Recensioni teatrali | Teatro.Persinsala.it
Alessandro
Alfieri
aprile 4, 2016
Al Teatro India, fino al 10 aprile, Nicoletta Braschi interpreta
Winnie, la protagonista di Giorni felici, riflesso angosciante di
ciascuno di noi.
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La grandezza di un autore come Samuel Beckett è misurabile nel fatto che
il suo teatro, lancinante e tenebroso, ha come oggetto della sua spietata
indagine sempre l’essere umano. Come è sbagliato, per non dire ipocrita,
interpretare in chiave femminista Madame Bovary di Flaubert
e diversamente da chi, nel secolo scorso, ha tentato di mettere al centro
una figura specifica dell’alveare umano (donne emarginate, invalidi,
anziani, adolescenti), rivendicando più o meno esplicitamente la capacità
di farsi interprete delle loro rispettive tragedie specifiche e private,
Beckett scruta con sguardo cinico ognuno di loro facendone un exemplum
della generale e assoluta condizione di frustrazione e dolore infinito che
ogni essere umano porta su di sé da quando mette piede su questo
pianeta. I suoi personaggi possono essere uomini, donne, vagabondi,
borghesi, ma in ognuno di loro può riflettersi chiunque altro, perché (ed è
questa d’altronde mission specifica del teatro) specchiandosi in quei
personaggi può sentire e provare la propria condanna.
Erroneamente si è parlato di teatro dell’assurdo, perché Beckett non parla
mai didascalicamente dell’insensatezza della vita, dal momento che
questo significherebbe essere in grado di distinguere ciò che assurdo da
ciò che non lo è. L’unica possibilità è restare nell’attesa infinita di
qualcosa, dimorare nello spazio della ripetizione catatonica e sprofondare
nella propria vita: vedere e leggere Beckett significa cogliere amaramente
la quintessenza della propria vita, uscirne dilaniati e confusi, percepire
l’insensatezza nell’eterno ritornare di gesti e parole vuote di significato.
Così accade per un testo come Giorni felici, sarcastico fin dal titolo, che
ha per protagonista una donna di mezza età sommersa nella terra,
impossibilitata a muoversi realmente, che si lascia vivere e che comunica
col pubblico attraverso un lungo, delirante e folle soliloquio. Allegoria
quanto mai dirompente dello stato di passività che caratterizza l’umanità
moderna, i cui uomini e le cui donne sono incapaci di rapporti autentici,
circondati dal deserto e dalla catastrofe che sono proiezioni di uno stato
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interiore, dove l’unico riscatto morale e utopico, come sosteneva un
grande stimatore e interprete dell’arte di Beckett come Theodor W.
Adorno, consiste nella capacità che quest’opera ha di fare luce sul nostro
presente, stimolando in noi il bisogno e il desiderio di cambiare.
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Al Teatro India, è in scena fino al 10 aprile proprio Giorni felici, per la
regia di Andrea Renzi, con Andrea Renzi e Nicoletta Braschi; la dimensione
metafisica del dolore umano viene restituita in una regia senza grandi
stimoli, attinente al testo e se vogliamo fin troppo lineare. Sfugge il
significato della grossa lamiera sullo sfondo, mentre la montagna di terra
che ricopre Winnie, la protagonista, così come il disegno luci, è chiaro ed
esaustivo al punto da essere scolastico. In altri termini, regia si adegua al
testo beckettiano, ma esclude un qualsiasi slancio autoriale del regista (in
passato, molti hanno optato per la luce piena, altri per il carattere
crepuscolare tipico del testo di Beckett, qui invece si resta sul vago), e
anche la chiusura col faro puntato sulla testa di Winnie è qualcosa di
prevedibile e di già visto; il confronto può essere fatto con un Giorni felici
registicamente e attorialmente più convincente, ovvero quello andato in
scena diversi anni fa al Teatro Eliseo e interpretato da una
straordinaria Anna Marchesini. D’altronde, Winnie porta con sé un’eredità
gravosa e tra le attrici che l’hanno interpretata compaiono Laura Adani,
Giulia Lazzarini e la citata Anna Marchesini.
L’interpretazione di Nicoletta Braschi non sembra riuscire a reggere il
confronto con queste ultime: un testo caratterizzato dal ritmo, un ritmo
paradossale perché espressione dell’eterna immobilità e della
nullificazione dell’interiorità, viene restituito dalla Braschi senza vigore.
Non che il vigore fosse necessario, attenzione: ci si può affacciare sul
teatro di Beckett o attraverso l’energia come sinonimo di psicosi e delirio,
o in maniera meccanica e “svogliata”, ma nell’interpretazione della
celebre attrice manca in effetti il momento dialettico della coscienza che il
personaggio ha di essere tale, ovvero un qualche eccesso, o una qualche
esagerazione. Brava è la Braschi a non cadere nel tranello di risultare
comica, perché Beckett non fa e non deve far ridere, al massimo può
generare (anzi, deve generare) un sorriso malinconico che è piuttosto
l’espressione dello strazio dell’anima, una sorta di reazione nel
comprendere quale sia lo stato in cui ciascuno di noi è gettato
inesorabilmente.
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Nell’attrice però manca la verve dell’attrice che recita se stessa, che tenta
di dichiararsi felice quando è evidente la sua condanna, che rivela
l’insensatezza di tutto attraverso la ripetizione costante e martellante che
fa a se stessa e a noi pubblico che tutto abbia un senso. Sarebbe servita
una maggiore sintonizzazione con l’universo e la filosofia di Beckett,
perché un’opera di Beckett non è solo un dramma da portare in scena in
questa o quest’altra maniera, ma piuttosto un varco verso l’abisso, uno
specchio dove compariamo per la prima volta, lo sguardo della Gorgone
che ci lascia senza speranza, perché smarrire ogni speranza è la sola
possibilità di ritrovarla.
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Lo spettacolo continua:
Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman 1, Roma
dal 31 marzo al 10 aprile 2016 ore 21.00
venerdì 8 aprile ore 19
domenica ore 19
lunedì riposo
Melampo e Fondazione del Teatro Stabile di Torino presentano
Giorni felici
di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
regia Andrea Renzi
scene e costumi Lino Firoito
luci Pasquale Mari
suono Daghi Rondanini
aiuto regia Costanza Boccardi
con Nicoletta Braschi e Andrea Renzi
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