniziata la nuova campagna di adesione della Filarmonica del
Teatro Comunale di Bologna.
Con profonda soddisfazione e grazie al tuo
prezioso contributo, nel 2009 siamo riusciti
a realizzare nove concerti, tutti di elevata
qualità artistica, premiati dalla critica e
soprattutto, ciò che a noi sta più a cuore,
dal vostro calore.
Tra questi ricordiamo i due appuntamenti
in favore della popolazione abruzzese attraverso il concerto del 25 Aprile a L’Aquila e
quello di Maggio a Bologna, legato alla raccolta fondi realizzata in collaborazione con
il Resto del Carlino. Motivo di gran vanto
risiede nel premio assegnato dalla prestigiosa rivista tedesca ECHO Klassik a Elina
Garança come “Miglior Cantante 2009” per
il disco “Bel Canto”, da noi realizzato sotto
la direzione di Roberto Abbado per la
Deutsche Grammophon. Ricordiamo inoltre
la presenza sul palco del Manzoni del pianista Ivo Pogorelich e del Maestro Gerd
Albrecht.
Tra le convenzioni stipulate, quelle di cui
andiamo più orgogliosi sono relative all’attività di formazione in cui l’Associazione si
è impegnata: gli studenti del Conservatorio
G.B. Martini di Bologna, degli Istituti a
Indirizzo Musicale della Provincia e
dell’Istituto Musicale San Marinese potranno
accedere ai nostri concerti a un prezzo speciale e approfondire la loro preparazione
musicale attraverso lezioni-concerto. Per
tutti sono attive le convenzioni con
Feltrinelli, ATC, Centro Natura; in cantiere
vi è anche una nuovo accordo con
Unicredit Banca che riserverà ai sostenitori
della Filarmonica vantaggi esclusivi.
Tutto ciò è stato reso possibile grazie al contributo di oltre 2500 persone che hanno creduto nel nostro progetto ed è per questo che
contiamo sulle vostre donazioni anche per
l’anno 2010. Solo grazie al vostro impegno
la grande quantità di progetti e iniziative
volte alla diffusione della musica e dei suoi
valori potranno essere realizzati anche per
l’anno appena iniziato.
Per una persona come te, che ama la musica e i grandi concerti, è un occasione per
sostenere insieme a noi la cultura musicale
a Bologna.
Il Consiglio Direttivo
I CIRCOLI
Diventare sostenitore della Filarmonica, entrando a
far parte dei Circoli di questa orchestra, vuol dire
entrare in un gruppo di persone che condividono la
stessa passione. Ma vuol anche dire usufruire di
una serie di vantaggi legati al mondo della musica
e non solo.
Aderendo ai Circoli della Filarmonica riceverai l’esclusiva Card per usufruire di una serie di sconti e agevolazioni e partecipare attivamente alla vita della
Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna.
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• magazine
• primo concerto successivo
all'adesione omaggio
• 20% di sconto sui concerti Filarmonica per un massimo di 2 biglietti
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Auditorium Manzoni
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dall’adesione a uno dei Circoli sarà tuttavia un
utile contributo per la vita dell’Orchestra e per la
promozione della tua musica.
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© Rocco Casaluci
ADESIONE
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NOTE A MARGINE
di Tommaso Luison
Concerto del 22 febbraio 2010
salute mentale e fisica del compositore.
degli editori attribuire titoli più o meno fan-
Nel maggio del 1809 Vienna è bombardata
Scrive il compositore in una lettera: “la sin-
tasiosi (e spesso arbitrari) a sinfonie e sona-
e in seguito occupata per alcuni mesi dalle
fonia mi rammenta tempi bui […] anche
te per renderle più riconoscibili all’interno
truppe napoleoniche. Beethoven è costret-
simili suoni di dolore possono destare inte-
del repertorio dei grandi compositori e per
to a nascondersi nel sotterraneo del fratello
resse”. Schumann concepisce l’opera come
favorirne la diffusione e la vendita. Tale
e pochissimi sono i suoi contatti con l’ester-
una Grande Sinfonia che richiami elementi
sorte subirono molte delle 107 sinfonie di
no: passa le giornate a studiare, scrivere e
del classicismo viennese prebeethoveniano:
Franz Joseph Haydn e tra esse anche la n.
preparare lezioni per il suo caro allievo e
evidenti in questo senso i riferimenti alla
96 in Re maggiore, soprannominata ‘il
mecenate l’Arciduca Rodolfo d’Asburgo, che
‘Jupiter’ di Mozart per quanto riguarda la
miracolo’, con riferimento alla caduta di
ha lasciato la città assieme a tutta la corte
tonalità e l’ampiezza della concezione for-
un lampadario dal soffitto al termine della
imperiale. Proprio a Rodolfo è dedicato il
male e alla Sinfonia n. 104 di Haydn per
prima esecuzione della sinfonia stessa, per
Quinto concerto per pianoforte in Mi
l’utilizzo del motto iniziale, un salto di quin-
fortuna senza conseguenze per pubblico e
bemolle maggiore op. 73, scritto da
ta affidato agli ottoni. L’elaborazione metri-
musicisti. Composta nel 1791, la Sinfonia
Beethoven nei primi mesi del 1809 e com-
ca è di stampo beethoveniano e punta più
n. 96 appartiene alle cosiddette ‘londinesi’:
pletato in alcuni dettagli durante l’occupa-
allo sviluppo di forti contrasti ritmici che
dodici sinfonie composte da Haydn per il
zione francese. L’appellativo ‘Imperatore’,
all’elaborazione dell’elemento melodico e
pubblico di Londra in un periodo compreso
aggiunto dall’editore, è inappropriato a
questo è evidente in particolare nel primo e
tra il 1791 ed il 1795. Il compositore, ormai
meno che, come suggerisce A. Hopkins, non
nell’ultimo movimento. Nel secondo trio
all’apice della carriera, ricerca un contatto
s’intenda ‘un imperatore tra i concerti’.
dello Scherzo è presente una citazione del
immediato con il pubblico e lo ottiene inse-
Nessun riferimento dunque a Napoleone
ciclo liederistico ‘An die forme Geliebte’
rendo melodie semplici, a volte tratte dal
Bonaparte, come invece era stato per la
di Beethoven, mentre l’Adagio espressivo
folklore, e cercando di stupire l’ascoltatore
Terza Sinfonia ‘Eroica’. Il concerto si
è caratterizzato da una forte impronta emo-
con motti umoristici e brillanti. Questa leg-
articola in tre movimenti e apre con una
zionale, quei ‘suoni di dolore’ di cui l’autore
gerezza delle idee melodiche non significa
cadenza del pianoforte che precede il tutti
parla nella sovracitata lettera. La presenza
tuttavia semplificazione della scrittura:
orchestrale. Come già nel concerto per violi-
di temi corali all’inizio del primo tempo e
Haydn conosce bene i raffinati musicisti
no l’orchestra non è relegata ad un ruolo
nel finale conferisce all’opera un carattere
delle orchestre inglesi e può permettersi
secondario, ma esprime un carattere sinfo-
che J. Daverio ha definito ‘quasi-religioso’.
arditezze tecniche nei tempi veloci e
nico nell’esposizione dei temi. Nel magnifi-
La sinfonia fu eseguita in prima assoluta al
momenti solistici affidati spesso al primo
co Adagio un poco mosso ritroviamo la
Gewandhaus di Lipsia nel 1846, sotto la
oboe o al primo violino.
concezione fortemente lirica comune ad
direzione di Mendelssohn e non ottenne il
alcune opere scritte in quest’anno difficile,
successo sperato: Schumann accusò in quel-
All’insegna
come il Quartetto n. 10 ‘Le arpe’ e la
l’occasione Mendelssohn di aver stancato il
Divertimento per archi in Re maggiore
Sonata per pianoforte n. 26 detta ‘Les
pubblico con l’esecuzione per ben due volte
K 136 di Wolfgang Amadeus Mozart.
adieux’, anch’essa dedicata all’Arciduca
dell’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini,
Composto nel 1772 a Salisburgo, alla vigilia
Rodolfo. Il terzo movimento Rondò è colle-
prima della sinfonia! Oggi l’opera è consi-
del terzo viaggio in Italia, quest’opera è
gato al secondo da una discesa cromatica
derata uno dei capolavori nel repertorio
senza dubbio una delle composizioni da
del solista e presenta un carattere gioioso e
strumentale di Schumann e rappresenta una
camera più eseguite nei salotti dell’epoca e
brillante.
delle migliori realizzazioni dell’estetica della
nelle sale da concerto di oggi. La finalità di
Nuova Via elaborata dal compositore a
questo particolare genere musicale è pro-
metà degli anni Quaranta dell’Ottocento.
prio il ‘divertimento’ di chi suona e di chi
Densa di riferimenti e citazioni beethovenia-
leggerezza
è
il
ascolta e Mozart interpreta in maniera origi-
ne è la Sinfonia n. 2 in Do maggiore
12
della
op. 61 di Robert Schumann, composta tra il
Concerto del 16 marzo 2010
nale tale proposito: i temi nei movimenti
1845 e il 1846, in un periodo di precaria
Nell’Ottocento era abitudine consolidata
veloci ad esempio sono semplici da ricorda-
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re ma virtuosistici per gli esecutori.
Quest’opera, insieme ai Divertimenti per
archi K 137 e K 138 scritti nello stesso anno,
costituisce una tappa importante per lo sviluppo della scrittura musicale per quartetto
d’archi.
A completare idealmente un percorso tra i
grandi del Classicismo Musicale, la
Sinfonia n. 6 in Fa maggiore op. 68
‘Pastorale’ di Ludwig van Beethoven si
pone come punto di riferimento nel repertorio sinfonico. Composta nel 1808, viene
pubblicata a Lipsia un anno dopo con dedica al Principe Lobkovitz e al Conte
Rasumovsky. Il sottotitolo ‘pastorale’,
aggiunto dal compositore stesso, denota la
concezione unitaria del progetto e la sua
ispirazione agreste, già rivelata dalla tonalità di Fa maggiore. L’intenzione di Beethoven
non è tuttavia descrittiva: egli stesso
aggiunge infatti in partitura l’annotazione
‘più espressione del sentimento che descrizione’. La musica solo in pochi momenti
diventa imitazione della natura: nel secondo
tempo Andante molto mosso ‘scena al
ruscello’, flauto, oboe e clarinetto riproducono canti di uccelli; invece nel quarto movimento ‘il temporale’, il tremolo iniziale dei
violoncelli (che ricorda Vivaldi nel concerto
‘L’Estate’) richiama il brusio della tempesta
in arrivo e successivamente l’alternanza di
timpano e ottoni in fortissimo rende anche
visivamente lo scatenarsi di tuoni e lampi.
Nel suo insieme la sinfonia, in cinque movimenti, restituisce uno stato d’animo di serena comunione con la natura. Così
Beethoven scrive alla baronessa Droszdick
riguardo alle campagne nei dintorni di
© Rocco Casaluci
Vienna, ove sovente si trasferiva: “Io sono
così allegro quando posso errare attraverso
i boschi, le piante e le rocce. […] Nessuno
può amare la campagna quanto me!”.
Filarmonica
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PHILIPPE ENTREMONT
di Andrea Rebaudengo
Philippe Entremont ha un entusiasmo e
una gioia per la musica da far impallidire
qualunque suo giovane collega. Ha attraversato sessant'anni di carriera con energia e raffinatezza, con talento e dedizione.
Ora ha la saggezza di chi ha vissuto
abbracciato alla miglior musica per una
vita, ma continua ad avere una grande
curiosità per quest'arte che ama con tutto
fare anche il Concerto in Sol di Ravel, il
Secondo concerto di Shostakovich, Les
Nuits dans les Jardins d' Espagne di de
Falla, Les Variations symphoniques di César
Franck... Quanto allo sforzo fisico, deve
essere superato se si sa ciò che si fa. La
potenza si acquisisce attraverso il completo
possesso dei propri mezzi e delle proprie
capacità.
sé stesso, alla quale ha dato molto e dalla
quale ha ricevuto altrettanto.
Per uno strumentista affermato come lei
intraprendere l»attività di direttore vuol dire
innanzitutto affidare ai musicisti che si ha di
fronte il proprio pensiero musicale. E» stata
un»operazione difficoltosa o le è venuto
naturale?
Niente affatto! Non sono io ad avere deciso,
è stato deciso al posto mio! Sono stati i
musicisti a chiedermelo, come è successo per
esempio a Philadelphia quando gli orchestrali hanno suggerito me per il ruolo di
direttore e solista. Però non ho mai abbandonato il pianoforte, amo troppo lo strumento,
amo suonare e associare il pianoforte e l'orchestra e, nel far questo, non ho trovato nessuna difficoltà d'adattamento. Come sappiamo non c'è a disposizione un'orchestra per
studiare a casa, ma il rigore che ho messo
nella direzione d'orchestra è lo stesso di
quello per lo studio del pianoforte.
Suonare un concerto di Beethoven, dove
stanno le maggiori insidie?
(ride) Suonare le note! Poi, nella ricerca
dello stile e del carattere, visto che siamo
quasi nel pre-romantico. Sono opere di
grande originalità, ci vuole esperienza.
Il Quinto concerto di Beethoven è forse cronologicamente l'ultimo che si può dirigere e
suonare contemporaneamente, ma lo sforzo
psicofisico deve essere enorme. Lei come riesce a gestirlo?
No! Assolutamente! Senza direttore si può
14
In che modo la sua storia di pianista la aiuta
nel dirigere una sinfonia di Schumann, uno
dei massimi compositori di musica pianistica?
Ottima
domanda!
Effettivamente
‘
un pianista suonerebbe quel determinato
passaggio?
L'orchestra deve riconoscere lo stile: quando suono Schumann al pianoforte non
immagino l'orchestra. Invece quando
suono Ravel sento anche il timbro orchestrale.
Lei è stato precocissimo. Sappiamo che molti
«enfant prodige» nella maturità si perdono,
lei come è riuscito a trasformarsi in un pianista adulto dalla splendida carriera?
(interrompe - No! Non un enfant prodige!)
Senza pensarci! Le voglio rispondere onestamente. Si è trattato di un cammino
...amo troppo lo strumento, amo suonare
e associare il pianoforte e l'orchestra...
Schumann è un grande compositore per
pianoforte, è attraverso le composizioni per
questo strumento che meglio ha parlato,
che meglio si è espresso; ispirato da sua
moglie, è lo Chopin tedesco. Il Concerto di
Schumann è il più bel concerto per pianoforte. Ritroviamo nelle sinfonie la sua tipica
scrittura, questo lato ansimante, ripetitivo.
Nell' ultimo movimento della Quarta sinfonia si avverte follia, il terzo invece è di una
miracolosa tranquillità.
Si è detto molto sulle Sinfonie di Schumann:
geniali o irrisolte. Qual è il suo pensiero in
proposito?
Non irrisolte! Geniali! La Quarta sinfonia
fra tutte è la mia preferita, si tratta di
un'oasi di pace, un'opera di grande profondità. Bernstein ne fece una focosa versione!
Si dice spesso che il pianista deve immaginarsi i timbri e gli impasti orchestrali. E l'orchestra deve ogni tanto "immaginarsi" come
’
molto lungo, e non senza interruzioni. Sono
salito sul palco a quindici anni -avevo già
ottenuto il Premier Prix al Conservatorio- a
Barcellona, con il Secondo libro delle
Variazioni su un tema di Paganini di
Brahms, Ondine da Gaspard de la Nuit di
Ravel, Alborhada del Gracioso, sempre di
Ravel. Ho iniziato alto e forte, ma non ho
mai cercato di farmi spazio, non sono mai
stato carrierista, né geloso, anzi ammiro i
miei colleghi; ho avuto la fortuna dalla mia
parte, anche se bisogna essere capaci di
tenersela. Ho attraversato tante epoche, vissuto tante esperienze, ne scriverò un libro!
Lei ha attraversato più di cinquant'anni di
storia della musica in modo del tutto personale. Cosa pensa del mondo musicale odierno e quali le differenze con quello dei suoi
inizi di carriera?
Sessant’anni! Come sempre c'è del buono
e del cattivo, nulla è cambiato. Sono tempi
difficili per i giovani artisti, ci sono proble-
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mi con i media, che puntano alla ricerca del
sensazionalismo; e questo non aiuta certo a
individuare gli autentici talenti. Una volta
c'erano gli agenti che si prendevano cura
degli artisti.
Tra le tante straordinarie collaborazioni che
ha avuto vi è quella con Stravinskij. Quali
sono i suoi ricordi del periodo di stretto contatto col grande compositore russo?
L'ho conosciuto troppo tardi. Avrei voluto
conoscere lo Stravinskij giovane ma non
quello che ho conosciuto io. Era molto
anziano, e molto difficile. E' spesso più gradevole conoscere i compositori attraverso
la loro musica. Non avrei voluto conoscere
Beethoven, né Toscanini (per il quale peraltro ho un'ammirazione sconfinata: un direttore davvero moderno, tutto ciò che ha
fatto è bello; il suo modo di dirigere fu così
diverso da quello dei suoi contemporanei ).
Si è spesso lamentato del fatto che i direttori d'orchestra di oggi non fungano più da
«talent scout» per i giovani solisti. Quindi un
giovane può raggiungere le grandi ribalte
solo attraverso i concorsi internazionali? E
non pensa che questo possa creare schiere di
solisti tutti simili tra loro, perché attenti a ciò
che viene loro richiesto nei concorsi?
Confermo! E mi stupisco di quanto non ci
sia più il desiderio di scoprire talenti da
parte dei direttori. Li abbiamo anche scoraggiati: una volta erano i padroni, si ascoltava il loro parere! Oggi l'unico modo per
emergere è attraverso i media, un modo
falso, effimero... Nei concorsi è raramente il
vincitore del Primo premio che fa carriera...
Come se dopo non ci fosse più nulla da
dire.... E' già finito. A volte è discutibile
anche il criterio della composizione dei
membri di una giuria di concorso, oggi: ai
miei tempi feci un concorso in cui in com-
missione c’era il grande Rubinstein!
Che rapporti ha con l'Italia? Si dice che sia il
paese della musica, eppure la cultura musicale è arretrata rispetto a molti paesi europei, si è fatto un'idea di come ciò possa accadere?
Ci sono ottimi musicisti in Italia! Amo i
musicisti italiani! Purtroppo non si considerano abbastanza i musicisti in Italia.
D’altronde, l'Italia attraversa un brutto
periodo, e la musica non è sostenuta. Si
potrebbe fare molto di più e meglio, quello
italiano è un pubblico che ama la musica!
L'opera è musica magnifica, ma costa cara
e quindi, dal momento che attraversiamo
un'epoca di turbolenze, si approfitta della
crisi per non fare ciò che dobbiamo fare.
con la collaborazione di
Silvia Mandolini
Lei è stato un alfiere della musica moderna.
Cosa pensa della musica di oggi?
Non si fa nulla di nuovo, non sappiamo in
quale direzione andiamo, anzi, si ritorna ad
un linguaggio tradizionale, persino Boulez,
il quale scrive pochissimo. Avevo grande
ammirazione per Maderna, un grande compositore. Comunque non c'è sufficiente diffusione della musica contemporanea e di
questo sono colpevoli le case discografiche
che non fanno molto bene il loro lavoro.
Lei ha detto che la sua carriera è cominciata
grazie a soli cinque minuti di audizione con
Eugène Ormandy. Cosa ricorda di quel
momento?
Ero appena entrato nel novero di artisti
della RCA Columbia (storica etichetta
discografica, n.d.r.), la quale organizzò un
incontro con Ormandy a New York, per il
quale suonai, in quell'occasione, l'Isle
Joyeuse di Debussy. Fu così, che quel giorno scattò una grande amicizia. Ho sempre
avuto grande ammirazione per lui, per la
cura della sonorità e dell'intonazione.
Ormandy è senz’altro uno dei più grandi
direttori di sempre.
Philippe Entremont
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PIANISTI À LA CARTE
di Alberto Spano
MOLTI CONCERTISTI DI OGGI SUONANO CON LO SPARTITO: UNA NUOVA LIBERTÀ NELLA MUSICA CLASSICA?
© Rocco Casaluci
Nel mondo dell’arte e dello spettacolo le
rivoluzioni sono lente e quasi invisibili. Per
esempio da qualche tempo è avvenuto in
modo discreto ma sostanziale un cambiamento nella prassi concertistica che fa ben
sperare per il futuro della musica: i grandi
pianisti oggi suonano sempre più spesso in
pubblico con lo spartito. Pensiamo all’ultimo concerto di Ivo Pogorelich al Teatro
Manzoni, il 4 ottobre scorso, con la
Filarmonica del Teatro Comunale di
Bologna diretta da Alberto Veronesi: in programma il Concerto per pianoforte e
orchestra n. 2 di Sergej Rachmaninov.
Qualcuno si è accorto che Pogorelich ha
suonato tutto il concerto leggendo lo spartito? E che aveva accanto una voltapagine?
E che, per non dar troppo nell’occhio si è
Ivo Pogorelich
16
difeso lasciando praticamente al buio il pianoforte? Non ci risulta che ci siano state
lamentele. Due settimane dopo, al Teatro
alla Scala, sempre Pogorelich nel Rach2,
stavolta con la Filarmonica della Scala
diretta da Myung-Whun Chung. Stessa
scena. Qualche settimana più in là, in recital, con un programma di brani da lui eseguiti centinaia di volte, ancora lo spartito e
un bravo voltapagine. Nessuno scandalo,
anzi qualcuno apprezza la sincerità dell’artista.
Sempre al Manzoni qualche mese prima,
Hélène Grimaud, la bionda pianista francese che ama i lupi e sbanca i botteghini,
aveva suonato con la carta il Concerto in
re minore di Bach con l’Orchestra da
Camera della Radio Bavarese. Non basta:
maggio 2009, Teatro alla Scala, il lanciatissimo pianista cinese Lang Lang suonava
metà del suo recital con lo spartito. Ancora:
tutta la tournée italiana con il suo bravo
spartito aveva suonato il francese
Alexandre Tharaud, una fulgida carriera
internazionale alle spalle. Suona da anni
con la carta il finlandese Olli Mustonen, usa
lo spartito Maurizio Pollini nella musica
contemporanea – quando trent’anni prima
sconvolgeva le platee suonando a memoria
un’opera monstre come la Seconda
Sonata di Boulez. E andando indietro con
la memoria vengono in mente artisti grandi
e grandissimi che abbiamo visto suonare in
recital con lo spartito: Andrei Gavrilov,
Adam Harasiewicz, Keith Jarrett (nel repertorio classico), Vitalij Margulis, Oleg
Marshev, Tatiana Nicolajeva, John Ogdon,
Charles Rosen, Roberto Szidon, Friedrich
Gulda, Rosalyn Tureck… Insomma, si è
ormai rotta la tradizione del suonare a
memoria inventata a metà dell’Ottocento
dal più grande pianista ottocentesco, Franz
Liszt. Tradizione salutarmente infranta trent’anni fa dal più grande pianista del
Novecento, Sviatoslav Richter. Chi non
ricorda il suo ultimo periodo, dal 1980 circa
in poi quando amava esibirsi nei piccoli
centri portandosi dietro la sua lampada da
leggìo, provocando un piccolo scompiglio
emotivo al musicista locale designato a voltargli le pagine per quasi due ore di programmi densissimi? Uno di questi ‘eletti’, il
polacco Piotr Anderszewski, oggi fra i pianisti più richiesti della sua generazione, ancora ricorda quella fortuita esperienza di voltapagine come una delle più forti della propria esistenza. Richter ci fu costretto probabilmente a causa di gravi di vuoti di memoria: uno in particolare, quasi leggendario,
occorsogli negli ann ’70 durante un concerto con la Filarmonica di Berlino diretta
da Herbert von Karajan. Pare che dopo
l’umiliazione di far fermare l’orchestra
davanti a Karajan, constringendo tutti a
ricominciare da una certa battuta, Richter
abbia preso la salomonica decisione di non
lasciare mai più lo spartito, come fanno da
sempre tutti gli altri musicisti classici: violinisti, violoncellisti e direttori compresi.
Quasi una nuova vita per lui, come amava
sottolineare nella nota che faceva pubblicare nei programmi di sala: «Mi sono deciso
ahimé troppo tardi a tenere davanti lo spartito durante i concerti, nonostante avessi
intuito da tempo che bisognava farlo. È
paradossale ma in un’epoca in cui il repertorio era più ristretto e meno complesso, si
suonava abitualmente con lo spartito e
questa saggia usanza fu interrotta da Liszt.
Oggi la testa – piuttosto che ben fornita di
musica – è sovraccarica da un’abbondanza
inutile e rischia di affaticarsi pericolosamente. Che infantilismo e che vanità, fonte
di fatiche inutili, questa specie di gara di
prodezza della memoria, quando bisognerebbe soprattutto fare della buona musica
che tocchi l’ascoltatore! Mediocre routine –
continua Richter – in cui si crogiola una
gloria mendace e che il mio caro professore Heinrich Neuhaus tanto biasimava.
L’incessante richiamo all’ordine dello spartito darebbe meno licenza a questa “libertà” e questa “individualità” dell’interprete
con cui si tiranneggia il pubblico e si infesta
la musica, e che non è nient’altro che mancanza di umiltà e di rispetto per la musica
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stessa. Certo non è così facile essere assolutamente liberi quando si ha lo spartito
davanti e ci vuole molto tempo, lavoro e
abitudine; per questo è meglio cominciare il
più presto possibile. Ecco un consiglio che
darei volentieri ai giovani pianisti: adottare
finalmente questo metodo sano e naturale
che permetterà loro di non annoiarci vita
natural durante con gli stessi programmi, e
di crearsi loro stessi una vita musicale più
ricca e variata».
«Nulla in contrario ai pianisti con lo spartito – scrive oggi il musicologo Simone
Monge – anche se il caso del vecchio
Richter non mi sembra assimilabile alla
voga odierna dei solisti più o meno giovani
che leggono in concerto. È innegabile
comunque che l'esito interpretativo sia sensibilmente diverso. Il lavoro di memorizzazione costringe l'interprete a un processo di
interiorizzazione del brano che la lettura
talvolta inibisce. Non dimentichiamo che in
inglese “a memoria” si dice “by heart”.
Questo vale anche per gli interpreti sommi.
Se si ascolta il lascito discografico di Walter
Gieseking si capisce perfettamente quando
suona con la carta. Tuttavia in alcuni casi
l'uso dello spartito mi pare inevitabile.
L'anno scorso al festival luganese della
Argerich ascoltai un illustre anziano maestro esibirsi a memoria. Il concerto fu
un'autentica “groviera”. Forse quel maestro, leggendo (sempre che la vista non gli
facesse difetto), avrebbe potuto trasmettere più nitidamente la sua lezione interpretativa».
Non è un caso però che l’altro padre del
pianoforte moderno, Ferruccio Busoni,
all’inizio del secolo scorso, avesse scritto
quasi il contrario di Richter, stimolato da
un’inchiesta sull’argomento dal musicologo
Wilhelm Altmann: «Vecchio concertista
militante – gli scrive nel 1907 – sono arrivato alla persuasione che suonare a memoria permette una libertà d'esecuzione
incomparabilmente maggiore. È importante, ai fini della precisione, che gli occhi possano posarsi senza impacci – quando sia
necessario – sulla tastiera. La dipendenza
da un voltapagine può anche legare, spesso impacciare. Oltre a ciò si deve conoscere
a memoria il pezzo in ogni caso, se all'esecuzione si vuole assicurare la giusta condotta delle parti. Ancora – ogni pianista
progredito potrà confermarlo – una compo-
sizione di qualche importanza si imprime
più presto nella memoria che non nelle dita
o nello spirito. Le eccezioni sono molto rare;
in questo momento potrei citare solo la
fuga della Sonata op. 106 di Beethoven. In
ogni modo il trac, cui ognuno più o meno
soggiace, più o meno spesso agisce sulla
sicurezza della memoria. Ma non la memoria sul trac. Se il trac interviene la testa si
confonde, la memoria vacilla; ma se si prende in aiuto la carta, il trac si manifesta
subito in altro modo: note false, mancanza
di ritmo, acceleramento dei tempi. Ella
lamenta l'esistenza di artisti che “vanno
girovagando tutta la loro vita con una
mezza dozzina di concerti” e riporta questo
fenomeno al vezzo di suonare a memoria.
Ma il signor Raoul Pugno, che Ella adduce
come un buon esempio del suonare con la
carta, non dispone nel suo repertorio di un
numero di concerti maggiore. Se mi posso
permettere una spiegazione, eccola: ci sono
degli artisti che apprendono lo strumento e
gli elementi musicali come un tutto; e artisti che s'impadroniscono di singoli passaggi e di singoli pezzi, isolatamente. Per questi ultimi ogni pezzo è un nuovo problema,
che deve venir risolto faticosamente volta
per volta; essi devono fabbricarsi per ogni
serratura una nuova chiave. I primi invece
sono fabbri che con un mazzo di grimaldelli e di chiavi false penetrano e vincono in
breve il segreto di ogni serratura. Questo si
riferisce tanto alla tecnica quanto al contenuto musicale e alla memoria. Se si possiede, per esempio, la chiave della tecnica dei
passaggi di Liszt, del suo sistema di modulazione, del suo sistema armonico, della sua
costruzione formale (dove sta il crescendo?
dove il punto culminante?) e della sua
maniera espressiva, suonare tre o trenta dei
suoi pezzi è lo stesso. E che questa non sia
una frase, credo di averlo dimostrato. Il
nuovo compito per la memoria comincia –
relativamente – quando ci si occupa di un
compositore, di una nazione, di un'epoca,
di una tendenza, delle quali non si possiede
la chiave generale. È quanto avvenne a me
la prima volta che affrontai César Franck.
Così arrivo alla conclusione: per chi ha la
vocazione di suonare in pubblico, la memoria non è d'intralcio come non lo è, per
esempio, il pubblico stesso. Ma colui per il
quale suonare a memoria costituisce una
barriera sarà esitante anche in tutto il resto.
Il primo presenta la letteratura musicale
agli altri, il secondo sceglie alcuni pezzi per
presentare se stesso. Così la questione deve
venir impostata in modo del tutto diverso:
dov'è il limite da cui comincia il diritto di
suonare in pubblico?».
Gran bella domanda quest’ultima. Ognuno,
carta o non carta, cerchi di darsi la risposta.
© Rocco Casaluci
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RECENSIONI
di Alberto Spano
SCOPERTE DI GERMANIA
MENDELSSHON DISCOVERIES: Sinfonia n. 3
“Scozzese”, Concerto per pianoforte n. 3,
Ouverture “Le Ebridi”, Roberto Prosseda,
Riccardo Chailly, Gewandhausorchester
(CD Decca, euro 19.90)
Riccardo Chailly, oltre che un grande direttore, è
un instancabile ricercatore e studioso. Da alcuni
anni a capo della favolosa Orchestra del
Gewandhaus di Lipsia, non gli è parso vero di
poter mettere sul leggìo le prime versioni o gli
inediti di Felix Mendelssohn, di colui cioè che fu
suo predecessore a capo dell’orchestra dal 1835
e che a Lipsia fondò il Conservatorio. Dopo un
accurato lavoro in sala di concerto, eccone il
primo frutto, registrato nell’acustica favolosa del
Gewandhaus. C’è una prima versione (quella di
Londra) della Sinfonia n. 3, risalente al 1841-2,
contenente quasi un centinaio di battute di musica in più rispetto alla versione normalmente eseguita. Ci sono gli schizzi delle prime sedici battute della Sinfonia ritrovati su un documento del
1829/30 e orchestrati di Christian Voss, c’è
l’Ouverture Le Ebridi nell’edizione romana revisionata da Christopher Hogwood e – cuore pulsante del disco – c’è il fantomatico Terzo
Concerto in mi minore per pianoforte e orchestra, ricostruito da Marcello Bufalini da un manoscritto autografo del periodo 1842-44 custodito a
Oxford. Nulla di più distante, però, da un disco per
musicologi è questo, grazie alle calde meraviglie
sonore che Chailly è capace di estrarre dall’orchestra lipsiense e alle virtù musicali e tecniche del
pianista, Roberto Prosseda, da una decina d’anni
diventato il più grande alfiere di Mendelssohn nel
mondo, in virtù della sua tecnica sciolta e del suo
elegante fraseggio. Questo Concerto non è certo
un capolavoro come i due più noti (in sol minore
e in re minore), ma si lacia ascoltare con piacere,
contenendo tutti gli stilemi mendelssohniani,
compresa la predilezione per la brillantezza.
QUEL BACH FRANCESE SUONA ITALIANOI
J. S. Bach: 6 Suites Francesi, Francesco Cera
clavicembalo (2CD Arts, euro 24)
UN PIANO IN VETTA
≈BALLAD FOR EDVARD GRIEG∆, Leif Ove
Andsnes, pianoforte (DVD EMI, euro 20,90)
Bologna è sempre stata patria di bravi clavicembalisti e organisti: già negli anni ’50 il grande Luigi
Ferdinando Tagliavini ha aperto una strada, oggi
ormai spalancata a varie scuole e varie filosofie
interpretative, ma è indubbio che la sua influenza
sui migliori elementi formatisi sotto le Due Torri sia
ormai un dato di fatto. Si prenda ad esempio il
bolognese Francesco Cera (romano d’adozione),
eccellente tastierista in svariate formazioni barocche (in primis il Giardino Armonico) e in pregiate
incisioni discografiche, che oggi è certamente uno
dei cembalisti di punta della nuova generazione.
L’ascolto della sua ultima fatica discografica, dopo
apprezzate prove in autori italiani come Rossi,
Cerula, Storace e Valente, l’incisione integrale cioè
delle 6 Suite Francesi di Bach, del Concerto
Italiano e della meditativa Fantasia e Fuga in
la minore BWV 904 per l’etichetta tedesca Arts ne
è riprova esemplare. Il grande scrupolo filologico e
insieme la rigogliosa musicalità, fatta di rubati
impercettibili e di elasticità nel fraseggio, sono
caratteristiche proprie dell’arte di Tagliavini che
hanno trovato in Cera un perfetto seguace. Anche
l’influenza dell’olandese Gustav Leonhardt si
avverte sensibilmente nel Bach austero e magistrale di Francesco Cera, che in questa spettacolare incisione (trattasi di un “SuperAudio CD” che
potrà dare autentiche soddisfazioni ai non pochi
bolognesi possessori di impianti “esoterici” ad
alta fedeltà) suona un sonorissimo strumento a
due manuali costruito dal pesarese Roberto Levi
su modello di un cembalo Vincent Tibaut del 1691.
Un clavicembalo non tedesco e non contemporaneo a Bach, dunque, che per alcuni potrebbe sembrare una scelta azzardata, ma giustificata –
anche a detta dello stesso interprete nelle note del
disco – dalla sua chiarezza nella polifonia, dal
carattere dello stile francese e dal fatto che intorno al 1720, anno di composizione di queste opere,
erano ancora molto diffusi gli ottimi strumenti del
secolo precedente.
Il pianista norvegese Leif Ove Andsnes, 40enne,
attivo sulla scena internazionale da oltre 20 anni,
è uno dei pianisti più prolifici in sala d’incisione.
Non si contano ormai più i suoi dischi per la
Virgin/Emi dopo quello splendido esordio nel
1987 su disco in vinile per la piccola etichetta
Vest-Norsk Plateselskap in musiche di Chopin,
Smetana, Beethoven. Andsnes, che suona tutto e
di tutto, è ovviamente un grande interprete della
musica di Edvard Grieg (non propriamente uno
specialista, però) e la sua incisione dei Pezzi
Lirici e, soprattutto del Concerto in la minore
per pianoforte orchestra con la Filarmonica di
Berlino diretta da Mariss Jansons, sono stati
grandi successi di critica e di pubblico. Ma è il
bellissimo film-documentario “Ballad for
Edvard” che pone Leif Ove Andsnes su un inedito piano, facendocelo amare in modo del tutto
particolare: innanzitutto per la scelta di eseguire
la Ballata di Grieg, pezzo enigmatico e fascinoso quanto mai, sul cucuzzolo della montagna
norvegese più amata da Grieg, con profusione di
immagini spettacolari di un pianoforte a coda
imbragato in una rete e lì portato con l’elicottero. Andsnes si rivela così un formidabile divulgatore della musica: nel video il regista Thomas
Hellum lo segue nelle sue scorribande in auguste
biblioteche in mezza Europa e nelle case appartenute al più grande musicista norvegese, alla
ricerca dell’anima autentica di questo candido
genio della musica. È divertente vedere Leif Ove
Andsnes con la sua aria da ragazzone superdotato, alle prese con paciosi musicologi, bibliotecari
e studiosi vari: egli è anche un presentatore e un
attore perfetto, un Piero Angela di lusso che ad
un certo punto si siede al pianoforte e poi suona
divinamente lo Steinway scordato appartenuto a
Grieg nella deliziosa casetta di Troldhaugen in
mezzo a ninnoli e cimeli, oppure davanti a duemila persone alla Grieg Hall di Bergen o – meglio
ancora – suona come uno spericolato James
Bond della tastiera sulla vetta della montagna
davanti ad un panorama mozzafiato.
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