Lettera ad un amico poeta Quando l`amico Renzo

Lettera ad un amico poeta
Quando l’amico Renzo mi ha chiesto di scrivere qualcosa sulla “terra” ho provato come un
senso di smarrimento, come un vuoto pneumatico. “Da dove cominciare?”, mi sono chiesto. Il tema
è così vasto che spaventerebbe chiunque, o meglio qualsiasi persona appena un po’ sana di mente e
di corpo. Figurarsi io. Ad ogni modo ho cominciato a guardarmi attorno e francamente di cose che
avessero qualcosa a che fare con la terra ne vedevo ben poche, di cose intimamente impastate con la
terra, voglio dire. Questa cosa è difficile da spiegare e quindi ancor più arduo da capire. Forse occorre lasciarsi guidare dai ricordi e dalle emozioni per capire questa cosa. Credo sia necessario mettersi in viaggio per sprofondare interamente nella terra, per giungere là dove il nostro sangue e la
nostra carne hanno preso forma, dove pure i nostri primi pensieri hanno preso forma, dove tutto si è
mescolato con la terra e ha preso forma e ha dato vita a questa vita che siamo adesso.
Mi viene in mente un’immagine della bibbia, tratta dalla genesi, credo, dove Dio prende un
po’ di terra, la impasta ci soffia dentro e… Oplà! Ecco l’uomo, ecco la vita. Anche chi è ateo deve
riconoscere che l’immagine è forte: c’è la terra, la materia e poi c’è quella cosa lì che le finisce dentro, la penetra, la vivifica. La puoi chiamare come vuoi: soffio, spirito, pensiero, desiderio, insomma
si mette in moto qualcosa che ci distingue da una roccia, da una pianta, da una bestia. Insomma la
vita è qualcosa di complesso, talvolta perfino di complicato, è un miscuglio che unisce la terra con
tutto il resto.
A me pare che sia un po’ quello che facevano i grandi pittori dell’antichità, grattavano una
libra di roccia la mettevano in un mortaio, aggiungevano altri due o tre tipi di terra, poi pestavano
piano, per tanto tempo, fino a quando non ottenevano colori finissimi, perfetti. L’azzurro ceruleo,
l’ocra gialla, la terra di Siena, il rosso Venezia, il bruno di Marte. Era proprio con queste terre che
essi compivano il miracolo e trasportavano pezzi di vita sulle tele.
Così mi sono messo in viaggio, volevo ritrovare il punto dove la mia vita ha cominciato ad
impastarsi con ciò che aveva attorno.
La prima cosa che ho visto è una striscia infinita di terra, lunga centinaia di chilometri. Come se avessi appoggiato la macchina fotografica dei ricordi sul finestrino di un treno in folle corsa.
Guarda che bello! C’è dentro il mare, poi una campagna piatta e uniforme con migliaia di alberi da
frutta. Oh, la laguna! E più lontano, là in fondo, un muro invalicabile di monti aguzzi. Insomma, mi
sono ritrovato tra le mani una striscia di terra lunga lunga, come una stella filante, di quelle colorate,
che da bambino tiri nei giorni di carnevale, tu la prendi, la lanci e quella ti porta proprio là, dove è
cominciata ogni cosa.
Lo vedo chiaramente. La stella filante si affloscia formando un ricciolo capriccioso ai piedi
di un ragazzetto con le brache corte, le ginocchia sbucciate e i capelli ricci. E’ buio e c’è nell’aria il
tepore della primavera. Il ragazzo si mette a correre verso un gruppetto di amici che lo aspettano seduti sui gradini di mattoni rossi che scendono dalla chiesa Collegiata. Intanto dalle case intorno esce
la gente, trascinandosi dietro sgabelli e povere sedie. Sono solo donne e vecchi, forse gli uomini sono nei bar a bere, a giocare a carte, a parlare di donne. Scelgono un angolo della piazza, sempre
quello da anni, e si accampano per dare inizio al consueto rito dell’affabulazione. Il bambino con le
ginocchia sbucciate raggiunge il gruppetto poi si siede vicino a una bambina di undici anni. La
bambina sospira un ciao di velluto al nuovo venuto e gli regala un sorriso. Il ragazzino diventa rosso. Lei lo prende per mano e gli dice di seguirla che gli deve dire una cosa importante. Lui si lascia
guidare da lei. Risalgono una decina di scalini e si trovano sotto il portone della chiesa. La bambina
si siede sul gradino e fa un gesto al suo amico per farlo accomodare lì accanto.
- Che cosa c’è Kyra, che cosa devi dirmi? – chiede lui.
La bambina prende le sue gambe tra le braccia e appoggia il mento sulle ginocchia. Ha la pelle
dello stesso colore della luna e i capelli lunghi, come spighe di grano, le piangono sul viso. Lei
guarda estasiata il ragazzo e sorride, così sulla sua guancia le si apre una simpatica fossetta.
- Domani parto – dice – Torno in Kenia con i miei genitori.
- Domani parti? – chiede lui
- Sì, domani mattina.
Silenzio.
- Tu parti – ripete lui, come un disco rotto – tu parti… e io che faccio?
- I miei genitori hanno lasciato degli affari importanti, laggiù, e devono tornare… dobbiamo
tornare tutti. Se non torniamo, perdiamo tutto…
- E io?
- Ti lascio questo…
Kyra si volta con tutto il corpo, poi fa scivolar via le gambe, si protende verso l’altro e lo
bacia, quindi si alza in piedi e si precipita lungo gli scalini gridando “tanto non mi prendi!”
Il ragazzino dalle ginocchia sbucciate scende lentamente e ritorna in mezzo ai suoi amici a
giocare, ma non ha più lo stesso entusiasmo di prima.
Intanto i “grandi” continuano il loro chiacchiericcio. Dal gruppo, di tanto in tanto, si leva
qualche risata scintillante, come un’onda, più alta delle altre, spesso frammenti di parole si scagliano nell’aria e sovrastano ogni cosa, ma dura un attimo, subito ritorna il consueto brontolio. Si distingue, tra gli altri, un grasso signore, con un vocione da basso. Abita, assieme a sua moglie, una
donna magra e taciturna, in una grande casa nell’angolo alto della piazza. Si dice che abbia un bel
po’ di soldi anche se a vederlo sembra uno straccione. Pare abbia venduto diversi campi e sia pieno
di soldi. Parla senza sosta e ride di una risata grassa e malsana. Si dice che la sua ricchezza sia pari
alla sua avarizia.
Il tempo vola, viene l’ora di andare a dormire e di rientrare in casa. La gente raccoglie le sedie e gli sgabelli, chi ha figli o nipoti li richiama a suo modo, con fischi, segnali e nomignoli diversi. Kyra lancia un saluto con la mano al ragazzo dai capelli ricci e le ginocchia sbucciate, poi quando arriva sulla soglia di casa si gira e gli soffia un ultimo bacio. Pian piano la piazzetta si svuota.
Rimangono solo due ragazzi.
- Vieni con me, ho una cosa da mostrarti – dice Lele con aria furtiva
- E’ tardi devo tornare a casa – risponde il ragazzo dalle ginocchia sbucciate.
- Solo un momento.
- Va bene, solo un minuto.
Nell’angolo alto della piazza c’è un portone vecchio e malfermo che introduce nella casa del
signore grasso, anzi per la precisione quell’accesso conduce in una specie di chiostro, un cortile con
il pozzo, le colonne e tutto il resto. L’edificio, prima della guerra era un vecchio monastero delle
clarisse, ma dal momento che non ci sono più suore, il signore grasso lo ha acquistato per farne la
propria abitazione. Sotto il porticato c’è l’ingresso vero e proprio, con le scale che portano al primo
piano dove si trovano le grandi stanze della casa. Lele guida l’amico fin dentro il chiostro. Poi i due
si addossano al pozzo, nella parte più buia del cortile.
- Che cosa facciamo qui?
- Aspetta e vedrai – risponde Lele
Per la verità Lele aveva scoperto che il signore grasso, prima di andare a letto, passava in
bagno dove iniziava una sinfonia concertante in fa minore, fatta di formidabili flatulenze. Quella sera Lele aveva deciso di far partecipare allo spettacolo anche il suo amico. Gli intrusi aspettano nascosti dietro il pozzo un bel po’ di tempo, ma la luce del bagno resta spenta e il silenzio rimane in
silenzio. Ad un tratto i due sentono un tonfo sordo provenire dal magazzino al pianoterra. Si stringono spaventati. Quasi smettono di respirare.
- No, non è niente, sarà un gatto – dice Lele dopo un’eternità.
I due ragazzi sono appiccicati l’un l’altro. Ad un tratto Lele mette la sua mano tra le gambe
dell’amico e comincia a palparlo, fa scorrere sapientemente la sua mano su quella lieve
protuberanza, che sente crescere sotto le sue dita. Il ragazzo dalle ginocchia sbucciate lo guarda stupito, Lele gli sorride con uno sguardo angelico e rassicurante. Allora l’altro chiude gli occhi e pensa. “Perché no!”, deve aver pensato un attimo prima di chiudere gli occhi. I due rimangono lì a sospirare per alcuni minuti, poi Lele alza la mano bagnata di un velluto appiccicoso e caldo, la guarda.
Sull’orlo del pozzo vede un vecchio secchio con un po’ d’acqua, ci immerge la mano e la lava.
- Ti è piaciuto – chiede all’amico.
Il ragazzo con le ginocchia sbucciate fa un cenno affermativo con il capo. E’ troppo timido
per una risposta esplicita.
- Adesso seguimi, c’è ancora una cosa che ti farà morire dal ridere - aggiunge Lele.
Quindi si infila nel magazzino che il signore grasso usa come ripostiglio. L’amico rimane timoroso accanto al pozzo.
- Dai fifone, vieni!
L’altro si muove e finisce alle spalle di Lele. Avanzano al buio per alcuni metri, quando urtarono qualcosa. Forse un sacco o qualcosa del genere. La cosa non si distingue ma sembra appesa
al soffitto. Il ragazzo apre un po’ di più la porta e fa entrare la fioca luce della luna… ciò che vedono non riusciranno a cancellarlo mai più dalla loro mente. Vedono la cosa che hanno colpito dondolare in modo inarrestabile. Vedono il signore grasso che penzola dal soffitto trattenuto da una corda
che lo stringe al collo. Lo hanno urtato e adesso è lì, davanti ai loro occhi stupefatti, che dondola,
dondola, dondola. I due, incapaci di gridare, scappano a tutta velocità.
Il ragazzo con le ginocchia sbucciate non riesce a chiudere occhio per tutta la notte. Piange,
invece, piange a lungo. Piange perché sa di aver perso per sempre un sacco di cose, ma soprattutto
la sua fanciullezza. Sa che l’indomani non sarà più lo stesso ragazzo di prima. Sa che in quella terribile notte la sua ingenua giovinezza si è mescolata alla terra, sa che ha incontrato assieme l’amore,
il sesso e la morte. Ha scoperto, a sue spese e perfino troppo in fretta, il dolore che ti schianta quando incontri l’amore impossibile, il vuoto che ti pervade quando insegui il piacere facile, l’orrore che
ti trafigge quando t’imbatti nella morte che giunge inattesa con l’agilità di un gatto.
Anche quando quel ragazzo con i riccioli neri e le ginocchia sbucciate metterà i calzoni lunghi ricorderà quella notte. Lo rivedo nei festini pomeridiani, a casa delle sue compagne di scuola, i
capelli lunghi e jeans a zampa d’elefante. Vedo le persiane chiuse per imbrogliare il giorno e per
creare un’intimità fasulla, sento il mangiadischi arancione che gira un disco in vinile pieno di fruscii. Balla con gli occhi chiusi il ragazzo capellone, si stringe a un fanciulla magra e sogna il suo futuro. Inventa nella sua testa altri miscugli di carne e terra, ignaro della sventura che gli sta per
piombare addosso, inconsapevole delle avversità che imparerà a conoscere di lì a poco. Tutta il resto si sta un momento a dirlo. La stanchezza opprimente, le membra che si rifiutano di fare il loro
lavoro, i medici, la diagnosi… distrofia muscolare, forma di Duchenne. E’ la fine. Lenta e consapevole. Da quel momento la terra scompare. Non c’è più nulla da mescolare. Rimane solo il soffio.
Ricordi? Ti parlavo del soffio che dà vita alla terra. Ma il soffio senza la terra non è niente.
Tutto il resto del mio film è progressiva immobilità, è diapositiva. Un “movie” senza movimento. Poi un giorno i muscoli perdono volume e forza, i polmoni smettono di soffiare, non resta
che la tracheotomia con respiratore esterno meccanico.
Ecco, adesso sono qui, immobile, muto, lontano dalla terra, a parlare della terra che non c’è
più, che non mi appartiene più.
Per fortuna il mio cuore, al pari degli altri muscoli, presto si fermerà e allora arriverà lei, per
niente imprevedibile, per niente agile e mi porterà via, finalmente. Nell’attesa, mi è grato ripensare
alla mia terra, a quel bambino con le ginocchia sbucciate che s’infiamma in viso quando Kyra lo
bacia.
Ecco, caro amico poeta, il viaggio è concluso, quello che potevo dire l’ho detto, tutto questo
spero ti possa servire a qualcosa, a me è servito molto, mi è stato utile questo viaggio nei ricordi. Ti
saluto con grande affetto, mio caro Renzo, e ti abbraccerei volentieri, se potessi… ma fa lo stesso!
Alle volte vale il pensiero,
tuo
Pergiorgio