Avvocati di Famiglia n. 6 - Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia

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OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 6 - novembre-dicembre 2009
Anno III - n.6 - novembre-dicembre 2009 - Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
Avvocatidifamiglia
Diritti delle persone e della famiglia.
Le responsabilità dell’avvocato
La sezione di Verona dell’Osservatorio
In arrivo nuove norme in materia di affidamento
condiviso dei figli
Ricorribili finalmente per cassazione tutti i decreti
in materia di affidamento dei minori
Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno III, n. 6 - novembre-dicembre 2009
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
Spedizione in abbonamento postale 70% - DC Roma
Amministrazione
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
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Tel. 06.44242164
Fax 06.44236900
Direttore responsabile
avv. Gianfranco Dosi
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Comitato esecutivo dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
avv. Gianfranco Dosi (Roma)
avv. Maria Giulia Albiero (Messina)
avv. Germana Bertoli (Torino)
avv. Matilde Giammarco (Chieti)
avv. Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto)
avv. Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli)
Redazione
Direttore responsabile
Zoom (sulle sezioni)
Primo piano (vita associativa)
Professione avvocato
Gli osservatori sulla giustizia
Giurisprudenza penale
Giurisprudenza civile
Massimario
Mediazione familiare
Pari opportunità
Osservatorio legislativo
Sito associativo
avv. Gianfranco Dosi
avv. Corrado Rosina (Barcellona Pozzo di Gotto)
avv. Gianfranco Dosi
avv. Giulia Albiero (Messina)
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avv. Gioia Sambuco (Rieti)
avv. Ivana Terracciano Scognamiglio (Napoli)
avv. Gianfranco Dosi
avv. Matilde Giammarco (Chieti)
avv. Claudia Romanelli (Bari)
avv. Manuela Comand (Udine)
avv. Germana Bertoli (Torino)
Hanno collaborato a questo numero
Germana Bertoli, Maria Stella Ciarletta, Marina Comenale Pinto, Emanuela Comand,
Giorgia Dallora, Guia Faccincani Zigiotto, Matilde Giammarco, Michela Labriola,
Barbara Maria Lanza, Valerio Liprandi, Claudia Romanelli, Gioia Sambuco
Impaginazione e Stampa
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00133 Roma - Via Bitetto, 39 - Tel. 06.2015137
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SOMMARIO
Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
Sommario
Editoriale
Il bilancio del Forum nazionale
(Gianfranco Dosi) 2
Primo piano
Diritti delle persone e della famiglia. Le responsabilità
dell’avvocato. Il documento approvato al Forum
nazionale di Roma del 20-21 novembre 2009 4
Zoom
- La sezione di Verona dell’Osservatorio Nazionale
sul diritto di famiglia: esperienze e prospettive
(Barbara Maria Lanza) 6
- “Progetto Valore prassi” e “Protocollo per il
processo di famiglia” 8
- Gli aspetti processuali relativi all’audizione del minore
nei procedimenti di separazione e divorzio 16
- Un convegno di studi sulla tutela penale della
famiglia 18
Giurisprudenza
- A tutti i decreti camerali che hanno contenuto
patrimoniale va apposta la formula ese-cutiva.
Corte costituzionale, ordinanza 290 novembre
2009, n. 310 22
- La Corte di cassazione cambia con coraggio
orientamento e dichiara pienamente ricor-ribili per
violazione di legge i provvedimenti in materia di
affidamento di figli naturali. Cassazione civile, sez.
I, 4 novembre 2009, n. 23411. Cassazione civile,
sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032. Il punto di vista
di Gianfranco Dosi 24
- È causa ostativa all’affidamento condiviso il
mancato versamento del mantenimento per i figli.
Cassazione,civile,17 dicembre 2009, n.26587 26
- Il mantenimento in caso di dichiarazione di paternità
naturale decorre dalla nascita ed è soggetto ai criteri
di quantificazione dell’art. 155 codice civile.
Cassazione civile, sez. I, 6 novembre 2009, n.
23630. Il punto di vista di Gianfranco Dosi 27
- Due sentenze in materia di violazione di sottrazione
degli obblighi di assistenza familiare. Cassazione
penale, sez. VI, 10 novembre 2009, n. 47018.
Cassazione penale, sez. VI, 28 ottobre 2009, n.
42631 41
Massimario
- Tre anni di giurisprudenza penale sui maltrattamenti
a cura di Gioia Sambuco 42
Osservatorio legislativo
- In arrivo nuove norme in materia di affidamento
condiviso dei figli (Emanuela Comand) 47
Studi e ricerche
- L’assistenza tecnica e l’udienza presidenziale.
Il significato del tentativo di conciliazione
(una ricerca sul territorio nazionale)
(Germana Bertoli, Valerio Liprandi) 51
Pari opportunità
- Il legittimo impedimento delle avvocate
(Claudia Romanelli) 55
- La carta europea per l’uguaglianza e le parità delle
donne e degli uomini nella vita locale
(Michela Labriola) 57
- Il caso Puglia: le pari opportunità salvate dalla
magistratura? (Maria Stella Ciarletta) 58
L’opinione
- L’ascolto del minore nei procedimenti civili: le
convenzioni internazionali e la legislazione italiana
(Germana Bertoli, Valerio Liprandi) 60
Dossier
- Amministrazione di sostegno: riflessioni lessicali,
questioni redazionali e potenzialità operative, con
particolare riferimento al testamento biologico
(Marina Comenale Pinto) 29
- La responsabilità penale del genitore che ostacola i
rapporti tra il figlio e l'altro genitore. Cassazione
penale, sezione feriale, 8 settembre 2009, n. 34838.
Il punto di vista di Gioia Sambuco 37
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 1
EDITORIALE
Il bilancio del Forum nazionale
GIANFRANCO DOSI,
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
I
l Forum ha costituito
un momento di forte
aggregazione associativa. Desidero ringraziare personalmente
tutti i partecipanti per aver
contribuito con la loro presenza a farlo diventare anche un importante momento di aggiornamento,
intenso e ricco di spunti di
riflessione. Un ringraziamento particolare va a tutti
i relatori che con il loro impegno hanno reso possibile questo Forum.
In altra parte di questo numero della nostra rivista viene pubblicato il documento approvato sul
tema della responsabilità dell’avvocato nelle cause
di diritto di famiglia.
Gli avvocati aderenti all’Osservatorio nazionale
sul diritto di famiglia riuniti in assemblea a Roma il
21 novembre 2009 in occasione del loro VIII Forum
nazionale, hanno richiamato l’attenzione di tutti gli
avvocati impegnati nella cause di diritto di famiglia
sulla necessità di ispirare il proprio comportamento
2 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
professionale a principi rigorosi a salvaguardia dei
diritti delle persone e della famiglia ed hanno auspicato che un impegno in questa direzione possa
essere l’obiettivo congiunto di tutte le associazioni
di avvocati familiaristi.
Al Forum hanno preso parte, oltre ai 16 relatori,
417 avvocati provenienti dalla seguenti sedi di ordine forense:
Ancona
1
Nola
5
Arezzo
5
Nuoro
7
Ascoli
1
Palermo
14
Asti
2
Parma
6
Avezzano
1
Perugia
5
Barcellona
6
Pesaro
9
Bari
20
Pescara
4
Biella
2
Pisa
9
Bologna
1
Pistoiua
8
Bolzano
11
Prato
4
Cagliari
9
Ravenna
1
Caltanissetta
2
Reggio C.
1
Canpobasso
5
Rieti
3
Cassino
7
Rimini
2
Catania
14
Roma
29
Chiavari
2
Rovereto
1
Chieti
6
Salerno
4
Civitavecchia
4
Sanremo
3
Cremona
2
S. Maria C.V.
1
Crotone
2
Sassari
11
Cuneo
2
Siena
2
Firenze
7
Siracusa
4
Foggia
1
Taranto
1
Frosinone
9
Tempio
2
Genova
2
Teramo
3
Grosseto
10
Terni
3
La Spezia
4
Torino
7
Latina
17
Trani
2
Livorno
3
Trapani
1
Lodi
1
Trento
1
Lucca
1
Treviso
8
Lucera
3
Trieste
1
Macerata
4
Udine
12
Marsala
2
Varese
8
Massa
8
Velletri
10
Messina
12
Verona
3
Milano
6
Vibo V.
2
Modena
1
Vigevano
3
Montepulc.
1
Viterbo
1
Napoli
10
Altri
3
EDITORIALE
Entrate
Quote iscrizione e prenotazioni alberghiere
euro (IVA inclusa)
115.820,00
Uscite
Ergife
Cena pullman
Cena
Rimborsi viaggio relatori
Relatori
Viking (materiali cartelline)
Assicurazione
Speedy
Reception
Totale uscite
euro (IVA inclusa)
84.610,00
300,00
480,00
1.245,00
1.600,62
2.142,55
285,00
165,00
900,00
89.798,17
Saldo attivo (con iva a debito da versare)
26.021,83
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 3
PRIMO PIANO
Diritti delle persone e della
famiglia. Le responsabilità
dell’avvocato
Il documento approvato al Forum nazionale di Roma
del 20-21 novembre 2009
li avvocati aderenti all’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia riuniti in assemblea a Roma il 21 novembre 2009 in
occasione del loro VIII Forum nazionale,
ritengono necessario richiamare l’attenzione di tutti
gli avvocati impegnati nella cause di diritto di famiglia sulla necessità di ispirare il proprio comportamento professionale a principi rigorosi a salvaguardia dei diritti delle persone e della famiglia ed auspicano che un impegno in questa direzione possa
essere l’obiettivo congiunto di tutte le associazioni
di avvocati familiaristi.
La fonte principale della deontologia in ambito forense è sempre stata soprattutto la giurisprudenza
disciplinare che circoscrivendo nel tempo i comportamenti commessi in violazione del dovere generale di probità, dignità e decoro (art. 12 legge professionale) ha ispirato le norme deontologiche codificate nel 1997 (e nelle successive modifiche). In
questo lento processo di codificazione della deontologia in ambito forense l’avvocatura ha avuto finora soprattutto una funzione passiva. Le norme deontologiche si sono cioè andate precisando e costruendo come risposta sanzionatoria a comportamenti dei professionisti contrari a dignità e decoro.
I tempi sono maturi per pensare anche ad una
funzione attiva dell’avvocatura nei settori sensibili,
come quello del diritto delle persone e della famiglia.
In questa prospettiva agli avvocati e alle loro articolazioni associative può essere chiesto di sollecitare la condivisione di specifici comportamenti professionali (attivi od omissivi) ai quali nel tempo
possa essere attribuita anche valenza di dovere deontologico. In tal modo il comportamento degli avvocati può influire attivamente sulla costruzione di
regole condivise e di norme deontologiche.
Un esempio di questa possibile linea di sviluppo
delle regole deontologiche è costituito dal tema del-
G
4 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
l’audizione del minore. Alla domanda se un avvocato possa avere colloqui con il figlio minore del
proprio assistito senza l’autorizzazione dell’altro genitore già potrebbe oggi rispondersi indicando una
regola (contenuta nell’art. 316 c.c.) che consentirebbe di dare risposta negativa a quella domanda.
Nella prassi, però, l’audizione del minore da parte
dell’avvocato di uno dei genitori nelle cause di separazione è un comportamento molto diffuso. E’
piuttosto evidente il rischio di strumentalizzazione
insito in questo comportamento. Per questo è giusto che sia stata in passato più volte indicata come
regola comportamentale quella che l’ascolto del minore da parte dell’avvocato di uno dei genitori è accettabile solo se avviene con l’autorizzazione di entrambi i titolari della potestà sul minore. Altrimenti
deve essere esclusa. Il sistema disciplinare comincia
a recepire questa indicazione (Cass. Sez. un. 4 febbraio 2009, n. 2637 che ha confermato una decisione
del CNF in materia).
Gli avvocati aderenti all’Osservatorio nazionale
sul diritto di famiglia si atterranno nell’esercizio
della loro professione al rispetto di alcune regole
comportamentali ed auspicano che in futuro possa
essere attribuita a molte di queste regole anche natura giuridica deontologica.
Il rapporto fiduciario che nel tempo si costruisce
tra professionista e cliente ha certamente anche
una valenza deontologica (l’art. 7 del Codice prescrive infatti il dovere di fedeltà sanzionato anche
con una norma penale quale l’art. 380 c.p.) ma potrebbe porsi in potenziale dissonanza con altri doveri anche previsti nel codice deontologico quale
quello di indipendenza (art. 10) e quello di autonomia (art. 36) anche dal proprio assistito. E proprio
nell’equilibrio tra questi doveri che è possibile individuare il comportamento professionale più adeguato rispetto alle esigenze complessive poste da
una causa di diritto di famiglia.
Una prima regola da osservare per un buon equilibrio tra rapporto fiduciario ed autonomia professionale è certamente il dovere di competenza cui fa
già ampio riferimento il codice deontologico. Non è
accettabile che un avvocato che intenda occuparsi
di una causa di diritto di famiglia possa farlo senza
avere in questo settore una competenza adeguata.
Non essere in grado di documentare l’acquisizione
di competenze adeguate può essere senz’altro considerata una violazione deontologica cui potrà collegarsi anche una responsabilità civile ove il mandato abbia cagionato danno all’interessato o a terzi.
Non può non auspicarsi che tutti gli ordini forensi
(non solo quelli distrettuali), con l’obiettivo di garantire la formazione nel settore della difesa in ambito familiare e minorile, mettano in atto specifici
programmi di formazione per difensori curando la
tenuta e l’aggiornamento degli elenchi di avvocati
anche d’ufficio cui attingere per la nomina.
PRIMO PIANO
Diversa è, naturalmente la questione della specializzazione che riguarda i criteri suppletivi che, rispetto alle competenze professionali adeguate per
assumere l’incarico, devono essere garantiti per potersi qualificare specialista.
È importante che gli avvocati impegnati in una
causa di diritto di famiglia sappiano mantenere
sempre alta la capacità di ridefinizione delle richieste del proprio cliente. Gli avvocati partecipano
nella giurisdizione a quella “attuazione dei fini di giustizia” di cui si parla nel preambolo del codice deontologico. Si tratta di una funzione che va al di là di
quella tradizionale di “esperti”. La capacità di ridefinizione è la capacità di valutazione della plausibilità e della congruità di una domanda rispetto al
contesto giuridico e giudiziario in cui deve essere
proposta.
È necessario che nelle cause di diritto di famiglia
gli avvocati tengano in massima considerazione i
legami familiari. Il contenzioso nel diritto di famiglia si ripercuote sui legami familiari e parentali. Il
sistema famiglia è una rete di scambi, legami e relazioni da cui dipende l’equilibrio delle persone. Anche quando i legami sono patologici il problema è
sempre quello di passare da un equilibrio ad un altro. L’obiettivo è superare i legami non distruggerli.
La distruzione dei legami familiari è contraria agli
interessi del proprio assistito e a quello dei figli. Si
possono distruggere legami familiari con una denuncia falsa di abusi sessuali, con l’annientamento
economico dell’altro, con comportamenti di alienazione genitoriale.
L’avvocato impegnato in una causa di diritto di famiglia dovrebbe assumere un paradigma profes-
sionale interattivo al posto di quello tradizionalmente contrappositivo. Se si assume questo punto
di vista molti comportamenti diventano quasi doverosi, anche se la violazione di questi comportamenti in assenza di norme che li prevedano come
dovuti non possono che restare nel campo delle
scelte del professionista. Si tratta quindi di semplici
linee guida. La capacità di interagire con la controparte è in grado di facilitare, ove possibile, la conciliazione, la consensualizzazione, la mediazione, anche nella direzione auspicata dalle attuali deleghe
legislative in materia di conciliazione delle controversie civili.
L’interazione con altri saperi professionali e con
i servizi del territorio è un obbligo per il giurista nel
diritto di famiglia. L’avvocato del minore dovrà avere
capacità di interazione con il minore, con i suoi genitori, con i servizi del territorio.
Lacunosa si presenta la deontologia nell’area del
rapporto tra l’avvocato e il minore. Finora i minori
di età non sono stati oggetto diretto di tutela perché
terzi rispetto al rapporto tra il professionista e il
cliente al quale la potestà disciplinare e il codice deontologico si sono sempre riferiti e fermati. Da qui
l’esigenza di indicare e costruire insieme nuove regole deontologiche in questo ambito.
Gli avvocati aderenti all’Osservatorio nazionale
sul diritto di famiglia rinnovano il loro auspicio affinché intorno al tema della responsabilità dell’avvocato nelle cause di diritto di famiglia si produca
un grande sforzo collettivo dell’avvocatura a salvaguardia rigorosa dei diritti di tutti quanti ne sono
coinvolti.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 5
ZOOM
La sezione di Verona
dell’Osservatorio
Nazionale sul diritto di
famiglia: esperienze e
prospettive
di BARBARA MARIA LANZA,
AVVOCATO DEL FORO DI VERONA, PRESIDENTE DELLA
SEZIONE DI VERONA DELL’OSSERVATORIO NAZIONALE
SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
a sezione di Verona dell’Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia nasce nell’anno
2003 per iniziativa di un gruppo di Colleghi
interessati al diritto di famiglia. La sua costituzione è stata formalizzata in seguito, nel maggio 2005, con atto notarile.
La sezione, oltre che alle finalità proprie della Associazione, si proponeva anzitutto di promuovere,
attraverso una fattiva collaborazione con l’ Università di Verona, Facoltà di Giurisprudenza, incontri di
studio e seminari che approfondissero le tematiche
giuridiche legate al diritto di famiglia; secondariamente, di costituire uno stabile tavolo di confronto
sulle questioni concrete legate all’esercizio dell’attività professionale nel foro veronese.
Nel corso degli anni il gruppo di Colleghi impegnato nell’attività della sezione si è incrementato
passando da cinque iscritti a quarantatre; ciò ha richiesto necessariamente una diversa organizzazione
dell’attività associativa. Si è, pertanto, inteso diversificare l’attività del direttivo, composto dal Presidente, Vicepresidente, segretario, tesoriere e da tre
membri del comitato dei probiviri, cui è stato attribuito il compito di raccogliere le esigenze espresse
dall’assemblea generale che, mediamente, viene riunita due volte l’anno dandovi concreta attuazione.
Ed è proprio con riguardo alla formazione che la
nostra sezione ha saputo raccogliere, costruttivamente, espressioni di criticità che hanno permesso
di individuare percorsi alternativi rispetto alla formazione concepita in senso tradizionale. Sono stati,
quindi, curati aspetti apparentemente collaterali
alla professione forense in ambito familiaristico
come, ad esempio, quelli di tipo psicologico per
L
6 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
avere un corretto approccio alle dinamiche disfunzionali della famiglia.
In questo senso, l’esperienza più significativa si
colloca nel 2005 con un corso di formazione denominato Avvocati allo specchio coordinato da psicologi,
da psicologi infantili e dell’età evolutiva, medici psichiatri, ciascuno con una differente specialità o in
ambito terapeutico o in ambito forense, nonché un
magistrato, il Consigliere Anna Maria Creazzo, che
per anni aveva investito le proprie energie nella sezione famiglia veronese. Proprio per consentire
un’efficace interazione tra i relatori ed i partecipanti, venne deciso di limitare ad 80 il numero degli iscritti.
Il corso si è modulato attraverso quattro incontri
volti ad esaminare le diverse fasi dell’attività professionale di un avvocato familiarista: dal primo incontro tra utente ed avvocato, sino alle fasi più complesse del giudizio, dedicando una sessione particolare a quelle legate all’ammissione della consulenza
tecnica sulla capacità genitoriale delle parti.
A questa esperienza formativa ne è seguita un’altra, da considerarsi come il logico corollario della
prima.
Sono stati organizzati gruppi di lavoro ancora più
ristretti, composti da circa dieci Colleghi ciascuno, coordinati da due dei relatori che hanno formato il
corpo insegnanti del corso Avvocati allo Specchio;
questi hanno sottoposto ai presenti un caso simulato,
ove esperire le dinamiche acquisite durante il seminario attraverso una diretta partecipazione a quella
che doveva definirsi una sorta di prova pratica.
Questa diversa modalità di aggiornamento professionale è stata molto apprezzata dai Colleghi;
tanto è vero che è stata avvertita la necessità di riprodurla, con modalità leggermente differenti, anche rispetto ad argomenti più strettamente tecnicogiuridico.
In questo modo, l’organizzazione degli incontri di
studio in questo settore si è lentamente modificata.
Infatti, inizialmente la sezione si era orientata nel
porre a confronto, su temi giuridici spinosi, il rigore
scientifico della cosiddetta dottrina con l’esperienza
concreta dei magistrati appartenenti alla sezione famiglia del Tribunale di Verona evidenziando, nel
contempo, gli orientamenti del foro veronese.
In seguito, si è cercato di riprodurre la modalità di
interazione, cui si è fatto cenno più sopra, anche rispetto ad argomenti tecnici: così, nell’anno 2008, è
stato organizzato un seminario in cui, dopo una lectio magistralis introduttiva ai partecipanti tenuta dal
prof. Ruscello, circa 60 Colleghi si sono suddivisi in
tre gruppi di lavoro.
A ciascun gruppo, coordinato da tre magistrati che
si occupano di diritto di famiglia, Consigliere Anna
Creazzo, Dottoressa Agnese Di Girolamo e Dottor Antonio Scalera, è stato sottoposto un caso simulato su
questioni di diritto sostanziale o processuale piutto-
ZOOM
sto dibattute; la discussione, guidata dai tre coordinatori, ha consentito un confronto diretto, spesso acceso, tra tutti i partecipanti. Completato il lavoro, i tre
magistrati hanno relazionato l’assemblea sia sul caso
sottoposto all’esame dei Colleghi, sia sui diversi
orientamenti emersi in sede di discussione.
In una prospettiva che riassume le due esperienze
sopra accennate, più complessa è apparsa l’elaborazione, allo stato ancora in fase di studio ed elaborazione dall’attuale direttivo, di un vero e proprio
processo simulato con osservatori esterni, un magistrato ed uno psicologo, in cui distribuire, all’interno
Breve intervista al dott. Giuseppe Iannetti, Presidente
della I Sezione Civile del Tribunale di Verona
a cura di GUIA FACCINCANI ZIGIOTTO,
AVVOCATO
erona ha avuto per lungo tempo il primato del numero di separazione e divorzi in rapporto alla
popolazione del territorio. Ormai da qualche anno nella nostra città vi è una sezione specializzata in tale materia che ha contribuito a meglio organizzare il lavoro sia dei magistrati che degli avvocati creando delle sinergie che si sono rivelate estremamente utili.
V
Signor Presidente lei ha maturato una lunga esperienza in campo giuridico e da tempo si occupa dei contenziosi relativi alla materia familiare. Nel ringraziarla per aver accettato questa intervista le chiedo se può
dirci, per la sua esperienza, dall’entrata in vigore delle leggi 54/06 e 80/06 ad oggi come si sono modificati
i procedimenti di separazione e divorzio? Il provvedimento di affido condiviso le pare abbia contribuito a diminuire la litigiosità tra i coniugi-genitori?
La principale novità che introdotta dalla legge 54/2006 che ha disposto l’affidamento condiviso della
prole ad entrambi i genitori quale regola generale ha sicuramente semplificato la fase presidenziale dei
procedimenti di separazione giudiziale. Su tale scelta nascevano discussioni interminabili che ostacolavano una rapida decisione. Dopo una prima fase, ancora conflittuale sul tema, trascorso qualche mese,
di fronte alla mia fermezza nell’applicazione della nuova norma, le diatribe sono cessate. I contrasti
sulla scelta sussistono ancora solo eccezionalmente.
Le richieste di modifica delle condizioni di separazione e divorzio a seguito della legge richiamata hanno
subito delle variazioni?
Dopo l’entrata in vigore delle leggi 54/2006 e 80/2006 sono stati presentati pochissimi ricorsi per la modifica del regime di affidamento della prole che nella quasi generalità era in precedenza quello esclusivo ad uno dei coniugi. Da ciò deduco che prima i contrasti erano pretestuosi strumentali ad altre domande…
Ed il rapporto con i Servizi sociali, che a Verona è di grande collaborazione, è rimasto invariato o si fa maggiormente ricorso all’intervento delle strutture pubbliche per il percorso di sostegno alla genitorialità o per
interventi di mediazione?
I Servizi sociali sia prima che dopo l’entrata in vigore delle due leggi succitate hanno sempre dato la
massima collaborazione. Il loro intervento è rimasto invariato.
Infine, Presidente, un suo breve parere in merito all’opportunità dell’ascolto del minore nei procedimenti
di separazione e divorzio. Verona lo valuta come un’opportunità? E’ uno strumento che i magistrati utilizzano in modo frequente?
Pur essendo certa e fuor di dubbio l’importanza del diritto del minore ad essere sentito nei procedimenti di separazione, ho fatto ricorso all’esame diretto del minore sempre con grande attenzione e prudenza per evitare di gravare i minori di esperienze sostanzialmente insopportabili. Il tema è stato a
lungo dibattuto da giudici ed operatori sociali tanto che di recente è stato sottoscritto un protocollo
sulle modalità di ascolto.
Spesso sono gli stessi genitori che si oppongono all’ascolto dei loro figli. Questo Tribunale vi fa ricorso
solo molto raramente e più spesso delega l’ascolto agli operatori sociali o al consulente tecnico d’ufficio.
Nella mia esperienza devo riconoscere che tutte le volte in cui il minore è stato sentito, l’esame diretto è risultato efficace e, a volte, risolutivo.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 7
ZOOM
del gruppo coinvolto, i ruoli delle parti processuali:
il Giudice, le parti e gli avvocati, oltre alla ristretta
partecipazione di avvocati che dovrebbero interagire
attraverso la discussione.
La sezione ha poi ritenuto di organizzare, nel corso
di questi anni, degli incontri pratici la cui partecipazione è stata limitata ai soli iscritti per riuscire d interagire con il professionista che, di volta in volta, è stato
individuato: un commercialista, un mediatore familiare, il Conservatore dei Registri immobiliari, ecc..
Tale incontri sono stati originati dalla necessità di
aiutarci, quali avvocati della famiglia, a comprendere aspetti della vita professionale spesso ostici,
come ad esempio la corretta lettura della dichiarazione dei redditi, o di una visura immobiliare.
Quanto sopra riassume, in modo sintetico, il percorso della sezione veronese in quasi sette anni di
operatività.
Tenuto conto delle difficoltà che si sono incontrate nel conciliare l’attività professionale con
quella associativa, ritengo che l’impegno di tutti abbia condotto ai positivi risultati registrati.
Infatti, molte delle iniziative promosse dalla nostra sezione sono state delegate, soprattutto nell’ultimo biennio, agli associati che, unitamente ad un
membro del direttivo, si sono assunti la responsabilità di organizzare un incontro di formazione, in
senso tradizionale, anche se di fondo si è condivisa
la necessità di limitare il numero dei partecipanti;
in questo modo la Collega Erminia Contini si è occupata di deontologia, mentre le Colleghe Brunella
Tenuta e Maria Adelaide Cacciali, degli orientamenti
del foro veronese in ambito penalistico che coinvolgono il diritto di famiglia.
Questa è stata, dunque, l’attività svolta dalla sezione in questi anni; come Presidente, ormai al termine del mio incarico e come membro del direttivo
uscente, pur tra le innegabili difficoltà incontrate,
non posso che trarre un giudizio sostanzialmente
positivo dell’attività svolta ed augurarmi che la sezione possa evolvere nel solco tracciato.
“Progetto Valore Prassi” e
“Protocollo per il processo
di famiglia”
Il progetto “Valore Prassi” nasce a Verona il 26 febbraio 2005 per volontà di alcuni magistrati ed avvocati del Foro Veronese che, sulla scorta delle esperienze di altri Fori, intendono perseguire il fine, nell’ambito del diritto e della giustizia, di promuovere iniziative, collaborare con autorità, enti ed associazioni,
compiere ed incoraggiare studi e pubblicazioni, svolgere attività di seminari, tavole rotonde e convegni,
promuovere e favorire scambi di informazioni di interesse comune tra osservatori del diritto e qualsivo8 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
glia associazione o ente che operi in tale ambito. L’elaborazione di protocolli delle “prassi virtuose” condivise nel Foro Veronese nelle varie materie, destinati
ad agevolare il buon andamento della giustizia, rappresenta, a mio avviso, il lavoro primario svolto da tale
associazione. Alla nascita di “Valore Prassi” la realizzazione di tali “protocolli” era stata definita dagli
stessi fondatori come un’idea ambiziosa e di primaria
importanza; attraverso e grazie al leale, e talvolta acceso, confronto tra magistrati, avvocati, personale di
cancelleria e ufficiali giudiziari, l’intento è stato pienamente raggiunto ed anzi ha portato all’elaborazione non solo di un protocollo sulla procedura civile,
ma anche ai protocolli sulle udienze avanti il Giudice
di Pace, sulla prassi fallimentare, sulle esecuzioni immobiliari, all’elaborazione delle tabelle per il risarcimento del danno non patrimoniale alle persone e al
protocollo per il processo di famiglia.
La necessità di un Protocollo in materia di diritto
di famiglia era da tempo fortemente sentita sia da
parte degli avvocati che si occupano prevalentemente di questa delicata materia che da parte dei
magistrati della “sezione famiglia” del nostro Tribunale, e ciò non solo per le ragioni che sottendono le
prassi virtuose osservate in altri ambiti del diritto,
ma anche perché in situazioni complesse dal punto
di vista emotivo, tutto ciò che va nel senso di ridurre
i tempi di gestione del contenzioso, agevolando l’attività dei professionisti, serve per abbassare una soglia di tensione già di per sé elevata. E’ un lavoro del
quale sia noi avvocati che i giudici andiamo molti
fieri, anche perché è il primo Protocollo redatto sul’argomento “processo di famiglia” in Italia.
Nella elaborazione del “Protocollo per il processo
di famiglia” si è proceduto dapprima a capire quali
erano gli aspetti maggiormente significativi da trattare; una volta determinati gli argomenti, i partecipanti, avvocati e magistrati della “sezione famiglia”,
si sono divisi in gruppi di lavoro, ciascuno con il
compito di analizzare le problematiche relative all’argomento assegnatogli e di elaborare le indicazioni valutate come opportune al fine di rendere più
agevole e semplificato questo tipo di processo.
Le difficoltà che gli operatori hanno incontrato
nell’elaborazione, erano principalmente riconducibili alle diverse impostazioni di ciascun partecipante e al fatto che si trattava della prima sperimentazione in Italia, ma tali difficoltà sono state superate grazie alla volontà unanime di raggiungere
lo scopo di cui ho detto prima e grazie anche alla
sensibilità dimostrata dagli avocati e dai magistrati
partecipanti al tavolo che si sono confrontati e
hanno collaborato in piena armonia.
Come potete vedere leggendo il contenuto del Protocollo, il lavoro è stato particolarmente impegnativo e, non lo si può negare, di grande significato.
Purtroppo, non viene ancora del tutto rispettato
ma si stanno valutando i sistemi migliori per poter
ZOOM
far sì che, soprattutto gli avvocati, lo conoscano e lo
mettano in pratica.
Questo Protocollo non ha la pretesa di essere
esaustivo, anche perché nel mentre veniva elaborato gli operatori si rendevano conto che altri aspetti
meritavano di essere analizzati e valutati.
Ad oggi è in fase di rielaborazione il protocollo
sulla C.T.U. in ordine alla capacità genitoriale, anche
al fine di creare un testo che sia condiviso anche con
i diversi Ordini Professionali che ne devono essere
coinvolti (medici, psicologi e assistenti sociali). E’
stato creato un Comitato Scientifico, cui partecipano
magistrati, avvocati, medici, psichiatri, psicologi e
psicologi dell’età infantile ed evolutiva, che ha il
compito di promuovere il coordinamento tra i diversi Ordini per l’elaborazione di un nuovo protocollo. Il Protocollo per il processo di famiglia è, in
sintesi, solo un primo passo, modificabile e perfezionabile, affinché, attraverso il continuo confronto
e dialogo tra i protagonisti tutti di questo delicato
processo si possa giungere ad offrire un concreto
contributo al miglioramento di questo ramo della
giustizia che, più di tutti gli altri, coinvolge i sentimenti e le emozioni di tutti i soggetti coinvolti
PROTOCOLLO PER IL PROCESSO DI FAMIGLIA
Premessa
Sono state individuate le seguenti
Norme di comportamento di carattere generale
a) le parti indichino ex art. 133 secondo comma e
134 cpc terzo comma il numero di fax o l’indirizzo di
posta elettronica presso cui dichiarano di voler ricevere gli avvisi;
b) le parti indichino l’indirizzo ed il numero di telefono e/o di cellulare del proprio assistito al fine di
fornire alla cancelleria ed ai Servizi Sociali un recapito cui fare riferimento in caso di indagini sociofamiliari e tutte le volte in cui il Tribunale disponga
l’apertura di un fascicolo del Giudice Tutelare;
c) i difensori delle parti, al fine di assicurare il contradditorio sulle rispettive domande ed istanze, nonché di evitare di aggravare la Cancelleria con richieste di rilascio di copia degli atti e documenti, si
scambino gli scritti difensivi e i documenti allegati
direttamente via fax o e-mail entro i termini indicati.
Sez. I) FASE PRESIDENZIALE
(artt. 706-709 c.p.c. 4 legge div.)
A) RICORSO
È auspicabile:
- che il ricorso contenga tutte le domande rispetto
alle quali il Presidente debba assumere i provvedimenti; il ricorso dovrebbe, comunque, essere essenziale nel contenuto; sarà, naturalmente, opportuno
indicare le cause della separazione, tra cui gli eventuali inadempimenti del coniuge convenuto ai doveri nascenti dal matrimonio;
- che il ricorso contenga nella prima facciata espositiva la scheda rappresentativa della situazione
anagrafica della famiglia e l’attività lavorativa dei
coniugi, secondo lo schema allegato (All. A);
- che il ricorrente alleghi le dichiarazioni dei redditi degli ultimi 2 anni, con la prova del deposito
della dichiarazione all’Agenzia delle Entrate competente; in mancanza della dichiarazione dei redditi o CUD, o nel caso in cui l’attività lavorativa dipendente sia iniziata in tempi recenti sicché non si
possa ancora fruire di un CUD o del 730, si dovranno
depositare copia del contratto di lavoro e le buste
paga, per dimostrare l’attuale redditività;
- che si alleghi, altresì, anche la documentazione
relativa ai redditi percepiti dai figli conviventi: in
tale caso è comunque sufficiente presentare una dichiarazione sulle attività svolte e sui redditi percepiti dei medesimi .
- che il ricorrente depositi:
eventuali titoli di proprietà, atti notarili relativi a
diritti reali su beni immobili;
documentazione relativa a partecipazioni societarie (è sufficiente anche un’autodichiarazione circa
le proprie partecipazioni societarie).
- che il ricorrente, trattando le questioni patrimoniali, si faccia carico di specificare la redditività al
netto di imposte (comprese le addizionali regionali
e comunali) e gli oneri deducibili previdenziali (che
sono normalmente indicati nel quadro RN subito
dopo il “reddito complessivo”).
B) DECRETO FISSAZIONE UDIENZA
È auspicabile che il Presidente:
1) fissi l’udienza avanti a sè, che deve essere tenuta entro 90 giorni dal deposito del ricorso, salvo
abbreviazioni dei termini (solo nei casi di effettiva
necessità ed, in particolare, in presenza dei figli minori con situazioni a rischio per gli stessi), da richiedere unitamente ad un’ istanza da depositare
separatamente al ricorso;
2) assegni al convenuto termine fino a 15 giorni
prima dell’udienza per il deposito di memoria difensive e documenti (atto con le medesime caratteristiche del ricorso introduttivo).
Si raccomanda che in questa parte del decreto
venga evidenziata con caratteri più grandi ed in neretto la possibilità di farsi assistere da un difensore,
che, nel caso in cui sussista il requisito reddituale di
legge (attualmente il reddito minimo è di Euro
9.700,00), può essere nominato a spese dello Stato
C) COMPARIZIONE DEL CONVENUTO ASSISTITO
DA DIFENSORE
1) Il convenuto depositerà memoria difensiva
(che si auspica contenga tutte le domande e sia esnovembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 9
ZOOM
senziale nell’esposizione dei fatti e contenga tutti i
dati precisati da inserire nel ricorso), nel termine di
15 giorni prima dell’udienza.
2) Quando il convenuto si costituisca all’udienza
depositando mandato e memoria, il difensore dello
stesso dovrà doverosamente darne tempestiva comunicazione, appena ricevuto l’incarico, al difensore del ricorrente.
3) Il Presidente procede all’audizione dei coniugi e:
- se il ricorrente non chiede un termine per replicare, emette i provvedimenti provvisori ed urgenti in udienza o si riserva.
- se il ricorrente chiede un termine per replicare,
il Presidente si riserva, assegnando termini di 7
giorni al ricorrente per il deposito di repliche e di
ulteriori 7 giorni al resistente.
D) COMPARIZIONE DEL CONVENUTO SENZA L’ASSISTENZA DI DIFENSORE
1) Il Presidente può procedere all’audizione del
convenuto che si presenti privo di difensore se il
convenuto stesso, avvertito della possibilità di munirsi di difensore, vi rinunci.
2) Se il Presidente ravvisa motivi di opportunità in
considerazione del contenuto della discussione che
si svolge avanti a sè, può invitare il convenuto a munirsi di difensore e concedergli apposito termine.
3) Qualora il convenuto faccia presente che vuole
aderire alle domande del ricorrente, o assieme al ricorrente faccia presente di aver raggiunto un’intesa
per la trasformazione del procedimento da giudiziale a consensuale, il Presidente ne raccoglie la volontà in tal senso espressa e redige processo verbale
di trasformazione contenente le condizioni per la
separazione consensuale.
E) MANCATA COMPARIZIONE DEL CONVENUTO
Nei casi in cui il Presidente ne ravvisi l’opportunità, anche a prescindere dalla regolarità formale
della notifica, potrà disporre la rinnovazione della
notifica del ricorso e del decreto fissando una nuova
udienza e scegliendo le modalità di notifica funzionali alla garanzia del contraddittorio.
F) SVOLGIMENTO DELL’UDIENZA PRESIDENZIALE
1) Qualora il Presidente lo ritenga opportuno e i
coniugi siano d’accordo, procederà a sentire i coniugi anche senza la presenza dei rispettivi difensori, sia separatamente sia congiuntamente.
2) Nel caso in cui il Presidente debba adottare
provvedimenti riguardanti l’esercizio della genitorialità, applicherà il protocollo sull’ascolto dei minori, che viene allegato alla presente sezione (All. B)
sottoscritto il 25.1.2008 dal Tribunale di Verona dai
Servizi Sociali, da AIAF e da Osservatorio sul Diritto
di Famiglia.
3) Sempre al fine di emettere i provvedimenti più
opportuni nell’interesse della prole il Presidente di10 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
sporrà accertamenti da parte dei Servizi Sociali o si
servirà dell’ausilio di una CTU, che potrà essere disposta con immediatezza se il caso lo esiga.
4) Nel caso in cui il Presidente differisca l’udienza
per favorire intese conciliative, i difensori dovranno
comunicarsi eventuali assenze nelle udienze successive e comunicarle alla cancelleria che ne dia avviso al Presidente.
G) ORDINANZA E FISSAZIONE UDIENZA ex ART.
709 c.p.c.
Nell’indicare l’udienza avanti il Giudice Istruttore
(da fissarsi non prima di trenta giorni liberi ex art
163 bis c.p.c.), il Presidente stabilisce la data entro cui
l’ordinanza deve essere notificata, laddove il convenuto non si sia costituito e stabilisce il termine entro
il quale il ricorrente dovrà depositare in cancelleria
la memoria integrativa (non meno di 20 giorni prima
di detta udienza), nonché termine al convenuto per
la costituzione in giudizio (al massimo entro 10
giorni prima dalla data di detta udienza).
È auspicabile che anche dette memorie ed i relativi
documenti siano non solo depositati, ma scambiati
con il collega di controparte via fax o e-mail sempre
nel rispetto dei termini concessi dal giudice.
I) SUPPORTI INFORMATICI
1) Si raccomanda che gli avvocati si muniscano di
dischetto (floppy disc) contenente il modello di sentenza di divorzio congiunto compilato in ogni sua
parte e disponibile in Internet al sito www.ordine
avvocati.vr.it.
2) Nei procedimenti giudiziali di separazione o di
divorzio, che vengano definiti a conclusioni congiunte, si raccomanda che gli avvocati forniscano al
G.I., al momento della precisazione delle conclusioni, dischetto contenente il file delle conclusioni,
da stampare, leggere e sottoporre alla firma delle
parti in udienza.
3) I dischetti verranno poi restituiti dalla Cancelleria unitamente al fascicolo di parte.
PROTOCOLLO SULL’INTERPRETAZIONE E
APPLICAZIONE. LEGGE 8 FEBBRAIO 2006, N. 54 IN
TEMA DI ASCOLTO DEL MINORE
Articolo 155 sexies
“Il giudice dispone l’audizione del minore che abbia
compiuto i dodici anni e anche di età inferiore ove capace
di discernimento”
considerato
- che la norma in esame ha elevato a regola l’audizione del minore nei procedimenti di separazione
e divorzio, peraltro già prevista dalle precedenti convenzioni internazionali; (art. 12 e 3 Convenzione di
New York e Strasburgo)
ZOOM
L’ascolto del minore potrà non essere disposto dal
Giudice sia quando le parti gliene manifestino
l’inopportunità, sia quando il Giudice ritenga, richiesto da taluna delle parti o dal minore ultra dodicenne, che per le particolari circostanze del caso,
non sia rispondente all’interesse del minore stesso.
Al fine di decidere se procedere o meno all’audizione del minore infradodicenne, il Giudice potrà
avvalersi della competenza di un esperto, ausiliario
ex art. 68 cpc.
- che in virtù dell’art. 4, comma 2 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, detta previsione deve trovare applicazione anche nei procedimenti di scioglimento,
di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonchè nei procedimenti relativi ai figli di
genitori non coniugati;
- che, peraltro, affinchè l’audizione nel processo
costituisca per il minore un’effettiva opportunità di
esprimere propri bisogni e desideri, è necessario che
si proceda all’ascolto con modalità adeguate e rispettose della sua sensibilità, nel rispetto del principio della minima offensività;
- che, specie nel caso di procedimenti con alta
conflittualità fra le parti, occorre prestare la massima cautela onde evitare che l’audizione del minore diventi occasione di pericolose strumentalizzazioni e suggestioni ad opera dei genitori e di terzi;
- che, peraltro, al fine di garantire una corretta applicazione del disposto ex art. 155 sexies si auspica che
vengano fissati alcuni criteri interpretativi di base;
- che si auspica che detti criteri ed indicazioni
vengano rispettati per l’ascolto del minore in tutte le
procedure civili che lo riguardano;
Limiti dell’ascolto
Fermo restando che l’ascolto:
a) rappresenta per il minore un’occasione per
esprimere le proprie opinioni, i propri dubbi, le proprie incertezze, le proprie paure;
b) è uno strumento per consentire al Giudice di
formarsi un’opinione più completa del caso sottoposto alla sua valutazione;
c) non è un mezzo di prova,l’ascolto stesso dovrà
essere disposto unicamente nei procedimenti contenziosi di diritto di famiglia; nel caso di procedimenti consensuali, l’ascolto potrà essere disposto
soltanto laddove particolari circostanze del caso lo
rendano opportuno.
In ogni caso, l’ascolto del minore potrà essere disposto solo nei casi in cui debbano essere presi provvedimenti che riguardino l’affidamento, le modalità
di esercizio della genitorialità e tutte le decisioni relative ai figli, eccettuate le ipotesi in cui la controversia riguardi esclusivamente gli aspetti economici
Tempi dell’ascolto giudiziario
L’ascolto del minore dovrà essere disposto ad
udienza fissa da stabilirsi di preferenza fuori dall’orario scolastico, in ambiente adeguato e a porte
chiuse in modo tale da garantire la massima riservatezza e tranquillità al minore.
Ascolto diretto e “competenze integrate”
È auspicabile che il Giudice titolare della procedura proceda all’ascolto, previa adeguata conoscenza della situazione della famiglia e delle condizioni del minore, avvalendosi se del caso di un ausiliario ex art. 68 c.p.c. esperto in scienze psicologiche o pedagogiche.
Luogo dell’audizione e verbalizzazione
È auspicabile che l’audizione si svolga presso l’Ufficio Giudiziario competente in una apposita stanza
idonea ad accogliere un minore.
L’incontro sarà verbalizzato anche in forma sommaria ed il minore avrà il diritto di leggere e di sottoscrivere il verbale, che sarà messo con immediatezza a disposizione delle parti.
Presenza delle parti e dei difensori
L’audizione si svolgerà da parte del Giudice titolare della procedura, assistito dal Cancelliere, in presenza dell’eventuale ausiliario e, in caso di nomina,
del difensore del minore o del curatore dello stesso.
Nel caso in cui uno o entrambi i difensori chiedano di essere presenti all’audizione, il Giudice
provvederà motivando in merito.
In ogni caso, prima dell’audizione, i legali delle parti
potranno sottoporre al Giudice i temi e gli argomenti
sui quali ritengono opportuno sentire il minore.
Se il minore richiederà espressamente la presenza
di un genitore o di entrambi o di una persona
esterna al nucleo familiare in ossequio al diritto ad
un’assistenza affettiva e psicologica, questa richiesta, anche in considerazione dell’età del minore, dovrà comunque essere valutata dal Giudice.
Qualora venga disposta l’audizione di più fratelli, il
Giudice valuterà se ascoltarli separatamente o assieme
Informazione
Prima dell’audizione il minore dovrà essere adeguatamente informato dal Giudice del suo diritto ad
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 11
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essere ascoltato nel processo, dei motivi del suo
coinvolgimento nello stesso, nonchè dei possibili
esiti del procedimento, precisando che tali esiti non
necessariamente saranno conformi a quanto sarà
da lui eventualmente espresso o richiesto.
Prima dell’audizione del minore il Giudice fornirà
ai genitori ed agli avvocati indicazioni al fine di comunicare in modo corretto al minore tempi e modalità di ascolto.
Doveri di astensione dell’avvocato ed informazioni
delle parti
In ogni caso, l’avvocato dei genitori del minore che
deve essere ascoltato od eventuali loro consulenti
non devono strumentalizzare la propria funzione
per incidere sulla spontaneità del minore.
L’avvocato dovrà invitare i suoi assistiti ad un atteggiamento responsabile nei confronti del minore
evitando ogni forma di suggestione e di induzione
della volontà, invitandoli espressamente ad astenersi
dal rammostrare al minore qualsiasi atto processuale.
L’avvocato dei genitori ed i consulenti nominati
dalle parti si faranno lealmente carico di evitare
ogni attività che incida sulla spontaneità del minore.
Sez. II) LA CTU IN AMBITO FAMILIARE
Atteso che la consulenza tecnica nei giudizi che
hanno per oggetto il diritto di famiglia può definirsi come un atto medico-diagnostico finalizzato
alla valutazione delle relazioni familiari e, se ritenuto necessario, dei suoi componenti, tutte le parti
coinvolte nell’utilizzo di detto strumento dovranno
assumere come scopo primario il benessere psicofisico della prole.
Vista la peculiarità e le finalità cui è diretto detto
mezzo istruttorio, sono state tracciate le seguenti linee guide al cui rispetto nell’applicazione sono
chiamate tutte le parti coinvolte nel processo.
È auspicabile, nel caso in cui occorra il contributo di
professionisti aventi competenze specifiche diverse,
che al CTU sia affiancato uno specialista il quale - a
propria volta- presti giuramento come consulente
tecnico d’ufficio affinché assuma posizione paritetica
e autonoma al CTU sia in ordine ai profili di responsabilità e di garanzia di un valido contraddittorio tra
le parti sia in ordine alla liquidazione delle spese.
È auspicabile che, nell’affidare l’incarico al perito, il
Giudice autorizzi le visite domiciliari, quelle scolastiche, i colloqui con i familiari e, più in generale, tutte
quelle attività che consentano al perito di cogliere la
reale situazione del minore, acquisendo informazioni
nei contesti sociali in cui il minore è inserito. Di tutte
queste operazioni il CTU dovrà avvertire i consulenti
di parte, per consentirne la partecipazione e dovrà
raccogliere il consenso dei periziandi all’eventuale
somministrazione dei tests diagnostici.
12 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
È auspicabile che i procuratori, nell’individuare il
perito di parte, indichino un consulente che non sia
anche terapeuta del proprio assistito, fornendo al
primo ogni informazione ritenuta utile allo svolgimento delle operazioni peritali.
È auspicabile, attesa la peculiarità del mezzo
istruttorio, che il legale informi il proprio patrocinato delle indagini che verranno svolte, delle conseguenze che ne potrebbero derivare, dei tempi di
stesura della perizia, dei costi che detto percorso
comporterà anche in relazione alla eventuale nomina di uno o più periti di parte.
È auspicabile che il Giudice:
a) nell’ordinanza con la quale ammette la CTU,
formuli il quesito (All. C – modelli di quesito meramente indicativi) ed indichi i riferimenti identificativi conosciuti del consulente non iscritto all’Albo;
b) all’udienza di conferimento dell’incarico o in
sede di formulazione del quesito:
- indichi al Ctu (come, peraltro, doveroso per ogni
consulenza – vedasi art. 7 del Protocollo dei processi
civili, richiamato nella sessione “Questioni Patrimoniali”) di trasmettere una prima bozza dell’elaborato
(prima del suo deposito) ai consulenti di parte, assegnando loro un congruo termine per le osservazioni, per poi prendere posizione su di esse prima
della stesura definitiva dell’elaborato peritale;
- conceda alle parti un termine per il deposito di
note finali sulla Ctu fino a dieci giorni prima dell’udienza di rinvio;
- evidenzi al Ctu la necessità del rispetto del termine concesso per il deposito dell’elaborato peritale
e le conseguenze del mancato rispetto di tale termine (riduzione dell’onorario a norma dell’art. 52
D.P.R. 115/2002).
È auspicabile che i tempi per la redazione della perizia siano contenuti in quelli strettamente necessari
per fornire al Giudice le informazioni utili per assumere i provvedimenti più opportuni. Nelle situazioni
di particolare gravità il Giudice inviterà i CTU a depositare in tempi brevi una sintetica relazione (da integrare poi con la perizia conclusiva) che gli consenta
di assumere in via di urgenza le statuizioni del caso.
È auspicabile che nel conferimento dell’incarico il
Giudice inviti il CTU a registrare - almeno con supporto audio - gli incontri tra le parti; conformemente alla deliberazione n. 46/2008 del Garante per
la protezione dei dati personali; detto materiale,
unitamente a quello raccolto durante la consulenza
e a quello consegnatogli dal Giudice, dovrà essere
allegato alla perizia da depositare in tante copie
quante sono le parti costituite.
È auspicabile che la liquidazione delle spese della
consulenza venga fatta dopo il deposito della relazione e, se possibile, previo esame e discussione
della notula tra i procuratori delle parti ed il Giudice
nel corso della prima udienza successiva al deposito della richiesta di liquidazione dal parte del CTU.
ZOOM
ESEMPI DI QUESITI
In ogni quesito, come sopra precisato sub 2) è auspicabile che il Giudice autorizzi le visite domiciliari, quelle scolastiche, i colloqui con i familiari e,
più in generale, tutte quelle attività che consentano al CTU di cogliere la reale situazione del minore, acquisendo informazioni nei contesti sociali
in cui il minore è inserito
I “Dica il Consulente Tecnico d’ufficio, esaminati
gli atti, sottoposte ad ogni opportuna e necessaria
indagine psicologica le figure del minore, dei genitori e quelle dei terzi significativi nella vita dello
stesso, quali siano i rapporti tra essi intercorrenti.
Evidenzi inoltre, sentiti i servizi territoriali eventualmente interessati, ed acquisita ogni opportuna documentazione, quale sia la collocazione più idonea
per il minore e quali possano essere le modalità più
adeguate per la migliore concretizzazione delle risorse educative dei genitori.Precisi le più opportune
modalità di contatto tra gli stessi ed il figlio e svolga
ogni altra considerazione utile ai fini di Giustizia.”
II “Letti gli atti, sentite le parti, svolte le indagini
del caso, riferisca il CTU in merito alle caratteristiche dei due contesti materno e paterno nei quali
evolve il figlio minore con particolare riguardo:
a) alla personalità del minore ed alla relazione da
esso instaurata con ciascun genitore e relativo contesto ambientale;
b) alla personalità dei genitori ed alle loro risorse
individuali nello svolgere adeguatamente la funzione genitoriale.
Valuti, inoltre, il CTU se sussistano i presupposti
per far raggiungere ai genitori un accordo conciliativo sull’affido del figlio.
Formuli quindi delle ipotesi circa le capacità e le
potenzialità esprimibili da parte dei genitori e loro
contesti nel garantire al minore le condizioni ottimali per una crescita armonica della sua personalità
nel reciproco rispetto di una genitorialità responsabile, prospettando, in concreto, in relazione a quanto
sopra, ipotesi di affidamento e modalità di visita per
il genitore non affidatario.
III “Esaminati gli atti e la documentazione di
causa, sottoposti i genitori e i minori ai necessari accertamenti psicologici, anche avvalendosi dell’ausilio di altri specialisti, compiuti i sopralluoghi nelle
abitazioni di uno e dell’altro coniuge, assunte le opportune informazioni da terzi ivi compresa la Pubblica Amministrazione, espletate tutte te indagini
necessarie ed opportune, accerti ed indichi il CTU:
1. la natura della personalità di minori e genitori
e la natura dei rapporti tra di essi intercorrenti fornendo ogni elemento utile al fine di stabilire quale
sia la situazione pio adeguata in merito all’affidamento dei minori, nell’esclusivo loro interesse e in
base alle esigenze morali, materiali e paico-evolutive degli stessi;
2. se sussistano i presupposti per far raggiungere
ai genitori un accordo conciliativo sull’affido dei figli;
3. quali siano le modalità concrete più opportune
per il genitore non affidatario di periodicamente vedere e tenere con sé i figli.
Accerti, inoltre, il CTU l’esistenza di univoci elementi in base ai quali reputare la condotta di uno o
di entrambi i genitori direttamente pregiudizievole
per i minori.
Sez. III) LE QUESTIONI PATRIMONIALI
A) Produzioni documentali relative ai redditi
Ai fini della prova dei redditi e della razionalizzazione del processo, il difensore avrà cura di produrre
le dichiarazioni complete e aggiornate dei redditi
(mod 730 o Unico) della parte assistita non solo unitamente agli atti predisposti nella fase presidenziale,
ma anche nella fase successiva avanti il GI curandone
l’aggiornamento per i successivi periodi d’imposta.
È auspicabile che le indicazioni di cui al punto
precedente siano osservate dai difensori e che il
Giudice nell’adozione dei provvedimenti ordini alle
parti di depositare le dichiarazioni aggiornate anno
per anno per tutta la durata del processo.
È auspicabile, altresì, che la produzione delle dichiarazioni dei redditi sia corredata dalla certificazione dell’avvenuto deposito o invio telematico delle
stesse da parte di soggetto autorizzato all’invio o al
deposito (commercialista, patronato…).
B) Definizione delle cd. spese straordinarie dei minori
È auspicabile che i difensori delle parti non si limitino ad utilizzare il termine” spese straordinarie” e
provvedano, invece, ad indicare in modo dettagliato
quali siano le ulteriori spese, rispetto al contributo
fisso mensile, che i coniugi dovranno corrispondere
pro quota (es. spese mediche e/o specialistiche non
coperte dal SSN, spese per l’iscrizione scolastica, acquisto libri e materiali scolastici, gite scolastiche,
corsi di lingua e/o sportivi, centri estivi ecc…).
Dette spese potranno meglio essere precisate,
sempre osservando le indicazioni di cui al punto
precedente, suddividendole in medico-sanitarie,
scolastiche, parascolastiche, extrascolastiche.
È, altresì, auspicabile che siano indicate le modalità del pagamento fra i coniugi e specificato che, nel
caso di spese medico-sanitarie, esse non necessitano di essere previamente concordate qualora urgenti, fermo restando il rispetto della reciproca tempestiva informazione.
È infine auspicabile che le indicazioni di cui ai precedenti punti siano osservate sia dai difensori nella
predisposizione delle condizioni concordate fra i coniugi nei casi di separazione consensuale e di divorzio congiunto, ovvero nelle richieste conclusive
delle cause giudiziali, sia dal Presidente nell’emanovembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 13
ZOOM
nazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti,
sia dal Giudice estensore nelle sentenze o nei provvedimenti conclusivi dei procedimenti ex art. 710
cpc. e/o ex art. 9) L. 898/70.
Qualora si manifestasse l’opportunità di evitare,
in tema di ripartizione delle spese, un’eccessiva
conflittualità tra le parti, il Giudice potrà quantificare forfettariamente l’entità di tali spese da porre
in tutto o in parte a carico della parte onerata.
C) Assegni familiari
È auspicabile che, in ipotesi di affido condiviso, i
difensori delle parti, laddove ricorrano i presupposti di legge, diano atto nelle condizioni di separazione consensuale o di divorzio congiunto, dell’eventuale accordo delle parti per l’erogazione degli
assegni familiari a favore dell’uno o dell’altro genitore e ciò al fine di individuare il genitore beneficiario degli assegni in modo da far decorrere tale erogazione dalla data dell’ omologa o della sentenza,
anziché dalla successiva presentazione dello stato
di famiglia così come modificatosi a seguito del
provvedimento presidenziale.
In caso di mancato accordo nel termine di cui sopra, e’ altresì auspicabile che, in caso di separazione
giudiziale, i difensori delle parti chiedano che il Giudice indichi la data entro cui il genitore non collocatario della prole e non assegnatario dell’abitazione familiare sia tenuto ad allontanarsi onde consentire al genitore collocatario, in caso di effettivo
rilascio dell’abitazione familiare da parte dell’altro
genitore, ma in difetto di formale trasferimento
della residenza da parte di quest’ultimo, di attivare
la procedura per lo spostamento della residenza, al
fine di far decorrere la corresponsione degli assegni
familiari a proprio favore sin dalla data stessa del
rilascio dell’abitazione familiare.
D) Ordine di esibizione e richiesta di informazioni
È auspicabile che i difensori delle parti forniscano
con precisione gli elementi identificativi dei documenti di cui si chiede l’esibizione e i maggiori dettagli possibili relativamente all’oggetto della richiesta di informazioni.
E) La consulenza tecnica contabile, estimativa sugli immobili
Il Giudice, qualora disponga una consulenza patrimoniale, laddove la complessità della fattispecie
lo renda necessario, può autorizzare il consulente
incaricato ad avvalersi della polizia tributaria al fine
di ottenere una cooperazione qualificata nell’espletamento degli accertamenti e delle indagini oggetto
dell’incarico peritale.
F) Gli accertamenti delegati alla polizia tributaria
È auspicabile che i difensori delle parti non si limitino a generiche contestazioni circa la veridicità
14 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
delle affermazioni patrimoniali rese dall’altro coniuge sulla propria situazione reddituale o patrimoniale, ma che forniscano dati mirati e utili che giustifichino la richiesta degli accertamenti ed il relativo provvedimento del Giudice.
Il Giudice, qualora disponga gli accertamenti della
polizia tributaria, può richiedere alla predetta di eseguire accessi ed ispezioni, esibire atti o documenti
detenuti da pubbliche amministrazioni ( desunti da
Agenzia del Territorio, Anagrafe tributaria, Pra, Mctc,
Banca dati precedenti Guardia di Finanza, Banca dati
Hydra dell’Inps, informazioni di polizia desunte dalla
banca dati SDI, Servizi municipalizzati ecc.) e da privati, acquisire scritture contabili ecc.
In ogni caso il Giudice può richiedere alla polizia
tributaria nell’ambito degli accertamenti delegategli di effettuare indagini bancarie/finanziarie secondo quanto previsto dagli artt. 32 e ss. dpr 600/73.
G) Richiamo alle disposizioni previste dal protocollo dei processi civili
Sono espressamente richiamate le disposizioni
previste dal protocollo per le udienze civili agli artt.
5 lett. a (testimoni), 7 (CTU).
Sez. IV) MODIFICA E/O REVISIONE DELLE
DISPOSIZIONI STABILITE IN SEDE DI
SEPARAZIONE O DIVORZIO (ex artt. 155 ter e 156
u.c. cod. civ., art. 9 L. 898/1970 ed art. 710 c.p.c.)
A) RICORSO:
È auspicabile:
che il ricorso per la modifica e/o revisione delle disposizioni stabilite in sede di separazione e/o divorzio (redatto con la medesima scheda di cui alla fase
presidenziale in presenza di figli esponga –in primo
luogo- le problematiche relative all’affidamento ed
alle modalità di visita della prole e, secondariamente,
quelle di carattere economico, relative al contributo al
mantenimento dei figli e/o del coniuge ricorrente;
che le domande e le conclusioni vengano, quindi,
formulate dal ricorrente con il medesimo ordine (il
ricorrente dovrebbe, inoltre, formulare sinteticamente le proprie richieste istruttorie anche con riferimento ad eventuali domande dirette ad effettuare
accertamenti fiscali e del tenore di vita dell’altro coniuge e con formulazione dei capitoli di prova);
che il ricorrente depositi, unitamente al ricorso,
tutta la documentazione di cui sia in possesso, a sostegno delle proprie domande; con riferimento alle
questioni economiche si richiama anche per questa
fase, quanto auspicato nella sezione terza del presente protocollo.
B) DECRETO FISSAZIONE UDIENZA:
A seguito del deposito del ricorso in Cancelleria il
Collegio fissa con decreto l’udienza avanti a sé che
si auspica sia tenuta entro breve termine.
ZOOM
Il Collegio, con il medesimo decreto, assegna inoltre al convenuto termine sino a dieci giorni prima
dell’udienza per il deposito di propria memoria difensiva e/o di costituzione nonché di idonea documentazione; ciò al fine di dare modo al ricorrente di
conoscere, entro congruo termine, le eventuali controdeduzioni ed eccezioni.
Si raccomanda che in questa parte del decreto
venga evidenziata con caratteri più grandi ed in neretto la possibilità di farsi assistere da un difensore,
che, nel caso in cui sussista il requisito reddituale di
legge (attualmente il reddito minimo è di Euro
9.700,00), può essere nominato a spese dello Stato.
C) COMPARIZIONE DEL CONVENUTO ASSISTITO
DA DIFENSORE:
Nel caso in cui il convenuto si costituisca, a mezzo
proprio procuratore, con memoria difensiva e/o di
costituzione depositata, unitamente ad idonea documentazione, all’udienza di comparizione avanti
il Collegio, quest’ultimo può procedere all’audizione
delle parti, con eventuale concessione di termine
per replica se il ricorrente lo richiede.
In seguito al deposito della replica il Collegio disporrà una nuova comparizione delle parti.
È auspicabile:
che la memoria di costituzione, analogamente a
quanto stabilito per il ricorso, contenga tutte le domande e conclusioni del convenuto (con l’esposizione, dapprima, delle problematiche relative ai figli,
all’affidamento ed alle modalità di visita della prole
e, secondariamente, quelle di carattere economico e
relative al contributo al mantenimento dei figli e/o
dell’altro coniuge) e che il convenuto formuli sinteticamente le proprie istanze istruttorie anche con riferimento ad eventuali domande dirette ad effettuare
accertamenti fiscali e del tenore di vita dell’altro coniuge e con formulazione dei capitoli di prova;
che il convenuto produca, unitamente alla propria
memoria difensiva e/o di costituzione, tutta la documentazione a sostegno delle proprie domande.
D) COMPARIZIONE DEL CONVENUTO SENZA L’ASSISTENZA DEL DIFENSORE:
Nel caso in cui il convenuto si presenti all’udienza
avanti il Collegio privo di difensore e, avvertito della
possibilità di farsi assistere da un legale, vi rinunci,
il Collegio procederà all’audizione delle parti.
Qualora invece ne ravvisi l’opportunità, il Collegio
inviterà il convenuto a munirsi di difensore ed assegnerà allo scopo apposito termine.
E) UDIENZA COLLEGIALE:
All’udienza avanti il Collegio l’audizione dei coniugi avviene congiuntamente.
In casi eccezionali, che si auspica siano anche
adeguatamente segnalati dai procuratori delle parti,
il Collegio potrà disporre l’audizione separata.
È auspicabile che il Collegio esperisca, preliminarmente, un tentativo di conciliazione al fine di verificare se vi sia la possibilità di far convergere le richieste e le necessità dei coniugi.
Delle dichiarazioni delle parti e dei procuratori
viene effettuata adeguata e corrispondente verbalizzazione.
Il Collegio, qualora ravvisi l’opportunità di procedere ad attività istruttoria, assegna in qualsiasi momento, su istanza delle parti, un termine per il deposito di note o memorie istruttorie ed eventuali repliche.
F) PROCEDIMENTO
Nel corso del procedimento, ulteriori produzioni
di atti e/o documenti devono essere ammesse dal
Collegio e, se effettuate in udienza, il Collegio assegnerà un termine eventualmente per esaminarli e,
se del caso, replicare.
Nell’eventualità in cui sia ritenuta opportuna e/o
necessaria l’audizione del minore, tale audizione
non deve avvenire nella prima udienza di comparizione consentendo, in questo modo, al Collegio di
adottare gli opportuni provvedimenti diretti a rispettare le modalità previste nel Protocollo già in essere (all. B alla sez. I del presente protocollo).
L’audizione di eventuali sommari informatori dovrebbe generalmente essere disposta dal Collegio
per udienza successiva a quella di prima comparizione. E’ auspicabile che l’eventuale necessità di
procedere all’audizione di sommari informatori, già
nella prima udienza di comparizione, venga rappresentata ed adeguatamente motivata negli atti introduttivi di ciascuna parte.
All’esito dell’attività istruttoria ed a seguito dell’udienza fissata per la discussione finale di quanto
emerso nel corso del procedimento, il Collegio,
prima di adottare le proprie decisioni finali, assegnerà alle parti, se richiesto, un termine per memorie conclusive, previa precisazione delle conclusioni
all’udienza.
Qualora il procedimento abbia avuto ad oggetto,
in particolare, la modifica delle disposizioni concernenti i figli minori, il Collegio, a conclusione del procedimento, può disporre la trasmissione del fascicolo al Giudice Tutelare per una verifica della situazione familiare e del rispetto delle statuizioni adottate dal Collegio medesimo.
Verona, 13 febbraio 2009
Il Presidente del Tribunale di Verona
DOTT. GIANFRANCO GILARDI
Il Presidente del Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Verona
AVV. CARLO TRENTINI
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ZOOM
Gli aspetti processuali
relativi all’audizione del
minore nei procedimenti di
separazione e divorzio
Con riferimento a quanto già pubblicato al n. 37
della rivista (aprile-giugno 2009) in ordine alla Carte
di Noto, linea guida per il minore in caso di abuso
sessuale ed ascolto del minore in ipotesi di abuso
sessuale, è opportuno affrontare una problematica
sempre più sentita nelle aule di giustizia e cioè gli
aspetti processuali relativi all’audizione del minore
nei procedimenti di separazione e divorzio che riguardano i genitori. Nel mese di giugno 2009 si è tenuta una riunione della Commissione Famiglia e Minori presso il Consiglio dell’Ordine di Roma ove si è
affrontato l’argomento con un occhio particolare
alla prassi seguita dai giudici della Prima Sezione Civile del Tribunale Ordinario di Roma.
Il nostro ordinamento, come ben noto, ha introdotto con la L. 54/06 l’affidamento condiviso modificando l’art. 155 del Codice Civile; in particolare è
stato introdotto l’art. 155 sexies che titola: “Poteri del
giudice e ascolto del minore”. È noto che con tale articolo il Giudice dispone, anche prima dell’emanazione in via provvisoria dei provvedimenti di cui all’art. 155 c.c., “l’audizione del figlio minore che abbia
compiuto gli anni dodici ed anche di età inferiore
ove capace di discernimento…”.
Con tale norma il legislatore si è allineato anche
alle disposizioni di diritto internazionale, ove, in materia di audizione dei figli minori nei procedimenti
di separazione e divorzio, esistono Convenzioni Internazionale, quali, in ordine temporale: a)-la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del
20.11.1989, ratificata in Italia con legge 27.05.1991 n.
176, che all’art. 12 stabilisce: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto
di esprimere liberamente la sua opinione su ogni
questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo
devono essere debitamente prese in considerazione
tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la
possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo
appropriato, in maniera compatibile con le regole di
procedura della legislazione nazionale”.
b)-la Convenzione di Strasburgo del 25.01.1996
(legge di ratifica 20.03.2003 n. 77) che sancisce i diritti del minore nei giudizi che lo riguardano ed in
particolare: ricevere ogni informazione pertinente;
essere consultato ed esprimere la propria opinione
e conoscere le eventuali conseguenze di ogni decisione.
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La relativa legge di ratifica della Convenzione è
stata limitata, almeno sino all’entrata in vigore della
Legge n. 54/2006, all’art. 6 L. 898/70 (legge sul divorzio) in cui l’audizione del minore è prevista soltanto
nei casi in cui sia strettamente necessario ( la norma
recita “….qualora sia strettamente necessario anche
in considerazione della loro età…”).
Tornando all’esame dell’art. 155 sexies del codice
civile, va detto che il primo comma del suddetto articolo ha posto l’accento sull’importanza che il minore possa esprimere il proprio punto di vista nei
procedimenti che, pur se indirettamente, lo riguardano. L’ascolto, ritengono gli operatori del settore,
non è finalizzato ad offrire al Magistrato elementi
probatori, bensì a permettere al minore di partecipare alle vicende processuali che lo riguardano manifestando il suo desiderio.
Va quindi distinto il “potere” istruttorio del Giudice dall’ascolto del minore. Si è molto discusso
sulla obbligatorietà o mezzo dell’ascolto e, soprattutto, sui limiti di tale istituto: da una iniziale tendenza a prevedere un ascolto “generalizzato”, è poi
prevalsa quella di sentire sempre soltanto il minore
ultradodicenne e l’infradodicenne solo se questo ultimo appare capace di discernimento. In ordine alla
obbligatorietà, poiché la norma recita testualmente
che il Giudice “dispone”, si dovrebbe proprendere
per una risposta affermativa almeno nei procedimenti di natura contenziosa.
Nel dibattito parlamentare prima, e dagli operatori del settore successivamente, ha prevalso una linea di assoluto buon senso e valutazione caso per
caso: il giudice sarà libero di non disporre l’ascolto
del minore quando esso può essere contrario all’interesse del minore stesso. Rimane quindi senza apparente soluzione la problematica, anche se la determinazione di scelta da effettuarsi caso per caso
da parte dell’Autorità Giudiziaria procedente appare
la soluzione più indicata, ricordando sempre che
l’ascolto non ha valenza probatoria, non essendo
esso uno strumento “istruttorio” a disposizione né
delle parti né del giudice.
Nel dibattito tenutosi con la Commissione Famiglia e Minori del nostro Consiglio dell’Ordine, un posto di rilievo hanno avuto le indicazioni fornite dal
Consiglio Superiore della Magistratura in tema di
ascolto del minore. Il CSM, sulla premessa che esistono riserve circa la opportunità di ascoltare i minori in tutti i giudizi nei quali si affrontano la separazione o il divorzio dei genitori, o comunque la disgregazione del nucleo familiare di appartenenza (
riserve legate soprattutto alla mancanza di una competenza specifica di chi debba procedere all’ascolto),
ribadisce la tesi, che l’ascolto del minore dovrà intendersi quale strumento per offrire al Giudice elementi di valutazione e non di “prove” vere e proprie.
Il CSM ha distinto tra ascolto diretto del giudice e
ascolto “indiretto”, questo ultimo eseguito da un
ZOOM
consulente tecnico nominato e consegnato sotto
forma di relazione contenuta nell’elaborato peritale,
rilevando che i giudici ordinari preferiscono disporre
l’ascolto se il minore ha una età inferiore ai dodici
anni e ricorrere, comunque, all’ascolto “indiretto”
purchè svolto da un esperto dell’età evolutiva.
In relazione, invece, all’ascolto del minore dinanzi
il Tribunale per i Minorenni, il CSM rileva che in questa sede i giudici sono più favorevoli all’ascolto diretto: non va dimenticato che in tale Tribunale vi è
la presenza di componenti del Collegio non togati e
dotati di competenze specifiche ed è importante,
quindi, osservare il minore, capire il suo linguaggio,
entrare in contatto con lui, sentire i bisogni e comprendere il disagio eventualmente espresso.
È indispensabile quindi, avere una preparazione e
competenza specifica.
In relazione alla pratica “quotidiana”, sempre la
Commissione più volte citata ha individuato alcune
problematiche relative alla prassi dell’ascolto del
minore condivise da diversi Tribunali presenti nel
territorio nazionale che potremmo indicare in: modalità di ascolto; presenza dei difensori e dei genitori del minore al momento dell’ascolto; informazione al minore; verbalizzazione delle dichiarazioni.
Modalità di ascolto. Ascolto libero o ascolto “protetto”: questo è il dilemma che ha trovato una univoca soluzione nei procedimenti penali con riferimento a quei minori vittime di abusi sessuali; per
quanto concerne l’audizione in sede di separazione
e/o divorzio la valutazione è rimessa al giudice (e a
tale proposito all’interno di un medesimo Tribunale
vi sono orientamenti diversi o diametralmente opposti come accade, ad esempio, a Roma e di ciò si
parlerà nel prosieguo).
È rimessa al Giudice la decisione se vi sarà audizione a due, alla sola presenza cioè del Cancelliere
verbalizzante, oppure se prevedere la presenza degli avvocati e/o genitori; è altrettanto rimessa al Giudice la decisione su quali dovranno essere le modalità di espletamento dell’audizione e della verbalizzazione delle dichiarazioni.
Presenza dei genitori e dei difensori. Anche su
tale questione vi sono orientamenti diversi: da una
parte c’è chi sostiene che la presenza dei genitori
e/o degli avvocati possa interferire con le finalità
dell’ascolto andando a pregiudicare la spontaneità e
sincerità delle risposte; dall’altra si sostiene che
escludere avvocati e genitori potrebbe dar luogo ad
eccezioni sulla violazione del diritto di difesa. Diverse le soluzioni che sono state prospettate: da un
lato la espressa esclusione di tali parti andrebbe disposta autoritativamente dal giudice e dall’altro ottenere l’adesione - preventiva - con il consenso di
genitori e difensori a non partecipare all’ascolto,
bensì esaminare successivamente il verbale che si
redige.
In alcuni Tribunali, per esempio a Firenze e per alcuni giudici di Roma, si dà preventiva informazione
alle parti su quali domande saranno rivolte al minore e si verbalizza che i difensori e le parti dichiarano di allontanarsi per consentire una audizione
più spontanea.
In altri Tribunali, una volta raccolto il consenso dei
genitori ad allontanarsi, i difensori sottopongono al
Giudice argomenti sui quali sentire il minore e dopo
di ciò assistono all’audizione senza intervenire.
Questa ultima modalità è stata largamente condivisa da molti Tribunali presenti sul territorio nazionale e da alcuni Giudici del Tribunale di Roma.
Informazione. Il Giudice deve necessariamente
spiegare al minore il perché di quell’incontro, le decisioni che potrebbero scaturire all’esito dell’ascolto,
anche se andrà spiegato che da tale ascolto non dipenderà la decisione della causa. Indispensabile è
creare una situazione di serenità con l’introduzione
di domande su argomenti apparentemente inconferenti, quali ad esempio la casa, i giochi, la scuola,
il quartiere; altrettanto importante è evitare (e su ciò
la posizione dei giudici è fortunatamente univoca)
l’audizione “imprevista” di quel minore al quale,
guarda caso, il genitore ha chiesto di essere presente
all’udienza.
Verbalizzazione dell’ascolto. E’ quasi superfluo
dedurre sulla importanza di una verbalizzazione
puntuale e rispondente a quanto accaduto nel
corso dell’audizione. La difficoltà che incontrano i
Giudici è la mancanza, purtroppo, di un cancelliere
in aula che provveda alla verbalizzazione e risulta
difficoltoso quindi ascoltare il minore e nel contempo scrivere: la prassi che si è formata è quella di
una verbalizzazione “riassuntiva” per non interferire sul colloquio. Interessante la prassi seguita dal
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 17
ZOOM
Tribunale di Genova: al termine della audizione la
verbalizzazione viene realizzata alla presenza dei
difensori ed in un momento successivo.
Presenza di ausiliari. In alcuni Tribunali l’ascolto
viene fatto alla presenza di un ausiliare, quale uno
psicologo o un assistente sociale, che interviene in
udienza e coadiuva il Giudice nella gestione del colloquio. Presso il Tribunale di Roma si era consolidta
una prassi da parte di alcuni giudici di effettuare
l’audizione alla presenza di uno psicologo dello Spazio Minori, struttura interna al Tribunale ad oggi,
purtroppo, non più operativa.
Dalla esposizione di cui sopra, si evince che
manca un indirizzo unitario sulle modalità dell’audizione del minore e, in virtù di prassi condivise,
molti operatori hanno tentato di redigere un “protocollo”, risultato di una collaborazione tra magistrati ed avvocati e finalizzato ad ottenere, per
quanto possibile, una uniformità di comportamento.
Nel maggio 2007, la Commissione Famiglia e Minori del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma
ha redatto un protocollo per l’audizione del minore
sottoscritto dall’allora Presidente del Tribunale per i
Minorenni dr.ssa Brienza e dal Presidente del nostro
Consiglio dell’Ordine avv. Cassiani; successivamente documenti simili sono stati sottoscritti anche presso altri Tribunali (Milano, Firenze e Vicenza).
Il Tribunale per i Minorenni di Milano ha redatto
un protocollo ove è prevista la possibilità di audizione diretta del minore da parte del Giudice, senza
ausilio cioè di psicologi e/o assistenti sociali, ove
non è prevista la presenza né dei genitori né dei difensori.
Nel protocollo del Tribunale per i Minorenni di
Roma è prevista la presenza dei difensori purchè
non intervengano né prima né dopo l’ascolto mantenendo – testuale - un comportamento “silenzioso
e non invasivo”.
Tutti i protocolli esistenti, garantiscono comunque la possibilità per i difensori di sottoporre preliminarmente al Giudice gli argomenti sui quali ritengono che debba essere sentito il minore.
Pur se la questione riguarda gli operatori della
sola città di Roma, va evidenziato che la prassi seguita dalla Prima Sezione Civile del Tribunale Ordinario della Capitale (sezione ove sono assegnati i
procedimenti di separazione e divorzio) non è certo
uniforme.
Vi è disparità dei Giudici della sezione sia sul valore da attribuire all’audizione, sia sulle modalità
d’attuazione.
Per fare esempi concreti: alcuni giudici non conferiscono valore all’audizione e la dispongono solo
nei casi più gravi in cui si discute sul collocamento
del minore; altri dispongono la fissazione di una
udienza ad hoc in genere in tarda mattinata; altri
conferiscono direttamente incarico ad un consu18 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
lente tecnico di ufficio manifestando la opportunità
di avere un esame obiettivo anche dell’ambiente familiare.
Alcuni verbalizzano alla presenza di un cancelliere; altri personalmente in modo riassuntivo. C’è
chi dispone l’audizione alla presenza di psicologo,
altri alla sola presenza del Cancelliere verbalizzante.
La maggior parte dei Giudici non consentono la
presenza in aula dei genitori e difensori, ma alcuni
decidono volta per volta se farli rimanere o meno
purchè in silenzio; alcuni decidono i temi da sottoporre, altri permettono che vengano fissati alcuni
argomenti di ascolto anche da parte dei genitori e
dei difensori. Vi è addirittura un Giudice che, previa
fissazione di udienza ad hoc, fa assistere all’audizione del minore un fratello o una sorella del minore qualora questo ultimo lo chieda, mentre è assolutamente contrario alla presenza, anche “silente”, dei genitori nell’aula.
Da tale rassegna il quadro che emerge non è certo
edificante: la incertezza di orientamento e di valutazione rischiano di depauperare la efficacia dell’audizione; è auspicabile, anzi necessario, previa
condivisione delle prassi comuni di lavoro, coordinare le forze di avvocati, Giudici ed altri operatori
(quali gli psicologi) per pervenire non solo ad una
uniformità di orientamento ma anche alla redazione di un protocollo di intervento che dovrebbe
assurgere ad una sorta di “prassi quadro”, applicabile in tutti i Tribunali del territorio nazionale, senza
distinzione né di luogo né di competenza.
Un convegno di studi sulla
tutela penale della
famiglia
Nell’ambito della formazione organizzata dalla
sezione territoriale dell’Osservatorio Nazionale sul
diritto di famiglia si è avvertita l’esigenza di un confronto tra avvocati civilisti, penalisti e magistrati
nell’ambito degli istituti che interessano, con ormai
crescente frequenza, la famiglia nel momento della
difficoltà.
L’interazione tra le discipline e gli operatori che risultano investiti di tali problematiche risulta, infatti,
ormai più che necessaria.
Ci pare di sicuro interesse segnalare le riflessioni
svolte dal Presidente del Tribunale di Verona, Dott.
Gianfranco Gilardi, quale introduzione al convegno
che si è svolto il 1 ottobre scorso
Tali riflessioni mettono in luce il punto di vista di
una magistratura attenta ed interessata a collaborare al miglioramento della vita civile e specificatamente di soggetti la cui tutela è ancora, tutt’oggi, da
considerarsi debole.
ZOOM
La tutela penale della
famiglia: gli orientamenti
del Foro veronese
CONVEGNO DI STUDI
introduzione del Dott. GIANFRANCO GILARDI,
PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DI VERONA
Il convegno di oggi mette in campo ancora una
volta la questione della effettività dei diritti ed il
solco profondo che continua ad esistere tra il progetto costituzionale, che vorrebbe garantita per tutti
una vita serena e dignitosa, e la realtà quotidiana in
cui diritti fondamentali come quelli delle donne e
dei minori continuano ad essere offesi e lacerati.
Una questione che non riguarda soltanto l’adeguatezza delle regole e la loro concreta efficacia, ma
sollecita una riflessione più ampia sul piano culturale ed istituzionale. La stessa possibilità di risposta
dell’ordinamento giuridico implica infatti il superamento dei molti fattori che ostacolano nei fatti
l’emersione delle violenze e dei maltrattamenti domestici, inducendo spesso a tenerli nascosti per
paura di ritorsioni, e sottolinea l’urgenza di contesti
sociali, di modelli di comunicazione, di linguaggi, di
comportamenti, di un’etica anche pubblica capaci
di creare un tessuto di solidarietà e di rispetto per i
diritti della donna e dei minori che continuano, purtroppo, a dover essere annoverati tra i soggetti più
deboli della società, a dispetto della trama di garanzie formali pur astrattamente previste a livello della
normativa interna anche di rango costituzionale, di
trattati e convenzioni internazionali, della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea.
Anche le associazioni e i movimenti, nati per
creare una rete di sostegno non solo al fine di prevenire la violenza, ma anche per aiutare a vincere il
silenzio e superare la situazione di solitudine e sofferenza in cui la vittima di essa viene quasi sempre
a trovarsi, stanno a sottolineare l’urgenza di una
cultura dei diritti in cui la situazione dei minori e
delle donne - quale che sia la loro condizione sociale, la loro etnia, la loro fortuna o sfortuna personale - superi finalmente e definitivamente questo
stato di persistente debolezza e subalternità.
La giurisdizione, naturalmente, è strumento essenziale di questa rete di protezione, che riguarda
non solo i soggetti direttamente offesi ma, per il tramite della tutela di essi, l’integrità stessa della famiglia quale contesto e condizione per poter condurre una vita serena e dignitosa.
È da quest’insieme di considerazioni che è scaturita l’iniziativa del Consiglio superiore della magistratura volta a migliorare la risposta giudiziaria
nell’ambito della violenza familiare. Alla base della
risoluzione dell’11 febbraio 2009 e della successiva
delibera dell’8 luglio 2009, vi è l’importante studio
dell’Associazione “Donne in Rete contro la violenza
ONLUS” il quale, attraverso i dati e le esperienze acquisite dalla Rete di avvocati presenti in diverse realtà, e mediante una ricerca che ha interessato le
Procure ed i Tribunali ordinari di 28 uffici giudiziari,
avendo riferimento in particolare ai procedimenti
per reati ex artt. 572 e 609 bis c.p. e, nell’area civile,
all’applicazione degli ordini di protezione introdotti
dalla Legge 4 aprile 2001 n. 154, ha evidenziato una
serie di problemi che rischiano di compromettere
l’efficacia dell’intervento giudiziario sia sotto il profilo dell’accertamento dei fatti sia con riguardo alla
protezione della vittima della violenza. Per esemplificare:
*disfunzioni relative alla fase delle indagini preliminari, quali ad esempio la scarsa sensibilità o l’insufficiente preparazione delle forze di polizia e della
polizia giudiziaria, che si manifestano nella fase di
raccolta della denuncia da parte della vittima con
tentativi di dissuasione a presentarla, sottovalutazioni della vicenda denunciata ed omesso rilievo di
aspetti essenziali per la comprensione storica e per
l’inquadramento giuridico del fatto (abitualità della
condotta violenta, anamnesi familiare, presenza di
minore durante l’attività aggressiva, individuazione
di possibili fonti di riscontro probatorio);
*disfunzioni relative alla fase dibattimentale, con
la normale destinazione dei Vice Procuratori Onorari come pubblici ministeri d’udienza per quasi
tutti i processi di maltrattamenti in famiglia, anche
per quelli particolarmente delicati, e la mancanza
di moduli organizzativi o di buone prassi che garantiscano alla donna vittima di violenza una escussione testimoniale protetta sia prima sia durante
l’esame;
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 19
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*mancanza nella gran parte degli uffici giudiziari
di sezioni specializzate o di criteri di specializzazione dei magistrati con riguardo al fenomeno delle
violenze sessuali e dei maltrattamenti familiari e nel settore civile - alle richieste di ordini di allontanamento ex artt. 342 bis e ter c.c., ai ricorsi de potestate presso i Tribunali per i Minorenni ed alle cause
di separazione e divorzio.
Specializzazioni e turni di reperibilità; protocolli
d’intesa al fine di predisporre piani di intervento articolati e strutturati anche a sostegno della vittima;
incontri di formazione per le forze di polizia e per gli
altri operatori chiamati ad interloquire nel percorso
di sostegno e, più in generale, iniziative ed incontri di
formazione comune; coordinamento tra magistratura inquirente e giudicante nella determinazione
dei ruoli d’udienza; adozione di moduli idonei a favorire la più rapida definizione delle procedure; fissazione di processi in ore adatte per consentire alla
vittima della violenza di partecipare all’udienza in
un contesto di relativa tranquillità; carte di servizi o
linee-guida facilmente consultabili dagli utenti per
conoscere le possibilità di tutela offerte dal sistema
giudiziario contro gli atti di violenza infrafamiliare,
sono solo alcuni degli aspetti emergenti dai criteri di
indirizzo indicati dal CSM allo scopo di favorire l’effettività e l’efficacia dell’intervento giudiziario nella
materia di cui stiamo parlando.
Effettività ed efficacia che postulano, com’è ovvio,
il coordinamento di tutti i soggetti chiamati a garantirle e quindi richiedono, in primo luogo, la capacità di dialogo e confronto che i soggetti istituzionali, le categorie professionali, gli enti ed i movimenti operanti sul territorio come ricchezza spesso
nascosta delle potenzialità democratiche del paese
saranno capaci di sviluppare nella costruzione di
quella cittadinanza comune, di quel “sentirsi a casa”
e di quel “trovarsi bene” in famiglia che attendono
tuttora di essere realizzati nelle dimensioni profonde della vita quotidiana.
Breve conversazione con il dott. marzio Bruno
Guidorizzi, Giudice della Sezione Penale presso il
Tribunale di Verona, sulla tutela penale della famiglia
nel Foro di Verona
a cura di GIORGIA DALLORA,
AVVOCATO
Come si è organizzato il Tribunale di Verona per far fronte ai sempre più numerosi ed efferati casi di violenza in famiglia che si stanno verificando negli ultimi anni, e che, purtroppo, spesso hanno visto coinvolta
la nostra provincia ?
Negli ultimi anni, qui a Verona si è fatto veramente molto per la violenza inframuraria, soprattutto nel
settore formazione delle forze di polizia.
Io ed altri colleghi anche della locale procura abbiamo partecipato a vari simposi sull’argomento e
siamo stati a nostra volta relatori e formatori delle forze di polizia che hanno raggiunto un ottimo livello di professionalità. Sono conosciuti e vengono usati vari protocolli, tra cui i più conosciuti ed applicati sono il SARA, il Silva e l’E.V.A. che vengono adottati per una migliore gestione delle violenze
domestiche.
Ad esempio, qui a Verona le forze dell’ordine hanno imparato ad utilizzare sempre, in ipotesi di violenza infradomestica, il protocollo E.V.A. finalizzato ad affinare una analisi approfondita sul soggetto
che ha commesso il fatto e sulla sua famiglia, mettendo insieme una serie di elementi, quali possono
essere la presenza di armi in casa, se vi sono stati precedenti, l’indicazione delle condizioni psicologiche e psicofisiche del soggetto, per permettere, poi, al magistrato che dovrà esaminare il caso, di poter prendere con una certa sicurezza i provvedimenti ritenuti più opportuni nel caso di specie al fine
di tutelare le vittime.
Debbo dire che negli anni ho riscontrato una grande rapidità nei passaggi di informazioni che sono
da subito molto esaustive e chiare e che permettono di muoversi con una maggiore puntualità e precisione.
Laddove ritengo si possa fare di più è in ordine alla specializzazione dei giudici, dei viceprocuratori
onorari e degli avvocati. Mi piacerebbe, e credo che laddove potesse realizzarsi sarebbe di vantaggio per
tutti, ci fossero giudici specializzati in queste fattispecie di reati all’interno di ogni Procura, in quanto
ritengo che ciò agevolerebbe l’iter e la soluzione dei casi, perché essendo una materia molto delicata, la
possibilità di avere una pronta risposta giudiziaria è molto importante.
20 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
ZOOM
Anche la possibilità di creare un pool di avvocati che seguono specificamente questi casi e che, soprattutto, si mettono a disposizione delle vittime e ne seguono l’iter per poterle difendere nel migliore
dei modi dal familiare che ha commesso il fatto.
Per dare le dimensioni di un fenomeno che può essere elaborato in maniera più compiuta di alcuni
anni fa, evidenzio di seguito dei dati numerici estrapolati dal REGE a settembre 2009: per quanto riguarda il reato di cui all’art. 570 c.p., sono stati presentati 1092 procedimenti; per il reato di cui all’art.
572 c.p., si contano 831 procedimenti, mentre per il reato di cui all’art. 571 c.p. se ne contano 57.
Da ultimo posso dire che l’adozione dei protocolli da parte delle forze dell’ordine permette ai magistrati di utilizzare cum grano salis la misura di cui all’art. 282 bis c.p.p. in quanto, come già detto in precedenza, sul nostro tavolo arriva un fascicolo già ben istruito, con molte notizie utili e specifiche che ci
permette di prendere decisioni veloci sull’opportunità o necessità di adottare tale misura restrittiva.
Parlando in termini numerici posso dirvi che a settembre 2009 sono stati applicati per 61 casi le misure
cautelari, di cui 11 sono ancora in Procura, 27 dal GIP al GUP, 23 sono al dibattimento di cui 14 già definiti e per 9 è stata fissata l’udienza.
Con l’introduzione della riforma del diritto di famiglia del 2006, lei, come Giudice, ha notato una diminuzione od un aumento dei casi di violenza in famiglia all’interno di giudizi di separazione o divorzio?
Posso dire che non ho riscontrato differenze con la riforma del 2006, ma debbo rilevare che un incremento vi è stato in questi tipi di reati in quanto le persone offese, le donne ed i figli generalmente, sono
stati maggiormente sensibilizzati a parlare ed a denunciare i maltrattamenti o gli abusi subiti all’interno delle mura domestiche. Ritengo quindi che se un incremento c’è stato, non è perché sono aumentati i casi di maltrattamento, ma perché negli ultimi anni è stata fatta una campagna di sensibilizzazione, anche attraverso molte associazioni, su queste tipologie di reati, permettendo alle vittime di
uscire allo scoperto, facendole sentire comunque protette da una rete di controlli e di assistenza che fino
a qualche anno fa non era nemmeno pensabile.
Negli ultimi anni, infatti, hanno preso forma molte associazioni onlus per aiutare a vincere il silenzio e per la prevenzione della violenza su minori e sulle donne, cercando di creare una rete di protezione
e di assistenza per aiutare le vittime di questi reati.
Come viene visto ed affrontato dal Tribunale di Verona il reato di cui all’art. 570 c.p.; qual’è l’orientamento del Tribunale sul requisito previsto dalla norma dello “stato di bisogno”, e quale interpretazione viene
data ai “mezzi di sussistenza”?
Per quanto riguarda l’orientamento del Tribunale di Verona, posso dire che, perlomeno negli ultimi
anni, anche grazie all’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte sull’argomento, qui a Verona il reato di cui all’artico in commento viene visto in maniera molto attenta e vi è una sempre maggiore sensibilizzazione dei Giudici a punire chi non adempie - senza idonea giustificazione - all’onere
contributivo, soprattutto laddove vi sono minori.
In tale compito veniamo agevolati o, meglio aiutati, anche dal recente orientamento della Suprema
Corte sia in ordine al requisito dello stato di bisogno, che deve intendersi in re ipsa in presenza di minori. Tant’è che anche l’assolvimento dell’onere contributivo da parte di terzi, familiari o anche Servizi
Pubblici, non elimina l’obbligo del soggetto obbligato a pagare quanto dovuto.
La dizione “mezzi di sussistenza”, seppur più contenuta del concetto di mantenimento in ambito civilistico, nel recente orientamento della Corte di Cassazione, viene interpretata in maniera comunque
non più così ristretta come anni fa, in quanto si ritiene debba ricomprendersi non solo il vitto e l’alloggio, ma anche le spese riguardanti il vestiario, le spese scolastiche, le assicurazioni, le spese sanitarie
riguardanti i minori.
Alla luce di tale orientamento e di tali riferimenti normativi e giurisprudenziali, si può dire che il Tribunale di Verona per prima cosa verifica se l’impossibilità cui si riferisce l’imputato rispecchia i tre requisiti alla presenza dei quali solo può riconoscersi oggettivamente l’impossibilità. L’impossibilità deve
pertanto essere assoluta, perdurante per l’intero arco dell’onere di pagamento e non incolpevole.
Sul punto si tenga presente che, in quanto l’impossibilità è da intendersi come scriminante, dovrà essere la difesa dell’imputato e non la Procura, a fornire idonea ed acconcia prova dell’inadempimento nel
rispetto dei predetti tre requisiti.
Tengo anche a precisare che, pur riscontrando negli ultimi anni un irrigidimento del Tribunale su questi reati, a Verona si è ben disposti nella commisurazione della pena, nonché nell’applicazione di determinati istituti laddove si riscontri che l’imputato paga quello che è dovuto.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 21
GIURISPRUDENZA
A tutti i decreti camerali
che hanno contenuto
patrimoniale va apposta
la formula esecutiva
Corte cost. ordinanza 20 novembre
2009, n. 310
La vicenda
l cancelliere del tribunale per i minorenni di
Roma rifiuta di apporre la formula esecutiva ad
un decreto pronunciato dal medesimo tribunale in camera di consiglio con cui viene disposto un contributo di mantenimento per un figlio
naturale.
L’avvocato presenta ricorso al presidente del tribunale (art. 745 c.p.c. “nel caso di rifiuto o di ritardo da
parte dei cancellieri.. l’istante può ricorrere al Presidente
del tribunale. Il Presidente provvede con decreto”) il quale
I
solleva una questione di costituzionalità sulla asserita mancata equiparazione nell’esecutività tra il decreto di cui all’art. 148 c.c. e gli altri decreti aventi
contenuto patrimoniale.
La Corte dichiara inammissibile la questione invitando il giudice remittente a dare alle norme la
stessa interpretazione data da molti altri giudici minorili (Tribunale per i minorenni di Milano, decreto
14 dicembre 2007, Tribunale per i minorenni di Bologna, decreto 2 aprile 2008, Tribunale per i minorenni di Catania, decreto 23 maggio 2008, Tribunale
per i minorenni di Venezia, decreto 16 luglio 2008), i
quali, chiamati a decidere in merito alla medesima
problematica, hanno accolto la soluzione interpretativa che attribuisce efficacia di titolo esecutivo ai
provvedimenti a contenuto patrimoniale a favore
dei figli naturali pronunciati dai competenti tribunali per i minorenni.
Ordinanza n. 310 - Anno 2009
Repubblica Italiana - In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
Francesco AMIRANTE
Presidente
Ugo DE SIERVO
Giudice
Paolo MADDALENA
“
Alfio FINOCCHIARO
“
Alfonso QUARANTA
“
Franco GALLO
“
Luigi MAZZELLA
“
Gaetano SILVESTRI
“
Sabino CASSESE
“
Maria Rita SAULLE
“
Giuseppe TESAURO
“
Paolo Maria NAPOLITANO
“
Giuseppe FRIGO
“
Alessandro CRISCUOLO
“
Paolo GROSSI
“
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
1, ultimo comma, della legge 8 febbraio 2006, n. 54
(Disposizioni in materia di separazione e affidamento condiviso dei figli), promosso dal Presidente
del Tribunale per i minorenni di Roma sul ricorso,
proposto da P. M., con ordinanza del 20 gennaio
2009, iscritta al n. 73 del registro ordinanze 2009 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
11, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2009
il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto
Che il Presidente del Tribunale per i minorenni di
Roma - chiamato a pronunciarsi, in un procedi-
22 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
GIURISPRUDENZA
mento ex art. 745 del codice di procedura civile, sul
rifiuto opposto dal cancelliere alla istanza di apposizione della formula esecutiva ad un decreto pronunciato dal tribunale medesimo, non impugnato,
con il quale (disposto l’affidamento esclusivo del figlio alla madre) si è posta a carico del padre naturale
una somma a titolo di contributo al mantenimento
del minore – ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
25 e 111 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, ultimo comma, della legge
8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione e affidamento condiviso dei figli), «nella
parte in cui non prevede che il decreto, notificato
agli interessati e al terzo debitore, costituisce titolo
esecutivo, ma le parti e il terzo debitore possono
proporre opposizione nel termine di venti giorni
dalla notifica».
Che il rimettente - ritenuto fondato il diniego del
cancelliere, poiché l’art. 474, secondo comma, numero 1, cod. proc. civ. non indica, tra i provvedimenti
ai quali va riconosciuta l’efficacia di titolo esecutivo,
i decreti assunti dal tribunale per i minorenni ai
sensi degli artt. 737 e seguenti del codice di rito,
quali quelli che quantificano il contributo al mantenimento di un figlio minore posto a carico del genitore non coniugato - esclude che la evidente disparità rispetto ai provvedimenti similari pronunciati dal tribunale ordinario per i figli di genitori coniugati, definiti espressamente quali titoli esecutivi
dall’art. 148 del codice civile, possa essere superata
con una interpretazione analogica (che, pur se tentata «da parte di taluni», il giudice stesso ritiene
«non soddisfacente perché dettata sostanzialmente
dall’esigenza di colmare una lacuna») attraverso la
quale la qualificazione di esecutività (di cui all’art.
148 cod. civ.) possa essere equiparata a quella di efficacia (di cui all’art. 741 cod. proc. civ.).
Che il giudice a quo, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, rileva che (anche dopo
l’entrata in vigore della citata legge n. 54 del 2006)
la Corte di cassazione, da un lato, ha confermato che
(nonostante l’art. 38 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile non preveda tra
i procedimenti attribuiti al giudice minorile quelli ex
art. 155 e seguenti cod. civ.) non deve essere il tribunale civile ordinario ad occuparsi dei figli naturali,
bensì il tribunale per i minorenni (Sez. un., ordinanza 3 aprile 2007, n. 8362) e, dall’altro lato, ha precisato che gli aspetti patrimoniali connessi possono
essere trattati dal tribunale per i minorenni, purché
la relativa domanda sia contestuale (ordinanze 25
agosto 2008, n. 21754, n. 21755 e n. 21756), mentre la
domanda meramente patrimoniale va proposta comunque presso il tribunale civile ordinario.
Che, pertanto, secondo il rimettente, per ottenere
un provvedimento al quale possa essere apposta la
formula esecutiva, dovrebbe essere cura del genitore
del figlio naturale, dopo aver ottenuto la pronuncia
sull’affidamento dal tribunale per i minorenni, promuovere un’azione unicamente sui diritti patrimoniali presso il tribunale civile ordinario, rinunciando
così alla contestualità della regolamentazione dell’affidamento, con conseguente disparità di tutela
fra figli legittimi e naturali, violazione del principio
della ragionevole durata del processo e confusione
sulla immutabilità del giudice naturale.
Che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o, in subordine, per l’infondatezza della sollevata questione.
Considerato
Che il rimettente censura l’art. 1, ultimo comma,
della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione e affidamento condiviso dei figli), nella parte in cui - nei giudizi attribuiti alla competenza del tribunale per i minorenni aventi ad oggetto la quantificazione del contributo al mantenimento del figlio minore posto a carico del genitore
non coniugato - «non prevede che il decreto, notificato agli interessati e al terzo debitore, costituisce
titolo esecutivo, ma le parti e il terzo debitore possono proporre opposizione nel termine di venti
giorni dalla notifica».
Che, secondo il giudice a quo, tale norma si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 25 e 111 della Costituzione, giacché (contrariamente a quanto previsto espressamente dall’art. 148 del codice civile per
gli analoghi provvedimenti pronunciati dal tribunale ordinario per i figli di genitori coniugati) l’art
474, secondo comma, numero 1, del codice di procedura civile non indica tra i provvedimenti, ai quali
va riconosciuta l’efficacia di titolo esecutivo, i decreti assunti dal tribunale per i minorenni ai sensi
degli artt. 737 e seguenti del codice di rito; e di conseguenza il genitore del figlio naturale, per ottenere
una decisione alla quale possa essere apposta la formula esecutiva, dopo aver ottenuto la pronuncia
sull’affidamento dal tribunale per i minorenni, dovrebbe promuovere un’azione unicamente sui diritti
patrimoniali presso il tribunale civile ordinario, rinunciando così alla contestualità della regolamentazione dell’affidamento, con conseguente disparità
di tutela fra figli legittimi e naturali, violazione del
principio della ragionevole durata del processo e
confusione sulla immutabilità del giudice naturale.
Che la intervenuta Avvocatura generale dello
Stato ha, tra l’altro, eccepito - in via pregiudiziale ed
assorbente - l’inammissibilità della questione per
mancato esperimento da parte del rimettente di
una diversa interpretazione della norma impugnata,
idonea a renderla immune dai dedotti dubbi di incostituzionalità.
Che, in effetti, il giudice a quo - che pure fa mostra
d’essere a conoscenza che, relativamente alla quenovembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 23
GIURISPRUDENZA
stione in esame, «si è tentato da parte di taluni di
effettuare una sorta di analogia […] equiparando la
qualificazione di esecutività con quella di efficacia»
- si limita apoditticamente ad affermare l’impraticabilità di tale diversa interpretazione, che, a suo
dire, «appare non soddisfacente perché dettata sostanzialmente dall’esigenza di colmare una lacuna
e riparare una disparità evidente tra i decreti che
quantificano il contributo di mantenimento emessi
dal tribunale per i minorenni in favore dei figli di genitori non coniugati e l’esecutività dei provvedimenti analoghi assunti dal tribunale civile ordinario
per i figli di genitori coniugati».
Che, così motivando – anche a prescindere dall’evidente paralogismo da cui pare affetta la radicale
negazione (contrastante con quanto disposto dall’art. 12, secondo comma, delle disposizioni sulla
legge in generale) della possibilità in materia civile
del ricorso all’analogia per colmare una lacuna normativa – il rimettente, non solo non sperimenta egli
stesso la possibilità di pervenire ad una doverosa interpretazione costituzionalmente conforme della
norma censurata, ma neppure contesta, in maniera
sufficientemente argomentata, la diversa lettura che
ne hanno dato altri giudici minorili (si vedano Tribunale per i minorenni di Milano, decreto 14 dicembre 2007, Tribunale per i minorenni di Bologna,
decreto 2 aprile 2008, Tribunale per i minorenni di
Catania, decreto 23 maggio 2008, Tribunale per i minorenni di Venezia, decreto 16 luglio 2008), i quali,
chiamati a decidere in merito alla problematica de
qua, hanno accolto la soluzione ermeneutica che attribuisce efficacia di titolo esecutivo ai provvedimenti a contenuto patrimoniale a favore dei figli naturali pronunciati dai competenti tribunali per i minorenni.
Che, di conseguenza, la questione è manifestamente inammissibile (in tal senso, da ultimo, ordinanze n. 244, n. 171 e n. 155 del 2009).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, ultimo
comma, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione e affidamento condiviso dei figli), sollevata - in riferimento agli artt. 3,
25 e 111 della Costituzione - dal Presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 novembre
2009.
24 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
La Corte di cassazione
cambia con coraggio
orientamento e dichiara
pienamente ricorribili per
violazione di legge i
provvedimenti in materia
di affidamento di figli
naturali
Cass. sez. I, 4 novembre 2009, n. 23411
Presidente Gabriella Luccioli;
Relatore Massimo Dogliotti
Cass. sez. I, 30 ottobre 2009, n. 23032
Presidente Gabriella Luccioli;
Relatore Massimo Dogliotti
Sono ricorribili per cassazione, nel regime dettato
dalla legge n. 54/06, i provvedimenti emessi, ai sensi
dell’art. 317 bis c.c., in sede di reclamo, relativi all’affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare, anche nel caso di genitori non sposati.
(Omissis)
Questione preliminare, da esaminare d’ufficio,
non avendola dedotta nessuna delle parti, riguarda
la ricorribilità per cassazione, ancorché ai sensi dell’art. 111 Cost., del decreto della Corte di Appello, Sezione per i minorenni che abbia pronunciato, ai
sensi dell’art. 317 bis c.c., sull’affidamento dei figli di
genitori non coniugati. E’ ben consapevole il Collegio che la giurisprudenza consolidata di questa
Corte ha risolto la questione nel senso dell’inammissibilità del ricorso, ricollegando tale materia a
quella dell’esercizio della potestà e dei suoi limiti
(art. 333 e 330 c.c.). Tra le altre, Cass. sez. un. n. 25008
del 2007; n. 13286 del 2004.
Ritiene tuttavia il Collegio che a diversa soluzione
debba pervenirsi, alla luce del recente intervento
normativo di cui alla L. n. 54 del 2006. Tale legge,
esprimendo un’evidente scelta di assimilazione
della posizione dei figli naturali a quelli nati nel matrimonio, quanto al loro affidamento, precisa all’art.
4, comma 2, che “le disposizioni della presente legge
si applicano anche (...) ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”. Dunque sono applicabili, anche in questo settore, le regole introdotte
dalla predetta legge per la separazione e il divorzio:
potestà esercitata da entrambi i genitori, decisioni
GIURISPRUDENZA
di maggior interesse di comune accordo (con intervento diretto del giudice, in caso di contrasto),
quelle più minute assunte anche separatamente,
privilegio dell’affidamento condiviso rispetto a
quello ad uno dei genitori, che comunque può essere disposto, quando il primo appaia contrario all’interesse del minore assegno per il figlio, in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore, audizione obbligatoria del minore ultradodicenne, possibilità di revisione delle condizioni di affidamento,
ecc.
Ma le innovazioni introdotte dalla L. n. 54 comportano, oltre agli effetti sostanziali sopraindicati,
pure rilevanti problematiche processuali in quanto
forniscono una definitiva autonomia dal procedimento di cui all’art. 317 bis c.c., allontanandolo dall’alveo della procedura ex artt. 330, 333 e 336 c.c. e
avvicinandolo, e per certi versi assimilandolo, a
quello di separazione e divorzio, con figli minori.
Né si potrebbe obiettare che si mantiene comunque la competenza funzionale del Tribunale per i
minorenni e il rito della camera di consiglio: l’ordinamento prevede, ormai con una certa frequenza,
la scelta del rito camerale, in relazione a controversie oggettivamente contenziose, per ragioni di celerità e snellezza, primo tra tutti il giudizio di appello
nei procedimenti di separazione e divorzio.
Delle innovazioni della L. n. 54 già ha tenuto conto
questa Corte, con orientamento ormai consolidato,
opportunamente superando la distribuzione di
competenze tra tribunale minorile ed ordinario (affidamento dei figli di genitori non uniti in matrimonio - al primo, pronuncia sul mantenimento e sull’assegnazione della casa familiare, al secondo) e attribuendo ogni competenza al tribunale minorile
(Cass. S.U. n. 8362 del 2007).
Da quanto si è finora osservato consegue dunque
la piena ricorribilità per cassazione di provvedimenti emessi, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., in sede
di reclamo, relativi all’affidamento dei figli e alle relative statuizioni economiche, ivi compresa l’assegnazione della casa familiare.
(Omissis)
IL PUNTO DI VISTA
di GIANFRANCO DOSI
L’art. 739 del codice di procedura civile prevede
che “Contro i decreti pronunciati dal tribunale in camera
di consiglio in primo grado si può proporre reclamo con
ricorso alla corte d’appello, che pronuncia anch’essa in camera di consiglio” (primo comma) e che ”salvo che la
legge disponga altrimenti, non è ammesso reclamo contro
i decreti della corte d’appello e contro quelli del tribunale
pronunciati in sede di reclamo” (ultimo comma).
Sulla base di questo dato testuale è escluso quindi
che avverso i decreti della Corte d’appello che pronunciano in materia di famiglia e minori sia esperibile il mezzo di gravame costituito dal ricorso per
cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c.
La prassi e la giurisprudenza si sono posti il quesito se avverso siffatti decreti sia possibile quanto
meno il ricorso straordinario per violazione di legge
al quale si riferisce l’art. 111 della Costituzione che
prevede questo mezzo di impugnazione avverso
tutte le sentenze e contro tutte le decisioni aventi
natura di sentenza, cioè natura decisoria su diritti
contrapposti.
Al quesito è stata data risposta positiva per
quanto concerne i decreti della Corte d’appello pronunciati nei procedimenti di revisione delle condizioni di separazione e di divorzio ma risposta negativa per quanto concerne, invece, i decreti pronunciati dalla Corte d’appello nei procedimenti de potestate.
In ordine ai procedimenti ex art. 317 bis c.c. in materia di affidamento dei minori, la giurisprudenza
della Corte di cassazione ha in passato escluso sempre la ricorribilità per violazione di legge in base all’art. 111 della Costituzione sul presupposto - ripetuto nel tempo - che si tratterebbe di decreti le cui
disposizioni - modificabili e revocabili dallo stesso
giudice minorile e non idonee ad incidere, quindi,
in modo definitivo sulle posizioni soggettive degli
interessati - non avrebbero natura decisoria.
L’orientamento in questione – che, ai fini della ricorribilità per cassazione per violazione di legge,
omologa le procedure di cui all’art. 317 bis c.c. a
quelle de potestate - non è stato mai convincente perché si tratta di procedure ben diverse tra loro. Ed in
ogni caso non è a parere dello scrivente nemmeno
convincente nelle procedure de potestate.
Più volte in passato abbiamo lamentato che i procedimenti ex art. 317 bis c.c. non si differenziano in
nulla e per nulla dai procedimenti di regolamentazione dell’affidamento pronunciati tra coniugi in
sede di separazione e divorzio o in sede di revisione
delle condizioni di separazione e divorzio. Anche la
legge sull’affidamento condiviso all’artr 4 ha
espresso questo principio. Pertanto differenziare la
tutela di legittimità costituisce un non senso giuridico.
Per avere una idea dell’impianto logico-giuridico
che era alla base di questo orientamento si può ripercorrere l’iter argomentativo seguito da una delle
ultime recentissime e significative decisioni in materia (Cass. sez. unite, 8 aprile 2008, n. 9042, Presidente Alessandro Criscuolo; Relatore Stefano Benini) la quale testualmente affermava, occupandosi
di un ricorso ex art. 317 bis c.c., “I provvedimenti in
sede di volontaria giurisdizione non sono ricorribili
in Cassazione. Particolarmente, in tema di tutela dei
minori, i provvedimenti che limitino od escludano
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 25
GIURISPRUDENZA
la potestà dei genitori naturali, ancorché resi dal
giudice di secondo grado in esito a reclamo, non
sono impugnabili con ricorso per Cassazione a
norma dell’art. 111 Cost., in quanto, pur riguardando
posizioni di diritto soggettivo, chiudono un procedimento di tipo non contenzioso, privo di un vero e
proprio contraddittorio, non statuiscono in via decisoria e definitiva su dette posizioni, stante la loro
revocabilità e modificabilità per motivi sia sopravvenuti che preesistenti, e si esauriscono pertanto in
un governo di interessi sottratti all’autonomia privata, senza risolvere un conflitto su diritti contrapposti (Cass. 25.11.1987, n. 8825; 28.11.2003, n. 19863;
27.2.2004, n. 3988; in tema di affidamento del figlio
naturale: Cass. 2.5.1987, n. 4131; 30.1.1989, n. 548),
neppure se il ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale...”.
Identico il ragionamento espresso in Cass. sez.
unite, 30 novembre 2007, n. 25008 (Presidente Vinceno Carbone; Relatore Giuseppe Salmè) che, sempre in una viocenda avente ad oggetto un ricorso ex
art. 317 bis c.c. testualmente ricordava che “il ricorso
è inammissibile. Con sentenza del 25 gennaio 2002,
n. 911 (che però si occupava di una vicenda di adottabilità) queste sezioni unite hanno affermato che
il decreto con il quale la corte d’appello, sezione per
i minorenni, in sede di reclamo, impartisca disposizioni inerenti al rapporto tra genitori e figli naturali
minori, secondo la previsione dell’art. 317 bis c.c.,
non è impugnabile con ricorso per cassazione, ai
sensi dell’art. 111 Cost., nemmeno per la parte in cui
abbia esplicitamente o implicitamente affermato (o
26 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
negato) la giurisdizione, dato che le suddette disposizioni, modificabili e revocabili dallo stesso giudice
minorile e non idonee, quindi, ad incidere in modo
definitivo sulle posizioni soggettive degli interessati,
non hanno natura decisoria e che tale connotazione
si estende necessariamente alla definizione di una
questione pregiudiziale, priva di effetti vincolanti all’infuori del procedimento nel quale viene resa. Non
essendo state indicate ragioni che inducono a discostarsi dal principio affermato a conclusione di
un ampio iter argomentativo, il principio stesso (richiamato anche dalla successiva sentenza di queste sezioni unite n. 11026 del 2003, e dalle sentenze
n. 4499, 11582 e 14380 del 2002, 586/2003, 20333 del
2005 e 1480 del 2007) deve essere ribadito e confermato, nonostante che si rinvengano nella giurisprudenza di questa Corte alcune contrarie affermazioni, che, a un’attenta analisi non appaiono
convincenti”.
Ebbene ora finalmente la Cassazione cambia idea
e si adegua al comune ragionare per cui i procedimenti ex art. 317 bis c.c. e cioè le procedure di affidamento dei figli naturali, in nulla si differenziano
nel rito e nella sostanza dalle procedure di affidamento dei figli legittimi e i provvedimenti che definiscono queste procedure, al pari di tutti i provvedimenti che decidono in materia di affidamento dei
minori non possono non avere la medesima regolamentazione processuale.
Per chi come il sottoscritto ha sempre auspicato
la necessità di un cambio di rotta della Cassazione
sul punto, vedere finalmente realizzarsi questo mutamento di posizione è un motivo di grandissima
soddisfazione.
È causa ostativa
all’affidamento condiviso
il mancato versamento
del mantenimento per i figli
Cassazione civile sez. I,
17 dicembre 2009, n. 26587
Il genitore che non versa ai figli l’assegno di mantenimento perde il diritto all’affido condiviso. Lo ha
stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza
n. 26587 del 17 dicembre 2009, ha respinto il ricorso
di un padre che si opponeva all’affido esclusivo dei
figli all’altro genitore ma che non aveva mai versato
loro l’assegno di mantenimento.
La prima sezione civile ha motivato la decisione
affermando che “perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso, occorre quindi che risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta
GIURISPRUDENZA
carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto
da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole
per il minore (come nel caso, ad esempio, di un’obiettiva
lontananza del genitore dal figlio, o di un suo sostanziale
disinteresse per le complessive esigenze di cura, di istruzione e di educazione del minore), con la conseguenza che
l’esclusione della modalità dell’affidamento esclusivo dovrà risultare sorretta da una motivazione non più solo in
positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche
in negativo sulla inidoneità educativa del genitore che in
tal modo si escluda dal pari esercizio della potestà genitoriale e sulla non rispondenza, quindi, all’interesse del
figlio dell’adozione, nel caso concreto, del modello legale
prioritario di affidamento”.
Il mantenimento in caso di
dichiarazione di paternità
naturale decorre dalla
nascita ed è soggetto ai
criteri di quantificazione
dell’art. 155 codice civile
Cassazione civile sez. I,
6 novembre 2009, n. 23630
Presidente Gabriella Luccioli;
Relatore Massimo Dogliotti
In seguito alla sentenza dichiarativa di paternità,
il figlio acquisisce un differente status, comprensivo
del diritto al mantenimento con efficacia retroattiva
fin dalla nascita; ne consegue che da tale data decorre l’obbligo del genitore dichiarato di rimborsare
in proprio l’altro genitore che abbia provveduto al
mantenimento del figlio, ma la condanna al rimborso di tale quota per il periodo anteriore alla proposizione dell’azione non può prescindere da una
espressa domanda di parte, proposta “iure proprio”
e non in rappresentanza del figlio, nell’ambito della
definizione di rapporti pregressi tra debitori solidali
in relazione a diritti disponibili.
(omissis)
Con sentenza depositata in data 8/10/2007, il Tribunale per i Minorenni di Napoli dichiarava la paternita’ di C.G. nei confronti del minore B.J.M., lo
condannava a pagare a B.S., madre del minore, la
somma di Euro 1.200,00 mensili, nonche’ quella di
Euro 39.900,00 per rimborso alla madre delle spese
di mantenimento pro quota.
Avverso tale sentenza proponeva appello il C., con
ricorso depositato il 02/01/2008, contestando tanto
la dichiarazione di paternita’ che i provvedimenti
economici.
(omissis)
Con il primo motivo di ricorso, il C. lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 la’ dove il Giudice a quo
ha ritenuto legittima la condanna del genitore al
rimborso in favore dell’altro delle spese sostenute
per il mantenimento del minore fin dalla nascita,
nonostante non ci fosse domanda della B. al riguardo.
Il motivo è fondato.
È pacifico che la B. non avesse formulato domanda al riguardo.
È bensì vero che la sentenza dichiarativa della paternità conferisce al figlio un differente status, comprensivo del diritto al mantenimento con efficacia
retroattiva, fin dalla nascita; ne consegue che da tale
data decorre l’obbligo del genitore dichiarato di rimborsare in proprio l’altro genitore che abbia provveduto al mantenimento del figlio; ma la condanna al
rimborso di tale quota per il periodo anteriore alla
proposizione dell’azione non può prescindere da
una espressa domanda di parte, proposta jure proprio e non in rappresentanza del figlio, nell’ambito
della definizione di rapporti pregressi tra debitori
solidali in relazione a diritti disponibili (vedi, al riguardo, tra le altre, Cass. n. 26575 del 2007).
Con il secondo motivo del ricorso, che può trattarsi congiuntamente con il terzo, essendo strettamente collegato ad esso, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 155 c.c.,
dell’art. 2697 c.c., della L. n. 898 del 1970, art. 6,
comma 9 in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché
omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio. Sostiene il ricorrente che il giudice a quo si sia
univocamente richiamato alle condizioni economiche dei genitori, senza per nulla considerare le esigenze reali ed attuali del minore, nato nel 2004.
L’art. 155 c.c. novellato, che il ricorrente ritiene
violato (e la cui disciplina trova sicura applicazione,
ai sensi della L. n. 54 del 2006, art. 6 anche “ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”:
è appena il caso di precisare che, in tale ambito rientrano pure, oltre i procedimenti di cui all’art. 317 bis
c.c., laddove i genitori hanno riconosciuto il proprio
figlio naturale, pure le controversie, come nella specie, di natura economica, collegate o conseguenti ad
una procedura di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità di figlio minore, posto che, ai sensi
dell’art. 277 c.c., il Giudice può dare i provvedimenti
che stima utili per il mantenimento, l’istruzione e
l’educazione del figlio, nonché per la tutela dei suoi
interessi patrimoniali), fornisce una regolamentazione più specifica dei rapporti economici tra genitore e figlio. E’ vero che il Giudice, nel determinare
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 27
GIURISPRUDENZA
l’importo dell’assegno per il minore, deve considerare le “attuali esigenze del figlio”, ma deve pure valutare il tenore di vita goduto dal figlio stesso in costanza di convivenza con entrambi i genitori, nonché le risorse economiche di questi, in tal modo realizzando il “principio di proporzionalità tra i genitori nel mantenimento del figlio.
Dunque la condizione economica dei genitori sicuramente rileva e trova pieno riscontro nel principio generale dell’art. 148 c.c., per cui essi adempiono
l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli, in
proporzione alle rispettive sostanze e secondo le capacità di lavoro professionale o casalingo.
Del resto, le “esigenze attuali del figlio”, cui l’art.
155 c.c. novellato attribuisce comunque sicura preminenza, non sono certamente soltanto quelle inerenti il vitto e l’alloggio e riferite a spese correnti; attinente ad esse e’ indubbiamente l’acquisto di beni
durevoli (indumenti, libri ecc.) f che non rientra necessariamente tra le spese straordinarie; più in generale, le esigenze del minore, necessariamente correlate ad un autonomo e compiuto sviluppo psicofisico, riguardano non solo il profilo alimentare, ma
pure quello abitativo, scolastico, sportivo, sanitario,
sociale, di assistenza morale e materiale, nonché
l’opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere alle complesse ed articolate necessità di cura ed educazione
(sul punto, tra le altre, Cass. n. 11025/97). Non si ravvisa, nella specie, violazione dell’art. 147 c.c. (la tenera età del minore evidentemente impedisce allo
stato di ravvisare specifiche potenzialità capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni) ne’ dell’art. 2697
c.c. (in materia familiare, e massimamente nel rapporto genitori - figli, l’onere della prova non assume
particolare rilevanza, potendo il giudice effettuare
accertamenti d’ufficio e ricorrere a presunzioni, considerazioni generali, ecc., cui non e’ necessariamente
estraneo il principio di equità: e non a caso proprio
all’equità faceva riferimento, nella specie, il giudice
di primo grado, nel determinare la complessiva
somma mensile di Euro 1.800,00 a favore del minore,
di cui l’importo di Euro 1.200,00 a carico del padre).
La valutazione delle “esigenze attuali del minore”
spetta evidentemente al giudice del merito: nella
specie, dal contesto motivazionale della pronuncia
impugnata emerge con chiarezza, seppur per implicito, un sicuro riferimento a tali esigenze, complesse
ed articolate, come sopra indicate, ancorché necessariamente correlate alle condizioni economiche dei
genitori.
Vanno dunque rigettati poiché infondati il secondo e terzo motivo.
L’accoglimento del primo motivo di ricorso non
comporta alcuna ulteriore valutazione di merito. Il
Giudice di primo grado non poteva condannare il C.
al pagamento di somma a favore della B. per i rapporti pregressi, in mancanza di domanda di questa,
28 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
ed il Giudice d’Appello avrebbe dovuto accogliere il
relativo motivo, riformando conseguentemente la
sentenza del Tribunale minorile.
Va cassata sul punto la sentenza impugnata senza
rinvio ai sensi dell’art. 382 c.p.c., per cui questa Corte,
ove ritenga che la causa non poteva essere proposta
o il processo proseguito, cassa senza rinvio.
La natura della causa ed il tenore della decisione
richiedono la compensazione delle spese.
P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il primo motivo di ricorso; rigetta il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, senza rinvio;
dichiara compensate le spese di giudizio tra le parti.
IL PUNTO DI VISTA
di GIANFRANCO DOSI
La Cassazione precisa con la sentenza 23630 del 6
novembre 2009 due importanti concetti in materia
di mantenimento del figlio in seguito alla sentenza
che dichiara la paternità naturale.
In primo luogo viene ribadito che la decisione ha
effetto retroattivo determinando il diritto del genitore che ha agito in giudizio a vedersi riconosciuto il
rimborso del mantenimento fin dalla nascita del
minore. Affermazione ripetuta ormai in una giurisprudenza consolidata che ha talvolta creato il
fraintendimento di far ritenere che il genitore che
agisce con l’azione di paternità naturale possa vantare anche una pretesa risarcitoria che invece non
sussiste in quanto il mancato riconoscimento del figlio costituisce per il nostro ordinamento una facoltà e non un obbligo e pertanto l’omesso riconoscimento del figlio naturale non costituendo un
fatto illecito non può comportare né per l’uomo né
per la madre né per il padre che non abbia riconosciuto il figlio una obbligazione risarcitoria.
Il principio della decorrenza dalla nascita dell’obbligazione (non risarcitoria) ma di mantenimento in
regresso viene in questa sentenza per la prima volta
accompagnata da una inedita precisazione processuale: quella secondo cui la domanda di mantenimento in regresso dalla nascita del figlio deve essere formulata non solo con una espressa domanda
ma nello specifico con una domanda iure proprio. La
precisazione benché importante non ha però una rilevanza diretta nella fattispecie dal momento che
l’azione esercitata dal genitore naturale per l’accertamento della paternità è una domanda effettuata
nell’interesse del minore” (art. 273 c.c.) e non “in
rappresentanza del figlio minore”. Si tratta di un tipico caso di esercizio i un diritto in nome proprio
ma nell’interesse altrui (art. 81 c.p.c.) e pertanto le
domande del genitore in questa causa sono sempre
domande in nome proprio.
DOSSIER
Dossier
Amministrazione di sostegno:
Rifessioni lessicali, questioni redazionali
e potenzialità operative, con particolare
riferimento al testamento biologico
di MARINA COMENALE PINTO,
NOTAIO IN NAPOLI
CENNI INTRODUTTIVI
amministrazione di sostegno è argomento
paradigmatico della stretta connessione
tra vari campi del sapere, nonchè dell’attitudine della scienza giuridica a svolgere
una funzione di raccordo tra le varie discipline.
Infatti la genesi dell’istituto in oggetto può essere
ricondotta alla scienza medica, i cui progressi hanno
sollecitato un cambio di prospettiva nella valutazione sociologica dei disordini e delle problematiche mentali, cambio che ha reso a sua volta necessario un adeguamento linguistico che lo esprimesse
e, infine, un adeguamento normativo, allineato al
mutamento dei tempi anche sotto il profilo terminologico dello specifico linguaggio giuridico. In connessione consequenziale tra loro si è assistito all’evoluzione della scienza medica, all’evoluzione
della sociologia, all’evoluzione linguistica e quindi
all’evoluzione normativa e del relativo lessico, come
sintesi e mediazione dei mutamenti delle altre discipline1.
In tale ottica evolutiva vanno considerate le caratteristiche di flessibilità e modificabilità dell’amministrazione di sostegno, istituto funzionalmente
destinato a dare risposte normative idonee alle multiformi istanze sociali sollevate dalla complessa e
articolata fenomenologia delle persone prive in
tutto o in parte di autonomia, secondo il linguaggio
usato dalla novellata rubrica del titolo XII del libro
primo del codice civile, prima intitolato “Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione”. A riguardo non ci si può esimere da una
prima riflessione lessicale: si è passati dal1”infermità mentale” a “misure di protezione delle persone
prive in tutto o in parte di autonomia”. E’ di tutta
evidenza il mutamento lessicale terminologico, sottolineato anche dalla Cassazione - Sezione Prima Civile nella sentenza 13584 del 12 giugno 2006 e che
introduce al mutamento normativo e fornisce strumenti interpretativi del medesimo.
L’
RIFESSIONI LESSICALI
L’attenzione al linguaggio utilizzato dal legislatore
fornisce proficui strumenti interpretativi, ed è pertanto un utile, per non dire irrinunciabile, “attrezzo
del mestiere” per gli operatori pratici del diritto, soprattutto con riferimento ad istituti di nuova introduzione; la scelta linguistica infatti esprime una
scelta concettuale e quindi la riflessione lessicale
offre una provvida bussola nei percorsi ermeneutici.
Si è già prima accennato al cambio di intestazione
del titolo XII, dove scompare la parola infermità. Rimanendo nella rubrica di tale titolo, e quindi in
quello che può considerarsi il manifesto esplicativo
della novella, contenente la chiave di accesso all’intera normativa, può notarsi come si sia fatto ricorso
all’espressione “misure di protezione”, come compendio dello scopo della legge di modifica al codice
civile, scopo enunciato dall’art.1 della legge stessa e
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 29
DOSSIER
definito nella richiamata sentenza “la ‘stella polare’
destinata ad orientare l’interprete nella esegesi
della nuova disciplina”. Dunque è evidente il cambio
di prospettiva: non più persone inferme e che, loro
malgrado, possono costituire un problema per il nucleo familiare di appartenenza e per l’intera società,
problema per il quale bisogna approntare misure di
prevenzione e di difesa, ma persone in una situazione di difficoltà, meritevoli di maggior attenzione
e tutela e per le quali bisogna approntare misure di
protezione. Per sintetizzare si potrebbe dire non più
“protezione da” un individuo portatore di rischi patrimoniali, ma “protezione di” una persona; non più
prospettiva di tutela del patrimonio di un soggetto e
più in generale del patrimonio di una famiglia, ma
prospettiva di tutela della dignità di un individuo,
della sua personalità, e quindi della sue possibilità
di autodeterminazione.
Come sottolinea la Cassazione nella citata sentenza, si è di fronte al superamento concettuale di
un’ottica “custodialistica” realizzata con soluzioni
autoritative, incentrate su un sistema di divieti del
compimento di una serie più o meno ampia di attività. E se è vero che l’individuo è unità costitutiva
del tessuto sociale, attraverso questo cambio di prospettiva si arriva in via mediata anche a una più efficace tutela della collettività sociale nel suo insieme.
A riguardo è emblematico il cambiamento di formulazione dell’art.414 c.c., già dalla rubrica: “Persone che devono essere interdette” nella vecchia
formulazione, “Persone che possono essere interdette nella nuova formulazione. Nell’ultima parte
della norma si passa da “devono essere interdetti” a
“sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”; può notarsi anche
che il legislatore, in maniera inconsueta almeno rispetto alle modalità redazionali del codice del ‘42,
ricorre per rimarcare la ratio legis alla combinazione
di due aggettivi, “loro” e “adeguata”, apprestando
così indirizzi interpretativi e operativi. E ancora, la
legittimazione a proporre l’istanza di interdizione e
inabilitazione è estesa nella formulazione novellata
dell’art.417 c.c. al diretto interessato, che anzi diventa il primo dell’elenco. Certo l’uso dell’indicativo
“sono interdetti” significa che l’interdizione non si è
trasformata tout court da misura obbligatoria a misura facoltativa, ma l’obbligatorietà ha però in un
certo senso cambiato veste, perché per potersi attivare deve essere necessaria.
Nell’intrapreso percorso lessicale si è partiti dall’art.414 c.c. relativo all’interdizione, perché un muoversi a gambero può facilitare la comprensione dell’intero ordito normativo: la modifica delle vecchie
misure si pone come l’antecedente logico dell’introduzione delle nuove.
Per ritornare allo specifico dell’amministrazione
di sostegno, la prima riflessione lessicale la suggeri30 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
sce la Cassazione, evidenziando la diversificazione
proprio sul piano lessicale dell’art. 404 c.c., prima
norma dell’amministrazione di sostegno, rispetto
all’art. 414 c.c., prima norma dell’interdizione. Nell’art.404 è usata l’espressione “impossibilità, anche
parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”; nell’art.414 è usata invece l’espressione “incapaci di provvedere ai propri interessi”. Dunque
impossibilità da una parte, incapacità dall’altra: una
differenziazione lessicale che esprime e conferma
la gradualità dell’iter evolutivo della normazione indotto dal cambio di prospettiva nella valutazione
del fenomeno da normare.
Altre espressioni significative sono quelle usate
nell’art.410 c.c., a partire dalla rubrica “Doveri dell’amministratore di sostegno”. A riguardo si ricorda
come anche nella disciplina sulla tutela, e precisamente nella disciplina sulla tutela dei minori, c’è
una norma intitolata ai doveri, ma del destinatario
della misura; l’art.358 c.c. infatti è intitolato “Doveri
del minore”. Dunque nell’amministrazione di sostegno la puntualizzazione dei doveri riguarda il titolare della funzione e non il destinatario della misura, che ha piuttosto diritti; nella tutela, sia pure
ripetesi dei minori, la puntualizzazione dei doveri
riguarda invece il destinatario della misura, il minore.
Nel corso del citato art.410 poi si parla di “tener
conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario”, e anche questa selezione e combinazione di vocaboli è interessante: non solo “bisogni”, ossia necessità in un certo senso oggettive, ma anche “aspirazioni”, ossia necessità in un certo senso soggettive. La centralità della persona è ribadita dalle
espressioni “perseguire l’interesse” del beneficiario,
e soddisfarne “i bisogni o le richieste”. E a riguardo
può acquistare significato anche l’uso della congiunzione disgiuntiva “o” nella seconda locuzione;
che sembra sottolineare la carenza dell’esecuzione
della misura se l’amministratore nominato si limitasse a una valutazione eteronoma delle esigenze
del beneficiario, compendiata nella parola “bisogni”
(parola che richiama, come detto, un concetto di oggettività), e non considerasse anche la valutazione
proveniente dal medesimo beneficiario attraverso
le sue “richieste”, parola che richiama un concetto di
soggettività2.
Ancorché le osservazioni lessicali in tal senso potrebbero continuare a lungo, sembra opportuno terminarle con una riflessione sulla scelta del sostantivo “beneficiario”; considerandone il significato per
così dire da consultazione di vocabolario, beneficiario è il titolare di un beneficio, di un vantaggio, di
una convenienza, addirittura di un privilegio. Si sarebbe potuto ricorrere ad altri termini, come per
esempio “assistito” (peraltro usato come infinito
nella forma passiva “essere assistita” nell’art.404
c.c.), “coadiuvato”, e invece si è voluto usare un ter-
DOSSIER
mine che esprimesse il cambio di prospettiva in
modo forte e inequivocabile e come se non bastasse
questo termine è stato ripetuto continuamente, con
un’insistenza che merita di non essere trascurata.
Scorrendo rapidamente le norme: nell’art.405 c.c. è
ripetuto cinque volte, nell’art.406 c.c. è usato una
volta sola, nell’art.407 c.c. due volte, così nell’art.408
c.c. e nell’art.409 c.c., nell’art.410 c.c. quattro volte,
nell’art. 411 c.c. tre volte, e così pure nel testo dell’art.412 c.c.( a parte la rubrica) e nell’art. 413 c.c..
Dunque una parola chiave o, forse si potrebbe
dire, la parola chiave, che anche nei dubbi interpretativi può fare da guida e far propendere più serenamente per una scelta operativa piuttosto che per
un’altra.
QUESTIONI REDAZIONALI
L’atto di designazione dell’amministratore di sostegno è un atto espressamente previsto dal primo
comma dell’art.408 c.c., sia nella seconda locuzione,
dove testualmente è disposto che l’amministratore
di sostegno può essere designato dallo stesso interessato “mediante atto pubblico o scrittura privata
autenticata”, sia nell’ultima, dove si fa riferimento a
un atto di designazione fatto dal genitore superstite
“con testamento, atto pubblico o scrittura privata
autenticata”.
Quanto alla prima fattispecie, il legislatore indica
il contenuto essenziale dell’atto: designazione dell’amministratore di sostegno in previsione della propria eventuale futura incapacità; e ne prescrive la
forma: atto pubblico o scrittura privata autenticata.
La dottrina notarile che si è occupata dell’argomento 3ha evidenziato la questione dell’ammissibilità di un ampliamento del contenuto dell’atto di designazione. In altri termini, può il soggetto interessato specificare le menomazioni fisiche o psichiche
in presenza delle quali dare avvio alla misura di protezione? O ancora, indicare la tipologia degli atti che
in presenza delle dette menomazioni richiedono la
rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria
dell’amministratore di sostegno? O ancora fornire
le linee guida per l’operato dell’amministratore di
sostegno? O addirittura indicare la periodicità con
la quale l’amministratore di sostegno debba riferire
al giudice sul proprio operato? E si potrebbe continuare quasi all’infinito a ipotizzare un contenuto cd.
eventuale.
Rifacendosi alla significativa definizione del decreto di nomina come statuto dell’amministrazione
di sostegno, si verrebbe a ipotizzare una sorta di facoltà per l’interessato di dare, o meglio di suggerire,
norme per questo statuto, norme naturalmente non
vincolanti per il giudice.
Non vi è unicità di opinioni a riguardo e risulta essere prevalente la tesi restrittiva del cd. contenuto
minimo rispetto a quella del cd. contenuto facoltativo.
Quest’ultima però non sembra comportare rischi
per il sistema giuridico e anzi appare più conforme
alla normativa in esame, in quanto da un lato l’atto
di designazione dell’amministratore di sostegno è
atto inidoneo ad alterare in via diretta la sfera giuridica dei terzi, dall’altro il cd. contenuto facoltativo
consentirebbe un più pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione.
Le riflessioni lessicali prima fatte indirizzano in
tal senso. Se tutta la normativa è costruita “a beneficio” del soggetto interessato, con esclusivo riguardo alla sua cura e ai suoi interessi (di “esclusivo
riguardo alla cura e agli interessi della persona del
beneficiario” parla testualmente il primo comma
dell’art. 408 c.c. relativo alla scelta dell’amministratore di sostegno, facendo con l’aggettivo “esclusivo”
nuovamente ricorso ad un rafforzativo), se il giudice
“deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce” (2° comma dell’art. 407 c.c.) e
come si è ricordato deve tener conto dei suoi bisogni
e delle sue richieste (ed è da notare la differente formulazione dell’art 419 c.c. in tema di interdizione e
inabilitazione, dove si parla di “esame” dell’interdicendo o dell’inabilitando da parte del giudice), perché non consentire di esprimere i propri “bisogni”,
“aspirazioni” e “richieste” in un momento in cui l’incapacità non è ancora intervenuta e quindi il futuro
beneficiario ha meglio presenti i suoi bisogni e le
sue aspirazioni e di conseguenza può formulare con
più puntualità le sue richieste e fornire al giudice
più adeguati, e potrebbe dirsi più attendibili, elementi di valutazione per le decisioni da assumere?
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 31
DOSSIER
Un’opzione redazionale va scartata quando può
comportare un’ingerenza nella sfera giuridica di un
terzo, estraneo al negozio giuridico, a sua insaputa
e/o suo malgrado, ma in questo caso il contenuto
del negozio è destinato a incidere solo nella sfera
giuridica del suo autore, peraltro in maniera né diretta, in quanto l’effetto istitutivo della nomina si
produce solo col provvedimento del giudice, né, si
potrebbe dire, ineluttabile, in quanto ogni valutazione finale è rimessa al giudice, la cui facoltà di
scelta è condizionata, limitata, o per meglio dire guidata dall’atto di designazione, ma non preclusa.
In dottrina ci si è anche soffermati sulla natura
giuridica degli atti di designazione in oggetto e da
alcuni sembra essersi dubitato trattarsi di un negozio giuridico (naturalmente unilaterale e con efficacia in vita se proveniente dallo stesso beneficiario,
post mortem se proveniente dal genitore superstite),
perché non sostitutivo, come si è già rilevato, dell’intervento del giudice, ossia perché non produttivo
direttamente dell’effetto istitutivo della nomina. Da
altri è stata delineata la ricostruzione di negozio
unilaterale accessorio, precisandosi che “l’accessorietà consiste nella idoneità della designazione preventiva ad accedere appunto al provvedimento del
giudice tutelare”4.
L’atto di designazione non costituisce un’invenzione del legislatore del 2004, ma era già presente
nel nostro codice civile in varie norme dettate in
sede di tutela; si pensi al primo comma dell’art. 345,
al primo comma dell’art. 348 e al primo comma dell’art. 356, che riguarda anche i minori soggetti a potestà.
La prima norma prevede l’obbligo per il notaio che
procede alla pubblicazione di un testamento contenente la designazione di un tutore o di un protutore
di darne notizia al giudice tutelare entro dieci giorni.
Tale norma, tra l’altro, pur non essendo compresa
tra le disposizioni richiamate dall’art. 411 c.c. forse
perché compatibile con l’istituto in esame solo in
minima parte, potrebbe comunque offrire un qualche spunto operativo per quello che si è configurato
come il problema della mancanza di un regime di
pubblicità degli atti di designazione.
Quanto poi all’art.348 c.c., intitolato “Scelta del tutore” (dunque l’opzione linguistica della rubrica del
nuovo art. 408 c.c. parte da qui), esso dispone che il
“giudice tutelare nomina tutore la persona designata dal genitore che ha esercitato per ultimo la
patria potestà”, e ancora che “la designazione può
essere fatta per testamento, per atto pubblico o per
scrittura privata autenticata”, similmente alla richiamata designazione dell’amministratore di sostegno da parte del genitore superstite. Una piccola
parentesi sintattica: le due norme appaiono omologhe quanto alle scelte linguistiche, ma in esse è
usata una preposizione diversa per introdurre lo
strumento attuativo della designazione: “per testa32 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
mento” etc. in tema di tutela (1° comma dell’art.348
c.c.), “ con testamento” etc. in tema di amministrazione di sostegno (3° comma dell’art.408 c.c.), anticipato dal “mediante atto pubblico” etc. del 2°
comma dello stesso art.408 c.c.. Si potrebbe pensare
che pure quel “per” che diventa “mediante” e poi
“con” indica una evoluzione delle scelte normative.
Infatti sia la preposizione “per” sia la preposizione
“con” introducono il complemento di mezzo, ma entrambe possono essere utilizzate anche per altri
complementi, e precisamente “per” per quello di
fine e “con” per quello di unione; quindi la prima
preposizione potrebbe evocare l’utilizzo di un mezzo
che ha uno scopo perentorio, l’altra, cioè “con”, l’utilizzo di un mezzo di più ampia portata. In altri termini la fluidità con la quale si è voluto connotare il
nuovo regime di protezione verrebbe ad essere confermata anche da questo dettaglio sintattico e quel
“con” potrebbe essere di supporto alla tesi del cd.
contenuto eventuale.
Ritornando alle considerazioni sulla natura giuridica dell’atto di designazione, come detto si tratta
di un istituto già presente nel nostro codice civile e
la dottrina 5si era espressa senza esitazioni nel
senso di qualificarlo come negozio giuridico di diritto familiare. Ricapitolando le riflessioni svolte,
l’atto di designazione può essere definito come negozio giuridico unilaterale, non patrimoniale, di diritto familiare, o forse meglio di diritto personale,
destinato ad avere effetto in vita del suo autore.
Quando la designazione è contenuta in un testamento, il che è possibile ovviamente soltanto qua-
DOSSIER
lora il designante sia un soggetto diverso dal diretto
interessato, integrerà un atto post mortem, destinato cioè ad avere effetto dopo la morte del suo autore, ma non mortis causa, perché non diretto a determinare la sorte di rapporti patrimoniali, e rientrerà tra le “disposizioni di carattere non patrimoniale che la legge consente siano contenute in un
testamento” e che ai sensi dell’art.587, 2° comma,
c.c. “hanno efficacia anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale”.
POTENZIALITÀ OPERATIVE, CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO AL TESTAMENTO BIOLOGICO
La flessibilità e la fluidità dell’istituto, che pure
non hanno risparmiato critiche allo stesso, possono
essere valutate come un’indovinata sintesi tra l’esigenza della generalità della norma e l’esigenza della
compiutezza del dettato normativo, la quale postula
la riduzione al minimo di eventuali lacune. Si tratta
di esigenze entrambe riconducibili a quella più generale dell’ordine sociale, che può risultare compromesso tanto da norme troppo speciali, e quindi
rischiose per il valore dell’uguaglianza, tanto da
norme troppo carenti, e quindi inidonee ad eliminare i rischi dell’assenza di regole.
In particolare la delineata sintesi può considerarsi
realizzata attraverso la scelta normativa incentrata
su quello che è stato felicemente definito come statuto dell’amministrazione, ossia il decreto di nomina da parte del giudice tutelare, provvedimento
che viene a costituire l’elemento di raccordo tra le
richiamate due esigenze di generalità da una lato e
di compiutezza dall’altro.
La rilevata utilità socio-giuridica delle connotazioni di flessibilità e fluidità della disciplina in
esame può assumere particolare evidenza con riferimento ad una problematica di incalzante attualità,
quella del cd. testamento biologico.
Si tratta di un tema socialmente, e può aggiungersi, drammaticamente sensibile, in ordine al quale
è ancora in atto un acceso dibattito politico che rallenta l’emanazione di una normativa specifica. Le
riflessioni che seguiranno sono squisitamente tecniche e sono lungi dal voler coinvolgere aspetti di
altra natura.
A non pochi operatori del diritto, sia notai sia avvocati, capita di sentirsi rivolgere la domanda di
come poter fare un valido testamento biologico alla
luce delle norme vigenti, ossia nelle more di una disciplina specifica.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno può
aiutare a rispondere a tale domanda?
A riguardo può essere utile ricapitolare le tappe di
un possibile percorso interpretativo.
Se nell’ordinamento non esiste una norma che disciplina espressamente il caso in questione (come
attualmente per il testamento biologico), bisogna
passare a considerare:
se c’è una normativa non espressa ma sistematica, deducibile dall’ordinamento giuridico generale
e quindi applicabile al caso di specie; oppure
se ci si trova di fronte a una vera e propria lacuna,
a un vuoto normativo, tenendo presente che questa
è un’ipotesi limite, perché ogni ordinamento tende
a non avere lacune , o comunque a ridurle al minimo, per un’evidente esigenza di ordine sociale, in
quanto la mancanza di regole crea incertezze e tensioni che compromettono la cd. pace sociale.
Come osservato da un autorevole giurista, tra “i
casi inclusi espressamente e i casi esclusi c’è in ogni
ordinamento” “una zona incerta di casi non regolati
ma potenzialmente attirabili nella sfera d’influenza
dei casi espressamente regolati. Ogni ordinamento
prevede i mezzi o i rimedi atti a penetrare questa
zona intermedia, e quindi ad estendere la sfera del
regolato in confronto di quella del non regolato” 6.
In un momento in cui una normativa specifica ancora non è stata emanata, bisogna inoltrarsi nello
spazio intermedio tra le fattispecie espressamente
regolate e quelle vietate e, in un delicato sforzo ermeneutico, bisogna interrogarsi sull’inquadramento
della fattispecie, alla luce del vigente l’ordinamento,
come illecita o piuttosto come meritevole di tutela e
quindi di attuazione.
Il nostro ordinamento, a partire dalle sue norme
fondanti contenute nella Costituzione, riconosce
come diritto inviolabile quello espresso con le parole “consenso informato” di cui il testamento biologico si presenta come la naturale applicazione. Si
pensi ad esempio al 2° comma dell’art.32, ai sensi
del quale “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso
violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana.”
Il problema si concentra allora sulla possibilità di
rintracciare, nella cd. zona intermedia dei casi non
espressamente previsti ma attirabili nella sfera del
regolato, strumenti giuridici idonei e leciti per l’esercizio di tale diritto; in altri termini veicoli emissivi
della volontà di esercizio di tale diritto.
Il primo atto che potrebbe venire in mente è il testamento, se non altro per la terminologia adoperata per indicare la problematica in questione, “testamento biologico” o “testamento di vita”. Ma il testamento, ancorché possa contenere disposizioni di
carattere non patrimoniale, è comunque destinato
ad avere efficacia solo dopo la morte del suo autore,
post mortem, e quindi non può essere conosciuto
nel suo contenuto prima della morte di questi, mentre il cd. testamento biologico è destinato ad avere
efficacia in vita, sia pure talvolta nell’ultimo scorcio
di vita tanto da poterlo definire, con un neologismo
giuridico, atto “prae mortem”. Va comunque sottolineato come sia stata autorevolmente evidenziata
un’affinità concettuale tra testamento biologico e
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 33
DOSSIER
testamento tipico e cioè l’essere un monologo destinato ad essere ascoltato ed eseguito quando non
vi è più nessuna possibilità di controllarne l’esecuzione da parte dell’autore.7
Nella disciplina di quali altri istituti espressamente regolati potrebbe allora essere potenzialmente attirabile questo atto “prae mortem”?
Sono stati considerati il mandato e la procura, ma
sono atti funzionalmente destinati a incidere su
rapporti giuridici patrimoniali e ciò non facilita
l’operazione di “attrazione” del cd. testamento biologico nella loro disciplina, perché col testamento
biologico si è chiaramente fuori dalla sfera patrimoniale.
È vero che nel nostro ordinamento sono espressamente previsti casi di procura per rapporti personali, per questioni, potrebbe dirsi, personalissime,
come la procura per celebrare il matrimonio di cui
all’art.111 c.c.8, ma riguardano situazioni eccezionali
per le quali il legislatore, proprio in ragione della
particolarità e delicatezza delle stesse, detta una disciplina specifica e alquanto analitica, come può
evincersi dal citato art.111 c.c., che tra l’altro dispone una scadenza temporale della procura di centottanta giorni da quello in cui è stata rilasciata9, in
modo che non ne possano derivare compromissioni
per l’ordine sociale, per la pace sociale, e quindi per
l’ordine pubblico interno.
A questo punto è forse opportuno riepilogare la
definizione di ordine pubblico interno. L’ordine pubblico interno non concerne solo questioni di pubblica sicurezza immediate, ossia questioni che evocano l’intervento delle forze dell’ordine in tenuta
antisommossa, ma è un concetto più ampio, che riguarda l’insieme di quei principi avvertiti da una comunità come fondamentali; tali principi tanto sono
avvertiti come irrinunciabili che costituiscono le direttive generali di tutto il sistema giuridico e la loro
violazione potrebbe compromettere la pacifica convivenza, l’ordine sociale.
L’ordine pubblico interno va inteso in altri termini
come la sintesi delle istanze etico-sociali dell’intera
collettività 10. Si tratta di concetti di sempre rinnovati attualità e contenuto, in considerazione delle
trasformazioni sociali che originano esigenze e problematiche nuove e richiedono soluzioni giuridiche
adeguate11. A riguardo può ricordarsi il concetto di
ordine pubblico filantropico elaborato da autorevole
dottrina con riferimento ai diritti della personalità;
in particolare è stato sottolineato come la valorizzazione dei principi di dignità e autodeterminazione
hanno trasformato l’ordine pubblico di protezione
in un ordine pubblico filantropico12; e di certo, per
tornare agli argomenti in esame, i principi di dignità
e autodeterminazione informano l’istituto dell’amministrazione di sostegno e investono la problematica del cd. testamento biologico.
In definitiva la tutela dei singoli e la tutela della
34 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
collettività nelle società democratiche sono intrinsecamente e indissolubilmente connesse e finiscono per coincidere. In una consapevolezza normativa che parte dalla Costituzione (all’art. 2 si parla
di singolo che svolge la sua personalità, all’art. 3 di
pieno sviluppo della persona umana, solo per fare
degli esempi), il legislatore nelle sue scelte di legiferazione è sempre più orientato in questo senso, peraltro nei più diversi settori, con una crescente attenzione per i soggetti cd. deboli, o meglio più genericamente per i soggetti in difficoltà.13 14.
E quale situazione di maggior difficoltà si può ipotizzare rispetto a quella di un soggetto gravemente
ammalato, arrivato al capolinea della vita? E’ possibile che rimanga sprovvisto di tutela nel suo diritto
di scelta?
Dunque l’operatore pratico del diritto deve tener
conto di tutto questo nella sua funzione di applicatore del diritto, e la questione in esame richiede uno
sforzo di interpretazione particolarmente complesso e delicato. Bisogna saper essere interprete
dotato di “occhio chiaro e affetto puro”, per prendere in prestito un’efficace espressione di Paolo
Cendon, riguardo a un caso relativo proprio all’amministrazione di sostegno15.
Considerato che anche gli istituti del mandato e
della procura non offrono una soluzione praticabile,
occorre valutare se comunque il sistema contiene
degli strumenti a cui si può ricorrere o se ci si trovi
davanti a una incolmabile lacuna normativa, ancorché, come si è ricordato, l’ordinamento giuridico
tenda a non avere lacune.
DOSSIER
Ad oggi per rispondere all’esigenza di un cd. testamento biologico, una strada percorribile sembra
essere proprio quella del ricorso alla normativa sull’amministrazione di sostegno, la cui prospettiva è
orientata verso il rispetto della persona umana, lo
stesso rispetto invocato per sollecitare una risposta
al quesito prospettato.
Entrando più nel dettaglio, lo spunto letterale normativo può trarsi in particolare dall’art. 408 c.c., laddove si puntualizza che “la scelta dell’amministratore di sostegno avviene con esclusivo riguardo alla
cura ed agli interessi della persona del beneficiario”;
e nell’espressione “cura della persona” si possono
far rientrare anche la cura e la tutela della salute,
comprensive delle scelte proprie del cd. testamento
biologico. E al 2° comma, come si è detto, è previsto
che “L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della
propria futura incapacità”.
Quindi un soggetto potrebbe procedere alla designazione di un amministratore di sostegno a cui affidare anche la cura e la tutela della propria salute
per il momento in cui venisse a trovarsi nella impossibilità di provvedervi a causa di infermità o di
menomazione fisica o psichica.
Non si tratta di un’idea originale perché in tal
senso vi sono stati sia provvedimenti giudiziali, sia
interventi di studio.
Quanto ai primi, si richiamano alcuni provvedimenti del Tribunale di Modena. In particolare uno
del maggio 2008 ha riguardato una signora settantenne che era affetta da una malattia degenerativa
incurabile (sclerosi laterale amiotrofica) e che aveva
comunicato al marito e ai figli di non volere interventi né accanimenti terapeutici. Nel momento in
cui le sue condizioni sono notevolmente peggiorate,
il marito ha presentato ricorso per la nomina di un
amministratore di sostegno e attraverso questa
strada le volontà della signora sono state rispettate.
Un altro provvedimento, del novembre 2008, ha riguardato l’accoglimento di un ricorso per la nomina
di un amministratore di sostegno depositato da un
professionista, dopo che, in possesso di piena capa-
cità di intendere e volere, aveva designato, con scrittura privata autenticata da un notaio, la propria moglie come amministratore di sostegno, con l’incarico
di pretendere il rispetto delle disposizioni terapeutiche dettate con la scrittura stessa per l’ipotesi di
una sua eventuale futura incapacità; a riguardo può
anche notarsi come nel caso di specie risulti accolta
la tesi dell’ammissibilità del cd. contenuto eventuale dell’atto di designazione.
Quanto agli interventi di studio, si può segnalare
una relazione svolta in un convegno del 200416,
quindi non condizionata da spinte emotive relative
a casi particolarmente drammatici, nella quale tra i
“tratti salienti” introdotti dalla nuova disciplina sull’amministrazione di sostegno veniva menzionata
testualmente “la possibilità di costruire, in concreto,
nuove figure come quella del cd. “Testamento biologico” (non previste espressamente ed autonomamente dall’ordinamento)”.
Comunque non si possono tacere a riguardo le
osservazioni di due autorevoli giuristi17, i quali
hanno sollecitato l’attenzione a che il ricorso all’amministrazione di sostegno non degeneri in sovrapposizione della volontà espressa dal soggetto
interessato precedentemente e anche informalmente. Si è ricordato il caso in cui un’anziana signora prima di entrare in stato precomatoso aveva
rifiutato l’amputazione di un arto, prospettatale
come estrema ratio per salvarle la vita, e che poi era
stata sottoposta all’intervento per il consenso prestato da un parente nominato amministratore di
sostegno. Applicazioni di questo genere dell’istituto
dell’amministrazione di sostegno finiscono per tradirne lo spirito di rispetto e protezione delle scelte
personali.
E altra riflessione che va fatta è che comunque, integrando un procedimento e quindi una serie di atti
giuridici (ricorso per la nomina, istruttoria da parte
del giudice, giuramento e così via), l’attivazione dell’amministrazione di sostegno ha per ciò stesso
tempi più lunghi rispetto a un unico atto, nonostante “la maggiore agilità” della procedura applicativa 18 rispetto all’interdizione-19
Note
1
Nel senso di tali evoluzioni si segnala “Una mente inquieta” di Kay Redfield Jamison, Edizioni Tea
1998, libro-testimonianza di una docente di psichiatria della prestigiosa Johns Hopkins University
School di Baltimora; per la quale una malattia maniaco-depressiva non ha significato preclusione
dal successo accademico e letterario.
La storia ci racconta che in passato le difficoltà di comprensione e gestione delle personalità più
complesse e dotate di una più accentuata sensibilità venivano non di rado risolte col marchio della
follia e il rimedio dell’emarginazione. Emblematico in tal senso può essere il caso di Torquato Tasso,
che per sette anni venne addirittura rinchiuso nella parte dell’Ospedale Sant’Anna di Ferrara dedicata ai malati di mente e rappresentata dai sotterranei della struttura.
Ne “Il doge”, seconda delle storie di cui si compone “L’Italiano” (Torino, 2007), Sebastiano Vassalli immagina che Ludovico Manin, ultimo dei dogi, è indotto dagli eventi a un ribaltamento dei pregiudizi
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 35
DOSSIER
nei confronti dei disturbi mentali, per cui giunge a pensare che la “saggezza era diventata pazzia e
la pazzia, forse, era l’unica saggezza possibile” e a disporre un cospicuo lascito a favore dei “malati
dell’Ospedale di San Servolo, dove si curavano i matti. Se c’era ancora una via di salvezza, pensò il
doge, soltanto loro: i diversi, i lunatici, gli strambi avrebbero potuto indicarla”.
2
Di bisogni e richieste dell’interessato già parla l’art.407 relativo al procedimento, laddove stabilisce
che “dei bisogni e delle richieste” della persona deve tener conto il giudice tutelare, anche se aggiunge
“compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona”.
3
In particolare Maria Teresa Schettino, Atto di designazione di amministratore di sostegno, in Notariato n.4/2005, pp.389 ss..
4
Così Salito e Matera, Amministrazione di sostegno: il ruolo del notaio, in Notariato 6/2004, pag.668.
5
Cfr per tutti Ettore Protettì e Cesare Augusto Protettì sub art.348, in Commentario teorico-pratico al
codice civile diretto da Vittorio de Martino, Roma 1974.
6
Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960. L’Autore sottolinea che lacuna normativa “significa che il sistema in certi casi non offre la possibilità di risolvere un dato caso né in un certo
modo né nel modo opposto”, ossia che da un lato non esiste una norma specifica che regoli la fattispecie, e dall’altro che questa inesistenza di una norma espressa non può nemmeno essere intesa
come illiceità della fattispecie (come divieto della fattispecie conseguente a un giudizio di illiceità da
parte dell’ordinamento).
7
Rescigno, La scelta del testamento biologico, in AA.VV. Testamento biologico: riflessioni di dieci
giuristi. Fondazione Umberto Veronesi. Il sole 24 Ore, Milano 2006.
8
Ammessa per i militari e le persone che per ragioni di servizio si trovano al seguito delle forze armate
in tempo di guerra, o per persone residenti all’estero quando concorrono gravi motivi da valutarsi dal
tribunale.
9
Altro caso di procura per un negozio familiare è quello previsto in materia di adozione dall’art.311
(2° comma ex 3° comma). L’assenso dell’adottante e dell’adottando, nonché quello dei loro coniugi,
e dei genitori dell’adottando può essere dato da persone munite da procura speciale; quindi anche
in questo caso il procuratore è un semplice nuncius, un annunciatore di una scelta già fatta, un mero
trasmettitore di una volontà altrui già definita nel suo contenuto specifico.
10
La collettività è l’insieme degli individui, è un compendio delle individualità; e l’estrinsecazione della
personalità di un singolo individuo non si pone, per il solo fatto che attiene al singolo, in contrapposizione o dissidio con le istanze collettive, ma deve essere considerata in sintonia con queste e anzi
costituisce un valore per l’intera collettività. Il concetto di ordine pubblico interno ritorna spesso a
fronte di questioni che coinvolgono il comune sentire relativamente ad aspetti etico-sociali dell’esistenza, e non può prescindersi da esso nella ricerca di una normativa eventualmente applicabile, ossia nella ricerca di una soluzione operativa.
11
Cfr. per un concetto simile Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli 1972, p.175.
12
Roppo, Trattato del contratto, Interferenze, Milano 2006.
13
Sicuramente come espressione di alto grado di civiltà ma anche con un ritorno positivo per l’intera
comunità e per il progresso materiale e spirituale di tutta la società (di progresso materiale e spirituale della società parla l’art. 4 della Costituzione).
14
Si pensi ancora una volta alla normativa sull’amministrazione di sostegno di cui beneficiari sono
soggetti cd.deboli, alle normative nei settori sanitario, scolastico ed anche alla recente normativa
sullo stoolking.
15
Significativo è il titolo dell’intervento:“Maramaldo, il Monte Rushmore, il posto delle fragole”.
16
Paolo Dell’Anna, L’amministrazione di sostegno, Atti del Convegno di Gallipoli 2-3 luglio 2004 a cura
del Comitato Notarile Regionale della Puglia, Edizioni Vivere in.
17
Bonilini e Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Milano 2007.
18
Sottolineata dalla Cassazione nella citata sentenza n.13584/2006.
19
Se si dovesse scartare il ricorso alla disciplina dell’amministrazione di sostegno e già de iure condito
si volesse ritenere ricevibile un cd. testamento biologico come atto sic et simpliciter, si verrebbe a configurare un negozio unilaterale, più che tra vivi “da vivo”, atipico (ossia non espressamente previsto),
prae mortem quanto al momento di efficacia e quindi di rilevanza per i terzi, non patrimoniale, ma
neanche propriamente di diritto familiare quanto piuttosto potrebbe dirsi di diritto personale, inidoneo ad alterare la sfera giuridica dei terzi.
Sul problema dell’ammissibilità di atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale atipici cfr. Donisi, op. cit..
36 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
GIURISPRUDENZA
fronti del padre, tradottosi nella deliberata volontà
di condizionamento psicologico della figlia della
coppia, indotta così a non voler incontrare il padre
nei termini stabiliti nella separazione, e volto ad annullare la figura paterna.
(Omissis)
Molto puntuale e importante è invece la seconda
precisazione. Che cioè anche in caso di sentenza dichiarativa della paternità naturale trovano applicazione per ciò che concerne il mantenimento (che secondo l’art. 273 c.c. costituisce espresso contenuto
accessorio della sentenza dichiarativa della paternità) le regole contenute nell’art. 155 c.c. e in particolare i criteri di determinazione del contributo di
mantenimento per i figli.
La sentenza è quindi un’interessante conferma
dell’orientamento che ormai la Cassazione da
tempo persegue nella prospettiva di una unificazione dello statuto giuridico dei figli, quale che ne
sia l’origine, legittima o naturale.
La responsabilità penale
del genitore che ostacola
i rapporti tra il figlio
e l'altro genitore
Cassazione penale, sezione feriale,
8 settembre 2009, n. 34838
Presidente Bruno Rossi;
Relatore Giacomo Paoloni
Ha diritto al risarcimento del danno endofamiliare ex art. 388, comma secondo, c.p., per elusione
sistematica dei provvedimenti sull’affidamento stabiliti dal giudice della separazione, il comportamento ostile attuato dalla madre affidataria nei con-
1.- T.A. propone ricorso, mediante il difensore, per
la cassazione della sentenza del 5.2.2009, con cui la
Corte di Appello di Genova ha confermato la sentenza emessa il 9.12.2004 dal Tribunale di Massa sezione distaccata di Carrara, che l’ha riconosciuta
colpevole del reato di cui all’art. 388 c.p., comma 2,
per aver eluso, in più occasioni, i provvedimenti presidenziali adottati nella causa di separazione coniugale concernenti l’affidamento della figlia C. (cinque anni), impedendo al coniuge separato P.R. di
svolgere i previsti incontri giornalieri con la bambina affidata ad essa imputata e di tenerla con sè in
due fine - settimana mensili. Colpevolezza sanzionata con la condanna, concesse le attenuanti generiche, alla pena di sei mesi di reclusione ed al risarcimento del danno in favore del P. costituitosi parte
civile.
2. La sentenza impugnata, muovendosi nella scia
della decisione del Tribunale, al pari di questa non
approfondisce la sussistenza dell’elemento psicologico del reato ascritto all’imputata, tralasciando
di considerare che i diversi episodi di c.d. elusione
di modalità e tempi di affidamento temporaneo
della figlia della donna al padre e marito separato,
che costellano la ricostruzione dei fatti operata dal
giudice di primo grado, sono in realtà caratterizzati
non dal dolo del reato, ma al più da mera colpa. La
T. non ha affatto impedito al coniuge di prelevare e
tenere con sé la bambina, salvi i casi in cui la piccola non è stata consegnata al padre perché ammalata (come da certificati medici prodotti), dal
momento che è stata sempre la stessa bambina a
rifiutare, con pianti e manifestazioni di palese disagio, di andare insieme al padre (evenienza che sarebbe stata rilevata anche dai carabinieri intervenuti su richiesta del P. presso l’abitazione dei suoceri ove la donna si era trasferita con la bambina).
A tutto voler concedere la T. può non essersi adoperata per convincere la piccola C. a stare anche
con il padre o comunque per favorire gli incontri
con il marito separato, ma mai ha inteso ostacolare
o impedire siffatti incontri.
3. Entrambe le sentenze di merito travisano i dati
probatori in punto di dolo del reato, attribuendo un
fuorviante significato sostanzialmente confessorio
alle parole della donna, allorché ha puntualizzato di
essere unicamente intervenuta per proteggere come
mamma la bambina, che le appariva star male ed
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 37
GIURISPRUDENZA
essere traumatizzata in concomitanza con le visite
del padre.
(omissis)
2.- Il ricorso proposto da T.A. va dichiarato inammissibile, vuoi per la genericità o aspecificità dei
motivi di ricorso cristallizzati - salvo il primo - nella
reiterazione dei motivi (prevalentemente in fatto)
del già interposto appello avverso la decisione del
primo giudice, vuoi per la manifesta infondatezza
delle enunciate censure, tutte afferenti in buona sostanza a profili o temi fattuali e giuridici già sottoposti alla Corte territoriale e da questa ampiamente
affrontati e risolti con adeguate, non illogiche e persuasive motivazioni, non scrutinabili in questa sede
di legittimità.
(omissis)
Manifesta è l’infondatezza degli altri tre motivi di
ricorso, afferenti tutti alla asserita mancata prova
dell’elemento soggettivo della fattispecie di cui all’art. 388 c.p.p., comma 2, ascritta all’imputata. I rilievi critici della ricorrente delineano, in vero, una
impropria rivisitazione delle emergenze fattuali ricomposte con particolare cura dalla sentenza del U
Tribunale e pienamente confermate dall’analisi svoltane dalla sentenza della Corte di Appello di Genova.
Dette risultanze hanno posto in luce, rispetto all’alternativa lettura disegnata dal ricorso, l’univoca
descrizione di un lampante e radicato “comportamento ostile” della T. nei confronti del coniuge separato, tradottosi nella deliberata volontà di condizionamento della piccola figlia della coppia, sì da
dar luogo a quella che la sentenza di appello motivatamente qualifica come “sistematica elusione” dei
provvedimenti sull’affidamento della bambina
adottati dal giudice della separazione.
Non è casuale, del resto, ad ulteriore conferma
della intenzionalità dei ripetuti atteggiamenti omissivi assunti dalla T., susseguitisi nel periodo di
tempo della contestata accusa (fino al (OMISSIS)),
che la sentenza del Tribunale abbia posto in luce
come il giudice civile il (OMISSIS) si sia determinato
a modificare le regole di affidamento temporaneo
della bambina al padre (nei giorni e nei tempi previsti), disponendo la presenza di personale del servizio sociale territoriale al momento della consegna
della bambina dalla T. al marito. Decisione che si coniuga alla successiva segnalazione del consulente
psicologico di ufficio (dr.ssa C.L.), che giunge a proporre l’affidamento della bambina ad una terza persona e non più alla madre (v. sentenza Tribunale, p.
3: “L’unico obiettivo della madre è quello di annullare la figura paterna...pertanto è necessaria una figura super partes che pretenda dalla madre di rispettare il programma...”).
38 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
Né travisamento alcuno delle dichiarazioni dei carabinieri intervenuti presso 1’abitazione dei suoceri
del denunciarne P. in occasione di alcune “consegne
- della bambina al padre è stato compiuto dai giudici
di merito. Se è vero - infatti - che i carabinieri hanno
confermato che in tali circostanze la bambina
piange e mostra ritrosia nell’andare insieme al padre, è altrettanto vero - in patente distonia con la
parziale enunciazione delle risultanze processuali
svolta nel ricorso - che gli stessi carabinieri hanno
sottolineato il netto e categorico rifiuto della T. e dei
suoi stessi genitori (nonni della bambina), intervenuti a spalleggiarla contro il marito separato (con
anomala intromissione nei rapporti tra i due coniugi), nel fare soltanto vedere la bambina al padre.
(omissis)
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
IL PUNTO DI VISTA
di GIOIA SAMBUCO
AVVOCATO DEL FORO DI RIETI. COMPONENTE DEL COMITATO
DI REDAZIONE DI “AVVOCATI DI FAMIGLIA”
1. Il rapporto del bambino con entrambi i genitori
costituisce relazione affettiva giuridicamente rilevante con la conseguenza che una condotta finalizzata ad escludere l’altra figura genitoriale deve essere qualificata come antigiuridica poiché idonea
alla determinazione di un grave pregiudizio al diritto personale di quest’ultima alla piena realizzazione del rapporto con il figlio, e danneggia il minore per la perdita dell’insostituibile relazione affettiva. L’aspetto rimediale di questo che potrebbe
definirsi come un “illecito parentale”, si compone,
in prima battuta, della tutela penale. In base all’art.
388, comma 2° C.p., commette reato chi elude l’applicazione di un provvedimento del giudice civile
concernente l’affidamento dei minori, indirizzandosi, quindi, sia al genitore “assenteista”, sia al genitore che ostacoli i rapporti con l’altro, anche nella
forma di un comportamento omissivo di inattività,
qualora sia compito di questi collaborare per permettere all’obbligato di esercitare le sue funzioni.
2. La necessità di sottoporre al supremo vaglio di
legittimità la decisione del Tribunale di Massa, Sezione distaccata di Carrara, confermata dalla Corte
d’appello di Genova, maturava dalla convinzione
della ricorrente che i Giudici ad quem fossero incorsi
in una serie di carenze ed errori processuali nell’emanazione della sentenza con la quale la stessa
era stata riconosciuta colpevole del reato di cui all’art.
GIURISPRUDENZA
388, co. 2°, C.p. per aver eluso, in più occasioni, i provvedimenti presidenziali adottati nella causa di separazione coniugale concernenti l’affidamento della figlia minore di anni cinque, impedendo al coniuge legalmente separato di svolgere gli incontri giornalieri
previsti con la bambina e di tenerla con sé in due fine
settimana mensili. Colpevolezza, sanzionata con la
condanna, concesse le attenuanti generiche, alla
pena di mesi sei di reclusione ed al risarcimento del
danno in favore della costituita parte civile.
Il ricorso per cassazione della ricorrente sostanzialmente si incentra su argomentazioni squisitamente di merito, finalizzate a portare avanti la tesi
dell’assoluta estraneità della imputata ai fatti di
reato alla stessa contestati, addebitando invece la
mancata frequentazione della figlia con il padre, al
solo ed esclusivo rifiuto della minore, invocando al
riguardo il vizio del travisamento delle emergenze
fattuali. Come è noto, le significative modifiche ai
motivi di ricorso in cassazione apportate dalla L. 20
febbraio 2006, n. 46, consistenti nell’ampliamento
degli stessi attraverso una nuova formulazione dell’art. 606 C.p.p., lettera d) e art. 606 C.p.p., lettera e),
hanno superato il precedente orientamento secondo il quale il controllo della Suprema Corte
debba limitarsi alle questioni di puro diritto, ammettendo, piuttosto, una ingerenza del giudice di legittimità nella valutazione della prove. Questa considerazione emerge dall’analisi delle due innovazioni apportate all’art. 606 C.p.p.:
- il motivo di ricorso per cassazione previsto dalla
lettera d) dell’art. 606 C.p.p., è stato esteso alla man-
cata assunzione di una prova decisiva, anche
quando la parte piuttosto che domandarla tempestivamente ai sensi degli artt. 468, 493, 495 C.p.p., la
richieda nel corso dell’istruttoria dibattimentale;
- in base alla lettera e) dell’art. 606 C.p.p., il sindacato sulla motivazione della Corte si estende, oltre
alle ipotesi della mancanza o manifesta illogicità, anche alla contraddittorietà; vizi questi, che possono
non più soltanto risultare dal testo del provvedimento
impugnato, ma anche da altri atti del processo, specificatamente indicati nei motivi di gravame.
Quest’ultima modifica traduce nella dinamica
processuale un potente strumento di controllo per i
giudici di legittimità, non più limitato alla congruità
e sufficienza del ragionamento probatorio posto in
essere dal giudice di merito, ma sicuramente più penetrante, potendo ora estendersi anche alla ricostruzione storica, al fine di trovare un qualche errore che sia stato commesso nell’apprezzamento
del materiale probatorio. Tuttavia è escluso che sia
stato conferito alla Cassazione il potere di “rivalutare” il fatto o, addirittura, di ricostruirlo in termini
diversi. La modifica normativa ha dunque attribuito
un vero e proprio riconoscimento normativo a quell’interpretazione giurisprudenziale che, pur essendo
minoritaria rispetto al rigoroso orientamento restio
ad ammetterne la rilevanza, ha stabilito la possibilità di sindacare in sede di legittimità il cosiddetto
travisamento della prova, collocandolo nel contesto
del vizio motivazionale in quanto inerente al tessuto argomentativo della ratio decidendi. Nella tipologia del travisamento sono stati individuati in dottrina tre diversi vizi, distinti in relazione alle cause
che ad essi hanno dato origine: travisamento conseguente all’omessa valutazione di una prova acquisita, travisamento derivante dalla supposizione
di una prova inesistente e travisamento causato
dallo scorretto apprezzamento di una o più prove.
Ne consegue che il sindacato della Suprema Corte
oggi è comunque limitato al controllo dell’esistenza
o meno degli elementi di prova ovvero se ve ne
siano altri che siano stati inopportunamente travisati o irrazionalmente fraintesi, verificando, inoltre,
la conformità dello specifico atto del processo alla
rappresentazione che di esso ha dato il giudice a quo
nella motivazione del provvedimento impugnato.
3. Nel caso in esame, la Suprema Corte ha effettuato una attenta ed approfondita disamina del
quadro probatorio così come risultante dalle sentenze dei due gradi di merito, al fine di verificare o
meno il travisamento del medesimo ad opera dei
giudici ad quem.
Ne è conseguito che il ricorso della ricorrente è
stato dichiarato inammissibile non soltanto per la
genericità e la aspecificità dei motivi di ricorso proposti ma anche a causa della manifesta infondatezza delle censure, tutte afferenti a profili e temi
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 39
GIURISPRUDENZA
fattuali e giuridici già sottoposti alla Corte territoriale e dalla stessa ampiamente affrontati e risolti
con adeguate e persuasive motivazioni.
Precisamente la Suprema Corte ha rilevato come i
profili della responsabilità dell’imputata in ordine
alla sussistenza del dolo del reato di cui all’art. 388
C.p., co. 2°, siano stati adeguatamente e correttamente esposti nelle due conformi decisioni di merito
che hanno rimarcato l’assenza di qualsivoglia condotta antigiuridica attuata dall’imputata nell’area di
un presunto stato di necessità (scriminante putativa)
in rapporto alla asserita esigenza di tutelare l’effettivo interesse della bambina, piuttosto che coltivare il
proposito di vulnerare l’interesse del marito a frequentarla in costanza di separazione giudiziale.
Non costituisce infatti dato sufficiente ad avviso
dei Supremi giudici, quello di giustificare la obiettiva condotta omissiva della madre sul presupposto
di una asserita protezione della minore che appariva traumatizzata ogni qual volta dovesse incontrarsi col padre.
Trattasi di decisione autorevole da cui si evince
che il dissenso sui provvedimenti giudiziali di affidamento della minore all’altro coniuge separato,
non può in alcun modo avere efficacia esimente del
comportamento omissivo dell’uno ma, al contrario
contribuisce, insieme agli altri elementi di prova, a
dimostrare la specifica volontà di quest’ultimo ad
eludere l’esecuzione dei provvedimenti presidenziali resi nel giudizio di separazione coniugale.
4. Costituisce constatazione pacifica la necessità,
indefettibile, per il minore di crescere e frequentarsi
con entrambe le figure genitoriali pena la determinazione di danni concreti alla sua personalità ed
alla sua crescita. Di conseguenza l’odierno atteggiamento dei giudici penali finalizzato a reprimere l’atteggiamento ostile di uno dei due coniugi nei confronti dell’altro legalmente separato al quale volontariamente si impedisce il libero accesso alla frequentazione con la figlia, non può non essere condivisibile potendo peraltro scoraggiare simili deplorevoli condotte nonché l’esercizio sui figli di ogni
qualsivoglia pressione psicologica finalizzata al radicamento della convinzione di escludere l’una o
l’altra figura genitoriale.
Nel caso di specie, nel comportamento della madre il Supremo collegio ha individuato la causa
della compromissione dei rapporti parentali del padre con la minore sfociata nell’interruzione di ogni
apprezzabile relazione con questo e non ha in alcun
modo dato credito alla tesi difensiva dell’imputata
che ha tentato di ricondurre siffatto atteggiamento
al solo rifiuto della minore.
L’infondatezza sotto questo profilo della tesi difensiva dell’imputata emergerebbe in primis, in tutta
evidenza, dal solo dato della tenera età della minore;
appare infatti alquanto improbabile che, a cinque
40 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
anni, la figlia già avesse in modo definitivo preso posizione in ordine al suo rapporto col padre, decidendo autonomamente ed incondizionatamente di
vederlo.
Questa precisazione appare doverosa in quanto i
giudici di legittimità hanno talora espresso rilevanza al consenso ma del solo minore capace di
discernimento ( Cass. civ., Sez. I, Gennaio 1998, n. 317)
precisando inoltre come varie norme della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, stipulata a New York nel 1989 e ratificata in Italia con la
legge n 176 del 1991 conferiscono «all’opinione, ai
sentimenti e agli interessi del minore capace di discernimento un rilievo del tutto nuovo rispetto al
quadro della nostra precedente legislazione e, se
compiutamente realizzati, «contribuiscono alla formazione dell’individuo maturo per il suo ingresso
in società». In particolare il richiamo dei giudici di
legittimità è all’art. 12 della summenzionata Convenzione il quale prevede che deve essere garantito
«al fanciullo capace di discernimento il diritto di
esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa». Questa espressione, che si
concretizza nella «possibilità di essere ascoltato in
ogni procedura giudiziaria o amministrativa» che lo
riguarda (art. 12 Convenzione), deve, però, trovare
applicazione «in maniera compatibile con le regole
di procedura della legislazione nazionale».
L’affermazione della responsabilità della madre
affidataria emerge nel caso di specie non soltanto
per il dato relativo all’età che comunque, secondo
l’id quod plerunque accidit, rimane un forte elemento
indiziario nel ravvisare la fondatezza dell’imputazione di cui all’art. 388, C.p., ma anche da ulteriori
elementi di prova tutti comprovanti il condizionamento psicologico attuato dalla madre sulla minore
GIURISPRUDENZA
nel rapporto con il padre, nonostante i giudici della
separazione e del divorzio nell’affidargliela, avessero previsto un regime di visita e di permanenza
della figlia presso il padre.
Precisamente gli elementi probatori dai quali i
giudici desumono tale intenzionale atteggiamento
della madre affidataria finalizzato all’annichilimento della figura paterna sono costituiti dai provvedimenti del giudice civile che aveva a suo tempo
proceduto alla modifica delle regole di affidamento
temporaneo della bambina al padre, con i quali veniva ordinata la presenza di personale del servizio
sociale territoriale al momento della consegna della
minore al genitore, dalla segnalazione del consulente psicologico designato d’ufficio che proponeva
l’affidamento della stessa ad una terza persona, super partes che imponesse alla madre il rispetto del
programma, in quanto era emerso che l’unico obiettivo della madre risultava essere quello di annientare la figura paterna, nonché dalle dichiarazioni
rese dai carabinieri intervenuti in occasione di alcune visite del padre alla figlia, che ribadivano il
netto e categorico rifiuto della imputata e, talora dei
di lei genitori, a tali incontri.
Queste circostanze sono state valutate dai giudici
come sintomatiche dell’atteggiamento ostativo del
coniuge affidatario, comprovanti la sua costante
ostilità e diffidenza nei confronti dell’ex marito, le
quali hanno contribuito notevolmente a creare nella
minore una posizione difensiva e di sfiducia verso il
padre.
Aldilà di ogni ragionevole dubbio, sono state ritenute idonee e sufficienti a fondare un giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputata per aver volontariamente impedito lo svolgimento delle rela-
zioni tra padre e figlia, non assecondandone i tentativi di ripresa dei rapporti, pregiudicando la posizione del genitore non affidatario nella situazione
meritevole di tutela identificata in quella sfera di
positività che deriva dal rapporto parentale.
Ne consegue che la condotta del genitore che
ometta di tutelare la figura dell’altro genitore, anzi
tenti di sgretolarla e di sminuirla agli occhi dei figli,
si configura come illegittima sulla base della considerazione di un interesse che non muta col disgregarsi del nucleo familiare ma che mantiene, o
quanto meno, dovrebbe mantenere intatta la propria collocazione dogmatica.
Il comportamento ostile del coniuge nei confronti
dell’altro, a causa di rancori personali scaturenti da
una situazione di forte conflittualità, finalizzato deliberatamente a condizionare psicologicamente il
minore in ordine alla sua non frequentazione con
una delle due figure genitoriali, senza attivarsi,
come invece è -dovrebbe essere- suo dovere, per
sensibilizzare il bambino a coltivare un valido e positivo rapporto con il padre, coinvolgendolo in quel
processo che la sentenza della Corte di Appello di
Genova definisce “sistematica elusione” dei provvedimenti sull’affidamento adottati dal giudice della
separazione, ha rilevanza penale e, conseguentemente soggiace alla relativa sanzione.
Non aiutare il minore ad accettare e coltivare il
rapporto con l’altro genitore, creare una situazione
di vera e propria ostilità verso costui inducendolo a
rifiutare gli incontri con il genitore, concretizza un
vero e proprio rifiuto al rispetto del provvedimento
giudiziale, come tale punibile ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 388 C.p.
Due sentenze in materia di violazione
degli obblighi di assistenza familiare
Cassazione penale sez. VI, 10 novembre 2009, n. 47018
Integra il reato di cui all’art. 570 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare) la condotta del coniuge piccolo imprenditore che versa sporadicamente il contributo di mantenimento in favore della
moglie previsto in sede di separazione (la Corte ha confermato la decisione dei giudici del merito, secondo cui le difficoltà in cui versava l’impresa del marito, che già in costanza di matrimonio procedeva
in maniera rovinosa, non erano tali da tradursi in uno stato di vera e propria indigenza, capace di generare una situazione incolpevole di indisponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze degli
aventi diritto).
Cassazione penale sez. VI, 28 ottobre 2009, n. 42631
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 570 comma 2 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare), è necessario l’accertamento, da parte del giudice penale, dell’effettivo stato di bisogno dell’avente diritto alla somministrazione dei mezzi di sussistenza, oltre che della concreta capacità
economica dell’obbligato a fornirglieli.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 41
GIURISPRUDENZA
Tre anni di giurisprudenza penale
sui maltrattamenti in famiglia
a cura di GIOIA SAMBUCO,
AVVOCATO DEL FORO DI RIETI. COMPONENTE DEL COMITATO DI REDAZIONE DI “AVVOCATI DI FAMIGLIA”
Cassazione penale, sez. VI, 17 dicembre 2009, n.
48272
Per il primato che la il nostro ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore,
ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in
passato, semplice oggetto di protezione da parte degli adulti, le finalità di correzione-educazione che
mirano a conseguire l’armonico sviluppo della personalità, rendendola sensibile ai valori di pace, tolleranza, uguaglianza e solidale convivenza, non possono essere perseguite utilizzando un mezzo violento. Né diverso criterio interpretativo può essere
adottato in relazione alla particolare concezione socio-culturale di cui sia eventualmente portatore
l’imputato, posto che in materia vengono in gioco
valori fondamentali dell’ordinamento, consacrati
nella Costituzione, che fanno parte del visibile e
consolidato patrimonio etico-culturale della nazione e del contesto sovranazionale in cui essa è inserita, e come tali non sono suscettibili di deroghe di
carattere soggettivo e non possono essere oggetto,
da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è
quindi soggetto alla legge penale, di valida eccezione di ignoranza scusabile.
Cassazione penale sez. VI, 9 aprile 2009, n. 15897
L’accusa di maltrattamenti può cadere se le deposizioni delle persone che frequentano quotidianamente la persona offesa sono di segno opposto alla
versione di quest’ultima, in modo da smentirne la
credibilità in assenza di altri elementi probatori che
la sostengano (nella specie, la Corte ha annullato un
verdetto di condanna inflitto ad una mamma accusata di maltrattamenti dalla figlia minorenne. Nell’accogliere il ricorso della donna, infatti, la Suprema
corte ha osservato che dalle testimonianze delle
persone che frequentavano quotidianamente la
bambina (maestre, amici, nonna e zio conviventi)
non era emerso alcun elemento che potesse avvalorare le accuse rivolte alla mamma dalla figlia).
42 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
Cassazione penale, sez. VI, 26 febbraio 2009, n.
14409
La mera pluralità di episodi vessatori (nella specie, trattavasi di percosse, ingiurie e minacce) non è
di per sé sufficiente a integrare il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), in assenza di un
dolo che abbracci le diverse azioni e che ricolleghi a
unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale
e psichica del soggetto passivo.
Cassazione penale, sez. VI, 20 gennaio 2009, n.
9531
Se esiste una situazione di dissidio coniugale alla
quale sia il marito che la moglie partecipano con reciproche offese e aggressioni fisiche, deve escludersi
la configurabilità del reato di maltrattamenti. La condotta di cui all’art. 572 c.p., infatti, per essere integrata
richiede l’attribuibilità al suo autore di una posizione
di abituale prevaricante supremazia alla quale la vittima soggiace. Di conseguenza, se le violenze, le offese e le umiliazioni sono reciproche – anche se di diverso peso e gravità – non può dirsi che c’è un soggetto che maltratta ed uno che è maltrattato.
Cassazione penale, sez. VI, 26 novembre 2008, n.
46300
Relativamente ai cosiddetti reati culturali, qualificati dal fatto che la norma penale va applicata nei
confronti di cittadini di cultura ed etnia diversa, i quali
risultino portatori di tradizioni sociologiche e abitudini antropologiche configgenti con la norma penale,
il giudice non può sottrarsi al suo compito di rendere
imparziale giustizia applicando le norme vigenti, non
potendosi ammettere qualsivoglia soluzione interpretativa che pretenda di escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando le convinzioni religiose e il retaggio culturale dell’imputato,
perché tale interpretazione finirebbe con il porsi in
contrasto con le norme cardine che informano e
stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano e
GIURISPRUDENZA
della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali (da queste premesse, la Corte, nel rigettare
il ricorso dell’imputato avverso una sentenza di condanna per i reati di maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona, violenza sessuale in danno della
moglie e violazione degli obblighi di assistenza familiare, ha escluso che potesse ammettersi la rilevanza
- per escludere l’elemento soggettivo - della diversità
culturale e religiosa dell’imputato - cittadino marocchino - che, secondo la pretesa difensiva, avrebbe dovuto portare a giustificare il comportamento tenuto
in ragione di una pretesa, particolare concezione della
famiglia e dei rapporti interfamiliari).
della famiglia ) il comportamento violento da parte
di uno di questi (nella specie, il padre), certamente
verificatosi, deve essere letto come espressivo di
una reazione determinata da tensioni contingenti,
anche se non infrequenti nel descritto contesto familiare, difettando peraltro il dolo del reato di maltrattamenti in famiglia, caratterizzato dalla coscienza e volontà di sottoporre i soggetti passivi a
una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo e abituale (da queste premesse, la Corte ha
annullato la condanna per il reato di cui all’art. 572
c.p., con la formula “perché il fatto non costituisce
reato”).
Cassazione penale, sez. VI, 26 novembre 2008, n.
46300
L’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti
in famiglia , integrato dalla condotta dell’agente che
sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata,
non può essere escluso dalla circostanza che il reo
sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare,
in quanto si tratta di concezioni che si pongono in
assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico
italiano e della regolamentazione concreta nei rapporti interpersonali.
Cassazione penale sez. III, 22 ottobre 2008, n.
45459
Il delitto di maltrattamenti è assorbito da quello di
violenza sessuale soltanto quando vi è piena coincidenza tra le condotte, nel senso che gli atti lesivi siano
finalizzati esclusivamente alla realizzazione della violenza sessuale e siano strumentali alla stessa, mentre
in caso di autonomia anche parziale delle condotte,
comprendenti anche atti ripetuti di percosse gratuite
e ingiurie non circoscritte alla violenza o alla minaccia strumentale necessaria alla realizzazione della
violenza, vi è concorso tra il reato di violenza sessuale
continuata e quello di maltrattamenti.
Cassazione penale sez. VI, 18 novembre 2008, n.
45808
Ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572
c.p.), non è necessario il dolo specifico, ossia che
l’agente debba prefiggersi lo scopo di rendere abitualmente dolorosa la vita delle sue vittime, a causa
di una inclinazione prevaricatoria, ma è invece sufficiente il dolo generico, ossia che il soggetto abbia la
coscienza e la volontà di mantenere abitualmente un
comportamento che sia causa di sofferenze e abbia
effetto di degradazione dei rapporti con i conviventi.
Cassazione penale sez. VI, 27 giugno 2008, n.
34151
Il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile, quanto al rapporto tra coniugi, anche in caso di
separazione legale e di conseguente cessazione
della convivenza, sempre che la condotta valga ad
integrare gli elementi tipici della fattispecie (il principio è stato affermato relativamente al caso di sistematici atti di percosse, ingiurie, minacce, ma anche di molestie del marito a danno della moglie separata, quali il pedinamento della stessa su tutto il
territorio nazionale).
Cassazione penale sez. II, 12 novembre 2008, n.
46375
È configurabile il concorso formale tra il delitto di
maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale quando la condotta integrante il reato di cui
all’art. 572 cod. pen. non si esaurisca negli episodi
di violenza sessuale, ma s’inserisca in una serie
d’atti vessatori e percosse tipici della condotta di
maltrattamenti.
Cassazione penale sez. VI, 27 giugno 2008, n.
26571
Il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del
coniuge è configurabile anche in caso di separazione
e di conseguente cessazione della convivenza, purché la condotta valga ad integrare gli elementi tipici
della fattispecie. (Principio affermato relativamente
al caso di reiterate ed offensive manifestazioni di
aggressività, attuate dal coniuge separato per convincere la moglie a riprendere la convivenza)
Cassazione penale sez. VI, 4 novembre 2008, n.
6490
In un contesto familiare caratterizzato e condizionato da anomalie comportamentali di tutti i suoi
componenti (nella specie, determinato dall’uso
smodato e incontrollato dell’alcool e dalle gravi anomalie a livello psichiatrico di una delle componenti
Cassazione penale, sez. III, 25 giugno 2008, n.
35910
È configurabile il concorso formale tra il delitto di
maltrattamenti in famiglia e quello di violenza sessuale, in quanto le rispettive fattispecie incriminatrici sono poste a tutela di beni giuridici diversi.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 43
GIURISPRUDENZA
Cassazione penale, sez. III, 5 giugno 2008, n. 27469
Nell’ambito di operatività del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. rientrano, quali persone
offese, anche quelle sottoposte all’autorità dell’agente
ovvero al medesimo affidate per ragioni di istruzione,
educazione ecc. In particolare, sussiste il rapporto di
autorità ogni qualvolta una persona dipenda da altra
mediante un vincolo di soggezione particolare (ricovero, carcerazione, rapporto di lavoro subordinato
ecc.). Tale vincolo caratterizza, ad esempio, il rapporto
intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e
lavoratore subordinato, che è caratterizzato dal potere
direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al
primo e che pone il secondo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale “de qua”, di
«persona sottoposta alla sua autorità»: per l’effetto,
sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, è
configurabile a carico del datore di lavoro il reato di
maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente.
Cassazione penale, sez. VI, 27 maggio 2008, n.
35862
Il reato di maltrattamenti può evidenziarsi anche
in un contesto familiare caratterizzato da forti tensioni ascrivibili a entrambi i protagonisti della vicenda, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca
insofferenza e intollerabilità, considerato che anche
una tale situazione deve essere comunque gestita
con equilibrio, nel rispetto delle regole di civile convivenza e della dignità fisica e morale della persona
e non legittima reazioni che insistono su condotte
abitualmente proiettate all’aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte. In questa
prospettiva, la provocazione del soggetto passivo, laddove provata, è, in astratto, compatibile con il reato di
maltrattamenti, cosicché non è causa di esclusione
dello stesso, che, semmai, può essere attenuato nelle
conseguenze sanzionatorie in relazione soltanto ai
singoli episodi ai quali la stessa inerisce.
Cassazione penale, sez. I, 14 maggio 2008, n. 21329
Non è configurabile l’ipotesi aggravata di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen. (morte come
conseguenza non voluta dei maltrattamenti) - ma
quella di omicidio volontario di cui all’art. 575 cod.
pen. - nel caso in cui la morte della vittima, sottoposta a continui maltrattamenti, sia oggetto della
sfera rappresentativa e volitiva dell’agente, oltre ad
essere causalmente collegata alla condotta da questi posta in essere. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la
sussistenza del delitto di omicidio volontario nella
condotta di due conviventi che avevano omesso di
somministrare il cibo ad una bimba, continuamente
sottoposta a maltrattamenti e di cui avevano la responsabilità della cura ed educazione, correttamente ritenendo che rientra nella cognizione e nel44 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
l’esperienza di qualsiasi individuo, pur se dotato di
modeste facoltà cognitive e intellettive, che la mancata somministrazione di cibo ad un bambino è destinata a provocarne la morte).
Cassazione penale, sez. III, 15 aprile 2008, n. 26165
Il delitto di violenza sessuale concorre con quello di
maltrattamenti in famiglia quando la condotta violenta, pur ispirata da prevalenti motivazioni di carattere sessuale, non si esaurisca nel mero uso della violenza necessaria a vincere la resistenza della vittima
per abusarne sessualmente, ma s’inserisca in un contesto di sopraffazioni, ingiurie, minacce e violenze di
vario genere nei confronti di quest’ultima, tipiche
della condotta di maltrattamenti.
Cassazione penale, sez. VI, 18 marzo 2008, n.
27048
Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti, l’art. 572 cod. pen. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la
vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in
modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità.
(Fattispecie in cui è risultato che l’imputato aveva sottoposto la convivente ad un clima oppressivo, umiliante, vessatorio e di sistematica sopraffazione, insultandola continuamente e senza motivo, cacciandola di casa ed infliggendole percosse e lesioni).
Cassazione penale, sez. VI, 29 gennaio 2008, n.
20647
Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia , non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai
danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 c.p. alla
“ famiglia “ deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e
solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo.
(Nel caso di specie, la S.C. ha ravvisato l’esistenza di
una convivenza di fatto di durata ultradecennale e
connotata dalla nascita di due figlie, che ha dato
luogo ad una situazione qualificabile come “
famiglia di fatto”, ricompresa in quanto tale nell’ambito della tutela prevista dall’art. 572 c.p.).
Cassazione penale, sez. VI, 8 gennaio 2008, n.
16982
Nel reato di maltrattamenti è sufficiente il dolo
generico, che consiste nella volontà dell’agente di
sottoporre la vittima a sofferenze fisiche o morali in
modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità. Peraltro, deve escludersi che l’intenzione dell’agente di agire esclusivamente per pretese finalità
educative possa far venir meno il dolo.
GIURISPRUDENZA
trattamenti nei confronti di una madre che aveva
fatto abitualmente ricorso nei confronti dei tre figli
minorenni a mezzi e metodi trascendenti qualsiasi
aspetto di liceità correttiva ed estranei a ogni plausibile scopo pedagogico-formativo, sostanziatisi in
percosse e punizioni umilianti e gratuite).
Cassazione penale, sez. VI, 29 novembre 2007, n.
12129
In tema di reato di maltrattamenti in famiglia,
sussiste il rapporto eziologico tra la condotta di maltrattamenti ed il suicidio della persona offesa le
volte in cui il suicidio sia posto in essere per sottrarsi alle continue sofferenze psico-fisiche e non
abbia una causa autonoma e successiva, che si inserisca nel processo causale in modo eccezionale,
atipico ed imprevedibile. La Corte ha altresì chiarito
che, per l’affermazione di responsabilità in relazione
all’evento morte non voluto dall’autore delle condotte di maltrattamenti, occorre accertarne la prevedibilità in concreto come conseguenza della condotta criminosa di base, per escludere che sia frutto
di una libera capacità di autodeterminarsi della vittima.
Cassazione penale, sez. VI, 29 novembre 2007, n.
12129
In tema di reato di maltrattamenti in famiglia ,
sussiste il nesso causale tra la condotta di maltrattamenti e il suicidio della vittima se questo è posto
in essere come rimedio alle continue sofferenze
psico-fisiche e non ha una causa autonoma e successiva che si inserisca nel processo causale in
modo eccezionale, atipico ed imprevedibile.
Cassazione penale, sez. VI, 7 novembre 2007, n.
45283
Ferma la natura di reato a condotta plurima (abituale) ascrivibile al reato di maltrattamenti, previsto dall’art. 572 c.p., è configurabile tale reato anziché il meno grave reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto dall’art. 571 c.p., ogniqualvolta i mezzi in senso lato educativi o correttivi
siano integrati da mezzi che devono di per sé considerarsi non consentiti, vale a dire dotati di immanente antigiuridicità. (Da queste premesse, la Corte
ha ritenuto correttamente ravvisato il reato di mal-
Cassazione penale, sez. VI, 13 luglio 2007, n. 38962
Il reato di cui all’art. 572 c.p. è a forma libera e,
quindi, può essere integrato anche da condotte consapevolmente perturbatrici dell’equilibrio e dell’evoluzione psichica di un soggetto minore. (Nella
fattispecie, il reato è stato ravvisato nella condotta
dell’imputato che aveva tenuto ripetutamente nei
confronti della figlia minore atteggiamenti diretti a
stimolare in lei un’impropria e precoce inclinazione
erotico-sessuale, con palese turbamento della sua
equilibrata evoluzione psichica: e ciò aveva fatto girando nudo e con fare esibizionista per casa, usando
videoriprendere la piccola in pose seducenti e provocanti, facendo con lei il “gioco del dottore” toccandola nelle parti intime).
Integra il delitto di maltrattamenti in famiglia di
cui all’art. 572 c.p., la ripetuta esposizione del minore a contesti erotici inadeguati alla sua età, sì da
creare abitualmente un’atmosfera relazionale pregiudizievole per la sua equilibrata evoluzione psichica. (Fattispecie in cui il genitore usava sottoporre
la figlia minore a ripetute esibizioni di nudità, visioni di film pornografici, conversazioni a contenuto
erotico-sessuale)
Cassazione penale, sez. III, 12 luglio 2007, n. 36962
Il reato di violenza sessuale e quello di maltrattamenti in famiglia possono concorrere tra loro, salvo
che nel caso in cui vi sia piena coincidenza tra le
due condotte, nel senso che il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli
atti di violenza sessuale.
Cassazione penale, sez. VI, 31 maggio 2007, n.
40340
Nel caso in cui venga posto in essere un uso sistematico della violenza (nella specie, da parte della
madre nei confronti dei figli minori), correttamente
è ravvisato il reato di maltrattamenti di cui all’art.
572 c.p., mentre non è possibile configurare il meno
grave reato di abuso dei mezzi di correzione di cui
all’art. 571 c.p., anche laddove, in ipotesi, la condotta
sia stata sorretta da un asserito “animus corrigendi”.
Cassazione penale, sez. III, 16 maggio 2007, n.
22850
Il reato di maltrattamenti in famiglia , quale comportamento vessatorio protratto nel tempo, può essere realizzato anche mediante la commissione di
atti sessuali i quali, però, per non integrare un autonomo reato in concorso con quello di cui all’art.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 45
GIURISPRUDENZA
572 c.p., non devono configurare le fattispecie poste
a tutela della libertà di autodeterminazione in materia sessuale: ciò che può verificarsi, esemplificando, nel caso del coinvolgimento di un minore nei
giochi amorosi degli adulti ovvero nel caso della richiesta abituale di atti sessuali contro natura alla
propria moglie o convivente, non esplicitamente rifiutati dalla stessa, allorché si conosca il disvalore
che la donna comunque attribuisce all’atto, trattandosi di condotta idonea a cagionare alla persona offesa sofferenze psichiche per il disprezzo che
l’uomo mostra delle sue convinzioni.
Cassazione penale, sez. III, 16 maggio 2007, n.
22850
Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.)
può concorrere con quello di violenza sessuale (art.
609 bis c.p.) allorché l’atto sessuale, oltre a cagionare
sofferenze psichiche alla vittima, leda anche la sua
libertà di autodeterminazione in materia sessuale,
trattandosi di reati che tutelano beni giuridici differenti.
Cassazione penale, sez. III, 16 maggio 2007, n.
22850
Il reato di maltrattamenti in famiglia configura
un’ipotesi di reato necessariamente abituale costituito da una serie di fatti, per lo più commissivi, ma
anche omissivi, i quali acquistano rilevanza penale
per la loro reiterazione nel tempo. Trattasi di fatti
singolarmente lesivi dell’integrità fisica o psichica
del soggetto passivo, i quali non sempre, singolarmente considerati, configurano ipotesi di reato, ma
valutati nel loro complesso devono integrare, per la
configurabilità dei maltrattamenti, una condotta di
sopraffazione sistematica e programmata tale da
rendere la convivenza particolarmente dolorosa.
Qualora, poi, i singoli fatti “sub iudice” configurino,
autonomamente considerati, ipotesi di reato, onde
stabilire se vi sia assorbimento nel reato di maltrattamenti ovvero ricorra l’ipotesi del concorso di reati,
bisogna avere riguardo ai beni giuridici tutelati dalle
norme incriminatici. A tale riguardo, dovendosi ritenere che per la configurabilità del concorso apparente di norme, con la conseguente necessità di individuare l’unica norma incriminatrice applicabile
alla fattispecie, è necessaria l’identità del bene tutelato dalle diverse norme incriminatrici, che quindi
devono disciplinare tutte la “stessa materia”, secondo la locuzione utilizzata dall’art. 15 c.p., che va
intesa, non come identità della condotta, ma come
identità del bene tutelato. Da queste premesse,
esemplificando, non vi è concorso tra il reato di maltrattamenti e quelli di ingiuria, percosse e minacce
in cui si concretano eventualmente i singoli atti di
maltrattamento, trattandosi di condotte che offendono tutte lo stesso bene giuridico, ossia l’integrità
psicofisica del soggetto passivo. Per converso, sem46 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
pre esemplificando, in ragione della diversità del
bene giuridico tutelato, concorrono con quello di
maltrattamenti i reati di sequestro di persona, di riduzione in schiavitù e di violenza sessuale.
Cassazione penale, sez. VI, 20 febbraio 2007, n.
34460
Il comportamento del padre che sottoponga la figlia minore ad un regime di prevaricazione e violenta, tale da rendere intollerabili le condizioni di
vita, impedendole, come nel caso di specie, di frequentare persone di sesso maschile e di uscire di
casa se non per andare a scuola o a fare la spesa,
configura il reato di maltrattamenti in famiglia o
verso fanciulli (art. 572 c.p.) e non quello meno grave
di abuso di mezzi di correzione o di disciplina (art.
571 c.p.) che presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi correttivi, che, senza attingere a
forme di violenza, trasmodi in abuso a cagione dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura.
Cassazione penale, sez. VI, 24 gennaio 2007, n.
21329
Il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in danno di persona convivente “more
uxorio”, quando si sia in presenza di un rapporto
tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto,
instaurato tra le due persone, con legami di reciproca assistenza e protezione. (Nell’affermare tale
principio, la S.C. ha precisato che, agli effetti del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., deve intendersi
come “famiglia” ogni consorzio di persone tra le
quali, per strette relazioni e consuetudini di vita,
siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per
un apprezzabile periodo di tempo).
Cassazione penale sez. VI, 11 gennaio 2007, n.
4139
La prova dell’elemento soggettivo del reato di
maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), consistente
nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a
una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di
vessazioni che avviliscono la sua personalità, risulta
correttamente desunta dalla stessa reiterazione e
sistematicità delle condotte, nelle quali consiste il
maltrattamento, in quanto i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono
manifesta l’esistenza di un programma criminoso
relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.
Ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572
c.p.), è richiesto il dolo generico, consistente nella
coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una
serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale,
instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che avviliscono la sua personalità.
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
In arrivo
nuove norme
in materia di
affidamento
condiviso
dei figli
EMANUELA COMAND,
(AVVOCATO DEL FORO DI UDINE.
PRESIDENTE DELLA SEZIONE
DELL’OSSERVATORIO DI UDINE.
COMPONENTE DEL COMITATO DI
REDAZIONE DI “AVVOCATI DI
FAMIGLIA”)
l progetto di legge n. 2209 del
2009 è stato assegnato alla II
commissione Giustizia della
Camera il 27 aprile 2009.
A distanza di tre anni dall’entrata in vigore della legge n. 54
del 2006 sull’affido condiviso si
tenta di mettere mano nuovamente all’articolo 155 del codice
civile, apportando alcune modifiche di rilievo molto significativo.
Il progetto contiene inoltre modifiche degli articoli 43, 45, 317
bis del codice civile, nonché degli
articoli 706, 707 e 709 del codice
di procedura civile.
Anche se manca un progetto
normativo organico, numerose
sono le novità da segnalare.
I
ARTICOLO 155 c.c. (modificato
dagli artt. 1-2-3-4-5-6-7 della proposta di legge in commento).
Regime di affidamento
L’articolo viene integralmente
rivisitato e sostituito dalle nuove
disposizioni che da un lato raf-
forzano il principio che la separazione non deve in alcun modo
far venir meno il rapporto paritetico tra genitori e figli,dall’altro
che il giudice non può se non in
casi limitati, decidere per un regime di affidamento diverso da
quello condiviso.
Il richiamo, più volte enfatizzato, al rapporto paritetico tra figli e genitori, tra figli e ascendenti, sembra escludere che l’interesse morale e materiale del
minore possa essere perseguito,
se non garantendo un rapporto
strettissimo tra genitori e figli.
Forse nel tentativo di bloccare
quella parte della giurisprudenza
che riconosce al giudice la facoltà
di optare per l’affidamento esclusivo, con l’unico limite dell’obbligo della motivazione, vengono
posti limiti ben precisi alle deroghe.
Il nuovo articolo 155 stabilisce
infatti che non costituiscono criteri di deroga al diritto del minore all’affidamento condiviso:
- l’età dei figli;
- il profilo sanitario dei membri della famiglia;
- la distanza tra le abitazioni
dei genitori;
- il tenore dei rapporti tra i genitori.
Ne discende che la conflittualità tra coniugi, la distanza fisica
(ma anche il trasferimento della
residenza del genitore con cui
vive prevalentemente il figlio) tra
genitori, l’età del minore (più piccolo è e più necessita della madre)
non sono elementi utilizzabili per
negare l’affidamento condiviso.
Qualche problema potrebbe
sorgere con riferimento all’individuazione del profilo sanitario
dei membri della famiglia. E’ difficile ipotizzare che un genitore
affetto da qualche grave patologia mentale o comportamentale
accertata, non possa venir
escluso, nel preminente ed esclusivo interesse del minore dall’affidamento condiviso.
Merita un richiamo anche il riferimento alla possibilità di mantenere un rapporto paritetico tra
genitori e figli, non attraverso
l’esclusivo interesse morale e
materiale della prole, ma solamente attraverso il riferimento
all’interesse morale e materiale
nonchè alla conservazione di un
rapporto paritetico con entrambi
i genitori.
O il legislatore si è dimenticato
il termine “esclusivo” (eliminato
dal nuovo art. 155 c.c.) oppure ha
voluto mettere sullo stesso piano
l’interesse del minore ed il rapporto con i genitori. Come dire
che nel decidere il giudice dovrà
tener conto sia dell’interesse del
minore sia del mantenimento di
un rapporto paritetico con i genitori.
Difficile ipotizzare la soluzione
quando le due fattispecie si troveranno in conflitto.
Come recita la relazione introduttiva “al giudice non è data la
facoltà di scegliere a sua discrezione tra i due istituti di affidamento condiviso ed esclusivo,
ma solo proteggere il minore da
uno dei due genitori, (sic!), nel
caso in cui l’essere affidato ad
uno possa costituire pregiudizio
alla frequentazione dell’altro genitore o, peggio, indurre comportamenti malevoli tali da condurre
a una possibile sindrome di alienazione genitoriale”.
Potestà
Nella disciplina attuale l’esercizio delle potestà è stato ricondotto alla titolarità e viceversa.
Sotto il profilo della potestà e
della sua attribuzione è infatti irrilevante il genitore a cui è affidato il figlio (o la collocazione del
minore in caso di affidamento
condiviso) perché le decisioni di
ordinaria amministrazione vengono prese disgiuntamente e solamente le decisioni di maggior
interesse relative all’educazione,
istruzione, salute debbono essere
prese di comune accordo.
In sostanza è ancora possibile
l’esercizio separato della potestà
e non vi è correlazione tra regime di affidamento ed esercizio
della potestà.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 47
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
La proposta di legge sembra invece attribuire al giudice non una
facoltà, ma il dovere di riconoscere che l’esercizio della potestà
“ordinaria” sia sempre disgiunto.
Nel caso in cui i figli vengano affidati in via esclusiva ad un genitore ai sensi dell’art. 155 bis c.c.
questi ha l’esercizio esclusivo
della potestà per le decisioni di ordinaria amministrazione, ma deve
attenersi alle condizioni del giudice. Sembrerebbe il recupero
della vecchia formulazione dell’articolo 155 prima della riforma,
quando era pacifico che, fermo restando che la titolarità della potestà rimaneva in capo ad entrambi
i genitori (e salvo ovviamente interventi limitativi del Tribunale
per i Minorenni) l’esercizio della
potestà veniva attribuita al genitore affidatario in via esclusiva.
Potestà e filiazione naturale
L’articolo 317 bis del codice civile viene sostituito.
Ricordiamo che nella attuale
formulazione la potestà, nella filiazione naturale, risponde a criteri diversi rispetto alla filiazione
legittima.
Il legislatore sembra voler eliminare la discriminazione, attribuendo ai genitori naturali e conviventi l’esercizio della potestà
congiuntamente ed in caso di separazione -rectius non convivenza- scatta l’applicazione della
disciplina relativa ai genitori legittimi, ma separati.
Verrebbe meno tutta la farraginosa disciplina - attuale - della potestà per i figli naturali, con l’eliminazione delle norme che creano
un collegamento pasticciato tra riconoscimento e convivenza.
ART.155 bis c.c. (modificato
dall’art. 2 della proposta).
Esclusione di un genitore
dall’affidamento, disciplina dell’affidamento esclusivo, affidamento a terzi
L’articolo in vigore è intitolato:
affidamento a un solo genitore e
opposizione all’affidamento condiviso. Nella nuova formulazione
si pone l’accento sull’aspetto
quasi punitivo dell’affidamento
esclusivo ad un genitore, come se,
oltre a corrispondere ad un maggior rispetto dell’interesse del minore, venga considerata una decisione talmente grave da corrispondere ad una inidoneità del
genitore cui viene sottratto l’affidamento condiviso.
Confidiamo che così non sia
perché da molto tempo è entrato
nel sentire comune che una persona può essere un genitore incompleto, a prescindere dalla sua
volontà e dal suo valore e comunque il concetto che dovrebbe passare è quello relativo all’interesse
del minore e non sempre l’affidamento condiviso corrisponde al
suo perseguimento. Un conto è
l’affermazione di un principiol’optimum per un minore figlio di
genitori non conviventi è che entrambi continuino ad occuparsi di
lui in maniera paritetica- ed un
conto è mettere paletti insuperabili all’applicazione dell’affidamento esclusivo.
Nella formulazione attuale il
giudice può disporre l’affidamento esclusivo o a un terzo se
un diverso regime sia contrario
all’interesse del minore. Si sceglierà l’affidamento di un figlio in
via esclusiva, privando l’altro genitore della condivisione nell’educazione quando l’affidamento a quel genitore inidoneo è
contrario all’interesse del minore.
Nella nuova previsione il giudice dispone l’affidamento esclusivo solo se l’affidamento al genitore non idoneo viola i diritti del
minore ai sensi dell’art. 155 c.c.
ovvero il diritto:
- al mantenimento di un rapporto paritetico, equilibrato, continuativo con i genitori;
- di ricevere cura, educazione,
istruzione da entrambi i genitori;
- di conservare rapporti significativi e paritetici con gli ascendenti e i parenti di ciascun ramo
genitoriale;
- al mantenimento economico
in proporzione delle risorse economiche e non solo del reddito.
48 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
L’uso del termine diritto, anziché interesse, sarà sicuramente
salutato con favore da coloro che
vedono nell’uso del termine interesse del minore un minus rispetto alla tradizionale categoria
dei diritti.
Mantenimento
Attualmente i genitori provvedono al mantenimento della prole
in misura proporzionale al proprio
reddito, salvo accordi liberamente
sottoscritti.
Nella nuova formulazione sparisce l’inutile liberamente, anche
se non è impossibile ipotizzare
una coercizione di un coniuge nei
confronti dell’altro.
I criteri di ripartizione del mantenimento cambiano e viene privilegiato il mantenimento diretto.
Pertanto:
- i genitori provvedono in forma diretta;
- concordano tra di loro le modalità;
- il giudice in caso di contrasto
decide, ma non decide più con
ampia discrezionalità e deve tener presente le seguenti circostanze:
- individuare le frazioni del reddito dovute per il mantenimento
dei figli che sono calcolate sulla
base del costo del mantenimento
(quoziente familiare determinato
dall’Istat e dalla Banca d’Italia sui
consumi, attuali esigenze dei figli
dei genitori separati a mezzo di coefficienti correttivi, risorse economiche complessive dei genitori);
- l’assegno periodico invece è
determinato in caso di mancato
accordo o cause di forza maggiore
che impediscano il mantenimento diretto e deve comunque
essere sempre motivato;
- è finalizzato anche al fine di
consentire ad entrambi i genitori
l’esercizio paritetico dell’affidamento dei figli;
- è attribuito anche se uno dei
due genitori non è in grado di
provvedere al figlio;
- è attribuito in casi di persistente morosità in caso di mantenimento diretto;
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
- il figlio che diventa maggiorenne, eredita l’assegno diretto
iure proprio, ma in caso di inadempimento, l’altro genitore può
agire in quanto titolare di un
danno (ovvero a che titolo?).
Indicazioni precise, quasi insindacabili vengono attribuite al giudice ed ai genitori per quantificare, non tanto l’assegno quanto
il quantum del mantenimento. Si
chiarisce che i bisogni dei figli dei
genitori separati sono in generale
maggiori dei figli dei non separati
perché vengono meno le economie di scala della famiglia.
Il principio è condivisibile, ma
sarà interessante verificare la
pratica applicazione delle disposizioni che contengono una
somma di criteri complessi di
non facile interpretazione.
Pacifico comunque il netto disvalore attribuito all’assegno di
mantenimento che può essere
stabilito “soltanto a valle della valutazione del contributo economico da parte di ciascun genitore”.
Residenza e domicilio
Al fine di mantenere effettivo
l’esercizio della bigenitorialità si
è introdotto il principio della doppia residenza o domicilio dei minori.
In tal modo si vuole evitare che
l’affidamento condiviso venga
svuotato di fatto dall’appartenenza ad un solo nucleo familiare, identificato dal luogo di residenza del genitore collocatario.
Questa circostanza emerge con
chiarezza dalla relazione introduttiva al disegno di legge che ai soli
fini fiscali e di reperibilità anagrafica reintroduce la residenza
esclusiva presso uno dei genitori.
Ci domandiamo che rapporto ci
potrà essere tra il criterio della
stabile residenza richiesto dalla
legge 218/1995 e la doppia residenza attribuita dalla nuova proposta di legge.
ART.706 c.p.c. (modificato dall’art. 8).
Viene introdotta la mediazione
obbligatoria il cui espletamento
rappresenta una condizione di
procedibilità rispetto all’instaurazione del procedimento di separazione giudiziale.
La mediazione familiare è un
istituto utile ed ha fornito a tutti
gli operatori del settore un’ottima
base per comprendere le dinamiche familiari.
Tuttavia non rappresenta la panacea alle controversie familiari e
non è ancora entrata nella nostra
cultura. Spesso viene accolta con
difficoltà anche dai coniugi e dai
genitori che la utilizzano spontaneamente. La coercizione diventerà un passaggio obbligato, un
periodo di fastidiosa attesa se
non verranno approntati strumenti culturali diversi che orientino i genitori in caso di forte conflittualità a chiederne l’utilizzo.
Lascia poi fortemente perplessi
l’utilizzo del verbale di mediazione
fallita da parte del Presidente del
Tribunale e del Giudice Istruttore.
Una delle prime e fondamentali
regole del percorso di mediazione
familiare è la libertà di essere e di
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 49
OSSERVATORIO LEGISLATIVO
esprimersi: utilizzare quanto è
emerso in un percorso strutturato
alla composizione del conflitto
per un giudizio, appare un controsenso. Possiamo ipotizzare sin
d’ora che i legali dei coniugi consiglieranno ai loro assistiti di dire
il meno possibile!
ART.709 ter c.p.c. (modificato
dall’art. 14).
L’introduzione della reclamabilità del provvedimento presidenziale - anche se la causa si trova
davanti al Giudice Istruttore viene mantenuto con l’inciso “anche provvisoriamente”, mentre la
successiva decisione del G.I. sarà
impugnabile con le forme del processo cautelare e più precisamente utilizzando l’art. 669 terdieces c.p.c.
Questa scelta renderà felici i
processualisti che si sono pronunciati da tempo a favore di tale
mezzo di impugnazione.
Interessante la motivazione sul
punto contenuta nella relazione
alla proposta: si è tenuto conto
delle difficoltà logistiche che si
potrebbero incontrare in talune
zone optando per il reclamo in
Corte d’Appello.
ART.709 ter c.p.c. (modificato
dall’art. 15).
In caso di controversie per inadempimenti e violazioni in ordine
all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento, il Tribunale emette provvedimenti di ripristino, restituzione,
compensazione delle paritetiche
modalità di permanenza del minore presso il genitore ostacolato.
Nell’attuale formulazione il giudice solo in caso di gravi inadempimenti o di atti che comunque
arrecano pregiudizio al minore o
ostacolano il corretto svolgimento
delle modalità dell’affidamento
può modificare i provvedimenti,
sanzionando le parti con ammonizioni e sanzioni pecuniarie.
Nel progetto di legge, eliminato
il requisito della gravità del comportamento il giudice si trova di
fronte ad una scaletta obbligata:
- accerta comportamenti che
ostacolino il corretto svolgimento
delle modalità di affidamento
condiviso;
- emette i provvedimenti di ripristino, di restituzione e di compensazione delle paritetiche modalità;
- in caso di reiterato comportamento (dunque ipotizziamo la
conclusione di un giudizio e l’instaurazione di uno nuovo o l’attesa all’interno delle stesso giudizio per verificare il rispetto del
provvedimento?) il giudice deve
disporre con provvedimento motivato (ma non era necessario per
il ripristino) l’affidamento esclusivo anche temporaneo (ovvero
solo punitivo) al genitore che garantisce l’accesso dei figli all’altro
genitore.
Si profila una nuova categoria
di genitori che non sono necessariamente meritevoli di tutela in
quanto si occupano dei figli nel
miglior modo possibile, ma semplicemente garantiscono l’accesso dei figli all’altro genitore.
Questa posizione si sposa peraltro con l’introduzione nel codice del concetto di alienazione
genitoriale regolata dall’art. 2
della proposta in commento che
modifica l’art. 155 bis c.c.
Il giudice deve valutare ai fini
della decisione sull’affidamento
dei figli gli eventuali condizionamenti ambientali che possono
provocare al minore una sindrome di alienazione genitoriale
grave o di stadio intermedio e
ogni ostacolo che un genitore
frapponga per conservare alla
prole un rapporto paritetico con
l’altro genitore. La valutazione
del giudice deve prendere in considerazione anche i comportamenti dei genitori in epoca antecedente alla domanda di separazione.
Sebbene il richiamo ad una
analisi più precisa e completa dei
comportamenti dei genitori sia di
buon auspicio il giudice difficilmente potrà senza l’aiuto di un
esperto, giungere ad una diagnosi
di alienazione genitoriale.
50 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
E pacifico che il diritto del minore naviga tra norme giuridiche,
etica e psicologia, ma il nostro sistema giudiziario è già “fortemente” appesantito e l’inserimento addirittura nel codice di
concetti psicologici può creare
qualche ulteriore “disordine”.
ART.155 sexies c.p.c. (modificato dall’art. 5).
Il minore di anni 12 o anche di
età inferiore con capacità di discernimento deve essere sentito.
Importante il richiamo al parere del minore ed alle sue aspirazioni, nonchè la necessità che
l’audizione avvenga in locali a ciò
idonei, posti anche fuori dall’ufficio giudiziario ed avvalendosi di
operatori preparati con la possibilità che l’audizione venga registrata.
La vera sorpresa della proposta
di legge è rappresentata dalla sottrazione al Tribunale per i Minorenni della competenza prevista
dall’art. 38 disp. Att. del codice civile dei seguenti articoli:
- art. 316 c.c. esercizio della potestà dei genitori coniugati;
- art. 317 bis c.c. esercizio della
potestà dei genitori naturali;
- art. 330 c.c. decadenza della
potestà;
- art. 332 c.c. reintegra della potestà;
- art. 333 c.c. condotta del genitore pregiudizievole ai figli.
Ciò significa che per tutto ciò
che attiene al rapporto genitorifigli sia nella filiazione naturale
che legittima la competenza diviene esclusiva del Tribunale Ordinario.
Al Tribunale per i Minorenni rimane la competenza in materia
di minori abbandonati e per tutto
ciò che attiene alle forme di tutela
dall’affidamento all’adozione.
Per coloro che da anni auspicano la creazione di sezioni specializzate presso i Tribunali Ordinari questo rappresenta un elemento di forte interesse, ma resta
il sospetto che proprio per questo
motivo la proposta di legge procederà a rilento.
STUDI E RICERCHE
L’assistenza tecnica e
l’udienza presidenziale.
Il significato del tentativo
di conciliazione.
GERMANA BERTOLI,
(AVVOCATO DEL FORO DI TORINO. PRESIDENTE
DELLA SEZIONE DELL’OSSERVATORIO DI TORINO.
COMPONENTE DEL COMITATO ESECUTIVO
DELL’OSSERVATORIO. COMPONENTE DEL COMITATO
DI REDAZIONE DI “AVVOCATI DI FAMIGLIA”)
VALERIO LIPRANDI,
(DOTTORE IN GIURISPRUDENZA)
a riforma attuata dalla legge n. 80/05 ha inciso fortemente sul procedimento di separazione e divorzio, sebbene alcuni Tribunali
ne abbiamo ridimensionato la portata.
Il contenuto del vecchio art. 707, comma1°, c.p.c.,
secondo cui “I coniugi debbono comparire personalmente
davanti al presidente senza assistenza di difensore”, ha
retto fin quando il tentativo di conciliazione è stato
considerato come il fulcro dell’udienza presidenziale (peraltro proprio da ciò dottrina e giurisprudenza facevano discendere la natura di volontaria
giurisdizione di tale fase).
Infatti, il presidente del Tribunale agiva, più che
da giudice delle ragioni e dei torti coniugali, da bonus
vir proteso a riconciliare i coniugi che comparivano
innanzi a lui, ricomponendo l’unione coniugale, ovvero definendo consensualmente la separazione o
il divorzio1. Ma quando l’evoluzione del costume sociale ha condotto ad una sempre più accesa conflittualità tra i coniugi (già difficile da gestire innanzi
al presidente), non si è più potuto escludere che anche la fase presidenziale avesse assunto il carattere
contenzioso.
Tale rinnovata realtà ha comportato un contrasto
dell’art. 707 c.p.c., nella parte in cui escludeva la
possibilità per i coniugi di farsi assistere da un avvocato nella fase successiva al tentativo di conciliazione andato fallito, con l’art. 24 della Costituzione,
che sancisce l’inviolabilità del diritto alla difesa,
tanto da richiedere l’intervento della Corte Costitu-
L
zionale, che, con le pronunce n. 151/ 71 e n. 201/71,
ha dato atto della necessità che la parte venga assistita da un difensore sin da subito in quanto (si riporta testualmente la pronuncia n. 151): “nella seconda parte dell’udienza presidenziale diventa attuale il
contrasto, concreto o potenziale, tra i contendenti sulla
base delle domande avanzate con il ricorso introduttivo”.
Benché la Corte Costituzionale non abbia inteso
chiarire la natura del giudizio di separazione, affermando che: “non rileva il carattere, contenzioso o volontario, del procedimento”, la Consulta ha tuttavia sottolineato come: “codesti provvedimenti [quelli presidenziali ], pur essendo temporanei ed urgenti, non possono
essere revocati o modificati dal giudice istruttore tranne
che si verifichino mutamenti nelle circostanze, e lo possono solo con la sentenza del Tribunale e di giudici aditi
successivamente o in via d’urgenza, e in quanto incidono
e per un tempo che può essere anche lungo, sugli interessi
dei coniugi e della prole. Ricorrono, perciò, le premesse e le
condizioni perché alle parti del procedimento di separazione personale dei coniugi, durante la fase presidenziale
e dopo il fallimento del tentativo di conciliazione, debba
essere assicurata la difesa in giudizio”.
Per quanto riguarda, invece, la fase presidenziale
nel procedimento di divorzio ante riforma, va indicato come l’art. 4, comma 7°, l. div. non escludesse
l’assistenza del difensore in maniera espressa. Ciò
ha consentito agli attenti interpreti di trarre che, siccome il contenuto del ricorso introduttivo richiedeva dei particolari tecnicismi, doveva necessariamente considerarsi indispensabile l’assistenza di un
legale, ricalcando per certi aspetti i contenuti delle
pronunce della Corte Costituzionale in materia di
separazione.
Da tale situazione che si era venuta a creare poteva facilmente ritenersi superata la tesi dottrinale
e giurisprudenziale che voleva attribuita alla fase
presidenziale della separazione e del divorzio natura di volontaria giurisdizione, essendo ormai
chiaro che l’assistenza tecnica fosse richiesta anche
innanzi al presidente.
Tale situazione è stata formalizzata con la l. n.
80/05 che ha introdotto espressamente negli artt.
707, comma 1°. C.p.c. e 4, comma 7°, l. div. l’inciso
“con l’assistenza del difensore”.
Di tale innovazione è, però, stata data una doppia
lettura. Coloro che hanno voluto attribuirle un interpretazione maggiormente restrittiva vi hanno
ravvisato esclusivamente una normativizzazione
della pronuncia della Corte Costituzionale, che
aveva sancito espressamente la presenza dell’avvocato all’udienza presidenziale una volta fallito il tentativo di conciliazione; altri, con una interpretazione
più estensiva, hanno invece ritenuto che tale indicazione contenesse un significato più ampio, ossia
che l’assistenza legale delle parti debba essere garantita sin dalla fase di audizione singola dei coniugi
e che, per il rispetto del principio del contraddittonovembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 51
STUDI E RICERCHE
rio, nella fase dell’audizione singola delle parti il
presidente possa sì estromettere l’altro coniuge, ma
non il difensore del coniuge allontanato2.
Ove l’udienza presidenziale si divide nella fase di
audizione singola e congiunta delle parti, la maggioranza dei Tribunali italiani ritiene che il legislatore
abbia inteso prevedere la presenza del difensore sin
dalle prime battute dell’udienza presidenziale, consentendo dunque, agli avvocati di partecipare anche
all’audizione separata dei coniugi e comunque necessariamente al tentativo di conciliazione.
La necessità dell’assistenza tecnica sin dall’audizione singola dei coniugi è legata all’esigenza di evitare che in una fase delicata come quella dell’indicazione delle proprie richieste, a fronte della successiva emanazione dei provvedimenti temporanei
ed urgenti che si protrarranno (nella maggior parte
dei casi) fino al momento della sentenza definitiva,
la parte sia lasciata in balia di sé stessa.
Nonostante risulti evidente l’intenzione del nostro legislatore di rendere il processo di separazione
e divorzio rispettoso dei dettati di cui all’art. 111
della Costituzione, mediante la previsione della necessità dell’assistenza tecnica fin dalle prime battute, taluni Tribunali (ancora troppi) continuano ad
adottare l’orientamento interpretativo più restrittivo, con la conseguenza che i coniugi sono ascoltati, senza l’assistenza del difensore.
Da tutto ciò consegue un’applicazione di riti differenti nei vari distretti di Tribunale con notevole
smarrimento per gli avvocati che si trovano ad operare in Fori che non sono il loro.
Per avere contezza di cosa accade sul territorio
italiano la sezione territoriale di Torino dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia ha effettuato
un’indagine sulle prassi consolidatesi in alcuni Tribunali i cui risultati sono riportati nella tabella 1.
La problematica, però, delle diverse prassi che si
sono venute a consolidare nei vari Tribunali sta ben
a monte dell’interpretazione che si vuol conferire al
rinnovato contenuto degli artt. 707 c.p.c. e 4 l. div..
Infatti il diverso atteggiamento nei confronti dell’udienza presidenziale si percepisce già nel momento in cui ci si rapporta al concetto di “tentativo
di conciliazione”.
Nel caso della separazione il tentativo di conciliazione è previsto sia nell’ambito del procedimento
giudiziale, per il quale l’art. 708 c.p.c., 1° co., recita
che: “All’udienza di comparizione il presidente deve sentire
i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, tentandone la conciliazione” sia nell’ambito del procedimento consensuale, ove l’art. 711 cpc rinvia esplicitamente ai contenuti dell’art. 708 c.p.c., letteralmente
prevedendo che: “Nel caso di separazione consensuale
[…] il presidente su ricorso di entrambi i coniugi, deve sentirli nel giorno da lui stabilito e procura di conciliarli nel
modo indicato nell’art. 708”. Tale dato di fatto, ci impone
di porre mente al significato letterale del termine
“conciliazione” quale raggiungimento di un accordo,
per renderci conto di come il nostro legislatore lo abbia utilizzato impropriamente, creando quindi difficoltà interpretative. Infatti, sebbene il tentativo di
conciliazione inteso nel senso di componimento di
un dissidio possa essere compatibile con un procedimento di separazione giudiziale, entrerebbe invece in
contrasto logico con un procedimento di separazione
consensuale, che già ab origine si pone come accordo
sul nuovo assetto di vita tra i coniugi, e dunque nella
totale assenza di un dissidio da comporre. Ciò significa che, nel caso della separazione consensuale, il
Tabella 1. Risposte positive (rettangolo scuro) o negative (rettangolo bianco) nell’indagine sull’audizione
individuale dei coniugi nell’udienza presidenziale e relativa assistenza tecnica:
1a- audizione individuale nelle separazioni consensuali,
1b- audizione individuale nei divorzi congiunti,
2a- assistenza tecnica nell’audizione individuale nelle separazioni consensuali,
2b- assistenza tecnica nell’audizione individuale nei divorzi congiunti,
3a- audizione individuale nelle separazioni giudiziali,
3b- audizione individuale nei divorzi giudiziali,
4a- assistenza tecnica nell’audizione individuale nelle separazioni giudiziali,
4b- assistenza tecnica nell’audizione individuale nei divorzi giudiziali.
52 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
STUDI E RICERCHE
tentativo di conciliazione inteso in senso letterale
come superamento di un dissidio non farebbe altro
che generare una fase processuale priva di contenuti
ed assolutamente inutile.
Da tale valutazione non può non concludersi che
il legislatore ha utilizzato il termine conciliazione in
maniera imperfetta, e che meglio avrebbe fatto ad
impiegare il più appropriato concetto di “tentativo
di riconciliazione” nel senso di tentativo di ricomposizione della frattura coniugale. Ciò si può desumere anche dal contenuto dell’art. 154 c.c., il quale
prevede che “La riconciliazione tra i coniugi comporta
l’abbandono della domanda di separazione personale già
proposta”.
Il tentativo di conciliazione è proprio anche del
procedimento di divorzio, ma in questo caso il ricorso a di tale espressione da parte del legislatore
non può essere considerato inadeguato, come nel
caso della separazione, e ciò per due ordini di ragioni. La prima di tipo prettamente logico, se poniamo mente al fatto che un tentativo di riconciliazione sarebbe difficilmente comprensibile dovendosi
considerare eccezionale ed inverosimile che due coniugi ormai separati da almeno tre anni decidano,
con l’intervento del Giudice, all’udienza presidenziale, di ripristinare la loro unione famigliare.
La seconda ragione è ti tipo sistematico: infatti,
mentre nel comma 7 dell’articolo 4 legge 898/70, con
riguardo al procedimento contenzioso ordinario, la
necessità del tentativo di conciliazione è inequivoco
(“All’udienza di comparizione, il presidente deve sentire i
coniugi prima separatamente poi congiuntamente, tentando di conciliarli”), il comma 16 dello stesso articolo
prevede in maniera concisa che: “il Tribunale, sentiti i
coniugi, verificati i presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli, decide
con sentenza”. L’espressione “sentiti i coniugi” è chiaro
come abbia significato e valenza differenti rispetto
a “sentire i coniugi […] tentando di conciliarli”. Dal raffronto delle due disposizione parte della dottrina ha
dedotto come nel caso di divorzio congiunto non sia
necessario il tentativo di conciliazione a cui viene
attribuito il significato di raggiungimento di un accordo sulle questioni dibattute tra le parti proprio, e
ciò perché l’accordo è già stato raggiunto in quanto
presupposto del divorzio congiunto (De Filippis).
Dunque, il tentativo di conciliazione in sede di divorzio dovrà riguardare soprattutto il raggiungimento di un accordo globale, o quantomeno parziale, sulle questioni dibattute tra le parti, obiettivo
che nel caso del divorzio congiunto è già raggiunto
a prioriper la natura stessa del procedimento (tenuto conto che l’accordo delle parti sulle questioni
afferenti il venire meno del vincolo matrimoniale è
presupposto per il deposito di un divorzio congiunto).
Un’interpretazione sistematica di questo tipo consentirebbe di comprendere le resistenze di alcuni
Tribunali italiani al consentire a che i coniugi possano essere assistiti dal proprio legale fin dalla loro
audizione singola innanzi al Presidente nei giudizi
di separazione. E’ ovvio però che in questo caso il
Presidente dovrebbe unicamente verificare la possibilità di comporre la frattura coniugale (uniformando la fase dell’audizione singola dei coniugi in
ottemperanza al richiamo effettuato dall’art. 711 cpc
all’art. 708 cpc), escludendosi che in tale momento
processuale sia possibile entrare nel merito della
vicenda, possibilità da riservarsi nel corso della successiva audizione congiunta dei coniugi che si
svolge alla presenza dei legali, un momento a sua
volta caratterizzato, per la separazione consensuale,
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 53
STUDI E RICERCHE
Tabella 2. Risposte positive (rettangolo scuro) o negative (rettangolo bianco) nell’indagine sul deposito
di ricorsi senza assistenza tecnica:
5a- nella separazioni consensuali.
5b- nei divorzi consensuali.
dalla lettura delle condizioni già concordate (infatti
nessun tentativo ci conciliazione è necessario sussistendo già un accordo) e, per la separazione giudiziale, dal tentativo di raggiungere un compromesso
sulle questioni principali onde evitare di dar corso
alla fase istruttoria.
Tale tipo di interpretazione ci consentirebbe,
quindi, di condividere l’impostazione accolta ad
esempio dai Tribunali di Bari e Venezia i quali, seguendo un protocollo d’intesa tra magistrati ed avvocati, hanno stabilito che: “Le parti verranno interrogate dal Presidente separatamente e senza difensori
solo per la verifica della possibilità della riconciliazione.
Ogni altro interpello avverrà secondo le regole del contraddittorio, alla presenza dei difensori“.
Ciò, ovviamente, porterebbe al escludere il tentativo di conciliazione nel procedimento di divorzio
congiunto, limitazione che, come si è visto, non sarebbe neanche in contrasto con il dettato normativo
contenuto nel comma 16 dell’art. 4, l. 898/70.
Ma la spaccatura interpretativa circa l’introduzione espressa della difesa tecnica nei giudizi attinenti la questione matrimoniale ha determinato
l’insorgenza non solo della problematica relativa all’obbligatorietà o meno della presenza del difensore
nella fase di audizione singola dei coniugi, ma anche quella riguardante l’obbligatorietà dell’assistenza legale nei procedimenti di separazione consensuale e di divorzio congiunto.
Per quanto riguarda la separazione consensuale,
seppure l’art. 711 c.p.c. non sia stato modificato
dalla legge del 2005, è altrettanto inopinabile che la
stessa noma è ricompresa nel capo intitolato “Della
separazione personale dei coniugi”, sezione introdotta
dall’art. 707 c.p.c. che ben evidenzia oggi la necessità della presenza del legale accanto alle parti
senza peraltro distinguere se tale requisito sia richiesto per la separazione consensuale o giudiziale.
Inoltre, risultando attualmente alquanto improbabile poter continuare a sostenere che il processo di
separazione non sia contenzioso così come previsto
dalla giurisprudenza (Cass. 24.7.1989 n. 3095) così
come impossibile ritenere che non sia necessaria la
difesa tecnica in un procedimento camerale che ri54 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
guardi la tutela di situazioni sostanziali di diritto o
di status (Cass. 30.7.96 6900) non dovrebbero più esservi dubbi circa la necessità dell’assistenza legale.
Tale tesi, però, è avversata da parte della dottrina
e seguita ancora da molti, troppi, tribunali, che consentono ancora che le parti si presentino innanzi al
Presidente senza l’assistenza di un legale, con violazione del diritto di difesa in un momento in cui si
è ben consci che le separazioni consensuali non
sempre sono sintomo di ponderazione e convincimento di entrambe le parti circa la bontà dell’accordo, ma rifugio per l’esasperazione che questioni
legate alla sfera sentimentale, come la fine di un
matrimonio, sovente a detrimento del coniuge più
debole (economicamente o psicologicamente).
Minori problemi interpretativi sussistono in relazione al procedimento di divorzio, tenuto conto che
i Tribunali che non prevedendo l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica in caso di accordo tra coniugi
rappresentano casi isolati, anche se ugualmente anche in questa procedura bisognerà fare i conti con
diverse prassi.
Nella tabella 2 si riportano i dati raccolti sempre
dalla sezione territoriale di Torino dell’ONDF su
detto argomento.
Da quanto riportato emerge chiaramente come
ancora una volta il nostro legislatore abbia abbandonato i giuristi in balia di parole con significati che
possono aprire scenari molto diversi a scapito della
certezza del diritto, oltretutto in materie delicate
che vedono coinvolti interessi non solo economici e
dove non dovrebbero avere dimora sconti ed incertezze nell’applicazione del principio inviolabile del
diritto alla difesa.
Note
1
Fazio, “Il rito nelle separazione e nei divorzi alla
luce delle recenti modifiche normative e la ripartizione di competenze tre il Tribunale ordinario, minorile e giudice tutelare”.
2
Cipriani “Processi di separazioen e divorzio, in
Foro Italiano 2005.
PARI OPPORTUNITÀ
Il legittimo
impedimento
delle avvocate
CLAUDIA ROMANELLI,
(AVVOCATO DEL FORO DI BARI.
RESPONSABILE REGIONALE DELLA PUGLIA
PER L’OSSERVATORIO)
on può dubitarsi che la
legge dell’ “Ordinamento
della Professione di Avvocato” risalente al 1933 (e per il
quale è in corso l’approvazione
della riforma), non avesse preso
in considerazione l’eventualità di
una femminilizzazione dell’avvocatura e che quindi anche un’avvocata potesse divenire madre. E’
una presunzione che resta incontestabile sino al 1990 quando, con
la legge 379 qualcuno si è reso
conto della oggettiva “differenza”
delle avvocate rispetto ai colleghi
uomini e della evidente disparità
di trattamento con le altre categorie di lavoratrici tutelate dalla
legge sulla maternità
Vero è che per anni anche i magistrati che si sono occupati della
maternità delle avvocate, giustificavano l’omesso riconoscimento
dell’indennità di maternità con la
mancanza di qualsiasi obbligo di
astensione dal lavoro, ma in seguito, anche grazie alla legislazione ed alla giurisprudenza intervenute in materia, il principio
contenuto nella ratio della normativa speciale a tutela della
maternità è stato esteso anche
alle libere professioniste : in ogni
caso deve darsi la possibilità alla
professionista di assolvere in
modo sereno all’esperienza della
N
maternità e comunque tutelare la
maternità equivale a salvaguardare il diritto alla salute della madre e del nascituro.
Con la legge 379 del 1990, la
Cassa di previdenza e di assistenza forense finalmente interviene e riconosce una indennità
di maternità pari all’80% dei 5/12
del reddito dichiarato nei due
anni precedenti la data del parto.
Tale norma è stata poi trasfusa
nell’art 70 del testo Unico sulla
maternità (D.LGS n. 151 del 2001)
quindi modificato ancora dalla L.
389 del 2003 che impone un tetto
massimo al fine di scongiurare
l’impoverimento delle casse dell’ente previdenziale.
Tralasciando la censurabilità
dell’indennità di maternità minima determinata in una somma
irrisoria, (€ 3.652,00 netti), che
viene riconosciuta alle professioniste con redditi minimi, (che poi
rappresentano la maggioranza
delle colleghe), un ulteriore importante passo a tutela della maternità, è rappresentato dalla proposta di protocollo che recentemente la Commissione nazionale
per le pari opportunità presso il
CNF ha elaborato dopo svariate
sollecitazioni provenienti sia dall’Unione delle Camere penali italiane che da alcuni Comitati pari
opportunità costituiti presso i
Consigli dell’ordine.
Si tratta del pieno riconoscimento dello stato di gravidanza
e maternità quale motivo di legittimo impedimento a comparire alle udienze penali e civili e
comunque in tutte quelle fasi e
procedimenti assimilabili alle
udienze in cui la presenza del difensore di fiducia e la sua attività
siano indispensabili per lo svolgimento del procedimento medesimo.
Il protocollo (che di seguito si riporta integralmente per una auspicabile e massima diffusione),
contiene in premessa l’intera legislazione internazionale, europea e nazionale di riferimento
che attesta la tutela della maternità prescindendo dalla tipologia
di lavoro svolto: subordinato, autonomo o professionale .
Tra queste vi è la direttiva
2006/54/CE che riguarda l’attuazione del principio di pari opportunità e di parità di trattamento
tra uomini e donne in materia di
occupazione e di impiego nell’accesso, nella formazione e nella
promozione professionale in tutti
i settori lavorativi e quindi anche
in quelli delle libere professioni.
Peraltro tale direttiva, già approvata con decreto del 31.7.09, ha
superato l’audizione al senato e
dovrebbe completare l’iter di recepimento entro l’anno.
Ne deriva che la tutela contro
ogni tipo di discriminazione diretta o indiretta dovrà estendersi
a tutte le categorie di lavoratori e
lavoratrici e così eventuali atti,
patti o comportamenti (ad es. il
rigetto di una richiesta di rinvio
dell’udienza giustificata da motivi legati alla gravidanza o alla
maternità) se attuati in ragione
dello stato di gravidanza o di maternità o paternità ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, saranno
considerati illegittimi e dovranno
essere contrastati.
Ed è proprio in questa direzione
che il protocollo assume un notevole significato.
Con la sottoscrizione del protocollo presso i Tribunali si potrà
finalmente attestare non solo che
le avvocatesse, nei limiti della
specificità che contraddistingue
la nostra professione, hanno raggiunto la quasi parità dei diritti rispetto alle diverse categorie di lavoratrici, ma quello che più rileva
è che, nel rispetto del principio di
parità nel lavoro tra donne e uomini, consacrato dalla legislazione europea ed internazionale
e nazionale, le avvocate avranno
fatto un altro passo verso il miglioramento di quella conciliazione tra responsabilità familiari
e responsabilità professionali che
rappresenta la chiave di volta
verso il raggiungimento di una
parità effettiva tra uomini e
donne nel lavoro.
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 55
PARI OPPORTUNITÀ
Il protocollo specifica analiticamente le ipotesi processuali nel
giudizio penale, in quello civile e
del lavoro, nelle quali lo stato di
gravidanza e di maternità per il
periodo indicato dall’art. 16 della
legge 151/2001(due mesi prima
del parto e tre successivi), costituiranno legittimo impedimento
utile ad ottenere un rinvio dell’udienza.
Tale rinvio dovrà essere richiesto tempestivamente all’autorità
competente secondo modalità
dettagliate. La tutela è estesa sia
al periodo anteriore a quello previsto dall’art. 16, in caso di gravidanza a rischio, sia al periodo fino
al terzo anno di vita del bambino.
Quest’ultima ipotesi dovrebbe
chiaramente essere applicabile
anche ai padri.
Il tutto va rigorosamente documentato, e questo è plausibile per
evitare facili strumentalizzazioni.
In tutti i periodi oggetto di tutela le colleghe potranno adem-
piere alle attività di cancelleria
anche fuori dagli orari eventualmente consentiti.
Eppure come sempre accade:
la società progredisce più speditamente della legge che tenta di
disciplinarla e se già alcuni consigli dell’ordine sono in procinto
di sottoscrivere con le altre parti
il richiamato protocollo, sembra
che in sede di Commissione Giustizia al Senato vi sia resistenza
nell’approvazione dell’emendamento sul “legittimo impedimento
in caso di maternità” inserito nella
nuova legge in materia di “riforma dell’ordinamento professionale”dal Consiglio Nazionale
forense su proposta della propria Commissione pari opportunità.
Personalmente mi auguro vivamente che l’avvocatura si munisca di una nuova legge professionale, ormai attesa da anni, ma soprattutto di una legge che sia moderna e che almeno in parte ri-
specchi quei profondi mutamenti
che la professione ormai registra
velocemente. Tra questi cambiamenti vi è appunto la crescente
presenza delle donne nell’avvocatura, colleghe, con i loro tempi
le loro acrobazie, sempre divise
tra le responsabilità di una professione via via più complessa e
faticosa ed una famiglia sempre
più esigente in assenza di un regime di welfare che riconosca
eguali diritti e doveri agli uomini
e alle donne.
Di fronte ad una società che
continua a caricare la famiglia,
alla famiglia che carica ancora la
donna mantenendo uno stereotipo difficile da estirpare, sarebbe
un bel passo avanti se la riforma
dell’ordinamento professionale,
prestasse attenzione alla femminilizzazione dell’avvocatura attuando l’impatto di genere e registrando così uno dei migliori indici di rinnovamento della nostra
professione.
PROTOCOLLO D’INTESA
Tra
CONSIGLIO DELL’ORDINE DI …
CORTE DI APPELLO DI …
TRIBUNALE DI …
COMITATO PARI OPPORTUNITÀ PRESSO IL CONSIGLIO DELL’ORDINE DI …
COMITATO PARI OPPORTUNITÀ PRESSO IL CONSIGLIO GIUDIZIARIO DI …
DIRIGENTI DI CANCELLERIA DI …
VISTI
Gli articoli 2, 3, 137, 141 del Trattato CE;
Gli articoli del Trattato che istituisce la Costituzione per l’Europa;
La Direttiva 76/207/CEE, come modificata dalla Direttiva 2002/73/CE, inerente l’attuazione del principio di parità di trattamento per quanto concerne l’accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionale e le condizioni di lavoro;
La Direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio di
pari opportunità e di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego;
Gli articoli 2, 3, 24 e 51 della Costituzione italiana;
La L 8 marzo 2000 n. 53 ed in particolare l’art. 9, che prevede la promozione e l’incentivazione di forme di articolazione
della prestazione lavorativa volte a conciliare tempo di vita e tempo di lavoro;
Il D.Lgs del 26 marzo 2001 n. 151, in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, come modificato dal D.Lgs del
23 aprile 2003 n.115;
La sentenza della Corte Costituzionale n. 385 del 14 ottobre 2005, che riconosce ai padri libero-professionisti il diritto di percepire l’indennità di maternità, in alternativa alla madre;
Il D.Lgs del 30 maggio 2005 n. 145 di attuazione della Direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra gli uomini
e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionale ed alle condizioni di lavoro;
Il D.Lgs dell’11 aprile 2006 n. 198 c.d. “Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna;
La L 24 febbraio 2006 n. 104 in materia di tutela della maternità delle donne dirigenti;
Il Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 12 luglio 2007 circa l’applicazione delle disposizioni di cui
agli articoli 17 e 22 del D.lgs n. 151/2001, a tutela e sostegno della maternità e paternità nei confronti delle lavoratrici iscritte
alla gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della Legge 8 agosto 1995 n.335;
Il Codice Deontologico Forense
PREMESSO
Che tutte le parti firmatarie del presente protocollo, nel rispetto dei diversi ruoli loro attribuiti, condividono l’esigenza di
proporre interventi volti ad assicurare una reale parità fra uomini e donne nell’esercizio della professione forense;
56 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
PARI OPPORTUNITÀ
Che tutte le parti riconoscono che il tema della conciliazione tra vita professionale e vita familiare è da ritenersi sempre
più centrale nell’organizzazione lavorativa di donne e uomini;
Tutto ciò premesso tutte le parti sottoscritte si impegnano a:
1. promuovere e diffondere i contenuti del presente protocollo d’intesa tra i magistrati gli avvocati e il personale amministrativo,operanti all’interno del distretto.
2. riconoscere lo stato di gravidanza e maternità quale motivo di legittimo impedimento a comparire
- alle udienze penali (artt.420 ter e 484 comma 2 bis e 598 cpp)
- alle udienze di lavoro istruttorie e di discussione della causa ex art. 420 c.p.c.
- alle udienze civili di comparizione personale delle parti ex art. 185 cpc , di istruzione probatoria ed eventuale discussione
della causa ex art. 281 quinques 2 comma e sexies.
- in altri procedimenti e fasi, assimilabili alle ipotesi ut supra.
La richiesta di rinvio dovrà essere tempestivamente presentata all’Autorità procedente con le seguenti modalità:
Per il periodo indicato dall’art.16 D.Lgs.151/01 la sussistenza del legittimo impedimento dovuto a maternità sarà sufficientemente documentata con l’allegazione di un certificato medico da cui risulti la data presunta del parto o il certificato di
nascita del figlio o di dichiarazione sostitutiva ai sensi dell’art.46 DPR.445/00, senza necessità di ulteriori specificazioni
comprovanti particolari patologie;
Per il periodo anteriore a quello previsto dall’art.16 D.Lgs.151/01, la sussistenza del legittimo impedimento dovrà essere documentata con l’allegazione di un certificato medico da cui risulti la sussistenza di particolari patologie e/o gravi complicanze della gravidanza;
Anche al di fuori del periodo indicato dall’art.16 D.Lgs.151/01 e sino al compimento del terzo anno di vita della prole, la legittimità dell’impedimento eventualmente addotto e dovuto all’assolvimento degli obblighi di cura della prole dovrà essere
valutato alla stregua delle premesse del presente protocollo
3. nei periodi sopra indicati l’avvocato che adduca ragioni di urgenza legate all’assolvimento degli obblighi di cura della prole
avrà la precedenza, nello svolgimento degli adempimenti di cancelleria e gli sarà altresì consentito l’accesso agli uffici giudiziari anche al di fuori dei limiti di orario eventualmente previsti.
Ogni sottoscrittore darà la più ampia diffusione al presente protocollo nell’ambito del proprio settore.
Ove si verificassero ipotesi diverse da quelle contemplate espressamente nel presente protocollo, le parti firmatarie si impegnano ad adottare, nell’esercizio delle proprie funzioni, condotte e atteggiamenti funzionali alla realizzazione e alla tutela dei principi di parità.
Luogo, data
Il Presidente della Corte di appello
Il Presidente del Tribunale
Il Presidente del Consiglio dell’Ordine
Il Presidente del CPO
Il Dirigente
La Consigliera di parità della provincia di …
La carta
Europea per
l’uguaglianza
e le parità
delle donne e
degli uomini
nella vita
locale
MICHELE LABRIOLA,
(AVVOCATO DEL FORO DI BARI.
PRESIDENTE DELLA SEZIONE DI BARI
DELL’OSSERVATORIO)
a Carta Europea è stata sollecitata dalla Commissione
Europea nell’ambito del 5°
programma d’azione comunitario
L
per la parità tra donne e uomini. Il
Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa e la sua commissione delle elette locali e regionali
opera, da molti anni attivamente
per la promozione della parità tra
donne e uomini a livello locale e
regionale. La carta è il frutto del
lavoro di tante donne elette,
esperte, responsabili in diverse
collocazioni di governo e legislatrici in 35 paesi europei, tra cui
l’Italia. La proposta di un Piano di
Azione prevede che per la parità
in concreto, le Regioni, Provincie
e Comuni, dovrebbero inserire
nella loro programmazione tali
previsioni. La molla propulsiva,
per la applicazione concreta della
parità di genere, viene proprio
dalle realtà locali, perché esse
operano ad un livello più vicino ai
cittadini, favorendo le politiche
che affermano la pari opportunità
nei diritti e quindi il principio di
uguaglianza. Solo la consapevolezza della differenza di genere
può porre le basi per una regolamentazione normativa. In Italia
assistiamo ad un costante arretramento, sotto il profilo del superamento della disuguaglianza,
siamo il paese al 72° posto su 134
paesi in totale, ben terzultima in
tutta l’Europa, a causa del persistere degli indici negativi sulla
partecipazione delle donne alla
vita economica del paese.
La carta è formata da tre parti:
la prima comprende i principi
fondamentali; la seconda prevede la metodologia; la terza è
quella più lunga e più concreta
perché indica gli impegni che i
sindaci e i presidenti di regione
insieme ai loro consigli devono
prendere nei confronti dei cittadini con i loro piani di lavoro.
I principi della Carta sono i seguenti: parità delle donne e degli
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 57
PARI OPPORTUNITÀ
uomini quale diritto fondamentale ed in particolare, nel nostro
ordinamento italiano costituzionalmente garantito; la presa di
coscienza delle discriminazioni
multiple e degli ostacoli; la partecipazione equilibrata delle donne
e degli uomini alle decisioni è una
“condicio sine qua non” della società
democratica; l’eliminazione degli
stereotipi sessuali; l’integrazione
della dimensione di genere in
tutte le attività degli enti locali e
regionali; piani di azione e programmi adeguatamente finanziati come strumenti necessari
per far progredire la parità tra uomini e donne.
La questione della cittadinanza
femminile non è meramente
quantitativa o formale, ma è essa
stessa indice fondamentale della
evoluzione in positivo di una società, ed è garanzia per l’applicazione su scala locale delle norme
del rispetto e dell’abbattimento
delle disuguaglianze. Non è una
mera questione femminile deve
essere una esigenza primaria per
entrambi i generi, fino a quando
non si avrà la piena consapevolezza che il superamento della discriminazione è, per tutti, un affrancamento dalla arretratezza e
dalla “violenza” non si capirà che
la sottoscrizione della Carta, ma
soprattutto la sua attuazione,
sono un passo dovuto da parte di
tutti gli enti locali cui si rivolge.
“il Governo intende proporre un
vero e proprio patto ai cittadini
affinché libertà, giustizia sociale
e piena cittadinanza, siano i vettori della crescita economica e
della civile convivenza”.
Dalle ricerche da me effettuate
risulta che in data 11 febbraio
2008 la AICCRE PUGLIA ha tenuto
una conferenza regionale sulla
Carta. Vi è una consulta femminile AICCRE Puglia. Non vi è traccia però di una sottoscrizione degli enti locali pugliesi. La Carta è
stata sottoscritta, ma i dati relativi alla sua applicabilità sono a
me inaccessibili, da quasi tutte le
regioni e da molti comuni italiani.
(tra gli altri: Toscana, Lazio, Cala-
bria, Campania, Veneto, Emilia
Romagna, Sicilia). Sono andata a
fondo ho verificato quali siano le
finalità della AICCRE PUGLIA – FEDERAZIONE DELLA PUGLIA sezione italiana della CCRE (consiglio dei Comuni e delle Regioni
d’Europa): più che una associazione essa è un movimento politico e promozionale, oltre che culturale, che mantiene la sua forza
e la sua coerenza grazie alla militanza in esso di tutti i livelli delle
autonomie, dal Comune agli enti
intermedi alla Regione. In buona
sostanza deve rappresentare uno
strumento per debellare le disuguaglianze, etniche e linguistiche,
ma deve, soprattutto, uniformarsi, con comunicazioni e reti
alle previsioni di democrazia sanciti al livello europeo.
Ed è per questo motivo, che
nelle maglie di queste finalità noi
dovremmo sollecitare la sottoscrizione della carta anche a Bari,
prendendo esempio da comuni e
regioni che, sin dal 2007, hanno
provveduto, oltre che alla sottoscrizione, anche alla formulazione di un Piano di Azione per la
concreta realizzazione della
stessa. Nello statuto AICCRE registrato a Bari il 19 febbraio 2003 all’art. 2 si legge che la stessa associazione: “assume e promuove
iniziative dei poteri regionali e
locali: (……) l’unità politica d’Europa, in forma federale, sulla
base del principio di sussidiarietà e di interdipendenza, per la
pace, la cooperazione decentrata
per lo sviluppo, la collaborazione
pacifica, la fraternità dei popoli,
la pari dignità, la pari opportunità di tutti gli esseri umani, per
la riduzione delle disparità regionali, per il superamento degli
squilibri in Europa, del crescente
divario tra Nord e Sud e con particolare riferimento all’area mediterranea”.
Vi è inoltre una norma statutaria che prevede che i fondi delle
risorse finanziarie siano utilizzati
a fini istituzionali. Presidente
della federazione della Puglia è il
Sindaco di Bari la sede è il Co-
58 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
mune di Bari. Leggendo i Piani di
Azione ed i c.d. bilanci di genere
degli altri enti locali si scorge
l’importanza del potenziamento
economico dei servizi, il welfare è
un capitolo che va affrontato
prioritariamente per la piena attuazione del Piano in Puglia e a
Bari. Cosa deve contenere il nostro Piano di Azione biennale:
Politica, lavoro, formazione, salute, assistenza e servizi sociali,
inclusione sociale, pianificazione urbana e sviluppo sostenibile. La cosa che mi pare prioritaria è che il Piano debba includere un’analisi di genere, al fine
di includere azioni contro le discriminazioni molteplici, l’elaborazione e l’adozione deve essere
condivisa e diffusa come anche
resi pubblici i risultati e le azioni.
Il caso puglia:
le pari
opportunità
salvate dalla
magistratura
MARIA STELLA CIARLETTA,
(AVVOCATO DEL FORO DI REGGIO
CALABRIA. PRESIDENTE DELLA SEZIONE
DELL’OSSERVATORIO DI REGGIO
CALABRIA. COMPONENTE DEL
COMITATO DI REDAZIONE DI “AVVOCATI
DI FAMIGLIA”. CONSIGLIERA REGIONALE
DI PARITÀ DELLA REGIONE CALABRIA)
La sezione di Lecce del Tar Puglia continua a sorprenderci! Negli ultimi due mesi ha adottato
ben due ordinanze cautelari di
accoglimento di ricorsi con i quali
si contestava la composizione
della Giunte della Provincia di Taranto, prima, e del Comune di
Maruggio, dopo, perché composte
da rappresentanti di un solo
sesso.
Secondo il giudice amministrativo, infatti, una giunta priva di
rappresentanza femminile viola
non solo i principi di pari oppor-
PARI OPPORTUNITÀ
tunità contenuti nello Statuto e
nel Regolamento dell’Ente, ma
anche la Costituzione italiana,
laddove sancisce, all’art. 51, che
“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli
uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza,
secondo i requisiti stabiliti dalla
legge”.
E le giunte in questione erano
tutte composte da uomini.
E’ importante sottolineare un
secondo aspetto, non meno innovativo, di tali pronunce, ed è
quello di riconoscere la legittimazione ad agire della consigliera regionale di parità ai sensi dell’art.
37, 2° comma del d.lgs. 11 aprile
2006, n. 198, che prevede la possibilità, per i Consiglieri regionali di
parità, di proporre impugnative al
T.A.R. nei confronti dei provvedimenti che vengano ad integrare
discriminazioni di carattere collettivo.
Fino ad oggi non possiamo negare che, nonostante i continui
appelli degli organismi di parità e
le proposte dell’associazionismo
femminile, vedevamo sfornare
giunte locali tutte maschili in
barba a qualsiasi principio costituzionale e orientamento internazionale.
Ma bisogna ricordare che non è
la prima volta che il Tar viene
chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di giunte composte da
un solo sesso, ricordiamo il precedente del settembre 2008,
quando la sezione di Bari accolse
il ricorso riguardante la giunta comunale di Molfetta, anche questa
senza donne.
Nell’arco temporale di un paio
d’anni, la magistratura amministrativa pugliese ha adottato diversi provvedimenti che sembrano, quindi, indicare un orientamento giurisprudenziale di affermazione concreta e applicazione reale dei principi di pari opportunità.
La notizia merita un approfondimento per analizzare il fenomeno sociale e cercare di capire
quali segnali possano scorgersi
per il futuro delle pari opportunità in Italia.
Malgrado la riforma dell’art. 51
della Costituzione abbia portato
come conseguenza una nuova
stagione di statuti regionali e locali aggiornati secondo principi
paritari, ad oggi i governatori locali hanno per lo più lasciato lettera morta queste prescrizioni, interpretandone la natura in un’ottica prevalentemente programmatica e non precettiva.
Tuttavia il Tar leccese non è
stato della stessa opinione laddove afferma, nella recente ordinanza del 21 ottobre, che “ la disposizione statutaria impone
l’obbligo di assicurare la presenza
in Giunta di Assessori di entrambi
i sessi, non essendo assolutamente sufficiente un semplice
“sforzo” teso a raggiungere un simile risultato; si tratta, pertanto,
di una tipica obbligazione “di risultato” e non “di diligenza” che
viene ad integrare un vincolo alla
scelta degli assessori e che non
può essere derogata dagli accordi
politici”.
Né l’alibi di non avere donne
consigliere salva la scelta del Sindaco in questione, laddove il Tribunale specifica che “ l’applicazione della previsione statutaria
non trova ostacolo nel fatto che le
due donne presenti in Consiglio
comunale abbiano declinato l’offerta di entrare a far parte della
Giunta comunale, per motivi personali; la presenza in Giunta di
Assessori di entrambi i sessi può,
infatti, essere assicurata anche
attraverso il ricorso alla possibilità di nominare esterni al Consiglio comunale prevista dalla normativa e dalla già citata previsione dello Statuto”.
Insomma, siamo di fronte a
uno strumento potenzialmente
rivoluzionario se una tale giurisprudenza prendesse piede anche al di fuori del territorio regionale, laddove l’azione giudiziaria
potrebbe sopperire all’inerzia colpevole della politica. Forse le
donne impegnate nelle istituzioni
dovrebbero abbandonare l’atteggiamento snobistico nei confronti
di meccanismi di riequilibrio democratico della rappresentanza,
volgarmente chiamate quote, e
attivarne invece sempre di più,
anche in ambiti inesplorati come
quello giudiziario.
Il nostro apparato normativo
non solo prevede la parità ma ne
garantisce l’attuazione attraverso
una serie di strumenti che dobbiamo imparare ad attivare con
maggiore convinzione. E’ arrivato
il momento di lavorare per l’affermazione dell’uguaglianza di
genere anche dentro le aule dei
tribunali affinché il diritto diventi
giustizia. Il varco aperto dalla giurisprudenza pugliese indica uno
scenario inedito, fino ad oggi la
politica era rimasta fuori dalle
aule dei tribunali, le scelte dei
partiti frutto di strategie discrezionali e le giunte locali zone
franche dove ogni discriminazione sessuale era possibile. I nostri appelli pubblici rimanevano
lettera morta sulle pagine dei
giornali, incapaci di produrre un
qualsiasi impatto sulla coscienza
degli uomini politici, che per lo
più commentavano con toni ilari
le nostre istanze. Oggi i giochi
stanno cambiando e una magistratura attenta e competente sta
accogliendo le richieste che non
hanno trovato risposta altrove.
D’ora in poi state in guardia,
cari politici, se non volete che la
vostra miopia democratica venga
sancita da una sentenza del Tar!
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 59
L’OPINIONE
L’ascolto del minore nei
procedimenti civili:
Le convenzioni
internazionali e la
legislazione italiana
GERMANA BERTOLI,
(AVVOCATO DEL FORO DI TORINO. PRESIDENTE
DELLA SEZIONE DELL’OSSERVATORIO DI TORINO.
COMPONENTE DEL COMITATO ESECUTIVO
DELL’OSSERVATORIO. COMPONENTE DEL COMITATO DI
REDAZIONE DI “AVVOCATI DI FAMIGLIA”)
VALERIO LIPRANDI,
(DOTTORE IN GIURISPRUDENZA)
ascolto del minore nei procedimenti civili
costituisce un particolare mezzo che consente al soggetto minorenne di esprimere
le proprie opinioni, esigenze ed aspettative
nell’ambito del processo, di modo che il magistrato,
nell’individuare le scelte decisionali più opportune
ai fini del conseguimento del suo superiore interesse, sia guidato anche da tali elementi.
Prima di addentrarsi nella disamina dell’argomento sarà bene premettere che la tematica oggetto
della presente trattazione trascende, per sua natura,
dall’ambito del meramente tecnicistico per giungere
a cingere campi che lambiscono il diritto minorile e
di famiglia, quali le scienze psicologiche e della formazione. È bene tener presente fin da subito tale
aspetto poiché risulta doveroso accostarsi all’audizione dell’infradiciottenne senza tralasciare gli apporti extragiuridici forniti da tali discipline.
La più rilevante dimostrazione di quanto appena
argomentato può essere tratta dal dibattito che ha
accompagnato nell’ultimo venticinquennio l’ingresso dell’istituto in questione nell’ordinamento
giuridico italiano, e che ha visto fronteggiarsi – su
posizioni non di rado dicotomicamente inconciliabili – istanze più protezionistiche e maggiormente
focalizzate sugli aspetti più traumatici dell’ascolto
nei riguardi del fanciullo contrapposte a visioni che
attribuiscono all’audizione un irrinunciabile valore
L’
60 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
di civiltà teso a consentire al minore di divenire in
una qualche misura parte attiva del processo decisionale che lo riguarda1. Proprio nelle riserve (per
non pochi versi anche del tutto legittime) espresse
dalla prima delle due fronde vanno ricercate le ragioni delle resistenze frapposte dapprima dal legislatore e poi dalla magistratura ad accogliere nell’alveo ordinamentale italiano l’istituto de quo. Prova
ne sia la circostanza che il principale elemento sollecitatore all’introduzione dell’ascolto del minore in
Italia è stato costituito senza dubbio dal diritto internazionale di fonte convenzionale.
La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, approvata a New York nel 1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e ratificata in Italia nel 1991, costituisce indubitabilmente il paradigma di tale affermazione: mediante il suo art. 12
(«Gli stati parti garantiscono al fanciullo capace di
discernimento il diritto di esprimere liberamente la
suo opinione su ogni questione che lo interessa, le
opinione del fanciullo essendo debitamente prese
in considerazione tenendo conto della sua età e del
suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in
ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo
concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione
nazionale») per la prima volta faceva ingresso, seppur a livello declamatorio, il diritto generalizzato del
minore ad essere ascoltato in ogni procedimento
che lo riguarda.
L’art. 3 della Convenzione europea sull’esercizio
dei diritti dei minori, approvata a Strasburgo dal
Consiglio d’Europa nel 1996 (ratificata in Italia nel
2003), ha costituito un’ulteriore e successiva specificazione di tale proclamazione, avendo imposto agli
stati contraenti di garantire ai minori considerati dai
singoli diritti nazionali come dotati della capacità di
discernimento non solo di essere consultati onde
esprimere la propria opinione in tutte le procedure
ad essi inerenti, ma pure di ricevere ogni informazione pertinente all’ascolto e di essere resi edotti
delle eventuali conseguenze che tale opinione comporta. L’unico ostacolo frapposto dal trattato all’audizione dell’infradiciottenne capace di discernimento è rappresentato dalla clausola generale della
manifesta contrarietà agli interessi del minore (art.
6).
Nel medesimo solco tracciato dalle convenzioni
di New York e Strasburgo si collocano altre fonti pattizie di diritto internazionale, talvolta anche antecedenti, che impongono l’obbligo di ascoltare il minorenne ad essere ascoltato in singoli contesti applicativi: è possibile citare a riguardo l’art. 5 della
Convenzione dell’Aja del 1970 sul rimpatrio dei minori, l’art. 15 della Convenzione di Lussemburgo del
L’OPINIONE
1980 sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento, l’art. 13 della Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della
sottrazione internazionale dei minori, gli artt. 4 e 21
della Convenzione dell’Aja del 1993 sulla tutela dei
minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale e l’art. 6 della Convenzione di Oviedo
sulla protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della biomedicina.
A costituire un’ulteriore ragione per dar corso all’ascolto nei procedimenti civili contribuisce poi il
Regolamento CE n. 2201/2003 (che investe la tematica della competenza, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia coniugale e
di responsabilità genitoriale), enunziando agli artt.
23, 41 e 42, tra i motivi che impediscono il riconoscimento negli stati membri dell’Unione Europea
delle decisioni relative alle responsabilità genitoriali, al diritto di visita di un genitore ed al ritorno
del minorenne, l’eventualità che quest’ultimo non
abbia usufruito della possibilità di essere ascoltato.
All’interno del quadro legislativo italiano l’istituto
dell’audizione del minore risulta ormai praticamente presente nella quasi totalità dei procedimenti che interessano l’infradiciottenne: a latitare,
semmai, è una norma generale che ne illustri lineeguida o principî applicativi (in ordine, ad esempio,
al grado di discrezionalità del giudice nel disporre
l’ascolto, all’età richiesta ai fini dello stesso, alla vincolatività dell’opinione espressa dal minore e via di
questo passo) 2, tanto che, stante la stretta interdipendenza tra il tipo di audizione e la procedura nell’ambito della quale è previsto, almeno da una pro-
spettiva strettamente formalistica non dovrebbe costituire un azzardo discutere di “ascolti” anziché di
“ascolto”.
Il Codice civile dispone così che, nel caso di disaccordo tra i coniugi relativamente all’indirizzo
della vita familiare (art. 145 co. 1 c.c.), il giudice raccolga anche le opinioni, «per quanto opportuno», dei
figli ultrasedicenni conviventi; che i figli ultraquattordicenni debbano essere ascoltati qualora sorgano
controversie sull’esercizio della potestà genitoriale
(art. 316 co. 5 c.c.); che si debba interpellare il minore che ha compiuto sedici anni prima di procedere alla nomina del suo tutore (art. 348 co. 3 c.c.); e
che, sempre in caso di apertura della tutela, il minore che ha raggiunto i dieci anni debba essere sentito prima di deliberare «sul luogo dove […] deve essere allevato e sul suo avviamento agli studi o all’esercizio di un’arte, mestiere o professione» (art.
371 co. 1 n. 1) c.c.).
In tema di filiazione e legittimazione peraltro un
non esiguo numero di norme, lungi dal limitarsi a
prevedere il semplice obbligo di dar voce al minore,
giunge ad attribuire un valore decisivo e vincolante
alle opinioni da questi espresse3.
Nelle procedure inerenti alla separazione, al divorzio, all’annullamento del matrimonio ed in generale alla frattura della coppia genitoriale la necessità d’individuare un punto d’equilibrio tra il diritto del minore ad esprimere volontà ed opinioni in
un momento così importante per il prosieguo della
sua esistenza e la necessità di preservarlo dalle conseguenze di un suo ingresso troppo diretto nell’arena del conflitto parentale.
Dopo più di sette lustri4 la legge 54/2006 ha definitivamente uniformato le disposizioni in tema di
ascolto nell’ambito di separazione, divorzio e regolamentazione delle condizioni di affidamento e visita nei casi di figli naturali mediante l’introduzione
dell’art. 155 sexies c.c., il quale prescrive che, «prima
dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di
prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento».
La riforma dell’affidamento condiviso ha così indotto la dottrina ad intavolare un acceso dibattito
che ha visto fronteggiarsi coloro che ritengono che
l’art. 155 sexies c.c. imponga un autentico obbligo in
capo al magistrato di ascoltare il minorenne5 ed i sostenitori della facoltatività dell’audizione, la cui necessità andrebbe di volta in volta valutata dal giudice alla luce del superiore interesse del minore6.
A favore della prima soluzione paiono in effetti
deporre l’analisi letterale del testo – il verbo “disporre” è coniugato al modo indicativo e dovrebbe a
tal cagione assumere una valenza imperativa – il
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 61
L’OPINIONE
serita e dall’art. 6 della precedente l. 74/1987 e dai
lavori preparatori della stessa l. 54/2006), e ciò per
via delle circostanze che l’articolo di legge menzioni
i due istituti processuali separatamente («il giudice
può assumere […] mezzi di prova. Il giudice dispone,
inoltre, l’audizione del figlio minore […]») e che la
rubrica dell’articolo adotti la denominazione “Poteri
istruttori del giudice e ascolto del minore”, dove la
congiunzione copulativa “e” assolverebbe la funzione di distinguere i due elementi.
contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento (in special modo l’art. 12 della Convenzione
di New York e l’art. 3 della Convenzione di Strasburgo, e così pure la sentenza 1/2002 della Corte
Costituzionale – oggetto di trattazione in futuro),
nonché la disamina dei lavori parlamentari preparatori della l. 54/2006. Un siffatto ragionamento ha
addirittura indotto taluni studiosi ad arguire che
non dar voce al minore nei procedimenti in esame
configurerebbe un’autentica causa di nullità degli
stessi, salvo che tale scelta sia sorretta da un’adeguata motivazione, idonea a dimostrare che nel caso
concreto l’audizione collide col suo superiore interesse, posto comunque che una prevalutazione della
compatibilità di quest’ultimo con l’ascolto sarebbe
già stata effettuata dal legislatore nel momento in
cui ha indicato l’età di dodici anni come quella a
partire dalla quale è richiesto al magistrato di dar
voce al minore.
Su posizioni divergenti si collocano viceversa i sostenitori di un’interpretazione meno formalistica e
maggiormente sistematica della norma: facendo
leva sulla clausola generale dell’interesse del minore parte della dottrina (e, per il vero, la quasi totalità degli operatori) ritiene infatti che non sussista un assoluto obbligo di procedere all’audizione
dell’infradiciottenne, potendo questa essere rimessa
alla discrezionale valutazione del Presidente.
Altra cagione di dibattito è costituita dall’appartenenza o meno dell’ascolto ex art. 155 sexies c.c. alla
categoria dei mezzi istruttori: secondo l’interpretazione prevalente il tenore letterale della norma depone a sfavore dell’inclusione dell’audizione nel novero delle fonti di prova (laddove era stata invece in62 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
Se nei procedimenti relativi alla frantumazione
della coppia genitoriale il punto nodale in tema di
ascolto del minore risulta fondamentalmente focalizzato sull’an, una simile questione non si è pone
invece per l’affidamento preadottivo e l’adozione,
nelle cui procedure le opinioni e le prospettive dei
minori sono ormai divenute un elemento per così
dire ontologico: se sin dalla sua formulazione originaria la l.184/983 prevedeva in diverse norme il ricorso all’istituto de quo, seppur nell’ottica di una
«prospettiva diffidente»7, la legge di riforma
149/2001 ha determinato una consistente implementazione degli spazi deputati a consentire al minore di esprimersi8.
In tema di adozione nazionale il legislatore individua due fasce di età a partire dalle quali dar corso
all’audizione: i dodici anni (con possibilità di deroghe legate alla capacità di discernere) ed i quattordici.
Così l’ultradodicenne – e l’adottando che, pur non
avendo ancora raggiunto tale età, risulta capace di
discernimento – dev’essere ascoltato in una molteplicità di ipotesi: prima che venga disposto l’affidamento familiare nel caso in cui esso sia accompagnato dal consenso dei genitori (art. 4 co. 1), prima
dell’adozione di eventuali ulteriori provvedimenti
richiesti dal giudice tutelare alla scadenza del periodo di affidamento (art. 4 co. 6), prima che venga
disposto il provvedimento di adozione (art. 7 co. 3),
nel procedimento necessario ad accertare lo stato
di abbandono del minorenne sia prima dell’assunzione dei provvedimenti provvisori (art. 10 co. 3) sia
prima della dichiarazione dello stato di adottabilità
(art. 15 co. 2), prima che sia disposto l’affidamento
preadottivo (art. 22 co. 6), e ancora prima dell’emanazione del decreto di revoca dell’affidamento preadottivo (art. 23 co. 1).
In tutte le ipotesi or ora menzionate risulta assodata l’esistenza di un autentico obbligo del magistrato di far luogo all’audizione dell’ultradodicenne,
pena la nullità dell’eventuale provvedimento adottato senza avervi proceduto, come testimoniano
dalla giurisprudenza di merito9 e, dopo alcune pronunzie di segno opposto10, pure dal giudice nomofilattico con la sentenza n. 6899 del 23 luglio 199711.
La seconda fascia di età rilevante nel procedimento ex l. 184/1983 è quella dei quattordici anni,
L’OPINIONE
superati i quali in due frangenti (inerentemente all’emanazione della sentenza che dispone l’adozione
ex artt. 7 co. 2 e 25 co. 1 ed in sede di affidamento
preadottivo ex art. 22 co. 6) non solo l’ascolto del minore è obbligatorio in quanto può fornire informazioni utili alla decisione, ma all’opinione del soggetto viene riconosciuta pure una forza vincolante.
Rappresentando l’ascolto un fattore costitutivo della
validità degli atti per i quali è richiesto e quindi previsto ad substantiam actus, «un elemento imprescindibile per la realizzazione del nuovo status»12 di figlio adottivo, l’adozione e l’affidamento preadottivo
sono da ritenersi radicalmente nulli qualora il minorenne non abbia manifestato il proprio consenso13.
La ratifica della citata Convenzione dell’Aja del
1993 (l. 476/1998) ha riformato il quadro normativo
interno dell’adozione internazionale, quantomeno
in relazione alla fase in cui il minore straniero ha effettuato il suo ingresso nel territorio italiano: in merito ad essa la l. 476/1998, novellando il testo della l.
184/1983, ha introdotto l’art. 35 co. 4 (poi ulterior-
mente riformato dalla l. 149/2001), il quale dispone
che, prima che il tribunale per i minorenni emetta la
sentenza con cui dispone l’adozione – o viceversa
revochi l’affidamento preadottivo stabilito successivamente all’emissione di un provvedimento
estero di affidamento in vista di adozione – l’adottando ultraquattordicenne debba prestare il proprio
consenso, l’ultradodicenne debba essere obbligatoriamente ascoltato e l’infradodicenne possa essere
sentito « se di età inferiore può essere sentito ove
sia opportuno e ove ciò non alteri il suo equilibrio
psico-emotivo, tenuto conto della valutazione dello
psicologo nominato dal tribunale».
Anche la procedura di adozione in casi particolari
prevede infine la necessità di raccogliere consenso
prestato dall’adottando ultraquattordicenne e l’obbligatorietà di dar voce minore che ha compiuto dodici anni (o anche di età inferiore se capace di discernimento, art. 45 l. 184/1983), così come l’audizione del minore è prevista nei casi di revoca dell’adozione per fatto dell’adottato (art. 51) e dell’adottante (art. 52).
Note
1
Una sorta di minuta e riassuntiva classificazione tassonomica essenziale delle ragioni del non ascolto
è riscontrabile in P. PAZÉ, L’ascolto del minore, pp. 4-5, in www.minoriefamiglia.it, 2004 ed in G. CESARO,
L’ascolto, l’assistenza e la rappresentanza del minore, p. 2, in www.cameraminorilemilano.it, 2004.
2
Per citare alcuni esempi significativi della contraddittorietà della normativa, si mediti sul fatto che
il figlio ultraquattordicenne va obbligatoriamente sentito a norma dell’art. 316 c.c. nel caso di controversie sull’esercizio della potestà, ma il suo apporto non è minimamente menzionato nei ben più
gravi procedimenti di decadenza o limitazione della stessa potestà; e si potrebbe ancora confrontare
lo stesso art. 316 c.c. con la precedente disciplina della separazione e del divorzio, vigente fino al
2006, la quale non prevedeva l’audizione nel primo caso mentre l’ammetteva solo in casi di stretta
necessità. O ancora il fatto che non sia prevista l’audizione dei figli legittimi nel qualora i genitori intendano adottare un bambino, mentre invece il consenso dei figli legittimi e conviventi ultrasedicenni risulta rilevante nella circostanza dell’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima
di una dei genitori.
3
E così il riconoscimento del figlio naturale non può perfezionarsi qualora il figlio che ha compiuto sedici anni non presti il suo assenso (art. 250 co. 2 c.c.). Dispone altresì la medesima norma che, nel caso
in cui il genitore che abbia già riconosciuto il figlio infrasedicenne si opponga al riconoscimento, qualora l’altro genitore presenti ricorso, dev’essere «sentito il minore in contraddittorio con il genitore
che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero» (art. 250 co. 4 c.c.). Il consenso dei figli legittimi e conviventi che abbiano compiuto sedici anni è inoltre determinante per l’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima di uno dei genitori (art. 252 c.c.). Infine, tra i requisiti necessari
alla promozione od al proseguimento dell’azione «per ottenere che sia giudizialmente dichiarata la
paternità o la maternità naturale» figura, a norma dell’art. 273 c.c., il consenso del figlio sedicenne,
così come il consenso del figlio legittimando ultrasedicenne (salvo che sia stato già riconosciuto) risulta condizione determinante per la concessione della legittimazione giudiziale del figlio nato al di
fuori del matrimonio a norma dell’art. 284 c.c. (peraltro il secondo comma della medesima disposizione impone al presidente del tribunale di ascoltare gli altri eventuali figli legittimi o legittimati se
di età superiore ai sedici anni).
4
Sino all’entrata in vigore della l. 54/2006 l’ordinamento italiano presentava un’irrazionale ed ingiustificata contraddizione in tema di audizione del minore, giacché sussisteva una sorta di “doppio binario” tra i procedimenti di separazione, all’interno dei quali l’ascolto non era contemplato, e quelli
novembre-dicembre 2009 | Avvocati di famiglia | 63
L’OPINIONE
di divorzio. La formulazione originaria delle norme in tema di separazione coniugale non conteneva
infatti alcun cenno alla possibilità di ascoltare il figlio della coppia; viceversa l’art. 4 co. 5 della l.
898/1970 sullo scioglimento del matrimonio prevedeva per il Presidente, in sede di comparizione delle
parti, la possibilità di sentire i figli minori nel caso in cui uno dei coniugi non si fosse presentato o la
conciliazione non fosse riuscita.
Allorché nel 1987 la legislazione sul divorzio subì una riforma, la disposizione normativa or ora riportata fu corretta in senso limitativo, nel senso che – a norma dell’art. 4 co. 8 l. 898/1970 così riformato dalla l. 6 marzo 1987, n. 74 – il presidente del collegio avrebbe potuto ascoltare, «qualora lo
[avesse ritenuto] strettamente necessario anche in considerazione della loro età, i figli minori». Regola del tutto analoga era prevista dal successivo art. 6 co. 9 per la fase decisoria.
5
Di questo avviso sono L. FADIGA, Problemi vecchi e nuovi in tema di ascolto del minore, in Minorgiustizia, 2006,
fasc. 3,, pp. 138-139; G. CESARO, L’ascolto del minore nella separazione dei genitori: dalle convenzioni internazionali alla legge sull’affido condiviso, in Legalità e giustizia, 2006 fasc. 1-2, p. 285; M. BRIENZA, L’ascolto del
minore: la prospettiva del giudice, in Legalità e giustizia, 2006 fasc. 1-2, p. 245.
6
Tra gli altri L. SANGIOVANNI, L’ascolto del minore nella prospettiva del giudice della separazione e del divorzio.
Prassi e prospettive, in Legalità e giustizia, 2006 fasc. 1-2, p. 258.
7
In questo senso si è espresso F. TOMMASEO (Le nuove norme sull’affidamento condiviso: profili processuali,
in Famiglia e diritto, 2006 fasc. 4, p. 397): «è da ritenere che l’ascolto del minore sia considerato dal legislatore un momento essenziale per la formazione del convincimento del giudice, la cui pretermissione, se non motivata con espresso riferimento all’interesse del minore, è causa di nullità del procedimento». Non è del medesimo avviso B. DE FILIPPIS (Affidamento condiviso nella separazione e nel divorzio, CEDAM, Padova, 2007; citato in M. BRIENZA, art. cit., p. 245), secondo il quale l’ascolto del minore, pur essendo obbligatorio, se non attuato non comporta tuttavia alcuna nullità.
8
E. CECCARELLI, L’ascolto del minore nei procedimenti di separazione e divorzio, in www.minoriefamiglia.it, 2006,
p. 1; L. FADIGA, art. cit., p. 138, G. CESARO, art. cit., p. 286. Non è invece dello stesso avviso L. SALVANESCHI (I
procedimenti di separazione e divorzio, in Famiglia e diritto, 2006 fasc. 4, pp. 366-367), che considera viceversa l’ascolto come un mezzo di prova.
9
P. PAZÉ, L’ascolto del bambino nell’adozione nazionale, in Minorgiustizia, 2001 fasc. 1, p. 55.
10
E ciò in una triplice direzione: mediante l’incremento delle ipotesi in cui si fa obbligo al magistrato
di ascoltare il minore (art. 4 co. 6 ed art. 22 co. 8); tramite l’abrogazione dell’inciso «salvo che l’audizione non comporti pregiudizio per il minore» che circoscriveva la possibilità di ascoltare l’infradodicenne prima che venisse disposto il provvedimento di adozione; e per via della sostituzione, in
tutte le disposizioni che prescrivevano di consultare l’ultradodicenne e, «se opportuno», anche il minorenne di età inferiore, l’inciso «se opportuno» con la clausola «in considerazione della sua capacità di discernimento» (la ratio della modifica è riscontrabile nella volontà del legislatore di restringere il campo d’incidenza della discrezionalità del magistrato nella scelta se procedere o meno all’ascolto dell’infradodicenne, ancorandola a criteri meno aleatori e più aderenti all’effettiva idoneità
del bambino a sostenere fruttuosamente un’audizione).
11
Corte App. Torino, 3 aprile 1991, in Il Diritto di famiglia e delle persone, 1991, p. 577.
12
Cass. Civ. sez. I sent. 5 dicembre 1991, n. 13109, in Giustizia civile Mass., 1991, p. 1759 e Cass. Civ. sez. I
sent. 5 agosto 1992, n. 9273, in Giustizia civile Mass., 1992, p. 1271. Va tuttavia rilevato che la Cass. Civ.
sez. I sent. 21 maggio 1984, n. 3116, in Giustizia civile Mass., 1984, p. 2452 aveva sanzionato con la nullità del procedimento il mancato ascolto del minore dodicenne.
13
Cass. Civ. sez. I sent. 23 luglio 1997, n. 6899, in Il Diritto di famiglia e delle persone, 1998, pp. 54-61. Nella
motivazione si legge che «L’esigenza di ascoltare il minore – nella duplice previsione, facoltativa per i minori,
obbligatoria per gli ultradodicenni, in tal modo abbassando la soglia d’età prevista, per l’audizione in
tema di potestà genitoriale, dall’art. 316 c.c. […] – costituisce un comune denominatore della legge sull’adozione. […] Questo trend normativo intende attribuire alla personalità ed alla volontà del minore
un ruolo non indifferente in relazione all’adozione di provvedimenti che nell’interesse del minore trovano la loro ragion d’essere.
Sotto tale profilo, i provvedimenti nell’interesse del minore non vanno stabiliti a priori, sulla base di
un criterio generico di adeguatezza, ma vanno rapportati alle reali esigenze delle fattispecie in esame,
che non possono non emergere soprattutto da un colloquio diretto con il soggetto interessato».
14
L. ROSSI CARLEO, L’affidamento e le adozioni, in Trattato di diritto privato, Utet, Torino, 1986, p. 329.
15
G. CESARO, art. cit., p. 279.
64 | Avvocati di famiglia | novembre-dicembre 2009
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