Aleksandra Jovicevic
Recitazione e non-recitazione
(traduzione in corso, versione non completa)
Il teorico e storico del teatro americano; Michael Kirby, nell’introduzione della rivista
The Drama Review, in 1965, introdusse il concetto di “teatro nuovo”, che corrisponde
alla pittura non figurativa e astratta, e include i concetti come l’happening e il teatro
del caso. Più avanti, Kirby stabilì la differenza tra la “recitazione” e la “nonrecitazione”, e con quella anche la differenziazione del passaggio dalla “recitazione
totale matrizzata” (full matrixed acting) fino alla “recitazione non-matrizzata” (nonmatrixed acting).1 Anche Richard Schechner e H.T. Lehmann citano la classificazione
di Kirby come inevitabile nell’analisi dell’atto performativo, perché quella, oltre alle
differenze tecniche tra la performance e la recitazione, evidenzia anche i substrati
della recitazione classica.
Nel suo continuum si trova la non-recitazione che si riferisce alla presenza del
performer quando egli non fa niente per amplificare l’informazione nata con la sua
presenza scenica (per esempio, la presenza di koan, l’operatore scenico nel kabuki
giapponese responsabile del cambio della scenografia e dei costumi, vestito di nero e
“invisibile” per il pubblico). Non inserito nella matrice del contesto della recita, qui il
performer si trova nello stato di recitazione non-matrizzata.
La performance non-matrizzata è altresì caratteristica dell’happening: nel suo libro
Happenings, Kirby definì questo genere come “nuove ponderate forme teatrali” simili
ai collage nell’arte visiva, dove diversi elementi illogici, inclusa la performance nonmatrizzata, vengono organizzati in una struttura scomposta. Per il fatto di essere
creato con la “ponderazione”, l’happening si differenzia dal teatro del caso, perché
anche se il caso può decidere sugli elementi dell’happening, quelli sono disposti
secondo un’intenzione. La recitazione nell’happening è non-matrizzata, perché
include determinati compiti semplici senza la matrice del tempo, lo spazio e il
personaggio, che invece risultano importanti per la recitazione nel teatro tradizionale.2
Alla definizione di Kirby si riallaccia anche Allan Kaprow, artefice del termine
1
2
Cfr. Michael Kirby, A Formalist Theatre, University of Pennsylvania Press, 1987.
Cfr. Michael Kirby, Happenings, New York: Dutton, 1965.
happening, che lo usò per la prima volta per descrivere la sua performance 18
Happenings in 6 Parts, realizzata nella galleria newyorkese Ruben nel 1959, e che
rappresentò il momento d’incontro tra la performance dal vivo e la pittura. Kaprow
invertì il livellamento futuristico tra l’arte e la vita, introducendo il sintagma lifelike
art (arte come vita). Essendo del parere che non è mai certo se l’artista che crea
lifelike art sia veramente un artista, Kaprow insistette sulla “responsabilità” dello
stesso osservatore. Sugli inviti era scritto: “Diventerete parte degli happening, nello
stesso momento li sperimenterete”.3 Da quel momento l’happening si costituisce
come un tipo di performance che non si ripete o almeno non con le stesse modalità, il
che significa che si basa sull’improvvisazione, senza un contenuto definito in anticipo.
Il fatto che il contenuto della performance, quelli che la realizzano e quelli che la
osservano abbiano la stessa importanza, induce alla conclusione che durante
l’happening quello che è importante è solamente il processo della performance e non
il suo contenuto, mentre il performer rappresenta nello stesso tempo sia il soggetto
che l’oggetto della performance, vale a dire che la persona che osserva un evento del
genere diventa potenzialmente anche il suo performer. L’assenza di significato nel 18
Happenings influenzò tutte o quasi tutte le performance dell’epoca, soprattutto il
gruppo artistico Fluxus, assai amorfo e eterogeneo.4 E anche se non fu mai formato un
gruppo “happening”, né esisteva un manifesto, e nonostante gli happening fossero
realizzati da artisti di profili e sensibilità diversi, il vocabolo happening è rimasto fino
ad oggi, come una sorta di termine generico che include un largo spettro delle attività
artistiche.
La matrice simbolica
Come esempio per il grado successivo, la “matrice simbolica” (symbolized matrix),
Kirby cita l’attore che zoppica come Edipo. Un tale attore non recita di zoppicare, ma
gli viene naturale fare questo movimento per via del bastone nei pantaloni. Quindi,
3
RoseLee Goldberg, op. cit., pp. 113-144. Questo a p. 113. Cfr. inoltre Allan
Kaprow, Assemblages, Environments and Happenings, New York: H. N. Abrams,
1966; come anche Allan Kaprow e Jeff Kelley, Essays on Blurring Art and Life,
University of California Press, 1993.
4
Il termine Fluxus fu coniato da George Macunias nel 1961 per l'antologia di opere di
diversi artisti: Dick Higgins, Bob Watts, La Monte Young, Yoko Ono, Richard
Maxfield, Al Hansen, ecc. Presto questo gruppo ottenne anche il proprio spazio
espositivo a New York, Fluxhall e Fluxshop.
egli non finge, bensì realizza semplicemente in scena un’azione. La matrice simbolica
è la presenza dell’attore in scena, riconosciuta dallo spettatore come qualcosa che
appartiene al personaggio, anche se il performer si comporta come sé stesso. In quella
situazione, il performer usa e rappresenta la sua presenza fisica e mentale secondo
leggi diverse da quelle della vita quotidiana. Le leggi sceniche esistono per governare
il corpo del performer, o la sua tecnica performativa. È certo che la presenza del corpo
umano in scena non è solo la sua pura natura, indipendente dalla cultura. Diverse
culture cercano in modi diversi di formare, cambiare, regolare il corpo umano e i suoi
bisogni e funzioni fisiche. Anche il più istintivo comportamento viene formato sotto
l’influenza di una determinata cultura. La nutrizione, l’igiene, la salute sono i fattori
culturalmente determinati che influenzano direttamente la formazione e lo sviluppo
del corpo (per es. l’ideale del corpo desiderabile e perfetto di ogni cultura esercita una
grande influenza sulla formazione del “corpo naturale”). Quindi, ogni corpo umano
rappresenta il risultato di un rapporto complesso e reciproco tra l’organico e il sociale,
in quanto interazione tra la natura individuale e il contesto culturale. Questo processo
inizia nel momento della nascita, si impara con l’osmosi (Schechner) e dura fino alla
morte. Di conseguenza, ogni singolo corpo partecipa non solo nell’ordine naturale,
ma anche in quello simbolico della cultura. Il corpo umano è, come anche qualsiasi
altro fenomeno culturale, storicamente e socialmente determinato.
Quando lo storico della cultura, tedesco Norbert Elias scrive della “storia del corpo
europeo” dal Medioevo fino ad oggi, come del tentativo degli uomini di controllare i
propri istinti e la propria esperienza (per es. nell’abbassare la soglia di tolleranza della
vergogna o del disgusto) come anche i comportamenti, egli indica che il processo di
civilizzazione cambia non solo i costumi sociali, ma anche la fisiologia del corpo e la
sua rappresentazione nella società. Elias ritiene che questo allargamento della
civilizzazione andrebbe inteso come il prezzo all’interno delle condizioni complesse
di ordine e di controllo che le culture europee dovevano pagare per i propri
cambiamenti tecnologici, scientifici, sociali ed economici.5 Il corpo del performer, nel
modo in cui è rappresentato in scena, è altrettanto condizionato dal contesto culturale
nel processo attuale della civilizzazione. Il performer in scena o ripete o scompone i
5
Cfr. Elijas, Proces civilizacije, trad. dal tedesco in serbo Dušan Janjić, Novi Sad e
Sremski Karlovci: Izdavačka knjižarska radionica Zorana Stojanovića, 2001.
modelli di comportamento comuni per una determinata epoca o cultura. In tali casi i
performer non solo rispecchiano, ma anche partecipano e contribuiscono al processo
storico della civilizzazione, svolgendo un determinato ruolo sociale. Secondo Marcel
Mauss, gli uomini usano sempre le tecniche ereditate in accordo con la propria
tradizione. Quelle tecniche indicano chiaramente che il corpo e lo spirito sono segnati
dalla cultura che li circonda.6
Il sociologo della cultura, il francese Pierre Bourdieu, riprende la tesi di Mauss, solo
che non la pone nel contesto antropologico, ma sociologico. La cultura per Bourdieu
rappresenta l’incarnazione della storia che diventa intima come seconda natura
dell’uomo, e che quindi non viene nemmeno percepita come storia. Egli suggerisce il
termine habitus per descrivere le tendenze psicofisiche determinate da un gran
numero di fattori sociali e che nella rappresentazione del corpo arrivano alla piena
espressione. Habitus rappresenta contemporaneamente la struttura strutturata, ma che
anche strutturi e si risolva nella metamorfosi e nei propositi degli schemi pratici
costruzionistici provenuti dalle strutture spirituali sociali in quanto risultato di una
successione storica di generazioni.7
Dal momento in cui il performer si trova in scena, il suo corpo si trasforma in corpo
scenico che allarga la sua presenza e la percezione dello spettatore. Evidentemente,
esistono i performer che attraggono lo spettatore con la loro energia elementare che
“seduce” il pubblico senza la mediazione di una riflessione. È quello che Eugenio
Barba chiama “il livello pre-espressivo” comune a tutti i performer, sul quale in
seguito è possibile applicare diversi modelli culturali, stili teatrali, generi, tipi di ruoli,
come anche la tradizione personale e collettiva.8 Alcuni fattori biologici (peso
6
Cfr. Marsel Maus, “Telesne tehnike”, in Sociologija I, Antropologija I, II, Beograd:
Biblioteka 20. vek, 1998, pp. 361-391.
7
Cfr. Pierre Bourdieu, Les sens pratique, Paris: Minuit, 1980 i Les regles de l'art,
Paris: Seuil, 1974
8
La presenza del performer in scena è l'argomento di cui si occupa l'antropologia
teatrale, che studia e interpreta i principi comuni e transculturali sui quali si basano
tutte le tecniche delle forme sceniche, come dei piani che precedono il processo di
espressione scenica, non solo nel teatro contemporaneo, dove l'accento viene
nuovamente posto sul corpo umano, ma anche sugli spettacoli tradizionali teatrali e
rituali, come anche sulle manifestazioni parateatrali nella vita quotidiana. (Cfr.
Eugenio Barba e Nicola Savarese, »Energija« e »Predizražajnost«, in Tajna umetnost
glumca: Rečnik pozorišne antropologije, op. cit., p. 74-95 e pp.186-203.)
corporeo, equilibrio del corpo, postura della spina dorsale, movimenti, mimica)
permettono di ottenere la tensione pre-espressiva, organica. Il neurologo americano
Paul Ekman sostiene che gli uomini esprimono sei emozioni fondamentali: la
sorpresa, il disgusto, la tristezza, la rabbia, la paura e la felicità. Secondo lui, queste
sono le espressioni facciali delle “emozioni predeterminate” comunemente accettate.9
Lo stato preespressivo ha luogo prima che lo spettatore abbia decifrato le singole
azioni o capito il loro significato in scena. Questo potere del performer è spesso
chiamato “presenza scenica”, ma come afferma Eugenio Barba, non è qualcosa di
scontato, ma è un cambiamento continuo, l’evoluzione che si svolge davanti ai nostri
occhi. Tentando di definire la corporeità in scena, Barba mette in evidenza un aspetto
meno conosciuto ai performer, ma di grande importanza per risvegliare e ricostruire la
presenza extra-quotidiana nella situazione scenica.
Lo scorrere dell’energia, caratteristico per il comportamento quotidiano, in
scena diventa quello che Richard Schechner definisce come twice restored
behavior, o “il comportamento ristrutturato due volte”. Tale comportamento non è
arbitrario né semplice, ma conosciuto e/o allenato; si svolge più di due volte, è
conosciuto da prima, e oltre ad essere assimilato con osmosi ancora nella prima
infanzia, viene scoperto dai performer nel corso dello spettacolo. Quindi una
performance artistica rappresenta sempre una doppia performance, perché in essa
sono inevitabili sia le riflessioni che la riflessività. La vicinanza tra teatro e vita fa
sì che il primo rappresenti il miglior commento o il “metacommento” alla
seconda.10
La recitazione percepita
“Il corpo dilattato” in scena evoca la sua immagine opposta e complementare – “il
pensiero dilattato”. Se il contesto dei segni che arrivano da fuori aumenta , senza
che essi siano prodotti dall’attore stesso, si può parlare di “recitazione percepita”
9
Cfr. Ričard Šekner, »Raspon scenskog izvođenja,« op. cit., 1992, pp. 220-226.
10
Cfr »Restoration of Behavior« i »Performers and Spectators Transported and
Transformed,« in Richard Schechner, Between Theatre and Anthropology, op. cit., pp.
35-151. Inoltre Ričard Šekner, »Obnovljeno ponašanje« in Tajna umetnost glumca,
op.cit., pp. 205-211..
(received acting). La recitazione percepita può essere l’azione delle comparse, del
coro musicale o dei ballerini, dei dilettanti/attori non professionisti o delle
comparse sul palcoscenico o nel corso di qualche performance: questi performer
possono lo stesso essere in costume, e anche pronunciare parti del testo che il
pubblico accetta come parte dello spettacolo teatrale o di qualche altro tipo, ma
qui ancora non si tratta di mimesi o di recitazione dei ruoli. In uno dei suoi
spettacoli, fatto nello spirito delle telenovele e dell’iperrealismo, Pablo nel
supermercato Plus (Pablo in der Plusfilial; 2005), lo scrittore e regista tedesco
contemporaneo René Pollesch indaga sul rapporto tra tecnologia mediatica e la
performance dal vivo. Egli dichiarò che il suo desiderio era quello di demistificare
il teatro rappresentativo in cui l’atteggiamento critico veniva curato solo
apparentemente, ritenendo che quei comportamenti sociali che andrebbero criticati
bisognerebbe costantemente ripeterli. “Cercare una forma per il teatro
estremamente diretto rappresenta un tentativo di parlare dei rapporti nella vita di
quelli che vanno al teatro. É una forma rischiosa: qualche volta molto eccitante, e
altre volte no. Il pubblico, perciò, o aveva fortuna, o non ce l’aveva. Gli attori non
s’appoggiano sulla partitura che garantisce il corso della serata e che permette la
sua riproduzione. Gli attori sono indirizzati verso sé stessi, entrano nella serata in
pieno rischio, perché tutta la faccenda può o andare a rotoli o riuscire
perfettamente” (corsivo mio – op.aut.).11 Se a questo si aggiunge una chiara
partecipazione emotiva, un desiderio di confessione, si raggiunge il piano di
“recitazione semplice” (simple acting), nel momento in cui gli attori iniziano a
“capire” il problema e lo trasmettono al pubblico. Nel teatro postdrammatico,
come anche nella Performance Art, più che la rappresentazione del personaggio, è
la presenza provocativa del performer in primo piano a creare il liveness.
Negli spettacoli di Pollesch, gli attori nel confronto con il pubblico cercano di
dare vita alle idee/ testi di Pollesch, per farci entrare gli spettatori. Pollesch
afferma che gli autori dei testi teorici che usa nei suoi spettacoli restano spesso
incantati dal modo in cui essi vengono rappresentati e perché nelle sue messe in
scena “vedono i corpi umani e i soggetti che si immedesimano completamente nel
11
Rene Pollesch in Maike Gunslius, »Intervju s Reneom Polešom«, Katalog 39.
Bitefa, op.cit., senza impaginazione.
loro contenuto”, facendo vedere i problemi direttamente e fisicamente.12 Gli attori
nel teatro di Pollesch giocano con quello che si chiama il carattere, il personaggio
o dramatis personae. Essi, ogni tanto, “indossano” il personaggio, per poi
“toglierlo”. Per di più, da Pollesch non esiste la divisione dei ruoli femminili e
maschili, ovvero, è una questione di “accordo”, dato che nei suoi spettacoli tutti
possono essere tutto.
Questo tipo di performance ancora non rappresenta la finzione, ma con essa inizia
la recitazione semplice, perché sottintende simulazioni ed imitazioni, per le quali
c’è bisogno di un certo lavoro emotivo e di preparazione. Solo quando a questo si
aggiungono gli elementi di finzione, possiamo parlare di “recitazione complessa”
(complex acting), nel modo in cui la recitazione solitamente viene percepita in
teatro, ma anche la recitazione totale degli sciamani che cadono in trance. La
recitazione complessa richiede tutto l’essere del performer, non solo la
partecipazione fisica, ma anche mentale ed emotiva, e richiede un alto livello di
dedizione. La recitazione diventa molto complessa in proporzione al numero di
elementi che vengono usati nella costruzione del personaggio. La differenza tra la
recitazione semplice e quella complessa sta nel grado di impegno del performer, e
non invece nel genere della performance. Nella recitazione totale, “l’altro”
(personaggio, carattere) è forte a tal punto da invadere/possedere il performer,
come nel caso di alcune performance sciamaniche.
La recitazione complessa
In concomitanza con la succitata categorizzazione, è possibile fare un’altra
sistematizzazione, parzialmente già annunciata da Michael Kirby, che potrebbe
risultare utile per la comprensione dell’arte della recitazione in base alla sua
12
Pollesch è partito dal libro Learning From di Jochen Becker, nel quale egli spiega
da dove deriva l’interesse delle metropoli finanziarie e industriali occidentali per
l’organizzazione della vita e del lavoro delle città nell’emisfero australe, per es. Lagos
o San Paolo, che rappresentano un potenziale mercato. Per questo spettacolo ebbero
importanza anche gli articoli “Atraktivnost neformalnog” di Elmar Altvater e
“Deformalizzazione dello spazio urbano” di Birgit Mahnkopf. In essi si parla del
commercio autoorganizzato che coesiste con quello normale e regolamentato, e che si
sviluppa nelle favelas di queste città, come il bisogno indispensabile dei suoi abitanti.
(Cfr. Katalog 39. Bitefa, op.cit)l
corrispondenza con la vita quotidiana, ai tipi di azioni che si rappresentano, allo
stato di coscienza del performer e al significato della performance. Richard
Schechner ritiene che la recitazione complessa potrebbe essere suddivisa in
realistica, antiillusionistica, codificata e in trance, il che a volte può sembrare
arbitrario, visto che alcuni performer nelle loro performance usano più di un tipo
di recitazione.
Nella recitazione realistica, il comportamento in scena si basa sulla vita
quotidiana. Nel corso della recitazione realistica “l’attore si identifica con il
personaggio”, mentre gli spettatori percepiscono il personaggio come se fosse una
persona vera. Quando questo tipo di recitazione iniziò a diffondersi nel teatro
europeo verso la fine dell’Ottocento, fu considerato d’avanguardia, ma presto
divenne dominante . Esso è anche lo stile dominate della recitazione occidentale
in tutti gli altri tipi di performance artistica e della cultura popolare, dalle soap
opere al cinema. Anche nei film di fantascienza o in quelli futuristici, la
recitazione è ancora realistica, ovvero implica che le emozioni dei personaggi
siano identiche alle emozioni delle persone reali, anche se l’azione del film si
svolge in galassie lontane. Dagli spettatori non è richiesto un livello elevato di
istruzione e conoscenza per poterla seguire, perché le situazioni, le emozioni, e la
lingua assomigliano ai loro discorsi quotidiani. La recitazione realistica ha anche
influenza sulla scrittura dei testi drammatici e sulla regia caratteristica per il
cosiddetto teatro di mainstream.
Come abbiamo già suggerito in precedenza, questo tipo di recitazione cambiava
man mano che cambiava la vita sociale. Quello che era naturale all’inizio del
secolo scorso, non doveva esserlo all’inizio di questo secolo. Basta guardare i film
che nelle epoche precedenti furono girati come realistici. D’altro canto, anche la
recitazione più realistica è sempre stilizzata e presenta un certo grado di
astrazione. La recitazione contemporanea occidentale trova le sue fondamenta nel
lavoro del teorico e regista russo K.S. Stanislavskij e nel suo Sistema, ovvero nei
suoi concetti di magico io e la memoria emotiva, il sistema di esercizi che
permettono all’attore di identificarsi completamente con il personaggio che
interpreta. Per Stanislavskij, il personaggio rappresenta la vita organica del corpo
e dei pensieri in “determinate condizioni” del ruolo (scritto). Come risultato
abbiamo il ruolo “recitato”, nel quale si può riconoscere una situazione e
un’emozione che l’attore rappresenta al pubblico come un emozione giusta,
“attraverso la linea principale dell’azione”. Il personaggio dovrebbe esistere nel
passato e nel futuro del ruolo, perfino quando è temporaneamente assente dal
ruolo. Il personaggio dovrebbe esistere anche nell’atto non previsto dal ruolo,
quando secondo il suo ruolo non è presente nello spazio scenico. I consigli di
Stanislavskij in questo ambito sono chiari e precisi, e possono essere applicati alla
performance culturale.13
Costruendo la nuova estetica del teatro, uno dei seguaci di Stanislavskij, Jerzy
Grotowski, cercò di sostituire gli “elementi sacrali persi” nel teatro moderno con
delle immagini ed azioni archetipali che dovrebbero costringere gli spettatori alla
partecipazione emotiva. Grotowski descrisse questo processo come “dialettica
dello spregio/irrisione e dell’apoteosi”, “religione espressa attraverso il sacrilegio,
l’amore che parla attraverso l’odio”, diretto contro “i tabù, le convenzioni e i
valori accettati”, che nel corso dello spettacolo crea “uno specchio molteplice”
che innalzandosi sempre di più distrugge questi valori e tabù.14 Nel cosiddetto
“teatro povero” di Grotowski, ben distante dal teatro drammatico, il testo
rappresenta solo uno di molti elementi, ed è fonte degli archetipi, ma in sostanza
non è altro che materiale grezzo da tagliare e modellare liberamente. Le svolte
nello spettacolo non sono più collegate al testo, ma si ottengono con mezzi
puramente teatrali.15
Tale approccio al testo richiedeva anche un nuovo approccio all’attore, chiamato da
Grotowski l’attore archetipale, che non è né semplice, né artificiale, ma usa la sua
destrezza per raffigurare le immagini traendole dall’inconscio collettivo. Secondo
Grotowski, l’attore archetipale deve passare attraverso la formazione disciplinata
corporea e vocale nello stile antinaturalistico, nel corso della quale conquista l’abilità
di controllo preciso del ritmo e del movimento, mentre il suo corpo acquisisce
13
Cfr. K. S. Stanislavski, Rad glumca na sebi, trad. Ognjenka Milićević, Zagreb:
Cekade, 1989, come anche Franko Rufini, »'Sistem' Stanislavskog,« in Euđenio Barba
e Nikola Savereze, op. cit., pp. 150-153.
14
Ježi Grotovski, Ka siromašnom pozorištu, trad. Nazifa Savčić, Beograd: Izdavačkoinformativni centar studenata, 1976.
15
Eugenio Barba, »Theatre Laboratory 13 Ryedow,« Tulane Drama Review, 9, 3,
Primavera 1965, p. 154.
l’espressività che supera i limiti naturali e si avvicina agli attori preveggenti di
Artaud16 o gli attori supermarionetta di Craig.17Grotowski rifiuta il palcoscenico
convenzionale a favore di più piccoli e più intimi spazi teatrali, nei quali lo spettatore
diventa cosciente della corporalità e della presenza degli attori e con ciò è costretto ad
affrontare il mondo degli archetipi, nonostante la resistenza della logica, delle
convenzioni sociali e delle abitudini. Nel suo Teatro Laboratorio, Grotowski cercava
la definizione dell’essenza che distingue il teatro da altre categorie della performance
e dello spettacolo. Con l’eliminazione graduale di tutto ciò che è “superficiale”,
Grotowski arrivò alla conclusione che il teatro poteva esistere senza il trucco, i
costumi, le scenografie, lo spazio apposito per la performance, senza gli effetti di luce
e di suono, ecc, ma l’unica cosa senza la quale non poteva esistere era la comunione
diretta, percettiva, “viva”, tra l’attore e il pubblico.
Effetto di straniamento
Diversamente da Stanislavskij e Grotowski, Brecht non voleva che l’attore si
identificasse con il ruolo, ma che entrasse in rapporto dialettico con esso. Brecht lo
chiamava Verfremdungseffekt oppure V-effekt: un termine difficilmente traducibile,
che approssimativamente potrebbe significare “alienazione” o “estraniazione” e
vorrebbe dire creare distanza tra l’attore e il personaggio, una specie di citazione o di
rappresentazione, che si trova anche nelle indicazioni sceniche, nei commenti,
nell’anitillusionismo in scena. Lo scopo di V-effekt è di rendere estraneo il gestus
sociale che è lo sfondo di tutti gli avvenimenti. Con il gestus sociale si sottintende
l’espressione mimica e gestuale dei rapporti sociali in cui si trova la gente di una
determinata epoca. Per raggiungere questo effetto di estraniazione, l’attore non
dovrebbe identificarsi con il personaggio che interpreta, ma dovrebbe rappresentarlo
come una sorta di “citazione”, rendendolo estraneo: “Rinunciando alla totale
trasformazione, l’attore non realizza il proprio testo come improvvisazione ma come
il citato…trovare la cit. nel testo orig. (Bertolt Brecht, Scritti teatrali)…. …..Egli
16
Cfr. Antonen Arto, Pozorište i njegov dvojnik, trad. Mirjana Miočinović, Beograd:
Prosveta, 1971.
17
Cfr. Edward Gordon Craig, O umjetnosti kazališta, trad. Nikola Đuretić, Zagreb:
Prolog, 1980., come anche Aleksandra Jovićević, »Od nadmarionete do
neuromansera: Upotreba i razvoj tehnologije u teatru prve polovine 20. veka«, TkH, n.
7, 2004, pp. 14-25.
costringe lo spettatore, in base alla sua appartenenza sociale, giustificare o rifiutare
queste condizioni.”18
Nonostante il fatto che il gestus non rappresenti il concetto più importante nella teoria
di Brecht, Patrice Pavis ritiene che esso sia certamente uno dei suoi concetti più
raffinati e produttivi; Brecht l’aveva inserito per spiegare come l’attore, il regista e il
pubblico capiscono l’importanza della gestica per il collettivo.19 La gestica evoca in
maniera ancora più forte del gestus il sistema dei gesti fortemente codificato, come
nel caso della retorica della passione nel Seicento e nel Settecento, oppure nelle
tradizioni delle danze orientali. A prima vista, sembra che il gestus sia un mezzo
estremamente tecnico che si inserisce semplicemente nel sistema di Brecht. Ma in
sostanza, il gestus racchiude tutto lo spettacolo, mette in questione il gioco mimetico
obbligando che il ruolo del corpo in scena venga precisato. Brecht trasforma il corpo
dell’attore in un piano sul quale vengono proiettati dei segni, una costruzione
artificiale che scompare appena lo spettatore la risolve. Dal corpo infinito, libero,
nasce il gestus che rispecchia verosimilmente i rapporti sociali. Il corpo si muta in un
sistema semantico visibile e leggibile, in una semiotica della struttura e la gestica
sociale che, rifiutando il corpo istintivo, smaschera la regolamentazione sociale.
Qui possiamo notare una certa contraddizione, perché i performer contemporanei, e
soprattutto i danzatori nella danza concettuale, non rappresentano soltanto il pensiero
di qualcun altro, oppure il proprio corpo da esibire o da raffigurare visivamente. Al
contrario, il corpo in essi va mostrato come il messaggio proprio, torna la meccanica
del corpo e viene potenziata la frammentazione del vocabolario della danza. Lo stesso
Brecht, che da sempre giocava un “doppio ruolo”, sosteneva in modo implicito questi
performer, consigliandoli di non diventare l’incarnazione delle idee dell’autore e del
regista. Il gestus non rappresenta un concetto rigido e limitante; in un certo modo,
esso apre una discussione polifonica con delle teorie contemporanee del corpo, che
maggiormente favoriscono la riduzione del corpo alla sua dimensione sociale, a
18
Bertold Breht, »Kratak opis nove tehnike glumačke umjetnosti koja proizvodi
efekat začudnosti,« in Dijalektika u teatru, Beograd: Nolit, 1966, p. 115.
19
Per un'interpretazione più approfondita di questo rapporto cfr. Patrice Pavis,
»Brehtov gestus,« Scena, Novi Sad, 1-2, gennaio-aprile 1998, pp. 8-11.
partire da Marcel Mauss (“Le tecniche corporee”) attraverso Pierre Bourdieu
(Habitus), alla Judith Butler (Corpi che significano qualcosa). Nel contesto
dell’antropologia teatrale, il corpo umano è contemporaneamente sia l’attore che il
danzatore, ma prima di tutto il performer, di sesso indefinito, il che può significare
che il corpo in fondo non possiede il sesso, ovvero che il sesso sia la proiezione
sociale sul corpo (Deleuze e Guattari), oppure la costruzione sociale del genere
(Judith Butler).
In questo modo habitus di Bourdieu si riallaccia al gestus di Brecht, che si limita alla
gestica di scena, e lo sistematizza grazie alla terminologia sociologica. A differenza
dei performer orientali, l’attore occidentale è quasi sempre cosciente che il suo corpo
rappresenti una proiezione sociale, perché incarna il personaggio la cui identità è
socialmente determinata. Il performer occidentale imita gli scenari reali o immaginari
della vita sociale, confrontandosi con la società che imita e a cui si adatta. Il
performer orientale, contrariamente, si distingue dalla tecnica corporea che aveva
acquisito negli anni di studio e di formazione. Secondo Brecht, il modo di muoversi
del performer è il riflesso del suo modo di pensare.
Alla base del teatro epico di Brecht sta l’intenzione di rendere insolito quello che è
conosciuto, di sottolineare la mutevolezza del mondo, di mostrare gli eventi con una
distanza temporale, e come lo stesso autore dice, di svelare che la gente rappresenta
“la somma delle condizioni sociali”. Il teatro di Brecht era profondamente sociale e
ciò lo avvicina alla performance culturale. Questa insistenza sulla possibilità di
indagare, intervenire e cambiare sta anche alla base del “teatro degli oppressi” del
regista brasiliano Augusto Boal, che, allacciandosi alle idee di Brecht e Gurvitch,
rifiuta il dramma “aristotelico” come strumento dell’attuale ordine sociale,
definendola come lo svago popolare che le classi dirigenti asservirono ai propri scopi.
Secondo Boal, tali scopi sono propagandistici e violenti, mentre le divisioni sono
coscienti e politicamente motivate. Nella poetica marxista di Brecht, Boal scoprì il
fatto che l’essere sociale determina il pensiero sociale, e che l’azione drammatica ha
origine nei rapporti sociali, contrariamente alle “poetiche idealistiche” di Aristotele e
Hegel, nelle quali il pensiero sociale determina l’essere sociale, mentre lo spirito
modella l’azione drammatica. Dato che Brecht rifiuta la catarsi aristotelica che porta
alla riappacificazione e all’accettazione, egli incita il pubblico di comprendere tali
condizioni come mutevoli. Creando sulle fondamenta del concetto di Brecht e sulla
propria visione del compito del teatro, Boal cercò di cancellare le differenze tra il
performer e il pubblico. Nel “teatro degli oppressi” lo spettatore non delega più il
proprio potere al performer, ma riprende egli stesso il ruolo del protagonista, cambia
l’azione drammatica, discute sui progetti per il cambiamento.20 Il teatro diventa il
luogo della potenziale ribalta sociale.
La recitazione codificata
Il performer cinese Mei Lan- Fang, che per tutta la vita interpretò la parte delle donne
guerriere nell’Opera di Pechino, rappresentava per Brecht il paradigma della
recitazione straniata. Nella propria cultura invece, Mei Lan-Fang fu un performer
della performance artistica altamente formalizzata, caratteristica per il Jingju, teatro
musicale di lunga tradizione. Nonostante nella recitazione codificata i gesti e i
movimenti sono portatori di significato, deducibili ed estraibili dal comportamento
quotidiano, il sistema codificato nel suo insieme non è direttamente analogo al
comportamento quotidiano. La recitazione codificata è un sistema semiotico delle
referenze. Assomiglia piuttosto al linguaggio scritto o verbale. È necessario che lo
spettatore conosca il vocabolario e la grammatica specifici del sistema codificato della
performance per poter capire interamente quello che viene rappresentato. Nella
recitazione codificata, gli attori avevano consciamente appreso un sistema distinto dal
comportamento quotidiano, creando un nuovo sistema sintattico e semantico. Certo,
anche qui è possibile un certo grado di improvvisazione, che si basa su determinati
modelli, dati in anticipo. Per esempio, far svolazzare le bandiere nel teatro cinese può
riflettere la situazione in cui il personaggio è intrappolato in una tempesta. Se l’attore
lascia il palcoscenico in ginocchia, si capisce che sta attraversando il dolore o il
terrore. Se si muove in modo circolare questo significa che si trova in un viaggio
lontano, mentre se impugna la frusta questo significa che sta cavalcando. Quindi, se il
pubblico non conosce pienamente il vocabolario e la grammatica di Jingju, non può
veramente capire la performance nella Opera di Pechino. Alcune volte questi
movimenti hanno un significato simbolico, altre volte no, e ciò assomiglia alla danza
20
Augusto Boal, The Theatre of Oppressed, New York: Theatre Communication
Group, 1985, p. 122.
moderna, dove i movimenti possono evocare emozioni negli spettatori, ma non vanno
tradotti direttamente nelle parole e nelle situazioni.
La recitazione codificata è molto diffusa nel mondo. Esistono centinaia, se non
migliaia di sistemi performativi codificati. Dal balletto bianco e della danza
contemporanea nella cultura occidentale fino al Kathakali, al No, al Kabuki, all’Opera
di Pechino nella cultura orientale. Alcune di queste forme esistono da più di 2000
anni. Per esempio il Natya Sastra, il manuale sanscrito per la performance, la danza e
la musica, pensate come arte unica, spiega dettagliatamente i movimenti delle mani,
degli occhi, del corpo, i passi di danza, la musica e il costume che riflettono e
trasmettono emozioni specifiche, situazioni drammatiche e tipi caratteriali. I
preparativi per la performance di tipo codificato iniziano presto nell’infanzia, finché il
corpo e la mente sono ancora flessibili, e richiedono anni di formazione molto
rigorosa, perché ogni genere possiede il suo proprio vocabolario. Per esempio nel
Kathakali i performer ricevono dei massaggi affinché il corpo prenda la forma
Kathakali. Come anche nello sport, si arriva a modellare il corpo con determinati
esercizi.21 Il “secondo” corpo del performer e la mente focalizzata non sono semplici
da raggiungere, dato che ogni forma impone delle richieste rigorose; per esempio, nel
No la maggior importanza sta nei movimenti dei piedi, mentre nel Kathakali l’accento
viene messo sul movimento degli occhi, ecc.
La performance codificata è possibile incontrarla anche in vari rituali sacri e laici del
mondo (per es. incoronazione, inaugurazione), che possono assomigliare al teatro.
Primo, perché quelli che realizzano dei rituali spesso non rappresentano qualcun altro,
e non devono essere particolarmente abili. Le persone che partecipano ai rituali
svolgono azioni concepite in anticipo, indossano vesti o paramenti particolari e,
usando diversi mezzi, rappresentano il comportamento altamente codificato nei grandi
rituali sociali. Per esempio, durante la liturgia, oppure un'altra cerimonia religiosa, i
sacerdoti seguono le “sceneggiature” della performance scritte in modo dettagliato,
che determinano i loro indumenti, la loro esatta posizione nel tempio, come anche
quello che faranno o diranno. Per questo tipo di performance è necessario che ci sia
21
Cfr »Obuka u majstorskoj radionici« in Euđenio Barba e Nikola Savareze, Tajna
umetnost glumca, op. cit., spp. 26-34. Cfr. inoltre, Tvrtko Kulenović, Pozoriše Azije,
Zagreb: Prolog, 1983, p. 101-103.
un pubblico/credenti che capiscano il significato simbolico della lingua, i movimenti e
gli oggetti che vengono usati nel corso del rito religioso. In quel tipo di rituali non
vengono dati i giudizi estetici, ma è importante la presenza della persona alla quale è
affidato di condurre il rituale, anche nel caso in cui questa persona non possieda delle
particolari qualità verbali, vocali e performative. Per esempio, sebbene vecchio e
gravemente malato, il papa Giovanni Paolo II prima della sua morte, solo con la sua
apparizione, suscitò forti emozioni nei credenti cattolici.
Dal rituale al teatro
Secondo Victor Turner, il rituale rappresenta uno dei più potenti generi attivi della
performance culturale, un genere però, come afferma nel suo libro Dal rito al teatro,
ben distinto dal teatro. Turner ritiene che non esistano società senza un certo
metacommento (ossia, secondo Clifford Geertz “la storia che il gruppo racconta di se
stesso”), che non è solamente la lettura della propria esperienza, ma anche la
effettuazione interpretata di questa esperienza. Nelle società più semplici,
preindustriali, esistono solitamente delle forme complesse di rituale – di iniziazione,
di guarigione, riti di stagione, magia – che agiscono non solo come strumenti per
risvegliare il sentimento della solidarietà sociale, ma servono anche per l’articolazione
e la delucidazione delle difficoltà e dei conflitti del presente attraverso la
contestualizzazione nell’attuale schema cosmologico.22 Anche se esistono numerose
teorie sull’origine rituale del teatro, il rituale comunque, a differenza dal teatro, non fa
la distinzione tra il pubblico e i performer. Esiste invece la comunità, rappresentata
dai sacerdoti, i membri dei partiti, oppure altri esperti religiosi o laici, dove tutti,
realmente o formalmente, condividono lo stesso credo e accettano la stessa struttura di
azione, come anche la stessa sequenza delle azioni rituali, oppure liturgiche. La
comunità serve ad affermare l’ordine cosmologico o quello teologico, che sia esplicito
o implicito, attualizzandolo periodicamente per i propri scopi, o per trasmettere ai
nuovi membri i suoi principi, spesso nella sequenza graduale di riti, cosiddette crisi
esistenziali, come il passaggio dalla vita alla morte attraverso la maturità, il
matrimonio, il percorso educativo, ecc.
22
Victor Turner, »Gluma u svakodnevnom životu i svakodnevni život u glumi,« in
op. cit., p. 220.
Qualche volta nei rituali i performer cadono in trance, durante il quale attraversano
tutta una serie di cambiamenti psicofisici, e il loro autocontrollo viene ridotto al
minimo o scompare. I performer intraprendono il “viaggio magico”, impossessati dai
“demoni” oppure da altri esseri umani, e se sono abili nel farlo, è possibile che nel
corso della performance facciano cadere in trance anche gli spettatori. I performer in
trance si trovano spesso al confine tra la realtà e la performance totale, e talvolta lo
superano. I performer in trance non controllano sé stessi né la propria performance, e
perciò hanno sempre degli aiutanti, persone che non cadono in trance, che sorvegliano
che questi non si facciano male e li aiutano di uscire dalla trance. Qualche volta capita
che, dopo la fine della seduta, i performer non si ricordino cosa avevano fatto, il che
dipende dalla cultura, dal genere, dalla situazione. In genere, la trance è una forma di
performance molto diffusa in varie culture e contesti (per es. in Turchia, Corea,
Brasile, Haiti, ecc.).
Questo tipo di performance si avvicina, sia per i partecipanti come anche per gli
spettatori, all’esperienza del teatro totale, perché nel corso di essa si realizza una
specie di comunione e di esperienza spirituale, dopo la quale i partecipanti vengono
“purificati” e ritualmente rinnovati. In molte culture, nelle quali i rituali sono legati
alla guarigione, esistono performer speciali – gli sciamani – che curano, scacciano i
nemici, prevedono il futuro, riappacificano, facilitano il parto, ecc. Alcuni teorici
ritengono che la performance degli sciamani sia simile alla performance teatrale,
perché gli sciamani sono dei performer e dei narratori specializzati, che nel corso
della propria performance raccontano, cantano, ballano, usano diversi attrezzi,
costumi e maschere che gli permettono di trasformarsi, come anche di “intrattenere”,
fino a certo punto, gli spettatori.23 In molti particolari, gli sciamani sono simili agli
attori teatrali. In una performance lo sciamano può rappresentare più personaggi,
spesso anche in conflitto tra di loro. Tradizionali e codificate, le narrazioni degli
sciamani nella maggior parte dei casi sono indirizzate verso la lotta tra la vita e la
morte, tra le forze del male e l’individuo oppure le comunità intere. Il luogo della lotta
può essere anche il corpo del malato che solitamente resta passivo, talvolta
incosciente. Un buon sciamano cercherà di introdurre sempre di più gli spettatori nella
23
Cfr. Richard Schechner, »Ritual« e »Performing« in Performance Studies, op. cit.,
pp. 45-77 e 143-188.
sua performance, che nello stesso tempo rappresenta sia una sorta di connessione con
delle forze superiori sia il teatro totale.
La performance artistica
Un’altra differenza tra il rituale sociale e la performance artistica in teatro, danza,
opera, ecc, sta nel fatto che il performer nel corso del rituale non tende verso la
trasformazione di sé stesso, ma di una situazione, o forse anche del pubblico. In altre
parole, persino in alcune forme di performance artistica orientate verso la presenza, la
trasformazione e l’effetto della catarsi restano virtuali, volontarie e rimandate.
Viceversa, l’ideale dell’arte della performance, come anche del rituale, è costituito dal
processo e dal momento che si chiama qui ed ora. Quindi, l’etica della catarsi è legata
al rituale e torna di nuovo nello spazio della coscienza e nell’esperienza attraverso
l’arte della performance, che richiede una partecipazione, come anche il risveglio
delle reazioni affettive del pubblico, tal volta incontrollabili (per es. paura, disgusto,
terrore), il che supera i limiti dell’isolamento dello spettatore (come per es. nelle
performance artistiche degli azionisti viennesi Nitsch e Muehl). È evidente che
l’artista nella performance non è eguale allo sciamano, ovvero “all’outsider
socialmente accettato e adorato” che si presta a superare i limiti per gli altri. Al
contrario, ogni artista della performance, nella società liminoide contemporanea,
esegue il rituale solo per sé stesso.
Per quanto riguarda gli osservatori o gli spettatori: la rottura creata tra la presenza del
performer e il processo di rappresentazione nel teatro anti-illusionistico e in alcune
forme di teatro postdrammatico, contiene il potenziale per le nuove modalità
percettive, ma in esse la posizione dell’osservatore resta, in sostanza, immutata,
perfino nei casi in cui il pubblico andrebbe provocato, scosso, socialmente mobilitato,
politicizzato. L’unica situazione in cui lo status dell’osservatore/spettatore viene
radicalmente cambiato è la Performance art. Tuttavia, come afferma H.T. Lehmann,
con ciò fu fatto un grande passo verso la perdita dei criteri artistici, perché se il valore
di una performance non è costituito più dall’opera che andrebbe “oggettivamente
stimata”, ma dall’interrazione con il pubblico, allora la performance dipende
unicamente dall’esperienza degli stessi partecipanti, e quindi dalle circostanze che,
nel confronto con l’opera fissa e durevole, sono in buona parte soggettive e effimere.
In questo modo diventa impossibile anche definire “che cosa è la performance”. La
risposta la si può trovare unicamente nella “autocomprensione” dell’artista: la
performance è quindi ciò che gli stessi artisti definiscono come tale, è può essere
considerata riuscita in base al grado di comunicazione che riesce ad avere con il
pubblico.24 Il pubblico, quindi, non decide più sul successo comunicativo solo come
testimone disinteressato, ma come partner equo che partecipa alla performance.
Ultimamente, qualsiasi performance artistica che sistematicamente si trovi tra un
pretesto e la sua ricezione, si sposta verso questo secondo polo. Ciò altresì rappresenta
uno dei modi in cui il teatro si avvicina all’arte della performance, che nello stesso
tempo gli apre un vasto spazio degli stili di messa in scena. Quindi, la performance
artistica, secondo la sua definizione più larga, può essere individuale o di gruppo, con
o senza l’apparecchiatura scenica quale le luci, la musica o gli oggetti visivi fatti dallo
stesso artista o dal gruppo di artisti. Inoltre, può essere realizzata in vari luoghi – da
una galleria d’arte, teatro, museo, fino a qualsiasi altro spazio o ambiente alternativo.
Forse la più grande differenza tra la rappresentazione teatrale e la performance
artistica sta nel fatto che il performer della seconda è allo stesso tempo l’artista che
raramente, se non addirittura mai, rappresenta un personaggio come fa l’attore, e che
il contenuto raramente segue una trama tradizionale o una storia. La performance può
contenere alcuni gesti o rappresentare il teatro visuale di grandi dimensioni, può
durare qualche minuto o molte ore, può essere realizzata solo una volta o ripetuta
varie volte, con o senza preparativi, improvvisata o come risultato di un lungo
training. La performance usa il testo scritto, l’apparecchiatura scenica, il suono, la
musica, la luce, l’architettura e la pittura, il video, il cinema, le diapositive e le riprese
digitali, in tutte le varie combinazioni. L’arte della performance si avvicina al teatro
per l’uso delle strutture visive e auditive, delle tecnologie mediatiche e delle
performance di lunga durata.25 D’altro canto, il teatro sperimentale sotto
l’impressione dei ritmi accelerati della percezione diventa “più corto”, evitando lo
24
Cfr. H.T. Lehmann, »Postavljanje kroz performans,« Postdramsko kazalište, op.
cit., pp. 179-180.
25
Cfr. Edith Almhofer, Performance Art, Vienna, Colonia, Graz, 1986; The Art of
Performance: A Critical Anthology, priredili Gregory Battckock e Robert Nickas,
New York: Dutton, 1984; e Marvin Carlson, »The Art of the Performance,« in
Performance: A Critical Introduction, op. cit.
sviluppo psicologico dell’azione e dei caratteri, riducendo la durata della performance
a meno di un’ora.26
Inoltre, nell’arte della performance, l’artista tende di più verso l’autotrasformazione, e
meno verso la trasformazione di una realtà. L’artista nel corso della performance
svolge delle azioni che contengono il suo proprio corpo. Il corpo viene usato
contemporaneamente come oggetto, come piano dove vanno proiettati diversi segni
della performance o come significante, però questa manipolazione non è fine a sé
stessa; il suo obbiettivo principale consiste piuttosto nell’abolizione della distanza
estetica che in teatro esiste tra l’artista e il pubblico. Sebbene non esista più la
relazione con ciò che una volta rappresentava la dimensione dei miti e della magia,
nelle numerose performance di, per esempio, autolesionismo (Marina Abramović,
Gina Pane, Vito Acconci, Franco B e gli altri) si impone l’analogia con dei rituali
arcaici, indifferentemente dal fatto che il performer rappresenti sé stesso come
vittima, oppure il pubblico venga “accusato” per la sua partecipazione a quell’atto di
“scarificazione” o entri da solo nel ruolo di vittima, oppure che la performance diventi
una manipolazione con sé stessi fino al limite della sopportazione. In esse non si
mette in questione l’idea personale e artistica della performance, che non solo è in
grado di produrre degli attimi vivi ed irrepetibili, ma ha cambiato per sempre l’idea
dell’arte. H. T. Lehmann afferma che nella performance andrebbe segnata la
differenza del “esito”, ovvero delle possibilità rispetto alla relazione tra la vita reale e
l’arte; in altre parole, se la distanza estetica e il principio dell’azione estetica
sopravvivono o no? In teatro, i performer tendono di trasformare la realtà con i propri
corpi e i gesti realtà. Nonostante anche all’attore possa talvolta capitare di vivere
l’autotrasformazione, egli vorrà lo stesso sempre ripetere dei momenti “già
realizzati”, sia che reciti nel teatro naturalistico di Stanislavskij e Grotowski, o nel
teatro anti-illusionistico o epico di Brecht, oppure in alcune forme di teatro
postdrammatico vicine alla performance.
26
RoseLee Goldberg sottolinea un tale sviluppo in artisti come John Jesurun, Jan
Fabre, Elizabeth LeCompte, Robert Wilson, dove si arriva ad un’unità nuova tra
l’opera, la danza, la Performance Art, il teatro ecc. In quel gruppo si possono
collocare anche la compagnia italiana Falso Movimento, la compagnia catalana La
Fura dels Baus,e gli inglesi DV8. Quest’ultima, per esempio, per ogni sua opera
impiega scenografi e compositori che aiutano nella ricerca del rapporto tra il corpo del
performer, l’architettura, la musica, mettendo in questione l’estetica tradizionale e le
forme che pregnano il balletto moderno e quello classico.
Schechner rappresenta la teoria della performance come “binarietà” di cui un polo
rappresenta “il rituale di trasformazione” (ovvero, la tendenza che i partecipanti
vengono trasformati, cambiati), e l’altro “il teatro d’intrattenimento”, il che secondo
la nomenclatura di Turner significherebbe il contrasto tra le modalità di
rappresentazione liminali e quelle liminoidi. In realtà, queste sono intrecciate, anche
se in Grotowski predomina la prima, mentre nelle forme popolari la seconda. Secondo
Schechner, il teatro appare sempre come il luogo dove il rituale e il divertimento si
intrecciano. Gli autori simili a lui, come anche a Brecht, Pollesch e Christof
Schilingensief, non dimenticarono mai che il divertimento, in quanto forma liminoide,
sia una parte importante della performance, e quindi anche del teatro; perciò essa
rappresenta un certo aspetto di libertà, dato che è profondamente impregnata di gioco,
e il gioco porta il potenziale della democratizzazione. Inoltre, essa permette allo
spettatore di comprendere tutto quello che vede come modalità congiuntiva come
se…(fosse). Qualsiasi rappresentazione, dal rituale, attraverso il teatro e la
Performance Art, fino alle forme popolari del divertimento, si rivolge alle pulsioni
umane basilari: imparare e divertirsi; rappresentare certi significati e modellare il
tempo; raffigurare il comportamento simbolico che rende attuale lì ed allora come qui
ed ora; cadere in trance o essere coscienti; dedicare l’azione al gruppo degli eletti che
comprendono il linguaggio della performance oppure rappresentare per un pubblico
vastissimo, come negli spettacoli ambientali. L’unica differenza che esiste è la
differenza nell’intensità dello spettacolo, come anche nella trasformazione dell’Essere
e della coscienza non solo del performer, ma anche dello spettatore, nel corso dello
spettacolo.27
27
Cfr. Ritual, Play and Performance, a cura di Richard Schechner and Mady
Schuzman, New York: Seabury Press, 1976.