1 Politica fiscale e monetaria dell’UME Prof. Sergio Cesaratto COMPLEMENTI INTRODUTTIVI DI MACRO (fondamentali per il corso e chiesti all’esame) 1. La Bilancia dei pagamenti (fondamentale per capire la crisi europea – cap. 54) 1.1. Le partite correnti In una economia aperta al commercio internazionale parte della produzione nazionale viene acquistata dagli altri paesi (resto del mondo), viene cioè esportata, mentre parte della domanda interna è soddisfatta da beni e servizi acquistati all'estero, beni e servizi che costituiscono le importazioni. L'equazione del reddito nazionale è ora Y = C + I + G + (E - M), dove E ed M indicano, rispettivamente, le esportazioni e le importazioni. In termini della nostra "economia-grano", la quantità Y di grano nazionale prodotta va accresciuta della quantità E di grano nazionale acquistata dagli altri paesi, ma diminuita della quantità di grano acquistata dagli altri paesi, ovvero M. Spieghiamo meglio. Y + M sia l’offerta aggregata (AS), parte proveniente dalla produzione nazionale (Y) e parte dalla produzione estera (M), mentre C + I + G + E sia la domanda aggregata (AD). Ovviamente AS = AD, dunque Y + M = C + I + G + E. Se dall’AS sottraiamo la produzione estera AS = (Y – M) – M = Y, otteniamo evidentemente il prodotto nazionale Y; se dalla AD sottraiamo la AD che si rivolge all’estero AD – M = (C + I + G + E) – M, e otteniamo la AD per i beni nazionali. Abbiamo dunque anche che Y = (C + I + G + E) – M, cioè il prodotto nazionale è pari alla AD che si rivolge ai beni nazionali. Tutti i flussi commerciali e i trasferimenti fra paesi e, vedremo fra poco, i flussi di capitale, sono contabilizzati nella bilancia dei pagamenti. La differenza fra E ed M costituisce il saldo della bilancia commerciale.1 La bilancia commerciale fa parte delle partite correnti (PC). Chiariamo questi termini procedendo per approssimazioni. Va in primo luogo chiarito che non tutte le monete sono sullo stesso piano. Esistono alcune valute che, per la forza economica e politica del paese che le emette, sono comunemente accettate nei pagamenti internazionali. Si tratta principalmente del dollaro americano, ma anche l’euro si sta 1 La bilancia commerciale riguarda esportazioni e importazioni sia di beni che di servizi. Fra questi ultimi va ricordato il turismo: quando degli stranieri visitano il nostro paese, le loro spese costituiscono dal nostro punto di vista una esportazione di servizi turistici, mentre dal punto di vista della loro bilancia commerciale si tratta di una importazione di servizi turistici. 2 affermando come moneta internazionale. I paesi che emettono le valute accettate nei pagamenti internazionali sono in una posizione un po’ speciale in quanto emettono la moneta con cui possono effettuare i propri pagamenti – è come se ciascuno di noi potesse stampare la moneta con cui finanziare i propri acquisti! I paesi che emettono queste monete rendono però un servizio al resto del mondo mettendo a disposizione la liquidità necessaria per gli scambi. Tutti gli altri paesi, pensiamo all’Italia al tempo della lira, per finanziare le importazioni devono procacciarsi le valute internazionali. Un primo canale per procurarsi liquidità internazionale è attraverso le esportazioni. Cosa accade se un paese ha uno squilibrio nella bilancia commerciale, per esempio se esporta più di quanto importa? In quest’ultimo caso il paese accumula riserve di valuta straniera, dette riserve ufficiali (RU), detenute dalla banca centrale. In luogo di tenere queste divise inattive, i paesi in attivo possono tuttavia prestare queste valute ai paesi in deficit commerciale, che ne hanno bisogno per finanziare il loro disavanzo. Infatti se M > E, ed un paese non ha riserve di valute internazionali, deve ricorrere a prestiti.2 L’accensione di un debito estero è dunque un secondo canale attraverso cui un paese può procacciarsi la valuta necessaria a finanziare un disavanzo di bilancia commerciale, o più in generale di partite correnti, come vedremo fra poco. I paesi indebitati pagano degli interessi sul debito estero, interessi percepiti dai paesi creditori. Il pagamento di questi interessi costituisce un “drenaggio del PIL”: cioè parte della produzione nazionale viene ceduta all’estero per il pagamento degli interessi. Anche questo pagamento deve essere effettuato in valuta internazionale. Il saldo dei pagamenti in conto interessi (interessi debitori meno interessi creditori) rientra nel cosiddetto saldo dei redditi netti dall’estero. Non solo il capitale circola nel mondo - viene cioè prestato dai paesi in attivo commerciale ad altri -, ma anche il lavoro. Fino a pochi decenni fa migliaia di italiani emigravano in altri paesi, mentre ora il nostro paese è diventato terra di accoglienza per centinaia di migliaia di lavoratori stranieri. Le rimesse degli immigranti verso le famiglie in patria costituiscono un altro “drenaggio” 2 Quanto andiamo dicendo risulterà molto utile per capire il famoso problema del debito estero dei PVS. Questi sono paesi strutturalmente indebitati: devono importare molto per crescere ed industrializzarsi poiché hanno una struttura industriale ancora non in grado di produrre numerosi prodotti moderni. D’altronde non sempre hanno un volume di esportazioni in grado di generare la valuta necessaria a finanziare le importazioni. Così si ricorre al debito estero che, tuttavia, se i tassi di interesse si fanno troppo onerosi e se l’economia non riesce per tempo a generare un flusso di esportazioni adeguato a pagare gli interessi e restituire il debito, comincia ad accumularsi. Può accadere che ad un certo punto si devono accendere nuovi prestiti solo per far fronte al pagamento degli interessi, oppure che i proventi delle esportazioni vanno a finanziare il pagamento degli interessi e non, come auspicabile, l’importazioni di beni necessari a modernizzare le economie (trappola del debito). Gli anni ottanta e novanta del secolo scorso hanno visto numerose crisi da debito estero, ciò paesi che in difficoltà a restituire le rate del debito in scadenza e a pagare gli interessi, senza possibilità di poter accendere ulteriori prestiti, dovettero dichiarare il default sul debito estero. L’ultimo caso famoso è stato quello dell’Argentina nel 2001. Negli anni più recenti una buona performance delle espertazioni ha consentito a molti paesi emergenti di conseguire avanzi di partite correnti e di accumulare riserve ufficiali, allontanando dunque lo spettro della trappola del debito. 3 sul prodotto nazionale del paese ospitante. Per converso, le rimesse costituiscono un importante ingresso di valuta pregiata per i paesi di provenienza degli immigrati, in genere paesi in via di sviluppo. Anche il saldo delle rimesse (afflusso meno deflusso di rimesse) entra nei saldo dei redditi netti dall’estero. In questi ultimi rientrano anche i trasferimenti unilaterali come gli aiuti ai paesi in via di sviluppo o quelli effettuati nei confronti degli organismi internazionali. Riassumendo, il saldo delle partite correnti include sia del saldo della bilancia commerciale, che il saldo dei trasferimenti di reddito (da lavoro e da capitale) o redditi netti dall’estero, R.3. Possiamo dunque scrivere il saldo delle partite correnti, PC, come: E – M + R. Esempio. E = 1100, M = 1000, saldo rimesse migranti = + 300, debito estero a inizio anno = 10.000, tasso di interesse sul debito i = 0.05 (o 5%). Calcolare il saldo delle partite correnti e il debito estero a fine anno. Saldo Bilancia commerciale: E – M = 1100-1000= +100 (entrata netta di valuta) Saldo dei redditi netti dall’estero: saldo rimesse + saldo c/interessi = +300 (afflusso valuta) – 500 (deflusso di valuta) = -200. Il saldo interessi (qui solo interessi debitori o passivi) è calcolato facilmente come: 0.05*10.000 = 500. Saldo delle PC = -100 Il debito a fine anno risulterà di 10.100, cioè pari al debito pregresso più il nuovo disavanzo di BP. Come vedremo fra poco, infatti, i disavanzi delle PC, se non finanziati con le RU comportano l’accensione di un prestito dall’estero, dunque un nuovo indebitamento. Come si è visto dall’esempio un paese potrebbe avere una bilancia commerciale in attivo (E > M), ma trasferimenti verso l’estero negativi (nel cui caso R è un numero negativo), per cui nel complesso le PC hanno segno negativo.4 Un negativo saldo delle partite correnti è contabilmente pari ad un saldo positivo delle PC del “resto del mondo” (che può essere visto come un secondo paese, come in talune amichevoli di calcio). L’equazione della contabilità nazionale suggerisce ora che: Y = RDL + TA = C + I + G + E – M (RDL – C) + (TA – G) – I = E – M Sp + Sg – I = E – M 3 R include dunque gli interessi sui capitali dati o ricevuti in prestito, e le rimesse degli emigranti. Si osservi come sino a pochi anni fa le rimesse degli emigranti erano favorevoli al nostro paese, terra in cui il lavoro ha costituito la maggiore esportazione, mentre da alcuni anni la bilancia si è fatta sfavorevole a causa del crescente numero di immigrati nel nostro paese. E’ questo il caso di un PVS con attivo di bilancia commerciale, ma con un forte indebitamento estero, per cui l’attivo della bilancia commerciale non è neppure sufficiente a pagare gli interessi sul debito, e nuovi prestiti devono essere accesi. 4 4 Per semplicità supponiamo T = G, dunque Sg = 0. Se M > E, allora I > Sp. Vale a dire, se il paese investe più del risparmio nazionale (I > Sp), vuol dire che sta finanziando parte degli investimenti con risorse estere, infatti la bilancia commerciale è in passivo (M > E). Se invece M < E, ne segue I < Sp. Dunque, se il paese investe meno del risparmio nazionale (I < Sp), vuol dire che sta cedendo risorse all’estero, infatti la bilancia commerciale è in attivo (M > E). Poiché i trasferimenti costituiscono una aggiunta o una sottrazione al PIL, a seconda del segno di R, potremmo definire il Prodotto nazionale lordo (PNL) come: PNL = C + I + G + E – M + R. Questa misurazione del reddito nazionale, che è quella utilizzata dagli USA, include nel reddito nazionale i redditi relativi ai capitali e al lavoro americani che operano all’estero, ed esclude dal prodotto americano i redditi relativi ai capitali e al lavoro stranieri che operano negli USA. In Europa non si impiega, invece, questa definizione. L’equazione di raccordo è ovviamente PNL = PIL + R. Esempio ed esercizio Supponiamo una economia di solo grano.5 Sp = 200 (tonnellate oppure € di grano), Sg = -100€, I = 200. Allora necessariamente M – E = 100 (trascuriamo R). Ciò vuol dire che dei 200 di grano non consumati dalle famiglie (S = 200), 100 sono stati assorbiti dallo Stato. Siccome sono stati seminati, cioè utilizzati come investimento, 200 (I = 200), allora di necessità c’è stata una importazione netta di grano di 100, grano “prestato” dal “resto del mondo”. Per esercizio specificare quale sarà l’avanzo di bilancia commerciale del paese ‘resto del mondo’. 1.2. Movimenti reali e movimenti di capitale Abbiamo visto come ad un attivo delle PC corrisponda un afflusso di valuta straniera, e ad un passivo un deflusso di valuta. Se c'è un afflusso netto di valuta, come si è detto, un paese può o accrescere le riserve ufficiali (RU), cioè il fondo di valute straniere detenuto dalla banca centrale, oppure effettuare dei prestiti all'estero. In ambedue i casi si dice che è migliorata la posizione netta del paese verso l'estero (PNE). Nei fatti accrescere la valuta straniera posseduta vuol dire avere accresciuto la possibilità del paese di acquistare nel futuro prodotto estero. Se invece le PC hanno 5 Il grano è stato spesso usato dagli economisti perché è una merce utilizzabile sia come bene di consumo (pane) che come capitale (semi). Gli economisti si fanno vanto di semplificare i problemi nei loro termini essenziali, e spesso usano gli esempi di ‘solo grano’ quando un solo bene riassume le proprietà essenziali per il ragionamento da condurre. Lo studio attento dell’economia è anche utile per acquistare questo stile di ragionamento. 5 segno negativo, il paese attinge alle proprie RU di valuta per compensare la differenza fra entrate e uscite di valuta, oppure si fa prestare la valuta dall'estero. In termini della nostra economia grano, quando il saldo delle PC è positivo vuol dire che, al netto del grano importato, stiamo cedendo parte del grano prodotto nel paese all'estero. Trascurando R, supponiamo che il paese A abbia Ea > Ma, mentre il paese B (‘resto del mondo’) presenti Mb > Eb, dove Ea = Mb e Ma = Eb. Nei fatti il paese A presterà dei capitali a B finanziando così il suo disavanzo. I flussi relativi all’accensione di nuovi debiti e alla concessione di nuovi crediti entrano nella bilancia dei pagamenti contabilizzati sotto la voce di movimenti di capitale. Il saldo dei movimenti di capitale ci informa se il paese nel corso dell’anno ha acceso nuovi debiti al netto dei crediti concessi, nel qual caso vi è stato un ingresso netto di capitali, ovvero ha concesso nuovi crediti al netto dei debiti accesi, nel quel caso vi è stata una fuoriuscita netta di capitali. Come già detto, considerare l’esistenza di rapporti di debito e credito verso l’estero significa considerare i movimenti di capitale. Convenzionalmente la bilancia dei pagamenti si compone di due parti: “sopra la linea” vi sono le partite correnti (PC) e i movimenti di capitale (MK), e in particolare i loro saldi; “sotto la linea” la variazione delle riserve ufficiali (RU). Cerchiamo di capire. Come abbiamo visto, un disavanzo delle partite correnti può essere finanziato o con l’accensione di un debito netto con l’estero, quindi con un afflusso netto di capitali, o ricorrendo alle RU che in tal modo diminuiscono. Quindi: saldo PC = E – M + R = saldo MK + RU. Per esempio, un disavanzo delle partite correnti del paese di Svilupponia di 1 milione di $ può essere compensato da un ingresso di capitali per 800 mila $, e da una diminuzione delle RU di 200 mila $. Si ha pure che: saldo PC – saldo MK = RU. Nell’esempio: - 1 milione $ + 800 mila $ = -200 mila $ La variazione delle riserve obbligatorie è uguale al saldo della bilancia dei pagamenti (BP). Arricchendo l’esempio, la bilancia dei pagamenti di Svilupponia potrebbe essere la seguente: -------------------------------------------------------------------------------------------------Partite correnti: Esportazioni 2 milioni $ (afflusso valuta) Importazioni 3 milioni $ (deflusso) 6 Saldo rimesse migranti + 1 milione $ (afflusso) Saldo c/interessi – 1 milione $ (deflusso) Saldo PC - 1 milione $ Movimenti di capitale: Uscite di capitali 200 mila $ Entrate di capitali 1 milione $ Saldo MK + 800 mila Saldo “sopra la riga” - 200 mila Variazione RU - 200 mila ----------------------------------------------------------------------------------------------Si dice che la BP è contabilmente sempre in pareggio (saldo complessivo = 0), in quanto il saldo “sopra la riga” viene compensato dalla variazione delle RU: saldo partite correnti + saldo movimenti di capitale = variazioni delle riserve ufficiali. Tuttavia si può anche dire che il vero saldo della BP è quello “sopra la riga”, perché quel saldo ci spiega le ragioni per cui il paese ha perso o guadagnato di RU nel corso dell’anno. Nel fare gli esercizi è importante che ciascuna voce delle partite correnti sia classificata, rispettivamente, o come afflusso di valuta o come deflusso, e il saldo delle PC come saldo di afflussi e deflussi. Per esempio, un saldo positivo (afflusso netto) dà luogo ad una uscita di capitali (si prestano soldi all’estero), o ad un aumento delle RU (o ad una combinazione dei due eventi). Le RU sono una sorta di “tesoro” in valuta pregiata che un paese possiede. Averne troppo è uno spreco: indica che il paese ha per anni accumulato avanzi della BP senza impiegare la valuta accumulata per acquistare beni all’estero utili alla crescita economica o a migliorare la qualità della vita nel paese (è come un avaro che nascondesse sotto il materasso i propri guadagni). Avere poche riserve, per contro, vuole dire non poter difendere il cambio della propria moneta se ne ravvedesse la necessità.6 Come detto sopra, la possibilità di finanziare disavanzi delle PC attraverso afflussi di capitale è una misura che non può durare troppo a lungo perché sui tali afflussi si pagano interessi. Questi a loro volta aggravano il saldo negativo delle PC. Nel lungo periodo, a meno di incorrere in Per esempio, se l’euro si deprezzasse rispetto al dollaro, la BCE potrebbe intervenire vendendo dollari detenuti nelle riserve e acquistando euro. 6 7 una grave crisi finanziaria, il saldo delle PC, e in particolare della bilancia commerciale, deve diventare positivo e sufficiente da permettere una progressiva restituzione del debito estero. 1.3. Lo schema europeo della bilancia dei pagamenti Dal 1999 la BP italiana segue uno schema europeo muta nella forma, ma non nella sostanza economica, quanto sin qui esposto. Essa si compone di quattro sezioni: 1) Saldo del conto corrente 2) Saldo del conto capitale 3) Saldo del conto finanziario (incluse le variazioni delle riserve ufficiali) 4) Errori ed omissioni Per ciò che concerne il conto corrente ed il conto finanziario non vi sono differenze di rilievo con quanto sopra discusso con riguardo al conto corrente ed ai movimenti di capitale (che includono le variazioni delle RU). Il conto capitale contiene due voci: i trasferimenti unilaterali in conto capitale e le cosiddette attività intangibili. I primi includono il trasferimento di beni capitali a seguito del rimpatrio/espatrio definitivo di emigrati; la remissione di debiti privati e pubblici (fra questi ultimi la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo); trasferimenti in conto capitale con gli organismi europei. Le attività intangibili includono il trasferimento di brevetti, licenze, diritti d’autore, know-how ecc. – voci che riguardano il cosiddetto trasferimento di tecnologia fra paesi. In pratica il “conto capitale”, che non va confuso col quello che fu sopra definito saldo movimenti di capitale (che si chiama ora “conto finanziario”), era precedentemente incluso nelle partite correnti. La voce Errori ed omissioni ci consente di completare la discussione della BP. In via di principio in un mondo a due paesi – tanto per semplificare – all’attivo di BP di un paese dovrebbe corrispondere il passivo dell’altro paese. Questo nella realtà non accade mai per errori e imprecisioni di vario genere. Questa voce può assumere valori di assoluto rilievo. 1.4. Il debito dei paesi in via di sviluppo e il FMI Come si è ora osservato, nessun paese potrà alla lunga mantenere un saldo delle partite correnti negativo, accumulando debito. La situazione si dovrà ad un certo punto invertire - a meno di un default sul debito come accaduto per esempio in Argentina nel dicembre 2001. Nel caso dei paesi in via di sviluppo ciò che viene auspicato è che il finanziamento con debito agevoli la crescita economica e lo sviluppo delle esportazioni, sì da realizzare un avanzo commerciale e la restituzione del debito estero. Nel passato molto spesso, all’accumulo del debito è seguita una crisi finanziaria per la difficoltà di ripagarlo, anche perché sul debito si pagano accumulano cospicui interessi che alla lunga sono fonte di nuovo debito (cioè ci si indebita per pagare il debito pregresso, la cosiddetta “trappola del debito”). In genere il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un organismo finanziato dai paesi più industrializzati, è intervenuto ‘in soccorso di questo paesi, aiutandoli a pagare le rate di 8 debito e interessi in scadenza - dunque in verità ‘salvando’ i creditori-, e imponendo loro politiche ‘di aggiustamento’ – la famosa “conditionality” - tali da realizzare un avanzo di bilancia commerciale. Tali politiche sono in genere consistite di una riduzione drastica delle importazioni effettuata indebolendo il tenore di vita e le possibilità di crescita di tali paesi. Per questa ragione le politiche di aggiustamento del FMI sono state oggetto di numerose critiche. Una volta ottenuto un Se positivo, questi paesi erano in grado pagare gli interessi e restituire il debito privato, ed anche quello all’FMI. Alle politiche di aggiustamento si accompagnavano in genere forme di “rinegoziazione” del debito con forme, ad esempio, di dilazione nei pagamenti. Dopo la crisi finanziaria del 1997-98 molti paesi in via di sviluppo hanno cercato di realizzare surplus di bilancia dei pagamenti. Questo è stato reso possibile dalla crescita dell’economia mondiale, in particolare dopo il 2001, trainata dalla domanda americana. Si è così sviluppato il paradosso di flussi di capitale dai paesi meno sviluppati verso l’economia americana (questa riflette una situazione pre-crisi. Gli studenti dovranno tuttavia osservare le assonanze fra questi eventi e quelli occorsi in Europa in cui esiti vediamo nella crisi in corso). 1.5. Tassi di cambi nominali e reali Il tasso di cambio nominale (e) è qui definito come la quantità di moneta estera per una unità di moneta nazionale. Considerando l’Euro come moneta nazionale e il dollaro come moneta estera, e è l’ammontare di $ in cambio di 1€. Apprezzamenti o deprezzamenti del tasso di cambio nominale influenzano la competitività delle produzioni nazionali. Ad esempio, se il $ si apprezza nei confronti dell’€ - per esempio il cambio passasse da 1€ = 1,3$ a 1€ = 1,2$ - come sappiamo diventerebbe più conveniente, ceteris paribus, per i turisti americani venire il Europa: servono infatti meno $ per acquistare 1€. E’ dunque aumentata la competitività della nostra industria turistica – aumentano le esportazioni di turismo verso gli USA. Al contempo al nuovo tasso di cambio sarà meno conveniente per i turisti europei andare negli USA, dunque acquisteremo meno servizi turistici americani che costituiscono per noi una importazione. La competitività delle due industrie turistiche – ed in generale di tutti i beni e servizi oggetto di commercio internazionale - dipenderà, tuttavia, anche dal confronto fra prezzi europei e prezzi americani. Introduciamo a tal proposito il tasso di cambio reale. Questo è definito invece come: er eP Pf , dove e è il tasso di cambio nominale, Pf costituisce l’indice dei prezzi esteri (del paese “resto del mondo”), mentre P è l’indice dei prezzi interni. Questi indici di prezzo possono essere intesi come il prezzo di una unità composita di PIL nazionale, che nel caso di due economie sviluppate come USA e Europa sono di composizione molto simile. Se il tasso di cambio nominale fra $ ed € fosse di 1€ = 1,1$, il livello dei prezzi USA di 110, e quello europeo di 100, il tasso di 9 cambio reale sarebbe 1. Se il livello dei prezzi europeo aumenta a 110, er crescerebbe a 1,1. Poiché l’aumento dei prezzi europei significa una minore competitività delle merci europee rispetto a quelle americane, un aumento del tasso di cambio reale implica una perdita di competitività.7 Un deprezzamento dell’€ rispetto al $ del 10%, cioè pari all’aumento del livello dei prezzi europeo, potrebbe ripristinare la competitività perduta. In sintesi, un deprezzamento della nostra moneta rende questa “meno cara” per gli stranieri e ciò può compensare il fatto che le nostre merci siano divenute più care a causa di una inflazione più elevata. In questo caso, 1$ al tasso di cambio nominale di 1$ = 1,1€ vale di più in USA che in Europa. In effetti il tasso di cambio nominale non sta riflettendo il mutamento dei poteri d’acquisto delle monete ed a questo corrisponde il fatto che per un cittadino americano risulta più conveniente, a quel tasso di cambio nominale, spendere un $ negli USA che in merci europee. 7 10 BOX Relazioni di contabilità nazionale in economia chiusa e aperta e crisi europea. Riporto qui alcuni appunti che inviai a un tesista utili per porre in relazione le relazioni di contabilità nazionale in economia chiusa e aperta sopra studiate con crisi europea. (si veda anche il BOX analogo del cap. 10) Abbiamo visto la relazione: S-I=(G-T)+(X-M) ovvero (S - I) + (G-T) = saldo commerciale. . La si può perfezionare tenendo conto dei redditi netti dall’estero (RNE) che si aggiungono (se positivi) o sottraggono (se negativi) al PIL (ottenendo il reddito nazionale lordo) RNL=PIL+RNE. Allora: RNL = C + I + G + (X-M)+RNE RNL disp = RNL - T ovvero RNL = RNLdisp + T da cui RNLdisp + T = C + I+G+(X-M)+RNE da cui RNLdisp - C - I = (G-T)+ [(X-M)+RNE] = (G-T) + saldo partite correnti finalmente: (S - I) + (G-T) = saldo partite correnti. Cosa ci racconta. In un paese ci sono solo due individui: il dott. P(ubblico) e il sig. M(ercato). Se P ha un debito con M, ovvio che M ha un credito con P e viceversa. Se al mondo ci sono solo loro due, non possono essere contemporanemente in debito o in credito (possono ovviamente esser ambedue in pareggio). In termini delle ns equazione, in economia chiusa il saldo partite correnti neppure esiste, per cui S-I + G-T = 0. Se S > I e G > T il sig. M sta prestando soldi al dott. P. In economia aperta le cose cambiano. Entra Herr E(estero). Allora le combinazioni sono tante, per esempio: - In Italia dott. P tende a indebitarsi (G>T), però il sig.M no (S>I). Tuttavia i crediti di M a P non coprono i debiti di P. Allora Herr E presta i soldi a P. - paesi PIGS:8 P ed M ambedue fortemente indebitati, Herr E finanzia ambedue. Ciò che ho scritto sono relazioni di flusso (S, I, G, T X, M, RNE). Flussi e stock sono legati. Ad occhio la relazione di stock è: - in mercato chiuso: POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA dott.P = POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA sig. M. (se uno ha stock di debiti, l'altro ha identici stock di crediti) 8 Chi sono i PIGS? Se non lo sapete vuol dire che vivete fuori del mondo. E i GIPS? (hint: sono gli stessi paesi). 11 - in economia aperta POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA dott.P + POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA sig. M. = Posizione netta sull’estero (PNE). Se P ha uno stock di debito di 100, e M uno stock di crediti di 50, il paese ha uno stock di debiti di 50. 2. Distribuzione “armonica” del reddito, determinazione di occupazione e reddito nazionale, ruolo della politica monetaria nell’economia marginalista 2.1. Origini della teoria marginalista o neoclassica9 Negli ultimi trent'anni del XIX° secolo si afferma la teoria economica "marginalista" radicalmente diversa da quella antecedente Classica di Smith e Ricardo. Elemento centrale di tale teoria era l’idea che non vi fosse una distribuzione del reddito “naturale” fra le classi sociali – ovvero oggettivamente dettata da qualche legge iscritta nelle cose -, ma che essa dipendesse dai rapporti di forza fra le stesse classi. Questa impostazione era già stata corrotta da autori di poco successivi a David Ricardo. Altri autori, come i socialisti ricardiani e Marx, avevano invece tratto dall'impostazione teorica classica implicazioni piuttosto radicali circa la natura della distribuzione del reddito nella società capitalista, implicazioni tanto più pericolose per lo status quo in quanto fondate sulle analisi di colui che era considerato il più grande degli economisti borghesi, David Ricardo. Quanto la teoria marginalista sia stata una risposta a tali implicazioni è un problema aperto. La questione più scottante era, evidentemente, quella dell'origine dei profitti, "residuale" secondo la teoria classica (ciò che rimaneva del prodotto sociale una volta detratti i salari per i lavoratori); legata al "sacrificio" che comporta l'accumulazione di capitale (sacrificio in termini di rinuncia a consumare il prodotto allo scopo di investirlo) secondo la nuova impostazione. Il termine oggi in voga per definire il marginalismo è di teoria "neo-classica" in seguito al tentativo, soprattutto dell'economista inglese Alfred Marshall (1842-1924), fra i fondatori del marginalismo, di rivendicare una continuità fra la vecchia impostazione (Classica) e la nuova. Chi ritenga però che tale continuità abbia scarso fondamento, farà bene ad usare il termine "teoria neoclassica" con molta consapevolezza. In voga per definire la teoria marginalista, soprattutto nei moderni manuali di macroeconomia, è anche il termine di teoria “classica” – termine che invero introdusse lo stesso Keynes per definire la teoria tradizionale -, quasi ad abolire del tutto la distinzione fra gli economisti classici (Smith e Ricardo) ed i marginalisti. Uno studente universitario saprà ben distinguere a seconda del contesto i casi in cui “classici” si riferisce agli economisti classici 9 v. P.Garegnani e F.Petri, Marxismo e teoria economica oggi, in AA.VV. Storia del Marxismo, Einaudi, sez. 1 (parti a, c) e M.Pivetti, Economia Politica, Laterza, cap.1. 12 propriamente detti da quelli in cui si riferisce ai fondatori del marginalismo. Ovviamente in questo manuale il termine “classici” verrà impiegato nella prima, più corretta, accezione. Nei manuali standard di Istituzioni di economia e di microeconomia si dà grande rilievo alla teoria neoclassica dei prezzi. E’ francamente una delle parti meno eccitanti dell’economia politica,10 e non aggiunge molto all’analisi macroeconomica neoclassica. Per cui ci occuperemo prima di quest’ultima, e poi per dovere di completezza nel cap.5 della microeconomia neoclassica. Curiosamente aiutiamo in ciò l’economia neoclassica: essa è infatti rigorosamente valida solo in un mondo a un solo bene. Per esulare dal problema dei prezzi relativi faremo proprio questa assunzione. L’obiettivo che ci riproponiamo è dunque di studiare la determinazione della distribuzione e del reddito nazionale (o prodotto nazionale) secondo gli economisti marginalisti. Al cuore di tale determinazione vi sono, di nuovo, curve di domanda e offerta, non dei beni però, ma dei ‘fattori produttivi (capitale e lavoro per semplicità). L’offerta dei fattori (come il lavoro, il capitale [risparmio], le terre) proviene dalle famiglie. La domanda di fattori proviene dalle imprese sulla base della loro convenienza ad utilizzarne di più o di meno. Dall’incrocio di domanda e offerta otteniamo il prezzo di ciascun fattore (in particolare: salario per il lavoro, saggio di profitto per il capitale) e la quantità di esso utilizzata in produzione. Conoscendo la quantità di fattori utilizzata in produzione veniamo anche a conoscere la quantità di prodotto nazionale. Come si vede per gli economisti marginalisti, la determinazione di reddito e distribuzione è simultanea, per cui l’una influenza l’altra - per esempio se i salari non sono quelli di equilibrio, ciò influenza direttamente i livelli di impiego del lavoro e della produzione. Nell’approccio Classico, invece, la determinazione della distribuzione non è automaticamente connessa a quella del reddito nazionale (per cui, per esempio, i salari reali possono variare senza che ciò abbia effetti automatici sulla produzione). Supporremo dunque una economia in cui è prodotto un solo bene, per esempio grano. Questo semplifica molto l'esposizione e ci permette di concentrarci sul problema della teoria marginalista della distribuzione e del livello del reddito esulando la teoria marginalista dei prezzi di cui è necessario occuparsi per misurare il reddito in un mondo a più beni.11 Della teoria dei prezzi ci occuperemo nel cap.5. Il resto lo è, parola di Oscar Wilde: “Miss Prims: ...Cecily, you will read your Political Economy in my absence. The chapter on the Fall of the Rupee you may omit. It is somewhat too sensational. Even these metallic problems have their melodramatic side.” Da The Importance of Being Earnest. 10 11 A rigore non si tratta neppure di una mera semplificazione in quanto più recenti sviluppi teorici hanno mostrato che le conclusioni della teoria marginalista sono validi esclusivamente in un mondo a un solo bene. Esamineremo questo punto più avanti. 13 2.1.1. Fattori e funzione di produzione I requisiti della produzione, cioè le risorse che con le tecnologie socialmente disponibili sono necessarie per ottenere il prodotto sociale, sono dette dai teorici marginalisti "fattori della produzione". La funzione di produzione è un concetto centrale della teoria neoclassica. Indicando con Y la quantità di prodotto (grano nel nostro caso semplificato), con K ed L i fattori della produzione, rispettivamente "capitale" (misurato qui come quantità di grano) e lavoro (misurato in unità lavorative), l'espressione Y = F(K, L) indica che la quantità di prodotto ottenibile è funzione della quantità di fattori impiegata. Se le quantità disponibili di K ed L sono date, allora è la tecnologica, rappresentata dal termine "F", a dettare la quantità di prodotto ottenibile. D'altra parte, dato un certo obiettivo di produzione, Y=Y*, l'ipotesi più generale che si possa fare è che questo sia raggiungibile attraverso diverse combinazioni di K ed L (per esempio con "tanto" K e "poco" L, o viceversa). In questa teoria si assume che i rendimenti di scala siano costanti. Rendimenti di scala costanti significa che se accresciamo di una medesima proporzione (per esempio raddoppiamo) la quantità dei fattori, il prodotto aumenterà della medesima proporzione (raddoppia). Assumere rendimenti crescenti (decrescenti) implicherebbe invece che la quantità di prodotto potrebbe accrescersi in maniera più (meno) che proporzionale. Si assumono rendimenti di scala costanti per ragioni complicate. Una ragione intuitiva è che vogliamo studiare come varia la produzione al variare della proporzione relativa di ciascuno dei fattori utilizzati in produzione tenuta costante la quantità impiegata degli altri (per esempio aumentando la quantità di lavoro data la quantità di capitale). Ma quando accresciamo la quantità anche di un solo fattore varia la scala della produzione. Con rendimenti di scala crescenti parte dell’aumento della produzione è attribuibile all’”effetto di scala” e non al mero aumento del fattore considerato.12 22.1.2. Offerta di fattori Supporremo che nella nostra economia l'offerta di fattori, lavoro e "capitale-grano" sia data, e per esprimerlo scriveremo K = K* e L = L*. Rammentando che il saggio di profitto, r, è la 12 La funzione di produzione in forma analitica più nota ed usata dagli economisti neoclassici è quella CobbDouglas, che qui esprimiamo nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti per cui la somma degli esponenti di K ed L deve essere 1: Y AK L1 . In questa funzione A rappresenta il livello tecnologico. rappresenta la quota del prodotto che va a redditi da capitale; 1 è invece la quota che va a redditi da lavoro. Poiché (1 ) 1 tutto il prodotto si esaurisce in profitto e salari. 14 remunerazione del fattore "capitale"13, e w quella del fattore lavoro, la nostra supposizione può essere espressa dicendo che l'offerta dei due fattori è rigida, cioè non varia al variare della loro remunerazione - come sarebbe se, per esempio, quando aumenta il salario si offrisse più lavoro o se all'aumentare del saggio di profitto aumentasse l'offerta di capitale-grano.14 Graficamente questo è illustrato dalla figura 1: 13 Useremo in maniera intercambiabile la dizione tasso di profitto o tasso di interesse rammentando come dietro un capitale "reale" vi sia sempre un capitale finanziario. Le quantità offerte di fattori, e la relativa remunerazione, sono relative all’unità di tempo prescelta. Così L può misurare i mesi-lavoro offerti al variare del salario mensile w; K potrebbe misurare la quantità di risparmio offerta annualmente al variare del tasso di interesse annuo i. 14 15 In effetti curve di offerta dei fattori “rigide” sono più plausibili di quelle crescenti, che pur utilizzeremo. L’offerta di lavoro dipende infatti, almeno sopra un dato livello di salario considerato il minimo “dignitoso”, dalla necessità di lavorare, e non tanto dalla prospettiva di salari sempre più elevati. Così l’offerta di capitale (risparmio) dipende soprattutto dal reddito della famiglia che risparmierà, se potrà, per motivi precauzionali, vecchiaia e così via, e non tanto dal tasso di interesse percepito. E' molto importante osservare che in questa economia semplificata l'offerta di "capitalegrano" coincide con il risparmio offerto nell'unità di tempo considerata. Si rammenti che i risparmi sono la parte del prodotto sociale non consumata: S = Y - C. Nella nostra economia semplificata di solo grano S = K*. Ci si può raffigurare questa economia come una in cui a fine anno la parte del prodotto sociale Y non consumata come granofarina viene "risparmiata" e offerta come "capitale-sementi" per la produzione dell'anno successivo. Lo studente continui ad identificare l’offerta di capitale con l’offerta di risparmio anche fuori la metafora dell’economia-grano.15 Nei riguardi della curva di offerta di lavoro, l’abbiamo espressa come funzione di w, in simboli L0 L0 (w) , cioè del salario nominale (o monetario) in quanto c’è un unico bene, il grano, il cui prezzo è posto uguale ad 1 (per cui il salario reale è w/p = w/1 = w). In generale tuttavia, con più beni, si deve scrivere L0 L0 (w / p) , dove p è un indice dei prezzi, in quanto i lavoratori quando offrono lavoro guardano al salario reale e non a quello nominale. Se si suppone che L0 sia una funzione crescente di w/p, la curva di offerta di lavoro avrà la forma della figura 2. Anche laddove si considerassero, fuori dalla metafora dell’economia-grano, dei capitali fissi (vanghe, trattori ecc.), tali capitali avrebbero comunque la natura, nella visione neoclassica, di risparmi accumulati. 15 16 Spesso anche la curva di offerta del capitale (risparmio) viene tracciata crescente rispetto al tasso di interesse (lo faremo anche noi). 2.2. La domanda di fattori produttivi da parte della singola impresa: il prodotto marginale 4.2.1. Il prodotto marginale Dal concetto di funzione di produzione discende quello di prodotto marginale. Questo è un concetto importantissimo per i neoclassici. Matematicamente esso è la derivata parziale della funzione di produzione rispetto a un fattore produttivo. Vediamo economicamente. Supponiamo che in una impresa sia data la quantità di capitale - nella nostra economia il capitale consiste di solo grano da usarsi come semente - e che l'imprenditore debba decidere quanto lavoro impiegare. La parte superiore della figura 3 mostra come varia la quantità totale di prodotto che si ottiene al variare della quantità applicata del L (fattore variabile) data una certa quantità del K (fattore fisso). Si può osservare come gli incrementi di prodotto totale ottenuti da successivi incrementi unitari del fattore variabile siano progressivamente più piccoli. Per esempio (v. tabella 1), dato un capitale-grano complessivo di 20 quintali, all’inizio l’impiego di un lavoratore fa accrescere il prodotto totale di 10 quintali di grano, un secondo lavoratore di 11 q, e via dicendo, sino al punto A del grafico. Questo è giustificato sostenendo che l’aumento progressivo dei lavoratori consente una migliore organizzazione del lavoro, suddivisione delle mansioni ecc. che migliora i risultati della semina del dato capitale-grano - si noti che qualitativamente i lavoratori sono per ipotesi tutti egualmente capaci. Proseguendo nell’impiego del lavoro, l’incremento di produzione attribuibile a ciascun lavoratore aggiuntivo è tuttavia progressivamente più piccolo. I 17 vantaggi della migliore organizzazione cominciano infatti a scemare, anzi forse troppi lavoratori cominciano ad affollarsi e il prodotto marginale potrebbe addirittura diventare negativo. Nell’esempio il sesto lavoratore aggiunge 15 quintali alla produzione, quello successivo aggiunge solo 14, uno ulteriore solo 13 e così via. Questi incrementi sono i prodotti marginali. Essi vengono indicati in ordinata nella parte inferiore della figura 3, ottenendo la funzione del prodotto marginale.16 Economicamente l’andamento del prodotto marginale, prima crescente e poi decrescente, si può dunque giustificare in quanto dosi successive di lavoro sono applicate a una quantità costante di capitale o di terra (che costituiscono i “fattori fissi”). Per esempio due lavoratori seminano il grano disponibile meglio di uno, tre ancor meglio ecc, ma gli incrementi di prodotto ottenuti da ciascun lavoratore aggiuntivo sono prima crescenti, poi quando i lavoratori cominciamo a diventare molto numerosi, magari si intralciano a vicenda, coordinarli diventa più difficile ecc, gli incrementi cominciano a divenire sempre più piccoli. Come si vede, il massimo del prodotto marginale è in corrispondenza al punto di cambiamento di concavità della funzione del prodotto totale (matematicamente un punto di flesso). Nell'ipotesi, dunque, di costanza della quantità di capitale (e di altri eventuali fattori fissi) è plausibile ritenere che, almeno da un certo punto in poi, ogni lavoratore aggiuntivo aggiunga al prodotto meno del lavoratore precedente. L'incremento di output ottenuto da un incremento del fattore lavoro dato il fattore costante è detto prodotto marginale del lavoro (Pml). Matematicamente il Pml è la derivata parziale Il prodotto marginale del lavoro è l'incremento di prodotto (per unità di tempo) ottenuto incrementando la quantità di lavoro di una unità, data la quantità di capitale (e di altri eventuali fattori fissi). Nella figura 3 è anche mostrata la funzione del prodotto medio (cioè del prodotto per lavoratore). Essa cresce nel primo tratto, in quanto riflette il fatto che ciascun nuovo lavoratore aggiunge al prodotto totale più dell’unità precedente, dunque il prodotto medio cresce. Nell’esempio, se il prodotto marginale del primo lavoratore era 10 q e del secondo 11q, il prodotto medio è chiaramente 10,5q (v. la tabella 1). Graficamente la funzione del prodotto medio ha il suo massimo dove essa incrocia la curva del prodotto marginale, a destra del massimo del prodotto marginale. Intuitivamente: il prodotto medio continua a crescere anche quando il prodotto marginale comincia a diminuire perché in quella ‘zona’ i prodotti marginali continuano ad essere relativamente elevati rispetto a quelli relativi alle dosi iniziali e finali di lavoro, e la media continua 16 La studentessa provi a riportare i valori della tabella su un foglio quadrettato ottenendo le curve precise. 18 a salire, almeno per un po’. Nell’esempio il PM è massimo in corrispondenza di 8 lavoratori con un valore di 12,8 approssimativamente uguale al Pm che è 13. Tabella 1 - Prodotto marginale e medio (capitale dato 20 q di sementi) Quantità lavoro 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 Prodotto marginale 10 11 12 13 14 15 14 13 12 11 10 9 8 7 Prodotto Prodotto totale Medio 10 21 33 46 60 75 89 102 114 125 135 144 152 159 10,0 10,5 11,0 11,5 12,0 12,5 12,7 12,8 12,7 12,5 12,3 12 11,7 11,4 rapporto K/L (tecnica) 20,0 10,0 6,7 5,0 4,0 3,3 2,9 2,5 2,2 2,0 1,8 1,7 1,5 1,4 In corrispondenza del massimo del prodotto medio vi sarà un certo rapporto capitale/lavoratore. Nell’esempio abbiamo supposto che il capitale dato (il fattore fisso) sia 20 q di grano-sementi, e che in corrispondenza del massimo del prodotto medio l’impresa stia impiegando 8 lavoratori. Ciascuno utilizzerà 2,5 q di sementi, il capitale per lavoratore è cioè 2,5. Vi è allora da ritenere che l’impresa, i cui ingegneri sanno che il massimo prodotto medio – dunque la tecnica più efficiente - si ottiene dotando ciascun lavoratore di 2,5 q di sementi, sin dall’inizio adotti questa tecnica di produzione. Ecco dunque la linea orizzontale in neretto, la quale indica che sin dall’inizio l’impresa impiega il rapporto K/L = 2,5 che massimizza il prodotto medio. Nel tracciare la curva del prodotto marginale, avevamo invece supposto che il primo lavoratore utilizzasse da solo tutti e 20 i q. di sementi, poi quando i lavoratori diventavano due questi ne impiegassero 10 q cadauno ecc., un modo di procedere chiaramente non razionale: infatti il loro prodotto medio risulterebbe minore di quello ottenibile se l’impresa assegnasse la dotazione individuale ottimale di 2,5 q. cadauno fin dall’inizio della produzione. Si conclude allora, a differenza della totalità dei libri di testo,17 che la curva del prodotto marginale che rileva per ricavare la curva di domanda di lavoro consiste dei tratti in grassetto della figura: il tratto orizzontale del prodotto medio più una parte Tranne Pivetti, op.cit. L’analisi di Pivetti si rifà ad un punto di un famoso contributo di Piero Sraffa del 1925 pubblicato in italiano, e poi riassunto in inglese su invito di Keynes e pubblicato sull’Economic Journal del 1926. 17 19 decrescente della funzione originaria del prodotto marginale. A ben vedere, infatti, se l’impresa sin dall’inizio adotta il rapporto K/L che massimizza il prodotto medio, sino al punto B prodotto medio e marginale coincidono. Nell’esempio, sino al punto B (8 lavoratori) ciascun lavoratore aggiunge alla produzione la medesima quantità del compagno che lo ha preceduto. 20 La curva del prodotto marginale può dunque essere tracciata come nella figura 4, in corrispondenza delle parti in neretto della figura precedente: 21 Ora possiamo determinare la quantità di lavoro domandata dall'impresa. Questa conosce, per esempio dai contratti di lavoro o dalle consuetudini prevalenti in quel periodo, il salario per unità di lavoro (e per unità di tempo come giorno o mese e misurato in grano) vigente nel mercato del lavoro. L'impresa avrà convenienza a impiegare lavoro fintanto che un lavoratore aggiunge al prodotto, cioè ha un prodotto marginale, almeno pari al suo costo, cioè al salario. Dunque l'impresa domanderà una quantità di lavoro in corrispondenza all'eguaglianza Pml = w. Nel nostro esempio se il salario fosse 10 l’impresa affitterebbe 11 lavoratori. L’undicesimo lavoratore rende infatti all’impresa precisamente quanto è pagato (Pm = 11, w = 11). Se il salario scendesse a 9, l’impresa domanderebbe 12 lavoratori, e così via. Il tratto decrescente della curva del prodotto marginale è dunque la curva di domanda di lavoro dell’impresa (figura 5). Si osservi che ciascuna unità di lavoro precedente a L* rende più di quanto è pagata. L'area wAB consiste dunque dei profitti d'impresa. L'area OwBL* è il monte salari, ovvero W=wL. 22 Vediamo un altro esempio (figura 6). Supponiamo che l’impresa che abbia un certo ammontare di terra (per esempio 100 ettari), che consideriamo come il fattore tenuto fisso. Il rapporto terra/lavoro che massimizza il prodotto medio di 10 ettari per lavoratore, cioè 10T/1L. L’impresa adotta questo rapporto dall’inizio e ottiene un prodotto pro-capite di 10 q. L’impresa comincia ad impiegare prima un lavoratore, poi due e così via, tutti della medesima efficienza. Sia il salario per giornata lavorativa pari a 8 q di grano. Supponiamo che l’inserimento di un lavoratore consenta alla produzione di balzare da zero (quando non si utilizza lavoro) a 10 q al giorno. Impiegando anche un secondo lavoratore la produzione aumenta. Il secondo lavoratore aggiunge 10 q giornalieri al prodotto (ora il prodotto totale è di 20 q), e via dicendo. E’ evidente che quando l’impresa impiegherà l’11mo lavoratore, essa dovrà abbassare il rapporto T/L ottimale (ha infatti solo 100 ettari di T). Per esempio, l’11mo lavoratore avrà un prodotto marginale di 9 q. Quanti lavoratori impiegherà l’impresa? Supponiamo che il 14mo lavoratore aggiunga al prodotto 8,1 q, mentre il 15mo aggiunge solo 7,9 q. L’impresa, poiché paga ciascun lavoratore 8 q, avrà convenienza ad impiegare 14 lavoratori, in quanto il 12mo gli costerebbe al giorno più di quanto gli rende. La stessa analisi potrà essere ripetuta considerando il lavoro in quantità fissa, per esempio supponendo che l’impresa abbia a disposizione una squadra di 20 lavoratori, e studiando quanta terra le converrà impiegare. Nei fatti, quando tracciamo la curva di domanda di lavoro consideriamo solo il tratto decrescente della curva del prodotto marginale. Se variasse il salario di mercato, varierebbe la domanda di lavoro dell'impresa. Come si vede, sulla scorta del concetto di prodotto marginale del 23 lavoro gli economisti marginalisti ritengono di poter affermare che fra livello del salario reale e domanda di lavoro, e dunque occupazione, vi sia una relazione inversa. 2.2.2. Posizione e inclinazione della curva Cosa accadrebbe alla curva di domanda di lavoro se la quantità di fattore fisso disponibile aumentasse? Chiaramente il tratto orizzontale si prolungherebbe. Per esempio, se la quantità di terra diventasse 120 ettari il tratto orizzontale si prolungherebbe sino a L = 12, in quanto 12 lavoratori sono ora impiegabili col rapporto T/L che massimizza il prodotto medio. Inoltre, il tratto decrescente scenderebbe più dolcemente. Quando viene impiegato il 13° lavoratore, infatti, il rapporto T/L (=120/13) si allontana più lentamente dal rapporto ottimale (=120/12) di quanto accadeva quando T = 100. In quel caso quando veniva impiegato l’11° lavoratore T/L = 100/11<120/13. Il prodotto marginale, di conseguenza, decresce più lentamente. Quindi la posizione nello spazio (più a destra o più a sinistra) e la pendenza della curva di domanda di lavoro dipendono dalla dotazione degli altri fattori produttivi. Cosa accadrebbe se vi fosse progresso tecnico? Questo implicherebbe che i prodotti medi e marginali sarebbero tutti più elevati. Dunque la funzione del prodotto marginale sarebbe più elevata nel tratto orizzontale, e decrescerebbe più lentamente (il tratto decrescente sarebbe meno ripido). A parità di salario l’impresa impiegherà più del fattore lavoro. Inoltre, anticipando alcuni elementi che spiegheremo fra poco, data l’offerta di lavoro, il fatto che le curve di domanda di lavoro delle imprese, e dunque quella collettiva, si spostino a destra, implica che il salario di equilibrio sarà più elevato (dunque, in questa teoria, il salario beneficerà del progresso tecnico). Esercizi 1. Il prodotto marginale del lavoro diventa a un certo punto decrescente: perché? (a) si impiegano lavoratori via via meno capaci; (b) si utilizzano quantità del fattore tenuto fisso di qualità decrescente; (c) vi sono rendimenti di scala decrescenti; (d) vi sono fattori considerati dati in quantità fissa; (e) i lavoratori chiedono salari più elevati. (una sola risposta esatta) 2. Nell’esempio con la terra, se il salario scendesse a 7,8 q., quanti lavoratori impiegherebbe l’impresa? E se il salario salisse a 10,1 q.? Una analisi del tutto simile a quella che ci ha condotto alla curva di domanda di lavoro può essere svolta nei confronti del capitale. Si tratta in questo caso di tracciare la curva del prodotto marginale del capitale considerando come data la quantità di lavoro e ottenendo una funzione come quella raffigurata nella figura 7. 24 Il prodotto marginale del capitale è l'incremento netto di prodotto (netto dal capitale-grano impiegato) ottenuto dall'impiego di una unità aggiuntiva di capitale, data la quantità disponibile di lavoro.18 In maniera simile al lavoro, per conoscere la quantità di capitale effettivamente domandata (e dunque impiegata) dall’impresa basta tracciare una retta orizzontale che rappresenta il tasso di interesse i a cui le istituzioni finanziarie (banche, ecc.) concedono prestiti alle imprese (in questa visione le banche hanno la funzione prestare alle imprese i risparmi delle famiglie). Dove Pmk = i, si determina la quantità di capitale K* richiesta dall’impresa. Nel grafico del Pml, quest’ultima grandezza è una quantità fisica (grano) da confrontarsi con un’altra unità fisica (il salario in grano). Nel grafico del Pmk, invece, apparentemente c’è un problema. Il Pm del capitale è una quantità fisica (l’incremento di grano prodotto ottenuto impiegando una unità aggiuntiva di capitale grano, data la quantità impiegata di lavoro). Tuttavia la remunerazione del capitale è il tasso di profitto (o tasso di interesse) che è un valore percentuale. Si deve ragionare così: si supponga, per esempio, un incremento di 1 tonn. della quantità di capitale grano impiegata. Sia 2,1 tonn. la produzione ottenuta in seguito all’impiego di capitale aggiuntivo. Il prodotto netto (al netto cioè del capitale-grano impiegato) sarà: 1,1t. – 1t. = 1,1t. Il Pmk netto è dunque 1,1t. In termini di tasso di profitto (che è il rapporto fra profitti assoluti, che qui coincidono con il prodotto netto, e il capitale impiegato per ottenerli), il Pmk sarà ovviamente: 1,1t/1t = 110%. Quindi, quando sulle ordinate segniamo il prodotto marginale netto, è immediato tradurre questa grandezza in tasso di profitto. Riassumendo: il Pmk è il prodotto netto ottenuto (nell’unità di tempo prescelta) da una unità aggiuntiva di K rapportata a tale unità, tenuta costante la quantità impiegata degli altri fattori utilizzati. 18 25 Anche la posizione nello spazio e la pendenza della curva di domanda di capitale dipendono dalla dotazione degli altri fattori. In particolare, se la popolazione lavoratrice aumenta, il prodotto marginale del capitale decresce più lentamente. Se vi fosse invece progresso tecnico, come nel caso già visto del lavoro, la curva del Pmk si sposterebbe verso destra scendendo più dolcemente. Anticipando alcuni elementi che spiegheremo fra poco, data l’offerta di capitale, il fatto che le curve di domanda di capitale delle imprese, e dunque quella collettiva, si spostino a destra, implica che il tasso di interesse di equilibrio sarà più elevato. La funzione di offerta di capitale (o di risparmio)19 è solitamente crescente all’aumentare del saggio di interesse: l’idea è che un più elevato tasso di interesse stimoli gli individui a ridurre i consumi presenti (dunque risparmiare di più) in vista di consumi futuri relativamente maggiori. In verità sappiamo dall’analisi keynesiana (esaminata più oltre) che le decisioni di risparmio dipendono dal reddito disponibile piuttosto che dal tasso di interesse. La funzione di offerta di capitale (risparmio) è dunque quasi-verticale, dunque inelastica al tassi di interesse, mentre la sua posizione dipende dal reddito disponibile. 2.3. La determinazione della distribuzione del reddito 2.3.1. Domanda aggregata dei fattori Abbiamo sinora considerato la domanda di fattori per la singola impresa per la quale il costo d’affitto del fattore (salario per unità di tempo di impiego del lavoro, saggio di interesse per unità di tempo di impiego del capitale ecc.) sono un dato noto, per esempio, dai contratti collettivi di lavoro, dai tassi di interesse bancari ecc. E’ nostro obiettivo ora determinare il prezzo dei fattori. Ne segue che, w, i ecc. da variabili note (od esogene) si trasformano in variabili incognite (od endogene al 19 La funzione di offerta (domanda) di risparmio è l’espressione in termini di flusso della funzione di offerta (domanda) di capitale, che è invece espressa in termini di stock. Se il capitale fosse tutto circolante, cioè fosse tutto utilizzato e distrutto in un solo ciclo produttivo (non c’è capitale fisso), le due funzioni, rispettivamente in termini di flusso e di stock, coinciderebbero. 26 modello). Il prezzo dei fattori sarà determinato dall’incontro delle curve di domanda e offerta dei fattori nel mercato rispettivo (del lavoro, del capitale ecc.). Il passo preliminare sarà dunque quello di determinare, a partire dalla curva di domanda dei fattori della singola impresa, quella collettiva o di mercato. Cominciamo con la domanda di lavoro (il procedimento sarà il medesimo, mutatis mutandis, per gli altri fattori). Sommando a ciascun prezzo, salario o saggio di interesse, la quantità domandata di ciascun fattore da ciascuna impresa si otterranno le curve di domanda aggregata dei fattori. Si supponga per esempio (figura 9) che a w = 100$ l’impresa A affitti 150 lavoratori mentre l’impresa B ne affitta 50. In totale per l’intera economia al salario 100$ l’occupazione sarà 200. Si supponga poi che al w = 120$ l’impresa A affitti 100 lavoratori mentre l’impresa B ne affitta 25. L’occupazione nell’economia risulterà di 125 unità. Ripetendo l’esercizio per diversi ipotetici saggi del salario – ma due sono sufficienti -, conoscendo le curve del Pml delle singole imprese si potrà dedurre la curva di domanda di lavoro dell’intera economia. 27 L'andamento sarà dunque decrescente, come per la singola impresa, sebbene in maniera meno ripida. Accoppiando alla curva di domanda quella di offerta per ciascun fattore si può determinare la remunerazione di ciascun fattore, che per la singola impresa era un dato, e dunque la distribuzione del reddito. Si osservi come la determinazione di w ed r sia nei fatti simultanea. Quando tracciamo il Pml nella parte (a) della figura 10 è data la quantità di capitale esistente. Ma questa quantità è precisamente quella determinata dalla domanda e offerta di capitale nella parte (b). E quando nella parte (b) consideriamo data la quantità di lavoro impiegata nell’economia, questa è quella di equilibrio determinata nella parte (a). Si osservi anche che in questo approccio si suppone che gli imprenditori abbiano a disposizione una innumerevole (al limite infinita) gamma di tecniche – cioè di combinazioni di L e K - con cui produrre. Allora si può ritracciare la figura (b) come nella figura 11, considerando in luogo di K, il rapporto K/L, in cui L è un dato determinato nella parte (a) della figura 10. 28 Il grafico mostra come per più bassi tassi di interesse (profitto), aumenta il rapporto K/L, cioè la tecnica in uso diventa a maggiore “intensità di capitale”. Questo ha peraltro, secondo questa teoria, un effetto positivo sul prodotto pro-capite: aumentando la dotazione di capitale per addetto, aumenta il prodotto pro-capite. Quindi un aumento dell’offerta di risparmio che faccia diminuire il tasso di interesse, ha effetti benefici sul prodotto per addetto e, dato L, accresce il reddito nazionale del periodo successivo. Esiste un modo alternativo a quello dei prodotti marginali di ricavare la domanda di fattori produttivi. Si supponga infatti che gli imprenditori non abbiano la possibilità di variare le tecniche in uso, cioè una merce sia producibile solo con quantità fisse di L e K. Per esempio, che una unità di acciaio sia producibile solo con 10 unità di K e 5 di L (non è possibile cioè usare, per esempio 8 e 7). Non si possono ora più ricavare le curve del prodotto marginale (che come visto sopra implicano la possibilità di combinazioni diverse di K ed L). Per ricavare le curve di domanda decrescenti dei fattori si impiega allora un altro risultato della teoria marginalista: le curve di domanda decrescenti per i prodotti. Si supponga che esitano due prodotti, CDs e lasagne, ciascuno producibile con una sola tecnica che però differisce fra i due prodotti: sia per esempio un CD prodotto con una tecnica che usa molto capitale e poco lavoro rispetto alle lasagne (es. 10 e 5, rispettivamente), e le lasagne, viceversa, con una tecnica che usa poco capitale e molto lavoro (es. 5 e 10). Supponiamo che aumenti l’offerta di risparmio. Ciò induce le banche, allo scopo di collocare il maggiore risparmio, a diminuire il tasso di interesse a cui esse offrono prestiti alle imprese. La diminuzione del tasso di interesse costituisce una diminuzione del costo del capitale. Questo implica che, a causa della 29 concorrenza fra i produttori,20 sia il prezzo dei CDs che delle lasagne diminuisce, ma quello dei CDs di più in quanto impiegano relativamente più capitale. La domanda dei consumatori tenderà dunque a spostarsi verso il bene divenuto meno caro e che utilizza relativamente più capitale, accrescendo così, indirettamente, la domanda di capitale. Si può dunque di nuovo concludere che ad una diminuzione del tasso di interesse aumenta la domanda di capitale.21 2.3.2. Concorrenza, stabilità e pieno impiego dei fattori Esaminiamo il mercato del lavoro, ma ciò che sosterremo sarà valido anche, mutatis mutandis, per il mercato del capitale. Il punto E della figura che segue è un punto di equilibrio. Una caratteristica in genere ritenuta importante è quella della stabilità dell'equilibrio, cioè che se ci si allontana dall'equilibrio vi saranno forze che faranno tendere di nuovo l'economia verso quel punto22. Si dimostra che, almeno se le curve hanno la forma mostrata in figura 12, E è un equilibrio stabile. Supponiamo infatti che il salario fosse w > we. A questo punto una quantità di lavoratori pari a L-Le rimarrebbe disoccupata. Costoro sono “disoccupati involontari” in quanto lavorerebbero al salario di equilibrio. I “disoccupati volontari”, per contro, sono coloro disponibili a lavorare solo ad un salario superiore a quello di equilibrio. I disoccupati involontari si offrono infatti a un salario minore di w facendo concorrenza agli occupati. In tal modo w diminuisce e l'occupazione cresce sino a che si torna al punto E. 20 Si controlli di avere capito la ragione. 21 Sono naturalmente possibili risultati diversi. Si supponga per esempio che quando il prezzo dei CDs scende i consumatori decidano di consumarne una stessa quantità al mese, e con i soldi risparmiati acquistino un terzo bene “labour intensive”, per esempio biglietti di teatro. In questo caso la domanda di capitale non sarebbe aumentata. Se la domanda di CDs diminuisce a favore del teatro, la domanda di capitale potrebbe addirittura diminuire. 22 Perché la stabilità è importante? La teoria è una guida ai meccanismi della realtà, in questo caso quella economica, che non conosciamo sulla base della mera percezione sensoriale (esperienza). Per esempio il grafico del mercato del lavoro rappresenta una ipotesi teorica (quella neoclassica) su come nella realtà si determina il salario. Se la grandezza teorica determinata (in questo caso w) consistesse di un equilibrio instabile, se cioè appena ci si allontana anche di poco da esso il valore finisse chissà dove, la teoria sarebbe del tutto inutile. Presumiamo infatti che nella realtà prevalgano gli equilibri stabili – almeno su periodi consistenti di tempo. Peraltro, se la stessa realtà non presentasse equilibri, e/o se questi non fossero stabili, essa sarebbe difficilmente studiabile. In buona sostanza, se non ritenessimo che la realtà, per periodi di tempo sufficientemente significativi, non tendesse ad assestarsi attorno ad alcune grandezze, qualunque analisi teorica sarebbe impossibile. Presupponendo dunque che nella realtà, i cui meccanismi non conosciamo direttamente ma per mediazione delle teorie, vi siano equilibri stabili (ancorché, come è evidente, mutevoli con il tempo), allora anche la teoria deve individuare equilibri stabili. Si afferma in genere che gli equilibri devono essere anche unici, nel senso che la teoria deve guidarci verso il valore della grandezza oggetto di studio che si fisserà nella realtà. Se avessimo equilibri multipli non sapremmo come discriminare fra essi per individuare quello più rappresentativo delle tendenze della realtà. L’esempio classico è quello dello studio dell’effetto di una imposta, per esempio sui prezzi, la distribuzione del reddito ecc.. Dato l’equilibrio di partenza, una teoria efficace ci dovrebbe indicare verso quale equilibrio l’economia più plausibilmente tenderà dopo l’introduzione dell’imposta, potendo così decidere se introdurla o meno. 30 Il grafico di domanda e offerta di lavoro è al cuore della teoria neoclassica (figura 12). Esso è al centro dei dibattiti odierni sulla flessibilità del mercato del lavoro – in pratica la possibilità per le imprese di assumere e licenziare i propri lavoratori in maniera tale che la concorrenza dei lavoratori disoccupati si faccia sentire sugli occupati. Flessibilità significa dunque possibilità effettiva per i disoccupati di poter far concorrenza agli occupati offrendosi ad un salario inferiore. Chi sostiene gli effetti benefici della flessibilità, si rifà a quel grafico. Il vantaggio della flessibilità sarebbe dunque che al salario di concorrenza vi sarebbe la piena occupazione. Esercizio: si dimostri che se w < we è la concorrenza fra le imprese a far tornare all'equilibrio. Applicando un ragionamento simile, se le decisioni di risparmio delle famiglie si accrescessero, cioè meno grano prodotto fosse impiegato per produrre pane, e più grano "risparmiato" come sementi, questo condurrebbe a uno spostamento verso destra, da K e a K e' , della funzione di offerta di capitale-grano (o "grano risparmiato") e, per effetto della concorrenza fra le banche nell’offrire il maggiore risparmio, a un equilibrio a un minore tasso di interesse. Sino a quando il tasso di interesse è re , lo stock di capitale K e' – K e' è inutilizzato (grano non seminato). 31 In questa teoria non v'è così posto per la disoccupazione dei fattori produttivi. La concorrenza, in presenza di flessibilità dei prezzi dei fattori farà in modo che qualsiasi offerta di questi venga utilizzata. V'è dunque sempre la piena occupazione sia del lavoro che del capitale (quest'ultimo frutto delle decisioni di risparmio). Si noti anche che una decisione di risparmiare di più determina in questa economia un aumento del prodotto sociale, ed è quindi benefica. Questo è evidente se si osserva nella figura precedente che quando K aumenta, sia l'area corrispondente al prodotto complessivo che l'area corrispondente ai salari si accrescono (delle porzioni tratteggiate). E’ anche importante ritornare ora su quali fondamenti abbiamo considerato come “data” la quantità di capitale quando abbiamo tracciato la curva del prodotto marginale del lavoro, e simmetricamente, “data” la quantità di lavoro quando abbiamo tracciato la curva del prodotto marginale del capitale. Le quantità totali, rispettivamente, di lavoro e di capitale disponibili presso tutte le imprese non erano prese a caso, ma corrispondevano alle quantità di “pieno impiego” di quei fattori, cioè Ke e Le .23 Questa teoria è alle spalle della “costituzione economica europea” iscritta nei trattati e nella pratica. L’UME (Unione Economica e Monetaria Europea) ritiene che l’occupazione sia 23 Nella nostra analisi abbiamo anche ipotizzato una data ripartizione di queste dotazioni fra le imprese, ma poiché si sono ipotizzati rendimenti costanti di scala, il risultato, cioè la curva aggregata di domanda di ciascun fattore, non è influenzato dalla dimensione delle singole imprese. 32 un fatto prettamente nazionale che ciascun paese deve risolvere da solo con le cosidette riforme strutturali, vale a dire la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Secondo questa visione sono le rigidità a creare la disoccupazione e non ha dunque senso chiedere all’Europa di fare di più per combattere questo flagello (si veda Issing nel cap. 6). Più avanti vedremo come, invece, dal punto di vista keynesiano la disoccupazione sia un problema da risolversi in primo luogo a livello internazionale. 2.4. Legge di Say e relazione risparmi investimenti nel marginalismo 2.4.1. La Legge di Say Come già accennato, alcuni economisti classici, incluso Ricardo, credevano nella Legge di Say, o degli sbocchi – J.B.Say fu l'economista classico francese che per primo l'avanzò -, la quale affermava che poiché da ultimo si produce per procurarsi del reddito attraverso il quale effettuare degli acquisti, v'è certezza che tutto il reddito corrispondente a una data produzione venga speso ovvero che, come si usa dire, ogni offerta avrebbe creato la propria domanda. In questa formulazione venivano esclusi atti di risparmio, per così dire, fini a sé stessi. In tale visione chi risparmia lo fa per investire sicché i risparmi, lungi da spezzare il circuito del reddito, si traducono in domanda di beni di investimento. Nei termini della nostra semplice economia, chi non avesse consumato il grano per fare il pane, lo avrebbe seminato, o prestato (per esempio via sistema finanziario) ad imprenditori che lo avrebbero seminato. Dunque, secondo la Legge di Say, S coincide con I, e ciò si scrive S I . Si rammenterà che altri economisti Classici (v. cap. 3), come Marx, non credevano nella Legge di Say, e ritenevano che il capitalismo soffrisse di sovra-produzione, cioè di una tendenza della produzione a sorpassare le capacità di domanda dell’economia. In ciò Marx vedeva una contraddizione del capitalismo: da un lato ciascun capitalista vorrebbe pagare ai suoi operai salari reali bassi per godere di profitti più elevati, ma allo stesso tempo ciascuno desidererebbe che gli altri capitalisti pagassero salari elevati in modo da poter vendere più prodotto. Notiamo dunque che Ricardo e Marx condividevano la medesima teoria della distribuzione, ma non la stessa teoria del livello della produzione – il primo credeva nella Legge di Say, il secondo no). Nell’approccio Classico, dunque, la determinazione della distribuzione è distinta dalla determinazione del livello della produzione. Naturalmente i due aspetti sono ritenuti collegati, ma vi è una certa libertà nello stabilire il tipo di relazione. Per esempio Marx riteneva che più alti salari potessero condurre a una maggiore domanda di beni di consumi sostenendo la produzione, mentre Ricardo riteneva, un po’ all’opposto, che maggiori profitti avrebbero accresciuto la produzione poiché i capitalisti, già 33 soddisfatti dei propri consumi, li avrebbero risparmiati e investiti. Oggi, dopo l’analisi di Keynes che considerò Marx fra i propri anticipatori - sappiamo che Marx aveva più ragione. 2.4.2. La formulazione marginalista della relazione risparmi-investimenti Un dubbio può però sorgere che non necessariamente il grano risparmiato venga domandato come grano-per-la-semina. Gli economisti marginalisti erano infatti consapevoli che non tutte le decisioni di risparmio corrispondono a decisioni di investimento, e che quindi così come espressa originariamente, la Legge di Say era esposta a evidenti critiche. Essi, tuttavia, sulla scorta dell’analisi della domanda e offerta di capitale (risparmio) poterono, e ritengono a tutt’oggi di potere, ragionare così: il risparmio è offerta di nuovo capitale che, per effetto della concorrenza, troverà certamente impiego nell'economia. Considerando il mercato del capitale, un atto di risparmio si tradurrà in uno spostamento verso destra dell'offerta di grano-sementi. Il tasso di interesse diminuisce in maniera tale che le imprese avranno convenienza ad impiegare come investimento l’offerta di capitale aggiuntiva. Tipicamente la relazione risparmio-investimento nella teoria marginalista viene presentato come nella figura 14: Nella figura la funzione decrescente I = I(i) mostra la domanda di beni di investimento (capitale) come funzione del tasso di interesse. Come abbiamo visto nel caso semplificato del capitale-grano, l’andamento di questa funzione riflette quello del Pmk. La funzione crescente rappresenta l’offerta di risparmio S = S(i) come funzione del tasso di interesse. Come si vede, dunque, per gli economisti neoclassici la Legge di Say è sempre confermata: la flessibilità del tasso di interesse nel mercato finanziario, dove si incontrano l’offerta di risparmio 34 (capitale) delle famiglie con la domanda di risparmio (investimento o capitale) delle imprese, assicura che alle decisioni di risparmio delle famiglie corrispondano uguali decisioni di assorbimento di quel risparmio (ovvero di investimento) da parte delle imprese. Da osservare come in ambito marginalista la spesa pubblica effettuata dallo Stato assume un ruolo negativo. Poiché infatti le risorse – secondo questa teoria – tendono ad essere sempre pienamente occupate, se il settore pubblico cerca di appropriarsene di una parte, ciò avverrà a detrimento dei consumi o degli investimenti privati. In particolare, se lo Stato si indebita per finanziare una spesa in deficit, la domanda di prestiti da parte del governo entrerà in concorrenza con quella espressa dagli imprenditori per finanziare gli investimenti. Come conseguenza aumenteranno i tassi di interesse e ciò scoraggerà gli investimenti privati lasciando spazio alla spesa pubblica - gli economisti neoclassici si esprimono affermando che la spesa pubblica spiazza gli investimenti (crowding out). Graficamente si può ritenere che la domanda di credito da parte dello Stato si aggiunga a quella privata: nella figura 15 si parte da un equilibrio in cui l’offerta data di risparmio S è uguale agli investimenti per un tasso di equilibrio pari a i: S = I. Successivamente il governo aggiunge una spesa pubblica G finanziata in disavanzo. Il tasso di interesse di equilibrio aumenta a i’ in quanto la domanda di risparmio delo Stato si aggiunge a quella privata. Al nuovo tasso gli investimenti si riducono a I’ “lasciando spazio alla spesa pubblica”: S = I’ + G. Questa teoria è alle spalle dell’idea che non è necessario che l’UME abbia una politica fiscale basata su un ampio bilancio federale. Come vedremo nel cap. 1 il bilancio europeo è infatti poca cosa e si basa su versamenti da parte dei paesi membri. Nel capitolo 7 vedremo come la politica fiscale (di bilancio) europea si riduca a vincoli agli stati membri al pareggio di 35 bilancio. Vedremo anche come da punto di vista keynesiano la rinuncia all’impiego della politica di bilancio in funzione anti-ciclica sia una assurdità. 2.5. La politica monetaria nella teoria marginalista 2.5.1. La teoria quantitativa della moneta e la dicotomia “classica” Nella sua versione più tradizionale, la teoria neoclassica ritiene che si domandi moneta solo per il “motivo delle transazioni”, cioè allo scopo di effettuare scambi. Intuitivamente: ciascuno di noi ha una entrata mensile (il salario che riceve, l’assegno mensile dai genitori ecc.) che spende nel corso del mese, o se lo risparmia, lo spende per acquistare titoli. Si ricordi che la moneta si identifica non solo con le banconote ma, soprattutto, con ciò che i soggetti detengono nei conti correnti bancari (depositi a vista). Se spendiamo molto velocemente la nostra entrata, in media avremo poco nel nostro c/c. Se spendiamo un po’ al giorno, per esempio 1/30 al mese, avremo in media metà della nostra entrata nel conto corrente). Si supponga che un salario di 100€ venga speso 1/30 al mese, in media il soggetto avrà 50€ nel c/c (figura 16). Chiamiamo k la quota del reddito mensile (o annuale) che il soggetto detiene in media in moneta. Nell’esempio k è 0,5. Se i soggetti velocizzano la propria spesa (- spende più velocemente all’inizio del mese, più lentamente successivamente-, k diminuisce. Un soggetto che spendesse tutto il proprio reddito a fine mese avrebbe invece k = 1. Si dice allora che k è l’inverso della velocità di circolazione della moneta: k 1 . La velocità di circolazione è il numero medio di v scambi effettuato da una unità di moneta nell’unità di tempo. Se k = 1, v = 1. Ogni unità monetaria effettua un solo scambio al mese. Se k = 0,5, v = 2, e così via. La teoria quantitativa della moneta utilizza questi concetti per porre in relazione la quantità di moneta offerta, M, con il livello dei prezzi, P, dato il livello del reddito reale Y (determinato in corrispondenza al pieno impiego dei fattori): 36 Mv PY teoria quantitativa nella versione di Chicago, oppure, M 1 PY kPY v teoria quantitativa versione di Cambridge. La prima equazione va così letta: dato M, se i soggetti cominciano a spendere più velocemente il proprio reddito, P aumenta. Ma più interessante è guardarla in questo modo: se le autorità di politica monetaria accrescono l’offerta di moneta, data la velocità di circolazione, questo ha come unico effetto di aumentare il livello dei prezzi senza alcun effetto reale. Infatti il reddito reale è irrevocabilmente fissato al livello di pieno impiego e la maggiore domanda di beni non può accrescerne la produzione, ma solo il prezzo a cui sono offerti. Si verifichi per esempio che se v = 2, Y = 20.000 t. di grano, M = 500€, il livello dei prezzi (il costo di una t. di grano) sarà P = 1/20, e che se M diventa 1000€, il livello dei prezzi raddoppia. Verificare anche che, analogamente, nella versione di Cambridge se M aumenta, date le abitudini di spesa dei soggetti ed il reddito reale, l’unico effetto è sul livello dei prezzi. Questo risultato è molto importante in quanto mostrerebbe l’inefficacia della politica monetaria ad accrescere l’occupazione. Quest’ultima è determinata, se i salari sono flessibili, al livello di pieno impiego, e non v’è verso (e peraltro necessità) di utilizzare la politica monetaria per accrescerla. Si parla a questo proposito di dicotomia classica: il livello del reddito reale è determinato nella parte reale del sistema; la parte monetaria determina il solo livello dei prezzi. Si noti che la teoria quantitativa è valida poiché Y è a livello di pieno impiego. Se invece vi fosse disoccupazione, un aumento di M potrebbe accrescere sia Y che P. Naturalmente la studentessa più curiosa si può domandare come fa la banca centrale ad accrescere la quantità di moneta in mano ai soggetti: gira forse con un elicottero lanciando banconote (secondo una famosa metafora di Friedman)? Quella che si ha in realtà in mente è una storia un pochino più complicata: la banca centrale crea moneta con le operazioni di mercato aperto, come sappiamo; così facendo fa diminuire il tasso di interesse, gli investimenti e altre forme si spesa sensibili al tasso di interesse (come la richiesta di mutui immobiliari) aumentano, questo, se si è in piena occupazione, genera inflazione. Da ultimo il risultato è quello raccontato in maniera più elementare dalla teoria quantitativa. Su questa base esaminiamo il contributo di Wicksell. 2.5.2. Tasso di interesse naturale e di mercato in Wicksell Knut Wicksell fu un economista svedese, fra i fondatori più rigorosi della teoria marginalista. La sua teoria monetaria è più elaborata di quella della teoria quantitativa. Wiksell definisce come saggio di interesse naturale in quello determinato dall’incrocio fra domanda e offerta di risparmio. Il saggio di interesse monetario im è quello che in pratica fissano le banche nel 37 concedere i propri prestiti. Assumiamo che all’inizio in = im . Supponiamo poi che a causa del progresso tecnico la funzione del Pmk e dunque la curva di domanda di investimenti si sposti verso destra (v. capitolo 2) determinando un aumento della profittabilità degli investimenti e dunque un aumento del tasso di interesse naturale che diventa i n' . A questo punto i n' > im . Se le banche non aggiustano il tasso monetario al nuovo tasso di equilibrio, più elevato, nel mercato risparmioinvestimenti vi sarà uno squilibrio: il tasso di interesse praticato dalle banche sarà infatti più basso di quello necessario affinché le imprese richiedano fondi bancari in misura corrispondente all’offerta di risparmio, ne chiederanno di più. Infatti il tasso di remunerazione del capitale in è superiore al costo del credito. Si genererà dunque un processo inflativo dovuto al fatto che alla spesa per beni di consumo si somma una spesa per beni di investimento, finanziata da fondi bancari, superiore ai risparmi disponibili (cioè alla rinuncia di beni di consumo da parte delle famiglie). Il processo inflativo durerà sino a quando le banche non adegueranno im al nuovo più alto livello di i n' . Supponiamo invece che nel paese considerato vi sia una epidemia. L’effetto sarà una diminuzione dello stock di lavoro. Sappiamo dal capitolo 2 che se si modifica la proporzione fra stock di lavoro e stock di capitale a sfavore del primo, la funzione del Pmk si sposta verso sinistra e il saggio di interesse naturale tende a diminuire. Ciò può essere sintetizzato dicendo che i livelli di salario e tasso di interesse dipendono dalle proporzioni relative di K ed L. Se K/L aumenta (il capitale diventa più abbondante rispetto al lavoro), in tende a diminuire. Se le banche non adeguano im al nuovo livello del tasso naturale, si avrà in questo caso un processo deflativo (ovvero di diminuzione dei prezzi). Ciò è dovuto al fatto che le banche prestano ad un tasso superiore a quello (naturale) al quale le imprese assorbono tutta l’offerta di risparmio. Il processo deflativo durerà sino a quando le banche non adegueranno im al nuovo più basso livello di i n . L’analisi di Wicksell è coerente con la teoria quantitativa della moneta. Ad esempio, se la Banca Centrale fissasse un im in , la domanda di moneta aumenterebbe e il sistema bancario, Banca Centrale inclusa, la soddisferebbe. Dato il livello di piena occupazione del reddito reale, tuttavia, l’unico effetto sarebbe un aumento del livello dei prezzi. A differenza della teoria quantitativa però, la Banca Centrale agisce sul tasso di interesse piuttosto che sull’offerta di moneta. In questo modello l’offerta di moneta appare “endogena” al modello, e cioè determinata da dalla domanda di moneta dati i n e im . L’analisi di Wicksell è assai interessante e moderna. Le banche svolgono un ruolo essenziale nel mettere in moto l’economia: esse infatti prestano fondi alle imprese, avviando il processo produttivo, prima ancora che i risparmi scaturiti dal reddito prodotto affluiscano presso i loro 38 sportelli. Se tuttavia “indovinano” in = im , i fondi prestati saranno precisamente uguali ai risparmi che le famiglie deporranno presso di esse una volta che il processo di produzione e di distribuzione del reddito risulta avviato. E’ tuttavia assai probabile che esse sbaglino, poiché non conoscono in . Tuttavia la presenza di processi di deflazione o di inflazione le guiderà nell’abbassare o innalzare, rispettivamente nei due casi, il tasso monetario. Nelle recentissime formulazioni (neoclassiche) di politica monetaria alla Banca Centrale è proprio assegnato il compito di fissare un tasso di interesse monetario pari a quello naturale - quello che si determina in corrispondenza della stabilità dei prezzi e della piena occupazione (che vedremo è in corrispondenza del saggio naturale di disoccupazione). Nella pratica delle Banche Centrali, invero, si ritiene che la fissazione del tasso di interesse piuttosto che dell’offerta di moneta sia l’obiettivo principale della politica monetaria. Il dibattito sugli effetti della politica monetaria è infatti centrale nella discussione corrente di politica economica. La macroeconomia neoclassica studiata sinora è quella tradizionale pre-keynesiana. Nei corsi più avanzati studierete formulazioni più recenti. Vi invito, quando le studierete, di rammentare che quelle formulazioni non mutano di una virgola la sostanza della teoria tradizionale qui studiata, in particolare la dicotomia fra settore reale e settore monetario, e l’inefficacia della politica monetaria nel lungo periodo. Questa teoria è alle spalle dell’idea che l’UME si basi su una banca centrale che abbia la sola stabilità dei prezzi come obiettivo prioritario, si veda il cap. 3. Dal punto di vista keynesiano questo è un gravissimo errore in quanto la politica monetaria dovrebbe invece coadiuvare la politica fiscale nel sostenere crescita e occupazione. 2.6. Cos’è che non va nella teoria economica neoclassica: accenni ai problemi di teoria del capitale Da un punto di vista squisitamente teorico, i principali problemi della teoria marginalista risiedono nella teoria del capitale. La questione della misurazione del capitale arrovellò alcuni dei primi marginalisti, molto più scrupolosi dei loro moderni epigoni, ma è stato col tempo dimenticato, sino a che nel 1960 un grande economista italiano, Piero Sraffa, lo risollevò generando una famosa controversia sulla teoria del capitale fra la Cambridge inglese dove Sraffa risiedeva, 24 e la 24 Figlio del Rettore della Bocconi, Sraffa (1998-1983) si laureò con Luigi Einaudi. Nel primo dopoguerra fu vicino a Gramsci, e diventò docente universitario. Inviso ai fascisti, che lo minacciarono più volte, e personalmente a Mussolini per alcuni suoi articoli sulle protezioni accordate dal regime alle malefatte delle banche italiane, nel 1926 Sraffa accetta l’invito di Keynes di stabilirsi a Cambridge. Pur sorvegliato, Sraffa può entrare e uscire dall’Italia, per cui diventa il principale referente intellettuale ed affettuoso amico di Gramsci nel frattempo imprigionato dal regime. Fu anche grandissimo amico e mentore del filosofo Wittgenstein. Su incarico della Royal Economic Society Sraffa si occupa di pubblicare l’edizione degli scritti 39 Cambridge americana, cioè il famoso MIT nel Massachussets. Gli americani erano guidati dal più celebre economista contemporaneo, Paul Samuelson. Questi ultimi risultarono sconfitti. Sebbene la vittoria degli italo-inglesi stimolò molta ricerca in direzione non neoclassica, anche questa volta il problema è ritornato nel dimenticatoio. Non per tutti però. Un gruppo molto tenace di studiosi a livello internazionale continua a perseguire la direzione di ricerca aperta da Sraffa. (v. A.Roncaglia, Sraffa e la teoria dei prezzi, Laterza, Bari, 1981). Un modo semplice per capire dove sono i problemi della teoria marginalista è il seguente. Si consideri la natura del prezzo di un bene. Nell’analisi economica il prezzo di un bene è considerato pari ai suoi costi di produzione. Per esempio, il prezzo di un libro su cui studiate è pari al salario per le ore di lavoro di chi lo ha scritto, stampato, distribuito ecc., più il consumo dei materiali (carta, inchiostro, carburante del mezzi di trasporto, ecc.), più il consumo dei mezzi di produzione impiegati (computers, macchine tipografiche ecc.), più l’affitto o rendita sui terreni o spazi impiegati per la produzione, più il profitto dell’imprenditore che ha anticipato i quattrini per la produzione. Più precisamente l’editore intende realizzare un tasso di profitto sui capitali anticipati almeno pari al tasso di interesse che avrebbe realizzato investendo altrimenti quel capitale, per esempio in titoli di Stato (quel mancato guadagno viene detto “costo opportunità” – il costo dell’opportunità non sfruttata). Si noti dunque che per conoscere il prezzo di un bene dobbiamo conoscere il salario del lavoro, il tasso di profitto, il prezzo dei beni impiegati nella produzione. di David Ricardo, il principale economista classico inglese. Questo lavoro va in parallelo alla riscoperta da parte di Sraffa di un approccio all’economia politica precedente al marginalismo, dovuto principalmente proprio a Ricardo, e radicalmente diverso da questo (il cap.II delle dispense si basa proprio su questa riscoperta). Nel 1957 riceve dall’Accademia Reale Svedese un premio speciale per l’edizione delle opere di Ricardo, premio assegnato in precedenza solo a Keynes ed assimilabile al premio Nobel, che per l’economia fu introdotto solo più tardi (peraltro l’attuale Nobel per l’Economia è un Nobel spurio, assegnato dalla Banca di Svezia e non dall’Accademia Svedese delle Scienze). Nel 1960 pubblicò un libro di poche decine di pagine che divenne immediatamente oggetto di grande dibattito. Questo dibattito culminò a metà anni ’60 nella famosa “controversia fra le due Cambridge” che vide contrapposte la Cambridge inglese, dove risiedeva Sraffa e numerosi allievi suoi e di Keynes (che era scomparso nel 1946), e quella USA nel Massachussets (dove c’è il famoso MIT) dove insegnava il decano degli economisti marginalisti, e primo premio Nobel, Paul Samuelson. Riporto da una mia pubblicazione in inglese alcune testimonianze (di parte marginalista) al riguardo: “Sheshinsky, a leading neoclassical economist, recalls ‘When I came to MIT at the end of 1963 …[I]t was ... times of polemics. Before the age of fax machines, notes and counterexamples were hurried across the Ocean. Bob [Solow] or Paul [Samuelson] would enter class with an airgram from Pasinetti [che ha insegnato alla Cattolica Milano] or Garegnani [che ha insegnato alla “Sapienza” e a Roma 3] or Robinson [una allieva di Keynes] in hand, read their (tedious) numerical examples, and conjecture that they did not satisfy some basic assumptions. We would then rush home to invert 4 x 4 indecomposable inputoutput matrices and send off the next salvo across the ocean’. (Sheshinky, 1990, p.41). Famously, Ferguson (1979, p.269) admitted that ‘Cambridge [inglese] Criticism is valid’ and that his (and Samuelson’s) belief in neoclassical theory was just ‘a statement of faith’”. Sraffa non volle mai acquisire la cittadinanza britannica, e avrebbe probabilmente voluto tornare in Italia, ma l’università italiana non fu in grado, o non volle, trovare una cattedra degna di tanta grandezza. 40 Dunque per conoscere il prezzo o valore di una merce dobbiamo conoscere il prezzo di altre merci e la distribuzione del reddito (salario, profitto e rendita). Vediamo le conseguenze di ciò. Quando abbiamo tracciato le curve dei prodotti marginali abbiamo fatto uso del concetto di stock di capitale, di lavoro, di terra ecc. Lavoro e terra sono tuttavia misurabili in unità fisiche (ore di lavoro, ettari di terra ecc.). Così quando, per esempio, sommiamo la quantità di lavoro impiegata da ciascuna impresa a un dato salario per tracciare la domanda di lavoro dell’intera economia, addizioniamo unità fra loro omogenee. Ma la stessa cosa non è vera per il capitale. Questo è costituito da una pletora di mezzi di produzione fra loro non omogenei (aratri, torni, autotreni e quant’altro), e, com’è noto, non ha senso sommare pere e mele.25 L’unico modo per calcolare lo stock di capitale è misurandone il valore ottenuto come somma delle quantità fisiche di esso, ciascuna valutata al suo prezzo (come si fa per il PIL). In altri termini lo stock di capitale offerto – il K che usiamo per tracciare la curva di offerta del capitale, o che considero dato quando tracciamo la curva del Pml – può essere misurato solo in valore. Ma per conoscere questo valore si devono conoscere i prezzi dei beni e la distribuzione del reddito. Siamo così in un circolo vizioso: per conoscere la distribuzione del reddito si deve conoscere il valore dello stock di capitale, ma per determinare quest’ultimo deve essere già nota la distribuzione del reddito. Poniamo la questione in altri termini: quando nel grafico 17 diciamo che E è il punto di equilibrio fra domanda e offerta (K*) di capitale, stiamo dicendo che il valore dello stock di mezzi di produzione che gli imprenditori intendono impiegare, cioè domandano, in corrispondenza al punto E – valore determinato cioè sulla base del tasso di interesse e profitto relativi al punto E – è uguale al valore del capitale offerto K*. Ma questo valore K* doveva essere noto prima di determinare l’equilibrio dell’economia, ma su che base? Si sarebbe dovuto indicare un numero a caso, ma con quale senso economico? Se potessimo supporre di conoscere il valore del capitale impiegato nell’economia in corrispondenza del tasso di interesse identificato dal punto E, e assumendo che esso sia pari al valore del capitale offerto, allora potremmo dire di conoscere K*. Naturalmente 10 pere e 10 mele sono sommabili in un metro comune. Per esempio danno: 20 frutti – in tal caso l’unità di misura omogenea è il “frutto”; oppure 4 kg – in tal caso l’unità di misura è il Kg; infine sono sommabili “in valore”, conoscendone i prezzi, come facciamo quando calcoliamo il Pil. 25 41 Ma senza conoscere K* non possiamo conoscere E.26 Figura 17 Come si esprime Pierangelo Garegnani, l’allievo prediletto di Piero Sraffa: “i prezzi dei beni capitali, al pari di quelli di qualsiasi prodotto, dipendono …da saggi di salario e profitto che, a loro volta, dovrebbero essere spiegati sulla base di quegli stessi prezzi, in quanto elementi costitutivi della ‘quantità’ di capitale” (1973, p.276). E’ chiaro dunque che il valore dello stock di capitale impiegato nell’economia vada determinato simultaneamente a prezzi e distribuzione, e non possa essere considerato noto prima di determinare queste grandezze. L’unico caso in cui il problema non si pone è se esistesse un solo bene nell’economia, per esempio il grano. In questo caso per definizione esso può essere misurato in unità fisiche invariabili al variare della distribuzione. Basti porre il prezzo di una unità di grano pari ad 1: questa grandezza, essendo puramente definitoria, è indipendente dalla distribuzione. Questi problemi riguardano dunque la possibilità di tracciare la curva di offerta di capitale senza incorrere in errori di logica, cioè conoscere in anticipo ciò che la teoria dovrebbe determinare. Tale possibilità ci è negata. Difficoltà insorgono, tuttavia, anche nel tracciare la curva di domanda di capitale, ma per questo rimandiamo alla letteratura specializzata. 3. La spiegazione di Keynes della disoccupazione e ruolo delle politiche fiscali e monetarie 3.1. La figura e le innovazioni di Keynes 26 Ovviamente potremmo fissare un certo tasso di interesse, e calcolare il valore dello stock di capitale ad esso relativo. Ciò è tecnicamente possibile – la conoscenza di i, e delle condizioni tecniche di produzione ci consente in via teorica di determinare w ed i prezzi, incluso il valore dei beni capitali. Ma a questo punto né i né w sarebbero determinati sulla base delle produttività marginale. In verità questo è un buon metodo per determinare prezzi e distribuzione, e suggerito dallo stesso Sraffa: i potrebbe essere deciso dalla Banca Centrale, sappiamo che può cercare di farlo, la quale così influenza prezzi e distribuzione. Ma siamo fuori della teoria neoclassica, ed anzi stiamo tornando alla teoria Classica dove, come vedremo, w e non i era fissato esogenamente, ma la procedura è simile. 42 John Maynard Keynes (1883-1946), inglese, è l'economista più eminente del XX° secolo. Liberale di fede progressista - liberalsocialista si direbbe forse oggi -, uomo di grande cultura, è stato diretto testimone e protagonista delle vicende politiche ed economiche del suo paese e internazionali. La sua opera più celebre, la Teoria generale (1936), pubblicata a ridosso della grande crisi economica degli anni trenta, ha rivoluzionato l'analisi economica e suggerito che l'intervento pubblico è necessario per realizzare il pieno impiego, criticando l'idea neoclassica che il mercato tenda spontaneamente al pieno impiego, come visto sopra. In anni recenti, tuttavia, l'analisi economica e le politiche economiche dominanti, in particolare in Europa, sono tornate alle visioni marginaliste che Keynes aveva criticato. Non è un caso, secondo alcuni economisti, che l'abbandono delle politiche keynesiane abbia coinciso con l'aumento dei tassi di disoccupazione. Secondo altri, invece, le politiche di liberalizzazione dei mercati non sono state applicate a sufficienza. 3.2. La determinazione del reddito dal lato della domanda aggregata Secondo gli economisti marginalisti, come abbiamo visto, il livello della produzione dipende, se c’è concorrenza, dall’offerta dei fattori capitale e lavoro che vengono sempre pienamente occupati. La versione marginalista della Legge di Say assicura che tale produzione troverà smercio nel mercato: infatti tutti i risparmi che fuoriescono dal reddito ottenuto in corrispondenza al pieno impiego dei fattori verranno certamente investiti: K, L Y S (Y) I Keynes, vedremo, ribalta queste conclusioni. Egli ritiene che il livello del reddito non dipenda dall’offerta dei fattori, ma dalla domanda di prodotti che gli imprenditori si attendono: Domanda aggregata Produzione Occupazione dei fattori Laddove la domanda aggregata fosse insufficiente, parte dei fattori produttivi, lavoro e impianti, resterebbero inutilizzati. Per dimostrare l’esistenza di disoccupazione dei fattori si deve dimostrare che la Legge di Say non è vera. In questo Keynes si rivelerà un po’ debole, ma oggi alla luce della critica alla teoria marginalista del capitale iniziata da Sraffa (v. cap. 5) possiamo rafforzare i risultati di Keynes. Tuttavia, prima di far questo, vediamo, come secondo Keynes, la domanda aggregata determini i livelli di produzione. Come sappiamo, il reddito o prodotto nazionale può essere visto come identico alla somma espressa dal paese nell’anno trascorso della domanda di beni di consumo, di beni di investimento, spesa pubblica, esportazioni (domanda di beni nazionali da parte degli stranieri), meno le importazioni (che sono invece reddito nazionale speso in beni prodotti all’estero): Y = C + I + G + (E – M) 43 Questo a consuntivo: “a fine anno” offerta e domanda aggregati sono infatti identici. Ci interessa però ora capire, come secondo Keynes, “durante l’anno” le grandezze sulla destra dell’equazione abbiano determinato il valore di Y. Dobbiamo dunque studiare che cosa determina l’andamento di ciascuna di queste grandezze, C, I, G, X ed M e la loro eventuale interazione. Cominciamo con C. 3.3. La funzione del consumo Per comprendere le critiche mosse da Keynes alla teoria marginalista della piena occupazione occorre introdurre la funzione del consumo. Secondo Keynes l'ammontare di consumi decisi dalle famiglie dipende fondamentalmente dal reddito disponibile, cioè dal reddito percepito al netto del prelievo fiscale (v. cap.1). Possiamo tuttavia anche considerare una seconda componente dei consumi, detta “autonoma”, Ca, che è finanziata, per esempio, dal credito al consumo.27 La funzione del consumo è dunque: C = Ca + C(Ydsp) = Ca + C(Y-TA) Se si suppone che la relazione sia lineare, l'espressione diventa 27 I consumi autonomi sono particolarmente importanti. Le vendite a rate di automobili o di elettrodomestici sono un esempio di consumi autonomi, così come i pagamenti con carta di credito in cui l’addebito della spesa è fatto solo a fine mese. In ambedue i casi si può spendere prima di aver ricevuto il reddito. Bassi tassi di interesse influenzano positivamente la spesa autonoma per consumi (poiché spendere a credito costerà meno). Questo è importante perché sebbene un economista non-neoclassico, che si rifà per esempio alla lezione di Sraffa (v. cap. 9) non creda che bassi tassi di interesse influenzino positivamente gli investimenti, riterrà tuttavia bassi tassi un fatto positivo perché influenzano positivamente le decisioni di spesa delle famiglie. Per dare il senso dell’importanza dei consumi autonomi, la crisi finanziaria ed economica corrente (inverno 2008-09) non è solo stata innestata dai prestiti immobiliari concessi dalle banche americane a soggetti che non potevano restituirli, specie dopo l’aumento dei tassi di interesse che si è verificato dal 2004, ma su questo si è innestato anche il pericolo che le famiglie americane non potessero restituire i debiti con cui avevano finanziato i consumi, l’acquisto dell’auto, gli studi dei figli. Ora gli istituti finanziari che emettono carte di credito – su cui, si ricordi si può anche spendere indebitandosi con l’emittente, cosa che le famiglie americane hanno fatto allegramente – stanno restringendo la loro emissione. Per darvi un’idea, leggiamo su The Herald Tribune: "Meredith Whitney, the Oppenheimer analyst who has so far been ahead in identifying and explaining the weaknesses in the banking system, thinks that more than $2 trillion in credit lines [1 “trillion” sono 1000 miliardi di $!] , or 45 percent of all the lines available [il credito potenziale dalle carte di credito a cui le famiglie hanno accesso], will be pulled out from under American consumers in the next 18 months, a figure that puts the Fed's $200 billion for asset-backed finance [l’aiuto previsto dal governo USA] in its proper perspective.We are now entering a new era within the financial landscape that will be characterized by expanded forced consumer deleveraging [rientro dall’indebitamento] with a pronounced downshift in consumer spending,. We view the credit card as the second key source of consumer liquidity, the first being their jobs. Pulling credit at a time when job losses are increasing by over 50 percent year-on-year in most key states is a dangerous and unprecedented combination, in our view…. And looking at the balance sheets of individual Americans, there is good reason to think that the credit crunch should get worse [credit crunch: razionamento del credito] that they should consume and borrow less and save more. But the mother of all unintended side effects is that the faster consumers cut back, the worse it will be [se le famiglie spendono meno e risparmiano di più, l’economia peggiora, il credito alle famiglie si restringe ancor di più …]. The kind of consumer cutback implied by the consumer credit crunch that now looks likely would blow a hole below the waterline in the U.S. economy." (3-12-2008). Il sito di The Herald Tribune è un’ottima lettura mattutina. [Lo studente noti che nel proseguo, o negli esercizi, talvolta ometteremo Ca.] 44 C = Ca + c(Y-TA) dove c è la propensione marginale al consumo, Pmc. Matematicamente essa è la derivata della funzione del consumo c = dC/dYdsp. Keynes ritenne che la Pmc fosse compresa fra 0 ed 1. In molti paesi essa è attorno a 0,8%. Si ritiene in genere che la propensione marginale al consumo dipenda dalla distribuzione del reddito in quanto i ceti medio-bassi tendono a consumare una quota maggiore del proprio reddito rispetto ai ceti medio-alti. Questo è plausibile. Infatti i ceti medio-alti pur soddisfacendo in maniera cospicua i propri bisogno materiali, hanno redditi sufficientemente elevanti da dar spazio a rilevanti risparmi. Misure di politica economica atte a ridistribuire il reddito dai ceti più avvantaggiati verso quelli più svantaggiati avrebbero dunque l’effetto di accrescere la propensione al consumo dell’economia. Per i neoclassici questa sarebbe una misura negativa: se si accrescessero troppo i salari a discapito dei profitti, ad esempio, questo scoraggerebbe il risparmio e l’accumulazione di capitale. Come vedremo, invece, Keynes ci porta a conclusioni diametralmente opposte. Graficamente la funzione del consumo è rappresentabile come nella figura 1. Supponiamo ora che l’imposizione fiscale sia proporzionale al reddito: TA = tY, dove t è l'aliquota media. La funzione del consumo diventa C = Ca + c(Y - tY) = Ca + cY(1 - t). In questo caso la pendenza della funzione del consumo è c(1 – t).28 28 Milton Friedman e Franco Modigliani hanno successivamente introdotto altre considerazioni in merito alla funzione del consumo. Secondo Friedman, che formula la “teoria del reddito permanente”, il soggetto 45 3.4. La determinazione del reddito nazionale Supponiamo una economia chiusa con pubblica amministrazione. Come sappiamo le componenti del reddito nazionale, e in particolare della domanda aggregata, sono in questo caso Yd C I G . In prima approssimazione Keynes ritenne che gli investimenti I fossero determinati autonomamente dagli imprenditori sulla base delle aspettative circa la domanda futura. Aspettative particolarmente ottimistiche si traducono in un livello elevato di investimenti, mentre l’opposto accade se gli umori degli imprenditori - ‘animal spirits’ li definisce Keynes - sono orientati al pessimismo. C viene determinato, come abbiamo visto, sulla base della funzione del consumo, noto c. Assumiamo che G e t siano grandezze date e fissate autonomamente dal governo. Possiamo dunque formulare il seguente modello dell'economia29: Yd C I G C = Ca + cY(1 - t) Ca = C a I I G G Yd YP dove la barra denota le variabili esogenamente date, cioè non spiegate dal modello. c e t sono parametri noti dall’analisi empirica o, nel caso di t, dalla legislazione tributaria. L’ultima equazione indica l’equilibrio che deve vigere fra quantità domandata e quantità offerta. Abbiamo 6 equazioni con 6 incognite (Ydom, Yprod, C, Ca, I, G). Il sistema è dunque matematicamente determinato. Con opportune sostituzioni nella prima equazione otteniamo: Yd = cY(1-t) + C a + I + G . Da cui Yd - c(1 - t) = C a + I + G , e infine nel decidere i propri consumi e risparmi non guarda solo al reddito corrente, ma anche a quello atteso, con l’obiettivo di stabilizzare i consumi nel tempo. Se per esempio si attende un reddito futuro crescente, egli o ella consumerà ora gran parte del proprio reddito – al limite più del proprio reddito indebitandosi -, incrementando i propri risparmi – e restituendo gli eventuali debiti - quando le attese di crescita del reddito si saranno realizzate. Modigliani introduce invece la “teoria del ciclo vitale” secondo la quale il soggetto tende a consumare meno del proprio reddito nel periodo di attività, risparmiando per la vecchiaia, e a consumare più del proprio reddito durante la pensione quando si sostiene con i risparmi realizzati nel periodo precedente. Molto interessante è anche la teoria del Duesenberry secondo cui lo stimolo principale all’aumento dei consumi quando aumenta il reddito disponibile è l’imitazione del livello dei consumi delle classi sociali appena più benestanti. 29 Un modello è una rappresentazione semplificata dell'economia, basata su assunzioni teoriche circa il suo funzionamento. In un modello vi sono variabili esogene, note indipendentemente dal modello; variabili endogene, determinate dal modello, e parametri, grandezze in genere stimate empiricamente che legano fra loro le variabili, sulla base di certe ipotesi teoriche. 46 Ydom [1] 1 (C a I G) 1 c(1 t ) Poiché Yd YP , si ottiene infine YP 1 (C a I G ) . 1 c(1 t ) Questa espressione mostra come il livello del reddito prodotto è fissato a partire dalle determinanti della domanda aggregata. Questa, Yd , dipende, data la Pmc, positivamente dalle decisioni di investimento degli imprenditori I e dalle decisioni di spesa del governo G , oltre che dalla domanda autonoma di beni di consumo C a , I e G sono dette componenti autonome della domanda, autonome in quanto non dipendono dal reddito, ma anzi contribuiscono a determinarlo. Yd dipende invece negativamente per una quota c dall'aliquota fiscale t. Ciò è evidente in quanto la tassazione costituisce una sottrazione di reddito disponibile alle famiglie, e dunque una minore domanda per beni di consumo. Fra livello di produzione e di occupazione vi è una relazione stretta che dipende, in generale, dalla tecnologia. Se è il prodotto per lavoratore, o produttività, (per esempio annuo o mensile) ed N il livello di occupazione, la relazione in oggetto sarà N = YP Per esempio, in una economia di solo grano, se = 1 tonnellata di grano per anno, e YP = 1 milione di tonnellate per anno,n ne risulta N = 1 milione di lavoratori.30 Secondo Keynes, data una certa capacità produttiva in grado di generare un ammontare di reddito potenziale Ypo, l'ammontare di reddito e di occupazioni effettivi dipenderanno dall'ammontare di domanda che si manifesta effettivamente nel mercato, cioè da Yd . Keynes chiama Yd domanda effettiva per distinguerla dalla domanda virtuale o teorica che si avrebbe se, valendo la Legge di Say, tutto il prodotto potenziale venisse speso. In generale, secondo Keynes, senza un livello adeguato di G si verificherà: YP < Ypo in quanto gli investimenti privati saranno in generale insufficienti ad assorbire l’offerta di risparmio che si genera dal reddito di pieno impiego, e parte dei lavoratori che potenzialmente potrebbero trovare occupazione negli impianti esistenti non 30 Si noti come se vi fosse progresso tecnico, cioè se la produttività aumentasse, vi sarà disoccupazione tecnologica va distinta da quella per insufficienza di produzione, causata secondo Keynes da insufficienza di domanda sarebbero gli occupati se Y scendesse a 800 mila tonnellate? 47 troveranno così impiego.31 Tale disoccupazione è definita da Keynes di equilibrio nel senso che essa non rappresenta una situazione temporanea, come nei marginalisti, ma persistente. 3.2 La relazione risparmio-investimento in Keynes ed il ruolo delle politiche fiscali 3.5. Il moltiplicatore keynesiano Si può andare ancora più a fondo dei meccanismi individuati da Keynes. Il termine 1 1 c viene chiamato da Keynes moltiplicatore del reddito (in realtà esso fu "scoperto" da Richard Kahn, un allievo di Keynes, nel 1931). Tale relazione è il cuore della teoria della domanda effettiva. Per semplicità consideriamo il modello Yd = C + I C = cY I = I*. Risolvendolo otteniamo che la domanda effettiva sarà: Yd 1 I *. 1 c Domandiamoci: in che senso il reddito domandato è “generato” a partire dal livello degli investimenti I*, data la Pmc? Per capirlo, consideriamo una variazione I degli investimenti privati finanziati dalla creazione di potere d’acquisto da parte del sistema bancario attraverso un fido. 32 Questa spesa aggiuntiva determinerà un aumento della produzione (per esempio se I corrisponde a nuovi impianti industriali, aumenterà la domanda e la produzione dei cemento, mattoni, macchinari ecc). Aumentando la produzione aumenterà il reddito generato in misura pari alla maggiore produzione, diciamo y = I. Questo "nuovo" reddito verrà speso dalle famiglie in beni di consumo, in quota cy, e il resto risparmiato, in quota (1-c)y. La produzione aggiuntiva di beni di consumo sarà dunque pari a cy. Il corrispondente nuovo reddito dalla produzione aggiuntiva di beni di consumo sarà speso in quota c(cy)=c2y e così via. Il totale di reddito prodotto sarà dunque: Y = y + cy + c2y + ... = y (1 + c + c2 + ...) = I (1 + c + c2 + ...) Si dimostra che questa serie converge al valore Y = 1 1- c I, 31 In altri termini, dato il livello di reddito di pieno impiego, il livello di investimento deciso dagli imprenditori sarà in genere insufficiente in una società avanzata, che dunque genera una significativa offerta di risparmio, ad assorbire quest’ultima. Come vedremo il reddito nazionale si collocherà al livello tale da generare precisamente il livello di risparmio uguale agli investimenti decisi dagli imprenditori. 32 Un fido è una apertura di un conto corrente a favore di una impresa: questa può prelevare sino ad un certo massimo fissato dalla banca. La banca ha così creato potere d’acquisto. 48 cioè l'aumento del reddito è un multiplo della variazione iniziale degli investimenti. Non solo. Si dimostra che l’aumento del reddito è tale da generare un aumento dei risparmi uguale all’aumento iniziale degli investimenti (si ricordi dalla contabilità nazionale che ex post S è sempre uguale ad I). Ma ciò significa che, contrariamente a quanto aveva sino a Keynes affermato la teoria marginalista, sono gli investimenti a generare i risparmi, e non viceversa! L’esempio della tabella 1 mostra come un investimento iniziale di 100, effettuato dagli imprenditori con potere d’acquisto creato dalle banche, si traduce in un aumento di reddito di 100 (la produzione consiste di 100 di macchinario industriale ecc). Assumendo una Pmc = 0,8, questo a sua volta viene speso dalle famiglie di coloro che lavorano nel settore dei beni di investimento per l’80% in beni di consumo, e per il 20% risparmiato. La spesa di 80 genera un pari reddito in seguito alla produzione di 80 di beni di consumo. Le famiglie di coloro che lavorano nel settore dei beni di consumo spendono per l’80% in beni di consumo, e per il 20% risparmiano. E così via. Per “round” successivi da una spesa iniziale per investimenti di 100 si genera una spesa di 400 in beni di consumo, sicché il prodotto o reddito finale è aumentato di 500. Questi valori finali sono calcolabili utilizzando la formula Y 1 100 . I risparmi generati sono precisamente pari 1 0,8 all’ammontare di investimenti iniziale. Se le banche avevano inizialmente prestato creando potere d’acquisto, prestando cioè senza aver prima ricevuto risparmi in deposito, alla fine del processo moltiplicativo si ritrovano depositi pari al prestito iniziale, conseguendo così un bilancio in pareggio - ma solo alla fine potranno dire di aver prestato risparmi depositati presso di loro. 49 Tabella 1 - La determinazione del reddito in Keynes 3.5. Il paradosso della parsimonia Quest’ultimo risultato è veramente rivoluzionario in quanto mostra che, se è vera la teoria di Keynes, il risparmio è – dal punto di vista di reddito ed occupazione - un elemento negativo e non positivo come volevano i neoclassici. Anzi, Keynes dimostra che, dato il livello degli investimenti, se la propensione al consumo diminuisce, cioè se la gente diventa più frugale, ciò fa diminuire reddito ed occupazione. Nell’esempio precedente si faccia diminuire c a 0,7 e si rifacciano i calcoli. Si otterrà un reddito minore. Ciò non sorprende. Infatti per generare un ammontare di S = 100 sarà sufficiente un livello di reddito minore (dato che la gente risparmia una quota maggiore del reddito). Questo risultato Keynes lo definì “paradosso della parsimonia”. Un primo esempio istruttivo Si supponga l’economia di Spendaccionia che ha i seguenti dati: c = 0,8, Ca = 100. In questo caso le banche finanziano consumi autonomi per un valore di 100. Il reddito nazionale sarà di 500. Basta applicare la formula: Y 1 C a . In questo caso il processo moltiplicativo è innestato dalla 1 c spesa a debito dei consumatori: partiranno prima le imprese che producono i beni di consumo acquistati dalle famiglie che si sono indebitate; successivamente le famiglie dei lavoratori di quelle 50 imprese spenderanno lo 0,8 del loro reddito percepito in beni di consumo e risparmieranno lo 0,2 ecc. I risparmi generati al termine del processo saranno sY=0,2*500 = 100, sono cioè precisamente pari ai prestiti inizialmente effettuati dalle banche che, ex post, potranno dire di aver prestato ciò che hanno ricevuto come depositi, anche se ciò è vero solo alla fine del processo – infatti all’inizio avevano prestato senza aver ricevuto risparmi in deposito: questi si formano solo alla fine. Come si vede nella visione Keynesiana i debiti muovono l’economia, come vuole il buon senso popolare e come ha mostrato l’esperienza recente dell’economia americana nella quale il credito al consumo ha svolto una funzione importante nel sostenere la domanda aggregata (naturalmente se il credito finisce per essere concesso indiscriminatamente sorgono problemi, come si è poi verificato). 3.6. Effetti dell’aumento della spesa pubblica Consideriamo ora una variazione G della spesa pubblica, trascurando per semplificare l’imposizione fiscale, dunque una spesa in deficit). Questa spesa determinerà un aumento della produzione (per esempio se G corrisponde a nuovi ospedali, aumenterà la domanda e la produzione dei cemento, mattoni ecc). Aumentando la produzione aumenterà il reddito generato in misura pari alla maggiore produzione, diciamo y = G. Questo "nuovo" reddito verrà speso dalle famiglie in beni di consumo, in quota cy, e il resto risparmiato, in quota (1-c)y. La produzione aggiuntiva di beni di consumo sarà dunque pari a cy. Il corrispondente nuovo reddito dalla produzione aggiuntiva di beni di consumo sarà speso in quota c(cy)=c2y e così via. Il totale di reddito prodotto sarà dunque: Y = y + cy + c2y + ... = y (1 + c + c2 + ...) = G (1 + c + c2 + ...) Si dimostra che questa serie converge al valore Y = 1 1- c G, cioè l'aumento del reddito è un multiplo della variazione iniziale della spesa pubblica. Si noti un risultato fondamentale: Nell’esercizio i risparmi sono aumentati di (1- Y = 100. Ciò significa che se lo Stato aveva finanziato G in disavanzo, cioè indebitandosi, questa medesima azione ha generato un identico aumento dei risparmi. In altre parole, i risparmi aggiuntivi andranno ad acquistare i titoli che lo Stato ha emesso per finanziare la maggiore spesa pubblica. Se ne ricava che la spesa in disavanzo non è negativa: genera più reddito ed occupazione e per giunta genera il risparmio volto a finanziarla! Un secondo esempio istruttivo Supponiamo ora che nel paese di Spendaccionia subentri un governo “statalista” che dica: “basta questo eccesso di spese private, il credito al consumo è vietato, ora spenderemo noi per consumi sociali, come nuovi ospedali, università ecc. In compenso non tasseremo nessuno”. I dati sono ora c = 0,8, G = 100. Non ci sono imposte sul reddito (t = 0). Lo Stato finanzia G facendo 51 stampare moneta dalla Banca Centrale (signoraggio). Il reddito nazionale è facilmente calcolabile con la formula Y 1 G ed è pari a 500. I risparmi sono pari a 100, tali da finanziare il disavanzo 1 c pubblico G – T = 100 – 0 = 100. Come si vede il governo ha mantenuto le proprie promesse. Non ha impoverito nessuno, il reddito nazionale è immutato, ed ha speso senza tassare nessuno. Si è naturalmente indebitato con le famiglie, ma questa è una libera scelta delle famiglie che desideravano risparmiare e acquistare titoli. D’altronde, se lo Stato non avesse speso in disavanzo, quei risparmi non si sarebbero generati. Torneremo nella lezione successiva sul ruolo della spesa pubblica. Questi svolti sono naturalmente casi estremi ed un po’ paradossali, che danno tuttavia il senso della visione keynesiana dell’economia in cui è la spesa in debito a muovere l’economia, ed i risparmi che vanno contabilmente a coprire quel debito emergono solo alla fine. Coerentemente con l’idea che è la domanda a generare produzione e reddito, in Keynes non può che essere così. All’inizio non c’è reddito, so to speak, e la spesa non può che essere generata dalla creazione di potere d’acquisto da parte delle banche. Alla fine emergono reddito e risparmio, e si potrà dire ex post che se qualcuno ha speso in debito, qualcun altro avrà risparmiato finanziando quel debito. Esercizio: se lo Stato non avesse espanso la spesa in disavanzo i risparmi aggiuntivi non sarebbero esistiti. Commentare. Naturalmente nella realtà lo Stato impone delle imposte sul reddito. Si segua questo esercizio. Esercizio: Si supponga una economia con i seguenti dati: c = 0,8; t = 0,1; I = 200; G = 250. Si calcolino (a) il reddito nazionale; (b) il saldo del bilancio pubblico; (c) si dimostri che l’offerta di risparmio è uguale agli investimenti privati più il saldo del bilancio pubblico. Si spieghi inoltre quest’ultimo risultato. (d) supponendo infine che il debito pubblico a inizio anno fosse di 1000, qual è il debito a fine anno? (a) Y 1 ( I G) 1 c(1 t ) = 1 (200 250) = 1 0,8(1 0,1) 1 (450) 1 0,8(0,9) = 1 450 3,57*450 = 1606,5. 0,28 (b) Saldo del bilancio pubblico = T – G = tY – G = 0,1*1606,5 – 250 = 160,6 – 250 = - 89,3. Dunque un disavanzo. (c) L’offerta di risparmio privato va calcolata sul reddito disponibile alle famiglie che è Y – T = Y –tY = 1606,5 – 106,6 = 1445,8. Se la propensione al consumo è 0,8, la propensione al risparmio sarà s = 0,2. Dunque: 52 Sp = s Ydisp. = 0,2*1445,85 =289,2. Dal cap. 1 ricordiamo che Sp = I – Sg. La somma di investimenti e disavanzo da finanziare è dunque (I - saldo bilancio pubblico) = 200 – (-89,3) = 289,3, pari (a meno di un arrotondamento) all’offerta di risparmio. Il risultato non sorprende. Infatti gli investimenti e la spesa in disavanzo hanno messo in moto un processo moltiplicativo del reddito tale che questo si fissa ad un livello tale da generare un ammontare di risparmio uguale agli investimenti più la spesa in disavanzo. (d) Infine, se il debito a inizio anno era di 1000, a fine anno si aggiunge un nuovo disavanzo, per cui il debito finale sarà 1089,3. Esercizio: Si calcoli il reddito nazionale Y nell'ipotesi che: c = 0,8, I = 10, G = 50, TA = 45;33 (c) determini il livello del risparmio S e verifichi che S = I - saldo bilancio pubblico; (d) provi a verificare se ha compreso quanto segue: "Sp = I - saldo bilancio pubblico” significa che il risparmio privato corrispondente al livello del reddito generato sulla base dell'equazione 1 risulta destinato a finanziare gli investimenti I decisi inizialmente dagli imprenditori e all'acquisto dei titoli pubblici emessi allo Stato a copertura del disavanzo pubblico." 3.7. Moltiplicatore del bilancio in pareggio Il lettore si può però domandare se l'espansione della spesa pubblica non incontri dei vincoli dal lato delle entrate fiscali e contributive, se cioè non implichi disavanzi pubblici non sostenibili. A questa obiezione viene incontro un famoso teorema. Supponiamo che il governo aumenti spesa pubblica di G e l’imposizione fiscale di TA con G T in modo da mantenere il bilancio pubblico in pareggio. Si dimostra che pur in assenza di deficit tale misura di politica economica avrà effetti espansivi. Da un lato, come sappiamo, l’accresciuta spesa pubblica G genererà un aumento di reddito pari a Y 1 G . D’altro canto 1 c l’accresciuta imposizione fiscale determina una diminuzione iniziale del reddito pari a -Y’ = cTA, e considerando gli effetti indiretti si ottiene: Y' = -cy - c2y - ... = -y (c + c2 + ...) = -TA (c + c2 + ...), e infine si dimostra che Y ' 1 cTA , 1 c cioè l'aumento dell’imposizione produrrà un effetto negativo sul reddito più che proporzionale (il moltiplicatore ha funzionato ora in senso negativo). Pur tuttavia, nel caso in cui 33 Suggerimento: TA costituisce una sottrazione di reddito disponibile, di consumi e dunque di domanda effettiva, ma solo per una quota c, in quanto una parte ne sarebbe stata risparmiata. La determinazione del reddito si baserà dunque sull’equazione: Y 1 ( I G cTA) . 1 c 53 TA = G, tale variazione negativa è inferiore alla variazione positiva dovuta all'aumento della spesa pubblica. Infatti: Y Y ' 1 1 1 1 G cTA G cG G 1 c 1 c 1 c 1 c In altri termini, se consideriamo gli effetti espansivi della spesa pubblica e quelli recessivi dell’imposizione fiscale, al netto vi è una espansione pari all'aumento iniziale della spesa pubblica. Ciò non sorprende, in quanto il governo accresce la spesa di un valore G, e al contempo riduce il reddito disponibile di TA di cui, tuttavia, solo cTA veniva effettivamente speso. Gli effetti di accrescimento della domanda effettiva operati dal governo sono dunque superiori agli effetti di diminuzione dovute all’accresciuta imposizione fiscale. Il teorema del bilancio in pareggio afferma dunque che se lo Stato incrementa la spesa pubblica di un certo ammontare accrescendo al contempo l’imposizione fiscale del medesimo ammontare, il reddito nazionale risulterà aumentato in misura uguale all’aumento iniziale di spesa pubblica. Tale teorema fu “scoperto” fra il 1943 e il 1945 da svariati economisti. Esso è importante perché dimostra che le politiche keyensiane non coincidono necessariamente col “deficit spending”, ma il ruolo trainante della spesa pubblica è compatibile con l’equilibrio dei conti pubblici. In effetti in gran parte degli anni keynesiani, decadi 1950 e 1960, nei paesi industrializzati la spesa pubblica si espanse ma con i bilanci pubblici in sostanziale pareggio. Esercizio: Si supponga che c = 0,8, G 200 e T 200 . Si calcoli la variazione del reddito nazionale. 3.8. Il ruolo della spesa pubblica: creatore o distruttore di reddito? Abbiamo visto come nell'approccio di Keynes un aumento della spesa pubblica, per esempio delle spese sanitari, assistenza sociale, oppure opere pubbliche e così via, contribuisca a raggiungere il reddito potenziale laddove, come Keynes riteneva normalmente accadesse a causa dell'insufficienza degli investimenti privati, la domanda effettiva gli fosse inferiore. Effetti espansivi possono anche essere ottenuti con un aumento dei trasferimenti previdenziali nel caso in cui la Pmc degli anziani sia superiore a quella dei giovani. Si è pure visto che la salvaguardia del pareggio di bilancio non necessariamente annulla questi effetti espansivi. Nell'approccio neoclassico, dominante prima di Keynes e ripreso in anni più recenti, l'intervento pubblico ha esclusivamente effetti negativi. Gli economisti neoclassici ritengono, è vero, che laddove vi sia una situazione di depressione economica che scoraggia gli investimenti privati l'intervento pubblico si renda necessario, ma pensano che tali situazioni siano temporanee, e non normali come riteneva Keynes. Altri economisti neoclassici ritengono che l'intervento pubblico 54 sia, persino in tempi di recessione, peggiore del male che vuole curare in quanto può diventare irreversibile.34 Per comprendere queste posizioni torniamo al capitolo 2. Si era lì argomentato come, a detta dei neoclassici, data l'offerta di lavoro e di capitale (grano risparmiato), l'economia avrebbe tendenzialmente occupato tutto il lavoro e tutto il capitale producendo al suo livello massimo potenziale, purché naturalmente nell’economia vi fosse sufficiente concorrenza. Se interviene il governo accrescendo l’imposizione fiscale allo scopo di attuare una spesa pubblica, tale prelievo ridurrà come sappiamo il reddito disponibile e, di conseguenza, consumi e risparmi. Riducendo il livello del risparmio, cioè del capitale grano, l'effetto che si produce è una diminuzione del reddito nazionale. Ciò non sorprende. Poiché il reddito è al livello di pieno impiego - o meglio, salvo casi temporanei tende a quel livello se v'è concorrenza -, allora l'intervento pubblico non può che effettuarsi sottraendo risorse al settore privato. Se queste risorse sottratte diminuiscono il capitale nazionale il reddito diminuisce. Anche i consumi privati diminuiscono in conseguenza dell'espansione dei consumi pubblici (per esempio si accresce l'offerta di sanità pubblica e diminuisce l'offerta di sanità privata). Numerosi economisti neoclassici ravvedono anche qui degli effetti negativi in quanto il settore privato sarebbe più efficiente nell'offerta di servizi. Questo è negato da altri che, comunque ammettono che lo Stato debba intervenire nell'assicurare delle garanzie minime ai ceti più sfortunati prelevando risorse attraverso il prelievo fiscale progressivo. Tali servizi minimi possono essere offerti in maniera diretta, attraverso servizi pubblici, o distribuendo buoni alle famiglie o a individui più svantaggiati da utilizzarsi presso strutture private. Esercizio: confrontare l'analisi della disoccupazione secondo i neoclassici e secondo Keynes spiegando perché secondo i primi è temporanea e secondo Keynes, in assenza di intervento pubblico è persistente. 3.9. Le politiche economiche Keynesiane: una sintesi Sulla base di quanto esposto possiamo classificare le politiche economiche di stampo keynesiano come segue: 1) Finanziamento di aumenti della spesa pubblica in disavanzo. genera un più che proporzionale all’aumento della spesa. Si osservi che con Y aumentano sia i risparmi che le entrate fiscali. Dunque l’aumento della spesa pubblica, per così dire, si autofinanzia nel senso che genera sia un aumento delle entrate fiscali che dei risparmi destinati a coprire il residuo disavanzo pubblico. 34 Si ammette naturalmente che lo Stato debba intervenire nei settori della difesa, giustizia ecc., settori tradizionalmente prerogativa del sovrano. 55 2) Il governo può diminuire l’aliquota fiscale per accrescere il reddito disponibile ed i consumi: l’inclinazione della funzione del consumo diminuisce e, a parità di I e G, Y aumenta. Attenzione però: G non deve diminuire. Inoltre il prelievo deve diminuire sui redditi medio-bassi, poiché una minore imposizione sui redditi medio-alti potrebbe semplicemente tradursi in maggiori risparmi. Questo non avrebbe effetti positivi su reddito ed occupazione, mentre, certamente, renderebbe la distribuzione del reddito più ingiusta. 3) Aumento della spesa pubblica con pareggio di bilancio. In tal caso G T Y . 4) Lo Stato può stimolare la domanda effettiva favorendo una redistribuzione del reddito dai profitti ai salari. La propensione marginale al consumo aumenterà in quanto i lavoratori tendono a spendere una quota maggiore del proprio reddito. In tal modo l’inclinazione della funzione del consumo aumenta e, a parità di I e G, Y aumenta. Esercizi: (a) gli effetti di un medesimo G su Y saranno maggiori nel caso 1) o 3)? (b) si dimostri il punto 4) attraverso il seguente esercizio: I = 100, G = 100, t = 0,1; si calcoli Y con c = 0,8 e poi con c = 0,9, calcolando anche il saldo del bilancio pubblico nei due casi. 3.10. Sostenibilità debito pubblico italiano e parametri di Maastricht Con riguardo all’Italia è stata spesso discussa la questione della sostenibilità del debito pubblico (DEBP). Tale sostenibilità è in genere valutata commisurando il DEBP al Pil (Y), cioè DEPB/Y. Nessuno ha mai stabilito un limite naturale alla crescita del rapporto (che per il nostro paese si situa attorno al 106%). Questo è evidente: molte famiglie sono indebitate con mutui immobiliari per valori ben più elevati (per esempio famiglie con redditi netti di 25 mila € l’anno possono ben stipulare mutui per 200 mila € e più). I parametri di Maastricht, com’è noto, fissano ma arbitrariamente un tetto di 60% (valore per il quale nessuna famiglia potrebbe mai acquistare una casa). Il problema della sostenibilità, in assenza di un valore di riferimento deducibile dall’analisi economica, viene allora posto come studio delle condizioni che non fanno crescere il rapporto DEBP/Y, o lo fanno diminuire. Sappiamo che DEBP si accresce in presenza di disavanzi pubblici. Il Pil cresce invece se l’economia è in buona salute. Supponiamo allora che il bilancio pubblico presenti un saldo primario nullo. Un disavanzo emerge solo a causa del pagamento degli interessi sul debito preesistente. Esso sarà tanto più elevato quanto più elevati sono i tassi di interesse. Nelle ipotesi fatte, il DEBP cresce evidentemente ad un tasso pari al tasso di interesse i, mentre il Pil cresce al tasso di crescita dell’economia g. Studiando dunque il rapporto: 56 DEBP (1 i) , abbiamo una idea dell’andamento nel tempo della sostenibilità nell’ipotesi Y (1 g ) semplificatrice di partire con un saldo primario nullo. Se i > g, il rapporto aumenta – e chi vuole può dedurne che la sostenibilità diminuisce – e diminuisce viceversa se g > i. Nella situazione italiana degli anni più recenti, i è stato relativamente basso, soprattutto dopo l’ingresso nell’Unione Monetaria Europea, ma anche g è stato assai basso. Più recentemente, a fronte di una pallida ripresa delle maggiori economie europee, la BCE ha ripetutamente alzato i tassi per scoraggiare richieste di aumenti salariali. Sin tanto che i > g per diminuire il debito occorrono avanzi primari. Infatti, un bilancio in pareggio primario non basterebbe, in quanto con i > g il rapporto Debito/Pil continua ad aumentare. E’ dunque necessario conseguire un avanzo primario positivo in modo, intuitivamente, da poter pagare gli interessi ed avere ancora un po’ di avanzo sì da poter restituire un po’ di debito. Nel nostro paese sino al 2004 il rapporto DEBP/Y è diminuito perché si sono conseguiti avanzi primari. Nel 2005 e 2006 il rapporto è aumentato di nuovo. Con la finanziaria del 2006 il governo ha cercato di farlo di nuovo diminuire cercando di non far ricadere l’onere dell’aggiustamento sui ceti medio-bassi. Si osservi che dal punto di vista keynesiano politiche volte a ridurre il DEBP hanno effetti negativi sul tasso di crescita g, soprattutto se consistenti di tagli alla spesa e aumento delle imposte sui ceti medio-bassi. Il Trattato di Maastricht del 1992 limita i rapporti deficit/Pil al 3% e quello Debito/Pil al 60% per i paesi aderenti all’Unione Monetaria europea. Quale è l’origine di questi vincoli, rafforzati poi dal Patto di stabilità e crescita del 1997 che impone che i saldi di bilancio siano nulli come media nel ciclo economico?35 Dietro vi è il timore tedesco che paesi come l’Italia possano espandere la spesa pubblica in disavanzo finanziandola raccogliendo risparmio nel mercato tedesco e sottraendo dunque tale risparmio all’economia germanica. Certo, l’Italia lo poteva fare anche prima dell’UME, ma ad un prezzo. Infatti con la lira tradizionalmente debole rispetto al Marco (DM), per raccogliere finanziamenti nel mercato tedesco, il governo italiano doveva pagare tassi di interesse elevati per coprire gli investitori dal rischio di svalutazione della lira. Con l’€ tale effetto di scoraggiamento verrebbe meno. Ha senso questa posizione? Da un punto di vista neoclassico sì. Da un punto di vista keynesiano no. Vediamo. E’ naturalmente giusto affermare un indebitamento del governo italiano presso il mercato finanziario tedesco ora costa meno - il debito è denominato in € e non c’è rischio di svalutazione. 35 Dunque disavanzi nei periodi di ciclo economico negativo, e in surplus nei periodi di espansione. L’andamento del saldo in relazione al ciclo economico è in parte automatico in seguito ai cosiddetti “stabilizzatori automatici”. Per esempio, i sussidi ai disoccupati tendono ad aumentare nelle fasi negative, contribuendo alla formazione dei disavanzi in congiunzione con il calo delle entrate fiscali. Queste ultime si rinvigoriscono quando il reddito riprende a crescere, mentre al contempo diminuiscono i sussidi ai disoccupati. 57 Tuttavia un maggiore disavanzo italiano genererebbe un aumento del reddito italiano ma anche di importazioni dalla Germania – quando il reddito di un paese aumenta, si accresceranno infatti le importazioni, come vedremo più avanti. Ma allora si accresce anche il reddito tedesco (la Germania esporta di più in Italia) e il relativo risparmio. Tale risparmio potrebbe ben andare a finanziare il disavanzo pubblico italiano (assieme al maggior risparmio italiano). L’Italia sta “sottraendo” risparmio tedesco? No. Senza la spesa in deficit italiana quel risparmio non si sarebbe neppure generato. Come si vede, l’Europa sta nascendo con criteri che, dal punto di vista keynesiano, sono piuttosto discutibili. Purtroppo sta anche affrontando la crisi con metodi anti-keynesiani, come vedremo nel discutere di crisi europea. 3.11. L’analisi grafica della funzione della domanda effettiva L'analisi Keynesiana può essere esposta graficamente. Nella figura 2 poniamo sugli assi cartesiani, rispettivamente, il reddito domandato Yd in ordinata e quello prodotto, YP in ascissa. Sia Ypo il reddito potenziale, ovvero il massimo prodotto realizzabile con i dati impianti. La bisettrice indica il luogo dei punti dove reddito prodotto (o offerta aggregata) e domandato (o domanda aggregata) sono uguali. La funzione C(Ydsp) esprime il livello (ipotetico) dei consumi a ciascun livello del reddito. Infine, poiché Y = C + I + G, a ciascun livello di consumo sommiamo il dato livello degli 58 investimenti e della spesa pubblica in maniera da ottenere la funzione della domanda effettiva.36 Questa funzione indica per ciascun livello ipotetico di offerta aggregata (ovvero di reddito distribuito) il livello corrispondente di domanda aggregata. Quest'ultima funzione incrocia la retta a 45° (che è il luogo dei punti di equilibrio fra reddito prodotto e domanda effettiva, o in altri termini fra offerta aggregata e domanda aggregata) nel punto E. In corrispondenza a questo punto viene individuato il reddito Ye effettivamente domandato e prodotto. Il reddito effettivo può ben essere inferiore a quello potenziale che occupa tutti gli impianti disponibili. Secondo Keynes, come s’è già detto, data una certa capacità produttiva in grado di generare un ammontare di reddito potenziale Ypo e di occupazione Npo, l'ammontare di reddito e di occupazioni effettivi dipenderanno dall'ammontare di domanda che si manifesta effettivamente nel mercato, cioè da Yd. Keynes chiama Yd domanda effettiva per distinguerla dalla domanda virtuale che si avrebbe se, valendo la Legge degli sbocchi, tutto il prodotto potenziale venisse speso. Per Keynes, senza un livello adeguato di G si verificherà: Yd < Ypo, e parte dei lavoratori che potenzialmente potrebbero trovare occupazione negli impianti esistenti non troveranno lavoro. Tale disoccupazione è di equilibrio, nel senso che essa non rappresenta una situazione temporanea, come per i neoclassici, ma persistente, e non è risolvibile con la flessibilità del mercato del lavoro (cioè diminuendo i salari), ma stimolando la domanda effettiva.37 Si può dimostrare che Ye è un equilibrio stabile. Stabilità di un equilibrio significa che se l’economia è fuori dell’equilibrio essa convergerà verso di esso. Supponiamo che gli imprenditori producano YPa (fig. 3). La domanda effettiva sarebbe però Yda , inferiore alla quantità prodotta, infatti l’incontro del segmento scuro con la domanda effettiva è sotto la bisettrice, la quale è il luogo di equilibrio fra Y prodotto e Y domandato. Gli imprenditori tenderebbero dunque a contrarre la produzione muovendo verso Ye. Matematicamente, se si considera la funzione del consumo C Ca c(1 t )Y , Ca rappresenta l’intercetta sull’asse delle ordinate (termine noto). Se aggiungiamo I e poi G, tale intercetta aumenta corrispondentemente, dunque la retta si trasla verso l’alto parallelamente a se stessa. 36 37 Non è detto che anche se tutti gli impianti fossero pienamente utilizzati la disoccupazione scomparirebbe. Vi potrebbe infatti essere della disoccupazione strutturale, dovuta all’insufficienza di capitale per cui anche se questo fosse pienamente impiegato non sarebbe sufficiente a dare lavoro a tutti. Questa situazione è tipica di paesi o regioni arretrate – per esempio nel nostro Mezzogiorno. Keynes aveva tuttavia in mente paesi avanzati come – a quell’epoca – il Regno Unito e gli Stati uniti, paesi dotati di sufficienti impianti che se pienamente utilizzati avrebbero potuto soddisfare l’offerta di lavoro. 59 Se, all’opposto, producessero YPb , la domanda effettiva Ydb sarebbe superiore all’offerta prodotta, l’incontro del segmento scuro con la domanda effettiva è ora infatti sopra la bisettrice. Gli imprenditori tenderebbero dunque ad accrescere la produzione, muovendo verso Ye. Esercizio: Nella nostra economia c = 0,8, I = 100, G = 100. La domanda effettiva sarà Y = 1000 (dimostrarlo). Se gli imprenditori producono proprio 1000 l’economia è in equilibrio. Se gli 60 imprenditori effettuassero una produzione pari a Yp = 1200, la domanda effettiva sarebbe Yd = C + I + G = 1160 (perché? Suggerimento: si calcolino i consumi quando il reddito è Y = 1200 e si sommino I e G). Si ha Yp > Yd, l’economia è in disequilibrio e gli imprenditori ridurranno la produzione. Cosa accadrebbe se gli imprenditori producessero Yp = 900? Mostrare graficamente i diversi risultati. Esercizio: Si mostri graficamente che al livello di produzione Ye la somma di G ed I è pari ai risparmi ed alla tassazione delle famiglie a quel livello del reddito. Il tratto YeA (fig. 5) mostra il livello dei consumi dato il reddito Ye. Chiamiamolo C e. Se da Ye sottraiamo Ce rimane quanto le famiglie versano allo Stato come tassazione più i loro risparmi, ovvero il tratto AB. Come si vede AB è precisamente uguale a G + I. Esercizio: si mostri graficamente che un accrescimento della spesa pubblica può accrescere il reddito effettivo. (E’ sufficiente traslare verso l’alto la funzione della domanda effettiva.) In conclusione, Keynes suggerì che in presenza di aspettative pessimistiche da parte degli imprenditori, il livello degli investimenti da questi deciso potesse risultare insufficiente ad assicurare il raggiungimento della massima produzione e occupazione potenziali. Suggerì dunque che lo Stato dovesse intervenire a compensare tale deficienza attraverso la spesa pubblica e i trasferimenti. 3.12. Le politiche Keynesiane in economia aperta Moltiplicatore di mercato aperto Il modello è ora: Y=C+I+G+E–M 61 C =Ca + cY Ca = C a I= I G= G T = tY E= E M = mY. La penultima equazione mostra le esportazioni come dato esogeno determinato al di fuori del modello dalla domanda estera per i nostri beni. L’ultima equazione mostra le importazioni come funzione della domanda effettiva, nel senso che quando quest’ultima aumenta, si accresce la domanda non solo per beni nazionali, ma anche per beni prodotti all’estero. L’aumento delle importazioni riguarderà per esempio prodotti energetici e materie prime, necessari ad accrescere la produzione, ma pure beni di consumo. L’equazione che determina il reddito nazionale è ora: Y 1 (C a I G E ) 1 c(1 t ) m Il moltiplicatore di mercato aperto è importantissimo. Esso mostra infatti come una economia aperta sia soggetta al vincolo estero. Una espansione interna determinata, per esempio, da un aumento della spesa pubblica determina, a parità di E, una crescita delle importazioni. Se la bilancia commerciale era in pareggio, essa ora peggiorerà. Per questo spesso si parla - o si parlava in epoca keynesiana - della necessità di politiche espansive coordinate fra paesi. Solo se i diversi paesi legati da forti vincoli commerciali – per esempio i paesi dell’Unione Europea – espandono contemporaneamente domanda aggregata e produzione, in ciascun paese aumentano sia le importazioni, che costituiscono esportazioni per i partner, che le esportazioni, che costituiscono le importazioni degli altri paesi. Se invece un singolo paese espande in solitudine la propria economia, la sua bilancia commerciale andrà presto in disavanzo ed esso non potrà alla lunga mantenere le politiche di crescita. In questa esperienza incappò ad esempio il governo socialista francese di Francois Mitterand nei primi anni '80. Dopo pochi mesi di politica espansiva, la bilancia commerciale francese andò in forte disavanzo in quanto la Germania non era interessata ad espandere a sua volta la propria economia, e Mitterand dovette tornare a politiche economiche più restrittive. 62 La figura & mostra come, se un paese espande il proprio reddito da Y 1 a Y2, le importazioni aumentano da M1 a M2. Allora le importazioni dagli altri paesi dovrebbero aumentare da E1 ad E2, in maniera da riequilibrare la bilancia commerciale. Questo tuttavia dipende dall’adozione di politiche espansive da parte dei partner commerciali. Se questi paesi non intendono espandere le loro economie, un paese che voglia invece perseguire politiche keynesiane potrebbe adottare misure alternative come il controllo delle importazioni. Con questa misura si bloccano le importazioni al livello di equilibrio M1, compatibile con il livello dato di esportazioni E1. In tal modo, si noti, gli altri paesi non risultano danneggiati in quanto continuano ad esportare M1. Il paese può così espandere sino a Y2 senza incorrere in un disavanzo di bilancia commerciale (muove dal punto A al punto C invece che al punto B). 38 Questo tipo di politiche è tuttavia oggi mal visto, scoraggiato o addirittura proibito da organismi come l’UE o il WTO. In alternativa un paese può finanziare gli squilibri di parte corrente indebitandosi verso l’estero. Questo non può durare troppo a lungo, tuttavia. Inoltre i debiti ed i relativi interessi vanno pagati, per cui ad un certo punto il paese dovrà realizzare degli avanzi di parte corrente per ripianare il debito estero. Infine un paese può ricorrere ad una svalutazione della propria moneta per stimolare un volume adeguato di esportazioni (e rendere più costose le importazioni). Anche questa strada ha i suoi difetti in quanto (i) altri paesi potrebbero adottare la medesima strategia – e quindi il gioco 38 Il controllo delle importazioni sarà selettivo, nel senso che alcuni beni importati saranno necessari per accrescere la produzione, come petrolio, materie prime, macchinari industriali ecc. Si tenderà allora a ridurre l’importazione di alcuni beni, come auto di lusso, ecc. per lasciar spazio a beni più indispensabili. 63 diventa a somma zero -, e perché, anche se questo non accade, (ii) il maggior costo delle importazioni crea inflazione e conflitto distributivo. Chi deve infatti pagare il maggior costo dei beni importati? Il nostro paese ha comunque tradizionalmente utilizzato la svalutazione per compensare la perdita di competitività dovuta alla maggiore inflazione interna. Con l’Unione Monetaria Europea tale possibilità è venuta meno, e gli effetti negativi si sono cominciati a manifestare nella bilancia commerciale con i paesi dell’UME, in particolare con la Germania. La scomparsa della grande impresa ed il ritardo tecnologico, oltre che la crescente concorrenza asiatica, rendono ora l’economia italiana particolarmente fragile dal punto di vista del vincolo estero. Il riscatto economico del nostro paese, in tali difficili circostanze, sarà assai impervio. Un terzo esempio istruttivo Si consideri ora l’economia di Esteronia. Questa economia vende tutta la propria produzione all’estero, e consuma solo prodotti stranieri. Assumiamo che c = 0,8; m = 0,1; E = 100. Il reddito nazionale sarà: Y 1 1 E 100 333,3 . 1 c m 1 0,8 0,1 E M E mY 100 0,1* 333,3 66,7 , dunque positivo. Il saldo L’offerta commerciale di è: risparmio è S sY 0,2 * 333,3 66,7 , dunque pari al saldo estero. Come mai? Si ritorni alle relazioni di contabilità nazionale, ed in particolare la relazione Sp + Sg – I = E - M incontrata nel cap.1. Nell’esempio per ipotesi I = 0 e Sg = 0. Si ha dunque Sp = 66,7 ed E – M = 66,7, sicchè l’equazione è verificata. Cosa significa? Il paese di Esteronia produce 333,3, ma ne consuma solo l’80%. Infatti ne cede il 20%, cioè 66,7, all’estero. Nei fatti “presta all’estero” 66,7. Nei termini della bilancia dei pagamenti questo risparmio, se non accumulato nelle riserve ufficiali, dà luogo ad un movimento di capitali in uscita di 66,7. Esercizi: 1. Perché le importazioni diventano più costose in seguito ad una svalutazione? Che effetti ha questo sull’inflazione? E sulle partite correnti? 2. Si supponga: Y = 1000€, m = 0,2. Quanto devono essere le esportazioni affinché la bilancia commerciale risulti in pareggio? Supponete ora per esercizio che Esteronia si doti di un governo e che questo effettui una spesa pubblica G = 250. Se ricalcolate il reddito nazionale, questo verrà di 1166,7. Constatate poi che le partite correnti (coincidenti qui con la bilancia commerciale) sono in disavanzo (-16,6) e che l’offerta di risparmio privato non è in grado di coprire il risparmio pubblico negativo (-250 di disavanzo pubblico), sicché occorre un prestito estero di 16,6. 64 BOX Effetti di una manovra di aggiustamento dei conti pubblici (quale “prescritta” dall’Europa ai PIIGS). Nella tabella seguente si mima una manovra di aggiustamento dei conti pubblici. Il paese ha in origine a t = 0 un saldo negativo sia dei conti del dott. P che del sig. M, per cui Herr E sta prestando capitali al paese (il saldo delle PC è negativo). L’Europa impone un dimezzamento di G. Il settore pubblico va in attivo (così può cominciare a restituire il debito pregresso), ma quello privato ha un passivo ancor maggiore. Il che non sorprende perché il Pil cade e così i risparmi privati, a parità di investimenti ed esportazioni. Il saldo delle PC si avvicina al pareggio. Supponiamo poi che a causa delle peggiorate aspettative di domanda gli imprenditori dimezzino gli investimenti. Il Pil avrebbe una caduta ancor più grave, il sig. M è vicino al pareggio (dott.M è sempre in suprlus),e le PC sono in leggero surplus. L’Europa gioisce, i milioni di senza lavoro meno. Se le famiglie più fortunate, quelle che hanno ancora un reddito, aumentano la propria propensione al risparmio preoccupate del futuro, il Pil avrebbe un crollo ancor più serio, ma con gioia dell’Europa dott. M e sig. P sono ora entrambe in avanzo, e così il paese (Herr E sta avendo i capitali indietro). Ma se tutti i paesi europei adottano tali politiche i mercati si contraggono, ciascuno esporterà di meno col risultato (in basso a destra) che il Pil è più che dimezzato, i conti pubblici e privati tornano in rosso, e così il saldo delle PC. Siamo tornati a una situazione analoga all’iniziale, ma con milioni di disoccupati, bel risultato! 65 Tabella: simulazione effetti manovre di aggiustamento t=0 I=5 c=0,9 G=X=10 t=0,2 m=0,3 Y 43.10345 T T-G 8.62069 -1.37931 M M-X 12.93103 2.931034 S S-I 3.448276 -1.55172 risparmio interno =saldo partite -2.93103 correnti t=1 G=5 Y 34.48276 se anche I cade a 2,5 Y 30.17241 T T-G 6.896552 1.896552 T T-G 6.034483 1.034483 M M-X 10.34483 0.344828 M M-X 9.051724 -0.94828 S S-I 2.758621 -2.24138 S S-I 2.413793 -0.08621 risparmio interno =saldo partite -0.34483 correnti risparmio interno =saldo partite 0.948276 correnti Y 28.22581 se poi X si dimezza per analoghe misure in altri paesi (o m aumenta per crollo investimenti) Y 20.16129 T T-G 5.645161 0.645161 T T-G se poi s sale a 0,15 4.032258 -0.96774 66 M M-X 8.467742 -1.53226 M M-X 6.048387 1.048387 S S-I 3.387097 0.887097 S S-I 2.419355 -0.08065 risparmio interno =saldo partite 1.532258 correnti risparmio interno =saldo partite -1.04839 correnti 3.13. La teoria monetaria di Keynes e i limiti della critica keynesiana I limiti dell’analisi reale di Keynes Già l’anno successivo alla pubblicazione della teoria generale, dunque nel 1937, un importante economista inglese, John Hicks (poi premio Nobel), seguito poi da Modigliani 39 nel 1944 (anche premio Nobel) e da altri, riuscì a ricondurre Keynes in un alveo marginalista, innescando quella poi definita come la “sintesi neoclassica” (sintesi fra idee keynesiane e neoclassiche). La sintesi è stata la teoria economica dominante sino al principio degli anni ’70, ma in fondo, superata la ventata monetarista degli anni ’70 e ’80, è tuttora al centro dell’analisi di Politica economica. Su cosa fecero leva Hicks e Modigliani? Nella Teoria Generale Keynes accetta un importante elemento della teoria marginalista: la curva di domanda di investimento decrescente al diminuire del tasso di interesse. Egli cerca talvolta di giustificarla in maniera diversa dai neoclassici, attraverso il concetto di efficienza marginale del capitale; altre volte accetta la spiegazione neoclassica basata sul prodotto marginale del capitale; in altri capitoli appare sostenere che gli investimenti siano influenzati non tanto dal tasso di interesse quanto dalle aspettative degli imprenditori, dai loro “animal spirits” come si esprime. Hicks e Modigliani compresero però che questo degli “animal spirits” era un argomento molto debole e vago: cosa determina infatti gli “animal spirits”? L’unica teoria degli investimenti proposta da Keynes sufficientemente robusta, essi conclusero, era quella tradizionale. Ma allora, essi conclusero, una sufficiente flessibilità verso il basso del tasso di interesse sarebbe stata sufficiente, determinando un livello di investimenti adeguato, a condurre l’economia verso il pieno impiego.40 39 Franco Modigliani, economista del MIT, prese la cittadinanza americana, paese in cui si dovette rifugiare in seguito alle leggi razziali in Italia. 40 Il livello adeguato degli investimenti è precisamente pari al livello di risparmio offerto, data la propensione marginale al risparmio, quando l’economia è in pieno impiego. Per esercizio, si determini questo livello di risparmio impiegando il grafico della domanda effettiva. 67 Keynes nella Teoria Generale era consapevole di essere esposto a tali critiche. Attraverso la propria teoria della determinazione del tasso dell’interesse (teoria della preferenza per la liquidità) cerca allora di argomentare che il tasso di interesse poteva rivelarsi rigido verso il basso, in maniera tale che la politica monetaria fosse impotente a farlo diminuire a sufficienza sì da ottenere il livello di investimenti di pieno impiego. Teoria del tasso di interesse in Keynes e nella teoria tradizionale Come sappiamo, secondo la teoria neoclassica il tasso dell’interesse è determinato dall’incontro fra domanda e offerta di capitale. In particolare, tali domanda e offerta si manifestano nei mercati finanziari dove le famiglie offrono risparmio, cioè capitale nella forma finanziaria, che imprese domandano allo scopo di avere i mezzi finanziari per acquistare beni capitali. Keynes non critica nel merito questa teoria, ma gliene contrappone una diversa che si compone di due stadi, per così dire. Da un lato Keynes argomenta, come abbiamo visto, che risparmi si adeguano agli investimenti attraverso il meccanismo del moltiplicatore del reddito. Dall’altro lato, nella necessità di spiegare come si determina il tasso di interesse - non più determinato dall’equilibrio risparmi-investimenti -, Keynes avanza una diversa teoria in cui il tasso di interesse non è più il prezzo che porta in equilibrio le decisioni si risparmio e investimento, ma il prezzo che pone in equilibrio domanda e offerta di moneta. In particolare, il tasso di interesse sarebbe il prezzo (o ricompensa) che i soggetti richiedono per separarsi dalla liquidità: in sostanza la remunerazione che essi domandano per detenere i propri risparmi in titoli (titoli di Stato, obbligazioni, azioni) invece che in moneta (nel conto corrente bancario, per intenderci). Dunque, sostiene Keynes, il soggetto decide prima quanto risparmiare e quanto consumare, e poi determina in base al tasso di interesse quanto detenere in forma liquida e quanto in titoli. I titoli rendono un interesse annuo, possono però far incorrere in perdite in conto capitale se l’andamento dei mercati finanziari è negativo. Per cui nella decisione non si guarda solo al livello del tasso di interesse, ma 68 anche al livello ritenuto più o meno sicuro del valore dei titoli. La moneta invece non muta mai il proprio valore nominale e dà in questo senso certezza. Non è un caso che in situazioni incerte, come dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, o soprattutto nell’attuale crisi finanziaria ed economica vi sia una “fuga verso la liquidità”. In questa visione il tasso di interesse ha una natura prettamente monetaria (non “reale” come nei neoclassici in cui il suo valore è determinato dalla produttività marginale del capitale). Esso è il prezzo della liquidità, il prezzo che chiediamo per separarci dalla liquidità. La doppia decisione descritta da Keynes (a) su quanto risparmiare e (b) in che forma detenere i risparmi è una decisione che i vostri genitori, o voi se percepite un reddito, fate ogni mese. Decidendo se detenere i risparmi in forma liquida, dunque nel cc, o in forma di titoli, affidandoli a un fondo di investimento, acquistando titoli di Stato ecc, i vostri genitori o voi se lavorate agite da piccoli speculatori, cioè cercate di capire cosa vi converrà fare “speculando” cosa accadrà nei mercati finanziari. Fra il prezzo dei titoli e il tasso di interesse esiste una relazione inversa che diamo qui per conosciuta. La determinazione del tasso di interesse in Keynes Secondo Keynes i soggetti hanno in mente qual è il tasso di interesse di equilibrio – ovvero qual è il valore di equilibrio dei titoli. Non tutti i soggetti hanno tuttavia la medesima opinione di quale sia il livello del tasso di interesse (prezzo dei titoli) ritenuto sicuro. Vi sarà, sostiene Keynes, un livello del tasso di interesse molto elevato (prezzo dei titoli molto basso) per cui tutti i soggetti ritengono unanimemente che il prezzo dei titoli non può che risalire. A questo tasso molto alto (al limite infinito) la domanda di moneta speculativa è zero.41 A tassi relativamente bassi (prezzo dei titoli particolarmente elevato), ma pur sempre positivi, l’opinione dei soggetti può anche farsi unanime: per tali tassi, tutti possono aspettarsi solo una caduta del prezzo dei titoli, per cui nessuno li intende detenere e la domanda di moneta speculativa è elevatissimo, potenzialmente infinita. Per un range di tassi intermedio, le opinioni possono invece divergere, sicché parte degli operatori deterrà titoli, parte moneta (o ciascuno un po’ di tutte e due diversificando, come si dice, il proprio portafoglio). Dando forma grafica a questo comportamento, la curva di domanda di moneta speculativa apparirà come nella figura 8: 41 La domanda di moneta è detta in questo caso speculativa perché riflette le aspettative dei soggetti nei riguardi delle variazioni future del prezzo dei titoli. 69 La zona in cui il tasso dell’interesse si fa molto basso, dove nessuno intende detenere titoli si chiama “trappola della liquidità”. Graficamente la funzione della preferenza per la liquidità si appiattisce. In verità Keynes riteneva potesse scattare anche per livelli del tasso dell’interesse non particolarmente bassi. Data la domanda di moneta per transazioni (e precauzionale), la figura 8 ci mostra la determinazione del tasso dell’interesse attraverso la domanda e offerta di moneta. 70 Il tasso dell’interesse così determinato potrebbe essere tuttavia troppo alto per assicurare un livello di investimenti di pieno impiego. Keynes è consapevole che un aumento dell’offerta di moneta42 potrebbe far diminuire il tasso di interesse. Nella zona della trappola della liquidità, tuttavia, la banca centrale è impossibilitata a farlo, e se la trappola per la liquidità scattasse a livelli relativamente elevati del tasso dell’interesse, le autorità di politica monetaria sarebbero impossibilitate a indurre un livello di investimento adeguato ai risparmi di pieno impiego. Per esempio, in una fase di pessimismo nel mercato vi potrebbe essere bisogno di ribassare i tassi di interesse. Tuttavia le aspettative nel mercato finanziario possono essere piuttosto negative, sicché il tentativo della banca centrale di diminuire i, determinando un rialzo del valore dei titoli, essere ritenuto non sostenibile poiché i soggetti non credono ad un valore elevato dei titoli. In altri termini, nel tratto intermedio della curva della preferenza per la liquidità, la domanda di titoli da parte della banca centrale trova un certo numero di soggetti disposti a cedere i loro titoli, ed altri disponibile a tenerseli anche al prezzo più elevato. Questi ultimi ritengono evidentemente che il tentativo della banca centrale di diminuire il tasso di interesse che ha l’effetto di sostenere il prezzo dei titoli sia credibile, cioè che il contesto economico giustifichi il più elevato prezzo dei titoli.43 Via via però che ci si avvicina alla parte più bassa della curva, o se questa in seguito al peggioramento delle aspettative si sposta verso l’alto, aumenta il numero di coloro che tendono a vendere e a ritenere più sicura la liquidità (magari aspettando di ricomprare i titoli una volta che questi tornino a prezzi più Domanda d’esame: come avviene un aumento dell’offerta di moneta? Cos’è un’operazione di mercato aperto? Se non si risponde per bene a queste domande, che peraltro riguardano il corso di Economia che si è tenuti a conoscere, anche ad una sola, non si passa l’esame. 42 43 Questo è quanto fa la FED negli USA per sostenere il mercato borsistico. 71 bassi realizzando un capital gain). La figura 10 mostra un caso in cui il tentativo della banca centrale di diminuire il tasso di interesse accrescendo l’offerta di moneta si scontra con il peggioramento delle aspettative di mercato e lo spostamento della curva della preferenza della liquidità verso l’altro, sicché il tasso di interesse non muta (è come se fosse scattata la trappola della liquidità). In questo caso, il tasso di interesse determinato nella parte monetaria dell’economia può risultare più elevato di quello che rende gli investimenti decisi dagli imprenditori uguali all’offerta di risparmio di pieno impiego, come mostrato in figura 11: 72 La conclusione di Keynes era che in questi casi la politica fiscale fosse necessaria per raggiungere la piena occupazione. La teoria del tasso di interesse proposta da Keynes, per quanto innovativa per il suo tempo, non regge oggi alla luce dell’operare effettivo della politica monetaria. Come vedremo più avanti nel corso, le banche centrali operano fissando un tasso di interesse a brevissimo termine obiettivo attraverso il quale orientare tutta la struttura dei tassi a più lungo termine. Poi il mercato deciderà quanta liquidità della banca centrale (base monetaria o moneta ad alto potenziale) domandare a quel tasso. Una volta fissato il tasso obiettivo e data la domanda di moneta a quel tasso, l’offerta di moneta diventa dunque un fattore endogeno, e non esogeno come nella presentazione di Keynes. Tutto questo verrà approfondito più avanti. Ciò detto, le banche centrali (BC) affermano attualmente di operare cercando di fissare il tasso di interesse in maniera da approssimare quello naturale di Wicksell. Naturalmente nessuno conosce quant’è questo tasso di Wicksell! Per cui le BC operano in maniera del tutto empirica cercando di contemperare inflazione moderata e difesa dell’occupazione, come fa la FED, o badando soprattutto all’inflazione come fa, ahinoi, la BCE. Quindi il tasso naturale di interesse, con connesso tasso naturale di disoccupazione, è quello al quale v’è inflazione zero o costante (Nairu). Questo è un punto di vista molto discutibile, come approfondiremo più avanti. 3.14. Crescita e inflazione Il supermoltiplicatore Le componenti autonome della domanda effettiva sono quelle voci della domanda effettiva il cui ammontare non dipende dal reddito percepito. I consumi, per esempio, possono essere distinti in indotti, per la parte che dipende dal reddito percepito, e autonomi, Ca, per la parte che può essere finanziata dal credito bancario (gli acquisti a rate, i mutui immobiliari ecc.). La spesa pubblica dipende dalle decisioni di spesa del governo. Le esportazioni dipendono dalla domanda estera. 73 Alcuni economisti hanno sostenuto che gli investimenti non vadano inclusi fra le componenti autonome in quanto dipendono dal tasso di crescita del reddito, per cui sono una componente indotta. Questo è del tutto plausibile. Infatti si può ritenere che le decisioni degli imprenditori di impiantare nuove fabbriche ecc. dipendano soprattutto dalla domanda attesa. Su questa base è stato proposto il modello del supermoltiplicatore. Y = C + I + G + (E – M) [1] C = Ca + c(1-t)Y [2] I = dY [3] M = mY [4] dove, per semplicità, il livello degli investimenti è posto funzione del reddito corrente con l’idea che il livello del reddito corrente sia l’indicatore utilizzato dagli imprenditori per stimare la domanda attesa futura. Con le opportune sostituzioni si ottiene: Y = Ca + c(1-t)Y + dY + G + (E – mY), Da cui si ricava il supermoltiplicatore: Y 1 (C a G E ) 1 c(1 t ) d m che mostra come il livello del reddito di lungo periodo sia determinato dai consumi autonomi, dalle decisioni di spesa del governo, dalle esportazioni. Quello del supermoltiplicatore è un modello di lungo periodo in quanto non si limita a spiegare, come il moltiplicatore di Keynes, il livello di utilizzo di una capacità produttiva data, ma spiega anche il livello degli investimenti, cioè la crescita della capacità produttiva. Secondo i teorici della “sintesi neoclassica”, sebbene Keynes potesse risultare utile in certi casi per spiegare il grado di utilizzo di una data capacità produttiva, cioè utile nel breve periodo, essi continuavano a ritenere che nel lungo periodo fosse il risparmio a determinare gli investimenti e la crescita economica. Il modello del supermoltiplicatore estende invece al lungo periodo l’idea che sia la domanda effettiva il motore della crescita economica. Nel breve, come nel lungo periodo, è il livello del risparmio che si adegua al livello degli investimenti, e non viceversa. Il modello del supermoltiplicatore mostra, in altre parole, l’estensione al lungo periodo di quella che è stata definita la “premessa keynesiana”, ovvero l’indipendenza delle decisioni di investimento da quelle di risparmio. La politica fiscale basata sulla spesa pubblica ha una evidente influenza positiva sul livello del reddito di lungo periodo. La politica monetaria può accrescere la crescita mantenendo basso il tasso di interesse. Sebbene ciò non influenzi gli investimenti, avrà una notevole influenza sui 74 consumi autonomi, in particolare sui mutui bancari e il settore delle costruzioni e sugli acquisti a rate. Un basso tasso di interesse renderà anche meno costoso l’indebitamento pubblico, facilitando la crescita della spesa pubblica. La politica del cambio influenzerà il livello delle esportazioni. Una analisi dell’inflazione non-monetarista Uno degli esito più sconfortanti dell’insegnamento dell’economia è quello dello studente/essa che non riesce ad uscire dall’idea, molto diffusa, che l’inflazione è “causata da troppa moneta”. Questa idea esce persino rafforzata dopo che si è (malamente) studiato la teoria quantitativa della moneta e il monetarismo. In primo luogo, non si devono confondere causa ed effetto. E’ chiaro che inflazione e “troppa moneta” hanno qualche associazione, ma ciò non vuol dire che il sintomo sia la causa del male. Per i monetaristi, è vero, una politica monetaria espansiva – che comunque è qualcosa di più complesso dell’affermazione “c’è troppa moneta” – può determinare inflazione. Per i Keynesiani della sintesi, abbiamo visto, un po’ di inflazione è benefica perché permette di realizzare il pieno impiego. E per i Keynesiani del lungo periodo? Un saggio di un famoso economista che studiò problemi dello sviluppo economico, Albert Hirschman, ci può essere d’aiuto in questa direzione.44 Egli enuclea due scuole, in parte complementari. Una scuola Keynesiana detta “strutturalista” ha argomentato che l’inflazione trova la sua radice nelle strozzature produttive dal lato dell’offerta. Una espansione economica, in altri termini, può scontrarsi con una limitata capacità produttiva in alcuni settori (per esempio dell’agricoltura). La pressione della domanda determina un aumento dei prezzi dei beni dapprima in questi settori, e poi sull’intera economia. A questo meccanismo va aggiunto quello che si può sviluppare in economia aperta. Se la pressione della domanda, in presenza di una limitatezza nell’offerta interna, induce un aumento delle importazioni, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti può indurre una svalutazione della moneta e, per quella via un aumento dell’inflazione.45 Una seconda tesi, detta del “tiro alla fune” interpreta l’inflazione come un conflitto fra classi o gruppi sociali nei riguardi della spartizione del prodotto sociale.46 Tradizionalmente il conflitto è visto fra capitalisti e lavoratori, ma può riguardare anche diversi gruppi di capitalisti.47 Anche Friedman, pare, abbia dichiarato che sebbene l’incremento della quantità di moneta sia la causa più prossima dell’inflazione, le cause più profonde sono sociali. Lo Stato può entrare come protagonista La matrice sociale e politica dell’inflazione: elaborazioni sull’esperienza Latino-Americana, I, A.Hirschman, Ascesa e declino dell’economia dello sviluppo e altri saggi, a cura di A.Ginzburg, Rosenberg & Sellier, 1983. 44 45 46 47 Lo studente/ssa controllino di aver capito perché. Questa interpretazione è coerente con la teoria classica della distribuzione vista nel cap.3. Per esempio, un gruppo di capitalisti protetto dalla concorrenza estera può tendere ad accrescere I prezzi a svantaggio di altri capitalisti più esposti alla concorrenza straniera. 75 di questo conflitto. Per esempio, impiegare il suo potere di signoraggio per deviare, in condizioni di piena occupazione,48 parte del prodotto sociale, attraverso spesa pubblica o trasferimenti, a favore dell’una o dell’altra classe sociale, o di tutte (di modo che poi non vince nessuna). In talune situazioni - come nell’Italia degli anni ’70 -, l’inflazione da un lato è manifestazione del conflitto sociale, ma dall’altro può essere tollerata in quanto diventa strumento di controllo del conflitto: i lavoratori chiedono aumenti salariali, le imprese li accordano ma poi aumentano i prezzi (in questo spirito nel 1975 fu firmato l’accordo sul punto unico della Scala mobile). Oggi vincono i sindacati, domani le imprese. Come dice Hirschman: “L’inflazione è dunque una notevole invenzione che permette ad una società di vivere una situazione intermedia tra i due estremi dell’armonia sociale e della guerra civile”. Negli anni ’70 in Italia, il ricorso a una forte stretta creditizia, quale quella operata nel 1963, per accrescere la disoccupazione e stroncare i sindacati,49 avrebbe infatti generato una forte resistenza dei lavoratori. Si preferì accomodare la questione con l’inflazione (e la svalutazione, per difendere la competitività estera). Solo più tardi, nel 1980-81 il capitalismo italiano passò all’offensiva. Conclusioni: differenza fra classici, keynesiani e marginalisti Abbiamo visto come l’analisi neoclassica o marginalista sia stata criticata sia dal versante della teoria della distribuzione, e come ad essa si contrapponga l’impostazione Classica, che dal versante della determinazione del reddito nazionale, sulla base delle critiche che Keynes mosse nella Teoria generale, successivamente rinforzate dalle critiche alla curva di domanda di investimento. Torniamo dunque sul confronto fra le due impostazioni: Classica-Keynesiana da un lato, marginalista dall’altro. La più evidente differenza fra classici e marginalisti è che in questi ultimi vi è un legame strettissimo fra teoria della distribuzione del reddito e determinazione del livello di occupazione. La distribuzione del reddito che si determina in condizioni di concorrenza è tale, secondo questi economisti, per cui ciascun fattore è remunerato alla sua produttività marginale, e a questo prezzo ciascun fattore è pienamente occupato (lo studente controlli bene che abbia compreso questa affermazione). Per i classici la distribuzione del reddito ha a che vedere con i rapporti di forza fra le classi sociali e non ha a che fare (almeno in prima approssimazione) con i livelli di occupazione. Mentre dunque per i marginalisti vi è una sola distribuzione del reddito compatibile con l'equilibrio di piena occupazione, per i classici sono possibili diverse distribuzioni del reddito a parità di livelli E’ importante specificare “in condizioni di pieno impiego”, sennò il signoraggio determinerebbe un accrescimento della produzione, non dei prezzi. 48 49 V. l’articolo di Kalecki, cit. 76 di occupazione. Dal punto di vista classico si può dunque negare che per aumentare l'occupazione si devono necessariamente abbassare i salari dei lavoratori. Da un altro versante la teoria marginalista fu criticata da Keynes. La critica keynesiana sostenne che il mercato non assicurava che il livello degli investimenti era necessariamente tale da assicurare l'utilizzazione dell'offerta di risparmi di pieno impiego. Quindi sia sul fronte della teoria della distribuzione del reddito (non ve ne è una "naturale": critica Classica) che su quello dei livelli di occupazione (il mercato non conduce necessariamente al pieno impiego: critica keynesiana) la teoria marginalista è stata negli anni sotto attacco. La visione classico/keynesiana appare a molti come quella più realistica: la distribuzione del reddito dipende dai rapporti di forza sociali, i livelli di occupazione dipendono dalle politiche economiche del governo. La piena occupazione fu infatti ottenuta con opportune politiche in molti paesi negli anni '50 e '60. La piena occupazione favorisce però il rafforzamento dei sindacati e una distribuzione del reddito più favorevole ai lavoratori (v. Kalecki). Le imprese possono reagire aumentando i prezzi per cui i livelli alti di occupazione finiscono per generare inflazione. Una risposta dagli anni settanta è stata attraverso le teorie e politiche neo-liberiste e monetariste, che sono una versione estrema della teoria neoclassica che nei fatti hanno ristabilito alti livelli di disoccupazione. In alcuni paesi, quelli del nord d'Europa, almeno sino agli anni ’90, è stata invece portata avanti con successo una politica alternativa basata su un patto triangolare fra governo, sindacati dei lavoratori e industriali in cui i sindacati scambiavano una certa moderazione salariale con livelli alti di occupazione e un ottimo stato sociale. 50 Keynes: breve o lungo periodo? Nel proseguo dei propri studi, probabilmente su manuali standard, vi sarà trasmessa l’idea che le idee di Keynes sono valide nel breve periodo – come spiegazione della depressione economica e come conseguenti misure fiscali e monetarie per farvi fronte – mentre nel lungo periodo è valida la teoria la teoria neoclassica. Più precisamente vedrete come sia le cosiddette teorie “neo-keynesiane” - incluso il modello IS-LM che per primo cercò di sintetizzare Keynes e neoclassici - che la scuola monetarista saranno d’accordo circa il lungo periodo. Divergono con riguardo al breve periodo. In questo caso i “neo-keynesiani” attribuiscono a rigidità di vario tipo, fondamentalmente (toh!) dei salari la causa della disoccupazione. Di keynesiano in questo non c’è invero nulla. In fondo i monetaristi la pensano allo stesso modo. La differenza è che per questi ultimi la rigidità dei salari è responsabilità dei lavoratori – o delle loro rappresentanze sindacali – mentre per i neo-keynesiani le rigidità sono una caratteristica delle moderne economie. 50 La cosiddetta "politica dei redditi", cioè aumenti dei salari in linea con l'aumento della produttività in modo da non costituire stimolo all'inflazione, era in quei paesi scambiata dai sindacati con una effettiva politica di piena occupazione. 77 Il messaggio che vorrei lasciarvi è che Keynes è un’altra cosa. Non v’è dubbio che nonostante la propria intelligenza egli non seppe o poté rompere con la teoria marginalista tradizionale, e dunque lasciò spazio al compromesso visto sopra (Keynes valido nel breve, il marginalismo nel lungo). Ciò detto, gli economisti eterodossi ritengono che Keynes sia valido sia con riguardo al breve che al lungo periodo (per esempio attraverso il supermoltiplicatore). Insomma, diffidate delle presentazioni convenzionali che troverete in libri di testo più standard. 4. La sintesi neoclassica: gli effetti Keynes e Pigou, il modello IS/LM di economia chiusa e la Curva di Phillips Come già osservato, immediatamente dopo la pubblicazione della Teoria Generale, mentre gli allievi più radicali di Keynes cercarono di svilupparne i contributi più innovativi, gli economisti più vicini alla scuola tradizionale cercarono di ricondurre l’analisi keynesiana in un ambito più abituale. Un primo modo di farlo consistette nei cosiddetti effetti Keynes e Pigou. Attraverso questi effetti si intendeva mostrare che riduzioni dei salari monetari potevano rivelarsi sufficienti a realizzare la piena occupazione, ripristinando dunque una conclusione tradizionale, sebbene in un contesto keynesiano. 4.1. Effetto Keynes L’effetto Keynes può così essere illustrato. In presenza di disoccupazione e con flessibilità nel mercato del lavoro i salari nominali diminuiscono, ed anche il livello dei prezzi diminuisce liberando, per così dire, moneta dallo scopo delle transazioni (a parità di reddito reale, il reddito nominale diminuisce). Con la moneta così liberata i soggetti comincerebbero a domandare titoli per impiegare la moneta in eccesso, quindi il prezzo dei titoli salirebbe e il tasso di interesse diminuirebbe (gli stessi effetti di una operazione di mercato aperto). Quindi, a meno di essere in trappola della liquidità, l’effetto finale di una diminuzione dei salari monetari sarebbe analogo a quello di un aumento dell’offerta di moneta da parte della banca centrale. Se ne concluderebbe, dunque, che la responsabilità del tasso di interesse troppo alto, e dunque della disoccupazione, è nella volontà dei sindacati di non accettare salari nominali più bassi.51 In pratica si ammette che è difficile per i sindacati far accettare ai lavoratori una diminuzione dei salari nominali, per cui per Lo-a studente-essa accorti osserveranno che affinché l’occupazione aumenti, in un ambito teorico neoclassico, è il salario reale a dover diminuire (perché?), non basta la diminuzione di quello nominale. Nei fatti, quando il w nominale diminuisce, e di conseguenza il tasso di interesse si abbassa e gli investimenti aumentano, aumenta anche la produzione. Le imprese hanno curve di costo crescenti, per cui i prezzi aumentano. Si può dire allora questo: quando w nominale cala, i prezzi diminuiscono a causa della diminuzione del costo del lavoro, per cui il salario reale w/p resta costante; quando però la produzione aumenta, i costi per unità di prodotto aumentano e con essi i prezzi. A questo punto w/p diminuisce, giustificando l’aumento dell’occupazione da parte delle imprese. 51 78 diminuire il tasso di interesse è preferibile agire accrescendo l’offerta di moneta. Però l’idea di principio che si fa passare è pre-keynesiana: la responsabilità della disoccupazione risiede nella tenacia dei lavoratori a difendere salari nominali troppo alti. Ma qual è la relazione fra Keynes e l’effetto Keynes? Il punto è che la sequenza ora descritta fu esposta proprio da Keynes, il quale riteneva però che il saggio di interesse fosse rigido verso il basso (per le ragioni esposte sopra). La diminuzione dei salari monetari sarebbe stata da questo punto di vista inutile, anzi dannosa perché la caduta dei salari nominali avrebbe depresso ulteriormente l’economia peggiorando le aspettative. La rigidità del saggio di interesse verso il basso è però un argomento debole (come visto sopra). Graficamente (fig.1) l’effetto Keynes può esser visto come uno spostamento della funzione di offerta di moneta, dove la quantità di moneta è misurata in termini reali, cioè divisa per il livello dei prezzi (Ms/P), prezzi che a loro volta dipendono dai salari. Figura 1 4.2. Effetto Pigou L’effetto Pigou muove dalla considerazione che le decisioni di consumo non sono influenzate solo dal reddito corrente, ma anche dalla ricchezza, finanziaria e immobiliare. Possiamo scrivere la funzione del consumo come C = C( YD isp , Wf p , We ), dove YD isp indica il reddito disponibile, W f la ricchezza finanziaria, p il livello dei prezzi, We la ricchezza immobiliare. Come per l’effetto Keynes, anche nell’Effetto Pigou la presenza di disoccupazione e concorrenza nel mercato del lavoro la diminuzione dei salari monetari fa diminuire i prezzi. Si determina allora un effetto ricchezza: il valore reale della ricchezza finanziaria, Wf p , detenuta dai soggetti si accresce stimolando la domanda di beni di consumo, il reddito e l’occupazione. Anche in questo caso il meccanismo non è molto plausibile: la deflazione di prezzi e salari sarebbe un 79 disastro per l’economia, in particolare per coloro che hanno debiti, il cui valore reale aumenterebbe determinando fallimenti a catena (il destino dei creditori è infatti legato a quello dei debitori). Si pensi a cosa accadrebbe alle famiglie con mutui immobiliari. Se i prezzi e salari nominali cadessero, esse si troverebbero con meno entrate per far fronte al pagamento di rate di mutuo il cui valore non muta, essendo legato al valore d’acquisto dell’abitazione, valore che per giunta ora è caduto (e ciò ha un effetto ricchezza negativo sui consumi sentendosi le famiglie impoverite da questo punto di vista). Il fallimento delle famiglie nel ripagare il loro debito si ripercuoterebbe sulle banche che hanno loro concesso credito, e di rimbalzo su coloro che hanno prestato i propri risparmi alle banche e così via. Lasciando da parte il caso estremo (ma sino a un certo punto) del fallimento dei debitori, si deve inoltre ritenere che la propensione al consumo dei debitori sia superiore a quella dei creditori (sennò non sarebbero creditori). La deflazione dei prezzi avrebbe dunque un effetto positivo sulla ricchezza del gruppo con la propensione al consumo più bassa, e negativo sul gruppo con la propensione al consumo più elevata, diminuendo al netto la propensione al consumo aggregata, con effetti netti negativi sulla domanda, al contrario di quanto atteso in base all’effetto Pigou.52 Da ricordare inoltre come la deflazione si autoalimenti in quanto gli acquirenti razionali, vedendo cadere i prezzi, rimanderanno i propri acquisti, se possibile, in attesa di prezzi ancora più bassi, e ciò aggrava il fenomeno deflazionistico.53 Questa critica è assai attuale nel contesto della critica alle politiche di austerità europee. In sintesi, a partire dai due effetti Keynes e Pigou, la causa della disoccupazione poté essere di nuovo attribuita alla rigidità dei salari (nominali), come si sosteneva prima di Keynes. Più concretamente, anche considerati gli effetti negativi che una deflazione può avere sull’economia, si affida alla politica monetaria la determinazione di un saggio di interesse di piena occupazione, come mostrato dalla figura 2. Rimane tuttavia la valenza, anche ideologica, di aver potuto attribuire nuovamente alla rigidità dei salari, e dunque dei sindacati, la causa della disoccupazione. L’unico effetto positivo si avrebbe sulla quantità di moneta creata dalla banca centrale (o moneta esterna) detenuta dal pubblico. Questa è l’unica vera ricchezza finanziaria netta del pubblico; infatti tutto il resto della ricchezza finanziaria consiste di attività (crediti) per una parte del pubblico a cui corrispondono passività (debiti) per l’altra parte del pubblico. Nella ricchezza del settore privato andrebbe anche incluso il debito pubblico. Si tratta però di vedere se lo Stato, vedendo accrescere il valore reale del proprio debito a fronte di una imposizione fiscale che si riduce in seguito alla deflazione dei redditi e dei prezzi, non riduce la propria spesa compensando così i possibili effetti positivi dovuti all’effetto ricchezza sui consumi dei possessori del debito (possessori che peraltro apparterranno al ceto medio-alto, quello con la miniore propensione al consumo). 52 Le “bolle” finanziarie e immobiliari che hanno caratterizzato l’economia americana negli ultimi decenni sono analizzabili attraverso la funzione del consumo sopra illustrata come un aumento di Wf o di We, rispettivamente. 53 80 Figura 2 4.3. La sintesi neoclassica ed il modello IS/LM Nel 1937 un importante articolo dell’economista britannico John Hicks presentò il modello IS/LM che sintetizzava elegantemente molti risultati di Keynes, ma enfatizzandone l’aspetto che più esponeva questo autore ad essere ricondotto in un alveo tradizionale, cioè la dipendenza degli investimenti dal tasso dell’interesse. Hicks, Alvin Hansen, Franco Modigliani, Joseph Tobin, Robert Solow, Paul Samuelson (tutti premi Nobel) e tanti altri furono dunque definiti come economisti della “sintesi neoclassica”, sintesi fra Keynes e teoria tradizionale. I teorici della sintesi neoclassica concessero a Keynes che in taluni casi estremi potesse scattare la trappola della liquidità, ma ridussero questo – anche giustamente – ad un caso particolare. In generale, essi argomentarono, la politica monetaria può convincere gli operatori ad accettare la discesa dei tassi di interesse. I teorici della sintesi accolgono dunque la determinazione monetaria del tasso di interesse introdotta da Keynes, ma non la ritengono incompatibile con la determinazione neoclassica sulla base delle funzioni di domanda e offerta di risparmio. Essi erano anche pronti ad ammettere che gli investimenti potessero essere poco reattivi a variazioni del tasso di interesse, e che dunque vi fosse spazio per la politica fiscale. Una volta dunque dimostrato nella teoria che i precetti keynesiani fossero riconducibili nell’ambito della teoria tradizionale, essi potevano anche ammettere che in pratica le politiche keynesiane erano frequentemente utili. Il modello IS/LM è correntemente spesso definito a “prezzi fissi” o di “breve periodo” intendendo con ciò che nel “lungo periodo” i prezzi vanno considerati “flessibili”. In verità le variazioni dei prezzi, dunque la spiegazione dell’inflazione, erano tenute da conto dal modello ISLM attraverso la cosiddetta curva di Phillips, di cui ci occuperemo a lungo. In sintesi la curva di Phillips esprime il “trade-off” fra inflazione e disoccupazione, nel senso che la politica economica 81 poteva scegliere fra meno disoccupazione al costo di una inflazione un po’ più alta o viceversa. I prezzi sono “fissi” nel senso che i soggetti, in particolare i lavoratori, prendono le proprie decisioni non tenendo conto del tasso di inflazione atteso. La successiva critica monetarista ha sottoposto tale ipotesi a critica sostenendo che nel lungo periodo - ma vedremo secondo la scuola delle aspettative razionali, anche nel breve – le scelte dei soggetti su, per esempio, quanto produrre o quanto lavorare, non possono non incorporare aspettative sul livello dei prezzi. La determinazione dei livelli di produzione e dei prezzi diventa allora necessariamente contestuale – non lo era nel modello IS/LM dove si determinano prima i livelli di output e di occupazione, e poi via curva di Phillips il tasso di inflazione. La considerazione contestuale dei livelli di produzione e dei prezzi avviane col modello AS/AD che però non viene trattato in questo corso. 4.3.1. La funzione IS Riscriviamo la formula della determinazione del reddito via moltiplicatore facendo tuttavia dipendere gli investimenti dal tasso di interesse, cioè I = I(i): Y 1 [ I (i ) G E ] . 1 c(1 t ) m L’equazione mostra, per dati valori dei parametri e di G ed E, una relazione inversa fra Y ed i: in altri termini se i diminuisce, I aumenta e, ceteris paribus, Y aumenta. Graficamente (fig.3) otteniamo la cosiddetta funzione I/S (Investment/Saving). Essa è definita come il luogo dei punti di equilibrio fra investimenti e risparmi, in quanto se i primi si accrescono, come sappiamo il reddito deve anche espandersi per far aumentare i risparmi. In sintesi lungo la IS, se i diminuisce, I aumenta, Y aumenta, S aumenta. Dunque lungo la IS risparmi e investimenti sono sempre in equilibrio, e se essi sono in equilibrio vuole anche dire che il mercato dei beni è in equilibrio. Allora la IS è definita anche come luogo di equilibrio del mercato dei beni. Figura 3 Come si vede, la pendenza della IS fondamentalmente dipende dalla elasticità (cioè dalla reattività) degli investimenti ai risparmi. La posizione della IS nello spazio dipende invece da (i) G e dalle cosiddette (ii) esportazioni nette. 82 (i) Se la spesa pubblica, per esempio, si accresce la IS si traspone verso destra. Infatti, a parità di i, una maggiore domanda autonoma genera un incremento del reddito. (ii) le esportazioni nette sono la differenza fra esportazioni e importazioni: E – M = NX (nei fatti sono il saldo della bilancia commerciale). Se, ad esempio, E aumenta questo farà aumentare, come sappiamo, Y. Tuttavia parte della domanda si rivolgerà a prodotti stranieri, per cui l’aumento finale di reddito dipenderà dal saldo fra l’effetto positivo delle esportazioni e da quello negativo delle importazioni, cioè dalle esportazioni nette. Un incremento delle esportazioni nette indurrà dunque una trasposizione delle IS verso destra. Su questo torneremo nel cap.10. Se, come sostengono gli economisti non-neoclassici, gli investimenti fossero indipendenti dal tasso dell’interesse, la IS sarebbe verticale, e la sua posizione sarebbe sempre determinata da G ed NX (fig.4). Figura 4 Se tuttavia consideriamo fra le spese autonome i consumi autonomi, questi ultimi poiché consistono di acquisti finanziati dal credito al consumo – acquisiti a rate per esempio – sono influenzati negativamente dal tasso di interesse. Anche l’attività edilizia, che dipende dalla domanda di abitazioni a sua volta influenzata dal costo dei mutui, presenta una relazione inversa con livello del tasso di interesse. Per questi motivi la IS potrebbe comunque presentare un andamento decrescente. La funzione IS esprime dunque i valori di Y in funzione di i. Ma come si determina i? 4.3.2. La funzione LM La funzione LM riguarda invece l’equilibrio nel mercato della moneta. Data l’offerta di moneta M , sappiamo che la domanda di moneta si suddivide in domanda di moneta per transazioni, che dipende da Y, e speculativa, che dipende da i, per cui in equilibrio: M M T (Y ) M S (i) . Data l’offerta di moneta, supponiamo che i aumenti. Il prezzo dei titoli, come sappiamo, diminuirà ed i soggetti saranno invogliati a detenere più titoli, sia per il più appetibile tasso di 83 interesse, sia perché sperano in un successivo rialzo del loro valore (sì da rivenderli e conseguire un ‘capital gain’). Si ‘libera’ perciò moneta speculativa (i soggetti, in altri termini, detengono meno moneta ‘speculativa) che è utilizzabile a scopo transattivi. La domanda di moneta transattivi aumenta però solo se il reddito aumenta. Se ne conclude che l’equilibrio nel mercato della moneta richiede che a più elevati tassi di interesse corrispondano livelli di reddito anche più elevati.54 La forma della LM sarà dunque quella della figura 5. Figura 5 Mentre la pendenza della curva riflette la funzione della preferenza per la liquidità, la posizione della curva riflette il livello di offerta di moneta. Se M aumenta (chi la aumenta e come?), a parità di tasso di interesse (e di domanda di moneta speculativa) ci vorrà un livello di Y maggiore per ‘assorbire’ la maggiore quantità di moneta offerta. Una maniera semplice per rammentare la LM è di pensare che il tasso di interesse, nella visione che origina da Keynes, è il “prezzo della liquidità”: ciò che chiediamo per separarci dalla liquidità. Allora se Y aumenta, e c’è richiesta di maggiore liquidità (per esempio dalle imprese che intendono accrescere la produzione), data l’offerta di moneta, i non può che aumentare. Mettendo assieme le funzioni IS ed LM otteniamo la determinazione simultanea del reddito e del tasso di interesse: 54 Alternativamente si supponga che Y aumenti. Gli imprenditori che vorranno accrescere la produzione per soddisfare la maggiore domanda venderanno titoli allo scopo di procacciarsi liquidità per acquistare materie prime, beni intermedi ecc. Il prezzo dei titoli diminuisce ed i tasso di interesse aumenta. La liquidità proverrà dalle famiglie che dal loro canto vorranno spostare i propri risparmi da forma liquida in titoli. 84 Nelle più moderne versioni del modello IS-LM la LM non c’è, sostituita da una retta orizzontale che rappresenta il tassi di interesse fissato dalla banca centrale. 85 5. Il dibattito sulla Curva di Phillips e l’indipendenza della Banca Centrale 5.1. La critica di Friedman Per gli economisti della Sintesi Neoclassica la curva di Phillips rappresentasse un menu di scelte per i policy makers relative alla combinazione di disoccupazione e inflazione preferita. Come visto sopra, analiticamente la curva di Phillips originaria può essere scritta come: w f (u) w dove f rappresenta una funzione negativamente inclinata. Se in luogo della variazione dei salari monetari mettiamo il tasso di variazione dei prezzi si ha: inflazione p f (u ) . Chiamiamo il tasso di p p . p La relazione inversa fra disoccupazione e tasso di inflazione sembrò funzionare sino alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Negli anni settanta la curva di Phillips sembrò assumere un andamento verticale, cioè tassi più elevati di inflazione erano associati ad un medesimo tasso di disoccupazione. L’interpretazione che prevalse fu quella di Milton Friedman, principale esponente della scuola monetarista. Questi economisti affermano che solo se i lavoratori soffrono di “illusione monetaria” la politica monetaria può accrescere l’occupazione. Per comprendere il punto si deve aver molto chiaro che, secondo questi economisti, chi non lavora lo fa per scelta deliberata di non offrirsi al salario reale corrente: solo la possibilità - o l’illusione - di poter lavorare ad un salario reale più elevato può indurre i disoccupati volontari ad entrare nel mercato del lavoro. Si supponga che il governo attraverso le opportune operazioni di mercato aperto diminuisca il tasso di interesse. A questo minore tasso di interesse le imprese intendono investire di più e ciò induce un primo aumento dei prezzi per l’accresciuta domanda di prodotti a fronte di una produzione ancora immutata. L’aumento dei prezzi induce le imprese a cercare di accrescere produzione ed occupazione, ed a questo scopo offrono salari nominali più elevati per attirare nuovi lavoratori. Le imprese, inoltre, si muovono lungo curve di costo crescenti. Dalla microeconomia sappiamo infatti che la curva di offerta dell’impresa è, almeno nel breve periodo, coincidente con la curva dei costi marginali. Dalla figura 1, dove è riprodotta la funzione dei costi marginali di una impresa (v. cap.5), si evince che se il prezzo del bene aumenta, aumenta la quantità offerta, ma aumentano anche i costi di produzione.* Per la teoria marginalista i costi di produzione sono crescenti anche nel lungo periodo per l’esistenza di “fattori scarsi” a livello di industria (v. cap. 5). * 86 Abbiamo dunque i seguenti fatti: 1) i prezzi sono aumentati sia per l’accresciuta domanda dovuta alla politica monetaria espansiva che ha indotto gli imprenditori ad investire di più, che per i costi marginali crescenti che gli imprenditori incontrano nell’accrescere la produzione; 2) i salari monetari sono aumentati perché per accrescere la produzione le imprese devono attirare nuovi lavoratori (oppure pagare ore di lavoro straordinarie). Secondo questi autori l’aumento dei prezzi sopravanza quello dei salari nominali, per cui il salario reale w/p sta diminuendo. D’altronde, come sappiamo, solo se il salario reale è diminuito le imprese mantengono l’aumento della produzione (infatti, dato che il prodotto marginale è decrescente, un aumento della produzione si giustifica solo se w/p diminuisce). Dunque, se i prezzi aumentano più dei salari nominali, questo giustifica l’aumento della produzione e dell’occupazione: infatti le imprese si muovono lungo la curva del prodotto marginale del lavoro che è decrescente, e l’occupazione può dunque aumentare solo se il salario reale diminuisce.55 Questo risultato emerge, tuttavia, solo se i lavoratori non si accorgono che p è cresciuto più di w, per cui w/p è calato. Essi, cioè, si illudono di guadagnare di più in termini reali – cioè che w sia cresciuto più di p – e chi prima non intendeva lavorare ora lo fa, o fa più ore di straordinario. In altri termini, se i lavoratori soffrono di “illusione monetaria”, credono di star meglio perché guadagnano di più in termini nominali (per esempio il 25% di più in busta paga), non accorgendosi che, come si ipotizza in questa storia, essendo i prezzi aumentati in misura più grande (diciamo del 50%), essi sono più poveri in termini reali. Anzi, scambiando l’aumento del salario nominale per un aumento del salario reale altri lavoratori si offrono più numerosi nel mercato del lavoro o fanno più straordinari. E lo trovano, poiché al contempo la diminuzione del salario reale Del resto, l’andamento della curva dei costi marginali crescenti e quella del prodotto marginale del lavoro sono fenomeni fra loro collegati. I costi marginali, dato lo stock di capitale, sono crescenti in quanto il prodotto marginale dei fattori è decrescente: unità successive di lavoro, per esempio, sono sempre meno produttive (più precisamente hanno un prodotto marginale minore); allora aumentano i costi del lavoro per produrre successive unità di prodotto. 55 87 accresce la domanda di lavoro da parte delle imprese. In sostanza, nei termini del grafico della figura 2, i lavoratori pensano che il salario reale sia (w/p)* mentre nei fatti è (w/p)**. 56 L’analisi può essere estesa anche al singolo produttore. Si supponga che un aumento dell’offerta di moneta generi inflazione. Un singolo imprenditore, per esempio di automobili, potrebbe attribuire l’aumento del prezzo delle automobili ad un aumento della domanda di auto, non accorgendosi che tutti i prezzi stanno aumentando. Nel breve periodo potrebbe perciò accrescere la produzione e l’occupazione. Col tempo però si accorgerà di essersi illuso. 56 88 I monetaristi ritengono che con il tempo, tuttavia, i lavoratori si accorgeranno che stanno rimettendoci, e salario e occupazione tornano ai loro valori di equilibrio. Friedman e seguaci affermano dunque che la politica monetaria è efficace nel breve periodo, in presenza di illusione monetaria, ma è inefficace nel lungo periodo. Vedremo che, in assenza di illusione monetaria, cioè con aspettative razionali, la politica monetaria è inefficace anche nel breve periodo. La curva di Phillips tradizionale era stata interpretata dai keynesiani della “sintesi neoclassica” (v. cap. 3) come un criterio di scelta per i governanti fra inflazione e disoccupazione: si poteva avere meno disoccupazione solo al prezzo di un po’ più di inflazione (questa dovuta al rafforzamento dei sindacati e all’aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese). In genere il prezzo di un po’ più di inflazione era ritenuto accettabile. I monetaristi cambiano l’analisi: la politica monetaria accresce l’occupazione perché i lavoratori soffrono di illusione monetaria. L’esperienza dalla fine degli anni ’60 e degli anni ‘70 (quando si parlò di stagflazione, cioè elevata inflazione e alta disoccupazione) mostrerebbe che quando smettono di soffrire di illusione monetaria la politica monetaria non sarebbe più efficace, creando solo inflazione. La curva di Phillips, dicono, diventa verticale in corrispondenza al tasso naturale di disoccupazione (fig. 3).57 57 Verticale nel senso che qualunque tasso di inflazione (anche infinito) con aspettative razionali non fa spostare la disoccupazione dal suo tasso naturale. 89 Con questo concetto i monetaristi conciliano il fatto che le economia siano sostanzialmente in equilibrio di piena occupazione (non vi sono cioè disoccupati involontari) con il fatto che nella realtà di rilevano tassi positivi di disoccupazione (persone in cerca di lavoro), peraltro piuttosto cospicui a partire dagli anni ’70. Essi sostengono infatti che si tratta di disoccupati volontari, persone che stanno sì cercando un lavoro, ma a un salario reale superiore di quello corrente. Il tasso di disoccupazione naturale” corrisponde a quello determinato sulla base dell’equilibrio fra domanda e offerta di lavoro. Nella figura 4, la linea verticale tratteggiata corrisponde alla popolazione in età lavorativa (in genere si considera quella 15-64 anni). Parte di questa deciderà però di non lavorare al tasso di equilibrio. Costoro sono i disoccupati volontari. 90 La formulazione analitica della Curva di Phillips secondo Friedman è: w f (u) e w dove e è il tasso di inflazione atteso. Questo vuol dire che i lavoratori tengono conto dell’inflazione attesa nel formulare le loro richieste di aumento dei salari nominali. Questa si chiama “curva di Phillips aumentata per le aspettative”. In termini di tasso di inflazione corrente essa può essere scritta come: f (u) e . L’implicazione è che non esiste più un’unica curva di Phillips, ma per un dato tasso di disoccupazione esisteranno diverse curve di Phillips a seconda dell’inflazione attesa. In particolare esse giaceranno tanto più in alto, quanto più elevata è l’inflazione attesa, come mostrato nella figura 5 dove ciascuna delle due curve è definita per un dato livello di inflazione attesa e 1e < 2e : 91 Supponiamo di partire da un tasso di disoccupazione uguale a quello naturale u n . Supponiamo pure che i lavoratori si attendano una inflazione zero, pari a quella da loro sinora sperimentata (ipotizziamo dunque aspettative adattive). Dunque tracciamo una prima curva di Phillips per un livello di aspettative 1e 0 (fig. 6). Se la politica monetaria cerca di far scendere la disoccupazione sotto il livello naturale, da u n a u1 , l’inflazione aumenta a 1 . I lavoratori, tuttavia, presto o tardi si accorgeranno che il loro salario reale non è aumentato e chiederanno un aumento del tasso di indicizzazione del salario monetario in linea con il tasso di inflazione 1 e la disoccupazione torna a u n .Ci troviamo tuttavia ora un seconda curva di Phillips in cui le attese di inflazione sono pari all’inflazione corrente, cioè 2e 1 . Se le autorità di politica monetaria intendono tentare di nuovo di ridurre la disoccupazione a u1 , dovranno generare un ancor più elevato livello di inflazione 2 . Col tempo, tuttavia, i lavoratori rivedranno di nuovo le proprie aspettative chiedendo un allineamento del tasso di variazione dei salari monetari a 2 , e la disoccupazione torna al livello naturale, si genera una terza più alta curva di Phillips e così via. Si può dunque concludere che nel lungo periodo la curva di Phillips sia verticale in corrispondenza del tasso di disoccupazione naturale. 92 Si può anche osservare che in corrispondenza del tasso naturale, l’inflazione non sia necessariamente zero, ma possa essere positiva. Più recentemente dunque, in luogo di tasso naturale di disoccupazione, si parla di NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment), intendendo con esso quel tasso di disoccupazione per cui l’inflazione rimane costante (non accelera). I dati empirici mostrerebbero che se la curva di Phillips viene stimata rispetto a t t 1 , essa mantiene l’andamento decrescente originario (fig.7). Ovviamente il NAIRU si ha dove t t 1 0 , cioè dove l’inflazione fra il tempo t e t-1 non varia. 93 5.2. La critica di Lucas In quanto abbiamo sinora visto, i lavoratori hanno aspettative adattive, cioè si attendono una inflazione futura pari a quella corrente. Questo sarebbe però, secondo l’economista americano Lucas (in seguito premio Nobel) un comportamento non razionale: i soggetti cercheranno infatti di utilizzare tutta l’informazione corrente, incluso ciò che sta facendo la Banca Centrale, per formulare le proprie aspettative. In pratica i lavoratori, o i sindacati, conoscono la teoria economica (quella ora esposta), e se vedono la Banca Centrale espandere l’offerta di moneta cercando di ridurre la disoccupazione, reagiranno chiedendo aumenti dei salari nominali in linea con l’inflazione attesa, smorzando in tal modo sul nascere l’iniziativa della Banca Centrale. Si dice anche che i lavoratori hanno “aspettative razionali”, cioè usano tutta l’informazione disponibile per non essere sorpresi dall’inflazione e vedere decurtati i propri salari reali. La politica monetaria sarebbe quindi inefficace per accrescere l’occupazione anche nel breve periodo, e la curva di Phillips sarebbe verticale anche nel breve periodo. A conclusione della discussione della curva di Phillips, si può argomentare che in generale esista una relazione inversa fra variazione di salario e prezzi, da un lato, e tasso di disoccupazione, dall’altro. La differenza fra keynesiani e monetaristi è che politiche economiche espansive condurrebbero a una diminuzione della disoccupazione involontaria per gli uni, di quella volontaria per gli altri. Per questi ultimi, la riduzione della disoccupazione basandosi sull’illusione monetaria, sarebbe effimera. 94 Altra differenza riguarda la correlazione negativa fra disoccupazione e inflazione. Per i monetaristi solo una maggiore inflazione in presenza di illusione monetaria può far diminuire la disoccupazione che è eminentemente volontaria. Per i keynesiani, diminuzioni della disoccupazione sono associate a maggiore inflazione in quanto i sindacati saranno più forti e chiederanno aumenti salariali. I keynesiani spiegano infine il fatto che al principio degli anni ’70 la curva di Phillips diventa verticale, mostrando una associazione fra elevata disoccupazione ed elevata inflazione, non con la presenza di aspettative razionali e la storiella Friedman-Lucas, ma più semplicemente dovuta agli shock petroliferi. Indipendentemente dal livello della disoccupazione i prezzi tendevano a crescere per l’aumento esterno del petrolio. A ben vedere al fondo dell’idea di disoccupazione naturale, Nairu ecc. c’è l’idea che quello è il tasso al quale sindacati e lavoratori sono sufficientemente deboli da non mettere in dubbio la distribuzione del reddito esistente (vedi il saggio di Kalecki in appendice). Certo, con sindacati più forti l’inflazione aumenta, ma questo non per attirare nel mercato del lavoro disoccupati volontari vittime di illusione monetaria, ma perché l’inflazione è manifestazione di un conflitto distributivo, come visto sopra. La studentessa si accerti di aver ben compreso queste critiche. 5.3. Norme e discrezionalità nella politica economica; incoerenza dinamica e indipendenza della Banca Centrale Nella sua forma più semplificata il precetto monetarista è che la Banca Centrale deve accrescere la quantità di moneta a un tasso prefissato (per esempio il 3% all’anno), mentre dovrebbe astenersi da interventi che accrescono il reddito nel breve ma non nel lungo periodo. Ma come assicurarsi che tale indicazione venga rispettata? I keynesiani della Sintesi Neoclassica, dal canto loro, non sono favorevoli a regole prefissate, ma ritengono utili interventi di politica fiscale e, soprattutto, monetaria, volti a regolare (fine tuning) il ciclo economico. Tuttavia anch’essi si pongono la questione di come impedire che la politica monetaria vada oltre questo scopo circoscritto. La politica monetaria dovrebbe dunque essere condotta con discrezionalità, oppure seguire delle norme prefissate? Un esempio di norma potrebbe essere la seguente: M 3 2(u u n ) . Supponendo, per M esempio, dato un 6% , che u fosse 3%, la Banca Centrale dovrebbe ridurre il tasso di crescita della moneta a –3% allo scopo di far contrarre la produzione e ricondurre la disoccupazione corrente a quella naturale. Nel lungo periodo u un e dunque la moneta si dovrebbe accrescere al tasso del 3%. Sorge però la questione della incoerenza dinamica, cioè del non rispetto delle norme annunciate. Abbiamo invero visto che con aspettative razionali la politica monetaria è inefficace 95 anche nel breve periodo. Solo se i soggetti sono “sorpresi” da una inflazione inaspettata e non fanno in tempo ad adeguare i propri prezzi - in sostanza i lavoratori non adeguano i salari nominali all’ inaspettata inflazione - l’occupazione può aumentare. Questo può accadere se il governo dichiara nei propri programmi di non voler ricorrere a simili metodi, i soggetti ci credono, ma poi il governo stesso – magari per guadagnare consensi in prossimità delle elezioni – ricorre ad una inflazione a sorpresa per accrescere l’occupazione. Una Banca centrale che fosse tenuta ad adeguarsi alle indicazioni dei politici, si dice, non sarebbe credibile. Meglio allora rendere la Banca Centrale istituzionalmente autonoma ovvero indipendente dai governi, assegnandole il compito prioritario di combattere l’inflazione. Su queste basi è stata costruita la Banca Centrale Europea. La Federal Reserve degli US è invece meno autonoma, ed deve contemperare l’obiettivo dell’occupazione con quello dell’inflazione. Ma al di là delle finzioni, nemmeno la Banca Centrale Europea è veramente autonoma. Da un lato essa non può non rispondere ai governi che aderiscono alla moneta unica, in particolare alla potenza europea dominante. Dall’altro la finzione dell’autonomia può far comodo perché in tal modo la funzione di controllo dei salari reali attraverso elevati tassi di disoccupazione viene affidata ad un organismo apparentemente autonomo, sicché i governi possono sempre sostenere che l’elevata disoccupazione che non è loro responsabilità.58 In sintesi possiamo dire che la filosofia su cui si basa l’Unione Monetaria Europea, incorporata anche nel cosiddetto Trattato Costituzionale Europeo – secondo alcuni non sorprendentemente bocciato ai referendum francese e danese -, è quello della dicotomia neoclassica fra settore reale e settore monetario. In base a tale dicotomia la politica monetaria non ha effetti reali nel lungo periodo. Secondo i moderni sviluppi di tale approccio, tuttavia, la politica monetaria può determinare effetti reali nel breve, ma che sono di natura effimera - basati sull’illusione monetaria. Per cui tanto vale affidare la politica monetaria ad un organismo indipendente che badi solo a controllare il tasso di inflazione - tenendolo su valori molto bassi. In tal modo il settore reale potrà svilupparsi in maniera ordinata sotto la sferza delle politiche di tutela della concorrenza e del mercato anche sollecitate dalla legislazione europea. Secondo numerosi economisti questa filosofia è alla base della stagnazione dell’economia europea in anni recenti. Esercizi: (a) Lo/a studente/ssa discuta con i suoi colleghi se, a loro avviso, alla luce della teoria marginalista l'esistenza dei sindacati dei lavoratori sia da giudicarsi positivamente o negativamente. 58 Circa le ragioni per cui il capitalismo può preferire elevati tassi di disoccupazione, v. M.Kalecki, Aspetti politici del pieno impiego, in M.Kalecki, Sul capitalismo contemporaneo, Editori Riuniti (in appendice, lettura obbligatoria). Per una visione alternativa dell’inflazione, v. più avanti. 96 (b) Attraverso quale meccanismo si realizza, secondo la teoria marginalista, l'equilibrio ex post fra risparmi e investimenti? (c) Cosa si intende per offerta di moneta, e con quali strumenti le autorità di politica monetaria la controllano? (d) che relazione c’è fra credibilità e indipendenza della Banca centrale? 97 6. Il modello AS-AD Il modello AS-AD (Aggregate Supply-Aggregate Demand) può essere considerato come uno sviluppo del modello IS-LM in cui, a differenza di quest’ultimo, i prezzi non sono considerati fissi bensì variabili. Le variazioni di prezzi e salari in dipendenza dei diversi livelli di output e occupazione (disoccupazione) erano già state considerate avvalendosi della curva di Phillips. Si era lì distinto fra risultati di breve periodo, quando il tasso di disoccupazione, nell’ipotesi di aspettative adattive, poteva allontanarsi dal suo livello naturale seppure al prezzo di un aumento del livello dei prezzi (o accelerazione del tasso di inflazione), e di lungo periodo, quando qualunque aumento del livello dei prezzi (o accelerazione del tasso di inflazione) sarebbe stato inutile per “schiodare” la disoccupazione dal suo tasso naturale. Le conclusioni raggiunte col modello AS-AD sono precisamente le medesime, per cui esso può essere visto come un modo alternativo a quello del capitolo 5 per descrivere le principali conclusioni della teoria macroeconomica convenzionale. 6.1. La funzione AD La funzione di domanda aggregata, che è una relazione decrescente fra livello dei prezzi e domanda aggregata (parte superiore della figura 6.1), si può ricavare in due modi. Una maniera diretta è attraverso gli effetti Keynes e Pigou visti nel capitolo 4. Quando il livello dei prezzi diminuisce, attraverso l’effetto positivo sulle scorte reali di moneta, o sulla ricchezza, aumenta la domanda aggregata di beni. In maniera più complessa, la funzione AD si può ricavare dalla funzione LM. Come abbiamo imparato studiando l’effetto Keynes, il tasso di interesse dipende dalla domanda e offerta di moneta in termini reali. In particolare una diminuzione del livello dei prezzi P determina un aumento dell’offerta di moneta in termini reali e una diminuzione del tasso di interesse. Sappiamo pure che la posizione nello spazio della funzione LM dipende dall’offerta di moneta, che ora stiamo misurando in termini reali. Dunque se in seguito a una diminuzione del livello dei prezzi l’offerta di moneta in termini reali aumenta, la funzione LM si sposta verso destra (parte inferiore della figura 6.1). Data la funzione IS ciò comporta un livello più elevato del reddito. Riportando le diverse coppie di P e Y nella parte superiore della figura 6.1 ecco che abbiamo ricavato la funzione AD.59 59 In effetti quello che abbiamo descritto è l’operare dell’effetto Keynes. 98 Si osservi ora che se le autorità di politica monetaria accrescono la quantità di moneta, dato il livello dei prezzi, la LM si sposta verso destra. La LM si sposta dunque verso destra sia perché P diminuisce, che perché M aumenta, e ciò non sorprende poiché la posizione della LM nello spazio dipende sia da P che da M (dipende da M/P). Ai fini della AD, tuttavia, non è irrilevante per quale ragione si sposta la LM. Come già visto, facendo diminuire P abbiamo tracciato la AD. Enunciamo dunque la regola seguente: quando muta P, la LM si sposta e l’economia si muove di conseguenza lungo la AD. Quando invece muta M, la LM si sposta, ma poiché il livello dei prezzi è dato, è la 99 AD a spostarsi. La figura 6.2. mostra gli effetti sulla AD di un aumento dell’offerta di moneta da M 0 a M 1 .60 Il lettore può naturalmente risultare sorpreso che il mutamento del reddito non abbia sortito effetti sul livello dei prezzi. Per considerare tali effetti dobbiamo introdurre la funzione di offerta aggregata AS. 60 Anche uno spostamento verso destra della IS in seguito, per esempio, di una politica fiscale espansiva determinerebbe, dato il livello dei prezzi, uno spostamento verso destra della funzione AD. Nel dibattito corrente si è tuttavia più interessati alla politica monetaria ritenuta più veloce nell’operare della politica fiscale. Contro la politica fiscale, soprattutto quando riguardi aumenti della spesa pubblica, ostano anche ragioni ideologiche. Nei fatti, in situazioni di grave depressione come quella cominciata nell’autunno 2008, i governi hanno dovuto far ricorso a dosi massicce di politiche fiscali espansive ritenute più efficaci della politica monetaria, impotente in situazioni in bilico verso la deflazione. 100 6.2. La funzione AS La funzione AS è una relazione crescente fra livello dei prezzi P e offerta aggregata. La figura 6.3. presenta una maniera di ricavare la AS che, peraltro, la mette in relazione con alcuni elementi discussi con la curva di Phillips. Vedremo come la AS possa addirittura presentarsi verticale (e questo ci rammenta come anche la curva di Phillips possa presentarsi verticale). In realtà la curva di offerta aggregata è la curva di Phillips sotto differenti spoglie. Il modello AS-AD si dimostra a questo punto interessante in quanto in esso entrano sia il modello IS-LM, via funzione AD, che la curva di Phillips, via AS. Nella figura 6.3 a sinistra in alto vi è la funzione di produzione, tracciata per un dato stock di capitale, dunque col solo lavoro come fattore variabile. La figura in alto a destra serve solo da “specchietto”. In basso a sinistra vi è la raffigurazione neoclassica del mercato del lavoro in cui la domanda di lavoro dipende dal salario reale w/P). In basso a destra si ricava la AS. Supponiamo ora di muovere da una situazione in cui, per un dato livello dei prezzi P0 e del salario w0 w vi è equilibrio nel mercato del lavoro. Attraverso la funzione di produzione determiniamo il livello di output Yn che riportiamo in basso a destra associandolo al corrispondente livello dei prezzi. Questo è l’equilibrio “naturale” o di lungo periodo. Se supponessimo un livello dei prezzi più elevato, diciamo P1 , a parità di salario monetario, il livello di occupazione di output sarebbe maggiore. Ripetendo l’esercizio per altri livelli dei prezzi, sempre a parità di salario monetario, si ottiene facilmente la funzione AS. Si può subito osservare che se il salario monetario si adeguasse immediatamente alle variazioni dei prezzi, sì da mantenere costante il salario reale, l’occupazione e l’output non si muoverebbero dal loro livello “naturale”. La funzione AS risulterebbe dunque verticale in corrispondenza a Yn . La lettrice accorta avrà subito intuito che una funzione AS crescente implica qualche forma di illusione monetaria da parte dei lavoratori. Si potrebbe per esempio ritenere che quando i prezzi aumentano, anche i salari nominali aumentano, ma in misura inferiore o con ritardo, ma che i lavoratori non se ne accorgono. Se l’adeguamento dei salari monetari fosse pieno e immediato – come nell’ipotesi di aspettative razionali – la AS risulterebbe verticale. 101 Un modo utile per guardare alla AS crescente è pensarla come relativa a un dato livello di prezzi atteso. Per esempio la AS della figura 6.3 è relativa a un livello dei prezzi atteso uguale a quello iniziale: P e P0 . Un aumento del livello di occupazione e prodotto al di sopra del livello naturale è possibile solo perché nonostante il livello dei prezzi sia aumentato da P0 a P1 , i lavoratori continuano ad attendersi un livello dei prezzi invariato, appunto P e P0 . Una volta che i lavoratori adeguano le loro aspettative, P e P1 , e i salari aumentano della stessa misura dei prezzi, si ripristina l’equilibrio precedente con un medesimo salario reale, funzione AS, come mostrato nella figura 6.4. w1 P1 w0 P0 e una nuova 102 Se invece i lavoratori adeguassero immediatamente le proprie aspettative di prezzo, e con esse i salari monetari richiesti, alla mutazione dei prezzi correnti, la AS risulterebbe verticale. La AS verticale è il cosiddetto caso “classico”. La dipendenza della AS dalle aspettative stabilisce un parallelo perfetto con la curva di Phillips “aumentata per le aspettative”, vista nel capitolo precedente. All’opposto troviamo il caso keynesiano di una funzione AS orizzontale. Per i keynesiani infatti l’economia si trova sovente con risorse di capitale e lavoro inutilizzate.61 In questo caso la legge dei rendimenti marginali decrescenti non si applica (non vi è infatti alcun fattore “scarso”), per cui la produzione può aumentare senza che sia richiesta una diminuzione dei salari reali. Almeno sino al punto in cui non si raggiunge il pieno impiego delle risorse la AS è dunque orizzontale: un aumento dell’output si svolge a prezzi costanti. 6.3. Equilibri di breve periodo e di lungo periodo 61 Un keynesiano doc direbbe “quasi sempre”. 103 Supponiamo che l’economia si trovi nel punto A della figura 6.5. al suo livello “naturale” di output. La AS è tracciata per aspettative di prezzo pari al livello iniziale dei prezzi P e P0 . Le autorità di politica economica attuano poi una politica monetaria espansiva tale da portare l’economia nel punto B. Come sappiamo infatti, quando M aumenta la AD si sposta verso destra. Scorriamo lungo la AS poiché i lavoratori non mutano se non nel tempo le proprie aspettative, per cui il salario monetario non muta. Poiché il nuovo livello dei prezzi P1 è superiore a quello atteso il salario reale è diminuito e ciò giustifica l’espansione della produzione da parte delle imprese. 62 Così a tale più elevato livello dei prezzi il reddito Y1 è al di sopra del suo livello naturale. Come già accennato ciò è solo possibile se i percettori di salario sono o sorpresi dall’azione del governo, per cui i salari monetari si adeguano con ritardo all’aumento dei prezzi, o perché c’è illusione monetaria, i salari crescono ma meno dei prezzi. Il primo caso è quello dei salari rigidi: i salari potrebbero essere stati, ad esempio, fissati sulla base di contratti a lungo termine per cui non si adeguano se non con ritardo all’aumento dei prezzi. I lavoratori, tuttavia, prima o poi rivedranno le loro aspettative, riscriveranno i loro contratti ecc, sicché l’adeguamento dei salari prima o poi si verificherà. A quel punto con le nuove aspettative P e P1 , come già sappiamo, la AS si sposta verso l’alto e l’economia si muoverà verso il punto A’, dove il reddito è più vicino al suo livello naturale. In corrispondenza al nuovo equilibrio di breve A’, tuttavia, il livello dei prezzi effettivo (non indicato nella figura) è di nuovo superiore a quello atteso. Il processo dunque si ripete sino a che l’economia non torna al suo equilibrio naturale con una AS tracciata per un livello dei prezzi atteso pari a quello effettivo Pe P2 . Il nuovo equilibrio naturale si verifica con un livello dei prezzi più elevato. Si può dunque concludere che nel lungo periodo, in maniera non dissimile da quanto sostenuto dalla teoria quantitativa della moneta, l’unico effetto di una politica monetaria espansiva è di far aumentare proporzionalmente il livello dei prezzi. La moneta è dunque neutrale nel lungo periodo. Nel breve periodo, tuttavia, si è verificato un aumento della produzione sopra il livello naturale. Il lettore avrà già da sé stabilito un parallelismo con quanto visto con la curva di Phillips. Lo spostamento della AD è dovuto allo spostamento verso destra della LM dovuto all’aumento di M. Anche i prezzi stanno aumentando, ma non in misura tale da “mangiarsi” tutto l’aumento di M. Se così fosse, la quantità di moneta in termini reali non sarebbe aumentata e neppure l’aumento dei prezzi si sarebbe verificato. Solo nell’equilibrio di lungo periodo l’aumento dei prezzi risulterà in misura precisamente proporzionale all’aumento della quantità di moneta. 62 104 Esaminiamo ora i casi estremi “classico” e keynesiano. Nel primo caso l’aggiustamento delle aspettative (o dei contratti) è immediato per cui la AS è verticale. In questo caso una politica monetaria espansiva si riflette immediatamente in un aumento dei prezzi senza influenzare la produzione (figura 6.6). 105 Nella figura 6.7 è descritto infine il caso keynesiano in cui gli spostamenti della AD determinano un aumento dell’output e non dei prezzi. Si suppone infatti che sino al punto in cui non si raggiunge la piena occupazione, Po, i prezzi rimangano costanti. Ciò dipende dalla natura involontaria della disoccupazione. Il lettore si cimenti a spiegare perché (suggerimento: i salari rimangono costanti almeno sino a quel punto). E’ chiaro che fra i casi classico e keynesiano si potrà trovare una gamma intermedia di casi più sbilanciati verso l’un caso estremo o l’altro. 6.4. Uno shock petrolifero L’ultimo caso che vogliamo considerare è il caso di un aumento del prezzo del petrolio. In questo caso le imprese avendo subito un aumento dei propri costi di produzione aumenteranno i prezzi (si pensi al meccanismo del mark up). Ciò significa che a parità di livello di output i prezzi sono più elevati: la AS si sposta verso l’alto (Figura 6.8). Si noti intanto che mentre la AS muove verso l’alto, l’economia “scorre” lungo la AD. Ciò non sorprende in quanto al più elevato livello dei prezzi l’offerta di moneta in termini reali si contrae e la LM (da cui abbiamo ricavato la AD) si sposta verso destra. Il nuovo punto di equilibrio A’ individua dunque un nuovo livello del reddito naturale e del tasso naturale di disoccupazione. Vi possono essere due spiegazioni per questo. Al nuovo più elevato prezzo del petrolio nel mercato del lavoro le imprese, avendo subito un aumento dei costi di produzione, possono offrire il medesimo livello di occupazione solo a un salario reale più basso (tecnicamente la curva di domanda di lavoro si sposta verso sinistra). Se l’offerta di 106 lavoro è elastica rispetto al salario reale (cioè è crescente rispetto al salario), al minore salario reale l’offerta di lavoro è minore, dunque il livello di occupazione e di produzione si contraggono. Una seconda spiegazione (Blanchard) è che in seguito all’aumento del prezzo del petrolio, per stabilizzare la situazione, cioè impedire una rincorsa inflazionistica salari-prezzi, è necessario un livello di disoccupazione più elevato per far accettare ai sindacati la nuova situazione (se il prezzo del petrolio è aumentato una fetta più grande del reddito nazionale va ai paesi esportatori di greggio, e qualcuno all’interno deve rinunciarvi; attraverso una maggiore disoccupazione questo qualcuno è individuato nei lavoratori). La situazione in cui vi è un aumento del livello dei prezzi dovuto, ad esempio, a uno shock nel prezzo delle materie prime ed energetiche mentre anche la disoccupazione aumenta è definito “stagflazione”, stagnazione reale più inflazione. Un episodio di questo tipo si verificò nell’economia dei paesi industrializzati negli anni ’70 del secolo scorso dopo il primo shock petrolifero. Si è riparlato di stagflazione a cavallo fra 2007 e 2008 quando il prezzo delle materie prime ed energetiche stava aumentando, e con esso il tasso di inflazione (sebbene non ai ritmi degli anni ’70), con le economie che rallentavano. Come ora sappiamo, l’aumento dei prezzi delle materie prime ed energetiche è dall’estate 2008 rientrato mentre la recessione ha accelerato. Y 6.5. Regola di Taylor Quali regole seguono le banche centrali (BC) nel prendere le loro decisioni ci politica monetaria? Molte BC, fra cui la BCE, perseguono l’obiettivo dell’”inflation targetting”, dunque hanno in mente un tasso di inflazione obiettivo, definiamolo * . Tuttavia esse non trascurano l’obiettivo di mantenere il tasso di disoccupazione al livello naturale. Tradizionalmente le BC 107 perseguivano l’obiettivo finale, il tasso di inflazione ( e di occupazione) desiderato, perseguendo un obiettivo intermedio definito in termini di tassi di crescita degli aggregati monetari.63 Si è tuttavia constatato che non vi era una relazione precisa fra andamento dell’offerta di moneta e tasso di inflazione. Le BC paiono invece ora invece perseguire come obiettivo intermedio un tasso di interesse desiderato. L’offerta di moneta diventa dunque endogena, cioè si adegua in maniera tale da realizzare, attraverso le operazioni di mercato aperto, l’obiettivo intermedio prefissato. Il tasso di interesse ha effetti evidenti sul livello di attività economica, sul tasso di disoccupazione e, data la curva di Phillips, sul tasso di inflazione. Più specificatamente, gli studi hanno suggerito che le banche centrali seguono la cosiddetta “regola di Taylor” (RT), dal nome dell’economista americano che l’ha proposta. La RT afferma che la BC aumenta (diminuisce) il tasso di interesse se si aspetta che l’inflazione e il reddito saranno al di sopra (al di sotto) del livello obiettivo. La regola di Taylor è espressa dalla formula seguente: it i* a( t *) b(ut un ) (6.1) Dove i * è il tasso di interesse nominale desiderato associato al tasso di inflazione desiderato * , it è il tasso di interesse nominale corrente, t è l’inflazione corrente, ut è il tasso di disoccupazione corrente e u n è il tasso di disoccupazione naturale; a e b sono coefficienti positivi che indicano l’importanza relativa che la BC assegna all’obiettivo inflazione o all’obiettivo disoccupazione, rispettivamente. La regola funziona come segue: - se t = * e ut = u n , la BC sta centrando entrambi gli obiettivi, e i * = it . Si osservi che in questa situazione il tasso di inflazione, seppur plausibilmente basso - l’obiettivo della BCE è per esempio un tasso del 2% -, è positivo. Diciamo che un tasso di inflazione del 2% è considerato “fisiologico”. L’idea teorica che c’è dietro il tasso nominale desiderato i * è che esso è associato al tasso di interesse reale naturale i r* = i * - * . Il tasso i r* è quello che pone in equilibrio il mercato risparmi-investimenti per cui l’economia è in piena occupazione, o più precisamente al suo tasso naturale di disoccupazione o, in maniera equivalente, l’output è al suo livello naturale. Si rammenti l’analisi di Wicksell: i r* è il tasso naturale di Wicksell! BOX tutto il mondo è spettacolo: come veramente ragionano le banche centrali Si osservi, tuttavia, che le BC non conoscono i r* , come peraltro non conoscono u n . Prendiamo la FED. Essa deve contemperare l’obiettivo dell’inflazione con quello di mantenere la disoccupazione a livello E’ chiara qui l’influenza della lezione monetarista di Friedman secondo cui la politica monetaria doveva seguire la regola di accrescere l’offerta di moneta in linea con la crescita del reddito reale, in maniera da soddisfare la crescente domanda di moneta per il motivo delle transazioni. 63 108 socialmente e politicamente tollerabile. Quanto valore assegna all’inflazione e quanto alla disoccupazione dipende dall’amministrazione in carica. Dato l’obiettivo inflazione il tasso di disoccupazione che lo fa realizzare viene denominato tasso naturale di disoccupazione – il che rivela che di “naturale” non c’è nulla, è una mera decisione politica! Per avvicinare u n la BC fissa un opportuno tasso di interesse nominale. Nell’equilibrio finale, dati i n e * resta determinato i r* . Ma allora di naturale non c’è nulla neppure nel tasso di Wicksell. O meglio, quello naturale è nel mondo della teoria. Nella pratica esso dipende da scelte politiche e l’appellativo “naturale” sembra svolgere una mera funzione ideologica. Ma l’economia neoclassica, quella dominante, è davvero una scienza simile per rigore alle hard sciences come sostengono i suoi fautori? - Se partendo da t = * , ut = u n , i * = it e i r* = i * - * , il periodo successivo si ha t 1 > * , assumendo a = 1, scrivendo la regola di Taylor it i* a( t *) b(ut un ) per il periodo t+1 si ha: it 1 i * ( t *) (1) in quanto ut = u n . Il nuovo tasso naturale reale sarà it*1,r it 1 t 1 ovvero, data la (1) it*1,r i * ( t 1 * ) t 1 , e cioè it*1,r i * * , dunque il medesimo tasso iniziale che nel periodo 1. Nei fatti la BC ha innalzato il tasso nominale per mantenere il tasso reale al suo livello naturale. Se non lo facesse tempestivamente si svilupperebbe, secondo questo approccio, un “processo cumulativo” alla Wicksell come descritto alla fine del cap.4. Con a = 1 la BC tollera tuttavia l’aumento dell’inflazione, anche se questo aumento non ha effetti reali in quanto il tasso reale di interesse non è variato: i r*,t = ir*,t 1 . Non v’è dunque ragione perché ut aumenti. - La BC, specie se conservatrice, darà invece maggior valore all’obiettivo della costanza dell’inflazione, per cui a sarà maggiore di 1. Nei fatti la BC accrescerà il tasso di interesse nominale più del tasso di inflazione di modo che il tasso di interesse reale aumenti e ciò scoraggi l’attività economica, la disoccupazione aumenti, l’inflazione rallenti. Dunque con a > 1: it*1,r i * a( t 1 * ) t 1 , e cioè it*1,r i * * . Questo implica che ut aumenterà. - se t = * ma ut > u n , la BC potrebbe voler diminuire il tasso di interesse e lasciar aumentare l’inflazione per ripristinare il tasso naturale di disoccupazione. La RT suggerisce infatti che se ut > u n , it < i * . La misura della diminuzione di it dipende naturalmente dal valore del parametro b, cioè dall’importanza che la BC attribuisce all’obiettivo della disoccupazione rispetto a quello dell’inflazione. Infatti la diminuzione di it potrebbe far aumentare l’inflazione (anche se ciò normalmente dovrebbe accadere solo se ut diventa inferiore a u n ). 109 - un caso più complesso e problematico è naturalmente quello in cui t > * e ut > u n , cioè la stagflazione (inflazione più stagnazione) In questo caso è ben chiaro che la scelta della BC dipende dai valori di a e b, cioè dall’importanza che la BC attribuisce all’obiettivo della disoccupazione rispetto a quello dell’inflazione. Infatti la diminuzione di it potrebbe alleviare la disoccupazione ma far aumentare l’inflazione. Normalmente si ritiene che la FED americana abbia a cuore l’obiettivo della disoccupazione più della BCE che privilegia quello dell’inflazione. All’inizio della crisi all’inizio dell’estate 2008 si era verificato un periodo in cui i prodromi della crisi erano chiari, ma il prezzo del petrolio era anche salito generando aspettative di inflazione. La BCE scelse (malauguratamente secondo il suo solito) di aumentare il tasso di interesse! Il medesimo errore ripetuto nel marzo e poi luglio 2011. Un caso diventato attuale con la crisi cominciata nell’estate del 2008 è quello t < * e ut > u n , cioè la deflazione. In questo caso la regola di Taylor dà la chiara indicazione di abbassare i tassi di interesse, ciò che le BC si sono apprestate a fare (la BCE con il consueto ritardo). La consapevolezza tuttavia che in situazioni di depressione la politica monetaria è poco efficace, come ci ha insegnato Keynes, ha condotto le autorità di politica economica dei diversi paesi (poco in Europa) ad adottare misure di sostegno alla domanda attraverso la politica fiscale. Spaventati dall’aumento dei disavanzi e debiti pubblici, tali politiche sono state successivamente abbandonate, aggravando la crisi. Appendice: altre spiegazioni AS crescente nel breve periodo Tutte le spiegazioni della AS crescente hanno in comune l‘idea che gli agenti economici – i lavoratori, ma anche le imprese – possano percepire prezzi attesi diversi dai prezzi correnti, oppure che pur percependo correttamente i prezzi correnti e attesi, non possano modificare nel breve periodo la propria condotta. Esponiamo ora quest’ultimo punto di vista, in genere attribuito a economisti che si autodefiniscono neo-keynesiani, ma che di keynesiano non han nulla se non l’idea che vi possa essere disoccupazione involontaria nel breve periodo. Le spiegazioni di tale disoccupazione non sono tuttavia keynesiane, non hanno cioè a che vedere colla domanda effettiva, ma con rigidità di varia natura, già ammesse come causa della disoccupazione dagli economisti neoclassici più tradizionali. La rigidità più nota è quella dei “salari vischiosi” (sticky wages). I salari nominali sono fissati in genere con contratti pluriennali. Anche senza contratti espliciti, l’esistenza di norme sociali e di nozioni di equità implicano cambiamenti lenti dei salari. Allora i lavoratori e le imprese possono fissare a t = 0 un certo salario w0 sulla base di prezzi attesi P0e . Supponiamo che i lavoratori si trovino un salario reale inferiore alle attese a causa di un 110 aumento dei prezzi, cioè: w0 w0 . Essi, a causa di contratti stipulati per più anni, non saranno in P1 P0e grado di ricontrattare la situazione. Questa situazione avvantaggia le imprese che aumenteranno produzione e occupazione per cui in t = 1: Y > Yn e u un - tutta la storia può avere origine da una politica monetaria espansiva che determina un aumento dei prezzi e della produzione. In t = 2 i lavoratori (supponiamo) possono ricontrattare il salario nominale in maniera tale da ripristinare il salario reale originario: w1 w0 . A quel punto produzione e occupazione tornano al loro livello P1 P0e naturale (la AS si sposta verso l’alto). L’unico effetto di lungo periodo della politica monetaria espansiva è stato dunque un livello più elevato dei prezzi. Come si vede i cosiddetti neo-keynesiani sono perfettamente allineati con l’analisi monetarista. Esercizio Esporre graficamente gli effetti di una politica monetaria espansiva secondo la teoria neokeynesiana. 111 7. Nozioni introduttive di economia aperta e di economia europea; la politica monetaria e fiscale nel modello IS-LM di economia aperta e suoi limiti 8. 7.1. Regimi di cambio Distinguiamo fra due fondamentali regimi di cambio: fissi e fluttuanti. 7.1.1. Cambi fissi In tale regime la Banca centrale (BC) di una piccola economia aperta (come l’Italia ai tempi della lira) si impegna a mantenere la ”parità ufficiale” del cambio attraverso gli intervento di acquisto o vendita della divisa estera sul mercato valutario. Il criterio a cui si ispirano tali interventi è quello di stabilizzare il tasso di cambio nominale tramite il soddisfacimento continuativo dell’eccesso di domanda di valuta (che può essere di valuta domestica o di valuta estera); tale eccesso di domanda è determinato dal saldo delle partite correnti (PC). Se questo si trova in avanzo, si riscontra un eccesso della domanda di valuta nazionale sull’offerta; la BC deve intervenire sul mercato valutario per evitare che il tasso di cambio nominale si apprezzi, vendendo valuta nazionale e acquistando in maniera compensativa valuta estera. In questo caso, l’offerta di moneta nazionale aumenta e la BC accumula riserve ufficiali. Se la BC vuole evitare un eccesso di creazione di moneta via canale estero (v. cap. 1), perché timorosa di creare un eccesso di domanda interno, dovrà vendere titoli e sterilizzare la moneta creata. I paesi in surplus commerciale e che accumulano riserve non le tengono in genere oziose, ma le “riprestano” ai paesi in disavanzo finanziando il loro squilibrio di PC. Il caso di scuola è fra Cina e USA. Il contrario vale se il saldo estero si trova in disavanzo; in questa circostanza il mantenimento dell’accordo di cambio comporta una riduzione dell’offerta di moneta e una decumulazione delle riserve ufficiali. Se un paese ha un disavanzo persistente delle PC, le RU possono esaurirsi nella difesa del cambio. Solo un ingresso di capitali può impedire una svalutazione della moneta e la BC dovrà fissare il tasso dell’interesse in maniera da generare un flusso di capitali che, finanziando il saldo negativo delle PC, stabilizzi il cambio. Il vantaggio del regime di cambi fissi è nell’impedire le svalutazioni competitive che alla fine nuocciono al commercio internazionale. Tuttavia tale regime vincola assai l’autonomia della politica economica di un paese Si dice dunque che coi cambi fissi un paese “perde la politica monetaria”. Prendiamo un piccolo paese in tendenziale equilibrio di PC. Esso dovrà mantenere un tasso di interesse non inferiore a quello degli altri paesi, in particolari a quelli delle grandi economie, e se questi accrescessero il loro, di conserva il paese in oggetto dovrà accrescere il proprio. Alti tassi di interesse possono andare a detrimento dell’obiettivo del sostegno della domanda interna e dell’occupazione. Per contro, se il piccolo paese volesse fissare tassi più alti di quelli internazionali 112 verrebbe affluire capitali indesiderati che farebbero apprezzare la sua valuta in maniera indesiderata (l’apprezzamento potrebbe determinare uno squilibrio commerciale e la necessità di politiche restrittive a detrimento dell’occupazione). In un regime di cambi fissi un paese in disavanzo di PC non potrà fare affidamento sulla svalutazione della propria moneta per aggiustare la bilancia commerciale. Esso sarà dunque costretto o (a) adottare misure restrittive atte a riequilibrare la bilancia commerciale, ovvero (b) ad attirare capitali attraverso elevati tassi di interesse. Essendo un paese a rischio di svalutazione, esso potrà anche facilmente assistere a “fughe di capitali”. Se v’è una attesa di deprezzamento della moneta nazionale, sarà infatti conveniente per un possessore di capitali detenuti in valuta nazionale cambiare questi capitali in valuta estera, azione che a sua volta accelera la svalutazione, e ricomprare a più buon prezzo la moneta nazionale una volta che la svalutazione abbia avuto luogo. Il tasso di interesse deve dunque essere tale da compensare il rischio di perdita (o di mancato guadagno) che si incorre nel mantenere i propri capitali in valuta nazionale. Sostenere disavanzi della bilancia commerciale attraverso ingresso di capitali è tuttavia pericoloso in quanto: (a) il perdurare del cambio non competitivo può determinare deindustrializzazione, dunque perdita definitiva di capacità produttiva in particolare nel settore manifatturiero ed esportatore; (b) la crescita progressiva del debito estero sui cui si pagano, per giunta, tassi di interesse elevati. Casi di scuola sono l’Italia nello SME, soprattutto nel periodo 1987-1992, l’Argentina degli anni 1990 nel currency board (si svolga da soli una piccola ricerca su Wikipedia), ma in fondo, anche, la situazione che è maturata nell’Unione monetaria europea (UME) essendo una unificazione monetaria un caso estremo di cambi fissi. Una maniera per evitare, almeno parzialmente, la perdita di autonomia nella politica monetaria è nel controllo dei movimenti di capitale. In questo caso i movimenti di capitale sia in uscita che in ingresso sono soggetti a un regime di autorizzazioni. In tal modo un paese può decidere il livello del tasso di interesse più consono senza veder fuggire (se fissa i troppo basso) o affluire (se fissa i troppo alto) capitali. Il problema, si dice, è che i controlli di capitale sono difficili. Una impresa che volesse esportare clandestinamente capitali sotto-fatturerebbe le proprie vendite all’estero oppure sovrafatturerebbe i propri acquisti. In sintesi gli economisti parlano di triade impossibile: cambi fissi, autonomia della politica monetaria (liberta di fissare i) e libertà dei movimenti di capitale: solo due dei tre corni sono compatibili. Nel secondo dopoguerra si incontrano due esempi di regimi di cambi fissi: Bretton Woods e lo SME. Nel primo sistema si scelse la prima coppia - cambi fissi e autonomia della politica monetaria (liberta di fissare i) sacrificando (giustamente) libertà dei movimenti di capitale. Nello 113 SME si scelse cambi fissi e libertà dei movimenti di capitale sacrificando l’autonomia della politica monetaria. Per l’Italia questo comportò tassi di interesse molto elevati che, unitamente al “divorzio” fra BC e Tesoro e alla mancata lotta all’evasione fiscale, fecero esplodere il debito pubblico. Il sistema di Bretton Woods prevedeva anche finanziamenti esterni da parte del FMI ai paesi in disavanzo temporaneo di bilancia dei pagamenti in maniera da dar loro tempo di riequilibrarla senza ricorrere alla svalutazione. Tale riequilibrio presupponeva, tuttavia, una politica restrittiva interna. Per questo Keynes, che partecipò agli accordi di BW avrebbe voluto un sistema che imponesse l’aggiustamento anche da parte dei paesi in avanzo commerciale. Come si diceva sopra, l’UME è il caso estremo di cambi fissi. 7.1.2. Cambi flessibili In questo sistema monetario internazionale la BC non interviene sul mercato valutario acquistando o vendendo valuta estera; il tasso di cambio nominale si può aggiustare liberamente in relazione alle condizioni prevalenti sul mercato valutario. Quando si riscontra un surplus della bilancia dei pagamenti, ossia un eccesso della domanda di valuta nazionale, il prezzo della valuta nazionale aumenta e il cambio si apprezza. Nel caso in cui ci sia un deficit del saldo estero, ossia un eccesso dell’offerta di valuta nazionale, il prezzo della valuta nazionale scende ossia il tasso di cambio si deprezza. Si noti che mentre l’apprezzamento della valuta nazionale comporta una riduzione della competitività delle merci nazionali, un deprezzamento ne decreta di contro un acquisizione della competitività di tali merci. Come sappiamo, infatti, dalla nozione di tasso di cambio reale (cap. 2) a parità di livello dei prezzi, un deprezzamento del cambio nominale rende più economiche le esportazioni e più costose le importazioni. Per un singolo paese un regime di cambi flessibili ha il vantaggio di assicurare attraverso la flessibilità del cambio il riequilibrio della bilancia commerciale. Come abbiamo osservato quando abbiamo trattato del tasso di cambio reale (cap. 2), le variazioni del tasso di cambio nominale sono necessarie per recuperare competitività quando un paese ha un tasso di inflazione superiore a quello dei concorrenti (caso di scuola, l’Italia degli anni 1970… e del 2011, se potesse svalutare!). In pratica, se le nostre merci sono più costose delle analoghe prodotte all’estero, le rendiamo di nuovo concorrenziali rendendo più conveniente agli stranieri la nostra moneta. Il deprezzamento del cambio nominale comporta d’altronde che aumenta il prezzo delle merci acquistate all’estero: in pratica il deprezzamento della moneta ci rende più competitivi a un costo: dobbiamo cedere una quantità maggiore delle nostre merci in cambio di una quantità inferiore di merci estere. Chi “paga” all’interno del paese questo maggior costo delle importazioni? Nel caso estremo che le importazioni riguardano beni di lusso saranno i più abbienti a pagare; nel caso di beni salario saranno i lavoratori; nel caso di beni di base come energia, materie 114 prime ecc., saranno un po’ tutti. Da ultimo i più colpiti sono certamente i lavoratori dipendenti in quanto imprese e lavoratori autonomi “fissano i prezzi”, possono cioè, in genere, aggiustare rapidamente i propri prezzi all’aumento del costi degli input importati. Dal punto di vista del singolo paese che svaluti per compensare una sua maggiore inflazione interna va ricordato che la svalutazione, comportando un aumento del prezzo degli input importati (si pensi al prezzo del petrolio per l’Italia) dà ulteriore benzina (è il caso di dirlo) all’inflazione. Il caso di scuola è l’Italia degli anni 1970: un forte conflitto sociale determinava una forte inflazione, a cui gli shock petroliferi aggiunsero carburante. La svalutazione faceva in modo che la forte inflazione non minasse la competitività esterna del paese. (Graziani ricorda come, opportunamente, la Banca d’Italia avesse ancorato la lira al dollaro, valuta con cui pagavamo le importazioni di petrolio, e tendesse invece a deprezzare rispetto al marco tedesco, la Germania essendo il nostro principale partner commerciale e concorrente. Questo regime, certamente infelice ma che manteneva in vita la nostra economia, finì con l’adesione del paese allo SME nel 1979). Come abbiamo detto, per un singolo paese un regime di cambi flessibili ha il vantaggio di assicurare attraverso la flessibilità del cambio il riequilibrio della bilancia commerciale. Se tutti i paesi intendono però utilizzare lo strumento del cambio per sostenere la domanda dei propri beni attraverso maggiori esportazioni e minori importazioni si ha una situazione di svalutazioni competitive che è un gioco a somma zero – questa fu l’esperienza degli anni 1930. BOX Svalutazione interna Nel dibattito sull’Europa i governi dei paesi centrali (core) e i loro economisti argomentano che i paesi dell’Europa periferica non potendo recuperare la loro competitività attraverso la svalutazione devono farlo attraverso una deflazione interna di prezzi e salari. Questa è stata definita “svalutazione interna”. Il problema è che mentre la “svalutazione esterna” comporta certamente una diminuzione dei salari reali (perché?), essa colpisce un po’ tutti i redditi e comunque i suoi effetti sui salari reali sono meno evidenti. La svalutazione interna comportando una diminuzione dei salari nominali è più indigesta ai lavoratori. Al pari, inoltre, delle classiche “svalutazioni competitive”, la linea europea di “svalutazioni interne competitive” (competitive deflativo) è anch’essa un gioco a somma zero: se tutti i paesi europei fanno questo - ammesso che ci riescano senza scatenare la reazione dei lavoratori – cade la domanda interna in ciascun paese e non v’è ripresa, anzi la recessione peggiora. 7.2. Vincolo estero, debito estero e crescita 115 7.2.1. La nozione di vincolo estero alla crescita Abbiamo analizzato nel capitolo 1 la bilancia dei pagamenti, e nel capitolo 3 il moltiplicatore di mercato aperto. Questo è particolarmente importante perché mostra come se un’economia comincia a crescere, le sue importazioni aumentano. Questo è vero sia per i paesi più avanzati, che cominciano ad importare più beni di consumo, petrolio ecc. dall’estero, che per i paesi in ritardo economico che abbisognano di beni capitali, energetici e di consumo. Per questa ragione si è spesso sentito parlare della necessità che la politica economica assuma una dimensione internazionale: se essa operasse in modo che tutti i paesi operano politiche di crescita in maniera contemporanea, sebbene ciascuno accrescerà le proprie importazioni, poiché le importazioni dell’uno costituiscono le esportazioni degli altri, ciascun paese anche accrescerà le proprie esportazioni. In tal modo la bilancia commerciale si manterrà in pareggio. Si parla in questo senso di vincolo estero alla crescita. Una crescita in un paese che vedesse un persistente disavanzo commerciale implica, come sappiamo dall’analisi della bilancia dei pagamenti, un indebitamento crescente per quel paese. Occorrerà nel futuro conseguire degli avanzi per ripagare il debito. Il debito ha anche dei costi, in quanto vanno pagati gli interessi su di esso, interessi che costituiscono un ulteriore aggravio del vincolo estero in quanto entrano, come sappiamo, nelle partire correnti. Il problema del debito estero dei paesi del sud del mondo nasce proprio dalla loro necessità di importare molti prodotti, mentre le loro esportazioni sono deboli, e dovendo accendere cospicui prestiti per farlo. Quando il debito si fa molto grande, scoppiano le cosiddette crisi del debito. Quei paesi quando il debito si fa cospicuo cominciano ad aver bisogno di prestiti al solo scopo di pagare gli interessi sul debito, debito che non fa così che accrescersi. Se ad un certo punto i prestatori si spaventano e smettono di erogare prestiti, il paese debitore dichiara il proprio fallimento (cioè che non è più in grado né di restituire le rate di capitale in scadenza, né di servire il debito, cioè pagare gli interessi). Interviene in genere in questi casi il Fondo monetario internazionale, che eroga dei prestiti a questi paesi (con fondi messi a disposizione dai paesi ricchi). Si parla d’operazioni di salvataggio a favore di quei paesi, ma in realtà, poiché quei finanziamenti sono utilizzati per pagare gli interessi sul debito estero, ciò che il FMI salva sono gli interessi dei prestatori. Il FMI prescrive in genere anche cure draconiane ai paesi in ritardo, tali da ridurre la crescita e le importazioni, in modo che si generino avanzi della bilancia commerciale e questi paesi possano ricominciare a pagare da soli gli interessi sul debito (e magari a restituirne un po’). Le conseguenze di queste politiche sulle condizioni di vita delle popolazioni interessate sono drammatiche. Per queste ragioni il FMI è stato spesso messo sotto accusa non solo dai giovani anti-global, ma da numerosi economisti accademici di gran fama. 116 Secondo alcuni economisti, il finanziamento ai paesi in via di sviluppo dovrebbe ritornare compito delle istituzioni internazionali (Banca Mondiale, Banche di sviluppo regionali) e non della finanza internazionale. Inoltre i PVS dovrebbero poter adottare barriere commerciali (protezionismo) verso alcune importazioni, in maniera da limitare le importazioni di beni non strettamente necessari alla crescita e di dar tempo alle industrie locali di poter far fronte alla concorrenza estera. Il WTO ostacola tuttavia queste politiche. 7.2.2. Foreign trade multiplier Possiamo riesporre analiticamente l’analisi attraverso il “foreign trade multiplier” (Harrod) già esposto nel cap. 3. Si considerino le seguenti, ormai note, equazioni: M = mY E = E*. Esse suggeriscono che le importazioni sono funzione del reddito nazionale, mentre le esportazioni sono un dato esogeno che dipende dalla domanda mondiale (dunque dal reddito degli altri paesi). Le prime sono dunque controllabili dalle autorità di politica economica, mentre le seconde non lo sono, o lo sono in maniera più limitata.64 Nel lungo periodo la bilancia commerciale deve essere in pareggio, per cui: M = E*. Da cui si ottiene: mY = E*, ed infine Y E* , m che è il foreign trade multiplier. Esso ci suggerisce che il livello del reddito compatibile con l’equilibrio della bilancia commerciale dipende dal livello delle esportazioni e dalla propensione marginale ad importare. Esercizio E = 1000; m = 0,2. Calcolare il foreign trade multiplier. 7.2.3. Movimenti internazionali di capitali e teoria keynesiana Secondo la teoria marginalista dominante, l’offerta di risparmio non ha esclusivamente uno sbocco nazionale, ma può essere prestata ai “paesi in via di sviluppo” (PVS) che sono tipicamente poveri di capitale. Questo dà luogo ai cosiddetti “movimenti internazionali di capitale”. Dietro questi movimenti, in sostanza, v’è il risparmio del nord che finanzia gli investimenti del sud del mondo. Si dice, per esempio, che le generazioni lavoratrici presenti dovrebbero risparmiare di più, depositando i propri risparmi presso i fondi pensione i quali, prestando i fondi al sud, li conserverebbero e li farebbero fruttare in modo da fornire un capitale e un reddito ai risparmiatori al momento della vecchiaia. 64 In verità lo sono attraverso modificazioni del tasso di cambio, nel breve periodo, e attraverso le politiche industriali e di innovazione, nel lungo periodo. Una svalutazione accresce la competitività di prezzo (perché?). Le seconde accrescono la competitività di prezzo, attraverso l’adozione di metodi produttivi più moderni che diminuiscono i costi di produzione (innovazioni di processo), ma soprattutto la competitività di prodotto, migliorando o innovando la gamma dei prodotti (innovazioni di prodotto). 117 Se, tuttavia, non è vero in una economia chiusa che sono i risparmi a generare gli investimenti, ma viceversa, questo è vero per il mondo che è un’unica economia chiusa (almeno sino a quando non commerceremo con un’altra civiltà). Vi è allora da ritenere che dietro i flussi di capitale verso il PVS non vi siano risparmi del nord, ma mera anticipazione di moneta creata da istituzioni finanziarie internazionali a favore di quei paesi (per esempio una banca internazionale potrebbe, sulla base di un deposito iniziale in dollari di cui è venuta in possesso, dar luogo attraverso i meccanismi del moltiplicatore dei depositi bancari ad un ammontare ben più cospicuo di crediti). Il PVS, venuto in possesso di questo potere d’acquisto, lo impiega per effettuare acquisti dal nord – non necessariamente di beni di investimento, ma anche di beni di consumo per le classi ricche ecc. Rammentando quanto appreso nel capitolo 1 circa la bilancia dei pagamenti, si ha dunque la formazione di un risparmio estero negativo nel sud del mondo (a parità di esportazioni del sud, il saldo della sua bilancia commerciale peggiora per le aumentate importazioni), e simmetricamente uno positivo nel nord (perché). Dunque solo alla fine del processo compaiono i risparmi del nord! Si comprende dunque perché la liberalizzazione dei prestiti ai PVS debba essere guardata con sospetto – essa è fonte di squilibri commerciali e indebitamento. I PVS che si sono più sviluppati, come Cina, Malaysia, India, Cile ecc. hanno tutti applicato rigidi controlli all’entrata di capitali stranieri impedendo che le rispettive economie cadessero nella trappola del debito estero. I movimenti di capitale, lungi dall’essere un “sano” impiego dei risultati della parsimonia del nord, sono il risultato della cupidigia della finanza internazionale alla ricerca di impieghi vieppiù lucrosi. Queste tematiche saranno sviluppate nel corso di secondo livello di Economia dello sviluppo. 7.3. L’Italia nel processo di integrazione economica europea (accenni)65 Le economie europee sono molto aperte agli scambi che si svolgono soprattutto all’interno della stessa Unione Europea. Ci si è tuttavia domandato se l’intensa interdipendenza commerciale fra i paesi europei abbia giustificato la creazione di un’area monetaria unica. La creazione della moneta unica alla fine degli anni ’90 ha seguito vicende dei tassi di cambio nel secondo dopoguerra assai complesse. Il sistema di Bretton Woods (o gold exchange standard) vedeva il dollaro al suo centro. Questo era convertibile in oro e le altre valute fissavano i propri tassi di cambio rispetto a esso impegnandosi a tenerli fissi. In ciò erano d’aiuto i controlli sui movimenti di capitale, e la presenza dal Fondo Monetario Internazionale preposto a sostenere i paesi con disavanzi di bilancia dei pagamenti. L’intervento del Fondo doveva impedire il ricorso a svalutazioni, sostenendo il paese attraverso prestiti che gli avrebbero assicurato tempi sufficienti per 65 Scritto prima della crisi. 118 il riaggiustamento dei conti con l’estero.66 Il sistema terminò nel 1971 quando i disavanzi della propria bilancia commerciale portarono gli USA a svalutare il dollaro. Gli anni ’70 furono caratterizzati da cambi fluttuanti e da forti processi inflazionistici dovuti a forti rivendicazioni salariali nei paesi industrializzati e dagli shocks petroliferi (1973 e 1979). I paesi più deboli come l’Italia ricorsero a ripetute svalutazioni della lira per compensare la perdita di competitività dovuta alla maggiore inflazione. Nel 1978 fu costituito il Sistema Monetario Europeo con al centro una moneta virtuale, l’ECU (che è un po’ il nonno dell’Euro), costituita da una sorta di paniere delle diverse monete aderenti. L’Italia entrò nello SME nel 1979 dopo un acceso dibattito politico. La tesi che prevalse fu che i cambi fissi avrebbero portato maggiore disciplina nei comportamenti sindacali. Nonostante la scelta dei cambi fissi, il differenziale di inflazione condusse il nostro paese a svalutare 5 volte fra il 1979 e il 1992. I controlli sui movimenti di capitale furono progressivamente smantellati. La necessità di difendere il cambio fisso comportò elevati tassi di interesse – già alti a livello internazionale. Ciò unitamente al “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro portò all’esplosione del debito pubblico, come già accennato altrove nel testo. I crescenti disavanzi di parte corrente, e l’accumulo di un cospicuo debito estero, aumentarono sul finire degli anni novanta le attese di nuna fuoriuscita dell’Italia dallo SME. Ciò accadde in maniera drammatica sul finire del 1992 dopo un feroce attacco speculativo sulla lira. La svalutazione rispetto al marco tedesco consentì al paese di riaggiustare i conto con l’estero e restituire il debito. Il già citato Trattato di Maastricht fissò nel 1992 il cammino e i criteri di ammissione alla moneta unica. Come è noto il 1/1/1999 i tassi di cambio fra le monete aderenti furono fissati in maniera irrevocabile, e nel 2001 la nuova moneta cominciò fisicamente a circolare. L’entrata dell’Italia nell’Unione monetaria europea (EMU) fu avventurosa. Nel 1997 il disavanzo pubblico italiano violava i criteri di Maastricht (era al 7% del Pil). Prodi e Ciampi riuscirono tuttavia a convincere i partner europei che se l’Italia fosse stata ammessa all’EMU, i tassi di interesse sul debito pubblico sarebbe caduti a tal punto da far rientrare il rapporto deficit/Pil sotto il fatidico 3%,e questo fu quello che accadde I tassi di interesse sarebbero caduti perché sarebbe venuto meno il “rischio svalutazione” nel detenere titoli pubblici denominati in lire. Aiutarono anche un po’ di trucchi contabili, ma soprattutto la “tassa sull’Europa”, un prelievo una tantum sui redditi che il governo si impegnò a restituire, cosa che regolarmente poi fece. Certo il rapporto debito/Pil era assai superiore al vincolo del 60%, ma il Belgio si trovava in una situazione simile. Lì bastò un impegno a rientrare nei limiti in un certo arco di tempo. Un fattore decisivo per l’entrata Non passò invece l’idea di Keynes che il riaggiustamento dovesse avvenire con politiche espansive da parte dei paesi in surplus di bilancia dei pagamenti. 66 119 della lira fu, tuttavia, anche l’interesse francese e tedesco di non consentire che la lira potesse continuare ad avvalersi delle svalutazioni competitive per sostenere le proprie esportazioni. Ci domandavamo sopra se l’UE è un’area monetaria ottimale. Con una moneta in comune, gli squilibri di competitività fra paesi non possono essere compensati da variazioni del tasso di cambio. Un’area ottimale è dunque definita tale se occorre almeno una delle seguenti circostanze: - è costituita da regioni relativamente omogenee, sicché non v’è grande necessità di aggiustare la competitività relativa attraverso aggiustamenti del tasso di cambio; i cantoni della Svizzere possono esser un esempio. - vi è grande flessibilità di prezzi e salari sì da consentire rapidi aggiustamenti da parte dei paesi meno competitivi. Nelle moderne economie non vi è grande flessibilità in questa direzione. - vi è grande mobilità dei fattori, come negli Stati Uniti. - vi è un significativo bilancio in comune tale da ridistribuire risorse dai paesi più forti a quelli più deboli, di nuovo come negli Stati Uniti. L’UE non sembra presentare invero le caratteristiche necessarie per definire un’area monetaria ottimale. I paesi dell’UE (o dell’UME) sono alquanto difformi in quanto a competitività, mentre la mobilità del lavoro è relativamente scarsa per questioni di lingua. Questo impedisce che i lavoratori si spostino facilmente verso le economie più competitive. Il bilancio europeo è infine assai piccolo (circa 1% del Pil Europeo) per cui scarsa è la possibilità di un sostegno cospicuo nei confronti dei paesi in difficoltà (lasciando da parte l’accettazione di tale sostegno da parte dell’elettorato dei paesi più competitivi). Se questo è vero, i vantaggi della moneta unica sono piccoli, un risparmio nei costi di transazione, cioè nei costi in cui si incorre negli scambi fra paesi con differente valuta. Per il nostro paese, infine, l’ingresso nell’Euro ha consentito tassi di interesse più bassi il che ha agevolato la gestione del debito pubblico. In generale un paese che ha una inflazione più elevata dei concorrenti, che mina la competitività, tende a svalutare il cambio per recuperarla (rifarsi alla nozione di tasso di cambio reale del cap.1). E’ la situazione dell’Italia negli anni ’70. Tuttavia, con accordi di cambio fissi – come nello SME una svalutazione non è possibile. Se il paese ha una inflazione più elevata incorrerà dunque in disavanzi commerciali che devono essere finanziati con afflusso di capitali. Per far affluire capitali si devono offrire tassi di interesse remunerativi, dunque più elevati di quelli internazionali, tenuto anche conto del “rischio paese”. Infatti il paese potrebbe sempre violare gli accordi di cambio e svalutare. A questo punto gli stranieri che avessero acquistato titoli denominati in lire (dei titoli di Stato per esempio), si ritroverebbero con delle attività che, valutate in moneta estera, valgono di meno. Per esempio, se al cambio 1 DM = 300 lire un tedesco avesse acquistato un BOT del valore 120 di 300 lire, e poi la lira avesse svalutato (per recuperare competitività dato il differenziale di inflazione con la Germania), al nuovo cambio di (supponiamo) 1 DM = 350 lire, il BOT in DM non sarebbe valso più 1 DM, ma 0,85 DM. Temendo eventi di questo tipo, l’investitore straniero chiederà un tasso di interesse molto elevato, tale da ripagargli il “rischio svalutazione”. Tali elevati interessi erano accresciuti in Italia anche da un presunto rischio di “default” dello Stato sui titoli del debito, cioè dal rischio che lo Stato italiano ripudiasse il debito - come per esempio ha fatto per gran parte del debito l’Argentina dopo il default del 2001. Gli elevati interessi sul debito contribuiscono al disavanzo di parte corrente, come sappiamo, determinando ulteriore necessità di prestiti esteri. Si usa dire che con cambi fissi un paese perde la politica monetaria, nel senso che il tasso di interesse come strumento di politica economica deve essere usato ad assicurare l’equilibrio esterno, cioè un afflusso di capitali nei paesi con disavanzo di parte corrente - o eventuale deflusso, se il paese è in avanzo strutturale di partire correnti - tali da stabilizzare il cambio. Il tasso di cambio non può dunque essere impiegato per uso interno. La lira svalutò più volte nello SME, senza mai recuperare però completamente la competitività. Nel frattempo aveva accumulato un cospicuo debito estero (attenzione, non confondetelo col debito pubblico!). Solo con la svalutazione del 1992 e l’uscita dallo SME questi problemi furono risolti. Si dice anche, per simmetria, che con cambi flessibili un paese controlla la politica monetaria. Infatti sono le fluttuazioni del tasso di cambio a curarsi dell’equilibrio esterno, e il tasso di interesse ritorna a poter essere liberamente impiegato dai policy makers del paese. In ciò che abbiamo detto abbiamo assunto che vi sia libertà di movimento dei capitali. Un parallelo è opportuno fra SME e sistema di cambi fissi di Bretton Woods: quest’ultimo prevedeva che i paesi controllassero i movimenti di capitale, cioè per muovere capitali da un paese all’altro fossero necessarie opportune autorizzazioni. In questo caso anche in caso di cambi fissi un paese mantiene il controllo (o un maggiore controllo) della politica monetaria (cioè della fissazione del tasso di interesse). Infatti, anche se un paese fissasse un tasso di interesse inferiore a quello internazionale, i capitali non potrebbero “fuggire” liberamente all’estero determinando una svalutazione indesiderata della moneta - quando i capitali fuggono, vuol dire che vengono venduti titoli in moneta nazionale e con le lire si domanda moneta estera. Una obiezione è che i controlli dei movimenti di capitale sono complicati ad attuarsi, ma il dibattito è su questo aperto. Da un punto di vista “politico” non si comprende perché la libertà dei popoli di determinare la propria politica monetaria debba essere subordinata alla libertà della finanza internazionale di spostare liberamente i capitali ricattando i paesi a tener alti i tassi di interesse. Persino alcuni economisti neoclassici, come il premio Nobel Stiglitz, condividono almeno in parte questo punto. 121 Va infine osservato, nel giudicare le vicende dell’UME, che questo è un caso estremo di tassi fissi, che infatti sta creando problemi di squilibri commerciali all’Italia, ma questa volta una svalutazione non appare in vista, anche se un abbandono dell’UME da parte italiana, se alla lungo i problemi creatisi si accumulassero, non va escluso. 122 BOX Relazioni keynesiane in economia aperta e crisi europea. Riporto qui alcuni appunti che inviai a un tesista utili per porre in relazione le relazioni keynesiane di economia aperta studiate nel cap. 6 con crisi europea. (si veda anche il BOX analogo del cap. 2) Un paese espande la domanda aggregata, accrescendo I , Ca, e G (il sig. M accresce I o i Ca facendosi finanziare dalle banche che creano moneta) e il dott. P espandendo G stampando moneta). Il moltiplicatore di mercato aperto ci racconta che, dato X, M aumenta. Se il paese era in surplus commerciale (caso tedesco), l'espansione può essere condotta sino al punto in cui il surplus scompare senza, appunto, generare disavanzi commerciali (si utilizzi il foreign trade multiplier, formula e grafico, per analizzare tale caso). Se un paese partiva da un pareggio (o a maggior ragione da un disavanzo), la BC peggiora. Quindi afflusso di capitali, indebitamento, PNE peggiora, RNE negativi, PC negative ecc (v. BOX nel cap. 2). Vediamo un esempio: A t=0: supponga una economia in cui a t = 0 c'è pareggio partite correnti. Per costruirci tale economia supponiamo che E = 10, m=0,2 e imponiamo vincolo estero (foreign trade multiplier visto ora): Y = 1/m * E ovvero 10/0,2 = 50 = Y. A questo punto, supponendo che c = 0,8, t = 0,2, calcoliamo i valori delle componenti autonome della domanda che ci generano un reddito di 50. Facile, basta risolvere l'equazione: 50 = 1/(1-c(1-t) + m) * (X + E)=1/(1-0,8(1-0,2) + 0,2) * (X + 10) dove X = Ca+I+G è l'incognita viene X = 18.01 e b= 1,786 è il valore del moltiplicatore keynensiano. Per verifica facciamo (perché?) Y= b * (X+E)= 1,786*(18,01+10)= 49,99. Quindi abbiamo proceduto correttamente (perché?) Arbitrariamente (perché arbitrariamente?) imponiamo che: X = Ca+I+G = 2+4+12,01 Il risparmio del settore privato (il sig.r M) è = Y disp - C = Y(1-t) - cY (1-t) - Ca = +6 Perché? Il saldo del settore pubblico (il dott.P) è G-T= G-tY=12.01 - 10= 2,01 (saldo negativo) 123 Si ha che S - I = G-T ovvero S=I+(G-T) ovvero 6=4+2,01 corretto (a meno di approssimazioni decimali). Perché? A t=1 Supponiamo ora che Ca = 8 (boom edilizio come in spagna e irlanda finanziato da banche tedesche) Si avrà (perché?): Y = 1,786* (8+4+12.01+10) 60.74 E - M= E-mY= 10-12,17=-2,14 negativa, com'è ovvio (perché?) G-T= 12.01-0.2*60,74=12.01-12.148=0.138 positivo Insegnamento: un paese con un boom della spesa privata che fa crescere il Pil migliora in conti pubblici, caso spagnolo e irlandese, ma... i conti privati? S= 60,74*0,16- 8 =9,718-8=1.718 Se ai risparmi del settore privato togliamo gli investimenti: S-I= 1,718-4= -2,29 negativo, com'è ovvio. Il saldo complessivo dott.P e sig.M è (S-I)+(G-T) = 2,158 apprx (rifare i calcoli su Excell e calcolare le figure precise) uguale a saldo X-M Infatti deve essere E-M=S-I + G-T La PNE1 del paese è ora -2,14 A t=2 tutte le grandezze immutate, quindi di nuovo Y = 60.74 ecc. Si supponga che sul debito estero vi siano interessi passivi del 0,05. Il saldo delle PC = E-M + R = 10-12,17-0.05*2,14= -2,14 - (+0,107)=2.247 PNE 2 = - 2.14 + (-2,247) A t= 3 tutte le grandezze immutate, quindi di nuovo Y = 60.74 ecc. Si supponga che sul debito estero vi siano interessi passivi del 0,05. Il saldo delle PC = E-M + R = 10-12,17-0.05*2,247= -2,14 - ... PNE3= ... Si completi il periodo 3. 124 Cosa ne concludiamo. Che un paese che espanda la domanda interna a parità di esportazioni (dunque con gli altri paesi che non adottano politica analoga) si indebita. Questo è probabile tanto più un paese è poco competitivo (dunque basso E ed alta la propensione m). Inoltre l'espansione della domanda interna genererà oltre a crescita del reddito anche una dinamica dei salari nominali e dei prezzi più elevata che nei concorrenti, per cui il tasso di cambio reale si rivaluta e si perde ulteriore competitività (E cala, m aumenta). Tutte queste cose si dovrebbero aver chiare. Appendice obbligatoria MICHAIL KALECKI ASPETTI POLITICI DEL PIENO IMPIEGO (1943, versione riveduta nel 1970) Il problema di garantire il pieno impiego tramite l’espansione della spesa pubblica, finanziata col debito pubblico, è stato largamente discusso negli ultimi anni. Tale discussione si è tuttavia concentrata sul lato puramente economico di tale problema, senza la dovuta considerazione dei suoi aspetti politici. La premessa che il governo di uno Stato capitalistico manterrà il pieno impiego, se soltanto saprà come farlo, non è assolutamente ovvia. L’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno impiego tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale. Tale attitudine si è manifestata chiaramente all’epoca della grande crisi economica degli anni trenta, quando i capitalisti hanno combattuto costantemente gli esperimenti volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi tale posizione. E’ chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide negativamente sui profitti in quanto appunto non richiede l’istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i “capitani d’industria” si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia la “ripresa artificiale” che lo Stato offre loro? E’ di tale difficile problema, di non comune interesse, che noi vogliamo occuparci in questo articolo. I 1. Le ragioni dell’opposizione dei capitalisti al pieno impiego realizzato dal governo tramite la spesa pubblica possono venir suddivise in tre categorie: 1) l’avversione all’ingerenza dello Stato nella questione dell’occupazione in genere; 2) l’avversione nei confronti della direzione delle spese pubbliche (gli investimenti pubblici e le sovvenzioni del consumo); 3) l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche derivanti dal mantenimento costante del pieno impiego. Esaminiamo quindi in dettaglio ognuno dei tre tipi di obiezioni alla politica di espansione economica dello Stato. 2. Consideriamo quindi in primo luogo l’avversione dei “capitani d’industria” all’intervento pubblico nelle questioni dell’occupazione. Ogni allargamento dell’ambito dell’attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti; ma l’accrescimento dell’occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire il livello dell’occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell’occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l’effetto di una riduzione dei 125 redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico slla politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l’ “atmosfera di fiducia”, in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l’occupazione tramite le proprie spese, allora tale “apparato di controllo”perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l’intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della “finanza sana” si fonda sulla dipendenza del livello dell’occupazione dalla “atmosfera di fiducia”. 3. L’avversione dei “capitani d’industria” alla politica di espansione della spesa pubblica diventa ancor più acuta allorché si cominciano a considerare i fini per cui tale spese possono venir destinate, e cioè gli investimenti pubblici e la sovvenzione del consumo di massa. Il fine cui mira l’intervento statale richiede che gli investimenti pubblici si limitino agli oggetti che non competono con l’apparato produttivo del capitale privato (ad esempio ospedali, scuole, strade, ecc.), in caso contrario infatti l’accrescimento degli investimenti pubblici potrebbe aver un effetto negativo sul rendimento degli investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione. Tale concezione è per i capitalisti interamente di loro gusto, ma l’ambito degli investimenti pubblici di tale tipo è piuttosto ristretto e vi può essere la possibilità che il governo, agendo secondo la logica di tale politica possa spingersi a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici, per poter allargare l’ambito del suo intervento[67]. Ci si può quindi attendere che i “capitani d’industria” e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione del prezzo degli articoli di prima necessità, ecc.) piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il consumo lo Stato non interferirebbe infatti in alcuna misura nella sfera dell’ “attività imprenditoriale”. In realtà tuttavia la questione si presenta altrimenti: La sovvenzione ei consumi di massa incontra un’avversione ancora più aspra di tali esperti che nei confronti degli investimenti pubblici. Ci imbattiamo qui infatti in un principio “morale” della più grande importanza: le basi dell’etica capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non viva dei redditi del capitale). 4. Abbiamo già considerato le ragioni politiche dell’opposizione alla politica di creazione di occupazione tramite la spesa pubblica Ma anche se tale posizione fosse vinta, cosa che può in realtà verificarsi sotto la pressione delle masse, il mantenimento del pieno impiego porterebbe a trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione dei “capitani d’industria”. Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei redditieri. Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale. 67 Occorre qui osservare che gli investimenti nei rami nazionalizzati possono contribuire alla risoluzione del problema della disoccupazione solo nel caso in cui vengano eseguiti con criteri diversi da quelli con cui operano le imprese private. Le imprese pubbliche devono eventualmente accontentarsi di un tasso inferiore di profitto e programmare i loro investimenti in maniera tale da attenuare le crisi economiche. 126 II 1. Una delle funzioni importanti del fascismo, come si può vedere nel caso dell’hitlerismo, fu l’eliminazione dei motivi per l’avversione dei capitalisti nei confronti del pieno impiego. L’avversione alle spese pubbliche come tali viene superata dal fascismo col fatto che la macchina statale è sotto il controllo diretto di una associazione del grande capitale col vertice fascista. Il mito della “finanza sana” che era necessario per impedire al governo di agire contro una “crisi di fiducia” tramite la spesa pubblica è ora superfluo. Nello Stato democratico non si sa con sicurezza come sarà il governo seguente, mentre nello Stato fascista non c’è governo seguente. L’avversione nei confronti delle spese statali per gli investimenti pubblici e per sovvenzionare il consumo di massa viene superata dalla concentrazione delle spese statali negli armamenti. Infine, “la disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” con il pieno impiego sono assicurate dal “nuovo ordine”,di cui vengono a far parte vari mezzi: dallo scioglimento dei sindacati ai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce qui la pressione economica della disoccupazione. 2. Il fatto che gli armamenti sono il nerbo della politica fascista di pieno impiego ha un’influenza profonda sul carattere economico di questa. Il riarmo su larga scala si accompagna all’espansione delle forze armate e a piani di conquista. In tale maniera lo scopo principale dell’espansione della spesa pubblica si trasferisce gradualmente dal pieno impiego alla realizzazione del massimo effetto di riarmo. Ciò porta alla limitazione del consumo al di sotto del livello che potrebbe venir ottenuto in corrispondenza del pieno impiego. Il sistema fascista inizia col vincere la disoccupazione, si sviluppa in “economia di guerra” che tende inevitabilmente alla guerra. III 1. Quali saranno le conseguenze pratiche dell’opposizione dei capitalisti nei confronti della politica di pieno impiego nella democrazia capitalistica? Cercheremo di rispondere a tale domanda sulla base delle analisi delle ragioni di tale opposizione che abbiamo appena condotto. Abbiamo mostrato che occorre aspettarsi un’avversione dei “capitani d’industria” su tre piani: 1) un’opposizione di principio nei confronti dell’espansione della spesa pubblica; 2) un’opposizione nei confronti del fatto che le spese totali siano dirette sia verso gli investimenti pubblici (ciò che può provocare l’inserimento dello Stato in nuovi settori di attività economica) sia verso il sovvenzionamento del consumo di massa; 3) l’opposizione nei confronti di un mantenimento costante del pieno impiego. Occorre prima di tutto affermare che il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi di combattere qualsiasi forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi economiche, appartiene ormai piuttosto al passato. Attualmente non si pone in questione la necessità dell’intervento pubblico in tempo di crisi. La controversia si riferisce piuttosto ancora alla direzione di tale intervento e al fatto se esso debba venir posto in essere soltanto al fine di attenuare la crisi, o anche deve tendere ad assicurare un costante pieno impiego. 2. Nelle discussioni correnti su tale tema riemerge continuamente la concezione secondo cui la crisi deve essere contrastata tramite la stimolazione dell’investimento privato. Tale stimolazione può consistere nell’abbassamento del tasso d’interesse, nella riduzione dell’imposta sui profitti o anche nel sovvenzionamento diretto degli investimenti privati in questa o quella maniera. Non c’è niente di strano nel fatto che per i capitalisti tali metodi di intervento siano attraenti. Il capitalista resta l’intermediario tramite il quale l’intervento viene ad essere effettuato. Qualora la situazione politica non gli dia fiducia, allora non si fa “comprare” e non accresce i suoi investimenti. Nello stesso tempo tale tipo di intervento non porta lo Stato a “giocare agli investimenti” (pubblici), non fa “buttar via i soldi” nel sussidiare il consumo. E’ possibile tuttavia dimostrare che l’incentivazione dell’investimento privato non è un metodo adeguato per prevenire la disoccupazione di massa. 127 Occorre a tale proposito considerare due casi. a) In tempo di crisi il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti vengono ridotti fortemente e vongono cresciuti in periodo di ripresa. In tale caso sia il periodo, come l’ampiezza del ciclo congiunturale possono venir ridotti. Ma l’economia può rimanere lontana dallo stato di pieno impiego non solo in tempo di crisi, ma anche in tempo di ripresa congiunturale; cioè la disoccupazione media può essere ancora elevata, nonostante le sue oscillazioni siano più deboli. b) In periodo di crisi ancora una volta il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti vengono ad essere ridotti, ma nel boom successivo non vengono rialzati. In tale caso il boom durerà più a lungo, ma terminerà di nuovo in una nuova crisi, in quanto la semplice riduzione del tasso d’interesse o dell’imposta si profitti non elimina ovviamente le forze che suscitano le oscillazioni congiunturali nell’economia capitalistica. Nella nuova crisi occorrerà ulteriormente ridurre il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti e così via. In tale maniera in un tempo non troppo lontano il tasso d’interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui profitti dovrebbe essere sostituita da un sussidio. Lo stesso si verificherebbe qualora si cercasse di mantenere il pieno impiego con l’aiuto di incentivi per gli investimenti privati. Il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti dovrebbero venir continuamente ridotti. In aggiunta a questo fondamentale difetto del combattere la disoccupazione incentivando gli investimenti privati esiste ancora una difficoltà ulteriore di carattere pratico. La reazione degli imprenditori all’impiego degli strumenti dei quali abbiamo parlato non è sicura. In tempi di crisi grave possono aver aspettative molto pessimistiche e la riduzione del tasso d’interesse e dell’imposta sui profitti può allora per lungo tempo agire in maniera molto ridotta sugli investimenti e quindi sul livello della produzione e dell’occupazione. 3. Persino coloro che si dichiarano favorevoli a combattere la crisi creando degli incentivi per gli investimenti privati, spesso non fanno affidamento esclusivamente su tale metodo, ma prendono in considerazione ugualmente gli investimenti pubblici. La situazione si presenta attualmente come se i “capitani d’industria” e i loro esperti avessero tendenza ad accettare, come “male minore”, una attenuazione della crisi tramite le spese pubbliche finanziate per via del deficit di bilancio. Sembra tuttavia che essi siano ancora ostinatamente contrari ad un accrescimento dell’occupazione ottenuto sovvenzionando il consumo e agli sforzi di mantenere il pieno impiego. Tale stato di cose sarà forse sintomatico per il futuro sistema economico delle democrazie capitalistiche. Il tempo di crisi o in seguito alla pressione delle masse, e forse anche senza di questo, si metteranno in moto gli investimenti pubblici finanziati tramite il deficit di bilancio, allo scopo di contrastare la disoccupazione di massa. Ma qualora si facciano dei tentativi per utilizzare tali metodi al fine di mantenere l’elevato livello di occupazione raggiunto nel boom successivo, si andrà incontro probabilmente ad una aspra opposizione da parte dei “capitani d’industria”. Come abbiamo già mostrato più sopra, essi non desiderano assolutamente un pieno impiego costante. I lavoratori diventano in tale situazione “recalcitranti” e i “capitani d’industria” diventano ansiosi di “dar loro una lezione”. Inoltre la crescita dei prezzi in tempo di boom agisce a svantaggio dei redditieri piccoli e grandi, cosicché oggi essi cominciano ad avversare l’alta congiuntura. In tale situazione si forma probabilmente un blocco del grande capitale e delle rendite, e tale blocco trova probabilmente più di un economista pronto a dichiarare che la situazione è estremamente poco sana. La pressione di tutte queste forze, e in particolare del grande capitale, induce sicuramente il governo al ritorno alla politica tradizionale di pareggio del bilancio. In tale maniera subentra la crisi, nella quale la politica di espansione delle spese pubbliche riacquista di nuovo il proprio significato. Tale schema di “ciclo congiunturale politico” non è del tutto ipotetico, in quanto uno sviluppo analogo degli avvenimenti si è verificato negli Stati Uniti negli anni 1937-38. L’interruzione del boom nella seconda metà del 1937 fu in realtà la conseguenza di uan forte riduzione del deficit del bilancio. D’altra parte nell’acuta crisi che di nuovo ne derivò, il governo ritornò rapidamente alla politica di espansione delle spese pubbliche. Per cui il regime del “ciclo congiunturale politico” non 128 assicurerebbe il pieno impiego tranne che nel punto massimo del boom, me le crisi sarebbero relativamente moderate e di breve durata.