Baratto Weber

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2. Le regole del «baratto»
Prendiamo le mosse dall'esempio elementare di cui anche
Stammler talora si serve per illustrare il significato che la «regola» ha per il concetto di «vita sodale». Supponiamo che due
uomini tra cui non intercorrono altre «relazioni sociali» — ad
esempio, due selvaggi di tribù diverse o un europeo e un selvaggio che si incontrano nel centro dell'Africa nera — barattino due
oggetti qualsiasi. In tal caso si è soliti sottolineare (a buon diritto) che una semplice descrizione dei processi esternamente percepibili (vale a dire dei movimenti muscolari e, nel caso in cui
questi siano accompagnati da parole, dalle relative emissioni di
voce, che costituiscono per così dire la fusis di tali processi) non
consente in alcun modo di coglierne la «essenza». Questa infatti
risiederebbe nel «senso» attribuito dai due attori al loro comportamento esterno, e tale senso del loro comportamento presente
comporta a sua volta anche una «regolazione» del loro comportamento futuro. Se non vi fosse questo «senso» — si afferma —
un «baratto» non sarebbe possibile nella realtà ne sarebbe concettualmente costruibile.
Ciò è senz'altro vero. Che dei segni «estemi» fungano da
«simboli» è infatti uno tra i presupposti costitutivi di ogni relazione sociale. Ma, chiediamoci: è questa una peculiarità delle sole
relazioni sociali? Evidentemente no. Se inserisco un «segnalibro»
in un «volume» è chiaro che il risultato percepibile esternamente
di questa azione è semplicemente un «simbolo»: che una striscia
di carta o un altro oggetto sia inserito tra due fogli ha un «significato» senza conoscere il quale il segnalibro sarebbe «inesplicabile» causalmente. E tuttavia questo non comporta che in tal caso
venga stabilita una relazione «sociale».
Torniamo ora all'economia robinsoniana e supponiamo che
Robinson, dovendo tutelare «economicamente» il patrimonio boschivo della propria isola, «segni» con l'accetta determinati alberi
che pensa di abbattere per l'inverno, oppure che, per «amministrare economicamente» le proprie provviste di cereali, la razioni
conservandone una parte come «semente». In questi, come in
numerosi altri casi che il lettore può costruirsi da se, la sequenza
di atti «esternamente» percepibili non esaurisce «l'intero processo»: è invece il «senso» di tali misure economiche — che certo
non implicano l'esistenza di una «vita sociale» — a conferire ad
esse il loro carattere e il loro «significato», esattamente come, in
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linea di principio, è il significato verbale a dar senso alle macchie nere «impresse» su fogli di carta o ai suoni emessi da chi
parla o infine è il «senso» che ognuno dei partecipanti al baratto
collega al proprio comportamento a dare significato a quella parte
del comportamento che è esternamente percepibile.
Se ora separiamo concettualmente il «senso» che troviamo
«espresso» da un oggetto o da un evento dalle componenti che
restano prescindendo da quel «senso» e chiamiamo «naturalistica» una considerazione che rifletta solo su queste ultime, otteniamo un concetto di «natura» diverso da quello visto in precedenza. Più esattamente, un evento diviene «natura» se in esso
non siamo in grado di reperire alcun «senso». Quindi, l'antitesi
della «natura» intesa come «ciò che è privo di senso», non è
evidentemente la «vita sociale» bensì appunto «ciò che è dotato
di senso», ossia di quel «senso» che può essere attribuito ad un
evento o ad un oggetto e che può essere «reperito in esso» (dal
«senso» metafisico dell'intero universo nel quadro di una dogmatica religiosa fino al «senso» che «ha» per Robinson l'abbaiare di
uno dei suoi cani all'avvicinarsi di un lupo).
Dopo avere visto che la proprietà di essere «dotato di senso»,
di «significare» qualcosa, non è affatto peculiare della vita «sociale», torniamo ora al «baratto». Il «senso» del comportamento
esterno dei due partecipanti può essere qui considerato in due
modi logicamente assai diversi. In primo luogo come «idea», e in
questo caso possiamo chiederci: quali implicazioni concettuali sono ricavabili dal «senso» che «noi» — gli osservatori — attribuiamo a un siffatto processo concreto? Come si inserisce questo
«senso» in un più ampio sistema concettuale «dotato di senso»?
Se adottiamo un tale punto di vista saremmo in grado di procedere a una «valutazione» dello svolgimento empirico del processo
in questione. Potremmo ad esempio chiederci, seguendo, la teoria
dell'utilità marginale, come «dovrebbe» essere il comportamento
«economico» di Robinson se fosse portato alle sue estreme conseguenze «concettuali», e quindi potremmo «commisurare» allo
standard concettuale così ottenuto il suo comportamento empirico. Allo stesso modo potremmo chiederci come «dovrebbero»
comportarsi i due «partecipanti al baratto» dopo la consegna degli oggetti scambiati perché il loro atteggiamento corrisponda alla
«idea» del baratto e alle implicazioni concettuali del «senso» che
noi abbiamo colto nel loro agire. È però chiaro che qui, pur
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prendendo le mosse dal fatto empirico che in realtà accadono
certi processi collegati idealmente ad un certo «senso», non pensato chiaramente ma comunque avvertito in modo confuso dagli
agenti, abbandoniamo ben presto l'ambito empirico per giungere
a chiederci come sia possibile costruire concettualmente il «senso» dell'agire dei partecipanti al baratto in modo tale da ottenere
una costruzione coerente. In breve, ciò che facciamo in questo
caso è una «dogmatica» del «senso».
In secondo luogo, possiamo chiederci se il «senso», da noi
attribuito al processo in questione, sia davvero quello che ognuno
degli attori empirici aveva consapevolmente collegato ad esso, oppure ancora quale altro «senso», se ve ne è uno, sia stato davvero collegato a tale processo. Dobbiamo quindi distinguere due
altri «sensi» del concetto di «senso», inteso nel significato empirico del quale d'ora in avanti ci occuperemo. Nel nostro esempio,
infatti si può supporre da un lato che gli agenti volevano consapevolmente assumere una norma «obbligatoria» ritenendo (soggettivamente) che il loro agire avesse carattere obbligatorio e che
quindi si fosse stabilita tra loro una «massima normativa». D’ altro lato si può supporre che essi miravano a conseguire con il
baratto determinati «risultati» rispetto ai quali il loro agire era,
in base alla loro «esperienza» precedente, un semplice «mezzo» e
il baratto uno «scopo» (soggettivo).
Per ciascuna di queste due specie di massime va naturalmente
stabilito se e in che misura essa si presenti empiricamente in
ciascun singolo caso. Ci si possono quindi porre altre questioni
come in che misura i due partecipanti al baratto sono realmente
consapevoli della «conformità allo scopo» del loro agire? In che
misura essi assumono come massima consapevole (massima normativa) l'idea che le loro reazioni devono «essere regolate» in
modo da far valere l'idea che gli oggetti del baratto sono «equivalenti» e che ciascun partecipante «deve rispettare» il «possesso» dell'oggetto acquisito dall'altro? In che misura la rappresentazione di tale «senso» normativo è una determinante causale
della decisione di partecipare a questo particolare «atto di scambio» e in che misura costituisce il motivo decisivo del comportamento degli attori dopo lo scambio?
È chiaro che in tutte le questioni ora indicate la nostra rappresentazione concettuale «dogmatica» del «senso» del «baratto»
può risultare assai utile come «principio euristico» al fine di
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costruire delle ipotesi, ma è anche naturale che tali questioni non
si possono liquidare semplicemente affermando che il «senso» oggettivo di ciò che gli attori fanno «può» essere soltanto lo specifico «senso» dogmaticamente ricavabile da determinati principi
logici. Sarebbe infatti una pura finzione ad una ipostatizzazione
della idea regolativa» del «contratto» affermare che entrambi gli
attori hanno voluto «regolare» le loro relazioni sociali in modo
corrispondente alla «concezione» ideale del «baratto» soltanto
perché noi — gli osservatori — ponendoci dal punto di vista
della classificazione dogmatica, attribuiamo ad essi questo «senso». Seguendo la stessa logica si potrebbe allora affermare che il
cane che abbaia «vuole» realizzare la «idea» della difesa della
proprietà solo perché questo è il «senso» che il suo abbaiare può
avere per il suo padrone.
Per una considerazione empirica invece il senso dogmatico del
baratto è un «tipo ideale» che applichiamo a scopo «euristico» o
«classificatorio» all'enorme massa di eventi che nella realtà empirica corrispondono ad esso con maggiore o minore purezza. Le
«massime normative» che considerano «obbligatorio» il senso «ideale» del baratto sono, senza dubbio, uno, ma soltanto uno, dei
vari elementi che possono determinare l'effettivo agire dei «partecipanti al baratto», e la empirica presenza di tali elementi nel1’ atto concreto è ipotetica tanto per l'osservatore quanto anche —
non bisogna dimenticarlo — per ciascuno degli attori nei confronti dell'altro.
Accade di frequente che almeno uno dei due partecipanti al
baratto non faccia del «senso» normativo del baratto la propria
«massima normativa» pur sapendo che solitamente esso è considerato come «idealmente valido» (cioè come qualcosa che deve
valere), e parimenti può accadere che almeno uno dei due partecipanti al baratto conti sulla probabilità che solo l'altro consideri
tale senso come idealmente valido: la sua massima sarà allora una
massima puramente «teleologica».
In questi casi non ha naturalmente alcun senso empirico affermare che il processo è empiricamente «regolato» nel senso della
norma ideale, e che gli attori hanno regolato in tal modo le loro
relazioni. Quando ci esprimiamo così la parola «regolato» assume
la medesima ambiguità che incontreremo ancora nel seguito e che
si e già rilevata nel caso dell'uomo con la digestione «regolata»
artificialmente. Questa ambiguità di significato, tuttavia, non è
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dannosa purché si tenga sempre ben presente che cosa di volta in
volta si intenda dire in concreto.
Sarebbe d'altro canto egualmente privo di senso considerare
la regola, alla quale i due partecipanti al baratto dovrebbero sottoporsi secondo il «senso» dogmatico del loro comportamento,
come la forma della loro «relazione sociale» e quindi come la
«forma» dell’evento in questione. Una tale «regola» ricavata
dogmaticamente, infatti, «è» pur sempre una «norma» che pretende di «valere» idealmente per l'agire, non una «forma» di
qualcosa che «esiste» empiricamente. Chi vuole studiare la «vita
sociale» nel suo essere empirico non può ovviamente passare al
campo del dover essere dogmatico, e la «regola» del nostro esempio appartiene al campo dell'«essere» solo nel senso di «massima» empirica, spiegabile causalmente e causalmente efficace, di
entrambi i partecipanti al baratto.
Secondo il significato del concetto di natura delineato nelle
pagine precedenti tutto ciò potrebbe essere espresso dicendo che
anche il «senso» di un processo esternamente percepibile diviene,
da un punto di vista logico, «natura» allorché si rifletta sulla sua
esistenza empirica. In tal caso, infatti, non ci si chiederà quale
«senso» il processo in questione abbia dogmaticamente, ma quale
«senso» gli «attori» abbiano ad esso collegato in concreto (o per
lo meno abbiano mostrato di collegare) ad esso sulla base di
«indicatori» bene identificabili.
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