POLITICA FISCALE NELL™UNIONE MONETARIA EUROPEA

9
9.1
LA POLITICA FISCALE NELL’UME
Politica Fiscale nelle Aree Valutarie Ottimali
La perdita dello strumento della politica valutaria ripropone, per i paesi che aderiscono ad
un’area valutaria ottimale, il problema della gestione degli shock asimmetrici che possono colpire
singoli paesi o regioni. La scarsa flessibilità di prezzi e salari, unita ad una ridotta mobilità dei
fattori produttivi (ad es. il lavoro), infatti, alimentano i timori che uno shock idiosincratico possa
generare recessioni regionali o incrementi nei livelli della disoccupazione di proporzioni tali da non
essere politicamente accettabili per la maggior parte dei paesi. In un’area valutaria, sottratto lo
strumento della politica monetaria, il compito di rimediare alle situazioni di squilibrio spetta dunque
alla politica fiscale. In un’area valutaria, e ancor più in un’unione monetaria, i governi possono
raggiungere
l’obiettivo
della
stabilizzazione
utilizzando,
separatamente
o
miscelandoli
opportunamente, almeno due tipologie di strumenti: politiche di bilancio anticicliche (trasferimenti
inter-temporali) e trasferimenti inter-regionali dalle regioni depresse a quelle in forte crescita. La
scelta tra i due strumenti, tuttavia, dipende sostanzialmente dal tipo di regime fiscale che i governi
decidono di adottare. Il primo, infatti, necessita di provvedimenti nazionali mentre il secondo
richiede la costituzione di un bilancio federale.
Prescindendo, per il momento, dalla tipologia dell’intervento di politica fiscale, citiamo ciò
che Kenen scriveva nel 1969 in un lavoro, divenuto successivamente un punto di riferimento per la
teoria delle Aree Valutarie Ottimali1: “…la politica monetaria e la politica fiscale devono procedere
a braccetto e, per l’esistenza di una combinazione ottima delle due2, è necessario che esse abbiano
lo stesso dominio. Un unico Tesoro, in collaborazione o in concorrenza con la Banca Centrale, deve
essere investito del potere assoluto riguardo le decisioni in termini di spesa e di tassazione. Il
dominio dell’autorità fiscale, quindi, dovrebbe coincidere con quello dell’area valutaria o, per lo
meno, non essere più esteso di quest’ultima”. Questa esigenza nasceva dai problemi di assignment
che, a seguito dell’unificazione della politica monetaria, i governi avrebbero dovuto affrontare
allorché privati di uno strumento indipendente per la stabilizzazione economica
La necessità di una coincidenza dei domini delle politiche economiche auspicata da Kenen è
legittimata anche dalle difficoltà che altrimenti le autorità potrebbero incontrare nell’uniformare il
livello di imposizione tra le diverse aree valutarie di propria competenza. Variazioni della politica
monetaria o del tasso di cambio preesistenti, infatti, potrebbero generare considerevoli variazioni
1
Kenen, P., (1969), “The theory of Optimum Currency Areas: an eclectic view”, in Monetary Problems of the
International Economy, a cura di Mundell R., e Swooboda, A., Chicago, University Of Chicago Press, pag 45.
2
L’ottimalità della combinazione delle politiche fiscali si riferivano alla gestione della domanda aggregata e ai
problemi legati all’occupazione.
1
dei flussi di reddito sia in entrata che in uscita, con inevitabili conseguenze sull’imponibile in
ciascuna area e, quindi, sulla efficacia stessa delle misure fiscali.
Alla luce delle considerazioni appena fatte, la teoria tradizionale delle Aree Valutarie
Ottimali suggerisce di centralizzare una parte significativa dei bilanci nazionali, al fine di adottare
politiche fiscali capaci di operare una redistribuzione della domanda aggregata (trasferimenti),
limitando così gli effetti di shock asimmetrici negativi. Shock temporanei possono essere contrastati
attraverso trasferimenti automatici; al contrario, shock permanenti richiedono interventi strutturali
che riescano a modificare prezzi e salari, in modo da alimentare la mobilità dei fattori auspicabile in
un’area valutaria ottimale.
Le esperienze di paesi come Italia e Belgio, tuttavia, mostrano quanto sia difficile evitare che i
trasferimenti (soprattutto quelli a carattere previdenziale) tendano ad auto-perpetuarsi, questo
perché essi, piuttosto, contribuiscono a ridurre gli incentivi alla mobilità. La solidarietà, infine, pur
essendo fondamentale per il ricorso ai trasferimenti automatici può comportare rischi di varia
natura. Un conseguenza di natura politica è rappresentata dalle proteste che possono essere sollevate
dagli abitanti delle aree più prospere e, per questo, maggiormente gravate dal finanziamento di tali
interventi.
Un altro filone della letteratura tradizionale delle AVO suggerisce che, in assenza di una
politica di bilancio centralizzata (anche solo parzialmente), i paesi o le regioni appartenenti all’area
valutaria possono prendere decisioni di politica fiscale in modo autonomo, modificando il
disavanzo attraverso gli stabilizzatori automatici (entrate pubbliche, spese sociali, ecc.) in base alle
esigenze contingenti. Questa soluzione, tuttavia, potrebbe generare problemi legati alla
“sostenibilità” del disavanzo, soprattutto quando il tasso di interesse sul debito supera il tasso di
crescita dell’economia. In questi casi, pertanto, il continuo aumento del rapporto debito/Pil può
essere interrotto solo da interventi che generano un avanzo primario di bilancio (un valore negativo
per la differenza tra spesa pubblica e tassazione). In una unione monetaria, comunque, il
finanziamento del disavanzo mediante debito pubblico è incentivato principalmente dall’esistenza
del “signoraggio condiviso” e, quindi, dall’impossibilità per ciascun paese di ricorrere all’emissione
di nuova moneta. Il principio della solidarietà, infine, può generare ulteriori incrementi del debito a
causa degli sforzi compiuti dai paesi aderenti all’area/unione monetaria per evitare l’insolvibilità (o
una pressione fiscale eccessiva) del singolo paese. Laddove la soluzione scelta preveda la
monetizzazione del debito accumulato il rischio è quello di un aumento dell’inflazione in tutta
l’area con il risultato che tutti i cittadini, ovunque essi risiedano, saranno assoggettati ad una sorta di
tassa da inflazione.
2
La considerazione degli effetti di simili provvedimenti ha contribuito ad accrescere, nella
letteratura di riferimento, il consenso sull’opportunità di introdurre alcune restrizioni fiscali nelle
politiche di bilancio dei singoli paesi prima e dopo la costituzione di un’area/unione monetaria. La
necessità di introdurre una regolamentazione dei disavanzi pubblici dei singoli paesi, in definitiva,
può attribuirsi ad effetti di spillover negativi per il resto dell’unione. La crescita eccessiva del debito
in un paese, infatti, incentiva il ricorso al mercato internazionale dei capitali che, nel caso di
efficienza dei mercati, genera un aumento dei tassi di interesse, e quindi dell’onere del debito
pubblico, anche negli altri paesi3. La reazione risposta dei paesi aderenti all’unione potrebbe essere
la riorganizzazione in senso restrittivo della propria politica fiscale (politica deflazionistica) o una
forte pressione sulla banca centrale per nuove misure di politica monetaria.
Inoltre, potrebbe accadere che i risparmiatori internazionali non siano in grado di valutare il grado
di rischio dei titoli del debito pubblico di un paese, sbagliando così il calcolo del premio ad esso
associato. Questo può accadere soprattutto quando esiste la convinzione che, in caso di insolvibilità
del governo emittente, altri paesi possono offrire garanzie per la copertura del debito per evitare che
la crisi di un paese possa contagiare gli altri sistemi finanziari. Pertanto, se anche ci fosse un
accordo per il “non intervento”, la possibilità che i paesi possano fare un’eccezione impedisce agli
investitori privati valutare correttamente il rischio associato ad un paese. Il rischio di inadempienza
diretta, ovvero la sospensione del pagamento degli interessi sul debito residuo, aumenta quando il
paese emittente appartiene ad una unione monetaria a causa della perdita del controllo della politica
monetaria interna4. Dal momento che l’insolvenza di un paese appartenente ad un’area/unione
monetaria danneggia un numero di individui non residenti, nonché istituzioni, maggiore rispetto al
caso di non appartenenza, le pressioni internazionali per il salvataggio di un paese inadempiente
sono maggiori nel caso in cui esso appartenga ad una unione monetaria.
Per tutti i motivi sopra elencati, il ricorso al debito da parte di un paese membro di un’area
monetaria è quasi sempre accompagnato dall’introduzione di regole, anche se le esperienze di
numerosi paesi (anche di unioni monetarie) rivelano che esse non sempre sortiscono l’effetto
desiderato. Ma quale dovrebbe essere la direzione di tali condizionamenti? I sostenitori della
regolamentazione della politica fiscale in generale affermano che l’unione monetaria di per sé
riduce la disciplina fiscale dei governi nazionali. I fattori che contribuiscono a ridurre il controllo
sul bilancio, e quindi ad aumentare i disavanzi, sono riconducibili a questioni legate all’azzardo
morale. La possibilità di poter fare affidamento, sempre e comunque, sull’aiuto dei paesi aderenti
3
In caso di inefficienza dei mercati dei capitali anche se un paese si collocasse su un sentiero di debito non sostenibile i
problemi di quest’ultimo potrebbero essere ininfluenti per gli altri paesi membri.
4
Non risulta possibile, infatti, ricorrere a inflazione o svalutazione inattese (inadempienza indiretta) per ridurre il valore
del proprio debito.
3
incentiva gli stati membri dell’unione ad emettere quantità di debito non sostenibili, questo perché,
se anche vi fosse un accordo implicito di “non salvataggio”, è improbabile che i paesi si rifiutino di
aiutare chi tra loro si trovi momentaneamente in difficoltà nel rimborso del debito. L’impossibilità
di creare nuova moneta, quindi, richiede misure più stringenti del vincolo di bilancio frutto di
un’adeguata regolamentazione della politica fiscale nazionale.
9.2
Istituzioni e strumenti della politica fiscale nell’Unione Monetaria Europea
9.2.1 Istituzioni fiscali e Patto di Stabilità
La realizzazione dell’Unione Monetaria Europea (UME), da un punto di vista economico, ha
significato una maggiore convergenza delle politiche nazionali ed il potenziamento di un sistema di
cooperazione e di vigilanza multilaterale. L’introduzione dell’euro come moneta unica per tutti i
partecipanti ed il trasferimento della competenza per le decisioni di politica monetaria ad un’unica
autorità monetaria, l’Eurosistema5, ha completamente modificato la politica economica dei paesi
che hanno aderito all’UME. Il Consiglio europeo decide i grandi orientamenti che le politiche
nazionali dovranno seguire, per il raggiungimento degli obiettivi di interesse comune della
Comunità, ed effettua indagini periodiche, per assicurarsi che i singoli stati vi si uniformino,
riservandosi di richiamare quelli che non abbiano provveduto ad adeguare opportunamente le
proprie politiche.
Mentre per la politica monetaria e quella del cambio sono responsabili le autorità comunitarie, la
politica fiscale e quella dell’occupazione, così come le politiche strutturali per il prodotto nazionale
ed il mercato del lavoro e dei capitali, rimangono di competenza dei singoli stati.
La struttura della politica economica dell’UME prevede un equilibrio tra accentramento e
decentramento dei singoli elementi che riflette il principio della sussidiarietà. L’attribuzione della
responsabilità di determinate politiche ad una istituzione sovranazionale, infatti, si giustifica quando
gli stati, singolarmente presi, non riescono a raggiungere gli obiettivi prefissati o quando
l’istituzione, per ragioni di scala, potrebbe farlo meglio e più efficientemente. In virtù di tale
principio, la politica monetaria dell’unione, per la sua unicità ed indivisibilità, è stata
opportunamente centralizzata; le altre politiche, invece, tra cui anche quella fiscale, sono rimaste di
competenza nazionale non trovando giustificazione valida un loro completo trasferimento a livello
comunitario.
Il rapporto MacDougall del 1977, in linea con la teoria delle AVO, suggeriva che occorreva
centralizzare a livello europeo quella parte dei bilanci nazionali che riguardava il sistema dei sussidi
4
alla disoccupazione. La sintesi del rapporto è la seguente: il bilancio federale pari al 2-2,5% del Pil
nella fase preparatoria dell’integrazione, al 5-7% in una fase successiva e al 25% nel caso in cui
l’unione monetaria fosse diventata anche un’Unione Federale di stati sul modello degli Stati Uniti.
Attualmente, il bilancio federale ha un limite massimo pari all’1,27% del Pil complessivo
dell’unione, con la possibilità di una rinegoziazione entro il 2006. Il decentramento parziale della
politica fiscale attribuisce ai singoli paesi una certa flessibilità ed un margine di manovra sufficiente
per fronteggiare shock economici idiosincratici.
Il decentramento, inoltre, incentiva una sana competizione delle politiche nazionali nel rispetto delle
esigenze e delle preferenze domestiche. La possibilità di confrontare in maniera critica le decisioni
di politica economica di paesi diversi fornisce un insieme di informazioni di cui tutti gli stati
membri possono beneficiare e attraverso il quale si creano delle sinergie che non potrebbero
emergere in un sistema completamente accentrato. Allo stesso tempo, la natura cooperativa della
Comunità pone dei limiti alla competizione politica evitando così effetti devastanti soprattutto per
ciò che riguarda gli standard di lavoro, l’assegnazione dei sussidi statali ed alcuni livelli di
tassazione.
La politica fiscale nazionale è condotta dai singoli governi nel rispetto delle regole fissate in
occasione del Trattato di Maastricht (1991) e del Patto di Stabilità e Crescita (Amsterdam, 1997)
che, come precisato in precedenza, lasciano ampi margini nelle decisioni riguardanti la spesa
pubblica e le entrate, per tener conto di quelle che sono le preferenze domestiche. La responsabilità
individuale nell’ambito della politica di bilancio è sottolineata dalla clausola di “non salvataggio”,
in base alla quale né l’Unione né i singoli stati rispondono per gli impegni presi da un altro
membro. Le regole introdotte dal processo di integrazione riguardano soprattutto i disavanzi ed il
debito nell’intento di salvaguardare la stabilità della moneta comune da problemi connessi alla
lievitazione del debito pubblico individuale.
Il Trattato di Maastricht obbligava incondizionatamente ciascun paese avesse voluto entrare
nell’Unione contestualmente al suo avvio (1 Gennaio 1999) a non presentare un disavanzo
eccessivo rispetto al Pil. Il Consiglio della Banca Centrale Europea (BCE) aveva l’onere di valutare
la possibilità di ammettere il paese nella prima fase dell’integrazione verificando di volta in volta i
singoli disavanzi, definiti eccessivi se avessero superato il 3% del Pil o nel caso il debito pubblico
avesse superato il 60% del Pil.
Molti economisti, tuttavia, hanno criticato i criteri di convergenza previsti dal trattato di Maastricht
in quanto, a parer loro, questi avrebbero comportato costi eccessivi in termini di disoccupazione e
riduzione del reddito. La perdita di uno strumento anticiclico come quello della politica monetaria,
5
L’Eurosistema è costituito dalla Banca Centrale Europea e le Banche Centrali Nazionali dei paesi aderenti all’Unione
5
infatti, avrebbe richiesto una maggiore flessibilità in termini di politica fiscale. L’imposizione di
una restrizione dei deficit ai livelli di riferimento previsti dal Trattato, invece, ha indotto diverse
economie a subire shock deflazionistici e i governi a privarsi della flessibilità di risposta a shock
futuri.
Lo spirito dei criteri di convergenza di Maastricht rivive nel Patto di Stabilità, il quale
obbliga a mantenere il bilancio pubblico in prossimità del pareggio o in surplus ed impone la
presentazione periodica di programmi di stabilità nei quali i paesi devono specificare gli obiettivi
della finanza pubblica e le strategie da adottare per raggiungere il pareggio, o l’avanzo, del saldo di
bilancio e la riduzione del debito pubblico. I paesi con deficit definiti eccessivi (superiori al 3% del
Pil) saranno quindi sanzionabili con multe fino allo 0,5% del Pil. Il limite del 3% può essere
oltrepassato, senza necessariamente causare un deficit eccessivo, solo nel caso in cui si verifichino
simultaneamente tre condizioni:
•
eccezionalità, l’origine dell’eccesso deve essere esterno alla gamma di situazioni normali;
•
transitorietà, il deficit può collocarsi al di sopra del 3% del Pil solo per un limitato periodo
di tempo;
•
prossimità, il deficit deve comunque rimanere vicino al valore di riferimento.
La clausola della eccezionalità può essere invocata solo in occasione di eventi inconsueti al di fuori
del controllo dello Stato membro che abbiano un impatto significativo sulla posizione finanziaria
del governo. Alternativamente, essa è auspicabile se l’eccesso di deficit ha luogo durante una
recessione particolarmente grave, considerata “eccezionale” se genera una diminuzione del Pil
almeno del 2% annuo. La natura transitoria dell’eccesso di deficit viene definita in base alle
condizioni eccezionali sopra menzionate; questa clausola risulta violata se la previsione di bilancio
indica che il deficit non scenderà al di sotto del valore di riferimento nell’anno successivo a quello
della recessione e quindi, per l’anno in corso, il paese sarà ugualmente considerato tra quelli
sanzionabili. Per evitare le sanzioni, dunque, la correzione del deficit dovrebbe essere completata
nell’anno successivo a quello in cui viene identificato il deficit eccessivo, a meno che non si
verifichino circostanze particolari o si prolunghi la recessione grave.
La procedura di valutazione da parte della Commissione Europea inizia con un rapporto nel quale si
evidenzia la presenza di un deficit eccessivo. Il rapporto viene sottoposto alla valutazione
dell’ECOFIN (Economic and Financial Committee) il quale emette il suo parere sulla base del
quale la Commissione fa una comunicazione al Consiglio. Se il Consiglio stabilisce che il deficit è
da considerarsi “eccessivo” fornirà delle indicazioni per le misure di aggiustamento. Il paese in
questione sarà dunque tenuto a porre in essere, entro quattro mesi dalla comunicazione, azioni di
Monetaria Europea.
6
politica che, nell’arco di un anno, riportino il deficit entro i limiti imposti. In caso contrario, entro
dieci mesi dall’invio del rapporto di violazione della Commissione Europea, verranno applicate al
paese violante le sanzioni previste.
Con gli indirizzi di massima il Consiglio europeo (su suggerimento della Commissione)
formula raccomandazioni generali per l’insieme dei paesi, nonché raccomandazioni specifiche per
ciò che riguarda la politica di bilancio, le politiche del lavoro, il mercato dei prodotti e il mercato
dei capitali dei singoli paesi membri, con approfondimenti relativi all’imprenditorialità, alla ricerca
e sviluppo, alla diffusione delle tecnologie e allo sviluppo sostenibile.
Sono trascorsi oltre dieci anni dalla firma del Trattato di Maastricht e questo lasso di tempo è
sufficiente per riconoscere che le regole fiscali, introdotte con il suo recepimento, sono state
determinanti per la riduzione dei budget di spesa da parte dei paesi, soprattutto per quelli in ritardo
nel processo di convergenza per l’ingresso nell’UME. L’esperienza del consolidamento indotto
dagli accordi di Maastricht ha mostrato che la dimensione di politica economica delle regole è stata
cruciale per il loro successo.
I programmi di stabilità dei vari Governi nazionali hanno fissato valori per i singoli anni, a partire
dal 1999 al fine di raggiungere il pareggio per il 2003-2004. Il mancato rispetto dell’obiettivo di un
singolo anno, dunque, non dovrebbe rappresentare una violazione del Patto di Stabilità. Nonostante
ciò, il Patto richiede che i governi adottino correttivi immediati non appena si evidenzino
divergenze significative dagli obiettivi, tali da rappresentare una violazione non solo del
Programma di Stabilità ma del Patto stesso.
Il Patto di Stabilità è sostanzialmente sbilanciato nella direzione del perseguimento di regole
rigide a scapito della flessibilità e questo potrebbe in parte ridurre la capacità delle manovre di
bilancio di stabilizzare automaticamente la crescita economica dei paesi dell’unione. Il rischio di
questa caratteristica è quello di creare tensioni tra i singoli governi e le istituzioni europee,
soprattutto nei periodi di recessione, tensioni che potrebbero sfociare in maggiori pressioni sulla
BCE affinché ammorbidisca la politica monetaria o nella considerazione delle istituzioni
dell’unione come un ostacolo al miglioramento delle proprie condizioni economiche.
L’impossibilità di utilizzare la politica monetaria per la correzione di shock economici asimmetrici
e l’imperfetta mobilità di fattori come il lavoro e il capitale all’interno dell’unione monetaria, hanno
indotto i paesi membri a considerare la politica fiscale come l’ultimo strumento disponibile per
eventuali aggiustamenti. In questa prospettiva, quindi, i limiti introdotti dal Patto costituiscono un
ostacolo per la realizzazione delle politiche individualmente ottimali. Il Patto, tuttavia, può essere
interpretato anche come una forma di coordinamento ex-ante delle politiche fiscali, e l’analisi della
sua desiderabilità deve essere quindi ricondotta a quella della opportunità del coordinamento.
7
9.2.2 Stabilizzatori automatici
La perdita dello strumento monetario ha contribuito a diffondere un generale consenso sul
ruolo fondamentale che la politica fiscale dovrebbe svolgere nel processo di stabilizzazione dei cicli
economici nell’ambito dell’UME. Le fluttuazioni cicliche dell’attività economica, infatti, attraverso
variazioni dei trasferimenti per la spesa sociale e delle entrate possono avere un impatto diverso sui
saldi pubblici a seconda della fase economica considerata.
A seconda del livello di accentramento delle decisioni riguardanti la politica fiscale, diverso
potrebbe essere lo strumento impiegato ai fini della stabilizzazione del reddito nazionale e/o
regionale. Se il regime fiscale prevedesse un maggiore decentramento, le variazioni del bilancio
pubblico rappresenterebbero sicuramente lo strumento più idoneo per fronteggiare eventuali
distorsioni del reddito. Nel caso in cui il regime fiscale preveda un maggiore accentramento, invece,
l’obiettivo della stabilizzazione potrebbe essere realizzato mediante la costituzione o l’ampliamento
di un bilancio aggregato dell’Unione o un opportuno sistema di trasferimenti fiscali tra paesi e/o
regioni. Attualmente, tuttavia, non è stato ancora chiarito il ruolo di ciascuna delle forme di
intervento menzionate, tutte ugualmente razionali, il che ha contribuito ad aggravare gli effetti della
crisi economica che l’Unione ha vissuto negli anni successivi alla sua costituzione. Il dibattito
relativo agli strumenti della politica fiscale, al grado di autonomia decisionale dei singoli paesi e al
livello di interdipendenza delle politiche nazionali è ancora aperto ma è comunque possibile fare
delle considerazioni circa gli effetti delle varie forme di intervento.
Nel seguito ci soffermeremo soprattutto sulle politiche di bilancio nazionali, in quanto il regime
imposto dal Patto di Stabilità prevede una certa autonomia decisionale da parte dei singoli governi
pur nel rispetto delle le linee guida stabilite dal Consiglio, pur concludendo con uno sguardo ai
trasferimenti inter-regionali che contribuiscono a redistribuire gli effetti di shock economici
idiosincratici.
Il primo tipo di intervento di stabilizzazione del reddito è quello dei bilanci anticiclici. In
particolare, l’intervento mediante le manovre della spesa pubblica, ad esempio un aumento della
spesa per supportare un’economia temporaneamente in crisi, si rivela cruciale soprattutto nei paesi
in cui la flessibilità del costo o la mobilità di fattori come lavoro e capitale questi, o il trasferimento
di risorse in genere, risultino poco utilizzabili per motivi di natura politico-istituzionale. Tuttavia,
per evitare che il ricorso al deficit pubblico si trasformi in un abuso, con il raggiungimento di uno
stock del debito pubblico insostenibile o con il trasferimento del peso del proprio debito sugli altri
partner comunitari, il Patto di Stabilità e Crescita sancisce che tale strumento possa essere utilizzato
solo entro il limite del 3% del Pil.
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L’ipotesi di una politica fiscale completamente flessibile, auspicata dalla teoria tradizionale delle
AVO, fu rivista a seguito della insostenibilità del debito pubblico manifestatasi in diverse economie
nel corso degli anni Ottanta. Sia il Trattato di Maastricht che il Patto di Stabilità, dunque,
ribadivano fortemente l’esigenza di non decentralizzare completamente l’esercizio delle politiche di
bilancio individuali. Le regole che disciplinano il ricorso alla spesa pubblica, come stabilizzatore
degli effetti di una crisi economica, da un lato sanciscono che le nuove spese siano sostenute la
riduzione delle altre o l’aumento delle entrate fiscali, dall’altro, assicurano una maggiore robustezza
del bilancio e quindi l’efficacia degli interventi6.
L’ampiezza degli stabilizzatori automatici, misurata dalla componente ciclica dei saldi di bilancio,
varia da paese a paese e, per lo stesso paese, da periodo a periodo in base alla dimensione e alla
volatilità del ciclo economico, all’importanza del settore pubblico nel sistema economico7, alla
progressività del sistema impositivo, alla misura delle indennità per la disoccupazione e alla
sensibilità di quest’ultima alle variazioni del prodotto. L’influenza delle fluttuazioni dei saldi di
bilancio, invece, dipende dalla differenza tra il Pil effettivo e quello tendenziale (output gap) e dalla
sensibilità marginale delle entrate e delle uscite di bilancio rispetto al Pil. Per quanto riguarda
l’UME, il primo elemento è quello che indubbiamente contribuisce maggiormente alle differenze
nelle componenti cicliche dei vari stati. Buti e Sapir (1999), attraverso un’indagine empirica
condotta sui paesi dell’Unione Europea con riferimento al periodo 1960-1997, osservano che la
dimensione e la volatilità delle componenti cicliche, e quindi degli stabilizzatori automatici, è
maggiore nei paesi meno industrializzati (Spagna, Grecia e Portogallo) e in quelli geograficamente
più piccoli (Finlandia e Lussemburgo).
Nel breve termine, il mantenimento del bilancio pubblico in surplus, o quanto più possibile
prossimo al pareggio, consentirebbe ai governi nazionali di smorzare considerevolmente gli effetti
delle fasi cicliche dell’attività economica poiché, in questo caso, esisterebbero ampi margini di
manovra per gli stabilizzatori automatici. Riforme strutturali, inoltre, potrebbero addirittura
aumentare la capacità di adattamento delle economie agli shock economici attraverso, ad esempio,
risposte auto-stabilizzanti.
In generale, è lecito affermare che la sensibilità delle entrate alle fluttuazioni dell’attività economica
è maggiore di quella delle uscite e questo per l’importanza della quota delle imposte nel sistema
economico e la progressività del sistema impositivo. La media ponderata dell’elasticità complessiva
delle entrate dei paesi europei rispetto al Pil è pari all’1%, con valori che vanno dal 0,8% dell’Italia
6
Solo in presenza di un deficit non elevato l’aumento della spesa pubblica non implicherebbe anche un forte aumento
dei tassi di interesse sul debito emesso.
7
Occorre tener conto del fatto che beni pubblici importanti, come ad esempio la sicurezza sociale, l’educazione, la
sanità e la difesa, sono offerti a livello nazionale dai singoli Governi.
9
all’1,4% del Regno Unito. Una spiegazione della differente sensibilità delle voci di bilancio è data
dal fatto che, mentre dal lato delle entrate tutte le componenti sono influenzate dal livello del
reddito prodotto in un paese, tra le voci di spesa la sola ad esserlo è quella dei trasferimenti per il
sostegno alla disoccupazione.
Sulla capacità di assorbimento degli shock da parte dei bilanci nazionali può influire anche il grado
di apertura di un paese. Paesi più piccoli, fortemente condizionati dall’attività estera (elevato grado
di apertura), evidenziano una bassa incisività degli stabilizzatori automatici e, quindi, a parità di
condizioni necessitano di fluttuazioni di bilancio relativamente più ampie rispetto a paesi più grandi
per i quali l’effetto assorbimento è maggiore.
Infine, la risposta più adeguata, in termini di fluttuazione di bilancio, può variare a seconda della
natura del disturbo economico. La politica di bilancio può aiutare a stabilizzare l’attività economica
in caso di shock transitori dal lato della domanda aggregata, shock dal lato dell’offerta, invece, per
il fatto di produrre effetti di più lunga durata, richiedono aggiustamenti di carattere strutturale.
Ancora, shock simmetrici, che investono tutti i paesi allo stesso modo, devono essere affrontati
attraverso un coordinamento delle politiche fiscali nazionali e di queste con la politica monetaria
comune; shock asimmetrici, al contrario, richiedono un decentramento delle decisioni e quindi degli
aggiustamenti.
Relativamente alle proprietà stabilizzanti dei saldi di bilancio Andersen e Dogonowski (1999)
verificano che una politica pro-ciclica è più efficace di una politica equilibrata come quella imposta
dal Patto di Stabilità. Questo risultato potrebbe presentarsi in caso di mercati finanziari imperfetti,
ossia mercati in cui il tasso di interesse sul debito pubblico riesca a rimanere considerevolmente
inferiore a quello privato. La capacità di assorbimento degli shock da parte di questo regime fiscale,
inoltre, aumenta con la dimensione dello shock stesso. Gli studiosi, attraverso un’indagine empirica,
mostrano inoltre che la regola del 3% relativa al deficit risulta particolarmente stringente durante le
recessioni per tutti i paesi, come quelli scandinavi ad esempio, che presentano un sistema di
assistenza pubblica particolarmente sviluppato.
Negli ultimi tempi, il dibattito inerente le politiche auspicabili per un’unione monetaria si è
concentrato sui possibili effetti del federalismo fiscale (Ingram, 1959), con il quale gli shock
idiosincratici “regionali” potrebbero essere stabilizzati attraverso semplici trasferimenti (flussi di
pagamenti generati dal sistema impositivo federale).
Ad una sorta di bilancio federale si è arrivati dopo anni ci contrattazioni tra gli stati. Nel 1988 a
Bruxelles il Parlamento Europeo, il Consiglio dei Ministri e la Commissione per la prima volta,
dopo un lungo periodo di euro-scetticismo, raggiunsero un accordo sul bilancio dell’Unione
Europea in cui furono recepite le direttive del “pacchetto Delor” circa il ruolo e la distribuzione dei
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Fondi di Solidarietà per il potenziamento di un mercato interno. La distribuzione delle risorse
doveva avvenire tenendo conto della dislocazione dei centri produttivi, di progetti di sviluppo
integrati e della collaborazione tra paesi, regioni e autorità dell’Unione. L’accordo prevedeva che le
entrate del bilancio, derivanti dal contributo di ciascun paese, dovevano classificarsi in: risorse nette
di tipo tradizionale, pagamenti IVA, ricavi sul Pil e totale risorse. Dal lato della spesa, invece, sin
dall’inizio era possibile distinguere quattro voci: Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e
Garanzia (FEAOG), Fondi Sociali, Fondi Regionali e totale spese.
Il regime fiscale così realizzato prevedeva contestualmente trasferimenti inter-temporali, attraverso
i bilanci anticiclici, e trasferimenti inter-regionali. Questi trasferimenti differiscono soprattutto per
la loro finalità, i secondi, infatti, cercano di stabilizzare non solo il reddito disponibile
correntemente ma anche quello permanente, fornendo una sorta di “assicurazione”. Poiché i
trasferimenti a favore delle regioni temporalmente depresse derivano da pagamenti a carico delle
regioni in forte crescita, gli individui non devono temere futuri inasprimenti fiscali, ecco perché
questa forma di trasferimenti risulta più efficiente, in termini di stabilizzazione del reddito e dei
consumi, rispetto a quella intertemporale.
Molti economisti concordano che un consolidamento del regime fiscale, quale quello previsto dal
federalismo fiscale, sarebbe particolarmente auspicabile per l’UME. Kletzler (1999), tuttavia,
attraverso un modello in cui l’assicurazione fiscale si sostituisce agli strumenti stabilizzanti persi a
seguito dell’unificazione monetaria dagli stati europei (l’indipendenza della politica monetaria
nazionale e della politica dei cambi), dimostra che il miglioramento rispetto ad un contesto di cambi
flessibili risulta alquanto marginale. Il modello teorico viene impostato tenendo conto, da un lato,
degli shock produttivi asimmetrici tra i paesi aderenti ad una unione monetaria e, dall’altro, della
presenza di mercati internazionali delle attività incompleti (non è possibile commercializzare le
attività derivanti dalla capitalizzazione dei guadagni futuri del lavoro). Attraverso questa
formalizzazione, si dimostra che quello dell’assicurazione fiscale sarebbe il regime più appropriato
se le politiche monetarie riuscissero efficacemente a ridurre gli effetti di breve periodo derivanti da
squilibri nel mercato del lavoro o se i prezzi di beni e servizi non variassero da paese a paese.
L’evidenza empirica, invece, mostra che i prezzi sono stabiliti all’interno di mercati segmentati
nell’ambito dei paesi UE. Il fallimento della legge del prezzo unico, dunque, riduce
considerevolmente i benefici che il federalismo fiscale genererebbe nel caso in cui l’unione
monetaria fosse caratterizzata da rigidità nominali e shock produttivi asimmetrici.
Anche Jensen (1999), infine, tenendo conto dei limiti esistenti al potere d’azione delle politiche
fiscali nazionali, per la necessità di modificare le politiche per l’ammissione alla fase finale
dell’UME secondi i criteri di Maastricht, analizza un modello in cui introduce un meccanismo di
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trasferimenti fiscali inter-stati con lo scopo di valutarne comunque la capacità di stabilizzazione
macroeconomica. L’economista puntualizza che i trasferimenti fiscali sono rilevanti solo per
interventi correttivi di breve periodo e devono essere tenuti distinti da modalità di intervento mirate
al supporto dello sviluppo strutturale delle regioni più povere. Usando un modello macroeconomico
a due paesi egli mostra che la transizione verso l’unione monetaria può generare una maggiore
flessibilità dei prezzi e dei salari, per cui un aumento della velocità di aggiustamento potrebbe
essere realizzato solo al prezzo di un aumento iniziale delle differenze nei livelli di reddito dei
paesi. In questo modo si evidenzia il ruolo dei trasferimenti nella stabilizzazione del reddito e dei
cicli economici asimmetrici. Tale intervento, tuttavia, potrebbe generare una maggiore instabilità
dei prezzi e diversi problemi legati al fenomeno dell’azzardo morale8, propri dei regimi in cui esista
una ripartizione del rischio. Per questa ragione l’adozione di un meccanismo di trasferimenti fiscali
diviene auspicabile solo nel primo periodo dell’unione monetaria, ossia fino a quando gli
stabilizzatori automatici endogeni all’economia non siano in grado di correggere prontamente gli
effetti di shock asimmetrici.
9.3.
Coordinamento delle politiche economiche nell’EMU
9.3.1 Interazione tra politica monetaria e politica fiscale
Un filone recente della letteratura riguardante la politica della banca centrale insiste sul
concetto secondo il quale le autorità monetarie sono le uniche ad essere responsabili della
stabilizzazione del reddito (Rogoff, 1987; Persson e Tabellini, 1993, Walsh, 1995). Tuttavia, in
un’economia in cui le fluttuazioni sono attribuibili a combinazioni di effetti della domanda
aggregata e a rigidità nominali, anche la politica fiscale può contribuire a ridurre le fluttuazioni
della domanda aggregata (Blanchard e Fischer, 1989). Entrambe le componenti della politica
fiscale, dunque, influenzano la domanda aggregata, includendola nella propria funzione obiettivo
(politica fiscale) o considerandola come una variabile intermedia all’interno del meccanismo di
trasmissione delle proprie decisioni (politica monetaria). L’ottimizzazione delle risorse ed il
miglioramento dello stato di benessere dell’economia, quindi, richiede necessariamente che queste
componenti siano in qualche modo coordinate.
8
Problemi di azzardo morale possono essere quelli legati alla non desiderabilità, da parte di paesi che prevedono di non
essere interessati da shock asimmetrici, di trasferire parte del proprio gettito fiscale ai paesi interessati da tali shock,
soprattutto se questi risultassero generati da una mala gestio. La volontà di contribuire alla ripresa di altri paesi membri,
inoltre, potrebbe dipendere dalla fase ciclica di un paese rispetto al proprio output gap e non rispetto alla media
dell’unione, potrebbero sorgere, dunque, forti attriti tra l’autorità sopranazionale, preposta alla organizzazione dei
trasferimenti inter-stati, e le autorità nazionali circa il momento in cui realizzare tali trasferimenti.
12
La BCE, responsabile della politica monetaria dell’UME, si è posta come obiettivo
prioritario la stabilità dei prezzi. Come realizzare, dunque, il coordinamento tra la politica monetaria
della BCE e le politiche fiscali nazionali? Alcune risposte possono trarsi dalla letteratura più recente
in materia. Un primo approccio, basandosi sul lavoro di Sargent e Wallace (1981), afferma che nella
misura in cui l’andamento del deficit fiscale dei governi sia predeterminato e insostenibile, la
politica monetaria ed il livello dei prezzi non possono essere considerati fattori esogeni per la sua
determinazione. Le conclusioni di questo filone della letteratura si sono rivelate determinanti per il
disegno della disciplina fiscale come pre-requisito alla stabilità monetaria auspicata dagli accordi di
Maastricht.
Un secondo filone considera il caso di una banca centrale ancora più avversa all’inflazione, il ché
potrebbe avere effetti distorsivi sugli incentivi delle autorità fiscali a ridurre i livelli del proprio
debito.
Un terzo filone analizza gli effetti che possono avere politiche fiscali condotte da governi miopi,
consapevoli di essere sostituiti nel turno elettorale successivo, i quali sostengono faraonici piani di
spesa obbligando l’autorità monetaria sovra-nazionale ad intervenire con politiche inflazionistiche
temporalmente inconsistenti. E’ chiaro che, in questi casi, un limite all’accumulazione del debito
non potrebbe che migliorare le condizioni di benessere dell’unione monetaria. Dixit e Lambertini,
in alcuni lavori piuttosto recenti (2001a, 2001b), assumono che le autorità monetarie e fiscali
cercano di minimizzare una funzione di perdita (in forma quadratica) in due variabili, inflazione e
prodotto (reddito), dove sia i livelli di riferimento che il peso attribuito a ciascuna di esse può
variare. Gli autori verificano, attraverso modelli teorici, che la discrezionalità della politica fiscale
“distrugge” l’impegno (commitment) monetario, giustificando così l’introduzione di regole al
comportamento delle autorità fiscali in termini di bilancio pubblico. L’imposizione delle regole,
tuttavia, non è sufficiente di per sé, occorre che le autorità raggiungano un accordo circa gli
obiettivi finali. Assimilando l’interazione tra le autorità di politica economica ad un gioco a là
Nash, la scelta strategica di ciascuna potrebbe condurre ad una soluzione di equilibrio in cui i livelli
raggiunti potrebbero essere abbastanza prossimi a quelli inizialmente preferiti (il dibattimento tra le
autorità potrebbe tuttavia portare a risultati ben lontani da quelli desiderati).
Un quarto filone di studi considera esplicitamente l’esistenza di distinte autorità fiscali con funzioni
obiettivo diverse. Il costo di politiche fiscali non cooperative può essere molto elevato, soprattutto
in caso di shock simmetrici, ed aumenta al crescere del numero di attori. La banca centrale, infatti,
può essere indotta, pressata da parti diverse, ad intervenire per garantire una crescita economica
equilibrata in tutti i paesi, con ovvie conseguenze sulla stabilità dei prezzi e, quindi, ad aumentare
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necessariamente i tassi di interesse. Il coordinamento delle politiche fiscali, dunque, contribuirebbe
per lo meno a mantenere basso il livello dei tassi di interesse.
Un ulteriore approccio, infine, parte dall’assunzione che entrambe le componenti della politica
economica abbiano effetti sulla domanda aggregata e sull’inflazione. Le autorità, dunque, possono
trarre benefici dalla cooperazione: le decisioni di politica fiscale dovrebbero tener conto degli
obiettivi della BCE relativamente alla stabilizzazione del reddito e dell’inflazione.
Per avere un idea di quella che dovrebbe essere la situazione in seno all’UME, relativamente
al coordinamento tra politica monetaria e fiscale, può essere utile considerare le conclusioni a cui
sono giunti Lambertini e Rovelli (2003) attraverso lo sviluppo di un modello teorico. L’idea di
partenza dei due studiosi è quella, abbastanza diffusa, secondo cui il coordinamento tra le politiche
consentirebbe di smorzare considerevolmente i costi generati dal processo di stabilizzazione dei
prezzi. Ipotizzando un gioco strategico tra le autorità monetarie e fiscali essi giungono alla
conclusione che, data la complessità e la lentezza del processo sottostante alle decisioni di politica
fiscale e la difficoltà di modificare processi già implementati (rispetto alla politica monetaria), le
autorità di politica fiscale agirebbero naturalmente in una posizione di leader (leader a là
Stackelberg) rispetto ai banchieri centrali. Nell’UME, il risultato è più che giustificato se si
considera che la politica fiscale (le linee guida della politica fiscale) è decisa con riferimento ad un
anno intero, mentre la politica monetaria può essere corretta anche nel breve e brevissimo periodo
(ogni due settimane). Da una interpretazione dei risultati essi affermano che quello definito
approccio del “Tesoro” potrebbe rappresentare la logica di comportamento dei governi nazionali
mentre l’approccio del “Governo” potrebbe guidare le decisioni della Commissione Europea. In
breve, l’approccio del Tesoro prevede che, avendo delegato ad un agente indipendente (BCE) parte
della funzione di benessere, l’autorità fiscale (governo nazionale) dovrebbe impostare la propria
politica tenendo conto solo della parte restante della funzione; l’approccio del Governo, invece,
implica che le decisioni dell’autorità fiscale (Commissione Europea) debbano mirare alla
massimizzazione del benessere complessivo. L’applicazione del Patto di Stabilità, infatti, attribuisce
alla Commissione l’obbligo di monitorare l’implementazione del Patto in tutti i paesi membri e di
decidere le linee guida per le politiche fiscali nazionali, tenendo conto di quelle che potrebbero
essere le possibili conseguenze in termini di variazione del livello dei prezzi.
9.3.2 Coordinamento delle politiche fiscali nazionali
La teoria delle AVO, come ricordato precedentemente, richiederebbe l’accentramento della
politica fiscale per contrastare gli eventi socio-economici dai quali potrebbero avere origine shock
asimmetrici. In alternativa, sarebbe auspicabile un certo grado di flessibilità nelle politiche fiscali
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nazionali in modo che ciascun paese possa disporre dei mezzi necessari per affrontare gli effetti di
shock specifici. Tuttavia, la situazione originata dal Trattato di Maastricht, prima, e dal Patto di
Stabilità, dopo, non contempla la creazione di un’autorità fiscale sovranazionale ma garantisce il
necessario grado di coordinamento e, nei limiti prefissati, una certa autonomia delle politiche fiscali
nazionali. La giustificazione di un simile regime è da rinvenirsi nella necessità di tener conto delle
esternalità che possono verificarsi tra i paesi o tra le politiche. Potrebbe verificarsi, ad esempio, che
l’aumento dei tassi di interesse in un paese che ricorre maggiormente al mercato dei capitali, per la
continua crescita del proprio rapporto Deficit/Pil, sia trasmessa anche ad altri paesi membri,
indipendentemente dalle performace dei loro bilanci pubblici (spillover tra paesi). In altri casi,
invece, decisioni relativamente al sistema impositivo o di assistenza potrebbero influenzare il
funzionamento del mercato del lavoro e, quindi, condizionare l’efficacia delle misure in un altro
campo di politiche, in questo caso la politica del lavoro (spillover tra politiche).
Un appropriato coordinamento, nella forma di accordi circa le regole e gli obiettivi, può servire per
orientare le politiche individuali e, quindi, limitare gli effetti negativi delle potenziali esternalità.
Coordinare politiche altrimenti indipendenti consente quindi di avvicinarsi a situazioni ottimali
grazie agli effetti positivi che possono aversi in termini di benessere. Attraverso lo scambio di
informazioni, le esperienze di altri paesi, positive o negative che siano, possono aiutare a ridurre i
costi per la realizzazione di politiche appropriate ed errori che altrimenti sarebbero commessi.
I principi del Trattato di Maastricht stabiliscono le basi per una stretta collaborazione tra le varie
autorità che, nella forma più stringente, obbliga quest’ultime a raggiungere un accordo sulle regole
comuni per la condotta delle politiche individuali al fine di ridurre gli effetti negativi delle
esternalità. Il successo di questa forma di coordinamento deriva dall’esistenza di un meccanismo di
costrizione credibile, spesso rappresentato dalle sanzioni previste per le unità che non adeguano la
propria condotta alle decisioni comuni.
Una forma di coordinamento meno stringente è dato dal dialogo politico, dallo scambio di
informazioni e dalla condivisione delle analisi che, insieme, attribuiscono all’unione degli stati una
visione unitaria, data la diffusa consapevolezza circa l’interdipendenza delle proprie decisioni.
La condotta della politica fiscale nei singoli paesi è stata pensata per ridurre al minimo i
rischi di esternalità negative derivanti da decisioni individuali inappropriate. Il regime scaturente da
un simile sistema, dunque, è ragionevolmente qualificato come “condizionatamente flessibile”. Lo
strumento più importante è rappresentato dalle “linee guida dell’orientamento generale della
Politica Economica”, approvato dall’ECOFIN e contenente i riferimenti specifici che ciascuno dei
paese aderenti deve necessariamente considerare durante il processo decisionale delle politiche
economiche e di bilancio domestiche. Il coordinamento è continuativo nel tempo dal momento che
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gli stati si impegnano a presentare annualmente un programma di stabilità, se hanno aderito già
all’unione, o un piano di convergenza se non ancora appartenenti all’area Euro. Questi programmi
saranno poi sottoposti al vaglio della Commissione Europea e dell’ECOFIN. Il Consiglio Europeo,
infine, stabilisce che i paesi presentino anche un rapporto circa lo stato di avanzamento delle
riforme in settori cruciali per il funzionamento del mercato unico, e cioè relativamente alle
telecomunicazioni, all’energia, alla difesa delle politiche di concorrenza e alla eliminazione delle
barriere per la creazione di nuove imprese.
Tanti sono i progressi fatti negli ultimi anni in termini di coordinamento, basti pensare alla
condivisione delle informazioni più importanti e alla disponibilità a discutere in seno ad un
Eurogruppo i maggiori cambiamenti in termini di imposizione e spesa previsti per il futuro. Anche
la valutazione della qualità della finanza pubblica avviene a livello comune, in modo da garantire
una sorta di apprendimento dai reciproci processi, da sfruttare nel momento in cui si definiscono le
rispettive politiche economiche.
Questo intenso sistema di relazioni, volontarie e non, tra le istituzioni nazionali e quelle
dell’unione sono il risultato degli sforzi fatti per il raggiungimento di un adeguato livello di
coordinamento intra-stati e tra questi e l’unione stessa, in modo da sopperire alla mancanza di un
sistema fiscale centralizzato come auspicato da gran parte della letteratura sulle AVO. Il risultato
più importante di questa evoluzione è il riguardo con cui nel definire le politiche fiscali nazionali si
tengono presenti non solo le esigenze interne ma anche gli effetti aggregati che le decisioni di policy
possono produrre in tutta l’area dell’Euro.
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