Aleksandra Jovicevic Recitazione e non-recitazione (traduzione in corso, versione non completa) Il teorico e storico del teatro americano; Michael Kirby, nell’introduzione della rivista The Drama Review, in 1965, introdusse il concetto di “teatro nuovo”, che corrisponde alla pittura non figurativa e astratta, e include i concetti come l’happening e il teatro del caso. Più avanti, Kirby stabilì la differenza tra la “recitazione” e la “nonrecitazione”, e con quella anche la differenziazione del passaggio dalla “recitazione totale matrizzata” (full matrixed acting) fino alla “recitazione non-matrizzata” (nonmatrixed acting).1 Anche Richard Schechner e H.T. Lehmann citano la classificazione di Kirby come inevitabile nell’analisi dell’atto performativo, perché quella, oltre alle differenze tecniche tra la performance e la recitazione, evidenzia anche i substrati della recitazione classica. Nel suo continuum si trova la non-recitazione che si riferisce alla presenza del performer quando egli non fa niente per amplificare l’informazione nata con la sua presenza scenica (per esempio, la presenza di koan, l’operatore scenico nel kabuki giapponese responsabile del cambio della scenografia e dei costumi, vestito di nero e “invisibile” per il pubblico). Non inserito nella matrice del contesto della recita, qui il performer si trova nello stato di recitazione non-matrizzata. La performance non-matrizzata è altresì caratteristica dell’happening: nel suo libro Happenings, Kirby definì questo genere come “nuove ponderate forme teatrali” simili ai collage nell’arte visiva, dove diversi elementi illogici, inclusa la performance nonmatrizzata, vengono organizzati in una struttura scomposta. Per il fatto di essere creato con la “ponderazione”, l’happening si differenzia dal teatro del caso, perché anche se il caso può decidere sugli elementi dell’happening, quelli sono disposti secondo un’intenzione. La recitazione nell’happening è non-matrizzata, perché include determinati compiti semplici senza la matrice del tempo, lo spazio e il personaggio, che invece risultano importanti per la recitazione nel teatro tradizionale.2 Alla definizione di Kirby si riallaccia anche Allan Kaprow, artefice del termine 1 2 Cfr. Michael Kirby, A Formalist Theatre, University of Pennsylvania Press, 1987. Cfr. Michael Kirby, Happenings, New York: Dutton, 1965. happening, che lo usò per la prima volta per descrivere la sua performance 18 Happenings in 6 Parts, realizzata nella galleria newyorkese Ruben nel 1959, e che rappresentò il momento d’incontro tra la performance dal vivo e la pittura. Kaprow invertì il livellamento futuristico tra l’arte e la vita, introducendo il sintagma lifelike art (arte come vita). Essendo del parere che non è mai certo se l’artista che crea lifelike art sia veramente un artista, Kaprow insistette sulla “responsabilità” dello stesso osservatore. Sugli inviti era scritto: “Diventerete parte degli happening, nello stesso momento li sperimenterete”.3 Da quel momento l’happening si costituisce come un tipo di performance che non si ripete o almeno non con le stesse modalità, il che significa che si basa sull’improvvisazione, senza un contenuto definito in anticipo. Il fatto che il contenuto della performance, quelli che la realizzano e quelli che la osservano abbiano la stessa importanza, induce alla conclusione che durante l’happening quello che è importante è solamente il processo della performance e non il suo contenuto, mentre il performer rappresenta nello stesso tempo sia il soggetto che l’oggetto della performance, vale a dire che la persona che osserva un evento del genere diventa potenzialmente anche il suo performer. L’assenza di significato nel 18 Happenings influenzò tutte o quasi tutte le performance dell’epoca, soprattutto il gruppo artistico Fluxus, assai amorfo e eterogeneo.4 E anche se non fu mai formato un gruppo “happening”, né esisteva un manifesto, e nonostante gli happening fossero realizzati da artisti di profili e sensibilità diversi, il vocabolo happening è rimasto fino ad oggi, come una sorta di termine generico che include un largo spettro delle attività artistiche. La matrice simbolica Come esempio per il grado successivo, la “matrice simbolica” (symbolized matrix), Kirby cita l’attore che zoppica come Edipo. Un tale attore non recita di zoppicare, ma gli viene naturale fare questo movimento per via del bastone nei pantaloni. Quindi, 3 RoseLee Goldberg, op. cit., pp. 113-144. Questo a p. 113. Cfr. inoltre Allan Kaprow, Assemblages, Environments and Happenings, New York: H. N. Abrams, 1966; come anche Allan Kaprow e Jeff Kelley, Essays on Blurring Art and Life, University of California Press, 1993. 4 Il termine Fluxus fu coniato da George Macunias nel 1961 per l'antologia di opere di diversi artisti: Dick Higgins, Bob Watts, La Monte Young, Yoko Ono, Richard Maxfield, Al Hansen, ecc. Presto questo gruppo ottenne anche il proprio spazio espositivo a New York, Fluxhall e Fluxshop. egli non finge, bensì realizza semplicemente in scena un’azione. La matrice simbolica è la presenza dell’attore in scena, riconosciuta dallo spettatore come qualcosa che appartiene al personaggio, anche se il performer si comporta come sé stesso. In quella situazione, il performer usa e rappresenta la sua presenza fisica e mentale secondo leggi diverse da quelle della vita quotidiana. Le leggi sceniche esistono per governare il corpo del performer, o la sua tecnica performativa. È certo che la presenza del corpo umano in scena non è solo la sua pura natura, indipendente dalla cultura. Diverse culture cercano in modi diversi di formare, cambiare, regolare il corpo umano e i suoi bisogni e funzioni fisiche. Anche il più istintivo comportamento viene formato sotto l’influenza di una determinata cultura. La nutrizione, l’igiene, la salute sono i fattori culturalmente determinati che influenzano direttamente la formazione e lo sviluppo del corpo (per es. l’ideale del corpo desiderabile e perfetto di ogni cultura esercita una grande influenza sulla formazione del “corpo naturale”). Quindi, ogni corpo umano rappresenta il risultato di un rapporto complesso e reciproco tra l’organico e il sociale, in quanto interazione tra la natura individuale e il contesto culturale. Questo processo inizia nel momento della nascita, si impara con l’osmosi (Schechner) e dura fino alla morte. Di conseguenza, ogni singolo corpo partecipa non solo nell’ordine naturale, ma anche in quello simbolico della cultura. Il corpo umano è, come anche qualsiasi altro fenomeno culturale, storicamente e socialmente determinato. Quando lo storico della cultura, tedesco Norbert Elias scrive della “storia del corpo europeo” dal Medioevo fino ad oggi, come del tentativo degli uomini di controllare i propri istinti e la propria esperienza (per es. nell’abbassare la soglia di tolleranza della vergogna o del disgusto) come anche i comportamenti, egli indica che il processo di civilizzazione cambia non solo i costumi sociali, ma anche la fisiologia del corpo e la sua rappresentazione nella società. Elias ritiene che questo allargamento della civilizzazione andrebbe inteso come il prezzo all’interno delle condizioni complesse di ordine e di controllo che le culture europee dovevano pagare per i propri cambiamenti tecnologici, scientifici, sociali ed economici.5 Il corpo del performer, nel modo in cui è rappresentato in scena, è altrettanto condizionato dal contesto culturale nel processo attuale della civilizzazione. Il performer in scena o ripete o scompone i 5 Cfr. Elijas, Proces civilizacije, trad. dal tedesco in serbo Dušan Janjić, Novi Sad e Sremski Karlovci: Izdavačka knjižarska radionica Zorana Stojanovića, 2001. modelli di comportamento comuni per una determinata epoca o cultura. In tali casi i performer non solo rispecchiano, ma anche partecipano e contribuiscono al processo storico della civilizzazione, svolgendo un determinato ruolo sociale. Secondo Marcel Mauss, gli uomini usano sempre le tecniche ereditate in accordo con la propria tradizione. Quelle tecniche indicano chiaramente che il corpo e lo spirito sono segnati dalla cultura che li circonda.6 Il sociologo della cultura, il francese Pierre Bourdieu, riprende la tesi di Mauss, solo che non la pone nel contesto antropologico, ma sociologico. La cultura per Bourdieu rappresenta l’incarnazione della storia che diventa intima come seconda natura dell’uomo, e che quindi non viene nemmeno percepita come storia. Egli suggerisce il termine habitus per descrivere le tendenze psicofisiche determinate da un gran numero di fattori sociali e che nella rappresentazione del corpo arrivano alla piena espressione. Habitus rappresenta contemporaneamente la struttura strutturata, ma che anche strutturi e si risolva nella metamorfosi e nei propositi degli schemi pratici costruzionistici provenuti dalle strutture spirituali sociali in quanto risultato di una successione storica di generazioni.7 Dal momento in cui il performer si trova in scena, il suo corpo si trasforma in corpo scenico che allarga la sua presenza e la percezione dello spettatore. Evidentemente, esistono i performer che attraggono lo spettatore con la loro energia elementare che “seduce” il pubblico senza la mediazione di una riflessione. È quello che Eugenio Barba chiama “il livello pre-espressivo” comune a tutti i performer, sul quale in seguito è possibile applicare diversi modelli culturali, stili teatrali, generi, tipi di ruoli, come anche la tradizione personale e collettiva.8 Alcuni fattori biologici (peso 6 Cfr. Marsel Maus, “Telesne tehnike”, in Sociologija I, Antropologija I, II, Beograd: Biblioteka 20. vek, 1998, pp. 361-391. 7 Cfr. Pierre Bourdieu, Les sens pratique, Paris: Minuit, 1980 i Les regles de l'art, Paris: Seuil, 1974 8 La presenza del performer in scena è l'argomento di cui si occupa l'antropologia teatrale, che studia e interpreta i principi comuni e transculturali sui quali si basano tutte le tecniche delle forme sceniche, come dei piani che precedono il processo di espressione scenica, non solo nel teatro contemporaneo, dove l'accento viene nuovamente posto sul corpo umano, ma anche sugli spettacoli tradizionali teatrali e rituali, come anche sulle manifestazioni parateatrali nella vita quotidiana. (Cfr. Eugenio Barba e Nicola Savarese, »Energija« e »Predizražajnost«, in Tajna umetnost glumca: Rečnik pozorišne antropologije, op. cit., p. 74-95 e pp.186-203.) corporeo, equilibrio del corpo, postura della spina dorsale, movimenti, mimica) permettono di ottenere la tensione pre-espressiva, organica. Il neurologo americano Paul Ekman sostiene che gli uomini esprimono sei emozioni fondamentali: la sorpresa, il disgusto, la tristezza, la rabbia, la paura e la felicità. Secondo lui, queste sono le espressioni facciali delle “emozioni predeterminate” comunemente accettate.9 Lo stato preespressivo ha luogo prima che lo spettatore abbia decifrato le singole azioni o capito il loro significato in scena. Questo potere del performer è spesso chiamato “presenza scenica”, ma come afferma Eugenio Barba, non è qualcosa di scontato, ma è un cambiamento continuo, l’evoluzione che si svolge davanti ai nostri occhi. Tentando di definire la corporeità in scena, Barba mette in evidenza un aspetto meno conosciuto ai performer, ma di grande importanza per risvegliare e ricostruire la presenza extra-quotidiana nella situazione scenica. Lo scorrere dell’energia, caratteristico per il comportamento quotidiano, in scena diventa quello che Richard Schechner definisce come twice restored behavior, o “il comportamento ristrutturato due volte”. Tale comportamento non è arbitrario né semplice, ma conosciuto e/o allenato; si svolge più di due volte, è conosciuto da prima, e oltre ad essere assimilato con osmosi ancora nella prima infanzia, viene scoperto dai performer nel corso dello spettacolo. Quindi una performance artistica rappresenta sempre una doppia performance, perché in essa sono inevitabili sia le riflessioni che la riflessività. La vicinanza tra teatro e vita fa sì che il primo rappresenti il miglior commento o il “metacommento” alla seconda.10 La recitazione percepita “Il corpo dilattato” in scena evoca la sua immagine opposta e complementare – “il pensiero dilattato”. Se il contesto dei segni che arrivano da fuori aumenta , senza che essi siano prodotti dall’attore stesso, si può parlare di “recitazione percepita” 9 Cfr. Ričard Šekner, »Raspon scenskog izvođenja,« op. cit., 1992, pp. 220-226. 10 Cfr »Restoration of Behavior« i »Performers and Spectators Transported and Transformed,« in Richard Schechner, Between Theatre and Anthropology, op. cit., pp. 35-151. Inoltre Ričard Šekner, »Obnovljeno ponašanje« in Tajna umetnost glumca, op.cit., pp. 205-211.. (received acting). La recitazione percepita può essere l’azione delle comparse, del coro musicale o dei ballerini, dei dilettanti/attori non professionisti o delle comparse sul palcoscenico o nel corso di qualche performance: questi performer possono lo stesso essere in costume, e anche pronunciare parti del testo che il pubblico accetta come parte dello spettacolo teatrale o di qualche altro tipo, ma qui ancora non si tratta di mimesi o di recitazione dei ruoli. In uno dei suoi spettacoli, fatto nello spirito delle telenovele e dell’iperrealismo, Pablo nel supermercato Plus (Pablo in der Plusfilial; 2005), lo scrittore e regista tedesco contemporaneo René Pollesch indaga sul rapporto tra tecnologia mediatica e la performance dal vivo. Egli dichiarò che il suo desiderio era quello di demistificare il teatro rappresentativo in cui l’atteggiamento critico veniva curato solo apparentemente, ritenendo che quei comportamenti sociali che andrebbero criticati bisognerebbe costantemente ripeterli. “Cercare una forma per il teatro estremamente diretto rappresenta un tentativo di parlare dei rapporti nella vita di quelli che vanno al teatro. É una forma rischiosa: qualche volta molto eccitante, e altre volte no. Il pubblico, perciò, o aveva fortuna, o non ce l’aveva. Gli attori non s’appoggiano sulla partitura che garantisce il corso della serata e che permette la sua riproduzione. Gli attori sono indirizzati verso sé stessi, entrano nella serata in pieno rischio, perché tutta la faccenda può o andare a rotoli o riuscire perfettamente” (corsivo mio – op.aut.).11 Se a questo si aggiunge una chiara partecipazione emotiva, un desiderio di confessione, si raggiunge il piano di “recitazione semplice” (simple acting), nel momento in cui gli attori iniziano a “capire” il problema e lo trasmettono al pubblico. Nel teatro postdrammatico, come anche nella Performance Art, più che la rappresentazione del personaggio, è la presenza provocativa del performer in primo piano a creare il liveness. Negli spettacoli di Pollesch, gli attori nel confronto con il pubblico cercano di dare vita alle idee/ testi di Pollesch, per farci entrare gli spettatori. Pollesch afferma che gli autori dei testi teorici che usa nei suoi spettacoli restano spesso incantati dal modo in cui essi vengono rappresentati e perché nelle sue messe in scena “vedono i corpi umani e i soggetti che si immedesimano completamente nel 11 Rene Pollesch in Maike Gunslius, »Intervju s Reneom Polešom«, Katalog 39. Bitefa, op.cit., senza impaginazione. loro contenuto”, facendo vedere i problemi direttamente e fisicamente.12 Gli attori nel teatro di Pollesch giocano con quello che si chiama il carattere, il personaggio o dramatis personae. Essi, ogni tanto, “indossano” il personaggio, per poi “toglierlo”. Per di più, da Pollesch non esiste la divisione dei ruoli femminili e maschili, ovvero, è una questione di “accordo”, dato che nei suoi spettacoli tutti possono essere tutto. Questo tipo di performance ancora non rappresenta la finzione, ma con essa inizia la recitazione semplice, perché sottintende simulazioni ed imitazioni, per le quali c’è bisogno di un certo lavoro emotivo e di preparazione. Solo quando a questo si aggiungono gli elementi di finzione, possiamo parlare di “recitazione complessa” (complex acting), nel modo in cui la recitazione solitamente viene percepita in teatro, ma anche la recitazione totale degli sciamani che cadono in trance. La recitazione complessa richiede tutto l’essere del performer, non solo la partecipazione fisica, ma anche mentale ed emotiva, e richiede un alto livello di dedizione. La recitazione diventa molto complessa in proporzione al numero di elementi che vengono usati nella costruzione del personaggio. La differenza tra la recitazione semplice e quella complessa sta nel grado di impegno del performer, e non invece nel genere della performance. Nella recitazione totale, “l’altro” (personaggio, carattere) è forte a tal punto da invadere/possedere il performer, come nel caso di alcune performance sciamaniche. La recitazione complessa In concomitanza con la succitata categorizzazione, è possibile fare un’altra sistematizzazione, parzialmente già annunciata da Michael Kirby, che potrebbe risultare utile per la comprensione dell’arte della recitazione in base alla sua 12 Pollesch è partito dal libro Learning From di Jochen Becker, nel quale egli spiega da dove deriva l’interesse delle metropoli finanziarie e industriali occidentali per l’organizzazione della vita e del lavoro delle città nell’emisfero australe, per es. Lagos o San Paolo, che rappresentano un potenziale mercato. Per questo spettacolo ebbero importanza anche gli articoli “Atraktivnost neformalnog” di Elmar Altvater e “Deformalizzazione dello spazio urbano” di Birgit Mahnkopf. In essi si parla del commercio autoorganizzato che coesiste con quello normale e regolamentato, e che si sviluppa nelle favelas di queste città, come il bisogno indispensabile dei suoi abitanti. (Cfr. Katalog 39. Bitefa, op.cit)l corrispondenza con la vita quotidiana, ai tipi di azioni che si rappresentano, allo stato di coscienza del performer e al significato della performance. Richard Schechner ritiene che la recitazione complessa potrebbe essere suddivisa in realistica, antiillusionistica, codificata e in trance, il che a volte può sembrare arbitrario, visto che alcuni performer nelle loro performance usano più di un tipo di recitazione. Nella recitazione realistica, il comportamento in scena si basa sulla vita quotidiana. Nel corso della recitazione realistica “l’attore si identifica con il personaggio”, mentre gli spettatori percepiscono il personaggio come se fosse una persona vera. Quando questo tipo di recitazione iniziò a diffondersi nel teatro europeo verso la fine dell’Ottocento, fu considerato d’avanguardia, ma presto divenne dominante . Esso è anche lo stile dominate della recitazione occidentale in tutti gli altri tipi di performance artistica e della cultura popolare, dalle soap opere al cinema. Anche nei film di fantascienza o in quelli futuristici, la recitazione è ancora realistica, ovvero implica che le emozioni dei personaggi siano identiche alle emozioni delle persone reali, anche se l’azione del film si svolge in galassie lontane. Dagli spettatori non è richiesto un livello elevato di istruzione e conoscenza per poterla seguire, perché le situazioni, le emozioni, e la lingua assomigliano ai loro discorsi quotidiani. La recitazione realistica ha anche influenza sulla scrittura dei testi drammatici e sulla regia caratteristica per il cosiddetto teatro di mainstream. Come abbiamo già suggerito in precedenza, questo tipo di recitazione cambiava man mano che cambiava la vita sociale. Quello che era naturale all’inizio del secolo scorso, non doveva esserlo all’inizio di questo secolo. Basta guardare i film che nelle epoche precedenti furono girati come realistici. D’altro canto, anche la recitazione più realistica è sempre stilizzata e presenta un certo grado di astrazione. La recitazione contemporanea occidentale trova le sue fondamenta nel lavoro del teorico e regista russo K.S. Stanislavskij e nel suo Sistema, ovvero nei suoi concetti di magico io e la memoria emotiva, il sistema di esercizi che permettono all’attore di identificarsi completamente con il personaggio che interpreta. Per Stanislavskij, il personaggio rappresenta la vita organica del corpo e dei pensieri in “determinate condizioni” del ruolo (scritto). Come risultato abbiamo il ruolo “recitato”, nel quale si può riconoscere una situazione e un’emozione che l’attore rappresenta al pubblico come un emozione giusta, “attraverso la linea principale dell’azione”. Il personaggio dovrebbe esistere nel passato e nel futuro del ruolo, perfino quando è temporaneamente assente dal ruolo. Il personaggio dovrebbe esistere anche nell’atto non previsto dal ruolo, quando secondo il suo ruolo non è presente nello spazio scenico. I consigli di Stanislavskij in questo ambito sono chiari e precisi, e possono essere applicati alla performance culturale.13 Costruendo la nuova estetica del teatro, uno dei seguaci di Stanislavskij, Jerzy Grotowski, cercò di sostituire gli “elementi sacrali persi” nel teatro moderno con delle immagini ed azioni archetipali che dovrebbero costringere gli spettatori alla partecipazione emotiva. Grotowski descrisse questo processo come “dialettica dello spregio/irrisione e dell’apoteosi”, “religione espressa attraverso il sacrilegio, l’amore che parla attraverso l’odio”, diretto contro “i tabù, le convenzioni e i valori accettati”, che nel corso dello spettacolo crea “uno specchio molteplice” che innalzandosi sempre di più distrugge questi valori e tabù.14 Nel cosiddetto “teatro povero” di Grotowski, ben distante dal teatro drammatico, il testo rappresenta solo uno di molti elementi, ed è fonte degli archetipi, ma in sostanza non è altro che materiale grezzo da tagliare e modellare liberamente. Le svolte nello spettacolo non sono più collegate al testo, ma si ottengono con mezzi puramente teatrali.15 Tale approccio al testo richiedeva anche un nuovo approccio all’attore, chiamato da Grotowski l’attore archetipale, che non è né semplice, né artificiale, ma usa la sua destrezza per raffigurare le immagini traendole dall’inconscio collettivo. Secondo Grotowski, l’attore archetipale deve passare attraverso la formazione disciplinata corporea e vocale nello stile antinaturalistico, nel corso della quale conquista l’abilità di controllo preciso del ritmo e del movimento, mentre il suo corpo acquisisce 13 Cfr. K. S. Stanislavski, Rad glumca na sebi, trad. Ognjenka Milićević, Zagreb: Cekade, 1989, come anche Franko Rufini, »'Sistem' Stanislavskog,« in Euđenio Barba e Nikola Savereze, op. cit., pp. 150-153. 14 Ježi Grotovski, Ka siromašnom pozorištu, trad. Nazifa Savčić, Beograd: Izdavačkoinformativni centar studenata, 1976. 15 Eugenio Barba, »Theatre Laboratory 13 Ryedow,« Tulane Drama Review, 9, 3, Primavera 1965, p. 154. l’espressività che supera i limiti naturali e si avvicina agli attori preveggenti di Artaud16 o gli attori supermarionetta di Craig.17Grotowski rifiuta il palcoscenico convenzionale a favore di più piccoli e più intimi spazi teatrali, nei quali lo spettatore diventa cosciente della corporalità e della presenza degli attori e con ciò è costretto ad affrontare il mondo degli archetipi, nonostante la resistenza della logica, delle convenzioni sociali e delle abitudini. Nel suo Teatro Laboratorio, Grotowski cercava la definizione dell’essenza che distingue il teatro da altre categorie della performance e dello spettacolo. Con l’eliminazione graduale di tutto ciò che è “superficiale”, Grotowski arrivò alla conclusione che il teatro poteva esistere senza il trucco, i costumi, le scenografie, lo spazio apposito per la performance, senza gli effetti di luce e di suono, ecc, ma l’unica cosa senza la quale non poteva esistere era la comunione diretta, percettiva, “viva”, tra l’attore e il pubblico. Effetto di straniamento Diversamente da Stanislavskij e Grotowski, Brecht non voleva che l’attore si identificasse con il ruolo, ma che entrasse in rapporto dialettico con esso. Brecht lo chiamava Verfremdungseffekt oppure V-effekt: un termine difficilmente traducibile, che approssimativamente potrebbe significare “alienazione” o “estraniazione” e vorrebbe dire creare distanza tra l’attore e il personaggio, una specie di citazione o di rappresentazione, che si trova anche nelle indicazioni sceniche, nei commenti, nell’anitillusionismo in scena. Lo scopo di V-effekt è di rendere estraneo il gestus sociale che è lo sfondo di tutti gli avvenimenti. Con il gestus sociale si sottintende l’espressione mimica e gestuale dei rapporti sociali in cui si trova la gente di una determinata epoca. Per raggiungere questo effetto di estraniazione, l’attore non dovrebbe identificarsi con il personaggio che interpreta, ma dovrebbe rappresentarlo come una sorta di “citazione”, rendendolo estraneo: “Rinunciando alla totale trasformazione, l’attore non realizza il proprio testo come improvvisazione ma come il citato…trovare la cit. nel testo orig. (Bertolt Brecht, Scritti teatrali)…. …..Egli 16 Cfr. Antonen Arto, Pozorište i njegov dvojnik, trad. Mirjana Miočinović, Beograd: Prosveta, 1971. 17 Cfr. Edward Gordon Craig, O umjetnosti kazališta, trad. Nikola Đuretić, Zagreb: Prolog, 1980., come anche Aleksandra Jovićević, »Od nadmarionete do neuromansera: Upotreba i razvoj tehnologije u teatru prve polovine 20. veka«, TkH, n. 7, 2004, pp. 14-25. costringe lo spettatore, in base alla sua appartenenza sociale, giustificare o rifiutare queste condizioni.”18 Nonostante il fatto che il gestus non rappresenti il concetto più importante nella teoria di Brecht, Patrice Pavis ritiene che esso sia certamente uno dei suoi concetti più raffinati e produttivi; Brecht l’aveva inserito per spiegare come l’attore, il regista e il pubblico capiscono l’importanza della gestica per il collettivo.19 La gestica evoca in maniera ancora più forte del gestus il sistema dei gesti fortemente codificato, come nel caso della retorica della passione nel Seicento e nel Settecento, oppure nelle tradizioni delle danze orientali. A prima vista, sembra che il gestus sia un mezzo estremamente tecnico che si inserisce semplicemente nel sistema di Brecht. Ma in sostanza, il gestus racchiude tutto lo spettacolo, mette in questione il gioco mimetico obbligando che il ruolo del corpo in scena venga precisato. Brecht trasforma il corpo dell’attore in un piano sul quale vengono proiettati dei segni, una costruzione artificiale che scompare appena lo spettatore la risolve. Dal corpo infinito, libero, nasce il gestus che rispecchia verosimilmente i rapporti sociali. Il corpo si muta in un sistema semantico visibile e leggibile, in una semiotica della struttura e la gestica sociale che, rifiutando il corpo istintivo, smaschera la regolamentazione sociale. Qui possiamo notare una certa contraddizione, perché i performer contemporanei, e soprattutto i danzatori nella danza concettuale, non rappresentano soltanto il pensiero di qualcun altro, oppure il proprio corpo da esibire o da raffigurare visivamente. Al contrario, il corpo in essi va mostrato come il messaggio proprio, torna la meccanica del corpo e viene potenziata la frammentazione del vocabolario della danza. Lo stesso Brecht, che da sempre giocava un “doppio ruolo”, sosteneva in modo implicito questi performer, consigliandoli di non diventare l’incarnazione delle idee dell’autore e del regista. Il gestus non rappresenta un concetto rigido e limitante; in un certo modo, esso apre una discussione polifonica con delle teorie contemporanee del corpo, che maggiormente favoriscono la riduzione del corpo alla sua dimensione sociale, a 18 Bertold Breht, »Kratak opis nove tehnike glumačke umjetnosti koja proizvodi efekat začudnosti,« in Dijalektika u teatru, Beograd: Nolit, 1966, p. 115. 19 Per un'interpretazione più approfondita di questo rapporto cfr. Patrice Pavis, »Brehtov gestus,« Scena, Novi Sad, 1-2, gennaio-aprile 1998, pp. 8-11. partire da Marcel Mauss (“Le tecniche corporee”) attraverso Pierre Bourdieu (Habitus), alla Judith Butler (Corpi che significano qualcosa). Nel contesto dell’antropologia teatrale, il corpo umano è contemporaneamente sia l’attore che il danzatore, ma prima di tutto il performer, di sesso indefinito, il che può significare che il corpo in fondo non possiede il sesso, ovvero che il sesso sia la proiezione sociale sul corpo (Deleuze e Guattari), oppure la costruzione sociale del genere (Judith Butler). In questo modo habitus di Bourdieu si riallaccia al gestus di Brecht, che si limita alla gestica di scena, e lo sistematizza grazie alla terminologia sociologica. A differenza dei performer orientali, l’attore occidentale è quasi sempre cosciente che il suo corpo rappresenti una proiezione sociale, perché incarna il personaggio la cui identità è socialmente determinata. Il performer occidentale imita gli scenari reali o immaginari della vita sociale, confrontandosi con la società che imita e a cui si adatta. Il performer orientale, contrariamente, si distingue dalla tecnica corporea che aveva acquisito negli anni di studio e di formazione. Secondo Brecht, il modo di muoversi del performer è il riflesso del suo modo di pensare. Alla base del teatro epico di Brecht sta l’intenzione di rendere insolito quello che è conosciuto, di sottolineare la mutevolezza del mondo, di mostrare gli eventi con una distanza temporale, e come lo stesso autore dice, di svelare che la gente rappresenta “la somma delle condizioni sociali”. Il teatro di Brecht era profondamente sociale e ciò lo avvicina alla performance culturale. Questa insistenza sulla possibilità di indagare, intervenire e cambiare sta anche alla base del “teatro degli oppressi” del regista brasiliano Augusto Boal, che, allacciandosi alle idee di Brecht e Gurvitch, rifiuta il dramma “aristotelico” come strumento dell’attuale ordine sociale, definendola come lo svago popolare che le classi dirigenti asservirono ai propri scopi. Secondo Boal, tali scopi sono propagandistici e violenti, mentre le divisioni sono coscienti e politicamente motivate. Nella poetica marxista di Brecht, Boal scoprì il fatto che l’essere sociale determina il pensiero sociale, e che l’azione drammatica ha origine nei rapporti sociali, contrariamente alle “poetiche idealistiche” di Aristotele e Hegel, nelle quali il pensiero sociale determina l’essere sociale, mentre lo spirito modella l’azione drammatica. Dato che Brecht rifiuta la catarsi aristotelica che porta alla riappacificazione e all’accettazione, egli incita il pubblico di comprendere tali condizioni come mutevoli. Creando sulle fondamenta del concetto di Brecht e sulla propria visione del compito del teatro, Boal cercò di cancellare le differenze tra il performer e il pubblico. Nel “teatro degli oppressi” lo spettatore non delega più il proprio potere al performer, ma riprende egli stesso il ruolo del protagonista, cambia l’azione drammatica, discute sui progetti per il cambiamento.20 Il teatro diventa il luogo della potenziale ribalta sociale. La recitazione codificata Il performer cinese Mei Lan- Fang, che per tutta la vita interpretò la parte delle donne guerriere nell’Opera di Pechino, rappresentava per Brecht il paradigma della recitazione straniata. Nella propria cultura invece, Mei Lan-Fang fu un performer della performance artistica altamente formalizzata, caratteristica per il Jingju, teatro musicale di lunga tradizione. Nonostante nella recitazione codificata i gesti e i movimenti sono portatori di significato, deducibili ed estraibili dal comportamento quotidiano, il sistema codificato nel suo insieme non è direttamente analogo al comportamento quotidiano. La recitazione codificata è un sistema semiotico delle referenze. Assomiglia piuttosto al linguaggio scritto o verbale. È necessario che lo spettatore conosca il vocabolario e la grammatica specifici del sistema codificato della performance per poter capire interamente quello che viene rappresentato. Nella recitazione codificata, gli attori avevano consciamente appreso un sistema distinto dal comportamento quotidiano, creando un nuovo sistema sintattico e semantico. Certo, anche qui è possibile un certo grado di improvvisazione, che si basa su determinati modelli, dati in anticipo. Per esempio, far svolazzare le bandiere nel teatro cinese può riflettere la situazione in cui il personaggio è intrappolato in una tempesta. Se l’attore lascia il palcoscenico in ginocchia, si capisce che sta attraversando il dolore o il terrore. Se si muove in modo circolare questo significa che si trova in un viaggio lontano, mentre se impugna la frusta questo significa che sta cavalcando. Quindi, se il pubblico non conosce pienamente il vocabolario e la grammatica di Jingju, non può veramente capire la performance nella Opera di Pechino. Alcune volte questi movimenti hanno un significato simbolico, altre volte no, e ciò assomiglia alla danza 20 Augusto Boal, The Theatre of Oppressed, New York: Theatre Communication Group, 1985, p. 122. moderna, dove i movimenti possono evocare emozioni negli spettatori, ma non vanno tradotti direttamente nelle parole e nelle situazioni. La recitazione codificata è molto diffusa nel mondo. Esistono centinaia, se non migliaia di sistemi performativi codificati. Dal balletto bianco e della danza contemporanea nella cultura occidentale fino al Kathakali, al No, al Kabuki, all’Opera di Pechino nella cultura orientale. Alcune di queste forme esistono da più di 2000 anni. Per esempio il Natya Sastra, il manuale sanscrito per la performance, la danza e la musica, pensate come arte unica, spiega dettagliatamente i movimenti delle mani, degli occhi, del corpo, i passi di danza, la musica e il costume che riflettono e trasmettono emozioni specifiche, situazioni drammatiche e tipi caratteriali. I preparativi per la performance di tipo codificato iniziano presto nell’infanzia, finché il corpo e la mente sono ancora flessibili, e richiedono anni di formazione molto rigorosa, perché ogni genere possiede il suo proprio vocabolario. Per esempio nel Kathakali i performer ricevono dei massaggi affinché il corpo prenda la forma Kathakali. Come anche nello sport, si arriva a modellare il corpo con determinati esercizi.21 Il “secondo” corpo del performer e la mente focalizzata non sono semplici da raggiungere, dato che ogni forma impone delle richieste rigorose; per esempio, nel No la maggior importanza sta nei movimenti dei piedi, mentre nel Kathakali l’accento viene messo sul movimento degli occhi, ecc. La performance codificata è possibile incontrarla anche in vari rituali sacri e laici del mondo (per es. incoronazione, inaugurazione), che possono assomigliare al teatro. Primo, perché quelli che realizzano dei rituali spesso non rappresentano qualcun altro, e non devono essere particolarmente abili. Le persone che partecipano ai rituali svolgono azioni concepite in anticipo, indossano vesti o paramenti particolari e, usando diversi mezzi, rappresentano il comportamento altamente codificato nei grandi rituali sociali. Per esempio, durante la liturgia, oppure un'altra cerimonia religiosa, i sacerdoti seguono le “sceneggiature” della performance scritte in modo dettagliato, che determinano i loro indumenti, la loro esatta posizione nel tempio, come anche quello che faranno o diranno. Per questo tipo di performance è necessario che ci sia 21 Cfr »Obuka u majstorskoj radionici« in Euđenio Barba e Nikola Savareze, Tajna umetnost glumca, op. cit., spp. 26-34. Cfr. inoltre, Tvrtko Kulenović, Pozoriše Azije, Zagreb: Prolog, 1983, p. 101-103. un pubblico/credenti che capiscano il significato simbolico della lingua, i movimenti e gli oggetti che vengono usati nel corso del rito religioso. In quel tipo di rituali non vengono dati i giudizi estetici, ma è importante la presenza della persona alla quale è affidato di condurre il rituale, anche nel caso in cui questa persona non possieda delle particolari qualità verbali, vocali e performative. Per esempio, sebbene vecchio e gravemente malato, il papa Giovanni Paolo II prima della sua morte, solo con la sua apparizione, suscitò forti emozioni nei credenti cattolici. Dal rituale al teatro Secondo Victor Turner, il rituale rappresenta uno dei più potenti generi attivi della performance culturale, un genere però, come afferma nel suo libro Dal rito al teatro, ben distinto dal teatro. Turner ritiene che non esistano società senza un certo metacommento (ossia, secondo Clifford Geertz “la storia che il gruppo racconta di se stesso”), che non è solamente la lettura della propria esperienza, ma anche la effettuazione interpretata di questa esperienza. Nelle società più semplici, preindustriali, esistono solitamente delle forme complesse di rituale – di iniziazione, di guarigione, riti di stagione, magia – che agiscono non solo come strumenti per risvegliare il sentimento della solidarietà sociale, ma servono anche per l’articolazione e la delucidazione delle difficoltà e dei conflitti del presente attraverso la contestualizzazione nell’attuale schema cosmologico.22 Anche se esistono numerose teorie sull’origine rituale del teatro, il rituale comunque, a differenza dal teatro, non fa la distinzione tra il pubblico e i performer. Esiste invece la comunità, rappresentata dai sacerdoti, i membri dei partiti, oppure altri esperti religiosi o laici, dove tutti, realmente o formalmente, condividono lo stesso credo e accettano la stessa struttura di azione, come anche la stessa sequenza delle azioni rituali, oppure liturgiche. La comunità serve ad affermare l’ordine cosmologico o quello teologico, che sia esplicito o implicito, attualizzandolo periodicamente per i propri scopi, o per trasmettere ai nuovi membri i suoi principi, spesso nella sequenza graduale di riti, cosiddette crisi esistenziali, come il passaggio dalla vita alla morte attraverso la maturità, il matrimonio, il percorso educativo, ecc. 22 Victor Turner, »Gluma u svakodnevnom životu i svakodnevni život u glumi,« in op. cit., p. 220. Qualche volta nei rituali i performer cadono in trance, durante il quale attraversano tutta una serie di cambiamenti psicofisici, e il loro autocontrollo viene ridotto al minimo o scompare. I performer intraprendono il “viaggio magico”, impossessati dai “demoni” oppure da altri esseri umani, e se sono abili nel farlo, è possibile che nel corso della performance facciano cadere in trance anche gli spettatori. I performer in trance si trovano spesso al confine tra la realtà e la performance totale, e talvolta lo superano. I performer in trance non controllano sé stessi né la propria performance, e perciò hanno sempre degli aiutanti, persone che non cadono in trance, che sorvegliano che questi non si facciano male e li aiutano di uscire dalla trance. Qualche volta capita che, dopo la fine della seduta, i performer non si ricordino cosa avevano fatto, il che dipende dalla cultura, dal genere, dalla situazione. In genere, la trance è una forma di performance molto diffusa in varie culture e contesti (per es. in Turchia, Corea, Brasile, Haiti, ecc.). Questo tipo di performance si avvicina, sia per i partecipanti come anche per gli spettatori, all’esperienza del teatro totale, perché nel corso di essa si realizza una specie di comunione e di esperienza spirituale, dopo la quale i partecipanti vengono “purificati” e ritualmente rinnovati. In molte culture, nelle quali i rituali sono legati alla guarigione, esistono performer speciali – gli sciamani – che curano, scacciano i nemici, prevedono il futuro, riappacificano, facilitano il parto, ecc. Alcuni teorici ritengono che la performance degli sciamani sia simile alla performance teatrale, perché gli sciamani sono dei performer e dei narratori specializzati, che nel corso della propria performance raccontano, cantano, ballano, usano diversi attrezzi, costumi e maschere che gli permettono di trasformarsi, come anche di “intrattenere”, fino a certo punto, gli spettatori.23 In molti particolari, gli sciamani sono simili agli attori teatrali. In una performance lo sciamano può rappresentare più personaggi, spesso anche in conflitto tra di loro. Tradizionali e codificate, le narrazioni degli sciamani nella maggior parte dei casi sono indirizzate verso la lotta tra la vita e la morte, tra le forze del male e l’individuo oppure le comunità intere. Il luogo della lotta può essere anche il corpo del malato che solitamente resta passivo, talvolta incosciente. Un buon sciamano cercherà di introdurre sempre di più gli spettatori nella 23 Cfr. Richard Schechner, »Ritual« e »Performing« in Performance Studies, op. cit., pp. 45-77 e 143-188. sua performance, che nello stesso tempo rappresenta sia una sorta di connessione con delle forze superiori sia il teatro totale. La performance artistica Un’altra differenza tra il rituale sociale e la performance artistica in teatro, danza, opera, ecc, sta nel fatto che il performer nel corso del rituale non tende verso la trasformazione di sé stesso, ma di una situazione, o forse anche del pubblico. In altre parole, persino in alcune forme di performance artistica orientate verso la presenza, la trasformazione e l’effetto della catarsi restano virtuali, volontarie e rimandate. Viceversa, l’ideale dell’arte della performance, come anche del rituale, è costituito dal processo e dal momento che si chiama qui ed ora. Quindi, l’etica della catarsi è legata al rituale e torna di nuovo nello spazio della coscienza e nell’esperienza attraverso l’arte della performance, che richiede una partecipazione, come anche il risveglio delle reazioni affettive del pubblico, tal volta incontrollabili (per es. paura, disgusto, terrore), il che supera i limiti dell’isolamento dello spettatore (come per es. nelle performance artistiche degli azionisti viennesi Nitsch e Muehl). È evidente che l’artista nella performance non è eguale allo sciamano, ovvero “all’outsider socialmente accettato e adorato” che si presta a superare i limiti per gli altri. Al contrario, ogni artista della performance, nella società liminoide contemporanea, esegue il rituale solo per sé stesso. Per quanto riguarda gli osservatori o gli spettatori: la rottura creata tra la presenza del performer e il processo di rappresentazione nel teatro anti-illusionistico e in alcune forme di teatro postdrammatico, contiene il potenziale per le nuove modalità percettive, ma in esse la posizione dell’osservatore resta, in sostanza, immutata, perfino nei casi in cui il pubblico andrebbe provocato, scosso, socialmente mobilitato, politicizzato. L’unica situazione in cui lo status dell’osservatore/spettatore viene radicalmente cambiato è la Performance art. Tuttavia, come afferma H.T. Lehmann, con ciò fu fatto un grande passo verso la perdita dei criteri artistici, perché se il valore di una performance non è costituito più dall’opera che andrebbe “oggettivamente stimata”, ma dall’interrazione con il pubblico, allora la performance dipende unicamente dall’esperienza degli stessi partecipanti, e quindi dalle circostanze che, nel confronto con l’opera fissa e durevole, sono in buona parte soggettive e effimere. In questo modo diventa impossibile anche definire “che cosa è la performance”. La risposta la si può trovare unicamente nella “autocomprensione” dell’artista: la performance è quindi ciò che gli stessi artisti definiscono come tale, è può essere considerata riuscita in base al grado di comunicazione che riesce ad avere con il pubblico.24 Il pubblico, quindi, non decide più sul successo comunicativo solo come testimone disinteressato, ma come partner equo che partecipa alla performance. Ultimamente, qualsiasi performance artistica che sistematicamente si trovi tra un pretesto e la sua ricezione, si sposta verso questo secondo polo. Ciò altresì rappresenta uno dei modi in cui il teatro si avvicina all’arte della performance, che nello stesso tempo gli apre un vasto spazio degli stili di messa in scena. Quindi, la performance artistica, secondo la sua definizione più larga, può essere individuale o di gruppo, con o senza l’apparecchiatura scenica quale le luci, la musica o gli oggetti visivi fatti dallo stesso artista o dal gruppo di artisti. Inoltre, può essere realizzata in vari luoghi – da una galleria d’arte, teatro, museo, fino a qualsiasi altro spazio o ambiente alternativo. Forse la più grande differenza tra la rappresentazione teatrale e la performance artistica sta nel fatto che il performer della seconda è allo stesso tempo l’artista che raramente, se non addirittura mai, rappresenta un personaggio come fa l’attore, e che il contenuto raramente segue una trama tradizionale o una storia. La performance può contenere alcuni gesti o rappresentare il teatro visuale di grandi dimensioni, può durare qualche minuto o molte ore, può essere realizzata solo una volta o ripetuta varie volte, con o senza preparativi, improvvisata o come risultato di un lungo training. La performance usa il testo scritto, l’apparecchiatura scenica, il suono, la musica, la luce, l’architettura e la pittura, il video, il cinema, le diapositive e le riprese digitali, in tutte le varie combinazioni. L’arte della performance si avvicina al teatro per l’uso delle strutture visive e auditive, delle tecnologie mediatiche e delle performance di lunga durata.25 D’altro canto, il teatro sperimentale sotto l’impressione dei ritmi accelerati della percezione diventa “più corto”, evitando lo 24 Cfr. H.T. Lehmann, »Postavljanje kroz performans,« Postdramsko kazalište, op. cit., pp. 179-180. 25 Cfr. Edith Almhofer, Performance Art, Vienna, Colonia, Graz, 1986; The Art of Performance: A Critical Anthology, priredili Gregory Battckock e Robert Nickas, New York: Dutton, 1984; e Marvin Carlson, »The Art of the Performance,« in Performance: A Critical Introduction, op. cit. sviluppo psicologico dell’azione e dei caratteri, riducendo la durata della performance a meno di un’ora.26 Inoltre, nell’arte della performance, l’artista tende di più verso l’autotrasformazione, e meno verso la trasformazione di una realtà. L’artista nel corso della performance svolge delle azioni che contengono il suo proprio corpo. Il corpo viene usato contemporaneamente come oggetto, come piano dove vanno proiettati diversi segni della performance o come significante, però questa manipolazione non è fine a sé stessa; il suo obbiettivo principale consiste piuttosto nell’abolizione della distanza estetica che in teatro esiste tra l’artista e il pubblico. Sebbene non esista più la relazione con ciò che una volta rappresentava la dimensione dei miti e della magia, nelle numerose performance di, per esempio, autolesionismo (Marina Abramović, Gina Pane, Vito Acconci, Franco B e gli altri) si impone l’analogia con dei rituali arcaici, indifferentemente dal fatto che il performer rappresenti sé stesso come vittima, oppure il pubblico venga “accusato” per la sua partecipazione a quell’atto di “scarificazione” o entri da solo nel ruolo di vittima, oppure che la performance diventi una manipolazione con sé stessi fino al limite della sopportazione. In esse non si mette in questione l’idea personale e artistica della performance, che non solo è in grado di produrre degli attimi vivi ed irrepetibili, ma ha cambiato per sempre l’idea dell’arte. H. T. Lehmann afferma che nella performance andrebbe segnata la differenza del “esito”, ovvero delle possibilità rispetto alla relazione tra la vita reale e l’arte; in altre parole, se la distanza estetica e il principio dell’azione estetica sopravvivono o no? In teatro, i performer tendono di trasformare la realtà con i propri corpi e i gesti realtà. Nonostante anche all’attore possa talvolta capitare di vivere l’autotrasformazione, egli vorrà lo stesso sempre ripetere dei momenti “già realizzati”, sia che reciti nel teatro naturalistico di Stanislavskij e Grotowski, o nel teatro anti-illusionistico o epico di Brecht, oppure in alcune forme di teatro postdrammatico vicine alla performance. 26 RoseLee Goldberg sottolinea un tale sviluppo in artisti come John Jesurun, Jan Fabre, Elizabeth LeCompte, Robert Wilson, dove si arriva ad un’unità nuova tra l’opera, la danza, la Performance Art, il teatro ecc. In quel gruppo si possono collocare anche la compagnia italiana Falso Movimento, la compagnia catalana La Fura dels Baus,e gli inglesi DV8. Quest’ultima, per esempio, per ogni sua opera impiega scenografi e compositori che aiutano nella ricerca del rapporto tra il corpo del performer, l’architettura, la musica, mettendo in questione l’estetica tradizionale e le forme che pregnano il balletto moderno e quello classico. Schechner rappresenta la teoria della performance come “binarietà” di cui un polo rappresenta “il rituale di trasformazione” (ovvero, la tendenza che i partecipanti vengono trasformati, cambiati), e l’altro “il teatro d’intrattenimento”, il che secondo la nomenclatura di Turner significherebbe il contrasto tra le modalità di rappresentazione liminali e quelle liminoidi. In realtà, queste sono intrecciate, anche se in Grotowski predomina la prima, mentre nelle forme popolari la seconda. Secondo Schechner, il teatro appare sempre come il luogo dove il rituale e il divertimento si intrecciano. Gli autori simili a lui, come anche a Brecht, Pollesch e Christof Schilingensief, non dimenticarono mai che il divertimento, in quanto forma liminoide, sia una parte importante della performance, e quindi anche del teatro; perciò essa rappresenta un certo aspetto di libertà, dato che è profondamente impregnata di gioco, e il gioco porta il potenziale della democratizzazione. Inoltre, essa permette allo spettatore di comprendere tutto quello che vede come modalità congiuntiva come se…(fosse). Qualsiasi rappresentazione, dal rituale, attraverso il teatro e la Performance Art, fino alle forme popolari del divertimento, si rivolge alle pulsioni umane basilari: imparare e divertirsi; rappresentare certi significati e modellare il tempo; raffigurare il comportamento simbolico che rende attuale lì ed allora come qui ed ora; cadere in trance o essere coscienti; dedicare l’azione al gruppo degli eletti che comprendono il linguaggio della performance oppure rappresentare per un pubblico vastissimo, come negli spettacoli ambientali. L’unica differenza che esiste è la differenza nell’intensità dello spettacolo, come anche nella trasformazione dell’Essere e della coscienza non solo del performer, ma anche dello spettatore, nel corso dello spettacolo.27 27 Cfr. Ritual, Play and Performance, a cura di Richard Schechner and Mady Schuzman, New York: Seabury Press, 1976.