2004_Divertimento-Ensemble_rondo_2004

2004
RONDÒ
gennaio/giugno 2004
Milano, Palazzina Liberty
Monza, Teatrino di Corte della Villa Reale
Rondò 2004
I Stagione
Concerti a Milano
22.02.2004
Palazzina Liberty
Ore 17.00
Proiezione del video Una mostra da
ascoltare: Arnold Schönberg
Ore 18.00
G. Manzoni, Essai
G. Manzoni, Preludio - “Grave” Finale
M. Franceschini, Matching dreamers
- (prima esecuzione assoluta,
commissione Divertimento
Ensemble 2004)
A. Schönberg, Pierrot lunaire op. 21
Luisa Castellani, soprano
21.03.2004
Palazzina Liberty
Ore 17.00
Incontro con Salvatore Sciarrino e
Lorenzo Pagliei
Ore 18.00
S. Sciarrino, Infinito nero
L. Pagliei, Free floating clouds
- (prima esecuzione assoluta,
commissione Divertimento
Ensemble 2004)
L. Berio, Sequenza VII - per oboe
B. Maderna, Serenata n. 2
Sonia Turchetta, mezzosoprano
Divertimento Ensemble | Rondò
»
18.04.2004
Palazzina Liberty
Ore 17.00
Incontro con Pascal Dusapin e Yan
Maresz
Ore 18.00
C. Debussy, Sonata - per violoncello
e pianoforte
H. Dutilleux, Trois strophes sur le
nom de Sacher
Y. Maresz, Entrelacs
G. Grisey, Stele - per due
percussionisti
P. Dusapin, Tre studi per pianoforte
P. Dusapin, Aria - per clarinetto e
ensemble
Concerti a Monza
24.01.2004
Teatrino di Corte della Villa Reale
Ore 19.30
Proiezione del video Note
d’amicizia: Franco Donatoni
F. Donatoni, Nidi - per ottavino
Ore 20.00
Contrappunto enogastronomico
Ore 21.00
L. Berio, Sequenza X - per tromba in
do e risonanze di pianoforte
A. Gentilucci, Una trasfigurata
rievocazione cubana
16.05.2004
Palazzina Liberty
G. Gervasoni, Least bee - per
soprano e ensemble
Ore 17.00
Incontro con Mauricio Kagel
P. Hindemith, Sonata - per flauto e
pianoforte
Ore 18.00
M. Kagel, Die Stücke der Windrose für Salonorchester
F. Donatoni, Hot - per saxofono e
sette strumenti
06.06.2004
Palazzina Liberty
21.02.2004
Teatrino di Corte della Villa Reale
Ore 17.00
Incontro con Klaus Huber
Ore 19.30
Proiezione del video Una mostra da
ascoltare: Arnold Schönberg
Ore 18.00
G. Zinsstag, Tempor
H. Holliger, Studie II - per oboe solo
Margherita Chiminelli, soprano
Ore 20.00
Contrappunto enogastronomico
2004
»
»
»
Ore 21
R. Strauss, Sonata in fa maggiore op.
6 - per violoncello e pianoforte
A. Schönberg, Pierrot lunaire op. 21
Luisa Castellani, soprano
15.05.2004
Teatrino di Corte della Villa Reale
Luisa Castellani, Lo Sprächgesang in
A. Schönberg
Ore 19.30
Incontro con Mauricio Kagel
17.03.2004
Monza / Teatrino di Corte della Villa
Reale
20.03.2004
Teatrino di Corte della Villa Reale
Ore 20.00
Contrappunto enogastronomico
Ore 21.00
Ore 19.30
proiezione del video Musica Dipinta
di Nino Criscenti, con Sylvia FerinoPagden e Salvatore Sciarrino, Rai
Sat Art 2001
M. Kagel, Die Stücke der Windrose für Salonorchester
Ore 20.00
Contrappunto enogastronomico
Ore 19.30
Suoni nel roseto della Villa Reale
progetto musicale a cura del
Divertimento Ensemble
Ore 21.00
D. Shostakovic, Trio in mi minore
op. 67
05.06.2004
Teatrino di Corte della Villa Reale
Ore 20.00
Contrappunto enogastronomico
B. Maderna, Serenata n. 2
S. Sciarrino, Infinito nero
Sonia Turchetta, mezzosoprano
17.04.2004
Teatrino di Corte della Villa Reale
Ore 19.30
Incontro con Pascal Dusapin e Yan
Maresz
Ore 20.00
Contrappunto enogastronomico
Ore 21.00
Ore 21.00
K. Huber, Plainte, Die umgepflügte
Zeit I
G. Zinsstag, Tempor
A. Dvorák, Quintetto in la magg. op.
81
Masterclass
21.01.2004
Monza – Teatrino di Corte della Villa
Reale
Y. Maresz, Entrelacs
Alessandro Solbiati, Mi lirica sombra
M. Ravel, Tzigane - per violino e
pianoforte
P. Dusapin, Aria - per clarinetto e
ensemble
19.03.2004
Monza / Teatrino di Corte della Villa
Reale
Salvatore Sciarrino, Infinito nero
15.04.2004
Monza / Teatrino di Corte della Villa
Reale
Yan Maresz, Entrelacs
In collaborazione con:
Le Centre culturel français de Milan
16.04.2004
Monza / Teatrino di Corte della Villa
Reale
Pascal Dusapin, Aria
In collaborazione con:
Le Centre culturel français de Milan
14.05.2004
Monza / Teatrino di Corte della Villa
Reale
Mauricio Kagel, Die Stücke der
Windrose - für Salonorchester
C.Debussy, Sonata - per violoncello
e pianoforte
C. Debussy, Sonata - per violino e
pianoforte
Sonia Turchetta, La vocalità in S.
Sciarrino
22.01.2004
Monza – Teatrino di Corte della Villa
Reale
Stefano Gervasoni, Least bee
In collaborazione con:
Goethe-Institut Mailand
04.06.2004
Monza / Teatrino di Corte della Villa
Reale
Klaus Huber, Plainte, Die
umgepflügte Zeit I
In collaborazione con:
CCS Centro Culturale Svizzero a
Milano
20.02.2004
Monza – Teatrino di Corte della Villa
Reale
Luisa Castellani, Lo Sprächgesang in
A. Schönberg
20.02.2004
Monza / Teatrino di Corte della Villa
Reale
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
»
Dedicato a...
Biglietto di partecipazione ad ogni
Masterclass:
22.03.2004
Salvatore Sciarrino
Intero 20 Euro
Ridotto 10 Euro (per gli abbonati ai
sei concerti di Monza o di Milano)
Milano, Conservatorio G. Verdi, Sala
Puccini
Ore 10.00 - 18.00
Salvatore Sciarrino masterclass
Ore 21.00
Proiezione del video Luci mie
traditrici
In collaborazione con:
Conservatorio di musica G. Verdi di
Milano
Biglietti e Abbonamenti
Ingressi
Biglietto di ingresso a Milano:
Intero 8 Euro
Ridotto 5 Euro
Biglietto di ingresso a Monza:
Intero 8 Euro
Ridotto 5 Euro
Biglietto di ingresso e
Contrappunto enogastronomico
a Monza (da prenotare almeno tre
giorni prima del concerto):
Intero 18 Euro
Ridotto 15 Euro
Costo del Contrappunto
enogastronomico - cena con
degustazione nelle sale adiacenti il
Teatrino (da prenotare almeno tre
giorni prima del concerto):
per gli abbonati 10 euro
Abbonamenti
Milano, sei concerti
Intero 36 Euro
Ridotto 22 Euro
Le cinque giornate dedicato a…
sono a ingresso gratuito
Prevendita biglietti e
abbonamenti
Monza
Teatro Manzoni, via Manzoni,
tel 039 386 500;
Milano:
Stradivarius, Corso Buenos Aires
angolo Via Caretta, tel 02 29 400
600
Furcht Pianoforti,
via Manzoni 44, tel 02 796 418
Nei giorni dei concerti la biglietteria
sarà aperta, mezz’ora prima
dell’inizio del concerto, presso le
rispettive sale.
Informazioni
Monza
Ufficio Cultura Comune di Monza,
tel 039 2302 192,
[email protected]
Milano
Divertimento Ensemble, via Poggi 7,
[email protected]
Ringraziamenti
Con il contributo di
Comune di Monza
Fondazione Sergio Dragoni, Fondo
Armando Gentilucci
Le Centre culturel francais de Milano
Goethe-Institut Mailand
CCS Centro Culturale Svizzero di
Milano
Edizioni Suvini Zerboni
Furcht Pianoforti
Silvarte
Con il patrocinio di
Comune di Milano
Per i concerti a Monza un
ringraziamento a
Associazione per il Teatrino di Corte
Liceo Musicale Vincenzo Appiani
Società di concerti Corona Ferrea
Divertimento Ensemble
via Poggi 7, 20131 Milano
tel 39 02 7060 2800 / fax 39 02 7063
2083
[email protected]
www.divertimentoensemble.it
Indirizzi
Teatrino di Corte della Villa Reale,
Villa Reale, Monza
Palazzina Liberty, Largo Marinai
d’Italia, Milano
CCS Centro Culturale Svizzero,
via del Vecchio Politecnico 1/3,
Milano
Conservatorio G. Verdi,
via Conservatorio 12, Milano
Accademia Internazionale della
Musica, villa Simonetta, via Stilicone
36, Milano
FNAC, via Torino angolo via della
Palla, Milano
Abbonamento ai sei concerti di
Monza:
Intero 36 Euro
Ridotto 22 Euro
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
Rondò 2004
I Stagione
Approfondimenti
Alessandro Solbiati
Mi lirica sombra
Poche volte sono stato così convinto nell’anteporre ad un mio brano una citazione come nel caso di Mi lirica sombra:
“...como una pantera, su sombra acheca mi lirica sombra.”
(“come una pantera, la sua ombra spia la mia ombra lirica”, da Garcia Lorca).
E’ esattamente quello che fa qui il clarinetto basso, strumento per il quale
questo pezzo rappresenta una sorta di mia personale dichiarazione d’amore:
i suoi suoni sanno essere vellutati quanto estremamente aspri, può cantare
in modo molto espressivo, ma non eccede mai in dolcezza, può essere aggressivo o affettuoso, può andare nelle profondità estreme del registro, con
ogni dinamica ed agilità, o slanciarsi ad altezze vertiginose. Era lo strumento
ideale per fare ciò che mi premeva in quel momento (e che continua ad interessarmi oggi) cioè esplorare senza paura un mio imprescindibile desiderio
di lirismo, esorcizzando con un tale solista il rischio delle sdolcinature.
Solitamente, quando scrivo alcune note su un mio pezzo, tendo a descriverne la parabola formale. Questa volta decido di non farlo, poiché penso che
le situazioni musicali di Mi lirica sombra, e la loro vicenda formale, siano a
tinte così forti da non richiedere descrizione alcuna. La chiarezza delle figure
e degli eventi di questo brano me l’hanno sempre reso uno dei miei lavori
più cari, e che più “mi assomigliano”, penso, con i suoi “mostri oscuri” e le sue
evidenti melodie
Alessandro Solbiati
Luca Antignani
Spira mirabilis
Divertimento Ensemble | Rondò
Spira mirabilis rappresenta quella che è ormai una costante del mio iter creativo: la riflessione sul tempo musicale. Il primo percorso macroformale è basato sul paradosso di un accelerando continuo su un tactus in progressivo
decelerando, mentre la seconda parte, che sorge con estrema naturalezza
allorché l’energia della sezione precedente giunge a saturazione, è costruita
su delle onde discontinue di accelerando-decelerando scritto, che tracciano
idealmente una linea spiraliforme. In effetti il riferimento alla spirale si manifesta in questo lavoro su più livelli: a cominciare da quello figurale (uno stesso
profilo tematico torna ricorsivamente ed assume ad ogni comparsa una valenza differente), passando per quello armonico (l’intero pezzo è costruito su
due tipologie di scale entrambe modulari: la pentatonica e la T-S di Messia-
2004
»
en), quello succitato temporale e quello più specificamente metrico-ritmico
(nel momento catartico della prima parte, quasi una cadenza del pianoforte,
il ritmo è costruito sulla permutazione di una serie di durate la cui somma
e sempre uguale all’unità di base) e per finire su quello formale, nettamente organizzato, secondo un artificio di memoria Ligetiana, sul registro e su
una distribuzione spaziale dei piani sonori. Eppure, come spesso accade, mi
sono reso conto di essere al centro di un vortice quando la composizione era
già in stadio avanzato, sebbene le micro e macro-proporzioni seguissero già,
con una certa elasticità, le regole della sezione aurea. Nella seconda metà
del seicento Jaques Bernoulli dedicò un trattato intitolato Spira mirabilis a
un particolare tipo di curva avvolta su sé stessa: la spirale logaritmica che,
in stretta parentela col rapporto aureo, preserva una forma costante in ogni
scala di grandezza.
Crescendo, cioè, non cambia forma. Il titolo, alludendo esplicitamente ad una
sua celebre opera, vuole anche essere un omaggio a Franco Donatoni, presente in questa serata non solo nella musica ma anche nell’insegnamento,
“modello inimitabile” di geometrica poesia.
Stefano Gervasoni
Least bee
Questo breve ciclo di liriche, composto nel 91-92 e rivisto nel 2003, mette in
musica alcune poesie di Emily Dickinson. Ne ho scritte due versioni, una per
soprano, flauto, tromba, percussione, arpa e violoncello, e una seconda per
soprano, flauto, clarinetto, pianoforte, violino e violoncello.
La radicalità della poesia di Emily Dickinson ha profondamente condizionato
l’elaborazione compositiva di Least Bee. In questo pezzo coesistono infatti
due obiettivi formali opposti: da un lato la scelta di mezzi estremamente
semplici - pochi gesti minimi, come “segnali”, e pochi principi di relazione governati da quello elementare della ripetizione; dall’altro un sottile lavoro di
elaborazione timbrica, che attribuisce agli elementi semplici significati continuamente mutevoli, così da illuminare di diverse intenzioni ogni singolo
gesto.
Mi piace riportare il commento di un ascoltatore presente alla prima esecuzione, a New York, nel 1994. Le sue parole mi hanno colpito per la sensibilità
con cui hanno saputo spontaneamente cogliere le mie intenzioni:
«Il cantante ripete “silenziosamente” i versi, dicendo col silenzio la difficoltà
della poesia di Emily Dickinson, e i processi cognitivi ellittici che accompagnano la sua lettura. Ogni strumento dell’ensemble rivela possedere ampi
spettri di suono e mano a mano ci si rende conto che ognuno è suonato non
tanto come semplice centro produttore e propagatore di frequenze, durate,
timbri, ma come un meccanismo che produce il suo avanzare pesante, il suo
respirare fino all’ansimare, il suo boccheggiare. Anche questa qualità sembra
appropriata a un pezzo che ha a che fare con la Dickinson. I suoi testi mostrano i propri organi interiori a ogni snodo, nonostante la Dickinson si sforzi di
rivestirli di un aspetto formale. Penso ai casi in cui tenta di conformarsi a uno
schema di rima tradizionale mentre la poesia non lo permette e spinge così
avanti il suo corpo aborigeno» (Tim Davies, 1994).
Stefano Gervasoni
maggio 2000
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
Sandro Gorli
Corrente
Corrente, per tromba in do con accompagnamento di pianoforte, è stato
scritto nel 2002 su commissione del XIII Concorso Internazionale “Città di
Porcia”, come pezzo d’obbligo alla prova finale.
La destinazione del pezzo e la particolare natura dello strumento mi hanno
indotto a concentrare sulla tromba la quasi totalità dell’invenzione musicale, affidando al pianoforte un ruolo secondario di “accompagnamento”, con
una duplice funzione: evidenziare le diverse situazioni armoniche e definire
lo spazio acustico entro cui si muove senza interruzioni e con un carattere
virtuosistico lo strumento solista.
Il pianoforte infatti anticipa spesso in modo accordale le situazioni armoniche
che la tromba percorre oppure espone armonie complementari a quelle.
Raddoppiando alcuni suoni o figure musicali del solista e quindi realizzando
un prolungamento di quei suoni e di quelle figure, una specie di riverbero
artificiale, il pianoforte si trasforma in una “camera acustica” che crea l’illusione di un movimento del suono nello spazio, di un suo allontanamento o
riavvicinamento
Sandro Gorli, 2002.
Franco Donatoni
di Pierre Boulez, 1989
Chi può oggi, al pari di Franco Donatoni, unire le qualità minute dell’artigiano
con l’originalità di un raffinato mondo immaginario? Sono rari i compositori
che, come lui, hanno forgiato un utensile originale, che parlano un linguaggio
così specifico, che si sono creati un territorio poetico tanto evidente da essere
riconoscibile fra tutti. Inoltre il suo universo ha la fortuna di fare la gioia degli
interpreti per il suo aspetto concreto, vicino, evidente. La lunga perseveranza
di Franco Donatoni sembra averlo portato verso la libertà e, più ancora, verso
al spontaneità: felice privilegio, se altri ne esistono, questa facilità apparente
che a disposizione d’altri mette simili profonde risorse tanto ostinatamente raggiunte, e tanto seducenti! Ogni compositore può invidiarlo per questa
maestria che realizza l’illusione.
Intervista doppia a
Stefano Gervasoni ed
Alessandro Solbiati
Che cosa è stato più importante nella tua carriera scolastica?
Divertimento Ensemble | Rondò
Solbiati:
Un semplice organista di un paese vicino a Busto Arsizio che, quando ero
bambino, mi spinse a fare musica mia e non soltanto a suonare quella degli altri, l’insegnante di lettere di I liceo classico che mi fece amare Dante, il
docente di Fisica I della Facoltà di Fisica di Milano che durante una lezione
disse agli studenti del I anno (per me fu anche il penultimo) che se eravamo lì
per conoscere il “che cosa” o il “perché” della realtà avevamo sbagliato strada,
poiché lì si parlava solo del “come”, Franco Donatoni che mi ha spalancato le
porte del pensiero compositivo, Sandro Gorli che me lo ha arricchito di un
più forte rapporto col suono, Guido Salvetti che mi ha rafforzato l’idea che
analizzare musica significa aderirle fino a farla propria
Gervasoni:
Durante gli anni di Conservatorio (a Milano): la funzione di stimolo ad un
approccio creativo e critico nello studio della composizione e di “invito emotivo” allo scrivere che hanno avuto insegnanti come Luca Lombardi e Niccolò
Castiglioni in particolare; da parte del mio terzo insegnante - Azio Corghi - ho
avuto soprattutto l’opportunità di consolidare e di mettere a punto gli strumenti tecnici necessari alla mia ricerca poetica e la possibilità di scambiare
esperienze con gli altri allievi della sua classe, in gran parte diventati poi com-
2004
»
positori militanti.
Dopo il conservatorio, il mio periodo di perfezionamento all’Ircam e a Parigi
in generale (1992-1997) mi ha consentito di incontri determinanti sul piano
umano e artistico: cito in particolare quelli con i compositori Helmut Lachenmann, Gérard Grisey, Brian Ferneyhough, Peter Eötvös, con Philippe Albèra,
con Marc Texier e con alcuni musicisti tra cui l’ensemble Contrechamps, la
violista Geneviève Strosser, l’ensemble Klangforum, la pianista Jenny Lin. Naturalmente tanti altri rapporti importanti hanno fatto seguito agli incontri
“parigini.
Quale rapporto hai con le altre arti? Ti senti vicino a correnti della pittura
o letteratura?
Solbiati:
Adoro l’arte, in ogni sua espressione, poiché la ritengo la terza delle tre grandi
potenzialità dell’essere umano ( dopo l’amore e il senso religioso). Amo ogni
forma d’arte, purché io ne avverta la sincerità e lo spessore. Non mi interessa
alcun discorso di “corrente”. Una mostra di pittura o la lettura di un libro può
risultare di stimolo alla mia persona e alla mia creatività più di molti ascolti
musicali. Penso che ogni arte sia una differente sfaccettatura dell’unica, immensa e irrefrenabile esigenza espressiva dell’essere umano.
Recentemente, a Lyon, mi è stato consigliato di visitare il Museo dei tessuti.
Non avrei mai pensato che un’attività così vicina all’artigianato e che prende
le mosse dalla semplice necessità di coprirsi potesse raggiungere vette di ricchezza espressiva di quel genere, in ogni epoca e luogo.
Io sono interessato all’espressione umana.
Gervasoni:
Ho un rapporto privilegiato con la poesia. Sento un rapporto di stretta vicinanza tra Musica e Poesia: nella musica e nella poesia c’è sempre una voce
che parla, ma che si esprime sempre al di qua o al di là dell’esprimibile grazie al suono che intride parola e linguaggio musicale e che moltiplica così le
possibilità di significazione, rendendo ambiguo e polivalente il senso. Non
esiste un senso ultimo, lo svelamento di ogni verità è sempre rinviato: di differimento in differimento il senso si fa ulteriore, più profondo, più essenziale
e l’uomo che ascolta la musica o legge la poesia e l’uomo che le scrive ha l’impressione di avere fatto un cammino al di là del consueto e dell’abitudinario
e rinnovato il senso del suo stare al mondo - che richiede necessariamente
adeguamento a abitudini e convenzioni - fino al punto di potere indicare al
mondo nuovi spiragli di orizzonte, nuove strade da percorrere.
Come giudichi la situazione della musica contemporanea in Italia?
Solbiati:
Niente lamentele o piagnistei. Vi è un’evidente, spaventosa distanza tra la
qualità e la quantità di musica cosiddetta “colta” che oggi si produce in Italia
(nessuna nazione europea è, a mio parere, a livello italiano, per numero di
compositori, ma soprattutto per la vitalità e l’interesse della produzione) e
le occasioni di diffusione che innanzitutto i mass-media (la latitante radio e
la del tutto assente televisione) e le società di concerti offrono. Ciò va al di là
delle attitudini del pubblico, molto più curioso di quanto pensi chi gestisce
l’attività e la comunicazione culturali, molto disponibile, in realtà, a confrontarsi con 15-20 minuti di musica nuova e mai ascoltata. Sta a ciascuno di noi
lavorare per allargare questi spazi (anche in senso economico) e contribuire
a distruggere quella subdola proporzione indotta nella coscienza collettiva
per cui Beethoven sta all’inizio del XIX secolo come una qualsiasi rock star sta
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
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all’inizio del XXI. E’ un’equivalenza falsa e avvilente, per la creatività dell’uomo
contemporaneo, e dobbiamo contribuire a mostrarne la povertà, nel rispetto
dell’Uomo ed anche delle centinaia di giovani che, in Italia, malgrado tutto,
studiano composizione, mostrando fiducia nella continuità del pensiero occidentale di alto livello.
Gervasoni:
Molto difficile dal punto di vista socioeconomico (organizzazione e diffusione
degli eventi legati alla musica d’oggi sempre più ridotta e precaria, istruzione musicale di base di bassissimo livello, coscienza del valore culturale della
musica pressoché inesistente da parte della classe politica, problemi a cui si
aggiungono quelli, gravi, creati dall’adozione di modelli culturali sempre più
basati sulla globalizzazione e sulla massmediatizzazione degli strumenti di
diffusione e divulgazione delle fonti, interamente controllati dal mercato e
dal commercio). In questo panorama la figura del compositore sopravvive
come quella di un eremita, dell’emarginato, del diverso, che fa della propria
ricerca - se a volte non lo si può chiamare lavoro - la propria missione di vita.
Io credo a una figura di compositore di questo tipo ed associo alla parola
compositore quella di ricerca e di creatività. L’artista, a mio avviso, non può
che essere un esploratore che cerca ovunque gli piace mettere piede mani
occhi orecchie e naso, anche laddove altri hanno detto di avere già trovato
tutto. Solo così l’artista è creativo: in modo naturale, non può impedirsi di
esserlo, di cercare. Non gli importa soltanto di tener conto dell’esistente e di
scegliere tra quello che il “pianeta esplorato” gli offre, magari combinandolo
in una maniera più o meno disinvoltamente plurima.
Che genere di musica ami ascoltare?
Solbiati:
Nell’ambito della musica “scritta” europea (“scritta” è una discriminante più
vera e meno discutibile e snob di “colta”), sono piuttosto onnivoro, e vado
dal canto cristiano alla mia amatissima produzione trobadorica, dalla polifonia medievale e rinascimentale su su fino agli adorati Brahms e Mahler (ma
indico solo due nomi per non esagerare in banalità) e fino all’oggi, ai pezzi
dei compositori più giovani di me. Evito “a pelle” solo certa musica barocca
o galante del ’6-700 e in genere l’opera e il melodramma (escluso Mozart!),
generi che, (mea culpa!) non riescono a interessarmi più che tanto. Aggiungo
la musica di ogni tradizione popolare, soprattutto quelle occidentali, in cui
riconosco una disarmante “verità”.
Gervasoni:
Ogni genere che mi piace scoprire per caso o per necessità, prevalentemente
per caso. E dall’occasione di un genere o di un autore che il caso mi offre sistematizzo le frequentazioni musicali seguenti, fino al punto di ascoltare a lungo e studiare ossessivamente l’autore o il genere scelto. E’ il caso per esempio
del Fado portoghese, che da ormai parecchio tempo mi ha totalmente catturato, al punto che mi piacerebbe realizzare un progetto musicale con una
cantante di fado contemporaneo, Cristina Branco. Non ascolto musica rock
in nessuna delle sue declinazioni più o meno attuali, più o meno tecnologiche, e ho qualche difficoltà ad apprezzare la creatività dell’improv-visazione
di tanto jazz contemporaneo. Per il resto ascolto di tutto, a condizione - ripeto - che l’ascolto non sia imposto da fenomeni di moda o di mercato. Non
sopporto il conformismo indotto dalla moda e lo sfruttamento commerciale
ad esso connesso.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
»
Quali sono i tre compositori del XX secolo che più ami?
Solbiati:
Berg, Bartòk e Maderna.
Gervasoni:
Debussy, Webern, Lachenmann - se Debussy non appartiene al XX secolo:
Igor Stravinsky.
I tre pittori?
Solbiati:
Kandinskij, Dalì, Chagall.
Gervasoni:
Klee, Picasso, Rothko.
I tre poeti?
Solbiati:
Rilke, Garcia Lorca e Neruda
Gervasoni:
Rilke, Celan, Fortini.
Come insegnante, cosa ti sembra importante trasmettere a un allievo?
Solbiati:
Molte cose: Innanzitutto una tecnica, perché spesso dietro la pretesa “libertà espressiva” dell’allievo si maschera la pochezza o l’insufficienza dell’offerta tecnica da parte dell’insegnante. In un’epoca in cui si può fare tutto e il
contrario di tutto è molto importante mostrare l’incessante continuità delle
modalità compositive del pensiero occidentale, pur attraverso crisi così profonde da apparire “finali”.
Certo, di ogni tecnica proposta bisogna mostrare chiaramente la “paternità”,
la provenienza storica.
In secondo luogo la curiosità, il chiedere continuamente all’allievo di girare
il mondo e conoscere musica e musicisti, tecniche e pensieri . In terzo luogo
l’intransigenza con se stessi, cioè il non fingersi mai, dentro di noi, soddisfatti
del proprio fare (qualche volta può capitare di esserlo, ma non bisogna mai
accettare di fingersi).
In quarto luogo l’autoironia, il non credersi mai così importanti e bravi.
Purtroppo la motivazione al fare, che è poi la cosa più importante, non è insegnabile. Si può però mostrare la propria motivazione, ed è già molto.
Gervasoni:
Il desiderio della scoperta, la volontà di trovare e affinare nella maniera più
minuziosa i propri strumenti espressivi, trovare, insomma, la propria voce.
A che età e in che modo hai cominciato a comporre?
Solbiati:
Pur senza alcuna intenzione di mostrarmi enfant prodige, devo dire che l’attitudine a fare musica mia è nata in me assieme all’interesse stesso per la musica, cioè molto presto. Quando avevo cinque anni, regalarono a mio padre,
medico senza speciale interesse per la musica, una tastiera elettrica (parlo del
1961) predisposta in modo che premendo un do grave si producesse un’intera triade. Tutti in famiglia suonavano canzoni con questa opzione, a me
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
»
infastidiva. Io voltavo una manopola e cercavo di capire quali tasti dessero
vita a quella bella combinazione di note che mi spiegarono poi chiamarsi “
accordo di do maggiore”.
Passarono anni, mi rifiutavo, chissà perché, di studiare musica, ma tutti i giorni andavo alla tastiera e dai miei undici anni ho composto tanta musica tonale, senza conoscere il concetto di tonalità, che registravo su nastri magnetici.
A tredici composi addirittura cinquanta minuti di colonna sonora per un serissimo spettacolo teatrale (un “Saul” di Alfieri!) che dovevo suonare io ogni
volta, ovviamente.
A quattordici mi fecero iniziare seri studi pianistici e, guarda caso, dopo due
anni di molte pagine scritte (due “sonate” per pianoforte nel 1972 !!), i seri
binari degli studi esecutivi ufficiali addormentarono la tendenza
creativa. Questa si risvegliò solo, e definitivamente, all’incontro con Franco
Donatoni, a vent’anni, nel 1976. Evidentemente si era solo assopita a causa
del “Gradus ad Parnassum”!
Gervasoni:
Verso i 14 anni durante i primi anni di studio del pianoforte (ho cominciato
ad avvicinarmi alla musica solo al secondo anno della scuola media, grazie al
mio insegnante di educazione musicale - prima per me la musica era un territorio totalmente sconosciuto): ero uno studente di pianoforte poco disciplinato: invece degli studi e degli esercizi preferivo leggere al pianoforte, con i
miei rudimentali mezzi tecnici, gli Autori (in particolare Chopin e Beethoven)
e scrivere dei piccoli pezzi in stile (soprattutto nello stile di Chopin).
All’età di 16 anni ho cominciato ad ascoltare e ad interessarmi alla musica
contemporanea. A 18 anni, grazie ad un bellissimo incontro con Luigi Nono,
nella sua casa alla Giudecca, ho deciso di studiare seriamente la composizione e in quello stesso anno sono entrato al Conservatorio di Milano.
Potresti riassumere in poche parole come nasce una tua composizione?
Solbiati:
Prima di tutto c’è un organico per cui scrivere. Non si possono avere idee
senza sapere con quali personaggi si potrà giocare. Poi, vi è un’immagine, o
idea, come dir si voglia, cioè un elemento intuitivo.
Il mio tipo di intuizione è di tipo narrativo-formale: non posso iniziare un pezzo, cioè, senza aver in mente un arco immaginativo quasi teatrale, una “vicenda formale”, come dico nel mio cuore, totale, pur se sfocato, ovviamente, cioè
riguardante l’intero pezzo.
L’idea, poi, si incarna e prende forma attraverso uno o più processi, uscendone definita (e modificata), nonché pronta a generare altre idee attraverso
l’incontro-scontro col processo.
Gervasoni:
E’ molto difficile. Non è mai una nascita neutra, pragmatica: la commissione
di un lavoro non è mai il fatto determinante la nascita di un pezzo (qualcuno
mi offre la possibilità di scrivere e di eseguire qualcosa). Deve ad un certo momento offrirsi un occasione. L’occasione è il movente assolutamente non predeterminabile, ma certamente preparabile, che permette l’avvio con forza e
determinazione del lavoro di composizione e lo porterà a compimento, dopo
mesi di studi preparatori, ricerche teoriche, indagini sui materiali, pagine abbozzate, calcoli strutturali. La natura dell’occasione è assolutamente volatile
(una percezione particolare, un’idea che come d’incanto viene in superficie e
diventa il nome di una persona, il tolto di un pezzo che è parola magica che
lo racchiude, una circostanza emotiva che matura, un evento particolare della vita o un’esperienza artistica o percettiva in generale che ti si imprime da
qualche parte e ha bisogno di essere trasformata in altro da sé per agire finalmente dentro di te, e di farlo con i mezzi espressivi che ti sono più propri).
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
»
Componi al tavolo o al pianoforte?
Solbiati:
Al tavolo, anche se non sono immune da veloci controlli pianistici di certi
“colori” armonici.
Gervasoni:
Al tavolo prevalentemente.
Uso il pianoforte come strumento molto parziale di verifica dell’impianto armonico. Il tavolo è il luogo dove dispongo dei miei strumenti (carta, matita,
computer, archivio degli appunti e delle ricerche precedenti) e si dispone nel
tempo e nei modi della musica la mia immaginazione.
Ma l’immaginazione raramente si dispiega al tavolo: in questo il tavolo è sostituito dal balcone, dalla cima di una montagna, dal giro in bicicletta, da un
letto su cui mi stendo al buio in assenza di rumori esterni, dalla notte o dall’alba in cui mi piacerebbe fossero il tempo quasi esclusivo nel quale scandire il
tempo del mio lavoro.
Ti capita di sognare musica?
Solbiati:
Ho due tipi di sogni musicali ricorrenti, anche se non con particolare frequenza.
Il primo mi vede seduto al pianoforte, su un palcoscenico illuminato e con
molto pubblico, senza nemmeno sapere quale pezzo dovrei eseguire. E’ un
incubo. Evidentemente il diploma di pianoforte mi ha segnato duramente.
Il secondo mi vede spettatore di un concerto di una grande orchestra che
esegue musiche mie. Bellissime.
Evidentemente è solo un sogno.
Gervasoni:
Rarissimamente, forse perché oltre a non ricordare i miei sogni (e a non volerli
ricordare…) non ho una buona memoria musicale. Ricordo di due o tre occasioni della mia vita in cui ho sognato la mia musica. Al risveglio, non mi è mai
restato nulla più di una “nebulosa di sonorità”, non una composizione che si
svolge nel tempo di cui ricordo alcune parti, ma un’idea globale di suono o di
colore, molto vaga, né bella né brutta, che mi lascia qualcosa a livello emotivo profondo ma niente di produttivo; non insomma un suggerimento pronto
a diventare struttura musicale concreta, come a qualcuno forse capita.
Giacomo Manzoni,
Essai, di Giovanni
Verrando
La complessità del percorso compositivo di G. Manzoni non permette il riconoscimento di una cifra stilistica, né la categorizzazione della sua poetica che,
al contrario, si e sempre dimostrata disponibile all’ auto-critica ed alla sperimentazione. Ogni nuova creazione del compositore non rappresenta quindi una reiterazione di forme e gesti musicali acquisiti, ma un ripensamento
della struttura e dell’espressione musicale. Le sue opere si sono distinte per
un rigore intellettuale, per una ricerca del rinnovamento linguistico, qualità
che accomunano l’autore ai compositori ed alle poetiche fondamentali per il
periodo di sviluppo della musica contemporanea, avvenuto intorno agli anni
‘50 e ‘60.
“Essai” ci presenta il volto più immediato, più facilmente sintetizzabile per
l’ ascoltatore, dell’ opera di Manzoni. Così, nella breve forma del brano, gli
elementi si alternano, si susseguono secondo una precisa strutturazione che
li rende punti di riferimento in un discorso musicale logico, semplice e conseguente.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
Giacomo Manzoni
Preludio - “Grave” di
Waring Cuney – Finale,
di Paolo Petazzi
Composto a 23 anni nel gennaio 1956, è uno dei primissimi pezzi del catalogo di Manzoni. Rivela (come i lavori precedenti) una totale estraneità alle suggestioni “neoclassiche “ ancora riconoscibili negli esordi di altri autori italiani
negli anni Cinquanta e muove con consapevole sicurezza in una direzione di
ricerca che assume come punti di riferimento Schoenberg, Berg, Webern e,
per qualche aspetto, Bartòk.
In questo pezzo capita ancora di cogliere con immediatezza il rapporto con
tali punti di riferimento, in particolare con Schoenberg; ma ciò non impedisce di percepire subito con chiarezza il profilarsi di una autonomia non riconducibile semplicemente ad un clima di matrice espressionistica.
Di natura diversa appaiono le tensioni espressive avvertibili in queste pagine,
dove si può presagire, in certi momenti di agitata densità di scrittura, qualche aspetto del rapporto con 1a materia sonora che riuscirà importante nella
matura poetica di Manzoni. Ed e significativa la qualità severa ed intensa del
lirismo che caratterizza la scrittura voca1e della seconda sezione, così come
colpisce il frantumato gioco di rifrazioni ritmiche e timbriche nel “Finale”. Il
testo de1la sezione centrale è tratto da Grave del poeta negro Waring Cuney
pubblicato da Guanda e nel 1953 nell’antologia
Nuovissima poesia americana e poesia negra
Matteo Franceschini
Matching dreamers,
presentazione dell’autore
Divertimento Ensemble | Rondò
La composizione è suddivisa in tre sezioni. La prima è caratterizzata dalla
nascita di un flusso melodico, filo “conduttore” dell’intero brano, che mano
a mano perde la sua vera natura disperdendo nel registro le altezze che lo
compongono. Questa frammentazione, interrotta saltuariamente da nuovi
“personaggi sonori” a volte quasi grotteschi, è accompagnata da interventi
accordali in fortissimo che, come un segnale, lentamente si avvicinano tra di
loro aumentando il numero delle verticalità e piombando in un ambito di registro gravissimo. Da qui si entra in una zona di suono-rumore, caratterizzata
dalla trasformazione del violoncello in una sorta di nuovo strumento, abbassandone la quarta corda e sfruttandone le molteplici possibilità espressive.
Questo fondale rumoroso viene periodicamente “scosso” da un rintocco acutissimo e forte votato a riportare alla luce il clima melodico iniziale “purificandolo”. La terza ed ultima zona segna quindi la rinascita del flusso melodico
“primordiale” che, snodandosi tra il violino e il violoncello, appare qui nella
sua forma più chiara. Contrariamente alla prima sezione, dove i movimenti
accordali sprofondano nel grave portando con se tutto il materiale musicale,
qui il flusso melodico lentamente si sposta verso il registro più acuto fino a
scomparire. Un movimento lento e statico del pianoforte, con un leggero e
progressivo cangiamento timbrico, segue anch’esso la salita di registro, per
poi concludere il suo percorso raggiungendo degli accordi acutissimi in sincrono con gli archi.
2004
A. Schönberg
Pierrot lunaire op. 21
“Improvvisamente, di mattina, una gran voglia di comporre. Era da così tanto
tempo! Avevo già anche pensato all’eventualità di non comporre più”. Così
scrive Schönberg nelle ultime pagine del suo Diario berlinese, un prezioso
documento che il musicista redasse durante il 1912. Il giorno successivo, troviamo la seguente annotazione: “ieri, 12 marzo, ho scritto il primo dei melologhi per il Pierrot lunaire. Credo sia venuto molto bene ... Senza alcun dubbio
mi muovo, lo avverto benissimo, verso una nuova espressione. I suoni diventano qui una di sorta di vera e propria immediata espressione animale di moti
dei sensi e dell’anima. Quasi come se tutto venisse direttamente tradotto”.
La crisi compositiva sarà solo rimandata, e Schönberg non porterà a compimento nessuna composizione per ben otto anni, (tanti ne intercorrono tra i
Lieder op. 22 e i Cinque pezzi per pianoforte op. 23); ma prima di concedersi
questa lunghissima pausa di riflessione il compositore produrrà la sua opera
più conosciuta e ammirata: Pierrot lunaire op. 21, “Tre volte sette poesie di
Albert Giraud”, nella quale i postulati irrazionali della poetica espressionista
sono allo stesso tempo pienamente realizzati e superati di slancio.
Superati, si potrebbe dire, nel divenire stesso dell’opera. Se il carattere dei
macabri testi poetici rimane irrimediabilmente fin-de-siècle, se nei primi brani il suono si fa davvero “immediata espressione dei moti dei sensi e dell’anima”, nel passaggio dalla prima alla seconda e alla terza parte si fanno sempre
più evidenti i riferimenti a forme e tecniche compositive del passato, più pensate e costruite.
Passando per un ironico Valse de Chopin e per una lugubre Passacaglia (Die
Nacht, n. 8), i numeri 17-20 costituiscono in un certo senso il culmine di questo processo: dapprima, attraverso il recupero di complessi artifici contrappuntistici che si richiamano a Bach e ai grandi fiamminghi (Parodie presenta
un canone per moto retto e inverso tra voce, viola e clarinetto; Der Mondfleck
vede la voce librarsi sullo sfondo di un elaborato doppio canone); i due pezzi
seguenti, una Serenade in tempo di valzer lento e una barcarola, volgono
invece lo sguardo al secolo da poco trascorso. Un’opera che apparve rivoluzionaria a Strawinsky, a Ravel, a Casella, si conclude dunque con uno sguardo
verso il passato (tale sguardo è ulteriormente rafforzato dal testo del n. 21, O
alter Duft, che fu aggiunto in un secondo momento).
La forma breve, aforistica, si era già affermata come una caratteristica dello
stile espressionista di Schönberg nei 5 Pezzi per orchestra op. 16 o nei Klavierstucke op. 19. In Pierrot la forma breve viene tuttavia investita di una nuova luce, e riflette l’esigenza del compositore di ricercare un’articolazione più
netta e definita, di recuperare un rapporto con la tradizione che la dissoluzione del linguaggio tonale aveva reso sempre più problematico. La soluzione
a questa esigenza sarà trovata da Schönberg solo molto più tardi, dopo gli
otto anni di silenzio, e consisterà nella definizione di un sistema razionale
in grado di sostituire la tonalità. Non a caso, i primi brani scritti utilizzando il
nuovo “sistema di composizione con i dodici suoni” porteranno i titoli classici
di Minuetto, Gavotta, Giga, Valzer. Eppure, quanti fermenti vivono ancora nel
contrappunto atonale e libero, nella strumentazione sempre varia, nel clima
sospeso tra ironia e straniamento di Pierrot; quanto quest’opera ci appare
oggi vicina rispetto all’enfasi un po’ fredda, sorta di autocelebrazione della
grande tradizione mitteleuropea, di molte opere seriali del musicista!
Fra le caratteristiche più memorabili di Pierrot va senza dubbio considerata la
strumentazione. La voce è accompagnata da cinque musicisti che suonano
otto strumenti: violino/viola, flauto/ottavino, clarinetto/clarinetto basso, violoncello e pianoforte. Come è stato più volte osservato, non c’è un solo brano,
dei ventuno che compongono la raccolta, in cui Schönberg abbia utilizzato la
medesima combinazione strumentale. L’estrema varietà ottenuta attraverso
la massima economia di mezzi fu subito percepita come una lezione fondamentale; e l’influenza strumentale di Pierrot attraversa a ben vedere l’intero
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
»
secolo, dalle opere cameristiche di Ravel e Strawinsky degli anni Venti al Marteau sans Maitre di Boulez o alle Beatitudines di Petrassi.
La prima esecuzione di Pierrot lunaire ebbe luogo a Berlino il 16 ottobre
1912 sotto la direzione dell’autore e con il ruolo vocale sostenuto da Albertine Zehme, la committente. Erano state necessarie ben venticinque prove.
L’esecuzione - con grande sorpresa dei critici - si concluse con un’ovazione
per Schönberg, che fu letteralmente costretto dal pubblico a un bis integrale
dell’opera.
A una successiva esecuzione berlinese, l’8 dicembre, erano presenti Strawinsky e Diaghilev. Cinquant’anni più tardi, il musicista russo ricordava ancora
l’impressione indelebile ricevuta da quella esecuzione:
“La reale potenza di Pierrot - suono e sostanza, giacché Pierrot è il plesso solare oltre che lo spirito della musica degli inizi del XX secolo - mi lasciò attonito,
così come essa a quell’epoca lasciò attoniti tutti noi”.
L’immediata conseguenza dell’impressione ricavata dall’ascolto di Pierrot fu
la composizione delle Trois poésies de la lyrique japonaise per voce femminile e piccolo gruppo da camera, il primo di una serie di lavori cameristici - Strawinsky, ricordiamolo, stava allora ultimando la gigantesca partitura del Sacre
du Printemps - che, passando per le Pribautki, le Berceuses du chat e Renard,
troverà un punto culminante nell’Histoire du soldat.
Salvatore Sciarrino
Infinito nero, estasi di un
atto
Divertimento Ensemble | Rondò
L’anima si trasformava nel sangue, tanto da non intendere poi altro che sangue, non vedere altro che sangue, non gustare altro che sangue, non sentire
altro che sangue, non pensare altro che di sangue, non poter pensare se non
di sangue.E tutto ciò che operava la sommergeva e profondava in esso sangue
influirsi influssi influiva rinfluiva e il sangue influiva rinfluiva influssi rinfluire
rinfluisce rin fluisce influssi rinfluivono influsii rinfluivono superesaltando
allora il Santo mi versò sul capo un vaso e il sangue mi coperse tutta. Anche
la Santa versò. Il latte mescolandosi col sangue mi fa una bellissima veste.
Obumbrata la faccia
o, o, o (silenzio) o, o, o (sil.)
o se le piante potessino avere amore, non griderebbero altro
o, io non lo so (sil.)
timui timore amoris. Timui timore amoris. Timui timore amoris (sil.)
ma dillo, ma dillo
mors intravit per fenestras. Ma tu perché
figure immagini e facce, aspirazione, inspirazione e respirazione in te. (sil.)
vieni
sul corpo tuo aperture a noi incognite. Usci, finestre, buche, celle, forami di
cielo, caverne. Senza fondo stillanti. Sono le piaghe dentro cui mi perdo
vieni, vieni
con la corona: le sue spine, lunghe, trapassano il Padre Eterno in cielo
egli scrive su di me con il sangue. Tu con il latte della Vergine. Lo Spirito con
le lagrime
vieni
non si aprino le nuvole, si bene il vergineo ventre (sil.) si ma
vieni, vieni, deh, vieni, o, vieni vieni (sil.)
ohimé, vivendo muoio (sil.) o, o, o (sil.)
(stando un poco si pone a sedere)
orsù eccomi in terra (sil.) non posso ir più giù io (sil.) e sì (sil.) o savia pazzia
(sil.)
(aprendosi nelle braccia tutta sirilassa, ferma ferma. E poi comincia a divincu-
2004
»
larsi: gesti e moti che pare si consumi, per un pezzo)
io non intendo (sil.) è meglio il tuo, sì. si (sil.) ohimé (sil.) tu sei senza fine, ma
io vorrei veder in te qualche fine.
I primi schizzi di Infinito nero, estasi di un atto, risalgono all’estate 1997. Il
libretto si basa sui testi di Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica dell’inizio
del XVII secolo.
Alla fine degli anni ’80 avevo trovato un’edizione moderna di una scelta dei
suoi scritti, Le parole dell’estasi.
Maria Maddalena de’ Pazzi era folle e aveva delle visioni mistiche. Proveniva da una famiglia fiorentina molto conosciuta e questa è probabilmente la
ragione per la quale è stata canonizzata. La sua figura è imbarazzante, quasi
diabolica. In lei è difficile distinguere veramente Dio dal Diavolo. Le sue visioni sono sempre angoscianti e rivelano un autentico carattere patologico.
Il modo in cui i suoi testi ci sono pervenuti è singolare. Maria Maddalena
de’ Pazzi non scriveva. Tutto ciò che ci è pervenuto di lei è stato trasmesso
oralmente. La sua storia è stupefacente. Otto novizie stavano con lei, quattro
ripetevano quello che diceva, poiché ella parlava troppo velocemente per
essere seguita, e quattro scrivevano quello che le prime ripetevano. Le parole
zampillavano da lei come una mitraglia, poi ella cadeva in un lungo silenzio.
Questa bizzarria, questa evidente patologia, è una forma estrema di oralità.
Non si trattava più di parole, ma di una cascata, di un flusso verbale. La storia
di Maria Maddalena de’ Pazzi, i suoi dettati di gruppo, le sue parole e le loro
trascrizioni hanno qualcosa di particolarmente teatrale, e potrebbero essere
il soggetto di un‘opera, o piuttosto di un film o di un documentario.
Questa scissione tra l’enunciazione la più rapida possibile e il mutismo più
completo, la transizione spontanea verso il silenzio, caratterizzano anche la
mia musica. Il silenzio non è vuoto ma è nascita del suono, esperienza della
vita. Forse il mio silenzio è ora più sobrio. Non avrei mai pensato di poter
scrivere l’inizio del lavoro, con il suo ritmo di respirazione. Stiamo in ascolto
del nostro cuore? Rifiuto ogni amplificazione degli strumenti perché l’ascoltatore deve sentire il diverso respiro e i battiti del cuore di Maria Maddalena.
Ma uno strumento, il legno di un pianoforte sono un cuore? Non avevo probabilmente mai utilizzato prima i suoni e i rumori con la stessa consapevolezza e precisione, con una tale sicurezza tecnica. Sono arrivato davvero in
profondità, fino al suono del silenzio.
Le mie opere recenti sono praticamente nude. Questa nudità è determinante
per l’ascolto. E’ a questa condizione che la musica si impadronisce di noi.
Tutte le forme di linguaggio e di esperienza si alterano, perdono la loro normalità quando sono limitate, ed è sufficiente un solo suono per comprendere
cosa è il suono o il silenzio.
All’inizio il tema centrale di Infinito nero era il dialogo, l’idea di polarità, il
nero e il bianco. Dapprima avevo anche pensato a due solisti. Lo spazio della
scena doveva essere diviso, non con delle costruzioni ma dalla luce, nera e
bianca. Non una divisione costante, ma cambiamenti rapidi della luce, quasi un batter d’occhio. Questi cambiamenti riflettono l’immagine dell’opera e
delle sue implicazioni. La cosa più importante è che l’idea della concordanza
delle contraddizioni sia visibile. Infinito nero avrebbe potuto essere intitolato
Infinito bianco. Non è un paradosso: se io fisso a lungo il bianco o il nero,
vedo la stessa cosa.
La partitura non contiene alcune indicazione di messa in scena, tranne che
alla fine, dove è precisato che l’interprete si torce, come roso dall’interno. Durante la composizione mi è tornato alla mente uno studio sull’isteria di Charcot, della fine del XIX secolo. Charcot analizza i movimenti dei “posseduti dal
diavolo”, come sono riprodotti dalla pittura. In un certo movimento a terra gli
isterici tendono il loro corpo come un arco, sostenuto unicamente dai piedi e
dalle spalle. E’ singolare che le novizie abbiano descritto gli stessi movimenti
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
»
in Maria Maddalena de’ Pazzi: “Si siede e comincia a torcersi”. Questi movimenti caratterizzano una posseduta dal diavolo.
In una seconda versione il libretto riprendeva anche qualche riga di Jules Laforgue. Poiché Laforgue teneva una posizione “critica”, le ho eliminate. Il suo
testo fa parte dei dintorni dell’opera, ma Maria Maddalena de’ Pazzi traduce
meglio la solitudine, il dolore e il sentimento della perdita. Il risultato è più
convincente così, senza rotture stilistiche. Perché resta questa separazione
tra il nero e il bianco, tra Dio e il Diavolo, forse tra il silenzio e la parola. O tra
la respirazione e il silenzio
da Maria Maddalena de’Pazzi
Da una conversazione
con Salvatore Sciarrino
attorno a Infinito nero
Divertimento Ensemble | Rondò
I primi schizzi di Infinito nero, estasi di un atto, risalgono all’estate 1997. Il
libretto si basa sui testi di Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica dell’inizio
del XVII secolo.
Alla fine degli anni ’80 avevo trovato un’edizione moderna di una scelta dei
suoi scritti, Le parole dell’estasi.
Maria Maddalena de’ Pazzi era folle e aveva delle visioni mistiche. Proveniva da una famiglia fiorentina molto conosciuta e questa è probabilmente la
ragione per la quale è stata canonizzata. La sua figura è imbarazzante, quasi
diabolica. In lei è difficile distinguere veramente Dio dal Diavolo. Le sue visioni sono sempre angoscianti e rivelano un autentico carattere patologico.
Il modo in cui i suoi testi ci sono pervenuti è singolare. Maria Maddalena
de’ Pazzi non scriveva. Tutto ciò che ci è pervenuto di lei è stato trasmesso
oralmente. La sua storia è stupefacente. Otto novizie stavano con lei, quattro
ripetevano quello che diceva, poiché ella parlava troppo velocemente per
essere seguita, e quattro scrivevano quello che le prime ripetevano. Le parole
zampillavano da lei come una mitraglia, poi ella cadeva in un lungo silenzio.
Questa bizzarria, questa evidente patologia, è una forma estrema di oralità.
Non si trattava più di parole, ma di una cascata, di un flusso verbale. La storia
di Maria Maddalena de’ Pazzi, i suoi dettati di gruppo, le sue parole e le loro
trascrizioni hanno qualcosa di particolarmente teatrale, e potrebbero essere
il soggetto di un‘opera, o piuttosto di un film o di un documentario.
Questa scissione tra l’enunciazione la più rapida possibile e il mutismo più
completo, la transizione spontanea verso il silenzio, caratterizzano anche la
mia musica. Il silenzio non è vuoto ma è nascita del suono, esperienza della
vita. Forse il mio silenzio è ora più sobrio. Non avrei mai pensato di poter
scrivere l’inizio del lavoro, con il suo ritmo di respirazione. Stiamo in ascolto
del nostro cuore? Rifiuto ogni amplificazione degli strumenti perché l’ascoltatore deve sentire il diverso respiro e i battiti del cuore di Maria Maddalena.
Ma uno strumento, il legno di un pianoforte sono un cuore? Non avevo probabilmente mai utilizzato prima i suoni e i rumori con la stessa consapevolezza e precisione, con una tale sicurezza tecnica. Sono arrivato davvero in
profondità, fino al suono del silenzio.
Le mie opere recenti sono praticamente nude. Questa nudità è determinante
per l’ascolto. E’ a questa condizione che la musica si impadronisce di noi.
Tutte le forme di linguaggio e di esperienza si alterano, perdono la loro normalità quando sono limitate, ed è sufficiente un solo suono per comprendere
cosa è il suono o il silenzio.
All’inizio il tema centrale di Infinito nero era il dialogo, l’idea di polarità, il
nero e il bianco. Dapprima avevo anche pensato a due solisti. Lo spazio della
scena doveva essere diviso, non con delle costruzioni ma dalla luce, nera e
bianca. Non una divisione costante, ma cambiamenti rapidi della luce, quasi un batter d’occhio. Questi cambiamenti riflettono l’immagine dell’opera e
2004
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delle sue implicazioni. La cosa più importante è che l’idea della concordanza
delle contraddizioni sia visibile. Infinito nero avrebbe potuto essere intitolato
Infinito bianco. Non è un paradosso: se io fisso a lungo il bianco o il nero,
vedo la stessa cosa.
La partitura non contiene alcune indicazione di messa in scena, tranne che
alla fine, dove è precisato che l’interprete si torce, come roso dall’interno. Durante la composizione mi è tornato alla mente uno studio sull’isteria di Charcot, della fine del XIX secolo. Charcot analizza i movimenti dei “posseduti dal
diavolo”, come sono riprodotti dalla pittura. In un certo movimento a terra gli
isterici tendono il loro corpo come un arco, sostenuto unicamente dai piedi e
dalle spalle. E’ singolare che le novizie abbiano descritto gli stessi movimenti
in Maria Maddalena de’ Pazzi: “Si siede e comincia a torcersi”. Questi movimenti caratterizzano una posseduta dal diavolo.
In una seconda versione il libretto riprendeva anche qualche riga di Jules Laforgue. Poiché Laforgue teneva una posizione “critica”, le ho eliminate. Il suo
testo fa parte dei dintorni dell’opera, ma Maria Maddalena de’ Pazzi traduce
meglio la solitudine, il dolore e il sentimento della perdita. Il risultato è più
convincente così, senza rotture stilistiche. Perché resta questa separazione
tra il nero e il bianco, tra Dio e il Diavolo, forse tra il silenzio e la parola. O tra
la respirazione e il silenzio.
Lorenzo Pagliei
Free floating clouds,
note dell’autore
Free floating clouds è un omaggio a Sam Francis, pittore espressionista astratto americano, e porta il titolo di una sua opera. L’incontro con la sua pittura
è stata una di quelle esplosioni personali che costellano la vita di ognuno di
cui è difficile parlare in poche righe. Uno degli aspetti che più m’affascina di
Sam Francis è la forma, non solo quella globale ma anche quella del piccolo
e medio livello: le sue forme sono sfumate, debordanti rispetto alla pennellata. Il colore segue sempre un gesto forte ma straripa con la propria energia
e personalità dal suo letto; gli incontri-scontri-fusioni di due o più colori in
parte vengono composti e in parte si accolgono i risultati dei loro incontriscolature-tempi di asciugamento. Tutto è a strati, sovrapposto, complesso,
rivisto, corretto, incanalato verso la direzione che si vorrebbe ma pieno di
imprevisti locali, di sorprese.
“Tutto s’insinua in ogni spazio disponibile”
Spesso sui binari forniti da rulli da imbianchino si situano le storie oscure di
getti violenti di più colori. Ne consegue un’idea di strutture sfocate, insofferenti di un’identità univoca seppure incanalate in direzioni evidenti e nasce
un felice cortocircuito: il particolare violento e inquieto costruisce grandi
strutture talvolta elementari talvolta complesse. Il risultato è che guardando
una tela a distanze diverse si scopre sempre qualcosa di nuovo; è un’esperienza simile a quando si cammina in alta montagna: se si continua a salire le
cose attorno assumono forme e significati differenti.
Altro elemento fondante di Francis è il rapporto luce/oscurità/colore.
“il colore nasce dalla fusione della luce e del buio”
“io non uso il nero, il nero lo ricavo da altri colori…lavoro con l’oscurità”
“lavoro partendo dalla luminosità della luce del foglio verso l’oscurità che è
dentro di me.
il bianco della carta è la luce che io uso… è un dialogo fra me e questa luce.
cerco la luce corrispondente dentro di me, se non l’avessi dentro non potrei
lavorarci”
E dunque vi è il Bianco: il Bianco è il tessuto connettivo di tutto ed è usato
come silenzio incredibilmente risonante di ciò che è attorno e assai spesso,
in spropositata presenza rispetto al colore, è posto al centro delle tele come
loro vero protagonista.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
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“lo spazio al centro attrae l’attenzione”
Cosa tutto ciò possa suggerire ai miei suoni è un mistero personale non del
tutto risolto né conchiuso. Melodie sfocate dai contorni sfuggenti che lasciano però traccia della loro armonia originale sullo sfondo come colore fondamentale. Un suono inquieto, sporco: un’etica del “bel rumore” e non del “bel
suono”. Sipari da sollevare per scoprire cosa c’è sotto fino ad arrivare al bianco
di fondo. Mi accade spesso di risonare a un pensiero a strati come quello di
Francis, forse perché dietro ogni cosa c’è sempre qualcos’altro da scoprire, da
rendere percepibile mediante sottrazione. Ogni suono ha dietro di sé infiniti
altri suoni, che possiamo svelare/ascoltare come se fossero infiniti sipari. In
questa ottica il suono non può che essere allusivo, facente parte di un’architettura che comprenda più dimensioni parallele. Sorge dunque la questione
del Silenzio, della possibilità o impossibilità della sua esistenza e si affaccia
l’idea di un Silenzio relativo: nascono i silenzi. Quali e quanti silenzi esistono,
variamente echeggianti di ciò che precede, sovrapposti a ciò che c’è ora o carichi d’attesa, presaghi di ciò che sarà? Gérard Grisey sosteneva che “il silenzio
è il suono che non siamo in grado di percepire”, dunque un concetto liminare
i cui confini vanno relativizzati e spostati più in là ogni volta che un’esperienza ci svela un nuovo suono precedentemente considerato silenzio. Ogni
volta siamo di fronte a un nuovo silenzio da scoprire.
Luciano Berio
di Luciano Violante
Berio è la musica della responsabilità civile; è la musica dell’agorà, del luogo
in cui si discute prima di decidere, la musica del luogo in cui si formulano le
domande. Oggi siamo di fronte ad un eccesso di risposte e ad una carenza di
domande, come in un bazar, dove le modalità con le quali ci vengono offerte
valanghe di merci ci impediscono di chiederci se esse servano davvero. Nel
mondo dominato dai valori civili, le risposte sono guidate dalle domande;
in un mondo dove sono prevalenti i valori dello scambio, al contrario, sono
le risposte che guidano le domande. La musica di Berio aiuta a riprendere il
primato dei valori civili e a darci il coraggio delle domande.
in Sequenze per Luciano Berio, edizioni Ricordi
Luciano Berio
Sequenza VII, per oboe
Divertimento Ensemble | Rondò
L’idea che si staglia con più immediatezza in Sequenza VII consiste nell’oscillazione del discorso melodico intorno al si bequadro tenuto dall’inizio alla
fine, emesso “dietro le quinte” da uno strumento dal vivo o preregistrato. L’intero senso armonico del pezzo è legato a questa nota perno, che ne costituisce in qualche modo il centro gravitazionale. L’idea di polifonia o di “doppio”
trova qui una nuova realizzazione particolarmente efficace. A un livello puramente simbolico, si può dire che questa nota tenuta si riallacci alla funzione
che l’oboe ha in orchestra come strumento di riferimento per l’accordatura (è
l’oboe che dà il la). Ma il si pare anche un omaggio al dedicatario del lavoro,
Heinz Holliger, le cui iniziali corrispondono al si bequadro nella nomenclatura tedesca (h).
La distribuzione sulla pagina della partitura in 13 righi di 13 segmenti, che
può essere messa in relazione con le 13 lettere che compongono il nome di
Holliger, non è stata voluta dal compositore (il quale, tuttavia, ha trovato divertente questa casuale coincidenza, così come quella del numero attribuito
a Circles nel catalogo Universal – 32123 – che rivela la struttura dell’opera!).
E’ quasi superfluo sottolineare in qual misura Berio utilizzi in questa Sequenza tutte le risorse dello strumento: da un lato il virtuosismo digitale, l’abilità richiesta dagli ampi intervalli, da un tipo di emissione in cui predomina
2004
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lo staccato a diverse velocità, dai numerosissimi cambiamenti di intensità
ecc.; d’altro lato, l’utilizzazione delle nuove tecniche esecutive, come i suoni
multipli, i cambi di diteggiatura su una stessa nota, i doppi trilli o i trilli su
micro-intervalli, l’uso del soffio e della pressione delle labbra. Berio dà vita
qui a un’immagine dello strumento che si pone in netta opposizione rispetto a quella convenzionale. La violenza e il carattere febbrile di Sequenza VII
troncano con il legato melodico sfruttato dalla letteratura per oboe, l’aspetto
bucolico dello strumento.
Bruno Maderna
Serenata n. 2 (1957), di
Massimo Mila
Divertimento Ensemble | Rondò
In certe biografie la Serenata n. 2 per 11 strumenti del 1954 viene designata
come una Neufassung, un rifacimento di quella del ‘46. Rifacimento molto
sostanziale, se dobbiamo presta fede alla descrizione che ne dava allora il
programma veneziano. “L’autore - vi si affermava - intende ricollegarsi alla
tradizione barocca e classica dei concerti da camera e, nel caso specifico, ai
divertimenti, serenate, musiche da giardino. Liberamente fluiscono nella stesura polifonica del testo ricordi secenteschi, atteggiamenti neoclassici, mai
però parodiati o comunque piegati ad intenzioni umoristiche, ma confluenti
in un tutto organico che alla composizione da valore quasi di biografia”. Quali
ricordi secenteschi, quali atteggiamenti neoclassici si potrebbero mai riscontrare nell’asciutto e frizzante puntillismo della Serenata che ora ascolteremo,
e che del resto, nella partitura a stampa, è esplicitamente intitolata Serenata
n. 2 e reca la data, non del 1954, bensì del 1957?
Gli 11 strumenti sono 13: flauto, clarinetto, clarinetto basso, tromba, corno,
arpa, xilofono e vibrafono, pianoforte e Glockenspiel, violino, viola e contrabbasso (a 5 corde). Infatti la composizione del 1957 si trova spesso indicata,
in certi programmi, come Serenata per 13 strumenti: è la stessa cosa, se si
considera che xilofono e vibrafono, affidati a uno stesso esecutore, non possono suonare contemporaneamente, e lo stesso dicasi per il pianoforte e per
l’argentino campanello del Glockenspiel, sacro alla memoria mozartiana di
Papageno. A voler essere pignoli, gli strumenti sono addirittura 14, perché
il flauto si alterna di continuo con l’ottavino; ma l’esecutore è unico, mentre
due se ne richiedono invece per clarinetto e clarinetto basso. In parole povere, mai più di 11 strumenti possono suonare contemporaneamente.
La Serenata del 1946 constava, secondo il programma veneziano, di quattro
tempi: allegro sostenuto, lento, andante, allegro energico. La Serenata del
1957 non presenta vere interruzioni tra gli episodi che la compongono. Comincia senza alcuna indicazione di movimento, ma solo con una prescrizione
di metronomo, cui è aggiunta, tra parentesi, l’avvertenza: “un poco liberamente”. Poi passa attraverso uno “scherzando”, segue un “allegro alla danza” e
infine un “allegro”. Il decorso unitario della composizione e l’assenza totale di
modi neoclassici, barocchi o secenteschi autorizzano a supporre che la Serenata n. 2 del ‘57, celebre punto di partenza dell’avanguardia musicale italiana, sia altra cosa della Serenata del 1946, forse rifatta nel 1954.
Gli 11, o 13, strumenti lavorano sempre come voci reali, sicché, nonostante
la leggerezza dello strumento, grande è la densità polifonica della scrittura.
L’inizio, per suoni isolati del flauto (e dell’ottavino), ha qualcosa di pastorale ed elegiaco, nel senso greco della parola, secondo quel criterio aulodico
di canto strumentale puro, di melodia assoluta, che Moderna connetteva a
strumenti univoci come il flauto e l’oboe. I suoni si combinano a poco a poco,
subentrando il flauto all’ottavino ed integrandosi ad esso il violino, la viola e
il violoncello.
Qual è il decorso delle note? come si presenta il discorso musicale di questi
suoni ben presto ripartiti e divaricati sui diversi strumenti, secondo la tecnica
del puntillismo? È un discorso seriale, dodecafonico, come spesso si afferma?
2004
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C’è in questo pezzo un particolare ben curioso, che non mi sembra sia mai
stato rilevato.
L’inizio solitario dell’ottavino ha tutta l’aria di voler sgranare una serie dodecafonica: dieci note diverse si succedono, a partire dal do iniziale. Ma, all’undicesima, ecco un altro do: la serie viene interrotta, prima dell’esaurimento
del totale cromatico. Che succede? Viene subito la curiosità di controllare
quali note sono state omesse: sol e si bemolle. Si guarda innanzi, e il sol si
trova quasi subito, nel clarinetto. Il si bemolle no. Strano. Si continua a cercare
più avanti: niente si bemolle in tutta la prima pagina di partitura, niente nella
seconda. Si gira il foglio, pagina 3, pagina 4: neanche l’ombra d’un si bemolle.
Ormai la caccia al si bemolle si fa affannosa. Si scrutano le pagine: otto, dieci,
venti pagine (la partitura ne conta in tutto 49); mai un si bemolle. Ogni volta
che il discorso sembrerebbe portarvi, sempre all’ultimo momento svolta via
e svicola in altra direzione, come quelle maledette palline che in certi giochi
di pazienza bisognerebbe far cadere in un buco, agitando ed oscillando una
tavoletta. Ormai il fenomeno non può più essere casuale. Delle due l’una: o
Moderna si è divertito a comporre un pezzo dove non ricorra mai il si bemolle, come ci si potrebbe esercitare a scrivere una poesia o un romanzo senza
far mai uso della lettera b, oppure se lo tiene in serbo per spenderlo al momento buono. In questo caso, chissà che momento emozionante sarà quello
in cui la nota renitente farà finalmente il suo ingresso nella composizione!
È vera questa seconda ipotesi: il si bemolle compare dopo 28 pagine di partitura, quando, esaurito il capriccioso “Allegro alla danza” col suo gioco ostinato ed umoristico di note ribattute, la composizione prende un nuovo corso e
si assesta nell’ultimo e definitivo movimento, “Allegro”. Ciò avviene con una
specie di schianto, una fiammata sonora tutta tremula e incandescente: si
tratta semplicemente d’un accordo di note lungamente tenute, fra le quali il
famoso si bemolle, nel clarinetto basso, ma siccome
l’idea stessa di accordo è incompatibile con l’estetica del puntillismo che fin
qui governava il lavoro, è ovvio che dopo tanti suoni isolati, staccati, puntigliosamente separati l’uno dall’altro, l’esplosione prolungata d’un accordo
quasi organistico prende un rilievo sensazionale.
Dopo questo turgido rigonfio sonoro, dove il famoso si bemolle viene raccolto in un tremolo del pianoforte, la composizione si avvia verso la conclusione - “meno mosso”, “ancora meno mosso” - attraverso il solito procedimento,
caro a Moderna, che potremmo chiamare della “fine per disintegrazione”. Il
tessuto sonoro si smaglia a poco a poco, si restaura la tecnica dei suoni isolati.
Emerge spesso il violino solo con certi suoni acuti che paiono lamenti ed evocano reminiscenze vivaldiane (“piange lo rosignolo”), ed alla fine sopravvive
per ultimo all’estinzione graduale di tutti gli strumenti.
Serenata, dunque: serenata come affermazione di ottimismo, di serenità, del
piacere di far musica. Ma serenata malinconica. Non ci si aspetti uno sfoggio di buon umore rossiniano. Le Serenate di Moderna e dei suoi compagni
furono, sì, l’affermazione d’una rinascente fiducia nella vita dopo le lugubri
disperazioni dell’espressionismo. Ma è chiaro che si tratta di un’allegria di
naufragi, per dirla con Ungaretti: l’allegria di cui può essere capace una generazione che ha avuto vent’anni quando il mondo andava a ferro e fuoco
sotto i bombardamenti a tappeto, gli ebrei venivano sterminati nelle camere
a gas e s’impiccavano i partigiani ai ganci delle macellerie. Questo non va mai
dimenticato.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
C. Debussy
Sonata per violoncello e
pianoforte
Chi del mondo arabescato di Chambonnières, Rameau e Couperin attraversano e segnano a fondo la Sonata per violoncello. Basta ascoltare il toccatistico avvio del pianoforte, simile a un’improvvisazione clavicembalistica, cui si
lega col suo canto assorto ma pronto ad accendersi di umori bizzarri il violoncello. La soave “Sérénade” evoca un appassionato duetto tra liuto e chitarra,
prima di condensarsi come gioco aperto a tutte le combinazioni brillanti e
strumentalmente imprevedibili nel concitato finale. La sonata per violoncello
fu eseguita per la prima volta a Parigi il 4 marzo 1916 dall’autore con Joseph
Salmon.
H. Dutilleux
Trois strophes sur le nom
de Sacher
In occasione del 70° anniversario di Paul Sacher, celebrato il 2 maggio 1976
alla Tonhalle di Zurigo, Mstislav Rostropovitch, domandò a 12 compositori
di scrivere un omaggio per violoncello solo sulle lettere del nome SACHER
(cioè eS A C H E Re). Furono così eseguiti pezzi di Conrad Beck, Luciano Berio,
Pierre Boulez, Benjamin Britten, Henri Dutilleux, Wolfgang Fortner, Alberto
Ginastera, Cristobal Halffter, Hans Werner Henze, Heinz Holliger, Klaus Huber
e Witold Lutoslawski.
Henri Dutilleux ha in seguito esteso il suo “omaggio” aggiungendo alla prima
composizione altri due pezzi. Il titolo scelto per questa breve suite si riferisce
a un’idea di ritorno, se non di “rima”; il legame tra ogni strofa è costituito dal
frammento musicale formato dalle sei lettere del nome SACHER, con l’utilizzo
del procedimento “a specchio”.
Le due corde gravi dello strumento sono scordate: il sol abbassato a un fa
diesis e il do a un si bemolle.
Alla fine della prima strofa si trova una breve citazione della Musica per archi
celesta e percussione di Béla Bartók, che Paul Sacher commissionò e diresse
per la prima volta a Basilea nel 1937.
Y. Maresz
Entrelacs, nota di Yan
Maresz
Oltre che motivo decorativo alle figure geometriche gli “entrelacs” (ornamenti ad intreccio) rappresentano spesso nell’arte antica l’ondulazione e l’accavallamento dei flutti o la vibrazione dell’aria.
Più recentemente schematizzano le connessioni e le interazioni complesse
di un livello della realtà inaccessibile ai nostri sensi (rete di comunicazioni,
neurobiologia, fisica delle particelle). Evocano anche l’unione di elementi indipendenti fra loro che coabitano armoniosamente. Ecco perché il titolo di
questo pezzo non designa un risultato musicale, un processo di scrittura e
meno ancora una preoccupazione di natura ornamentale; la forza di evocazione simbolica e il potenziale di rappresentazione schematica che questo
termine ricopre lo pongono in una dimensione particolare, portatrice di una
“poetica ondulatoria” al servizio dell’immaginario e della sua materializzazione.
L’unificazione e l’omogeneità dei timbri in un discorso spesso monodico
rafforza l’aspetto lineare della scrittura di Entrelacs. In questo pezzo la linea,
animata da una pulsazione interna, è considerata come un vettore. Entità dinamica, elastica, sviluppa delle sinuose simmetrie soggette a torsioni e stiramenti fino al punto di rottura, dove si presta volentieri a effimere coreografie.
La linea è anche il tratto reale o immaginario che separa le cose; essa diventa
allora un limite, una frontiera. Da questa nozione deriva una evoluzione formale dove i contrasti e i cambiamenti improvvisi di direzione che costituiscono le diverse parti del pezzo sono nello stesso tempo dei mezzi per ritrovare
il cammino iniziale.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
G. Grisey, Stele
per due percussionisti,
nota di Gérard Grisey
Come far emergere il ritmo dalla durata, un’organizzazione cellulare da un
flusso che obbedisce a leggi diverse? Come schizzare in modo conciso e al limite del silenzio una iscrizione ritmica dapprima indistinguibile e poi scandita in una forma arcaica? Durante la composizione mi è apparsa un’immagine,
quella di un archeologo mentre scopre una stele e la spolvera fino a mettere
in luce un’iscrizione funeraria.
P. Dusapin
Tre studi per pianoforte,
nota di Jan Pace
Venti anni di carriera sono stati necessari a Pascal Dusapin per decidersi a
scrivere una partitura per pianoforte. Non che gli mancasse familiarità con
lo strumento; lo suonava infatti da lungo tempo, in privato, praticando il jazz
e altre forme di improvvisazione. Ma come molti compositori hanno potuto
sperimentare, il pianoforte porta con sé un pesante bagaglio storico, per non
dire dell’abbondanza di interpretazioni “musicali” degli esecutori. La scala
temperata e la serie degli armonici costringono a un’attenzione alle implicazioni armoniche e tonali maggiore che scrivendo per altri strumenti.
Gli Studi superano queste difficoltà con grande abilità; assolutamente idiomatici nell’uso dell’armonia, della sonorità e dell’articolazione, essi prevengono tuttavia ogni assimilazione troppo facile a modelli esistenti. Questi studi non costituiscono la prima incursione di Dusapin nella scrittura pianistica.
Sono stati preceduti dalle “allucinazioni” del Trio Rombach nel quale sono
prefigurati alcuni elementi stilistici del ciclo. Questo ciclo ormai completo è
stato scritti fra il 1997 e il 2001 su commissione dei pianisti Alain Planès, Vanessa Wagner, Michael Rudy e mia.
Dusapin ha dichiarato di considerare questi pezzi più che degli studi di virtuosismo nel senso tradizionale del termine, degli “autentici studi di composizione racchiusi uno nell’altro come delle bamboline russe (matriochka)”.
La scrittura pianistica riprende certi aspetti delle prime opere di Dusapin, ma
sviluppandoli in una dimensione più originale. Le figure musicali, ispide, e
non levigate e fra loro omogenee, presentano dei violenti contrasti dinamici
e di articolazione, anche nei passaggi lenti. La tessitura volutamente limitata, conferisce un grado ulteriore di tristezza a una musica di “lamentazione”,
che si ritrova in numerosi pezzi. Vi si riflette anche l’interesse di Dusapin per
le musiche popolari francesi, greche e del mondo arabo (più esplicitamente
nella melodia dal carattere popolare del secondo studio). La sua curiosità per
la scrittura pianistica derivata dal jazz si ritrova nell’uso di una articolazione
nella quale l’ultima nota di una frase è leggermente separata e accentata.
La musica ha sempre un carattere di improvvisazione e le strutture più complesse sembrano nascere spontaneamente da motivi semplici, presentati
all’inizio dei pezzi.
I primi quattro studi costituiscono una evidente unità e sono spesso stati presentati insieme; tuttavia ogni pezzo ha una sua propria fisionomia.
Il primo studio, il più lungo, crea il proprio mondo, sontuoso e insieme triste,
attraverso un “gioco di evoluzioni melodiche” mentre il secondo più animato,
è costituito da sviluppi ritmici”, da l’ouverture di danza in ritmo puntato fino
ai tremoli non misurati della conclusione.
Le “combinazioni armoniche” del terzo studio generano un movimento armonico molto sviluppato, essendo la linea melodica tagliente dell’inizio continuamente interrotta da agglomerati di abbellimenti (un procedimento che
Dusapin utilizza anche nel secondo movimento del suo concerto per pianoforte A quia). Quando le linee si riducono a semplici altezze reiterate, il lirismo
acquista un carattere di desolazione e di evidente disperazione.
Il quarto studio, a spirale come un vortice, si fa furioso e simile a una toccata.
Presentando all’inizio una successione di differenti gesti, poi uno “sviluppo
per eliminazione degli elementi musicali precedenti”, questo studio conduce
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
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a una semplice oscillazione intorno a due altezze, senza condurre da nessuna
parte: è questo un motivo ricorrente all’interno del ciclo.
Il ciclo avrebbe potuto concludersi così. Ma con il pezzo più strano di tutti, il
quinto, entriamo in un altro mondo che contrasta violentemente con quello
precedente. Le melodie, i gesti e le armonie, benchè legati agli studi precedenti, generano una struttura luminosa e in espansione; la raccomandazione
espressa di uilizzare il meno possibile il pedale porta invece a una musica
rarefatta, arida, disperata, apparentemente incapace di andare oltre l’oscillazione tra il si e il la bemolle.
Con il sesto pezzo, di atmosfera simile a quella degli altri studi, i tremoli frenetici, le dinamiche penetranti e la frequenza di note ripetute, raggiungono
una dimensione di passione feroce e una turbolenza senza precedenti.
Il settimo studio, straziante, dal carattere di epilogo, ricapitola brevemente i
sei pezzi precedenti, prima di ritornare alle note che avevano aperto l’intero
ciclo, “una musica di grande tristezza”. Ma, secondo Dusapin, “si avrà il sentimento di una fine che, a dire il vero, è un nuovo inizio… Questo significa
che non si deve ascoltare ma capire… il che fa una grande differenza, non è
vero?”
P. Dusapin
Aria, nota di Pascal
Dusapin
Aria è una commissione della città di Strasburgo e di “Musica 92” per il bicentenario della morte di Mozart. La sua prima esecuzione, ad opera del clarinettista Armand Angster e dei solisti dell’Orchestra Filarmonica di Strasburgo
diretti da Oliviers Dejours, è avvenuta il 4 febbraio 1992 a Salisburgo. Questo
concerto per clarinetto e ensemble, in tre parti concatenate fra loro, è dedicato a Francoise Kübler e Armand Angster per la nascita di Lera.
Die Stücke der
Windrose,
für Salonorchester
(1988/94)
Sin dai primi schizzi per questo ciclo di composizioni mi sono riproposto di
variare spesso la prospettiva geografica delle mie riflessioni musicali. Forse
questa scelta dipende anche dalla mia nascita nell’emisfero meridionale: se
vi si è trascorsa la prima parte della vita, quella oltremodo fondamentale, determinati vissuti, certe nostalgie e alcune idee schematiche restano collegati
a punti cardinali diversi, del tutto opposti al corrispondente mondo affettivo
degli europei.
Ancora oggi per me il Sud non ha niente a che vedere con l’idea del caldo,
bensì è legato al freddo: la Patagonia, la Terra del Fuoco, l’Antartide. Per lo
stesso motivo il Nord è tutt’altro che freddo: sole spietato e ombre stagliate,
umidità pesante, paesaggi desertici e siccità. Per esempio, se il concetto di
“Vicino Oriente” per molti rimanda a un ambito culturale orientale, per coloro
che abitano in Estremo Oriente lo stesso concetto evoca l’esatto opposto.
Le nostre idee sono inclini alle semplificazioni, si basano su impressioni di
viaggio fugaci o durevoli, su letture ed esperienze, su simpatie e antipatie. Se
dopo sole poche battute ci si sente trasportati nel punto geografico al quale
ogni brano fa riferimento, come ascoltatori possiamo arricchire l’atmosfera
del pezzo con frammenti dei nostri ricordi o delle nostre esperienze musicali
sul posto.
Si potrebbero indicare i luoghi dei brani da salotto come compositum sui
generis, dove analisi e sintesi si congiungono cautamente per sottolineare
la relatività dei punti cardinali. Difficilmente le 32 suddivisioni dei gradi geografici mi avrebbero potuto ispirare altrettanti brani, ma volevo scriverne
almeno 8. Ogni punto dei quattro quadranti Nord, Sud, Est, Ovest richiedeva
un’esplorazione complessa. Metterla in musica, sempre con lo stesso orga-
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
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nico di clarinetto, pianoforte, armonium, 2 violini, viola, violoncello e contrabbasso, dove soltanto le percussioni mutano strumentazione di brano in
brano, rimase una sfida costante nella realizzazione del ciclo.
Osten
1988/89
Quale Oriente?
Nè il Vicino nè l’Estremo, ma la regione diffusa ante portas che comincia e
finisce già ai fiumi Oder e Neiße… ma dove? Se posso usare i dati geografici a
grandi linee, lo scenario di questo breve pezzo si trova in qualche località fra
la Transcarpazia e il golfo di Finlandia: mi trovo in un vagone di terza classe
in uno di quei favolosi treni che circolano tra Kischinjew e Iwano-Frankowsk,
Balassagyarmat e Hódmezövásárhely, Kamenez-Podolski e Piotroków Trybunalski. Viaggia con me un gruppo di musicisti che sembrano essere saltati
fuori da un album di fotografie ingiallite. Cominciano a suonare per me. Lo
scenario in movimento richiede una prassi esecutiva rapida; brandelli di melodie e ritmi caratteristici mutano più velocemente dei villaggi che si susseguono imprecisi.
Certamente, nella mia cosmologia musicale privata do sempre un bonus
all’Oriente.
Nordwesten
1991
In questo pezzo mi sono riferito per la prima volta alla musica autoctona delle Ande sudamericane, che ho ascoltata spesso sia in Sudamerica sia in Europa, di prima, seconda e – per così dire – terz’ultima mano. In questo caso,
ciò avviene attraverso un ensemble con un organico molto lontano da quello
impiegato nelle fonti autentiche, cosa che ritengo particolarmente adatta a
un periodo in cui i concetti di permeabilità e di influsso reciproco sono diventati centrali nel trattare linguaggi e culture musicali. D’altra parte l’illusione e
l’evocazione fanno parte della natura della Salonmusik. Sentendosi trasportato nel punto geografico al quale mi riferisco, l’ascoltatore, anche solo dopo
poche battute, è in grado di arricchire l’atmosfera del pezzo con frammenti
dei suoi ricordi musicali o di avventure sul posto.
Die Stücke der Windrose trattano il significato mutevole dei punti cardinali e
la loro relatività implicita. Osservare questo condizionamento in relazione a
un luogo che cambia è uno degli obietivi principali di questo ciclo. Provai una
grande sorpresa, tempo fa, leggendo un trattato musicologico sul tamburo
sciamanico kultrún, un tamburo con una sola pelle e con cassa armonica di
forma semicircolare usato dai machis della civiltà Araucana-Mapuche del Cile
meridionale. Maria Ester Grebe descrive il microcosmo simbolico dello strumento affermando che “rappresenta allo stesso tempo l’universo di questo
popolo primordiale e le sue funzioni trascendentali”. Colori e disegni sulla
superficie della pelle simboleggiano i quattro piani della visione verticale del
mondo, mentre i quattro punti cardinali simboleggiano le gradazioni orizzontali tra il bene e il male (El kultrùn Mapuche: un microcosmo simbòlico,
“Revista Musical Chilena”, 123-124, Santiago 1973). Ne risulta un orientamento etico della superficie della Terra: Nella descrizione di questo mondo immaginario mi ha fortemente affascinato la visione verticale e proprio questo
è l’aspetto importante nei miei brani da salotto. Sono partito dalla considerazione che i diversi punti cardinali ci si presentano come su una carta geografica posta in verticale: il Nord allo Zenit, l’Est alla destra, il Sud in basso e
l’Ovest alla sinistra. Per questa ragione ogni pezzo finisce con la contemplazione muta di un punto nella direzione di riferimento, come se gli sguardi
degli esecutori fossero indicatori stradali congelati.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
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Inoltre in Nordwesten, dopo la prima parte nella quale si avvicina al podio
una processione indiana immaginaria, ha luogo un ballo di commiato, che
ho scritto usando una polipentatonia rigorosa, come omaggio a un sistema
sonoro che ci è sicuramente rimasto estraneo. Per questa musica straniante
possano perdonarmi gli dèi che hanno messo le ali alla rappresentazione del
kultrún.
Suden 1989
Visto dall’Europa centrale, il Sud al di là delle Alpi viene spesso associato a
un’immagine sintetica composta principalmente da cielo terso e atmosfera
cordiale e rilassata. Tuttavia, nella stagione calda si ripresenta sempre la preoccupazione che questo modello idilliaco potrebbe allontanarsi dalla realtà,
ancor più di quanto sia avvenuto finora. Secondo tale ipotesi, per la musica
del Sud mediterraneo rimane veramente poco spazio.
In maniera altrettanto netta, vengono messi a confronto in questo brano ritmi e melodie che provengono da diverse regioni e che hanno un carattere
tale da poterle proporre come aneddoti acustici. Qui il tempo è usato deliberatamente come il parametro che permette di far risaltare le trasformazioni
di una musica popolare liberamente inventata. Allo stesso modo, l’inequivocabile tarantella iniziale perde il suo slancio di danza soltanto perché è rallentata, per far emergere tante sfaccettature nascoste. Che i confini tra ebbrezza
e malinconia, tra gioia e malumore siano spesso fluidi, possono dimostrarlo
chiaramente i tempi musicali: la stessa musica, eseguita con un diverso stacco di tempo, cambia repentinamente, forse fino a diventare irriconoscibile,
per poi procedere senza sforzo in un’atmosfera opposta.
Analogamente, le comunicazioni che si possono fare con la musica sono altrettanto numerose quanto le sfumature del linguaggio verbale. Fortunatamente però la loro essenza resta mutevole in ogni istante.
Westen
1993/94
Se esistesse un punto cardinale chiamato press’a poco Ost o Evost, lo avrei
scelto come titolo per la mia composizione. Infatti, qui la rosa dei venti non
indica una destinazione precisa che si raggiunge sempre con lo stesso percorso, ma è simile a un’indicazione che mostri due direzioni diverse, come la
testa di Giano bifronte. Tema di Westen [Ovest] è il reciproco dare e avere di
due culture musicali, che si manifestò innanzi tutto come una profonda africanizzazione del Nordamerica e che condusse poi, anche se soltanto in parte
e in maniera molto più debole, a un’americanizzazione della musica africana.
Musica dei neri? dei bianchi? dei “neranchi”?
È diventato sempre più difficile trovare risposte precise a tali questioni, poiché oggi l’identità culturale dei popoli non fa perno sull’estetica, ma principalmente sull’ambito socio e geopolitico, e con grande virulenza. Forse per
un’ironia degli dèi della vendetta, gli schiavi africani resero gli americani –
almeno in prospettiva musicale – un popolo primitivo. Comunque, sul lungo
periodo i neri hanno colonizzato i bianchi. Tutto questo mi ha sempre interessato molto, forse perché dare risalto alla purezza in relazione al concetto
di cultura mi è sembrato spesso insulso e perfino sospetto. Di conseguenza,
presto attenzione al plusvalore fondamentale degli influssi palesi o nascosti
che si manifestano otticamente e acusticamente.
Nell’agosto del 1970 presentai la proposta di una produzione televisiva che
per svariate ragioni, ma soprattutto a causa della problematica affrontata,
non fu realizzata. Il film era intitolato Bianco su nero e voglio offrirne la trama
agli ascoltatori di Westen; essa può chiarire i pensieri che ho delineato.
“Arriva in Africa una spedizione musico-antropologica proveniente dall’Eu-
Divertimento Ensemble | Rondò
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ropa. Lo scopo del viaggio di ricerca è l’inventario delle tradizioni musicali
e delle danze presso un’etnia di neri che, grazie alla sua infelice posizione
geografica, ha scarsi contatti con la parte civilizzata del continente nero. I
bianchi sono ampiamente dotati di regali – specchietti, biglie di vetro, coltellini ecc. – e li distribuiscono immediatamente al loro arrivo. Dopo alcuni
giorni di trattative, i lavori possono iniziare. L’accordo prevede una procedura accurata: dai più anziani fino ai più giovani, ognuno deve eseguire da
solo canti e danze. Dopo alcune settimane, i neri constatano sgomenti che
all’improvviso si stanno moltiplicando le morti inspiegabili. Questo è tanto
più strano, in quanto le persone dell’etnia raggiungono in genere un’età particolarmente ragguardevole e non si sono manifestate malattie o epidemie.
I neri si riuniscono sconvolti attorno al loro esperto di medicina e discutono
agitati per alcuni giorni, constatando infine che le persone morte erano quelle che avevano cantato ai bianchi tutte le melodie che ricordavano. Una folla
infuriata affronta i ricercatori, ma essi riescono a calmarla con ulteriori doni
e con la promessa di regalare l’intera attrezzatura da cucina alla conclusione
del progetto.
Il lavoro procede, anche se qualcosa è cambiato nell’atteggiamento dei neri:
ora sembrano avere una capacità mnemonica decisamente superiore, che
rivela una tradizione orale insospettata. Le sedute diventano più lunghe e il
folklore, che prima era semplice e soltanto abbozzato, si delinea ora più ricco
e complesso. Tuttavia, i ricercatori sono inflessibili sulle ripetizioni, le interrompono subito e richiedono melodie a loro ancora sconosciute. Temendo
di pagare con la morte l’inaridirsi della fantasia, i neri cominciano a inserire
elementi della musica occidentale che hanno orecchiato dai dischi che il tecnico del suono ascolta di sera nella sua tenda. Gradualmente, l’impercettibile
e inarrestabile transizione di elementi musicali si trasforma in una perfetta
imitazione. Alcune settimane dopo, i ricercatori lasciano soddisfatti il villaggio, non soltanto mantenendo la promessa (l’intera attrezzatura da cucina)
ma regalando ai neri anche giradischi e dischi. Anni dopo, arriva in Baviera
una spedizione musico-antropologica proveniente dall’Africa…”
Westen è una commissione del WDR ed è dedicata al mio amico e mèntore
redazionale Klaus Schöning: in lui ho potuto osservare con gioia, nei tanti
anni della nostra collaborazione, come l’arte della dimensione acustica possa
davvero aiutare ad ascoltare il suono dell’erba che cresce.
M.K.
Gérard Zinsstag
Tempor
Divertimento Ensemble | Rondò
Temperatura, temperamento: calore, colore. O soltanto angoscia, nel Tempo,
che i latini ci consegnano di genere neutro? Mai neutrale comunque e qui
capace di assumere tre diversi caratteri: incarceré, suspendu, manipulé. Nulla
è se non per come appare. Ossessivo, ci imprigiona all’inizio il pizzicato “secco” degli archi, orizzonte fisso come sbarre di una galera, gelido rimbalzo ai
tocchi di desiderio del pianoforte. Rumori, nella solitudine: echi, rimbombi,
ripetizioni, scansioni subite da chi è privo della libertà. (Il sogno troncato del
prigioniero, il sadismo di chi lo illude: ascoltare Dallapiccola, Montale). Ma
quando avviene questo sogno? È l’alba, oppure la notte a schiudersi su quelle visioni impotenti? Tecniche strumentali raffinate: divaricazioni di altezza, a
creare conflitti spaesanti; il suono è tempo, nel tempo diventa struttura percettiva: la ripetizione si trasforma in concentrazione, l’economia degli intervalli provoca l’ondeggiare di un pendolo, che incanta. “Résonance spectrale”,
viene indicato in partitura; e nell’episodio conclusivo, il tempo manipolato, si
vuole esplicitamente raggiungere l’illusione: “souffle sans emission du son”.
Ma in quel preciso istante sentiamo il flauto. Si sfalda il confine tra ascolto
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e visione, la persistenza del suono non è più nello strumento ma nell’aria
e poi, soltanto, nella mente: così sperimentava, col sonoscoop, Luigi Nono
nello studio di Friburgo. Quanti piano sono possibili, udibili? “Piano, piano,
piano, piano, piano, fortissimo nel mio cuore”, scriveva pensando a Schubert.
Utopia del suono infinito, manipolazione genetica ambitissima dai compositori, loro faustiano delirio. Non occorre barattare l’anima con l’eternità, basterà “aumentare progressivamente la pressione dell’archetto, provocando così
l’emissione di armonici molto lontani”. Lo straniamento è garantito, se l’esecuzione è efficace. E il “pizzicato secco” dell’inizio, diventa ora, al congedo, un
“pizzicato arpeggiato”, svanito.
H. Holliger Studie II
di Luca Avanzi
Heinz Holliger ha scritto numerosi brani per oboe, strumento da lui investigato come nessuno prima d’ora, soprattutto nella prima parte della sua carriera. Già a 20 anni, vincendo i più importanti concorsi internazionali, veniva
riconosciuto come il Paganini dell’oboe, ed a questo periodo risalgono Mobile (oboe e arpa), Trio (oboe viola e arpa), Sonata (1960). Intorno agli anni
’70 arrivò all’apice dello sperimentalismo, con Cardiophonie (oboe e 3 nastri
collegati al cuore dell’esecutore che dà il tactus dell’intero brano) e Studie
über mehrklange (oboe solo), pezzo virtuosistico e drammatico che utilizza
esclusivamente multifonici in rapidissima alternanza. Verso gli anni ’80 Holliger inizia ad impiegare organici sempre più ampi, ma trova ancora il tempo
per scrivere un brano per oboe solo, commissionatogli dal Concorso Internazionale di Ginevra: Studie II. Il brano, scritto nel 1981, utilizza lo strumento
alle sue estreme possibilità, usando molte delle nuove tecniche da lui stesso
inventate.
Glissandi, microtoni, intervalli amplissimi, dinamiche ed articolazioni estreme, armonici, accordi, sono solo alcune delle risorse qui impiegate. Un curioso effetto consiste nel glissando con una mano mentre l’altra esegue un trillo
doppio; già usato nello Studie über mehrklange è invece il trillo suonato con
due differenti velocità da ambo le mani.
Il pezzo inizia con un’introduzione in forma di cadenza che sfocia in una sezione polifonica, dove ad una linea cantabile nel registro medio si sovrappone
un elettrico trillo doppio che arricchisce la melodia soprastante. Rapidamente il contesto si trasforma in un periodo con dinamiche molto soffuse, dove
il compositore esplora gli intervalli quartitonali intorno all’ottava, indicando
anche possibili alternative timbriche.
Dopo un lungo La variato timbricamente, attraverso una zona di rielaborazione motivica si passa al finale, dove usando la figura retorica del chiasmo
Holliger crea un effetto insolito sull’oboe, incrociando la dinamica dal fff al pp
con l’accelerazione temporale.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004
Luciano Berio
Sequenza X
L’assimilazione, la trasformazione ed il superamento di aspetti strumentali
(o vocali) idiomatici sono talvolta intrinseci allo sviluppo musicale delle mie
precedenti Sequenze. La Sequenza X per tromba e risonanze di pianoforte, invece, ne è quasi priva (se si esclude un fuggevole riferimento all’inno
israeliano, Ha Tiqwa, “La speranza”). In questa Sequenza la tromba è usata in
modo naturale e diretto ed è forse esattamente questa nudità che fa della
Sequenza X la più faticosa di tutte. Sequenza X è stata scritta nel 1984 per
Thomas Stevens (Luciano Berio).
Luciano Berio
di Luciano Violante
in Sequenze per Luciano Berio, edizioni Ricordi
Berio è la musica della responsabilità civile; è la musica dell’agorà, del luogo
in cui si discute prima di decidere, la musica del luogo in cui si formulano le
domande. Oggi siamo di fronte ad un eccesso di risposte e ad una carenza di
domande, come in un bazar, dove le modalità con le quali ci vengono offerte
valanghe di merci ci impediscono di chiederci se esse servano davvero. Nel
mondo dominato dai valori civili, le risposte sono guidate dalle domande;
in un mondo dove sono prevalenti i valori dello scambio, al contrario, sono
le risposte che guidano le domande. La musica di Berio aiuta a riprendere il
primato dei valori civili e a darci il coraggio delle domande.
Paul Hindemith
Sonata per flauto e
pianoforte (1936)
Heiter bewegt
Sehr langsam
Sehr lebhaft-Marsch
Dmitrij Sostakovic
(1906-1975)
Dedicatosi giovanissimo alla musica, si diplomò in pianoforte a 17 anni e a
19, con la prima sinfonia, si rivelò come compositore. Nelle sue opere mostrava influssi e assimilazioni della musica occidentale, il che gli costò - nel 1934
- l’accusa di formalismo da parte della critica sovietica. Da allora, con la quinta sinfonia, andò modificando il suo linguaggio, rendendolo più semplice e
alieno da radicalismi di avanguardia. Nel frattempo cominciò a insegnare al
conservatorio di Leningrado e poi a quello di Mosca, diventando in breve il
compositore più apprezzato dal regime. Egli riversò sulla musica da camera
Divertimento Ensemble | Rondò
La Sonata per flauto e pianoforte è stata composta nel 1936, periodo in cui
Hindemith insegnava alla Hochschule di Berlino. Nel 1937, a causa dei forti
contrasti con il regime nazista che considerava la sua musica il prodotto e
l’espressione di un’arte “degenerata” è costretto ad abbandonare. Autore di
pagine teatrali, sinfoniche, cameristiche, la sua riflessione estetica produce
esiti severi, strutturati in modelli formali sempre rigorosamente definiti. Ricordiamo che, negli anni ’20, Hindemith era partito da una sorta di “espressionismo anti-espressionista” con il quale voleva accentuare drammaticamente
la sua scrittura compositiva. Hindemith stesso dichiara di voler perseguire
una ostentata “durezza fonica”. Tutto questo lo possiamo ritrovare nella Sonata per flauto e pianoforte: 1° movimento in forma sonata con il primo tema
energico e deciso mentre il secondo leggero e lirico, 2° movimento – sehr
langsam – atmosfera attonita, immota, a tratti quasi allucinante: la mano
destra del pianoforte segna un ritmo inesorabile mentre il flauto si apre in
un “canto” non espressivo drammaticamente sofferto, poi più rassegnato, 3°
movimento - Marsch – conclusiva, sarcastica e grottesca in quella terzina sul
secondo movimento del tema del flauto che dà un senso di irregolarità, di
grossolanità alla marcia stessa, privandola della necessaria sicurezza ritmica.
2004
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qualche audace innovazione sintattica, ma nel 1948 dovette fare una nuova autocritica per meglio aderire alle tesi del realismo socialista, non senza
enfasi e palesi accademismi che limitarono il suo innegabile talento e la sua
geniale fantasia. Ebbe numerosi premi di Stato.
Trio n.2 op.67 (premio Stralin): fu la sua replica immediata agli avvenimenti
drammatici della Grande guerra. L’opera è dedicata a Sollertinsky, amico del
compositore ed eminente musicologo morto durante le ostilità. Nel comporre questo trio S. rispetta la tradizione musicale russa iniziata da Tchaikovsky
(Trio alla memoria di un grande artista) e ripresa da Arensky e Rachmaninov.
L. van Beethoven
Sonata in la maggiore
op. 69 per violoncello e
pianoforte
Alle Sonate beethoveniane per violoncello e pianoforte - in tutto cinque viene attribuita una particolare importanza storica per la modernità stilistica
che in esse si ritrova.
Per la precisione, oltre alla consueta, sostanziale arditezza del linguaggio, si
sottolinea generalmente in queste Sonate il rapporto paritario fra i due strumenti, in cui il violoncello, definitivamente emancipato da qualsiasi subordinazione, dialoga costantemente col pianoforte.
La caratteristica dell’opera 69 è la rinuncia all’orpello virtuosistico, decorativo
o di maniera, insieme alla correlazione, armoniosamente espressiva, tra i vari
movimenti, dove i due strumenti dialogano con elegante lirismo e intensità.
Scritta fra il 1807 e il 1808, dedicata all’amico barone Ignaz von Gleichenstein,
violoncellista dilettante, e pubblicata nel 1809 - anni cruciali per l’attività beethoveniana - la Sonata si presenta in tre tempi: i primi due rappresentati
dall’iniziale “Allegro, ma non tanto’’ e dallo “Scherzo: Allegro molto”, articolato
in cinque sezioni a causa della ripetizione del Trio.
La Sonata è poi conclusa da un “Allegro vivace”, introdotto da un brevissimo
e sommesso “Adagio cantabile”.
A. Dvorak
Quintetto in la maggiore
op. 81 per pianoforte e
archi
Inspiegabilmente meno eseguito delle opere similari di Schumann o Brahms,
questo Quintetto, che è il secondo scritto da Dvorák (il primo, op. 5, data
1872) è un lavoro di altissimo livello artistico, sicuramente da annoverarsi tra
i migliori del maestro boemo.
Scritto nell’arco di 3 mesi, tra l’agosto e l’ottobre del 1887, dispiega nei 4 movimenti di cui è costituito un’inventiva ispirata, esuberante, di immediato potere comunicativo, dove convergono i temi caratteristici del compositore boemo: temi popolari straordinariamente nobilitati, nostalgie pensose, estrose
impennate, atmosfere contemplative.
Il tutto ordinato secondo un progetto formale non schematico eppure assai
solido, persuasivo, che tende a disegnare un diagramma più emozionale che
intellettuale. Il primo movimento, “Allegro ma non tanto”, esibisce un’espressività toccante, ora energica, ora amorosamente lirica, che mostra evidenti
impronte brahmsiane. A questa ampia prima sezione segue, non meno esteso, il secondo movimento, “Dumka”: “Andante con moto”. Qui l’atmosfera assume toni più sentimentali e si svolge secondo lo schema tipico di alternanza
tra motivi lenti, malinconici, ed altri, di carattere più sereno.
La struttura è quella del rondò. Mosso e zampillante è poi lo “Scherzo: Molto
vivace”, cui Dvorák aggiunse la specifica di “Furiant”. Si tratta di una danza boema dall’andamento particolare, asimmetrico, che però qui viene liberamente interpreta ed ampliata. Il “Finale: Allegro” è una pagina scintillante, ricca di
spirito umoristico e di viva fantasia. La conclusione è giocosa e serena.
Quest’opera riuscitissima fu pubblicata da Simrock nel 1888 ed ebbe la prima
esecuzione nel gennaio dello stesso anno a Praga.
Divertimento Ensemble | Rondò
2004