FAMIGLIA NATURALE E PERSONA UMANA1 avv. Alfredo De Francesco Sommario Introduzione 1 1.1 Sul riconoscimento giuridico del matrimonio 3 1.1.1 Famiglia e procreazione naturale 5 1.1.2 L’educazione dei figli 7 1.1.3 La famiglia tradizionale come società naturale 11 1.1.4 Conclusioni parziali: rinvio 17 1.2 Dal semplice al complesso: la famiglia senza prole 19 1.3 Il matrimonio del transessuale 21 1.3.1 Il cambiamento di sesso senza operazione chirurgica 22 1.3.2 La transessualità sopravvenuta 23 1.4 Unioni di fatto omosessuali e matrimonio 1.4.1 Gli ultimi ed equivoci sviluppi della CEDU 1.5 Same-sex marriage e diritti dei coniugi eterosessuali 1.5.1 Nessuna differenza tra same- and opposite-sex couples? 1.6 Conclusioni 25 28 30 31 33 Introduzione Le critiche e le lagnanze contro la tradizionale disciplina del matrimonio sono sempre più accese e stringenti, tanto che appare a molti osservatori come ormai prossimo il superamento definitivo nel mondo occidentale della visione della famiglia legittima come esclusivamente fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna. Su questa scia, grande rilievo e risalto hanno assunto negli ultimi anni le più importanti corti nostrane e la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo (di seguito indicata come “CEDU”), che ha dato un sicuro impulso all’idea sempre più comune e ormai pacificamente espressa secondo cui la scelta di estendere il modello matrimoniale anche ad unioni diverse da quella eterosessuale sarebbe rimessa al legislatore ordinario, posto che – così ormai si legge testualmente in alcune pronunce – il carattere dell’eterosessualità del matrimonio non costituirebbe più un canone di ordine pubblico né interno né internazionale. 1 Il presente scritto si rifà a precedenti riflessioni dell’Autore sul tema in questione, ma nella sua attuale veste il tutto assume una sua autonomia “scientifica”. La complessità e lo sviluppo della materia negli ultimi anni sono stati tali che singoli interventi non sono stati ritenuti più adeguati, essendo risultato preferibile inserire in un unico testo le principiali argomentazioni a tutela della famiglia naturale tradizionale anche alla luce delle più recenti decisioni giudiziarie in tema di riconoscimento giuridico delle coppie same-sex. Il riferimento alla “maternità naturale”, ampiamente usato nel testo, è fatto seguendo la lezione di Romano Guardini secondo cui <<esser madre non significa “produrre vita” – anche gli animali fanno questo – ma “dare la vita a un uomo”. E un uomo è una persona, dapprima come assopita e poi, pian piano, destantesi; così, in immediato rapporto con la madre, cresce un essere che formandosi si sottrae a lei seguendo la propria destinazione … interiore. In ciò risiede la grandezza, ma anche l’elemento tragico della maternità. Il figlio è legato tanto intimamente con la madre da formare con lei un unico ambito di vita. Però non si dissolve in esso, ma sta contemporaneamente e fin dal primo momento con l’esistenza, con le norme assolute, con Dio>> (GUARDINI R., Il diritto alla vita prima della nascita, ed. Morcelliana, 2005, pagg. 19 e 20) In una visione squisitamente giuridica, tale posizione non fa altro che ricondurre ogni argomento in proposito al noto brocardo secondo cui quod principi placuit legis habet vigorem: lo status quo dovrebbe, infatti, essere trattato alla stregua di una transitoria opportunità politica, opportunità che, tuttavia, alla luce dei tempi contemporanei e in vista della massima esigenza di garantire ed espandere i diritti fondamentali dell’uomo apparirebbe allo stato sempre più come oziosa e priva di senso. Il presupposto di tale impostazione è all’apparenza ragionevole e capace di ricevere il più ampio consenso: le scelte appartenenti alla sfera emotiva ed affettiva hanno fondamento nell’autodeterminazione della persona; tali scelte “nella nostra cultura giuridica” si esplicherebbero e dovrebbero esplicarsi al di fuori di qualsiasi ingerenza statuale di tipo negativo. Di fronte ad una simile libertà, quindi, lo Stato di diritto non potrebbe, salvo dover essere del tutto incoerente, escludere l’accesso alle più ampie forme di “matrimonio” concepibili ed immaginabili, non potendosi più ammettere, nonostante una tradizione plurimillenaria, che vi sia un solo “tipo” di matrimonio, quello tra “uomo” e “donna”, appunto, tanto più che gli stessi concetti di sessualità maschile e femminile dovrebbero adattarsi più che alla “natura” o, se si preferisce, agli organi sessuali posseduti alla nascita, ad un più complesso riferimento semantico, comprendente anche taluni elementi di carattere psicologico e sociale. In proposito, si è affermato che il sesso sarebbe la risultante della personalità, così come si formerebbe al fine di trovare una serie di equilibri interni. In altri termini, “maschio” sarebbe colui che non solo possiede i genitali maschili, ma che si sente tale; nello stesso modo, per essere davvero “femmina” bisognerebbe sentirsi donna e non anche uomo. Le tecniche moderne, peraltro, darebbero la possibilità, in cui vi fosse una dissociazione tra soma e psiche, di rimediare alla situazione attraverso interventi chirurgici capaci di eliminare ogni distonia in proposito. Da qui la conclusione, che si può dare come ampiamente accolta anche dalla giurisprudenza costituzionale non solo italiana e internazionale, secondo cui l’identificazione cromosomica del sesso non sarebbe più un fattore condizionante in maniera ineluttabile l’identità di genere, dovendosi invece riconoscere alla persona umana il diritto a rettificare l’attribuzione originaria di sesso coerentemente con il proprio equilibrio psicofisico. Da ultimo, si è inoltre precisato che per il mutamento anagrafico del sesso non sarebbe nemmeno sempre necessario procedere a operazioni chirurgiche protese a modificare gli organi genitali originali, essendo sufficiente accertare che il mutamento del sesso sia una scelta tendenzialmente immutabile sia sotto il profilo della percezione soggettiva che di quella oggettiva, in ragione dei mutamenti dei caratteri sessuali “secondari” come quelli somatici, estetici ed ormonali. Alla luce di quanto sopra, sembrerebbe che sarebbero irrimediabilmente in crisi non solo il matrimonio e la famiglia ma anche i concetti di uomo e di donna così come concepiti giuridicamente e culturalmente sino a qualche decennio fa. Venendo meno tali elementi, dovrebbero coerentemente venir meno anche le configurazioni “statiche” che le avrebbero sin qui connotate sotto il profilo giuridico, tanto più che si tratterebbe di espandere istituti di garanzia e di tutela e non anche di limitare quelli esistenti. E’ comune affermazione, del resto, che il riconoscimento del matrimonio omosessuale così come il transessualismo non impedirebbero il matrimonio eterosessuale né imporrebbero ad un uomo, nato uomo, di sentirsi tale ed ad una donna, nata donna, di rimanere tale. Semmai si tratterebbe di riconoscere comunioni di vita tra persone, che seppur diverse nella forma da quelle tradizionali, avrebbero la medesima consistenza sostanziale sotto il profilo degli affetti e della volontà di una vita comune. Tale tendenza, da ultimo, ha portato chiaramente a considerare nel concetto di matrimonio come essenziale esclusivamente la volontà di due esseri umani adulti e consenzienti di voler vivere insieme e di volere che la società riconosca e rispetti tale loro volontà. Si è così espressa la necessità che il diritto faccia vincere l’amore umano, comunque formato e manifestato, e che in ogni caso lo Stato democratico e liberale non possa mai, volendo rispettare i diritti fondamentali dell’uomo, disconoscere le unioni diverse da quelle tradizionali solo perché fondate sulla identità sessuale dei “coniugi”, laddove manchi e comunque non vi sia una evidente ragione pubblica, che possa in qualche modo giustificare tale disparità di trattamento, ragione pubblica che allo stato delle cose appare essere una vera e propria chimera. Se e quanto tali affermazioni possano davvero essere ragionevoli alla luce di una corretta interpretazione non solo delle norme vigenti ma anche e soprattutto del senso costituzionale, id est fondamentale per la comunità sociale e statale, del matrimonio eterosessuale sarà l’oggetto delle pagine seguenti. Qui si può solo anticipare che l’erosione della visione della famiglia fondata tra maschio e femmina “naturali” non è senza effetti negativi sul piano dei valori sociali e che non può in alcun modo seriamente equipararsi la comunità di vita familiare “tradizionale” con una qualunque legalizzazione della convivenza omosessuale comunque intesa e neppure, a maggior ragione, con una sua equiparazione alla figura familiare propriamente intesa. Più di tutto, però, visti gli ultimi orientamenti di diversi parlamenti e delle più alte corti a cui fanno riferimento le più importanti nazioni del mondo occidentale, si sente la necessità di trovare una ragione effettiva e persuasiva per spiegare giuridicamente il senso di una “discriminazione”, che appare – come accennato - a molti sempre più odiosa ed incapace di essere compresa posto che si porrebbe contrapposizione con il concetto stesso di dignità della persona. L’obiezione, insomma, che bisogna risolvere è quella che, più o meno velatamente, mira ad accusare gli strenui difensori della visione “tradizionale” della famiglia di essere, appunto, semplicemente dei “tradizionalisti”, che rimangono sordi alle voci della società in evoluzione e che più di tutto sono ciechi rispetto alle modificazioni in atto, che in sé e per sé non mirerebbero a distruggere o diminuire i valori propri della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna (peraltro – secondo tale prospettiva - in crisi per ragioni altre e diverse rispetto a quelle qui in discussione), ma semmai a far emergere il valore essenziale o, meglio, ciò che di vero c’è nel matrimonio così da renderlo universale e, quindi, fruibile da tutti: il volersi bene o, meglio, l’esigenza di tutelare coloro che si amano e decidono di avere una stabile comunione di vita. Mai come in quest’epoca l’idea che il matrimonio tra l’uomo e la donna sia “la tomba” dell’amore o, più realisticamente, un incomprensibile limite all’amore ha così grandi e stimati sostenitori; mai come in quest’epoca l’idea che la famiglia fondata sul matrimonio fra donna e uomo sta perdendo di senso e valore sociale; mai come in quest’epoca si è posta una contrapposizione all’apparenza insanabile tra la famiglia, intesa come società naturale, e diritti naturali della persona. Da molto tempo, si sente, specie per i sostenitori del diritto naturale, la necessità di una nuova “grammatica” per poter affrontare le sfide culturali contemporanee: in effetti, è necessaria una revisione di molti concetti, ma forse, più di tutto, è necessario giungere a ordinare e, quindi, semplificare le questioni, nel senso di mirare a chiarire il valore essenziale che la protezione e valorizzazione della famiglia “tradizionale” rispetto ad altre forme di vita ha per la tutela giuridica della persona umana … anche transessuale od omossessuale e persino per le diverse unioni, che si fondino, in ipotesi, sul medesimo sesso dei suoi componenti. Ma ciò detto, è bene non indugiare oltre ed affrontare i problemi direttamente. 1.1 Sul riconoscimento giuridico del matrimonio Che lo Stato di diritto debba riconoscere la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna è affermazione che può darsi come pacificamente ammessa nel mondo occidentale. Ciò che è entrato in crisi nell’evo contemporaneo non è tale punto, ma se vi possano essere “legittime” famiglie non basate sul matrimonio “uomo – donna” e se il matrimonio debba in effetti essere proteso a formare una famiglia con figli. Detto in termini più concreti, quello su cui oggi si disputa è se il modello tradizionale di famiglia legittima debba costituire un paradigma esclusivo e se il concetto di matrimonio possa essere ampliato sino al punto di eliminare la diversità dei sessi dei coniugi come presupposto indispensabile per riconoscere l’unione personale e di vita tra esseri umani, facendo così risultare come giuridicamente irrilevante il legame in questione con l’esigenza procreativa. Ad una prima analisi può apparire che le questioni appena accennate non siano necessariamente collegate, in quanto non strettamente interdipendenti, e di per sé poco problematiche. Si potrebbe, infatti, sostenere (come in effetti si sostiene) che nulla, dal punto di vista logico e deontologico, potrebbe escludere la legittimità di una disciplina che, pur prevedendo una visione tradizionale della famiglia, estenda, mutatis mutandi, alle unioni omosessuali la disciplina in questione, vuoi facendo riferimento al concetto di analogia, fondando il tutto sulla volontà di due soggetti di voler costituire e voler far riconoscere socialmente una stabile comunione di vita, vuoi (al limite) per una insindacabile discrezionalità “benevola” del legislatore, che voglia estendere tutele a forme di convivenza diverse dalla famiglia tradizionale, attribuendo alle stesse le garanzie tipiche di quest’ultima. In questa prospettiva, la disciplina giuridica non sarebbe altro che un contenitore generale che, essendo rivolto alla maggior tutela delle forme di vita degli uomini e delle donne, non dovrebbe porre problemi di contrasto tra le diverse forme o modalità di comunione di vita: tutte sarebbero tutelate nello stesso modo, tutte sarebbero parimenti riconosciute, tutte si fonderebbero sulla libertà dei singoli. Nello stesso modo, il pieno riconoscimento della famiglia same-sex non dovrebbe essere confuso col problema procreativo, posto che esso non è elemento costitutivo del matrimonio in sé, dal punto di vista giuridico, e, ove si voglia agganciare in qualche modo il matrimonio alla filiazione, ben potrebbero essere superati gli ostacoli naturali alla procreazione tramite accorte discipline dell’adozione del figlio naturale dell’uno o dell’altro “coniuge” ovvero con uno sviluppo giuridico e tecnologico della fecondazione artificiale specie eterologa. Anche in queste situazioni, dunque, non vi sarebbe affatto alcun contrasto, ma piuttosto sviluppo ed estensione di garanzie, di cui tanto i singoli quanto lo Stato non dovrebbero temere, posto che ciò che è “bene” è bene che venga dato a tutti, senza distinzione. In estrema sintesi, dunque, l’estensione del concetto di matrimonio e famiglia legittima a paradigmi diversi da quelli “tradizionali” non costituirebbe una rivoluzione e neppure una involuzione, ma, se del caso, una evoluzione della forma “originaria” di matrimonio e di famiglia. Per quanto persuasive possano apparire tali argomentazioni, è innegabile, tuttavia, che una volta eroso il valore esclusivo o prioritario della tradizionale famiglia legittima a favore di altre formazioni di fatto presenti nella società, la possibilità che vi sia spazio per modelli di matrimonio diversi da quelli tradizionali si rafforza enormemente, ed è altrettanto chiaro che se non si collega il concetto di famiglia ad un valore essenziale lo stesso alla fine perde di pregnanza e di significato. Ammesso, infatti, che si possa equiparare il matrimonio tradizionale al matrimonio same-sex, in ragione di un aspetto del contenuto del consenso matrimoniale, come si potrebbe escludere la poligamia e persino il matrimonio tra i coniugi e i loro figli “legali”? Il divieto della poligamia, che pure rappresenta una forma di famiglia storicamente ancora esistente, per poter valere davvero dovrebbe far leva sopra ragioni che vadano oltre il volere dei singoli di vivere insieme stabilmente; nello stesso modo, il divieto del matrimonio tra genitori e figli e parenti “stretti” dovrebbe agganciarsi a ragioni, che vadano oltre l’aspetto biologico e consanguineo, specie allorché l’unione sia tra persone, che di fatto non hanno tra loro alcun vincolo di sangue. Ed, infine, perché mai si dovrebbe escludere la piena legittimità di situazioni nelle quali il medesimo soggetto possa essere parte di più formazioni di vita in comune? Se ciò dovesse avvenire col pieno consenso dei partecipanti, il punto non dovrebbe trovare un qualche riconoscimento e rispetto? Ma se tutto ciò fosse, quale valore avrebbe il matrimonio tradizionale rispetto a tali ulteriori forme consensuali? Nessuno, nel senso che il matrimonio comunemente inteso non sarebbe altro che uno tra i tanti (e neppure tra i più allettanti) modi di costituire una vita insieme, di modo che, in una sorta di diritto di famiglia allargato, ciò che rileverebbe sarebbe l’aspetto della libertà, del libero consenso e della piena consapevolezza dei soggetti interessati, in un quadro di tutele che non potrebbero non prevedere la libera e, sostanzialmente, insindacabile volontà di ciascuno di “uscire” dal consorzio costituito, senza particolari formalità e soprattutto, per quel che concerne il rapporto con gli altri adulti, senza che vi sia una mediazione necessaria da parte della giurisdizione e più in generale dello Stato. Ad ogni modo, anche a considerare come sostanzialmente irrilevante quanto appena riferito, non può ritenersi che nella materia de qua il tutto appartenga a questioni puramente concettuali o di definizione normativa: in effetti, le spinte che sottostanno alle problematiche qui accennate sono di valore ed implicano scelte politiche e giuridiche fondamentali, sicché affermare che si possa riferire genericamente di un concetto ampio di famiglia o di matrimonio, per poi includerne le diverse specie che di per sé non verrebbero necessariamente confuse, è opzione da scartare a priori, poiché il mutamento sottostante ai riferenti semantici è sostanziale e non formale. E’ allora indispensabile comprendere se ed in che termini la famiglia legittima, id est quella che si fonda e costituisce in base ad un patto di vita e di assistenza personale stipulato in maniera formale e personalissima da parte di due coniugi di sesso diverso, abbia un valore fondamentale per lo Stato. Se, infatti, non vi è una stringente rilevanza pubblica peculiare, allora tale istituto assume una valenza prevalentemente privatistica e, quindi, fuor di metafora soggetta – quanto meno nel tempo - alla più ampia dipendenza dalle particolari volontà dei cives per quanto riguarda le forme e i presupposti di costituzione. Nello stesso modo, scadendo il fine pubblico della famiglia legittima e del matrimonio, il contenuto degli impegni “contrattuali” fondanti la famiglia potranno essere non univoci. 1.1.1 Famiglia e procreazione naturale Si domanda, dunque, se ed in che termini possa rinvenirsi una ragione propria della famiglia legittima basata sul matrimonio (così come tradizionalmente inteso) - che sia ad essa propria e che non possa mai essere elisa senza con ciò elidere o mutare la natura stessa dello Stato. La risposta è positiva e può essere agevolmente rinvenuta nella necessità di assicurare, per il sopravvivere delle società la nascita e la cura delle nuove generazioni sino a che i singoli non diventino adulti indipendenti. Tale fine può essere perseguito essenzialmente in due modi: o artificialmente o naturalmente. Che l’educazione dei nuovi nati possa essere affidata a soggetti diversi dai genitori naturali è idea piuttosto antica e sostanzialmente attuata, seppur non in maniera assoluta, allorché il principio di sussidiarietà dello Stato nell’educazione dei figli viene violato in favore di un suo intervento diretto e pregnante nel formare le coscienze obbedienti dei sudditi. D’altra parte, se un tempo la nascita “artificiale” degli uomini poteva apparire come irrealistica, oggi ciò è opzione fattibile unitamente a tecniche raffinate sulla possibilità di far nascere figli utilizzando semi od ovuli appartenenti a persone diverse dai coniugi. A fronte di tale situazione, lo Stato deve o non deve assicurare la possibilità che i figli siano innanzi tutto concepiti naturalmente ed educati dai propri genitori naturali? Qui non si può dire che vi possa essere indifferenza di scelta, poiché se si ammette che la “regola” è quella per cui i figli debbano nascere naturalmente e, dunque, in conseguenza di una fecondazione derivante dall’effettuazione di un rapporto sessuale tra un uomo ed una donna, ciò significa che ogni intervento in ipotesi proteso a definire modalità di fecondazione artificiale avrà di per sé caratteri di assoluta eccezionalità, non tanto per ragioni economiche ma di valore. E’ chiaro, infatti, che è solo nella fecondazione naturale che non vi è la necessaria partecipazione di un terzo o comunque di una struttura organizzativa complessa, di modo che solo in essa si realizza pienamente il concetto di “libertà procreativa”. Infatti, nel caso di procreazione artificiale si deve acquisire la collaborazione di altri soggetti e ciò è possibile solo se vi è un corpus normativo, più o meno complesso, proteso ad assicurare l’attività richiesta. Ma poiché tale “collaborazione” è un facere che per definizione è incoercibile, discende che la procreazione artificiale non può concettualmente mai essere concepita come un diritto contro possibili ingerenze dallo Stato, così che essa si espone, specie ove venga incentivata e stimolata, di per sé a poter essere strumentalizzata al fine del controllo e della selezione delle nascite da parte dell’apparato statale. Sul punto si potrebbe, a prima vista, agevolmente ribattere che ciò potrebbe essere solo nel caso in cui lo Stato si ponga come soggetto attivo nella funzione procreativa artificiale: laddove, invece, il tutto avvenga in piena libertà e secondo i desiderata dei soggetti interessati, tale ragionamento sarebbe privo di consistenza, specie in una prospettiva di sviluppo tecnologico che possa in ipotesi rendere facilissimo ottenere figli artificialmente. Ciò, però, costituirebbe un’analisi piuttosto superficiale. L’incentivazione e lo sviluppo della procreazione artificiale, infatti, non è senza un criterio pratico o di indirizzo: una volta che il desiderio del figlio o, meglio, di un figlio, che corrisponde ad un particolare modello, viene ad essere sostenuto dallo Stato in maniera significativa, ciò che viene ad essere annientato è l’incentivazione ad un modello di filiazione (id est, quella naturale) evidentemente diversa da quella che assicuri una affidabilità di riuscita minore rispetto a quella artificiale. Affidabilità rispetto al modello di riferimento, s’intente, che ben può prescindere non soltanto dai connotati fisici di coloro, che richiedono il figlio, e che semplicemente corrisponda alle esigenze o alle mode del momento. In quest’ambito i primi a perdere di valore sarebbero i più “deboli”, cioè i malati e i portatori di handicap sino a coloro che semplicemente siano “brutti”. Quel che si vuol dire, insomma, è che allorché lo Stato sostiene e, anche solo nei fatti, incentiva la filiazione artificiale come istituto ordinario e non già come elemento assolutamente eccezionale (id est, giustificabile per stringenti ragioni da vagliare caso per caso) e attentamente regolamentato, si aprono le porte a visioni artificiali dell’uomo, che inevitabilmente conducono, se non subito … subito dopo, ad uno stravolgimento dello stesso concetto di dignità umana. Non vi è dubbio, infatti, che in ogni società si rappresenta, nel bene o nel male, l’ideale del prototipo di figura umana di riferimento, sicché, avendo piena e garantita scelta di poter definire “chi” avere come figlio, se questo “chi” sposa le esigenze dello Stato allora il diverso viene ad assumere inevitabilmente una veste secondaria e, quindi, in definitiva di “scarto” sociale. Né può negarsi che in uno Stato del benessere o comunque sociale, fortemente indebitato e proteso, al di là delle enunciazioni di principio, a limitare (per autosostenersi) nei fatti i diritti e le garanzie connesse alla maternità naturale, ben si potrebbe non solo strutturare l’assetto sociale in maniera tale da rendere in concreto difficile la procreazione naturale (mediante politiche che nei fatti riducono o disincentivano la natalità naturale) ma anche, proprio grazie alla tecnica e a politiche di sostegno, valorizzare modelli che garantiscano, in prospettiva, una adeguata pianificazione delle nascite e soprattutto una loro “alta qualità” rispetto al sistema sociale e politico di riferimento. In estrema e chiara sintesi, un ampio ricorso alla procreazione artificiale a discapito della valorizzazione ed incentivazione della maternità naturale, non sarebbe altro che una nuova e più subdola versione del concetto di “razza ariana” fondata apparentemente sulla libertà e tutela di legittime aspettative dei singoli. Il punto è di vitale importanza che merita un’ulteriore considerazione. La regolamentazione della maternità naturale, nello Stato contemporaneo ed occidentale, è sempre stata fondamentale, vuoi per strumentalizzarla al fine dello sfruttamento del lavoro minorile e delle classi più povere (il pensiero va immediatamente alla figura del “proletariato”) oppure, una volta riconosciuta la piena dignità degli esseri umani e la portata dei “diritti a che lo Stato faccia” di tutto per poter rendere effettivo il rispetto della dignità, per rendere la maternità naturale sempre più meno attraente e degna di essere presa in considerazione, in quanto in sé costosa per l’economia pubblica e portatrice di ulteriori danni o preoccupazioni sociali, allorché i figli nati non siano sani o siano “troppi” rispetto alle pianificazioni statistiche. Lo Stato anche democratico e di diritto non è, insomma, immune ad una antica quanto tremenda ambizione: controllare la vita dei singoli dal loro concepimento alla loro morte, controllo che oggi non viene più attuato mediante la forza e politiche repressive chiaramente di per sé inaccettabili, ma con tecniche suadenti, che incentivano i singoli ad accettare e preferire condizioni o scelte che, in un contesto davvero normale e di civiltà vera, non si accetterebbero mai o che comunque sarebbero considerate come deleterie e degne di essere superate al più presto. Si pensi, a tal fine, al caso in cui non si scelga di avere ulteriori figli per paura di non essere in grado di sostenerli magari in ragione della possibilità di poter essere licenziati per insindacabili esigenze connesse alla produttività aziendale o professionale, quando questi sono ancora piccoli ma in qualche modo capaci di camminare da soli, oppure di non potersi prendere adeguata cura di loro durante la loro crescita, per le astruse condizioni contrattuali di lavoro a cui si è accettato di sottostare, ed ancora e più odiosamente di dover scegliere se farsi carico, sostanzialmente in toto, del figlio malato e prenderlo con sé, venendo così rimproverati dal sistema assicurativo sociale (magari gestito privatamente) di aver voluto scientemente concretizzare un rischio, che con un atto abortivo e di “buon senso” e sostanzialmente indolore avrebbe potuto essere tranquillamente evitato. Senza considerare, poi, i casi nei quali le scelte lavorative dei coniugi sono tali da richiedere, per un loro adeguato sviluppo, il sacrificio totale e parziale proprio della funzione paterna e della materna e, di contro, gli enormi sacrifici personali ed economici di chi, invece, in coerenza con gli impegni assunti col matrimonio decida di rinunciare alla propria carriera e di rimanere, anche nelle ristrettezze economiche e nella modestia di vita, a fianco ai propri cari. Da ultimo, il pensiero non può non andare a coloro che, per l’isolamento ed il degrado sociale e politico nel quale vivono, si trovano quasi a rimpiangere di aver avuto figli, non potendo loro garantire o prospettare condizioni di vita migliori di quelle di partenza ed esistenti al momento gioioso del giorno del loro matrimonio. E’ inutile sottolineare, peraltro, che solo in un contesto proteso a valorizzare la nascita naturale l’embrione umano ha di per sé un valore, poiché egli costituisce – al di là di ogni opinione politica, scientifica o religiosa sul concetto di “uomo” – l’elemento portante per garantire una libera e certa continuazione della specie al di fuori di pratiche burocratiche e di concezioni misere sulla personalità umana. Da tutto quanto sopra riferito, si può allora concludere che non è irrilevante, essendo anzi fondamentale, considerare il matrimonio tra l’uomo e la donna nella prospettiva della tutela e valorizzazione della maternità naturale e, per l’effetto, della paternità naturale. Come si vedrà, ciò non significa porre l’elemento della fertilità o del coito a dato costitutivo del matrimonio civile (id est, non religioso), ma piuttosto che la configurazione giuridica deve essere tale da valorizzare appieno le scelte inerenti alla libertà di sposarsi e di impedire che, direttamente o indirettamente, lo Stato possa condizionare tale libertà. Tuttavia, se ciò è, è oltremodo sciocco sganciare del tutto il valore del matrimonio eterosessuale dall’esigenza di garantire ed incentivare la filiazione naturale, in vista non solo della nascita ma anche della crescita delle nuove generazioni. 1.1.2 L’educazione dei figli Così come per il matrimonio, si può affermare che gli Stati occidentali accettino, almeno in linea di principio, la regola secondo cui l’educazione dei figli debba essere affidata innanzi tutto ai genitori. Se, tuttavia, si ha riguardo alla pratica scolastica vigente in taluni ordinamenti ed a molte ispirazioni culturali contemporanee, pare che la famiglia tradizionale sia sempre più incapace di svolgere un ruolo effettivo nell’educazione in questione, vuoi per limiti intrinseci dei suoi componenti, vuoi per le attuali sfide culturali che, presentando modelli alternativi o comunque diversi di famiglia e di identità di genere, non possono essere affrontate se non facendo riferimento a persone qualificate e che si inseriscano all’interno delle istituzioni scolastiche. Detto diversamente, ammesso il principio di sussidiarietà dello Stato, proprio la apparente conclamata incapacità delle famiglie tradizionali di insegnare nella materia de qua, non fosse altro che per mancanza di esperienza specifica, giustifica l’intervento burocratico: con ciò si mantiene ferma la regola fondamentale di cui sopra e nel contempo si permette, teoricamente senza contraddire principi fondamentali, una modificazione sostanziale dei valori familiari. Anche in quest’ambito è necessario fare alcune precisazioni essenziali per evitare inutili equivoci e soprattutto per impedire aberrazioni. Innanzi tutto, si comprende come vi sia una evidente correlazione tra nascita naturale e genitorialità naturale, poiché dall’essere genitori naturali deriva innanzi tutto l’effetto di crescere responsabilmente i propri figli. Sul punto vi è sostanziale consenso e tale aspetto si può accettare di per sé. Se così è, deve però domandarsi se tanto la procreazione quanto l’educazione dei figli naturali debbano essere conseguenze previamente liberamente volute ed accettate dai genitori oppure se le responsabilità conseguenti alla fecondazione e alla genitorialità naturale debbano di regola essere imposte dallo Stato come mera conseguenza giuridica al verificarsi di fatti. Se è vero, infatti, che i figli naturali possono nascere per errore, per violenza e in ragione di rapporti personali occasionali, plurimi o di per sé non duraturi, è pur vero che lo Stato, ove in effetti ritenga di dover garantire ed assicurare – come in effetti deve garantire ed assicurare - la piena responsabilità dei genitori naturali e la migliore crescita dei figli naturali, non può non riconoscere, tutelare ed incentivare la formazione di una preventiva volontà dell’uomo e della donna di voler vivere insieme progettando di avere figli da custodire, educare e far crescere nel migliore dei modi. In un simile contesto, gli obblighi ed i diritti giuridici conseguenti al vivere insieme dei genitori e dei figli non sono puramente etero-imposti, ma rappresentano il contenuto essenziale delle originarie promesse comuni espresse dall’uomo e dalla donna allorché hanno voluto unire, congiungere le proprie vite. Del resto, un eventuale dovere di sposarsi o di far figli imposto dallo Stato sarebbe in sé contro la libertà dei singoli, non solo perché limitativo di scelte fondamentali della persona ma anche perché proteso evidentemente ad attuare direttamente politiche sulla procreazione e sulla conformazione della società. E’ oltremodo evidente, infine, che se non vi fosse una piena incentivazione e riconoscimento di una simile libera volontà dell’uomo e della donna, lo Stato – pur formalmente favorevole alla nascita ed educazione naturale dei figli – potrebbe subordinare, limitare e in definitiva selezionare le categorie dei genitori e, dunque, attrarre a sé, seppur indirettamente, l’effettiva educazione delle nuove generazioni, il che è possibile solo in un ambito in cui vige una evidente discriminazione tra le persone e vi sia una conseguente limitazione della libertà di pensiero e del principio di uguaglianza. Se così è, lo Stato in effetti non può imporre ma semplicemente far proprio un patto espresso dai coniugi, i quali per tale ragione sono e non possono non essere gli unici che costituiscono il loro nuovo rapporto di vita. L’indispensabile disciplina giuridica concernente tale impegno reciproco sarà allora protesa a valorizzare il senso, la responsabilità e la maturità delle promesse, dovendosi gli eventuali impedimenti legali riconnettersi essenzialmente a tali ragioni così come percepite nei diversi ordinamenti sociali di riferimento. L’atto formato di comune intesa tra l’uomo e la donna di vivere insieme in vista della procreazione naturale ed educazione dei figli, essenzialmente fondato sul libero consenso dei nubendi, prende, da qualche millennio, il nome di matrimonio. Allorché l’ordinamento riconosca il valore della libera promessa degli “sposi”, lo Stato non può non intromettersi nella definizione del sesso dei coniugi, posto che “naturalmente” solo da un rapporto sessuale tra uomo e donna “naturali” può nascere un bambino. Ciò significa, più concretamente, che il libero matrimonio è nella sua essenza eterogamico e che lo Stato, allorché vuole garantire ed incentivare la procreazione naturale e l’educazione dei figli da parte dei genitori naturali, deve necessariamente riconoscere che solo un uomo ed una donna possono sposarsi e formare una famiglia legittima, id est fondata su un valido matrimonio. Si deduce da ciò che la configurazione eterogamica della coppia matrimoniale non è opzione capricciosa o di politica transeunte, essendo il riflesso di ben precise garanzie e di valori essenziali dello Stato di diritto. Discende altresì che un matrimonio tra persone dello stesso sesso rappresenta, ove si abbia riguardo il contenuto dei concetti, una affermazione contraddittoria. Se non che, come accennato, tale ragionamento potrebbe essere facilmente disatteso facendo riferimento a realtà in atto: esistono famiglie same-sex con la presenza di figli naturali o artificialmente concepiti. Se così è ed il dato non può essere in effetti negato, si può ritenere che per la crescita e il pieno inserimento sociale di tali bambini sia necessario che le nuove generazioni accettino le famiglie diverse da quelle tradizionali. Nello stesso modo, se è necessario evitare – come in effetti è necessario – discriminazioni verso gli omosessuali e i transessuali, allora tali fenomeni vanno innanzi tutto conosciuti e non rifiutati o relegati ai margini di curiosità personali o di un buonismo fine a sé stesso. Le considerazioni in questione hanno un indubbio pregio: quello di voler mirare alla piena considerazione del “diverso” e soprattutto ad evitare ogni inutile, quanto odiosa pratica mortificante verso gli omosessuali o i transessuali. Sul punto, si può convenire sulla necessità di dover impedire pratiche abnormi ed indegne. Ma se così è, rimane da comprendere se vi sia un ruolo che la famiglia tradizionale e i principi, che sono alla base di tale istituzione, hanno e non possono non avere nell’educazione di tutti i figli comunque concepiti e dovunque cresciuti. Perché ciò possa effettuarsi, è necessario chiarire un concetto sinora dato per scontato: che cosa si intenda per “famiglia tradizionale”. 1.1.2.1 Un chiarimento indispensabile: che cos’è la famiglia tradizionale Quando si riferisce di famiglia in senso tradizionale, si fa riferimento a quella particolare forma di società, spesso definita come “naturale”, fondata sopra il matrimonio di un uomo ed una donna. Già da questa semplice indicazione emerge un dato ineludibile: la famiglia che oggi definiamo “tradizionale” è in realtà una famiglia di recente istituzione, quanto meno se la si guarda sotto il profilo del diritto positivo. La monogamia, l’eguaglianza dei coniugi e la loro pari dignità non sono elementi giuridici molto antichi, così come è di recente acquisizione la pari dignità sociale di tutti i figli, id est nati o non nati in costanza di matrimonio. Relativamente a tale aspetto, basta ricordare come in un lontano quanto recente passato, la nascita di una bambina fosse ritenuta meno felice di quella di un maschio e come la nascita di un figlio malato o disabile fosse un elemento quasi di vergogna rispetto alla nascita felice di un bimbo sano. Senza considerare tutte le malizie e i disfavori sociali connessi all’infertilità specie della donna. Specialmente dopo le aberrazioni della Seconda guerra mondiale, si è finalmente codificato che tutti gli esseri umani hanno pari dignità e che tutti i figli di donna, comunque concepiti e nati, di per sé hanno pari dignità. Ciò ha portato ad eliminare dai codici non solo penali tutte quelle odiose fattispecie che legittimavano la repressione o l’isolamento del diverso, per il solo fatto di essere diverso, ed una maggiore propensione alla tolleranza, alla cura ed alla eguaglianza effettiva tra i cittadini a prescindere, per quel che qui interessa, dalle inclinazioni o preferenze sessuali. Ne discende che quando si parla di famiglia tradizionale si riferisce ad una precisa ed alta opzione di valore e non già ad una generica istituzione, che è sorta nella notte dei tempi. Ad una istituzione, insomma, nella quale il “diverso” ed il “debole” non sono elementi estranei ma fondanti e nella quale gli sforzi di tutti i componenti devono essere rivolti al raggiungimento di un vivere comune che rispetti le particolarità e peculiarità di ciascuno. Nello stesso modo, quando si attribuisce ai genitori la cura dei figli si ritiene che tale attribuzione debba perseguire dei valori definiti e non vaghi ed essere esercita con una autorità comune e paritaria (la podestà genitoriale), che porti i coniugi a concretizzare nella vita quotidiana tali valori attraverso il loro vivere insieme ai propri figli, di modo che la crescita e maturazione dei figli sia accompagnata da una analoga crescita e maturazione del rapporto coniugale. Tutto ciò spiega come i valori sottostanti a quella che oggi si definisce “famiglia tradizionale” sono essenziali e non possono non essere insegnati a tutti, id est anche a chi non ha una famiglia o non intende averla e anche a chi vuole formare una famiglia diversa rispetto a quella tradizionale. Ciò perché nella famiglia, fondata sul matrimonio tra uomo e donna e che vede nella tutela e valorizzazione della maternità naturale il parametro di riferimento per lo sviluppo e crescita delle nuove generazioni, si concretizzano essenziali valori di libertà e di educazione della persona umana, che assume evidentemente un alto profilo spirituale e non viene relegata a semplice materialità in sviluppo o in decadenza. Se così è, si deve ritenere che lo Stato debba attuare tutte le condizioni che concretamente rendano effettiva l’educazione filiale da parte della famiglia tradizionale. Tra queste condizioni vi è indubbiamente quella scolastica, che non può porsi in contrasto con i valori propri della famiglia tradizionale, così come qui configurata nelle sue linee essenziali, e neppure svilirli indirettamente, di modo che la considerazione di famiglie diverse da quelle tradizionali non possono in alcun modo essere lette come indice o incentivo ad aspirare alla formazione di una famiglia non tradizionale e, quindi, come criterio di scelta di vita, ma semmai a considerare la condizione, in cui versano i minori viventi in famiglie non tradizionali, come incapace di fondare discriminazioni o di ridurre la dignità della persona. In altri termini, il riferimento a situazioni reali e per ciò stesso innegabili di vita in comune diversi dalla configurazione familiare tradizionale è il dato fattuale per vincere assurde quanto odiose discriminazioni, che feriscono l’essere delle persone, e sul quale stimolare ed accrescere l’amore per l’altro quale che sia la sua “diversità” di vita, tramite una sua considerazione effettiva, concreta e reale, valorizzando così la grandezza della persona umana, che va oltre la contingenza e che vale in sé e per sé e per tutti, davvero senza alcuna distinzione. Quel che si deve insegnare, dunque, è il senso di quello che gli antichi chiamavano honestus, che altro non è il riferimento alle virtù cardinali della prudenza, della giustizia, della temperanza e della fortezza. Ciò significa altresì che nulla ma proprio nulla può giustificare una sorta di introduzione all’affettività sessuale omosessuale o peggio alla conoscenza o alla sperimentazione di pratiche omosessuali (anche in unione a quelle eterosessuali): il tutto costituirebbe una pura mostruosità. Non si può, del resto, accettare che uno Stato, che riconosca e tuteli la famiglia tradizionale, come sopra definita, e desideri valorizzarne l’aspetto costituzionale fondamentale, voglia nel contempo denigrare i valori ad essa sottostanti. Non avrebbe senso, infatti, voler insegnare l’infedeltà coniugale, solo perché esiste la possibilità del divorzio, né ad avere plurime relazioni con persone diverse, solo perché vi possono essere figli nati fuori dal matrimonio. Se così è, così come si deve insegnare la fedeltà piuttosto che l’infedeltà e così come si deve insegnare il rispetto delle promesse matrimoniali fatte piuttosto che la loro violazione, nello stesso modo non si può ritenere che possa essere accettabile che si incentivi alla formazione di famiglie non tradizionali, solo perché esse sono presenti nella realtà sociale. Si potrebbe obiettare a quest’ultima conclusione, ritenendo che per il caso della famiglia di fatto o samesex, diversamente dalle altre indicazioni, non vi sarebbe necessariamente alcuna violazione di un patto preesistente e che le stesse non sarebbero di per sé illecite, sicché il paragone non potrebbe reggere e si distruggerebbe da sé. Ciò varrebbe, tuttavia, se il riferimento fosse svolto in considerazione ai membri della famiglia legittima, ma se il tutto viene rivolto alla formazione delle nuove ed in formazione generazioni il discorso muta notevolmente e diviene facilmente accettabile. Perché il tutto risulti chiaro e si evitino inutili oscurità ed ambiguità, bisogna affermare che il riferimento principale è e deve rimanere la filiazione naturale responsabile. Se, infatti, ciò che interessa è garantire la nascita e la crescita libera e matura dei giovani che verranno, allora bisogna insegnare i valori che fondano l’istituzione, che più di tutte è deputata al concepimento ed allo sviluppo dei giovani: la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna. Tutto ciò che esula da questo dato o che comunque può porlo in crisi, non può essere insegnato o incentivato. Se così è, deve però ugualmente ammettersi ed accettarsi che non vi è alcun obbligo di formare una famiglia legittima: ne discende allora che anche chi non intenda o non voglia per qualunque motivo sposarsi secondo i canoni tradizionali debba rispettare la famiglia legittima e imparare a rispettarla? La risposta è assolutamente positiva, poiché essa è istituzione sociale fondamentale e costituzionale, che non può essere disconosciuta, ma va sempre valorizzata per quello che è da parte di tutti. Sul punto si può semplicemente osservare che solo grazie al pieno riconoscimento della sussistenza di una famiglia tradizionale, che costituisce un limite all’intromissione indebita sovrana dello Stato nella vita delle persone, specialmente nelle situazione in cui le stesse sono maggiormente deboli (si pensi alla situazione non solo dell’embrione ma anche dei primi anni di vita del bambino oltre che alla situazione della madre e del padre, a cui è affidato prioritariamente il compito di provvedere alle necessità materiali della propria sposa in vista della nascita e crescita dei figli specie nei primi anni di vita), si possono creare, stimolare e strutturare vincoli, prima ancora che giuridici, morali tra i diversi componenti la famiglia, che assumono una valenza propria ad autonoma rispetto alle esigenze proprie della collettività. Sussistendo “vincoli di sangue”, infatti, ove allo Stato e alla società non interessa tutelare e rispettare le esigenze del minore “diverso” ma anche dell’adulto “diverso”, è la famiglia il luogo ove tale tutela e rispetto hanno sempre trovato la loro naturale localizzazione: se si demolisce la famiglia tradizionale, non si elimina semplicemente un ente intermedio tra lo Stato e l’individuo, ma si isola sempre di più il singolo rendendolo così sempre più dipendente dalla volontà sovrana, che è volontà artificiale e quasi mai davvero rispettosa del debole e certamente spessissimo mossa da logiche economiche e, quindi, di pura convenienza. Ci sono stati nella storia numerosi episodi nei quali nella famiglia tradizionale l’omosessuale è stato maltrattato con spietatezza, seguendo e talvolta superando i criteri perversi diffusi nella collettività e nello Stato dell’epoca. Del resto, anche oggi ciò, purtroppo, accade. Ciò è innegabile e bisogna prendere atto e chiedere scusa e modificare seriamente gli atteggiamenti culturali. Ma è oltremodo vero che la famiglia tradizionale a cui si fa riferimento in queste pagine è “cosa” diversa dalle sue perversioni ed è innegabile che proprio il riconoscimento, sopra riferito, della pari dignità di tutti gli uomini nati da donna è stata la molla che ha potuto giustificare l’abolizione delle disposizioni legali contro il “diverso”. Ed è oltremodo evidente che proprio la sussistenza di vincoli familiari intangibili ha permesso, nelle diverse epoche, di enucleare immunità proprio a carico dei familiari in favore di altri membri della famiglia passibili di responsabilità secondo le leggi dello Stato. Si può allora concludere che la sussistenza di forme alternative al matrimonio tradizionale non possono determinare una equiparazione delle predette forme a tale istituzione e soprattutto che la peculiarità della famiglia tradizionale è tale che essa è comunque posta e da porre sopra un riferimento costituzionale suo proprio, che di per sé la eleva in posizione privilegiata rispetto ad altre forme di convivenza. Privilegio in sé non odioso o capzioso, poiché fondato sulla esigenza di garantire pienamente la maternità naturale, e di rilevanza pubblica poiché, incentivando appunto la maternità naturale, impedisce subdole alchimie dello Stato burocratico protese non solo al controllo ed alla selezione delle nascite, ma anche ad uno svilimento nell’educazione e nella cura delle nuove generazioni. 1.1.3 La famiglia tradizionale come società naturale La definizione su che cosa debba intendersi come famiglia tradizionale non sopisce le problematiche, ma solleva altri e più complessi interrogativi. Risulta, infatti, che la famiglia di cui si discute ha forti connotati di valore e, quindi, di fondamentali scelte politiche, di modo che, per quanto affascinanti e condivisibili siano, risulterebbe a loro volta come “artificiali” e, quindi, di per sé non necessari deontologicamente. In altri termini, in questo contesto vi sarebbe la migliore prova del fatto che la famiglia tradizionale qui difesa non sarebbe affatto una forma originaria e fondamentale e, quindi, neppure “naturale”. L’importanza dell’obiezione è notevole e, quindi, non può non essere adeguatamente considerata. Il concetto di società, quale che sia la visione del mondo di riferimento, è strettamente connessa con l’uomo, nel senso che se vi è una società la stessa non può che essere composta da uomini. E’ oltremodo evidente che se si fa riferimento ad una società naturale, da contrapporsi ad una non naturale cioè artificiale e, dunque, in ultima analisi giuridica, ogni azione della stessa, dalla sua costituzione al suo scioglimento, deve fondarsi sopra una libera, e, quindi non coercibile volontà dei suoi membri. Vi deve, quindi, essere sempre (e deve sempre potersi concepire) una effettiva e reale volontà congiunta di mettersi insieme e di stare insieme. Insomma, solo la comune e costante volontà dei membri deve essere la fonte di ogni criterio d’azione di ciascun componente: qui l’assoluta sovranità della società è tutto e se manca o può mancare per qualsiasi ragione, viene meno la sua naturalità. Ma – è bene evidenziare – non si tratta di una esaltazione dell’autonomia di ciascun singolo, ma della formazione di un’unica e coordinata volontà di tutti i singoli. Inoltre, perché si possa parlare correttamente di una società naturale, l’unione umana deve essere tale che tutti gli atti e le relazioni dei suoi componenti siano tali per cui non è immaginabile (e non solo per le difficoltà pratiche del caso) altro rapporto o interazione umana se non tra i soci. Se, infatti, così non fosse, dovrebbe esserci una qualche regola (poco importa di quale natura) ai quali i soci dovrebbero attenersi nel relazionarsi con gli altri, ma in tal modo verrebbe meno l’assoluta sovranità della società e, quindi, la sua naturalità. Da tutto ciò consegue che ove questa comune volontà venga meno per qualunque ragione, anche solo per atto unilaterale o per fatto naturale (per esempio la morte), è necessario che l’esistenza della società naturale debba venire meno. Ma come si può realisticamente concepire un simile sistema? Non è forse vero che ibi societas, ibi ius? Si è detto che la società naturale è e non può che essere costituita da essere umani. La pluralità dei suoi componenti, quindi, è elemento essenziale senza il quale non è concepibile. Da ciò deriva che gli uomini debbano essere almeno due. Ma può essa essere costituita da più di due persone? La risposta è negativa e tale conclusione è presto dimostrata. Se, infatti, la società naturale deve sussistere solo grazie alla effettiva e concreta volontà di tutti i suoi componenti, se questi sono tre o più di tre, è ipotizzabile il caso in cui, venendo meno un socio, la società resti grazie alla volontà degli altri: in questo modo, si contraddice l’assunto di partenza e, quindi, va scartata l’ipotesi in questione. Da ciò possono desumersi una serie di considerazioni fondamentali. Solo una società di due soli membri può essere naturale ed ogni altra composizione o non è società o, se lo è, è concepibile solo in senso non puramente naturale. Nello stesso modo, tutte le regole della società sono regole che devono essere poste e condivise da tutti i membri ed essere necessariamente rispettate, poiché in questo contesto il dissenso o provoca la caducazione della società (a causa dell’insorgere della contrapposizione) o l’abrogazione della norma violata (in ragione dell’eventuale consenso dell’altra parte). Ecco che allora in una società puramente naturale non è, per definizione, logicamente concepibile il dissenso e neppure la contrapposizione. Tutto è fatto e vive per una comunione di volontà, che si traduce concretamente nell’adozione da parte dei suoi membri di comportamenti condivisi e apprezzati da tutti, tanto che l’azione e l’omissione dell’uno possono, a tutta ragione, essere considerati come azione ed omissione dell’altro. Solo nei confronti di regole poste dall’esterno potrebbe essere ammessa una dissociazione o, se si preferisce, un dissenso, poiché la violazione della regola dell’estraneo di per sé non implicherebbe la disgregazione della società naturale. Ma ciò, come più sopra notato, non è ammissibile o concepibile se vi è un terzo soggetto umano originario. Sicché ciò è ipotizzabile solo in ragione di un intervento spirituale, che, a tutti gli effetti anche logici, deve qualificarsi come sovrannaturale. 1.1.3.1 Lo sviluppo naturale della famiglia naturale Quanto sopra riferito potrebbe essere criticato sulla scorta di semplici obiezioni: perché mai due solitari, quanto immaginifici soggetti dovrebbero stare insieme? E poi in che modo potrebbe darsi uno sviluppo della società naturale se essa è concepibile con due soli membri? Ad entrambe le domande possono darsi chiare risposte. Iniziamo dal “perché dell’unione”. L’unica ragione che può spingere due soggetti a stare insieme in maniera tendenzialmente perpetua è quella di voler stare insieme per una qualche necessità non transitoria; inoltre perché due soggetti, che siano i soli viventi in un certo ambito, possano in effetti unirsi è che abbiano effettivo interesse a far ciò. Ciò può essere solo se siano da considerarsi in tutto e per tutto simili nella loro essenza, ma anche in tutto e per tutto complementari nella loro esistenza. Anche adottando una visione squisitamente economica, del resto, non potrebbe concepirsi in questo contesto il mero duplicato, poiché in tal caso, tutto quel che potrebbe fare uno lo potrebbe fare anche l’altro e non vi sarebbe quindi interesse, se non occasionale, a stare insieme. Non è quindi razionalmente concepibile che i due membri della società naturale siano, dal punto di vista delle caratteristiche esterne e sotto il profilo delle proprie capacità, del tutto identici. La volontà di stare insieme si traduce, dunque, in necessità solo se vi sono cose che l’uno e l’altro non possono fare se non stando insieme. In linea teorica, tale comune volontà può essere collegata solo a fini specifici o per prefissate esigenze oppure essere connessa genericamente in vista di ogni bisogni che dovesse sorgere nel corso della durata della vita dell’uno e dell’altro. Solo in quest’ultimo caso, la società naturale è correttamente concepibile poiché essa non può che essere vista che in maniera totalizzante, poiché solo in questo caso è possibile immaginare la realizzazione piena e costante di quella volontà comune dei suoi membri, che è alla base della vita stessa della società naturale. D’altra parte, se così non fosse, vi sarebbero bisogni od esigenze a priori divergenti che potrebbero essere soddisfatti dall’uno o dall’altro al di fuori della società naturale, con ciò contravvenendo l’ipotesi iniziale della perfetta assonanza di intenti e soprattutto dell’inesistenza di una vita del singolo al di fuori della società naturale. Ecco che allora la forma perpetua è l’unica forma che, almeno in potenza, può rappresentare la struttura originaria e fondamentale dell’unione naturale. Se la società naturale non può concepirsi se non in maniera tendenzialmente perpetua, è evidente che i diversi scopi pratici della vita quotidiana, così come possono sorgere, così possono mutare o estinguersi, sicché gli stessi non possono costituire la ragione ultima della società. Ciò peraltro non significa che non sia immaginabile un fine, alla cui realizzazione debbano partecipare entrambi i membri, che una volta realizzato sia capace non solo di non perire ma anzi di svilupparsi da sé collegandosi proprio alla vita di coloro, che hanno costituito la società naturale, e persino di sopravvivere alla morte di entrambi. Del resto, così come vi possono essere fini egoistici, cioè che soddisfino esclusivamente i bisogni dei membri della società naturale, ben si può immaginare che vi sia anche almeno un fine altruistico e, quindi, che vi sia la volontà di soddisfare i bisogni di un altro essere umano, essere, che pur non essendo ancora in vita sin dall’inizio, potrà vivere solo grazie all’opera e alla volontà congiunta dei due soggetti costituenti la società naturale. Questo fine altruistico è dato ed è rappresentato dalla filiazione naturale. Tutto ciò fornisce una risposta anche al secondo interrogativo. Se la società naturale è fatta da uomini, lo sviluppo della società segue il valore mortale dei suoi membri. Quindi, si potrebbe pensare che essa non possa sopravvivere alla morte di questo o quel socio. Tale prospettiva sarebbe corretta se non fosse concepibile, appunto, uno sviluppo naturale della società naturale, il che però è contraddetto dal concetto di filiazione appena riferito. E’ vero, come più sopra indicato, che la società naturale non può essere costituita da più di due membri, ma è pur vero che se il numero dei soci aumenta in ragione di un atto o, se si preferisce, di un fatto naturale, allora sopravviene un elemento che è figlio (in tutti i sensi) della società naturale e, quindi, suo prodotto che per ciò stesso, pur modificandone la struttura, non ne determina di per sé la semplice morte ma, se del caso e più correttamente, una sua evoluzione. Detto ancor più chiaramente, la società naturale, allorché aumenta la presenza dei suoi membri per la nascita di uno o più figli, non è più la stessa e pone le basi per una nuova società, che muove da quella naturale e che ne costituisce il suo naturale sviluppo: dalla relazione a due, si passa ad una a tre o a quattro e così via, ma in tale sviluppo relazionale non si perde mai, se non a prezzo di rompere e disgregare la stessa società naturale originaria, la comunione iniziale. I coniugi (ci sia permesso di utilizzare questo termine), quindi, continuano a vivere mossi da volontà identiche, ma i loro atti non sono più rivolti solo a loro stessi ma anche alla loro prole, ai loro figli, atti che evidentemente potranno avere un contenuto materiale (il mantenimento e sviluppo del corpo) o spirituale (l’educazione, cioè la trasmissione di pensieri ed esperienze). Da questa prospettiva, deriva che la società non naturale cioè artificiale ovvero sociale, così come concepita ai giorni nostri, può nascere in senso naturale solo se si pone alla sua base una società naturale, cioè una società composta di due soli membri che abbiano, grazie alla loro unione, la capacità e la possibilità di procreare. Una simile società naturale non può che essere composta da un uomo e da una donna. Da tutto quanto sopra esposto deriva che solo con riferimento all’unione tra un uomo ed una donna può darsi una effettiva società naturale, cioè una società tra uomo e donna, che è l’unica che può avere in sé la ragione di una sua stabilità perpetua, cioè legata alla vita dei suoi membri, e che è capace di poter dar vita in maniera naturale ad un ente diverso. In questa società naturale, che è naturalmente protesa a durare in perpetuo, l’uomo e la donna vivono insieme, agiscono insieme e vogliono tutto insieme e si predispongono a poter dare insieme la vita ad altri esseri umani. Una simile società naturale prende il nome di famiglia e la sua essenza è ben rappresentata dalla biblica espressione “una carne sola”. La concezione antichissima della famiglia posta alla base del villaggio inteso come unione di famiglie, di aristotelica memoria, dunque, ben si comprende in questa prospettiva, così come si comprende il fatto che non possa concepirsi altra società naturale se non quella composta tra uomo e donna. Infatti, senza eredi naturali ovvero senza che la società naturale possa trasformarsi naturalmente, la stessa sarebbe di per sé destinata a scomparire a priori. Ciò può non avvenire se e solo se essa è vista nella sua composizione eterosessuale, poiché solo con la filiazione naturale è possibile, come già ripetutamente accennato, un suo sviluppo e, dunque, una sua sopravvivenza seppur sotto altra forma. D’altra parte, una società naturale, per essere davvero tale, deve pur sempre avere un qualche carattere di naturalità, id est di non dipendenza assoluta dalla volontà umana dei “fondatori” per la sua sopravvivenza, e tale carattere, non potendosi immaginare che risieda nell’atto costitutivo o nello svolgimento di singoli atti o pensieri, non può che rinvenirsi proprio nella possibilità del suo sviluppo a mezzo di atti naturali e, quindi, della procreazione. 1.1.3.2 Il riconoscimento della famiglia come società naturale nella comunità Ma ciò detto, è pur vero che, in senso contrario e demolitorio, si potrebbe obiettare che la società naturale, così come sopra descritta, non esiste se non nelle favole o richiamando subdolamente testi sacri, sicché come potrebbe tutto ciò servire da assunto argomentativo per la società umana attuale che è composta da miliardi di persone? Come potrebbe tutto ciò impedire, proprio perché si assume che dalla società naturale deve nascere un qualcosa di diverso, alla società civile di riconoscere giuridicamente la famiglia omosessuale? Non si tratterebbe, infatti, di vedere riconosciuta una qualche forma naturale di società composta da membri delle stesso sesso, ma di ammettere che dalla società civile possono sorgere altre forme di famiglia e comunque di unione di vita tra esseri umani. Un tale approccio, che pure ha un suo innegabile fascino argomentativo, sorvola una serie di elementi che è bene non trascurare. E’ chiaro che nella pluralità della società umana le forme e le modalità di esplicazione del rapporto tra gli uomini sono pressoché infinite. Nello stesso modo, però, non si può ammettere che ogni forma o, se si preferisce, società di vita tra esseri umani sia per ciò solo identica alle altre. Da questo punto di vista, quel che è fondamentale è comprendere la peculiarità della società naturale, qui identificata nella famiglia, all’interno della società civile. 1.1.3.2.1 Il matrimonio tra uomo e donna Fino a che la società naturale resta tale e, dunque, sino a che non vi sono altri membri che i due fondatori e non esiste altro mondo che il loro mondo originario, non si pone neppure concettualmente il problema della manifestazione o del riconoscimento della famiglia naturale. Tale riconoscimento o per meglio dire il riconoscimento dell’unione stabile di vita tra uomo e donna, invece, diviene necessario allorché tale comunità si inserisce in un contesto più ampio e si pone, dunque, a contatto con la società civile e, fuor di metafora, con altri uomini e altre donne. Ciò perché, se non vi fosse un chiaro segno distintivo, tale unione potrebbe essere confusa o addirittura ritenuta come non percepibile, con conseguente perdita di qualsiasi valore. Inoltre senza una definizione dei contenuti di tale unione tutto apparirebbe come vuoto e, dunque, privo di rispetto o, per meglio dire, incapace di poter essere rispettato. Peraltro in questo contesto, il riferimento semantico alla società naturale, così come più sopra definita, non sarebbe peregrino, poiché servirebbe per effettuare un richiamo preziosissimo all’identità delle ragioni, che possono spingere, pur nel nuovo contesto, un uomo ed una donna a vivere insieme fino alla morte e, soprattutto, a dare la vita ai propri figli. In altri termini, se è vero che la società composta tra uomo e donna non può, a stretto rigore di logica, essere intesa come “naturale”, ove si inserisca in una civiltà costituita da molti soggetti, è pur vero che si possono, ciò non di meno, individuare analogie o, per meglio dire, identità sulle ragioni della costituzione dell’unione, sulla forma del suo sviluppo e soprattutto sulla sua durata perpetua. Anche nella società civile, infatti, un uomo e una donna possono voler vivere insieme sino alla morte, agendo sempre di comune accordo ed impegnarsi a mantenere ed educare i propri figli. Ma, mentre nella società naturale “fatto e diritto” sono intimamente connessi e non trova applicazione la legge di Hume, così che non è ipotizzabile, come accennato, alcuna frizione o disubbidienza fino a che la società naturale persiste, una simile volontà assume, nel contesto civile, un impegno dinamico e programmatico. Infatti, anche solo per definizione, da questa visuale una vita in assoluta solitudine con il coniuge non è pensabile così come una totale dipendenza reciproca, sicché vi saranno fisiologici margini di autonomia non concepibili nello stato naturale e, quindi, attività e contatti con soggetti terzi. Ecco che allora ben può comprendersi come l’unione tra uomo e donna possa permanere pur non essendoci nei fatti una piena e costante comunione di vita e di pensieri. Il segno, il simbolo che permette di manifestare all’esterno, al fine del riconoscimento erga omnes di tale unione e comunque dell’impegno volontario dell’uomo e della donna di vivere insieme in una comunione spirituale o materiale con promessa reciproca di vivere la propria vita per l’altro e di darsi alla vita che verrà, si chiama, almeno nella nostra tradizione, matrimonio. E’, dunque, con il matrimonio o, meglio, solo con esso che è possibile ricostituire nell’evo contemporaneo una unione tra uomo e donna, che miri a vivere secondo i criteri ed i principi della famiglia della società naturale. Fuori dal matrimonio tra un uomo ed una donna, infatti, manca non solo il pieno riconoscimento sociale della famiglia ma soprattutto ogni impegno perpetuo e reciproco di fedeltà e di donazione alla vita futura. 1.1.3.2.2 Il valore essenziale della famiglia fondata sul matrimonio Alla luce di quanto sopra ben si comprende l’importanza ed il senso del riconoscimento della famiglia legittima come società naturale fondata sul matrimonio. Si tratta, al di là di ogni tensione ideologica, del riconoscimento del diritto di un uomo e di una donna di vivere insieme nella comunità umana secondo i criteri propri della società naturale e, dunque, secondo una comunione di vita spirituale, che possa svilupparsi naturalmente mediante la procreazione e la filiazione. La società civile, quindi, accettando di riconoscere una simile unione pone il proprio sviluppo naturale e fisiologico innanzi tutto sulle basi dello sviluppo naturale e fisiologico dell’istituto familiare, che per ciò stesso non può essere deviato dalla sua ragione d’essere e dai suoi fini e compiti. Una società civile, che non riconosca la famiglia legittima come società naturale fondata sul matrimonio, mira a sganciare il proprio sviluppo e la propria sopravvivenza da ogni connessione naturale, divenendo per ciò solo un mero e mesto artificio destinato a soccombere inesorabilmente. Ma tale riconoscimento per essere effettivo non può limitarsi ad una mera tolleranza e neppure ad una semplice considerazione programmatica, dovendo invece essere l’effettiva base essenziale per permettere lo sviluppo della società nel suo insieme. Non basta quindi non privare di significato il concetto di famiglia legittima, ma è indispensabile procedere secondo logiche di assistenza e di incentivo in favore della stessa e del suo sviluppo e ciò non per bieco perbenismo, ma per il semplice fatto che, se il nucleo essenziale della società civile non è fondato su solide basi e, quindi, su effettive volontà capaci (almeno in potenza) di vincere i propri egoismi, l’edificio sovrastante cadrà se non alla prima alla seconda scossa e soprattutto, una volta caduto, nessuno sarà in grado di ricostruirlo. Nello stesso modo, i vincoli di fedeltà e di unione matrimoniale non possono essere concepiti come meri impegni programmatici, ma devono essere dei veri e propri diritti e doveri assoluti, cioè diritti e doveri che devono essere rispettati da chiunque e, quindi, dagli estranei alla coppia ma anche dalla coppia stessa. Con ciò non si pretende né si vuole invocare alcuna super-tutela giuridica di stampo scioccamente repressivo, ma è evidente che perché una istituzione possa dirsi esistente è necessario che i suoi elementi costitutivi siano rispettati, il che non può che tradursi nel considerare come illegittimo ogni atto proteso a violare e a ledere detti vincoli e, quindi, il senso ed il significato del matrimonio. Parlare oggi della famiglia non legittima o di fatto come “società naturale”, per quanto sopra esposto, è un non senso. Nello stesso modo, paragonare la famiglia legittima fondata sul matrimonio all’unione di vita tra persone dello stesso sesso è improponibile, non solo perché si tratterebbe comunque di coppie assolutamente diverse proprio in base al sesso dei componenti, ma anche perché solo la famiglia in senso tradizionale, cioè quella fondata tra uomo e donna, protesa a procreare naturalmente può dare un fondamento naturale e necessario ad una qualunque comunità sociale. Nello stesso modo, oggi il richiamo alla società naturale è e può essere ammesso solo se lo si ricollega al concetto di matrimonio tra uomo e donna. Fuori da quest’ambito vi è solo confusione, che nei fatti produce insicurezza e tensione ideologica. Gli uomini e le donne, come accennato, possono nella situazione attuale trovare mille e più forme di adesione reciproca, ma quand’anche tale unioni siano riconosciute, in alcun modo può invocarsi il paradigma della famiglia legittima e ancor più della società naturale per effettuare equiparazioni impossibili. Il legislatore o il giudice anche costituzionale - è innegabile - ben potrebbero fingere o far finta che i sopra riferiti fenomeni siano la stessa cosa, ma si tratterebbe - è altrettanto innegabile - di vera finzione. Ma se così è, ciò vuol dire che nessuno spazio di riconoscimento è ammissibile per le coppie omosessuali o per le famiglie di fatto? Nessun diritto, dunque, può essere concesso a chi vive sinceramente con un’altra persona ancorché non sposata? Ed è mai possibile che due omosessuali, che magari vivono la propria condizione nel pieno rispetto reciproco e in assoluta continenza, non possano che essere dipinti a tinte fosche e lasciati sempre e comunque da soli? Si crede in tutta sincerità di no e ciò specialmente avendo alla mente numerosi istituti i cui connotati sono prevalentemente patrimoniali. Ma se è innegabile che nessun uomo può legittimamente interferire con la forza sulle scelte personali di vita dell’altro e neppure si può accettare di offendere l’identità sessuale di una qualunque persona, si deve pur riconoscere che tutte queste situazioni non sono e non possono essere valutate come espressioni del medesimo genus a cui appartiene la famiglia legittima fondata da un uomo ed una donna. E’, infatti, nei contenuti dell’atto di matrimonio, come qui definito e difeso, che si rinvengono gli elementi essenziali di tale distinzione e non solo nella storia degli istituti qui richiamati; contenuti che non possono essere mutati nella loro parte essenziale, anche se si è spinti dalla migliore intenzione, poiché in tal modo si priva il matrimonio del suo valore fondamentale e cioè di essere l’atto con il quale è possibile che un uomo ed una donna possano dar vita tra loro ad una comunione di vita che si regga sopra i criteri propri di una società naturale, ad una comunione di vita che è la sola capace di svilupparsi naturalmente. Perdere di vista questa peculiarità significa allora cancellare ogni cosa: solo nell’ombra dei concetti ogni cosa è ammissibile, poiché lì nulla è veramente tale quale appare e lì tutti possono dire tutto ed il contrario di tutto. 1.1.4 Conclusioni parziali: rinvio Da tutto quanto sin qui esposto, non può ammettersi che l’istituto matrimoniale possa essere invocato al fine di giustificare il riconoscimento di legami omossessuali, poiché il riferimento costituzionale al matrimonio – si torna a ripetere – è strettamente connesso alla procreazione naturale e se viene distolto da tale connessione si perde ogni possibilità di svolgere corretti ragionamenti. Nella tradizione occidentale il concetto di “società naturale” è stato evocato infinite volte e quasi sempre in contrapposizione alla società civile: vuoi per legittimarla, vuoi per determinarne alcune modifiche sostanziali. Ecco che allora il suo espresso richiamo in Carte fondamentali, come quella italiana, può far pensare che il riferimento semantico sia quello di una semplice unione di uomini (poco importa se di maschi o di femmine) non fondata sopra vincoli giuridici e, dunque, di forza. Se tale stato pre-civile sia il luogo della felicità degli uomini liberi oppure dell’oppressione del più forte, è questione dibattuta da secoli ed ogni opzione sul punto, in fondo, è buona secondo le necessità del momento. Se, tuttavia, si considera il significato che in effetti può davvero avere l’espressione “società naturale”, allora ci si rende conto che essa non è costituita da vuote parole ed ha una reale e chiara consistenza, essendo riferibile ad una sola forma di comunità umana: all’unione originaria di vita tra l’uomo e la donna. Tale unione, tuttavia, nella sua realtà storica o, se si preferisce, nella sua immanenza è ormai andata perduta per sempre, proprio in virtù dello sviluppo della società umana e non è nei fatti replicabile; replicabile o recuperabile, se si preferisce, è solo (ed il punto non è poco o di poco conto) il senso ed il valore spirituale ed ontologico di quella unione originaria, proprio (e solo) attraverso l’istituto del matrimonio e, quindi, attraverso l’impegno solenne preso innanzi alla propria comunità di amarsi e rispettarsi ogni giorno e per tutta la vita, volendo gli sposi dare vita e darsi ai propri figli per puro spirito di altruismo, per puro amore. Per taluni e specie per qualche studioso, che ancor vede il diritto naturale necessariamente agganciato a valori inafferrabili o in vista della nascita di impossibili “nuove società libere” e non anche a doverosi criteri razionali e di valore per la tutela concreta e quotidiana della dignità umana contro gli abusi del potere, ciò può far sorridere o inorridire, essendo impensabile che la società umana attuale non nasca da un accordo ma da un gesto d’amore originario di un uomo e di una donna. Così anche il positivista ed il politico di turno potranno girarsi altrove, non avendo piacere di sentire che una costituzione possa fare come propria una visione di altissimo profilo dogmatico e di spiritualità profonda non soggetta alla prova dei voti e che vede nell’uomo e nelle donne non già soggetti economici, ma persone capaci di darsi all’altro e di impegnarsi per l’altro senza avere o pretendere nulla in cambio, se non amore e rispetto reciproci. Certo è, però, che è giunto il tempo di appropriarsi di visioni non miopi dell’uomo e soprattutto di evitare che considerazioni generiche (e per ciò stesso apparentemente condivisibili) sulla relatività dei valori possano da sole giustificare ogni cosa. Ma se così, rimane da discutere quale possa essere la migliore regolamentazione delle situazioni che oggi sono comunque presenti nei diversi ordinamenti. Se, infatti, il ragionamento fosse rivolto al singolo Stato, considerato isolatamente, il discorso potrebbe ritersi sostanzialmente chiuso, fermo restando la possibilità di una aprioristica presa di posizione contraria a quella qui sostenuta. Poiché invece è possibile che altri Stati riconoscano piena dignità matrimoniale al matrimonio omosessuale ed incentivino la procreazione artificiale e persino l’educazione all’omosessualità oltre che un ampio ricorso all’adozione da parte di coppie omosessuali, i confini che il diritto di questo o quello Stato volesse in ipotesi ergere per tutelare la famiglia legittima e tradizionale sarebbero facilmente erosi e col tempo cadrebbero certamente, salvo rifugiarsi in oziose distinzioni giuridiche che in effetti non appagherebbero nessuno e avrebbero un sapore assolutamente amaro. In siffatta materia, che pure è ricca di sottili distinzioni concettuali, l’essenza delle cose deve essere protetta realmente e non può essere semplicemente dichiarata. Né potrebbe affermarsi che la migliore soluzione sarebbe quella di togliere i bambini viventi nell’ambito di coppie omosessuali o di limitarne in qualche modo la loro presenza costante nella vita di coppie samesex. Ciò apparirebbe a sua volta come inumano e non terrebbe in debito conto che in linea di principio e dal punto di vista pratico non può negarsi che in tali circostanze vi sia un affetto sincero verso i bambini. Semmai è proprio facendo leva sulla sincerità dell’affetto e sulla migliore tutela di questi fanciulli che si può trovare una soluzione, soluzione che evidentemente è di sviluppo e non può essere attuata mediante una legislazione d’urgenza o capestro o incapace di considerare le peculiarità dei casi. Certamente in quest’ambito essenziale è l’incentivazione della cultura del rispetto e contemporaneamente della riscoperta del valore della famiglia tradizionale in connessione col valore della maternità naturale, ma è oltremodo evidente che il parziale o totale riconoscimento della famiglia same-sex, cioè di quella nella quale è presente un minore, non può che avvenire sul piano della temporaneità. Si deve cioè considerare esplicitamente come transeunde ed eccezionale tale situazione in modo da non potere essere equiparata a quella propria della tradizionale famiglia legittima. Il ricorso alle leggi eccezionali o temporanee è forse il riferimento concettuale adeguato a cui potersi rifare, senza stravolgere principi e regole fondamentali. Più di tutto, però, bisogna ammettere che proprio per i valori in gioco e per le esigenze sottostanti alla valorizzazione della famiglia tradizionale, le famiglie same-sex non sono comunque equiparabili alle famiglie tradizionali, di modo che la loro espansione personale non può essere permessa od incentivata oltre l’esistente. Sul punto ci si rende conto che una simile disciplina potrebbe apparire come in aspra opposizione alle aspettative di coppie omosessuali, ma deve pure ammettersi che per quelle same-sex non vi è neppure una aspettativa in senso tecnico ad avere figli secondo i loro desideri, se non per il tramite della fecondazione artificiale, che, tuttavia, se fosse in sé incentivata determinerebbe le aberrazioni di cui sopra si è riferito. Ma se ciò è, sorgono altre e più complesse questioni, posto che in senso tecnico, gli stessi sposi “tradizionali” non hanno un propriamente un diritto ad avere dei figli, posto che lo Stato e qualunque altro soggetto non ha il dovere di fornire “ciò” che gli stessi vogliono. Semmai che vi è l’esigenza di assicurare che il concepimento naturale, che di per sé è un fatto, sia il frutto di una matura, comune e consapevole scelta dei coniugi, scelta che evidentemente in sé e per sé non determina nulla sul piano fenomenico e costituisce un dato certamente importante ma spirituale, che si collega all’atto sessuale da cui deriva il concepimento. Vi sono poi casi nei quali il matrimonio civile tradizionale non può per definizione portare alcuna filiazione naturale e situazioni nei quali la diversità dei sessi è semplicemente anagrafica e non anche biologica. Si rende allora necessario sospendere qualunque conclusione definita, dovendosi procedere analiticamente ad analizzare le diverse situazioni, avendo riguardo alle principali decisioni che in materia sono state emesse dalle più alte corti non solo italiane. 1.2 Dal semplice al complesso: la famiglia senza prole E’ di comune e generale esperienza che non da tutti i matrimoni derivano figli e che anzi il matrimonio in quanto tale, giuridicamente parlando, ben può sussistere e persistere in assenza di figli. Da tale indiscutibile considerazione si potrebbe concludere che la ragione che spinge a riconoscere e tutelare il matrimonio e la famiglia legittima tradizionalmente intesa sia più di forma che di sostanza, in quanto in effetti varrebbe esclusivamente il consenso reciproco di vivere insieme. Tale aspetto, che è poi alla base delle principali argomentazioni protese ad una vera e propria rivoluzione del concetto di matrimonio e di famiglia, è mal posto e conduce ad evidenti equivoci di fondo se non si chiariscono dei presupposti fondamentali. Come già accennato lo Stato non può imporre di far figli: la nascita, dunque, deve essere l’effetto di una libera volontà dei coniugi, che deve manifestarsi e concretizzarsi secondo liberi momenti e valutazioni. Si deduce da ciò che per la validità del matrimonio non si può richiedere come componente essenziale l’immediata volontà di attuare la procreazione, né che dall’assenza di figli, anche sopravvenuta, possa derivarne un automatico effetto caducatorio del vincolo matrimoniale. Del resto, se lo Stato potesse far decadere ovvero sciogliere ipso iure un matrimonio solo perché non vi siano figli, nei fatti lo Stato si introdurrebbe impropriamente nella libera volontà dei coniugi sulla scelta procreativa. Da qui la conclusione per cui, non può mai accettarsi che lo Stato imponga lo scioglimento del matrimonio in ragione dell’assenza di prole. Ciò ovviamente non esclude che si possa immaginare uno scioglimento a posteriori del vincolo in ragione di una istanza di parte, ma è pur vero che ciò significa che un matrimonio legalmente celebrato è per sua configurazione perpetuo e può essere posto nel nulla solo per circostanze particolari e, nel mondo giuridico umano, solo se sussista almeno una specifica e concorde volontà di uno dei coniugi. Così inquadrato il contesto di riferimento, si comprende come solo nel caso di impotenza originaria alla procreazione di uno dei coniugi si può porre il problema della validità del vincolo. Da questo punto di vista, assumono certamente una diversa configurazione l’impotentia coeundi da quella generandi, posto che solo nella prima ipotesi vi è impossibilità di consumare il matrimonio e, dunque, di attuare l’unione sessuale tra uomo e donna. Tuttavia, in ambito civile l’impossibilità oggettiva di avere rapporti sessuali, ove previamente conosciuta ed accettata da entrambi gli sposi, non pregiudica necessariamente il senso del matrimonio, poiché ben possono esservi scelte di vita fondamentali connesse a valori semplicemente laici. Diverso e più complesso problema si può, invece, porre allorché vi sia un riconoscimento civile del matrimonio religioso e questi richieda la potentia coeundi come requisito per la validità del vincolo tra gli sposi: se non che, come subito si vedrà, non è necessario affrontare tale aspetto ai fini per cui si procede, in quanto sostanzialmente irrilevante. E’, infatti, chiaro che la validità di un matrimonio “naturalmente” sterile non fa venir meno il senso del riconoscimento del matrimonio “fecondo”: anzi, è proprio perché si riconosce quest’ultimo che ha senso garantire, per via di estensione e con le medesime cautele, il primo, il quale non potrebbe logicamente essere – per quanto ripetutamente detto – la base per fondare il matrimonio come istituto di diritto pubblico. Da tale profilo consegue che l’affermazione, secondo cui l’incapacità procreativa dei coniugi non inficia il matrimonio, è frutto di un vero e proprio paralogismo: il matrimonio tra persone impotenti o sterili è ammissibile se ed in quanto può ammettersi il matrimonio procreativo. Il riferimento, quindi, per ammettere l’ampliamento dei casi in cui è lecito sposarsi è e rimane pur sempre il matrimonio tra un uomo ed una donna naturalmente capaci di procreare. Da qui l’ovvia conseguenza che l’aspetto concernente la diversità dei sessi è immanente e mai secondario nella definizione del matrimonio, poiché se è concepibile una famiglia legittima di sposi (anche non impotenti o non sterili) priva di figli, non è possibile ammettere una composizione omosessuale di una tale famiglia. Si ricava da ciò che non può da un elemento accidentale (l’assenza “naturale” di figli) far discendere che il matrimonio possa essere valutato astrattamente solo alla stregua della comune volontà di due persone di vivere insieme promettendosi reciproca assistenza morale e materiale. Se così è, cadono tutte quelle argomentazioni per le quali nel matrimonio ciò che conta è la libera volontà del singolo coniuge di voler bene ad un’altra persona, qualunque sia il suo sesso. Infatti, il matrimonio, per sua natura, è “essenzialmente discriminatorio” relativamente al sesso dell’altro coniuge, proprio per la sua specificità e natura nel sistema costituzionale e sociale, sicché tale configurazione non può essere ritenuta come irragionevole in quanto frutto di una opinabile valutazione politica e, dunque, superabile in conseguenza di una “nuova” idea di libertà sessuale. Del resto, se - come si è notato – l’assenza dei figli di per sé non inficia la validità del matrimonio, è perché con ciò si mira a mantenere ferma la libertà al matrimonio tra l’uomo e la donna e la loro libertà alla procreazione naturale. Il fatto che possano sposarsi anche persone a priori incapaci di avere figli naturalmente non lede o contraddice affatto tale diritto, ma ne rappresenta una ragionevole espansione, non fosse altro perché mantiene ferma la configurazione tradizionale del matrimonio, rafforzandola specie nelle ipotesi di adozione, ed evita l’intromissione statale nella sfera intima e personalissima dei coniugi, i quali sono per ciò solo esentati dal presentare all’ufficiale pubblico certificati medici e di buona salute. D’altra parte, non è difficile comprende che se lo Stato imponesse solo “ai sani e fecondi” di sposarsi, ciò potrebbe essere effettuato solo previa apposita verifica di tale stato e della compatibilità sessuale tra i nubendi. Ma se così fosse, si ricadrebbe in una situazione nella quale lo Stato imporrebbe la sua preventiva autorizzazione come condizione essenziale al matrimonio: il che importerebbe l’esautorazione del concetto di matrimonio come più sopra riferito e che – almeno a parole – si dice ancora essere tutelato nei massimi ordinamenti civili e liberali, in quanto verrebbe capziosamente leso in maniera seria ed irrimediabile il principio secondo cui il matrimonio è fondato sul libero consenso degli sposi. In estrema sintesi, quindi, si può affermare che il matrimonio di persone incapaci di procreare è strumentale per garantire i valori sottostanti al matrimonio tradizionale e, pertanto, dal suo riconoscimento giuridico non si può dedurre alcun argomento per poter affermare la legittimità di uno sposalizio di persone dello stesso sesso. 1.3 Il matrimonio del transessuale La configurazione del matrimonio tradizionale, fondato sulla diversità sessuale dei coniugi, è entrato, almeno all’apparenza, in crisi con la possibilità di rettificare il sesso anagrafico in conseguenza del transessualismo. Qui non è necessario ripercorrere le ragioni per le quali le diverse legislazioni hanno riconosciuto tale possibilità. Il dato può darsi, quindi, per assodato, al di là di ogni critica che si volesse avanzare in merito. Se non che è opportuno osservare che in un primo tempo, avendo riguardo all’ordinamento italiano, si era escluso il diritto alla rettificazione dell'atto di nascita e alla attribuzione del sesso femminile <<nell'ipotesi di modificazioni artificiali di un sesso che facciano perdere ad un individuo le caratteristiche peculiari maschili ed acquistare quelle femminili esterne, qualora le modificazioni stesse trovino corrispondenza in una originaria, indiscutibile, personalità psichica di natura femminile>> e ciò in quanto il riconoscimento della identità sessuale non era valutato come rientrante nell’ambito di interessi costituzionalmente fondamentali (così nel considerato in diritto punti 1 e 2 di Corte cost. sentenza n. 98/1979). Successivamente a seguito dell’approvazione della legge sulla rettificazione del sesso (Legge n. 164/1982), si è dichiarato che una tale disciplina, così come era ed è stata configurata, non ledeva alcun parametro costituzionale. La Corte costituzionale, infatti, ha osservato che il transessuale è un soggetto che, presentando i caratteri genotipici e fenotipici di un determinato sesso, sente in modo profondo di appartenere all’altro sesso, del quale ha assunto l’aspetto esteriore ed adottato i comportamenti e nel quale, pertanto, vuole essere assunto a tutti gli effetti ed a prezzo di qualsiasi sacrificio. <<In questo contesto il transessuale, più che compiere una scelta propriamente libera, obbedisce ad una esigenza incoercibile, alla cui soddisfazione è spinto e costretto dal suo “naturale” modo di essere>>. Dati questi presupposti, si è affermato che non poteva contestarsi la posizione del legislatore italiano che, sulla falsa riga di altri ordinamenti, non aveva fatto altro che prendere atto <<di una simile situazione, nei termini prospettati dalla scienza medica, per dettare le norme idonee, quando necessario, a garantire gli accertamenti del caso ovvero a consentire – sempre secondo le indicazioni della medicina – l’intervento chirurgico risolutore, e dare, quindi, corso alla conseguente rettificazione anagrafica del sesso>>(punti 3 e 4 del considerato in diritto Corte cost. sentenza n. 161/1985) Da quanto sopra si ricava che il fenomeno transessuale non può essere equiparato in alcun modo a quello omosessuale, posto che le nozioni di orientamento sessuale e di identità di genere sono concetti distinti e che non si sovrappongono. Le persone omosessuali si identificano generalmente con il proprio sesso biologico. Il transessuale, invece, ha una vera e propria dissociazione tra il suo sesso naturale ed il suo intimo sentire: è uomo, ma si sente e vuole essere anche “fisicamente” donna; è donna, ma si sente e vuole essere anche “fisicamente” uomo. Da ciò deriva che la possibilità concessa al transessuale di sposarsi, a seguito dell’operazione subita e del mutamento del nome e del sesso anagrafico, non inficia, in termini giuridici, gli assunti sin qui dati sul fondamento eterosessuale del matrimonio, posto che per la legge, seppur a seguito del compimento di speciali procedure sanitarie e burocratiche, chi è diventato uomo o donna non può che sposare una persona del sesso opposto a quello “nuovo” acquisito. Il fatto poi che in tal caso non sia possibile a priori una procreazione naturale, come indicato, non costituisce un dato contrario a quanto appena affermato e, quindi, nulla si può aggiungere rispetto a quanto già argomentato. E’ oltremodo evidente che non potrebbe accettarsi alcuna considerazione che miri, in ambito civile, a far valere il sesso originario del transessuale al fine di giustificare il same sex marriage, poiché così non si farebbe altro che confondere inopinatamente i termini della discussione. Infatti, solo se vi è un cambiamento (seppur artificiale) del sesso, allora il transessuale può sposarsi: se così non è, egli non ha alcun diritto in tal senso e non può neppure pretendere di poter sposare una persona avente un sesso identico a quello suo naturale. D’altra parte, lo si è già detto, la transessualità è diversa dall’omosessualità ed in ogni caso non può essere considerata come effetto di un semplice desiderio personale, in quanto presuppone un mutamento pressoché definitivo dell’aspetto sessuale. Né potrebbe sostenersi una qualche ragione facendo leva su una ipotetica facilità di rettificazione del sesso anche in ragione di una sua sempre maggiore diffusione. Per quanto labile possa essere la legislazione sul punto, questa deve comunque prevedere che il mutamento del sesso sia connesso ad una operazione chirurgica o comunque a dei riferimenti di natura oggettiva e, quindi, non vi è e non può essersi concettualmente un diritto al matrimonio prima che tale condizione si avveri. Quand’anche si accettasse l’idea, fatta propria seppur incidentalmente anche dalla giurisprudenza costituzionale italiana citata (Corte cost. sentenza n. 161/1985), per cui si dovrebbe accogliere <<un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione [dovrebbe venir] conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero “naturalmente” evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale>>, non si può ritenere che nella <<concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando – poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa – il o i fattori dominanti>> non abbia mai alcun rilievo la presenza degli organi sessuali o degli altri elementi sessuali di tipo secondario. Il transessuale, infatti, è tale se, in genere, si sottopone ad operazione chirurgica con la quale vengono modificati proprio gli organi in questione, sicché, se tale fatto non si verifica, non si può, se non metaforicamente e per mezzo di figure retoriche, negare che egli abbia, dal punto di vista giuridico, il sesso naturale originario, dal momento che (come anche appena si vedrà) in ogni caso deve risultare che vi siano elementi che comunque rendano sostanzialmente irreversibile ed oggettivamente evidente la scelta operata relativa al mutamento sessuale. Manca, quindi, un qualunque elemento, giuridicamente apprezzabile, con cui si possa seriamente giustificare una analogia tra il matrimonio del transessuale con il possibile riconoscimento delle nozze tra persone omosessuali. 1.3.1 Il cambiamento di sesso senza operazione chirurgica Quanto qui riferito potrebbe essere ritenuto non più valido nella sostanza in considerazione del fatto che in diversi ordinamenti, come anche in quello italiano, la giurisprudenza, da ultimo, ritiene, ai fini della rettificazione del sesso anagrafico, che non sia più necessario procedere ad operazioni chirurgiche. In effetti, si affermato di recente anche in Italia (Corte di cassazione sentenza n. 15138/2015) che la “correzione chirurgica” non sia necessaria ai fini per cui qui si procede. E’ però vero che, nella medesima sentenza, si è anche affermata la necessità che <<il mutamento di sesso sia una scelta personale tendenzialmente immutabile, sia sotto il profilo della percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico, somatici ed ormonali>>. Si è oltremodo precisato che <<la varietà del percorso soggettivo non è indice di facilità e superficialità del passaggio dall'uno all'altro genere sessuale, evidenziando soltanto la notevole complessità della scelta individuale, la sua maturazione tutt'altro che istantanea e la sua non riconducibilità a protocolli e trattamenti modificativi generali ed adeguati a qualsiasi situazione individuale>>, ma soprattutto che <<il riconoscimento giudiziale del diritto al mutamento di sesso non può che essere preceduto da un accertamento rigoroso del completamento di tale percorso individuale da compiere attraverso la documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici eseguiti dal richiedente, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l'irreversibilità personale della scelta>>. Consegue da tutto ciò che, seppur in apparenza fortemente attenuata, rimane ferma l’idea che per il mutamento del sesso sia necessario il vaglio giurisdizionale e soprattutto una scelta sostanzialmente irretrattabile del soggetto fondata su dati non semplicemente soggettivi ma anche oggettivi, che seppur non importino un’operazione che conduca certamente all’infertilità, almeno dal punto di vista della riconoscibilità sociale siano tali da far emergere un mutamento dei caratteri sessuali secondari “apparenti” rispetto a quelli originari. Peraltro, di per sé l’impostazione in questione non esclude, in ipotesi, il ricorso alla modificazione degli organi genitali. Ciò che viene escluso è l’imposizione assoluta di una pratica che renda infertili, ma è pur vero che la non necessità dell’operazione in questione non può che essere “certificata” da soggetti qualificati che valutino, appunto, la non necessità della stessa, in conformità con le istanze della parte interessata, al fine della rettifica del sesso, posto che la volontà di mutamento in questione sia e si ritenga che sia assoluta e chiaramente manifestata attraverso i caratteri secondari sopra riferiti. Ciò è tanto più vero, sol che sin consideri che anche nella decisione in questione si è riconosciuto che <<il diritto al mutamento di sesso può essere riconosciuto soltanto se non determini ambiguità nella individuazione soggettiva dei generi, e nella certezza delle relazioni giuridiche, non potendo l'ordinamento riconoscere un tertium genus costituito dalla combinazione di caratteri sessuali primari e secondari di entrambi i generi>> Non si può, quindi, per quanti sforzi si possano svolgere in materia, prendere in considerazione anche questo ulteriore sviluppo della materia per sostenere che vi siano già negli ordinamenti vigenti indici per giustificare un pieno riconoscimento delle unioni omosessuali alla stregua della famiglia legittima, facendo leva sulla transessualità. 1.3.2 La transessualità sopravvenuta Ma quid iuris nel caso in cui la transessualità avvenga in costanza di un matrimonio eterosessuale già celebrato e perfettamente valido ai fini giuridici? Nel caso in cui uno dei coniugi cambi il proprio sesso originario, in effetti, dal punto di vista giuridico vi sarebbe una convivenza pienamente riconosciuta di una coppia avente il medesimo sesso. Se non che, prima di affrontare il problema dell’eventuale possibilità di imporre ex lege il divorzio del transessuale, è bene precisare da subito che tale situazione – quand’anche pienamente riconosciuta e tutelata dall’ordinamento giuridico - non può essere considerata del tutto propriamente al fine di far valere il matrimonio omosessuale. Infatti, il matrimonio originario, in questi casi, è pur sempre stato stipulato validamente tra persone di sesso diverso: la sopravvenuta modificazione del sesso di uno dei coniugi pone, quindi, esclusivamente problemi sulla permanenza del vincolo matrimoniale e non anche sulla sua legittimità originaria. Da ciò si ricava che non può ammettersi una qualche estensione analogica tra le diversissime fattispecie qui in discussione. Ciò detto, anche per dovere di coerenza e chiarezza, è evidente che le ipotesi astrattamente configurabili in questa situazione (id est, nel caso di mutamento sopravvenuto del sesso di uno degli sposi) la legge può imporre ope legis il divorzio oppure ritenere che il divorzio possa essere dichiarato solo a seguito di specifico ricorso secondo le regole generali. Le legislazioni occidentali sul punto in questione non sono univoche: tuttavia, è agevole considerare che imporre sic et simpliciter il celibato al fine di poter ottenere il mutamento del sesso ovvero imporlo come conseguenza necessaria di tale scelta importa da parte dello Stato l’intromissione in situazioni pendenti personalissime e delicatissime, che dovrebbero rimanere in linea di principio al di fuori di una diretta ingerenza statale. Non è difficile, infatti, ritenere – e l’esperienza giudiziaria formatasi in materia conferma pienamente il punto – che il coniuge, che ha mantenuto il proprio sesso originario, non voglia affatto divorziare nonostante l’intervenuto mutamento del sesso dell’altro coniuge e che anzi, per ragioni di umanità e di affetto reciproco, vi può essere una comune ed effettiva volontà di mantenere fermo l’originario rapporto coniugale e più precisamente l’impegno matrimoniale a suo tempo preso di reciproca cura ed assistenza. D’altra parte è innegabile che, qualora si imponga il divorzio ex lege, lo Stato si intromette nell’ambito di un rapporto che coinvolge anche il coniuge non transessuale: è chiaro allora che lo scioglimento del matrimonio de quo esplica effetti giuridici anche nei confronti di quest’ultimo, prescindendo dal considerare ogni sua opinione in merito, il che non può non risultare stonante rispetto ai principi che dovrebbero regolare l’intervento statale nell’ambito della configurazione della vita familiare. Si può allora affermare che nei casi di cui si tratta una ingerenza autoritaria dello Stato sul mantenimento del matrimonio già celebrato appare in sostanza una violazione della libera determinazione dei coniugi in riferimento alla costituzione ed allo scioglimento del matrimonio. Da quanto sopra deriva che il riconoscimento della possibilità di mantenere lo status coniugale del transessuale lascia inalterata la configurazione tradizionale del matrimonio e nel contempo impedisce la lesione del diritto a mantenere il matrimonio spettante all’altro coniuge. Si spiega così perché diverse corti costituzionali abbiano censurato quelle disposizioni che, pur permettendo il mutamento del sesso, condizionavano tale mutamento alla necessaria variazione giuridica delle situazioni familiari preesistenti. Da questo punto di vista, meritano particolare attenzione la Corte costituzionale tedesca (pronuncia BVerfG 1 BvL 10/051), che ha espressamente evidenziato come le caratteristiche essenziali del matrimonio sono l’aspettativa di una durevole comunità di vita e la volontarietà dello scioglimento del vincolo, sulle quali lo Stato non può interferire, e quella austriaca (pronuncia n. 17849 del giorno 8 giugno 2006), secondo cui il diritto alla continuazione di un legame duraturo e stabile come il matrimonio non possano essere sacrificati senza il consenso dei coniugi. Anche la CEDU (sentenza 13 novembre 2012 Caso H. vs Finlandia) ha avuto modo di censurare quelle norme della legislazione finlandese per le quali la registrazione della rettificazione del sesso presupponeva il consenso dell’altro coniuge al fine di trasformare il matrimonio in una unione civile registrata, proprio poiché una simile configurazione non lasciava ai coniugi alcuna alternativa in ragione del cambiamento del sesso così determinando una necessaria ma indebita caducazione del vincolo matrimoniale. Nello stesso senso si è di recente mossa anche la giurisprudenza italiana e più precisamente la Corte di cassazione (Corte cass. Sez. I civ. ord. n. 14329/2013), che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della Legge n. 164/1982 (oggi sostanzialmente trasfusi nei commi 5 e 6 del D. lgs. n. 150/2011 in materia di semplificazione dei procedimenti civili di cognizione) nella parte in cui impongono l’automatica cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario allorché vi sia una rettificazione di attribuzione del sesso. In tale pronuncia gli argomenti posti a sostegno della censura costituzionale delle norme in questione sono ampiamente espressi facendo leva proprio sulla necessità di evitare <<il vulnus al diritto di mantenere ferma l’opzione per la vita familiare coniugale>> e, quindi, che l’altro coniuge subisca <<gravi conseguenze sulla sua sfera emotiva, e sull’assetto giuridico delle proprie scelte relazione, … trovandosi ipso iure, e in contrasto con la propria volontà, nella condizione di essere privato dello status coniugale>>. Come noto la Corte costituzionale italiana si pronunciata espressamente in materia proprio a seguito della eccezione di costituzionalità appena riferita. Con la sentenza n. 170/2014 la Consulta, nel ribadire che <<la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente ... è quella definita dal codice civile ... che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso>> e che il legislatore non ha il dovere, sulla scorta delle Convenzioni internazionali, di prestare <<forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso>>, ha tuttavia rilevato che come si avrà modo di approfondire in seguito - ciò non impedisce un sindacato costituzionale su talune specifiche situazioni "nel quadro di un controllo di ragionevolezza" della disciplina oggetto del giudizio di costituzionalità. Date queste premesse è, quindi, comprensibile che la Corte abbia ritenuto di dover "tutelare", in qualche modo, una formazione sociale già in essere ed in precedenza espressamente riconosciuta dal legislatore (la famiglia formatasi a seguito del matrimonio originario) ritenendo così che la soluzione operata dal legislatore, di imporre automaticamente il divorzio a seguito della rettificazione del sesso, non fosse adeguata. Infatti, nel conflitto tra l'interesse <<dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio>> e quello della coppia di non vedere sacrificata integralmente la <<dimensione giuridica del preesistente rapporto>>, non può, sussistendo conforme volontà degli interessati, escludersi ogni tutela della loro forma di comunità originaria, tutela che però non può perseguirsi attraverso <<una pronuncia manipolativa che sostituisca il divorzio automatico con il divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso>>, ma evidentemente solo mediante una <<forma alternativa (e diversa del matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza>>. Risulta da quanto sopra che, al di là di ogni considerazione - che pure è sempre stata effettuata nelle sopra richiamate pronunce - sulla libera determinazione della propria identità sessuale, non si è mai seriamente posto in dubbio che la tutela dello status familiare precedente del transessuale fosse indice della volontà di aprire le porte ad altre configurazioni della famiglia legittima (fondata “costituzionalmente” sul matrimonio tra uomo e donna), essendo invece sempre presente la necessità di tutelare taluni capisaldi di detta fondamentale istituzione. Il che conferma ancora una volta che non può ammettersi una necessaria correlazione tra il matrimonio del transessuale e il riconoscimento di un vincolo tra omosessuali. 1.4 Unioni di fatto omosessuali e matrimonio Come accennato, molto si è discusso e si discute sul concetto di identità sessuale, al fine di escludere che l’eterosessualità costituisca, per la validità del matrimonio, un canone di ordine pubblico, essendosi nel tempo via via affermata l’idea per cui anche le unioni di fatto, comunque composte, ricevano una copertura costituzionale o comunque una tutela giuridica. Di particolare importanza appare in quest’ambito, per l’ordinamento italiano, la sentenza n. 138/2010 della Corte costituzionale con la quale si sono respinte tutte le richieste protese a permettere il matrimonio tra persone del medesimo sesso. In tale pronuncia la Consulta ha affermato che <<per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico>> e che <<in tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri>> (punto 8 del Considerato in diritto). La Corte, tuttavia, ha escluso <<che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio>> (punto 8), dal momento che <<le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio>> (punto 9). Se ne è concluso che <<nell’ambito applicativo dell’art. 2 cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988)>>, posto che può accadere <<che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza>> (punto 8). Risulta così – ma il punto non pare essere in seria contestazione – che l’unione omosessuale è una unione di fatto che non può di per sé essere vietata, ma che non ha, come invece avviene per la famiglia legittima, alcun riferimento costituzionale perché essa venga garantita mediante l’attribuzione di un particolare status giuridico dei suoi componenti, non potendosi assimilare – se non per alcuni aspetti – l’unione omosessuale allo status matrimoniale. Da questo punto di vista, nonostante le ambiguità di fondo con cui si sono espressi taluni concetti specialmente da una parte della giurisprudenza italiana, non si rinvengono contrasti neppure nella più recente giurisprudenza della CEDU (in particolare Caso Schalk e Kopf vs Austria sentenza del 24 giugno 2010)2 . La CEDU, infatti, ha affermato che sebbene <<la relazione di una coppia omosessuale … rientri nella nozione di “vita privata” nell’accezione dell’articolo 8>> della Convenzione e benché tale relazione costituisca, nel mondo contemporaneo, anche una “vita familiare” (punto 90 della sentenza Shalk e Kopf), ciò non significa che possa ammettersi un dovere dello Stato di riconoscere tale relazione. Meritano di essere, seppur sinteticamente, considerati i diversi argomenti della CEDU, onde evitare inutili ambiguità. 2 Per comodità si riportano i testi degli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Articolo 8 - Diritto al rispetto della vita privata e familiare Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Articolo 12 - Diritto al matrimonio A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto. Articolo 14 – Divieto di discriminazione Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione. In merito, si è preliminarmente osservato che, in materia di coppie eterosessuali, il concetto di “famiglia” non può essere <<limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio>>, visto che <<il figlio nato da tale relazione è ipso iure parte di quel nucleo “familiare” dal momento e per il fatto stesso della nascita>> (punto 91). Si è inoltre registrata la necessità di superare la tesi fatta in precedenza propria dalla stessa CEDU secondo cui <<la relazione emotiva e sessuale di una coppia omosessuale costituisca “vita privata”, ma non … “vita familiare”>> (punto 92) attesa la <<rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali>> (punto 93). Si è così concluso che <<una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di “vita familiare”, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione>> (punto 94). Da ciò, tuttavia, non si è proceduto né nel senso di una equiparazione tra matrimonio tra uomo e donna e coppie omosessuali, né si è assunto che il legislatore debba in qualche modo riconoscere un pieno status giuridico alle coppie omosessuali. Si è infatti ritenuto che non sussiste alcuna discriminazione nei confronti di due persone omosessuali che non hanno accesso al matrimonio e non hanno a disposizione nessun mezzo alternativo di riconoscimento giuridico della loro unione. Il diritto al matrimonio “omosessuale”, infatti, non può essere tratto né dall’art. 12 né dall’articolo 14 in relazione all’articolo 8 della Convenzione europea, in quanto <<l’articolo 12 non fa obbligo agli Stati Contraenti di concedere alle coppie omosessuali l’accesso al matrimonio>> né ciò può essere derivato dall’articolo 14 in relazione all’articolo 8, essendo questa <<una disposizione che ha un fine e un campo di applicazione molto più generici>>, di modo che non può essere <<interpretata come imponente tale obbligo>> (punto 101). Si è poi osservato, in tema di ottenimento di riconoscimenti alternativi al matrimonio per le coppie omosessuali, che nonostante <<vi [sia] un emergente consenso generale europeo nei confronti del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, … la materia in questione deve … essere ritenuta ancora uno dei diritti in evoluzione che non ha un radicato consenso generale, in cui anche gli Stati devono godere di un margine di discrezionalità nella scelta del momento dell’introduzione delle modifiche legislative>> (punto 105). Si è così chiaramente concluso <<che gli Stati sono tuttora liberi, a norma dell’articolo 12 della Convenzione, nonché dell’articolo 14 in relazione all’articolo 8, di limitare l’accesso al matrimonio alle coppie eterosessuali>> e <<che se uno Stato sceglie di fornire alle coppie omosessuali un mezzo di riconoscimento alternativo>> è da ritenersi <<che lo Stato goda di un certo margine di discrezionalità per quanto riguarda il preciso status conferito dal mezzo di riconoscimento alternativo>> (punto 108). Alla luce di quanto sopra, si può allora notare come nell’impostazione delle problematiche concernenti il riconoscimento delle coppie omosessuali, vi sia un evidente travisamento dei concetti. Lo Stato, infatti, non può perseguire o definire gli orientamenti sessuali dei cittadini: sicché l’omosessualità non può e non deve essere punita. Nello stesso modo, lo Stato non può impedire ai cives di vivere nel quotidiano con le persone ad essi più graditi, così come non può imporre il matrimonio, essendo fondato sulla libera determinazione dei coniugi. Da ciò si ricava che la convivenza omosessuale, benché sia libera, non può rappresentare, nella sua sostanza, un “ente” giuridico essenziale per la costruzione e lo sviluppo dello Stato. Nello stesso modo, la configurazione legale della coppia omosessuale non può che essere rimessa nella sostanza alla discrezionalità politica. Tutto ciò significa che se lo Stato non riconosce il vincolo omosessuale e non gli attribuisce uno status particolare, non si ha alcuna “ingiustizia” e, per contro, il riconoscimento di tale status non può in alcun modo limitare o avvilire la tutela e la valorizzazione della famiglia tradizionale. Non si può, allora, affermare che l’eterosessualità del matrimonio non sia più essenziale o di ordine pubblico, posto che il matrimonio “tradizionale” rimane comunque fondamentale nello Stato di diritto, né si può sostenere che sbagli quell’ordinamento nel quale il mancato riconoscimento delle coppie omosessuali sia giustificato, avuto riguardo alla cultura ed alla particolare situazione vigente nel singolo ordinamento, dalla necessità di evitare che possa conseguire uno svilimento dello status matrimoniale. Si spiega così perché risulti inaccettabile la tesi “tutta italiana” secondo cui <<se nel nostro ordinamento è compresa una norma - l’art. 12 della CEDU .. come interpretato dalla Corte Europea -, che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi>>, la diversità di sesso dei nubendi non sarebbe più, <<unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell’ufficiale dello stato civile celebrante, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile, come atto giuridicamente rilevante>>, atteso altresì che tale “costruzione” non si dimostrerebbe <<più adeguata alla attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi [sarebbe] presupposto indispensabile, per cosi dire “naturalistico”, della stessa “esistenza” del matrimonio>> (così in motivazione punto 4.3 Corte cass. Sez. I civ. sentenza n. 4184/2012). Tale posizione, infatti, è del tutto errata, non fosse altro perché in nessuna delle sentenze della Corte costituzionale e della CEDU si è mai equiparato il matrimonio alla coppia omosessuale, essendosi invece sempre avuta l’accortezza di segnalarne la differenza sostanziale e l’impossibilità di ritenere omogenee queste due fattispecie. Si comprende allora quanto sia davvero oziosa l’affermazione per cui <<l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende non più dalla loro “inesistenza” …, e neppure dalla loro “invalidità”, ma dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano>> (così sempre in motivazione punto 4.3 Corte cass. Sez. I civ. sentenza n. 4184/2012), dal momento che ad oggi l’unione omosessuale non è affatto considerata matrimonio ed il matrimonio, per quanto ripetutamente detto, non può perdere il carattere della eterosessualità dei coniugi senza con ciò perdere ogni valenza. 1.4.1 Gli ultimi ed equivoci sviluppi della CEDU Tale conclusione non muta neppure tenendo in considerazione gli ultimi approdi della CEDU (Caso Oliari and Others vs Italy del 21 luglio 2015). La CEDU ha, con tale ultima pronuncia, affermato che <<same-sex couples are just as capable as different-sex couples of entering into stable, committed relationships, and that they are in a relevantly similar situation to a differentsex couple as regards their need for legal recognition and protection of their relationship>> con la conseguenza che <<same-sex couples are in need of legal recognition and protection of their relationship >>, soprattutto laddove manchino, all’interno del singolo ordinamento, ragioni pubbliche serie e cogenti per escludere il loro riconoscimento legale ed il fenomeno delle coppie omosessuali assuma una certa rilevanza sociale all’interno del Paese di riferimento e degli altri Stati membri della Convenzione. Pur valorizzando l’esigenza di riconoscimento legale delle relazioni omosessuali, la CEDU, tuttavia, ribadito che non si possa ritenere di per sé equipollente tale riconoscimento con il matrimonio tradizionale, evidenziando peraltro come <<Article 12 of the Convention does not impose an obligation on the respondent Government to grant a same-sex couple like the applicants access to marriage>>. Discende allora come i piani di riferimento tra unioni omosessuali e matrimoni eterosessuali siano e rimangano diversi. Ciò che può portare ad una qualche confusione è il riferimento relativo al “riconoscimento legale” delle relazioni omosessuali sostanzialmente ritenuto oggi dalla CEDU come ineludibile, anche sulla scorta dell’impostazione avuta sul tema dalla Corte suprema degli Stati uniti (su cui vedi infra). Sul punto, è bene però chiarire alcuni aspetti fondamentali. Da un lato, si tratta di considerare se il diritto debba regolare fenomeni sociali ritenuti rilevanti in un determinato periodo storico: la risposta non può che essere positiva. Ma se ciò è, si deve anche domandare, dall’altro lato, se il diritto debba fornire una regolamentazione completa ai diversi fenomeni, tale da dover disciplinare non solo i rapporti interni ma anche quelli esterni. In questo caso la risposta non è necessariamente positiva. Il tutto dipende non solo dalla intrinseca configurazione del fenomeno sociale, ma anche dall’interesse ad una sua valorizzazione e, quindi, fuor di metafora da una sua implementazione ed evoluzione. Se, dunque, un determinato fenomeno è visto come non meritevole di essere di per sé censurato, ciò non significa che questo vada di per sé valorizzato: tutto dipende non solamente dalla moralità pubblica, ma anche dall’esigenza di evitare equivoci rispetto ad altre istituzioni “similari” espressamente riconosciute e conseguentemente evitare una loro minore considerazione da parte dell’ordinamento giuridico. Esiste infatti una scala di valori: tutti i gradini hanno un qualche significato, ma è pur vero che taluni gradini sono più importanti di altri. Ciò non rappresenta che un naturale effetto della struttura dell’azione e della responsabilità politica e sociale la quale non può non muoversi attraverso criteri di priorità e di prevalenza. Venendo all’ordinamento italiano ed al caso delle relazioni same-sex, come accennato, la loro copertura costituzionale è rinvenibile all’interno dell’art. 2 cost., posto che per giurisprudenza ormai costante tale relazione costituisce una formazione sociale ai sensi della predetta norma. Se non che la famiglia tradizionale ha un riconoscimento espresso non tanto e soltanto ai fini definitori, ma soprattutto per una sua piena valorizzazione sociale e giuridica anche attraverso scelte politiche di sostegno. Se così è, non ha senso porre la questione astratta del riconoscimento delle coppie omosessuali, che peraltro - come detto - hanno già e di per sé una copertura costituzionale, ma il tutto deve essere proteso ad analizzare gli effetti che tale riconoscimento “a tutto tondo” può o deve avere all’interno del singolo ordinamento. Se, infatti, la questione è puramente amministrativa, nel senso che essa può esaurirsi in una dichiarazione congiunta per certificare la comune residenza e il fatto della convivenza, il punto è di per sé già superato, poiché già risolto dal concetto di “famiglia anagrafica”. Se, invece, a tale dichiarazione si vogliono collegare una serie complessa di diritti ed obblighi reciproci ed anche verso la comunità sociale di riferimento, allora il problema è relativo alla configurazione di un particolare status ed in tale materia la discrezionale del legislatore non solo è ampia, ma è altresì vincolata all’esigenza di non esautorare la valenza della famiglia legittima. Ecco che allora il problema del riconoscimento “ufficiale” auspicato dalla CEDU contiene un equivoco di fondo che va immediatamente dissipato, fermo restando che lo Stato italiano nel caso di specie è rimasto pressoché ed incredibilmente passivo rispetto alle osservazioni del ricorrente e dei diversi enti andati a sostegno del ricorso de quo. L’interesse pubblico a che le coppie omosessuali non siano pienamente riconosciute ovvero a che le stesse non abbiano uno statuto simile a quello familiare deriva semplicemente dal fatto che la famiglia legittima è il valore che, all’interno della Costituzione italiana così come nella CEDU, ha priorità di intervento e di attenzione dello Stato e che non può essere messa né in concorrenza, neppure indiretta, con altre forme di vita in comune e soprattutto non può essere depauperata nel suo significato istituzionale e nella sua valenza morale e, dunque, educativa. Se così è, peraltro, ciò non vuol dire che non vi siano delle particolari discipline, previste per la famiglia legittima, che possano essere attribuite alle convivenze di fatto (eterosessuali od omosessuali). Nello stesso modo, specie nel campo privatistico e soprattutto successorio così per diverse situazioni nelle quali il lato umano ed umanitario è prevalente, non vi sono problemi a priori per una piena considerazione della famiglia di fatto, quale che sia il sesso dei suoi componenti, fermo restando i dovuti raccordi con gli istituti familiari (propriamente intesi) eventualmente connessi o coinvolti. Ma ciò significa altresì che la questione del riconoscimento della famiglia di fatto “omosessuale” nulla o quasi ha di peculiare rispetto a quella propria della famiglia di fatto “eterosessuale”, la quale è essa stessa un fenomeno che mira ad essere riconosciuta socialmente ancorché non miri ad essere trasfusa nel “matrimonio” tradizionale. Ad ogni modo il punto in questione, essendo connesso al prossimo aspetto da considerare, è bene che sia affrontato da ultimo. 1.5 Same-sex marriage e diritti dei coniugi eterosessuali Tutto quanto sin qui detto ben potrebbe essere criticato ed in un certo senso demolito facendo leva sul fatto che diverse legislazioni abbiano comunque equiparato significativamente l’unione omosessuale a quella matrimoniale. Si potrebbe, infatti, sostenere che – proprio sul rilievo per cui gli Stati sono sostanzialmente liberi di disciplinare il riconoscimento delle unioni omosessuali – nulla vieterebbe in ipotesi una piena equiparazione tra le due figure in questione o comunque che non potrebbe ammettersi, una volta riconosciuto il same–sex marriage, l’imposizione di una serie discriminazioni tra i due istituti in questione. A tal proposito, tuttavia, deve osservarsi che il riconoscimento e la configurazione dell’unione omosessuale è e rimane opzione non necessaria e destinata ad essere soggetta alla discrezionalità di disciplina: sicché – come già indicato – solo con riferimento a particolari situazioni si può ammettere la necessità di estendere, alla luce dell’intero ordinamento, taluni aspetti propri della regolamentazione giuridica dei diritti e doveri conseguenti all’intervenuto matrimonio anche ad unioni di vita diverse da quella “tradizionale”. Ciò, del resto, rappresenta un principio ormai consolidato, il quale non impone altro che una analisi delle ragioni per le quali un determinato istituto di favore è riconosciuto alla famiglia fondata sul matrimonio, onde valutare se sia ragionevole, attesa l’identità di ratio, una sua estensione ad altre fattispecie. Da questo punto di vista, grande risalto hanno avuto talune prerogative spettanti al coniuge superstite in ragione della morte dell’altro coniuge. Qui, peraltro, si può osservare che l’estensione a “coppie omosessuali” dell’efficacia di istituti che presuppongono il decesso del coniuge “eterosessuale” non inficiano affatto il senso “originario” del matrimonio, poiché questo è per definizione sciolto proprio in conseguenza della morte di uno degli sposi, sicché in questi casi si prende in considerazione una situazione di fatto successiva al venir meno del matrimonio, tenendosi presente semplicemente se vi sia stato “di fatto” una convivenza effettiva e duratura tra le persone interessate. Si spiega così perché vi sia una grande confusione nel sostenere che l’unione riconosciuta abbia, di per sé, una qualità intrinseca del tutto assimilabile a quella del matrimonio. Il matrimonio tra uomo e donna, infatti, anche nel caso di validazione delle “unioni civili” è e rimane comunque del tutto particolare all’interno del sistema giuridico e gli istituti di favore allo stesso garantiti, soprattutto nell’ambito delle politiche sociali di sostegno e di tutela sociale ed economica, non possono essere ritenuti di per sé estensibili, né in punto di fatto né in quello di diritto, alle predette unioni. Ciò del resto era stato confermato anche oltreoceano, proprio nella “esaltata” sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti [nella causa UNITED STATES v. WINDSOR, EXECUTOR OF THE ESTATE OF SPYER, ET AL. 570 (U.S.) 2013 del 26 giugno 2013], nella quale si era denunciato il fatto che si era negata ad una donna l’applicazione di una esenzione fiscale a favore del coniuge superstite destinatario dell’eredità del coniuge deceduto prevista dalla legislazione federale, nonostante che la sua precedente unione omosessuale con la proprietaria dei beni dati alla stessa in eredità fosse stata riconosciuta dallo Stato di appartenenza (lo Stato di New York). Sul punto la Corte suprema allora aveva osservato che nel particolare sistema americano <<by history and tradition the definition and regulation of marriage … has been treated as being within the authority and realm of the separate States>>, ben potendo il Congresso emettere <<determinations that bear on marital rights and privileges>>. Se non che nell’ambito del DOMA (Defence of Marriage Act) lo Stato federale aveva adottato una definizione del matrimonio protesa non già a tutelare la diversità dei sessi degli sposi al fine della sua costituzione e valorizzazione sociale, ma per escludere dall’applicazione di tutta la normativa federale di favore il same-sex partner, quand’anche il singolo Stato federato avesse riconosciuto l’unione omosessuale, che per l’effetto non poteva dirsi irrilevante per lo Stato federale. In sostanza con tale atto si era proceduto a definire come giuridicamente irrilevanti, al fine della disciplina delle unioni omosessuali riconosciute dai diversi stati, più di mille leggi e di numerosissimi regolamenti federali, riguardanti tra l’altro <<social Security, housing, taxes, criminal sanctions, copyright, and veterans’ benefits>>. La Corte suprema aveva così evidenziato che, contro il complesso background formatosi nel tempo negli Stati Uniti in ragione del delicato rapporto di ripartizione delle competente dello Stato federale e gli Stati federati nell’ambito de quo, <<DOMA rejects the long established precept that the incidents, benefits, and obligations of marriage are uniform for all married couples within each State, though they may vary, subject to constitutional guarantees, from one State to the next>>. Dato quanto sopra, non è allora difficile capire perché si sia concluso nel caso di specie che l’intervento federale non aveva avuto lo scopo di tutelare la famiglia, ma <<to impose restrictions and disabilities>>, e le ragioni per le quali sia stato considerato contrario alla Costituzione americana la definizione di matrimonio contenuto nel DOMA. Fino a tale sentenza neppure la Corte suprema degli Stati Uniti ha inteso equiparare, al di là di qualche espressione di forma, le unioni omosessuali riconosciute alla famiglia “tradizionale”, posto che si era semplicemente affermato che lo Stato federale non può escludere che qualsiasi diritto o prerogativa connessa allo status matrimoniale possa essere estesa anche nel caso dell’unione omosessuale, fermo restando il diritto/dovere dello Stato di intervenire a sostegno della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. Se non che deve pure darsi atto che la stessa Corte suprema con una successiva e “celebrata” sentenza ( OBERGEFELL ET AL. v. HODGES, DIRECTOR, OHIO DEPARTMENT OF HEALTH, ET AL. 576 (U.S.) 2015 del 26 giugno 2015), <<under the Due Process Clause of the Fourteenth Amendment>>, secondo cui <<no State shall “deprive any person of life, liberty, or property, without due process of law”>> ha espressamente dichiarato che <<same-sex couples may exercise the right to marry>>. 1.5.1 Nessuna differenza tra same- and opposite-sex couples? Il ragionamento dell’Alta corte, strutturato su quattro pilastri, merita di essere preso in ampia considerazione. Come prima premessa si è osservato che <<the right to personal choice regarding marriage is inherent in the concept of individual autonomy>>. Venendo poi alla considerazione sulla natura del matrimonio, si è osservato che <<the nature of marriage is that, through its enduring bond, two persons together can find other freedoms, such as expression, intimacy, and spirituality>> e che tale aspetto sia valevole <<for all persons, whatever their sexual orientation>>. Come seconda premessa, si è considerato che <<the right to marry is fundamental because it supports a twoperson union unlike any other in its importance to the committed individuals>>; ma se così è, sempre a detta della Corte suprema, dovrebbe pure riconoscersi che <<same-sex couples have the same right as opposite-sex couples to enjoy intimate association>>. Venendo alla terza premessa, si è enfatizzato che <<a … basis for protecting the right to marry is that it safeguards children and families and thus draws meaning from related rights of childrearing, procreation, and education>>, per poi constatare che <<many same-sex couples provide loving and nurturing homes to their children, whether biological or adopted. And hundreds of thousands of children are presently being raised by such couples>>. Da tutto ciò si dedotto che <<excluding same-sex couples from marriage thus conflicts with a central premise of the right to marry. Without the recognition, stability, and predictability marriage offers, their children suffer the stigma of knowing their families are somehow lesser. They also suffer the significant material costs of being raised by unmarried parents, relegated through no fault of their own to a more difficult and uncertain family life. The marriage laws at issue here thus harm and humiliate the children of same-sex couples>>. Come quarto ed ultimo riferimento si è sostenuto che <<marriage is a keystone of our social order>>, facendo in proposito richiamo a storiche affermazioni, e che <<for that reason, just as a couple vows to support each other, so does society pledge to support the couple, offering symbolic recognition and material benefits to protect and nourish the union>> … ma se così è … <<there is no difference between same- and opposite-sex couples with respect to this principle>>. Tutto ciò premesso, è derivata la conclusione secondo cui <<the limitation of marriage to opposite-sex couples may long have seemed natural and just, but its inconsistency with the central meaning of the fundamental right to marry is now manifest>>. Non vi è molto da dire sull’impostazione avuta dalla Corte suprema degli Stati Uniti sul delicato tema in questione, poiché in tutti i suoi riferimenti ha dimenticato proprio l’aspetto essenziale della ragione per la quale la famiglia tradizionale costituisce la cellula fondamentale della società e per la quale la sua valenza è ineludibile e su cui si è riferito nella prima parte del presente scritto, facendo nella sostanza leva solo sull’impossibilità di sindacare i sentimenti e gli affetti delle persone. Nello stesso modo, non può non apparire contradittorio sostenere che la tutela del matrimonio tradizionale sia in una certa maniera uno strumento per svilire la dignità dei “figli” delle coppie omosessuali, senza considerare i problemi delicatissimi che sottostanno alla materia de qua. Ma più di tutto, è risibile il punto nel quale la Corte Suprema, ben sapendo la valenza che le opinioni religiose e soprattutto la libertà religiosa hanno negli Stati Uniti d’America, ha ritenuto di risolvere i contrasti, che può portare una visione “laica” che contraddica del tutto la visione “religiosa” del matrimonio ed altre visioni etiche consolidate nella civiltà americana. Sul punto si è semplicemente affermato che <<it must be emphasized that religions, and those who adhere to religious doctrines, may continue to advocate with utmost, sincere conviction that, by divine precepts, same-sex marriage should not be condoned. The First Amendment ensures that religious organizations and persons are given proper protection as they seek to teach the principles that are so fulfilling and so central to their lives and faiths, and to their own deep aspirations to continue the family structure they have long revered. The same is true of those who oppose same-sex marriage for other reasons>>. Tuttavia, <<those who believe allowing same-sex marriage is proper or indeed essential, whether as a matter of religious conviction or secular belief, may engage those who disagree with their view in an open and searching debate>>, fermo restando che <<the Constitution, however, does not permit the State to bar same-sex couples from marriage on the same terms as accorded to couples of the opposite sex>>. Come a dire che non può essere impedita alcuna opinione “interiore” o di “setta” a favore della famiglia naturale, ma, qualora per ipotesi i più comprendano col tempo l’essenzialità della famiglia tradizionale, come lo è stato sin dalla notte dei tempi, in ogni caso si dovrà prendere atto del il fatto che l’equiparazione tra le “diverse” famiglie è ormai un dato fondamentale della Costituzione americana, che per l’effetto non può essere cancellato … salvo mutamenti della giurisprudenza o cambiamenti costituzionali, che evidentemente appaiono allo stato alquanto inverosimili. Si capisce agevolmente come in tale passaggio si evidenzi la distorsione, che una visione non attenta ed accorta può condurre sui temi qui discussi: se si afferma una equivalenza che in realtà è impossibile, l’opinione, che miri a far risaltare la differenza, in realtà, benché astrattamente legittima, diviene, se in effetti portata come elemento di cultura dilagante, ad essere considerata come incostituzionale, potendo nei fatti essere espressa in dibattiti aperti solamente l’opinione, che oggi ha trovato piena accoglienza nella decisione in questione. Si comprende inoltre come una “pacificazione” delle problematiche connesse ad una equiparazione del matrimonio tradizionale con quello same sex non può essere risolta con pure formule di stile. Non vi è dubbio, infatti, che si pone già la questione di poter legittimamente invocare l’obiezione di coscienza, laddove il singolo, in aderenza alle proprie convinzioni religiose, trovandosi in qualche modo a dover collaborare, in ragione del proprio ufficio, per il riconoscimento formale del matrimonio same sex, rifiuti di compiere l’atto richiesto perché chiaramente contrastante con il proprio credo. E che ciò sia, è corroborato dai primi fatti di cronaca collegati alla decisione, di cui si tratta (si veda il caso Kim Davis ed anche le affermazioni del Procuratore generale del Texas), oltre che dalla lettura delle opinioni dissenzienti registrate nel caso de quo. E’ oltremodo chiaro che se si perde ogni criterio di giudizio, che “elevi” i termini delle questioni qui in discussione, tutto diventa opinabile e sinceramente vi è inutilità della discussione. Il tutto comunque dimostra che le più Alte corti possono sbagliare anche quando discutono di libertà, ma soprattutto che affidare la configurazione della “cellula” della società al potere giurisdizionale può essere possibile solo se mancano scelte politiche chiare e coerenti e che tutelino seriamente l’uomo e la sua dignità personale. In conclusione, non si può non osservare come, nella nazione che più di tutte governa l’economia mondiale e che, pur tuttavia, nella moneta fondamentale non ha disdegnato di scrivere “In God we trust” e la cui Costituzione è impregnata di alti valori religiosi e della stessa libertà religiosa, e, dunque, in definitiva in una nazione, che ha ben chiara l’importanza della trascendenza e dell’alto valore dell’uomo, abbia voluto ridurre a questione di mera opinione “personale” ogni considerazione più che millenaria sulla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo ed una donna, dimenticando che se la configurazione della “cellula” della società non ha una componente “naturale” fondamentale ed effettiva, la società diviene per ciò solo puramente artificiale e, quindi, per definizione, fondata sopra la mera volontà umana, volontà che nei fatti è protesa a seguire non solo gli istinti egoistici ma, purtroppo, a conformarsi, fosse solo per pigrizia od accidia, alla volontà anche imbonitrice dei più forti. Ma ciò detto, è giunto il tempo di terminare. 1.6 Conclusioni Non è mai semplice sostenere posizioni chiare in materie impregnate di opzioni ideologiche. Tuttavia, la logica innanzi tutto giuridica non è cosa che possa essere utilizzata male senza conseguenze assai deleterie. Da quanto riferito risulta che il matrimonio ha un suo significato ed una sua configurazione del tutto indipendente dalla questione relativa al riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale. Ciò è, del resto, comprovato dalla stessa storia del matrimonio, che è nato e si è sviluppato al di là di ogni problematica concernente le questioni qui trattate. Nello stesso modo, ogni tentativo, per giustificare costituzionalmente l’unione omosessuale, di far leva sul matrimonio del transessuale così come sulla possibilità che permangano taluni “vincoli” matrimoniali pur dopo il cambiamento del sesso di uno dei coniugi, non può andare a buon fine, se non accettando contraddizioni evidentissime e analogie del tutto improprie. Al fondo di ogni problematica qui semplicemente accennata, vi è tuttavia un quid di effettivo e che non può essere semplicemente affermato senza pretendere un correlativo impegno culturale e sociale. Quel che è in crisi nel mondo occidentale non è il concetto di matrimonio in senso tradizionale, ma il senso “tradizionale” della famiglia legittima e, in definitiva, il suo fine prioritario proteso alla formazione e cura degli uomini e delle donne del futuro. Oggi la famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio, non è valorizzata adeguatamente e per l’effetto, essendone sbiaditi i contorni, risulta agevole ridurne il significato a semplice “patto d’amore tra esseri umani” o, più sarcasticamente, ad un mesto accordo di transitoria convivenza legalizzata. Se non che far leva sulle deficienze transeunti di tale istituto giuridico, per giustificare la sua assimilazione a casi del tutto diversi così da snaturarlo, non è accettabile, proprio per il valore costituzionale che il matrimonio ha e non può non avere in qualunque società umana. Rimane, infatti, intatto, anche nel caso di un riconoscimento della “famiglia di fatto” omosessuale, il quesito sul se ed in che termini lo Stato debba preferire il matrimonio tra un uomo ed una donna rispetto ad altre ed eventuali diverse convivenze riconosciute o riconoscibili. In siffatta materia la “discriminazione” è in re ipsa, poiché – non si deve temere di affermarlo – la famiglia tradizionale possiede valori propri, imperituri ed insostituibili. Si spiega allora come nella dialettica politica in atto, il thema proteso al riconoscimento dell’unione omosessuale non può seriamente mai porsi se nel contempo non viene preliminarmente affrontata la tutela e la fortificazione della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, posto che in caso contrario si ridurrà a questione puramente “privata” il matrimonio e con ciò si smarrirà il senso “pubblico” che esso possiede per la collettività. Nelle diverse epoche della storia umana, si è sempre valorizzato l’alto senso dello sposalizio tra l’uomo e la donna viste le implicazioni sociali, giuridiche ed economiche che esso comporta, ed in questo senso – paradossalmente – si spiegano le difficoltà che si sono sempre avute, ancor oggi, di renderlo davvero libero, vuoi limitando il diritto al matrimonio per classi, vuoi condizionandolo alla conforme volontà di terzi ovvero impedendolo per ragioni culturali o sociali o religiose o di cittadinanza. Ora, invece, da molti non se ne comprende più l’effettiva peculiarità, assumendo che si tratti di un istituto “vecchio” e non più adeguato alla realtà (non solo giuridica) in atto. Non si crede che tale conclusione sia accettabile, poiché tale supposta inadeguatezza è strettamente correlata all’assenza di una effettiva considerazione della positività di tale fenomeno giuridico di per sé impregnato di alti valori morali e di per sé il disvalore in atto della famiglia, assecondato dallo Stato, nasconde, seppur allo stato latente, pericoli serissimi per il senso ed il rispetto del valore della persona umana. Se non che il diritto positivo è pur sempre frutto di scelte del momento, fatte da uomini del momento. Sicché non si può pretendere che il tutto cambi senza che vi sia una nuova volontà ed un nuovo, corale e rinnovato impegno verso l’istituto familiare. Ma se, come ed in che termini ciò potrà essere sono questioni che qui non possono essere affrontate neppure indirettamente esulando dai compiti posti nel presente lavoro. Del resto, nulla si potrà davvero dire in merito finché non si avrà un adeguato uditorio, dovendo peraltro il tutto ancora partire da veri pensieri politici e fermentare adeguatamente nelle coscienze dei singoli. Se non che un’ultima osservazione si ritiene, in tutta coscienza, debba essere fatta. Guardando alle modalità con le quale sovente le discussioni sono svolte sui temi di cui si tratta, appare evidente la contrapposizione delle posizioni e, in definitiva, un certo astio e, dunque, l’impossibilità di svolgere un discorso insieme. Da una parte, i difensori della famiglia tradizionale, che, legittimamente preoccupati per le ingerenze indebite dello Stato nella cura e crescita dei loro figli e non avendo all’apparenza alcuna istituzione oggi capace di ascoltare la loro voce, sono portati a strillare, per fortuna spesso indirettamente, contro i loro fratelli omosessuali e contro i transessuali. Dall’altra parte, i diversi movimenti protesi a valorizzare l’unione same-sex, pur di veder riconosciuta la dignità dell’omosessuale e del transessuale, sono pronti a distruggere l’istituzione dalla quale, volenti o nolenti, se non tutti certamente moltissimi di loro hanno avuto origine e grazie alla quale hanno avuto il dono della vita ed alla quale in ogni caso si ispirano per conformare le loro unioni. In questa guerra, che vede come pericoloso spettatore guardingo lo Stato, non vi saranno vincitori, ma tutti saranno vinti se non vi sarà conversione. Per chi ama davvero la famiglia tradizionale, non può non esservi amore per l’omosessuale. Nello stesso modo, l’omosessuale non può non amare la famiglia e coloro che vogliono sostenerla, perché, al di là di tutte le brutture ed atrocità commesse, è in essa che vi è la ragione del loro stesso essere e della loro stessa dignità. Il fatto che non tutti possano costituire una famiglia in senso proprio non deve essere, peraltro, visto come una ingiusta discriminazione, ma come elemento che deve valorizzare e soprattutto incentivare la responsabilità, la fortezza e la consistenza morale dell’uomo e della donna, che decidono di sposarsi. Sinceramente si crede che il tutto indichi sempre di più, anche sotto il profilo laico, che il matrimonio ha una componente vocazionale ineliminabile. Ma se così è, è oltremodo evidente che i figli naturali di coppie tradizionali non sono esclusivamente dei loro genitori, avendo, oltre che una soggettività propria, una propria esistenza ed una propria esperienza da vivere nel mondo. E, qui, non hanno reale valore le istituzioni, quanto le persone. Ed in questo senso, qualunque genitore non può che umilmente e sommessamente chiedere sempre aiuto agli altri, per la crescita e la cura dei “suoi” figli. In questo contesto, la sincera quanto non egoistica collaborazione dell’altro partecipa in maniera essenziale alla formazione di qualunque uomo. Ogni buon padre e ogni buona madre, insomma, sa che il figlio deve imparare anche dagli altri e con gli altri. Ed allora non si può che chiedere, specie nel contesto attuale, a tutti e dunque anche agli omosessuali ed ai transessuali di aiutare a crescere bene tutti i figli d’oggi e tutti i figli, che verranno, secondo i canoni tipici delle virtù e della valorizzazione della persona, così che essi non siano considerati come pura proprietà dei genitori o come dei perfetti estranei per gli altri o semplici monadi, ma “nostri” fratelli e “nostri” figli nell’umanità.