2004 RONDÒ gennaio/giugno 2004 Milano, Palazzina Liberty Monza, Teatrino di Corte della Villa Reale Rondò 2004 I Stagione Concerti a Milano 22.02.2004 Palazzina Liberty Ore 17.00 Proiezione del video Una mostra da ascoltare: Arnold Schönberg Ore 18.00 G. Manzoni, Essai G. Manzoni, Preludio - “Grave” Finale M. Franceschini, Matching dreamers - (prima esecuzione assoluta, commissione Divertimento Ensemble 2004) A. Schönberg, Pierrot lunaire op. 21 Luisa Castellani, soprano 21.03.2004 Palazzina Liberty Ore 17.00 Incontro con Salvatore Sciarrino e Lorenzo Pagliei Ore 18.00 S. Sciarrino, Infinito nero L. Pagliei, Free floating clouds - (prima esecuzione assoluta, commissione Divertimento Ensemble 2004) L. Berio, Sequenza VII - per oboe B. Maderna, Serenata n. 2 Sonia Turchetta, mezzosoprano Divertimento Ensemble | Rondò » 18.04.2004 Palazzina Liberty Ore 17.00 Incontro con Pascal Dusapin e Yan Maresz Ore 18.00 C. Debussy, Sonata - per violoncello e pianoforte H. Dutilleux, Trois strophes sur le nom de Sacher Y. Maresz, Entrelacs G. Grisey, Stele - per due percussionisti P. Dusapin, Tre studi per pianoforte P. Dusapin, Aria - per clarinetto e ensemble Concerti a Monza 24.01.2004 Teatrino di Corte della Villa Reale Ore 19.30 Proiezione del video Note d’amicizia: Franco Donatoni F. Donatoni, Nidi - per ottavino Ore 20.00 Contrappunto enogastronomico Ore 21.00 L. Berio, Sequenza X - per tromba in do e risonanze di pianoforte A. Gentilucci, Una trasfigurata rievocazione cubana 16.05.2004 Palazzina Liberty G. Gervasoni, Least bee - per soprano e ensemble Ore 17.00 Incontro con Mauricio Kagel P. Hindemith, Sonata - per flauto e pianoforte Ore 18.00 M. Kagel, Die Stücke der Windrose für Salonorchester F. Donatoni, Hot - per saxofono e sette strumenti 06.06.2004 Palazzina Liberty 21.02.2004 Teatrino di Corte della Villa Reale Ore 17.00 Incontro con Klaus Huber Ore 19.30 Proiezione del video Una mostra da ascoltare: Arnold Schönberg Ore 18.00 G. Zinsstag, Tempor H. Holliger, Studie II - per oboe solo Margherita Chiminelli, soprano Ore 20.00 Contrappunto enogastronomico 2004 » » » Ore 21 R. Strauss, Sonata in fa maggiore op. 6 - per violoncello e pianoforte A. Schönberg, Pierrot lunaire op. 21 Luisa Castellani, soprano 15.05.2004 Teatrino di Corte della Villa Reale Luisa Castellani, Lo Sprächgesang in A. Schönberg Ore 19.30 Incontro con Mauricio Kagel 17.03.2004 Monza / Teatrino di Corte della Villa Reale 20.03.2004 Teatrino di Corte della Villa Reale Ore 20.00 Contrappunto enogastronomico Ore 21.00 Ore 19.30 proiezione del video Musica Dipinta di Nino Criscenti, con Sylvia FerinoPagden e Salvatore Sciarrino, Rai Sat Art 2001 M. Kagel, Die Stücke der Windrose für Salonorchester Ore 20.00 Contrappunto enogastronomico Ore 19.30 Suoni nel roseto della Villa Reale progetto musicale a cura del Divertimento Ensemble Ore 21.00 D. Shostakovic, Trio in mi minore op. 67 05.06.2004 Teatrino di Corte della Villa Reale Ore 20.00 Contrappunto enogastronomico B. Maderna, Serenata n. 2 S. Sciarrino, Infinito nero Sonia Turchetta, mezzosoprano 17.04.2004 Teatrino di Corte della Villa Reale Ore 19.30 Incontro con Pascal Dusapin e Yan Maresz Ore 20.00 Contrappunto enogastronomico Ore 21.00 Ore 21.00 K. Huber, Plainte, Die umgepflügte Zeit I G. Zinsstag, Tempor A. Dvorák, Quintetto in la magg. op. 81 Masterclass 21.01.2004 Monza – Teatrino di Corte della Villa Reale Y. Maresz, Entrelacs Alessandro Solbiati, Mi lirica sombra M. Ravel, Tzigane - per violino e pianoforte P. Dusapin, Aria - per clarinetto e ensemble 19.03.2004 Monza / Teatrino di Corte della Villa Reale Salvatore Sciarrino, Infinito nero 15.04.2004 Monza / Teatrino di Corte della Villa Reale Yan Maresz, Entrelacs In collaborazione con: Le Centre culturel français de Milan 16.04.2004 Monza / Teatrino di Corte della Villa Reale Pascal Dusapin, Aria In collaborazione con: Le Centre culturel français de Milan 14.05.2004 Monza / Teatrino di Corte della Villa Reale Mauricio Kagel, Die Stücke der Windrose - für Salonorchester C.Debussy, Sonata - per violoncello e pianoforte C. Debussy, Sonata - per violino e pianoforte Sonia Turchetta, La vocalità in S. Sciarrino 22.01.2004 Monza – Teatrino di Corte della Villa Reale Stefano Gervasoni, Least bee In collaborazione con: Goethe-Institut Mailand 04.06.2004 Monza / Teatrino di Corte della Villa Reale Klaus Huber, Plainte, Die umgepflügte Zeit I In collaborazione con: CCS Centro Culturale Svizzero a Milano 20.02.2004 Monza – Teatrino di Corte della Villa Reale Luisa Castellani, Lo Sprächgesang in A. Schönberg 20.02.2004 Monza / Teatrino di Corte della Villa Reale Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » Dedicato a... Biglietto di partecipazione ad ogni Masterclass: 22.03.2004 Salvatore Sciarrino Intero 20 Euro Ridotto 10 Euro (per gli abbonati ai sei concerti di Monza o di Milano) Milano, Conservatorio G. Verdi, Sala Puccini Ore 10.00 - 18.00 Salvatore Sciarrino masterclass Ore 21.00 Proiezione del video Luci mie traditrici In collaborazione con: Conservatorio di musica G. Verdi di Milano Biglietti e Abbonamenti Ingressi Biglietto di ingresso a Milano: Intero 8 Euro Ridotto 5 Euro Biglietto di ingresso a Monza: Intero 8 Euro Ridotto 5 Euro Biglietto di ingresso e Contrappunto enogastronomico a Monza (da prenotare almeno tre giorni prima del concerto): Intero 18 Euro Ridotto 15 Euro Costo del Contrappunto enogastronomico - cena con degustazione nelle sale adiacenti il Teatrino (da prenotare almeno tre giorni prima del concerto): per gli abbonati 10 euro Abbonamenti Milano, sei concerti Intero 36 Euro Ridotto 22 Euro Le cinque giornate dedicato a… sono a ingresso gratuito Prevendita biglietti e abbonamenti Monza Teatro Manzoni, via Manzoni, tel 039 386 500; Milano: Stradivarius, Corso Buenos Aires angolo Via Caretta, tel 02 29 400 600 Furcht Pianoforti, via Manzoni 44, tel 02 796 418 Nei giorni dei concerti la biglietteria sarà aperta, mezz’ora prima dell’inizio del concerto, presso le rispettive sale. Informazioni Monza Ufficio Cultura Comune di Monza, tel 039 2302 192, [email protected] Milano Divertimento Ensemble, via Poggi 7, [email protected] Ringraziamenti Con il contributo di Comune di Monza Fondazione Sergio Dragoni, Fondo Armando Gentilucci Le Centre culturel francais de Milano Goethe-Institut Mailand CCS Centro Culturale Svizzero di Milano Edizioni Suvini Zerboni Furcht Pianoforti Silvarte Con il patrocinio di Comune di Milano Per i concerti a Monza un ringraziamento a Associazione per il Teatrino di Corte Liceo Musicale Vincenzo Appiani Società di concerti Corona Ferrea Divertimento Ensemble via Poggi 7, 20131 Milano tel 39 02 7060 2800 / fax 39 02 7063 2083 [email protected] www.divertimentoensemble.it Indirizzi Teatrino di Corte della Villa Reale, Villa Reale, Monza Palazzina Liberty, Largo Marinai d’Italia, Milano CCS Centro Culturale Svizzero, via del Vecchio Politecnico 1/3, Milano Conservatorio G. Verdi, via Conservatorio 12, Milano Accademia Internazionale della Musica, villa Simonetta, via Stilicone 36, Milano FNAC, via Torino angolo via della Palla, Milano Abbonamento ai sei concerti di Monza: Intero 36 Euro Ridotto 22 Euro Divertimento Ensemble | Rondò 2004 Rondò 2004 I Stagione Approfondimenti Alessandro Solbiati Mi lirica sombra Poche volte sono stato così convinto nell’anteporre ad un mio brano una citazione come nel caso di Mi lirica sombra: “...como una pantera, su sombra acheca mi lirica sombra.” (“come una pantera, la sua ombra spia la mia ombra lirica”, da Garcia Lorca). E’ esattamente quello che fa qui il clarinetto basso, strumento per il quale questo pezzo rappresenta una sorta di mia personale dichiarazione d’amore: i suoi suoni sanno essere vellutati quanto estremamente aspri, può cantare in modo molto espressivo, ma non eccede mai in dolcezza, può essere aggressivo o affettuoso, può andare nelle profondità estreme del registro, con ogni dinamica ed agilità, o slanciarsi ad altezze vertiginose. Era lo strumento ideale per fare ciò che mi premeva in quel momento (e che continua ad interessarmi oggi) cioè esplorare senza paura un mio imprescindibile desiderio di lirismo, esorcizzando con un tale solista il rischio delle sdolcinature. Solitamente, quando scrivo alcune note su un mio pezzo, tendo a descriverne la parabola formale. Questa volta decido di non farlo, poiché penso che le situazioni musicali di Mi lirica sombra, e la loro vicenda formale, siano a tinte così forti da non richiedere descrizione alcuna. La chiarezza delle figure e degli eventi di questo brano me l’hanno sempre reso uno dei miei lavori più cari, e che più “mi assomigliano”, penso, con i suoi “mostri oscuri” e le sue evidenti melodie Alessandro Solbiati Luca Antignani Spira mirabilis Divertimento Ensemble | Rondò Spira mirabilis rappresenta quella che è ormai una costante del mio iter creativo: la riflessione sul tempo musicale. Il primo percorso macroformale è basato sul paradosso di un accelerando continuo su un tactus in progressivo decelerando, mentre la seconda parte, che sorge con estrema naturalezza allorché l’energia della sezione precedente giunge a saturazione, è costruita su delle onde discontinue di accelerando-decelerando scritto, che tracciano idealmente una linea spiraliforme. In effetti il riferimento alla spirale si manifesta in questo lavoro su più livelli: a cominciare da quello figurale (uno stesso profilo tematico torna ricorsivamente ed assume ad ogni comparsa una valenza differente), passando per quello armonico (l’intero pezzo è costruito su due tipologie di scale entrambe modulari: la pentatonica e la T-S di Messia- 2004 » en), quello succitato temporale e quello più specificamente metrico-ritmico (nel momento catartico della prima parte, quasi una cadenza del pianoforte, il ritmo è costruito sulla permutazione di una serie di durate la cui somma e sempre uguale all’unità di base) e per finire su quello formale, nettamente organizzato, secondo un artificio di memoria Ligetiana, sul registro e su una distribuzione spaziale dei piani sonori. Eppure, come spesso accade, mi sono reso conto di essere al centro di un vortice quando la composizione era già in stadio avanzato, sebbene le micro e macro-proporzioni seguissero già, con una certa elasticità, le regole della sezione aurea. Nella seconda metà del seicento Jaques Bernoulli dedicò un trattato intitolato Spira mirabilis a un particolare tipo di curva avvolta su sé stessa: la spirale logaritmica che, in stretta parentela col rapporto aureo, preserva una forma costante in ogni scala di grandezza. Crescendo, cioè, non cambia forma. Il titolo, alludendo esplicitamente ad una sua celebre opera, vuole anche essere un omaggio a Franco Donatoni, presente in questa serata non solo nella musica ma anche nell’insegnamento, “modello inimitabile” di geometrica poesia. Stefano Gervasoni Least bee Questo breve ciclo di liriche, composto nel 91-92 e rivisto nel 2003, mette in musica alcune poesie di Emily Dickinson. Ne ho scritte due versioni, una per soprano, flauto, tromba, percussione, arpa e violoncello, e una seconda per soprano, flauto, clarinetto, pianoforte, violino e violoncello. La radicalità della poesia di Emily Dickinson ha profondamente condizionato l’elaborazione compositiva di Least Bee. In questo pezzo coesistono infatti due obiettivi formali opposti: da un lato la scelta di mezzi estremamente semplici - pochi gesti minimi, come “segnali”, e pochi principi di relazione governati da quello elementare della ripetizione; dall’altro un sottile lavoro di elaborazione timbrica, che attribuisce agli elementi semplici significati continuamente mutevoli, così da illuminare di diverse intenzioni ogni singolo gesto. Mi piace riportare il commento di un ascoltatore presente alla prima esecuzione, a New York, nel 1994. Le sue parole mi hanno colpito per la sensibilità con cui hanno saputo spontaneamente cogliere le mie intenzioni: «Il cantante ripete “silenziosamente” i versi, dicendo col silenzio la difficoltà della poesia di Emily Dickinson, e i processi cognitivi ellittici che accompagnano la sua lettura. Ogni strumento dell’ensemble rivela possedere ampi spettri di suono e mano a mano ci si rende conto che ognuno è suonato non tanto come semplice centro produttore e propagatore di frequenze, durate, timbri, ma come un meccanismo che produce il suo avanzare pesante, il suo respirare fino all’ansimare, il suo boccheggiare. Anche questa qualità sembra appropriata a un pezzo che ha a che fare con la Dickinson. I suoi testi mostrano i propri organi interiori a ogni snodo, nonostante la Dickinson si sforzi di rivestirli di un aspetto formale. Penso ai casi in cui tenta di conformarsi a uno schema di rima tradizionale mentre la poesia non lo permette e spinge così avanti il suo corpo aborigeno» (Tim Davies, 1994). Stefano Gervasoni maggio 2000 Divertimento Ensemble | Rondò 2004 Sandro Gorli Corrente Corrente, per tromba in do con accompagnamento di pianoforte, è stato scritto nel 2002 su commissione del XIII Concorso Internazionale “Città di Porcia”, come pezzo d’obbligo alla prova finale. La destinazione del pezzo e la particolare natura dello strumento mi hanno indotto a concentrare sulla tromba la quasi totalità dell’invenzione musicale, affidando al pianoforte un ruolo secondario di “accompagnamento”, con una duplice funzione: evidenziare le diverse situazioni armoniche e definire lo spazio acustico entro cui si muove senza interruzioni e con un carattere virtuosistico lo strumento solista. Il pianoforte infatti anticipa spesso in modo accordale le situazioni armoniche che la tromba percorre oppure espone armonie complementari a quelle. Raddoppiando alcuni suoni o figure musicali del solista e quindi realizzando un prolungamento di quei suoni e di quelle figure, una specie di riverbero artificiale, il pianoforte si trasforma in una “camera acustica” che crea l’illusione di un movimento del suono nello spazio, di un suo allontanamento o riavvicinamento Sandro Gorli, 2002. Franco Donatoni di Pierre Boulez, 1989 Chi può oggi, al pari di Franco Donatoni, unire le qualità minute dell’artigiano con l’originalità di un raffinato mondo immaginario? Sono rari i compositori che, come lui, hanno forgiato un utensile originale, che parlano un linguaggio così specifico, che si sono creati un territorio poetico tanto evidente da essere riconoscibile fra tutti. Inoltre il suo universo ha la fortuna di fare la gioia degli interpreti per il suo aspetto concreto, vicino, evidente. La lunga perseveranza di Franco Donatoni sembra averlo portato verso la libertà e, più ancora, verso al spontaneità: felice privilegio, se altri ne esistono, questa facilità apparente che a disposizione d’altri mette simili profonde risorse tanto ostinatamente raggiunte, e tanto seducenti! Ogni compositore può invidiarlo per questa maestria che realizza l’illusione. Intervista doppia a Stefano Gervasoni ed Alessandro Solbiati Che cosa è stato più importante nella tua carriera scolastica? Divertimento Ensemble | Rondò Solbiati: Un semplice organista di un paese vicino a Busto Arsizio che, quando ero bambino, mi spinse a fare musica mia e non soltanto a suonare quella degli altri, l’insegnante di lettere di I liceo classico che mi fece amare Dante, il docente di Fisica I della Facoltà di Fisica di Milano che durante una lezione disse agli studenti del I anno (per me fu anche il penultimo) che se eravamo lì per conoscere il “che cosa” o il “perché” della realtà avevamo sbagliato strada, poiché lì si parlava solo del “come”, Franco Donatoni che mi ha spalancato le porte del pensiero compositivo, Sandro Gorli che me lo ha arricchito di un più forte rapporto col suono, Guido Salvetti che mi ha rafforzato l’idea che analizzare musica significa aderirle fino a farla propria Gervasoni: Durante gli anni di Conservatorio (a Milano): la funzione di stimolo ad un approccio creativo e critico nello studio della composizione e di “invito emotivo” allo scrivere che hanno avuto insegnanti come Luca Lombardi e Niccolò Castiglioni in particolare; da parte del mio terzo insegnante - Azio Corghi - ho avuto soprattutto l’opportunità di consolidare e di mettere a punto gli strumenti tecnici necessari alla mia ricerca poetica e la possibilità di scambiare esperienze con gli altri allievi della sua classe, in gran parte diventati poi com- 2004 » positori militanti. Dopo il conservatorio, il mio periodo di perfezionamento all’Ircam e a Parigi in generale (1992-1997) mi ha consentito di incontri determinanti sul piano umano e artistico: cito in particolare quelli con i compositori Helmut Lachenmann, Gérard Grisey, Brian Ferneyhough, Peter Eötvös, con Philippe Albèra, con Marc Texier e con alcuni musicisti tra cui l’ensemble Contrechamps, la violista Geneviève Strosser, l’ensemble Klangforum, la pianista Jenny Lin. Naturalmente tanti altri rapporti importanti hanno fatto seguito agli incontri “parigini. Quale rapporto hai con le altre arti? Ti senti vicino a correnti della pittura o letteratura? Solbiati: Adoro l’arte, in ogni sua espressione, poiché la ritengo la terza delle tre grandi potenzialità dell’essere umano ( dopo l’amore e il senso religioso). Amo ogni forma d’arte, purché io ne avverta la sincerità e lo spessore. Non mi interessa alcun discorso di “corrente”. Una mostra di pittura o la lettura di un libro può risultare di stimolo alla mia persona e alla mia creatività più di molti ascolti musicali. Penso che ogni arte sia una differente sfaccettatura dell’unica, immensa e irrefrenabile esigenza espressiva dell’essere umano. Recentemente, a Lyon, mi è stato consigliato di visitare il Museo dei tessuti. Non avrei mai pensato che un’attività così vicina all’artigianato e che prende le mosse dalla semplice necessità di coprirsi potesse raggiungere vette di ricchezza espressiva di quel genere, in ogni epoca e luogo. Io sono interessato all’espressione umana. Gervasoni: Ho un rapporto privilegiato con la poesia. Sento un rapporto di stretta vicinanza tra Musica e Poesia: nella musica e nella poesia c’è sempre una voce che parla, ma che si esprime sempre al di qua o al di là dell’esprimibile grazie al suono che intride parola e linguaggio musicale e che moltiplica così le possibilità di significazione, rendendo ambiguo e polivalente il senso. Non esiste un senso ultimo, lo svelamento di ogni verità è sempre rinviato: di differimento in differimento il senso si fa ulteriore, più profondo, più essenziale e l’uomo che ascolta la musica o legge la poesia e l’uomo che le scrive ha l’impressione di avere fatto un cammino al di là del consueto e dell’abitudinario e rinnovato il senso del suo stare al mondo - che richiede necessariamente adeguamento a abitudini e convenzioni - fino al punto di potere indicare al mondo nuovi spiragli di orizzonte, nuove strade da percorrere. Come giudichi la situazione della musica contemporanea in Italia? Solbiati: Niente lamentele o piagnistei. Vi è un’evidente, spaventosa distanza tra la qualità e la quantità di musica cosiddetta “colta” che oggi si produce in Italia (nessuna nazione europea è, a mio parere, a livello italiano, per numero di compositori, ma soprattutto per la vitalità e l’interesse della produzione) e le occasioni di diffusione che innanzitutto i mass-media (la latitante radio e la del tutto assente televisione) e le società di concerti offrono. Ciò va al di là delle attitudini del pubblico, molto più curioso di quanto pensi chi gestisce l’attività e la comunicazione culturali, molto disponibile, in realtà, a confrontarsi con 15-20 minuti di musica nuova e mai ascoltata. Sta a ciascuno di noi lavorare per allargare questi spazi (anche in senso economico) e contribuire a distruggere quella subdola proporzione indotta nella coscienza collettiva per cui Beethoven sta all’inizio del XIX secolo come una qualsiasi rock star sta Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » all’inizio del XXI. E’ un’equivalenza falsa e avvilente, per la creatività dell’uomo contemporaneo, e dobbiamo contribuire a mostrarne la povertà, nel rispetto dell’Uomo ed anche delle centinaia di giovani che, in Italia, malgrado tutto, studiano composizione, mostrando fiducia nella continuità del pensiero occidentale di alto livello. Gervasoni: Molto difficile dal punto di vista socioeconomico (organizzazione e diffusione degli eventi legati alla musica d’oggi sempre più ridotta e precaria, istruzione musicale di base di bassissimo livello, coscienza del valore culturale della musica pressoché inesistente da parte della classe politica, problemi a cui si aggiungono quelli, gravi, creati dall’adozione di modelli culturali sempre più basati sulla globalizzazione e sulla massmediatizzazione degli strumenti di diffusione e divulgazione delle fonti, interamente controllati dal mercato e dal commercio). In questo panorama la figura del compositore sopravvive come quella di un eremita, dell’emarginato, del diverso, che fa della propria ricerca - se a volte non lo si può chiamare lavoro - la propria missione di vita. Io credo a una figura di compositore di questo tipo ed associo alla parola compositore quella di ricerca e di creatività. L’artista, a mio avviso, non può che essere un esploratore che cerca ovunque gli piace mettere piede mani occhi orecchie e naso, anche laddove altri hanno detto di avere già trovato tutto. Solo così l’artista è creativo: in modo naturale, non può impedirsi di esserlo, di cercare. Non gli importa soltanto di tener conto dell’esistente e di scegliere tra quello che il “pianeta esplorato” gli offre, magari combinandolo in una maniera più o meno disinvoltamente plurima. Che genere di musica ami ascoltare? Solbiati: Nell’ambito della musica “scritta” europea (“scritta” è una discriminante più vera e meno discutibile e snob di “colta”), sono piuttosto onnivoro, e vado dal canto cristiano alla mia amatissima produzione trobadorica, dalla polifonia medievale e rinascimentale su su fino agli adorati Brahms e Mahler (ma indico solo due nomi per non esagerare in banalità) e fino all’oggi, ai pezzi dei compositori più giovani di me. Evito “a pelle” solo certa musica barocca o galante del ’6-700 e in genere l’opera e il melodramma (escluso Mozart!), generi che, (mea culpa!) non riescono a interessarmi più che tanto. Aggiungo la musica di ogni tradizione popolare, soprattutto quelle occidentali, in cui riconosco una disarmante “verità”. Gervasoni: Ogni genere che mi piace scoprire per caso o per necessità, prevalentemente per caso. E dall’occasione di un genere o di un autore che il caso mi offre sistematizzo le frequentazioni musicali seguenti, fino al punto di ascoltare a lungo e studiare ossessivamente l’autore o il genere scelto. E’ il caso per esempio del Fado portoghese, che da ormai parecchio tempo mi ha totalmente catturato, al punto che mi piacerebbe realizzare un progetto musicale con una cantante di fado contemporaneo, Cristina Branco. Non ascolto musica rock in nessuna delle sue declinazioni più o meno attuali, più o meno tecnologiche, e ho qualche difficoltà ad apprezzare la creatività dell’improv-visazione di tanto jazz contemporaneo. Per il resto ascolto di tutto, a condizione - ripeto - che l’ascolto non sia imposto da fenomeni di moda o di mercato. Non sopporto il conformismo indotto dalla moda e lo sfruttamento commerciale ad esso connesso. Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » Quali sono i tre compositori del XX secolo che più ami? Solbiati: Berg, Bartòk e Maderna. Gervasoni: Debussy, Webern, Lachenmann - se Debussy non appartiene al XX secolo: Igor Stravinsky. I tre pittori? Solbiati: Kandinskij, Dalì, Chagall. Gervasoni: Klee, Picasso, Rothko. I tre poeti? Solbiati: Rilke, Garcia Lorca e Neruda Gervasoni: Rilke, Celan, Fortini. Come insegnante, cosa ti sembra importante trasmettere a un allievo? Solbiati: Molte cose: Innanzitutto una tecnica, perché spesso dietro la pretesa “libertà espressiva” dell’allievo si maschera la pochezza o l’insufficienza dell’offerta tecnica da parte dell’insegnante. In un’epoca in cui si può fare tutto e il contrario di tutto è molto importante mostrare l’incessante continuità delle modalità compositive del pensiero occidentale, pur attraverso crisi così profonde da apparire “finali”. Certo, di ogni tecnica proposta bisogna mostrare chiaramente la “paternità”, la provenienza storica. In secondo luogo la curiosità, il chiedere continuamente all’allievo di girare il mondo e conoscere musica e musicisti, tecniche e pensieri . In terzo luogo l’intransigenza con se stessi, cioè il non fingersi mai, dentro di noi, soddisfatti del proprio fare (qualche volta può capitare di esserlo, ma non bisogna mai accettare di fingersi). In quarto luogo l’autoironia, il non credersi mai così importanti e bravi. Purtroppo la motivazione al fare, che è poi la cosa più importante, non è insegnabile. Si può però mostrare la propria motivazione, ed è già molto. Gervasoni: Il desiderio della scoperta, la volontà di trovare e affinare nella maniera più minuziosa i propri strumenti espressivi, trovare, insomma, la propria voce. A che età e in che modo hai cominciato a comporre? Solbiati: Pur senza alcuna intenzione di mostrarmi enfant prodige, devo dire che l’attitudine a fare musica mia è nata in me assieme all’interesse stesso per la musica, cioè molto presto. Quando avevo cinque anni, regalarono a mio padre, medico senza speciale interesse per la musica, una tastiera elettrica (parlo del 1961) predisposta in modo che premendo un do grave si producesse un’intera triade. Tutti in famiglia suonavano canzoni con questa opzione, a me Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » infastidiva. Io voltavo una manopola e cercavo di capire quali tasti dessero vita a quella bella combinazione di note che mi spiegarono poi chiamarsi “ accordo di do maggiore”. Passarono anni, mi rifiutavo, chissà perché, di studiare musica, ma tutti i giorni andavo alla tastiera e dai miei undici anni ho composto tanta musica tonale, senza conoscere il concetto di tonalità, che registravo su nastri magnetici. A tredici composi addirittura cinquanta minuti di colonna sonora per un serissimo spettacolo teatrale (un “Saul” di Alfieri!) che dovevo suonare io ogni volta, ovviamente. A quattordici mi fecero iniziare seri studi pianistici e, guarda caso, dopo due anni di molte pagine scritte (due “sonate” per pianoforte nel 1972 !!), i seri binari degli studi esecutivi ufficiali addormentarono la tendenza creativa. Questa si risvegliò solo, e definitivamente, all’incontro con Franco Donatoni, a vent’anni, nel 1976. Evidentemente si era solo assopita a causa del “Gradus ad Parnassum”! Gervasoni: Verso i 14 anni durante i primi anni di studio del pianoforte (ho cominciato ad avvicinarmi alla musica solo al secondo anno della scuola media, grazie al mio insegnante di educazione musicale - prima per me la musica era un territorio totalmente sconosciuto): ero uno studente di pianoforte poco disciplinato: invece degli studi e degli esercizi preferivo leggere al pianoforte, con i miei rudimentali mezzi tecnici, gli Autori (in particolare Chopin e Beethoven) e scrivere dei piccoli pezzi in stile (soprattutto nello stile di Chopin). All’età di 16 anni ho cominciato ad ascoltare e ad interessarmi alla musica contemporanea. A 18 anni, grazie ad un bellissimo incontro con Luigi Nono, nella sua casa alla Giudecca, ho deciso di studiare seriamente la composizione e in quello stesso anno sono entrato al Conservatorio di Milano. Potresti riassumere in poche parole come nasce una tua composizione? Solbiati: Prima di tutto c’è un organico per cui scrivere. Non si possono avere idee senza sapere con quali personaggi si potrà giocare. Poi, vi è un’immagine, o idea, come dir si voglia, cioè un elemento intuitivo. Il mio tipo di intuizione è di tipo narrativo-formale: non posso iniziare un pezzo, cioè, senza aver in mente un arco immaginativo quasi teatrale, una “vicenda formale”, come dico nel mio cuore, totale, pur se sfocato, ovviamente, cioè riguardante l’intero pezzo. L’idea, poi, si incarna e prende forma attraverso uno o più processi, uscendone definita (e modificata), nonché pronta a generare altre idee attraverso l’incontro-scontro col processo. Gervasoni: E’ molto difficile. Non è mai una nascita neutra, pragmatica: la commissione di un lavoro non è mai il fatto determinante la nascita di un pezzo (qualcuno mi offre la possibilità di scrivere e di eseguire qualcosa). Deve ad un certo momento offrirsi un occasione. L’occasione è il movente assolutamente non predeterminabile, ma certamente preparabile, che permette l’avvio con forza e determinazione del lavoro di composizione e lo porterà a compimento, dopo mesi di studi preparatori, ricerche teoriche, indagini sui materiali, pagine abbozzate, calcoli strutturali. La natura dell’occasione è assolutamente volatile (una percezione particolare, un’idea che come d’incanto viene in superficie e diventa il nome di una persona, il tolto di un pezzo che è parola magica che lo racchiude, una circostanza emotiva che matura, un evento particolare della vita o un’esperienza artistica o percettiva in generale che ti si imprime da qualche parte e ha bisogno di essere trasformata in altro da sé per agire finalmente dentro di te, e di farlo con i mezzi espressivi che ti sono più propri). Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » Componi al tavolo o al pianoforte? Solbiati: Al tavolo, anche se non sono immune da veloci controlli pianistici di certi “colori” armonici. Gervasoni: Al tavolo prevalentemente. Uso il pianoforte come strumento molto parziale di verifica dell’impianto armonico. Il tavolo è il luogo dove dispongo dei miei strumenti (carta, matita, computer, archivio degli appunti e delle ricerche precedenti) e si dispone nel tempo e nei modi della musica la mia immaginazione. Ma l’immaginazione raramente si dispiega al tavolo: in questo il tavolo è sostituito dal balcone, dalla cima di una montagna, dal giro in bicicletta, da un letto su cui mi stendo al buio in assenza di rumori esterni, dalla notte o dall’alba in cui mi piacerebbe fossero il tempo quasi esclusivo nel quale scandire il tempo del mio lavoro. Ti capita di sognare musica? Solbiati: Ho due tipi di sogni musicali ricorrenti, anche se non con particolare frequenza. Il primo mi vede seduto al pianoforte, su un palcoscenico illuminato e con molto pubblico, senza nemmeno sapere quale pezzo dovrei eseguire. E’ un incubo. Evidentemente il diploma di pianoforte mi ha segnato duramente. Il secondo mi vede spettatore di un concerto di una grande orchestra che esegue musiche mie. Bellissime. Evidentemente è solo un sogno. Gervasoni: Rarissimamente, forse perché oltre a non ricordare i miei sogni (e a non volerli ricordare…) non ho una buona memoria musicale. Ricordo di due o tre occasioni della mia vita in cui ho sognato la mia musica. Al risveglio, non mi è mai restato nulla più di una “nebulosa di sonorità”, non una composizione che si svolge nel tempo di cui ricordo alcune parti, ma un’idea globale di suono o di colore, molto vaga, né bella né brutta, che mi lascia qualcosa a livello emotivo profondo ma niente di produttivo; non insomma un suggerimento pronto a diventare struttura musicale concreta, come a qualcuno forse capita. Giacomo Manzoni, Essai, di Giovanni Verrando La complessità del percorso compositivo di G. Manzoni non permette il riconoscimento di una cifra stilistica, né la categorizzazione della sua poetica che, al contrario, si e sempre dimostrata disponibile all’ auto-critica ed alla sperimentazione. Ogni nuova creazione del compositore non rappresenta quindi una reiterazione di forme e gesti musicali acquisiti, ma un ripensamento della struttura e dell’espressione musicale. Le sue opere si sono distinte per un rigore intellettuale, per una ricerca del rinnovamento linguistico, qualità che accomunano l’autore ai compositori ed alle poetiche fondamentali per il periodo di sviluppo della musica contemporanea, avvenuto intorno agli anni ‘50 e ‘60. “Essai” ci presenta il volto più immediato, più facilmente sintetizzabile per l’ ascoltatore, dell’ opera di Manzoni. Così, nella breve forma del brano, gli elementi si alternano, si susseguono secondo una precisa strutturazione che li rende punti di riferimento in un discorso musicale logico, semplice e conseguente. Divertimento Ensemble | Rondò 2004 Giacomo Manzoni Preludio - “Grave” di Waring Cuney – Finale, di Paolo Petazzi Composto a 23 anni nel gennaio 1956, è uno dei primissimi pezzi del catalogo di Manzoni. Rivela (come i lavori precedenti) una totale estraneità alle suggestioni “neoclassiche “ ancora riconoscibili negli esordi di altri autori italiani negli anni Cinquanta e muove con consapevole sicurezza in una direzione di ricerca che assume come punti di riferimento Schoenberg, Berg, Webern e, per qualche aspetto, Bartòk. In questo pezzo capita ancora di cogliere con immediatezza il rapporto con tali punti di riferimento, in particolare con Schoenberg; ma ciò non impedisce di percepire subito con chiarezza il profilarsi di una autonomia non riconducibile semplicemente ad un clima di matrice espressionistica. Di natura diversa appaiono le tensioni espressive avvertibili in queste pagine, dove si può presagire, in certi momenti di agitata densità di scrittura, qualche aspetto del rapporto con 1a materia sonora che riuscirà importante nella matura poetica di Manzoni. Ed e significativa la qualità severa ed intensa del lirismo che caratterizza la scrittura voca1e della seconda sezione, così come colpisce il frantumato gioco di rifrazioni ritmiche e timbriche nel “Finale”. Il testo de1la sezione centrale è tratto da Grave del poeta negro Waring Cuney pubblicato da Guanda e nel 1953 nell’antologia Nuovissima poesia americana e poesia negra Matteo Franceschini Matching dreamers, presentazione dell’autore Divertimento Ensemble | Rondò La composizione è suddivisa in tre sezioni. La prima è caratterizzata dalla nascita di un flusso melodico, filo “conduttore” dell’intero brano, che mano a mano perde la sua vera natura disperdendo nel registro le altezze che lo compongono. Questa frammentazione, interrotta saltuariamente da nuovi “personaggi sonori” a volte quasi grotteschi, è accompagnata da interventi accordali in fortissimo che, come un segnale, lentamente si avvicinano tra di loro aumentando il numero delle verticalità e piombando in un ambito di registro gravissimo. Da qui si entra in una zona di suono-rumore, caratterizzata dalla trasformazione del violoncello in una sorta di nuovo strumento, abbassandone la quarta corda e sfruttandone le molteplici possibilità espressive. Questo fondale rumoroso viene periodicamente “scosso” da un rintocco acutissimo e forte votato a riportare alla luce il clima melodico iniziale “purificandolo”. La terza ed ultima zona segna quindi la rinascita del flusso melodico “primordiale” che, snodandosi tra il violino e il violoncello, appare qui nella sua forma più chiara. Contrariamente alla prima sezione, dove i movimenti accordali sprofondano nel grave portando con se tutto il materiale musicale, qui il flusso melodico lentamente si sposta verso il registro più acuto fino a scomparire. Un movimento lento e statico del pianoforte, con un leggero e progressivo cangiamento timbrico, segue anch’esso la salita di registro, per poi concludere il suo percorso raggiungendo degli accordi acutissimi in sincrono con gli archi. 2004 A. Schönberg Pierrot lunaire op. 21 “Improvvisamente, di mattina, una gran voglia di comporre. Era da così tanto tempo! Avevo già anche pensato all’eventualità di non comporre più”. Così scrive Schönberg nelle ultime pagine del suo Diario berlinese, un prezioso documento che il musicista redasse durante il 1912. Il giorno successivo, troviamo la seguente annotazione: “ieri, 12 marzo, ho scritto il primo dei melologhi per il Pierrot lunaire. Credo sia venuto molto bene ... Senza alcun dubbio mi muovo, lo avverto benissimo, verso una nuova espressione. I suoni diventano qui una di sorta di vera e propria immediata espressione animale di moti dei sensi e dell’anima. Quasi come se tutto venisse direttamente tradotto”. La crisi compositiva sarà solo rimandata, e Schönberg non porterà a compimento nessuna composizione per ben otto anni, (tanti ne intercorrono tra i Lieder op. 22 e i Cinque pezzi per pianoforte op. 23); ma prima di concedersi questa lunghissima pausa di riflessione il compositore produrrà la sua opera più conosciuta e ammirata: Pierrot lunaire op. 21, “Tre volte sette poesie di Albert Giraud”, nella quale i postulati irrazionali della poetica espressionista sono allo stesso tempo pienamente realizzati e superati di slancio. Superati, si potrebbe dire, nel divenire stesso dell’opera. Se il carattere dei macabri testi poetici rimane irrimediabilmente fin-de-siècle, se nei primi brani il suono si fa davvero “immediata espressione dei moti dei sensi e dell’anima”, nel passaggio dalla prima alla seconda e alla terza parte si fanno sempre più evidenti i riferimenti a forme e tecniche compositive del passato, più pensate e costruite. Passando per un ironico Valse de Chopin e per una lugubre Passacaglia (Die Nacht, n. 8), i numeri 17-20 costituiscono in un certo senso il culmine di questo processo: dapprima, attraverso il recupero di complessi artifici contrappuntistici che si richiamano a Bach e ai grandi fiamminghi (Parodie presenta un canone per moto retto e inverso tra voce, viola e clarinetto; Der Mondfleck vede la voce librarsi sullo sfondo di un elaborato doppio canone); i due pezzi seguenti, una Serenade in tempo di valzer lento e una barcarola, volgono invece lo sguardo al secolo da poco trascorso. Un’opera che apparve rivoluzionaria a Strawinsky, a Ravel, a Casella, si conclude dunque con uno sguardo verso il passato (tale sguardo è ulteriormente rafforzato dal testo del n. 21, O alter Duft, che fu aggiunto in un secondo momento). La forma breve, aforistica, si era già affermata come una caratteristica dello stile espressionista di Schönberg nei 5 Pezzi per orchestra op. 16 o nei Klavierstucke op. 19. In Pierrot la forma breve viene tuttavia investita di una nuova luce, e riflette l’esigenza del compositore di ricercare un’articolazione più netta e definita, di recuperare un rapporto con la tradizione che la dissoluzione del linguaggio tonale aveva reso sempre più problematico. La soluzione a questa esigenza sarà trovata da Schönberg solo molto più tardi, dopo gli otto anni di silenzio, e consisterà nella definizione di un sistema razionale in grado di sostituire la tonalità. Non a caso, i primi brani scritti utilizzando il nuovo “sistema di composizione con i dodici suoni” porteranno i titoli classici di Minuetto, Gavotta, Giga, Valzer. Eppure, quanti fermenti vivono ancora nel contrappunto atonale e libero, nella strumentazione sempre varia, nel clima sospeso tra ironia e straniamento di Pierrot; quanto quest’opera ci appare oggi vicina rispetto all’enfasi un po’ fredda, sorta di autocelebrazione della grande tradizione mitteleuropea, di molte opere seriali del musicista! Fra le caratteristiche più memorabili di Pierrot va senza dubbio considerata la strumentazione. La voce è accompagnata da cinque musicisti che suonano otto strumenti: violino/viola, flauto/ottavino, clarinetto/clarinetto basso, violoncello e pianoforte. Come è stato più volte osservato, non c’è un solo brano, dei ventuno che compongono la raccolta, in cui Schönberg abbia utilizzato la medesima combinazione strumentale. L’estrema varietà ottenuta attraverso la massima economia di mezzi fu subito percepita come una lezione fondamentale; e l’influenza strumentale di Pierrot attraversa a ben vedere l’intero Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » secolo, dalle opere cameristiche di Ravel e Strawinsky degli anni Venti al Marteau sans Maitre di Boulez o alle Beatitudines di Petrassi. La prima esecuzione di Pierrot lunaire ebbe luogo a Berlino il 16 ottobre 1912 sotto la direzione dell’autore e con il ruolo vocale sostenuto da Albertine Zehme, la committente. Erano state necessarie ben venticinque prove. L’esecuzione - con grande sorpresa dei critici - si concluse con un’ovazione per Schönberg, che fu letteralmente costretto dal pubblico a un bis integrale dell’opera. A una successiva esecuzione berlinese, l’8 dicembre, erano presenti Strawinsky e Diaghilev. Cinquant’anni più tardi, il musicista russo ricordava ancora l’impressione indelebile ricevuta da quella esecuzione: “La reale potenza di Pierrot - suono e sostanza, giacché Pierrot è il plesso solare oltre che lo spirito della musica degli inizi del XX secolo - mi lasciò attonito, così come essa a quell’epoca lasciò attoniti tutti noi”. L’immediata conseguenza dell’impressione ricavata dall’ascolto di Pierrot fu la composizione delle Trois poésies de la lyrique japonaise per voce femminile e piccolo gruppo da camera, il primo di una serie di lavori cameristici - Strawinsky, ricordiamolo, stava allora ultimando la gigantesca partitura del Sacre du Printemps - che, passando per le Pribautki, le Berceuses du chat e Renard, troverà un punto culminante nell’Histoire du soldat. Salvatore Sciarrino Infinito nero, estasi di un atto Divertimento Ensemble | Rondò L’anima si trasformava nel sangue, tanto da non intendere poi altro che sangue, non vedere altro che sangue, non gustare altro che sangue, non sentire altro che sangue, non pensare altro che di sangue, non poter pensare se non di sangue.E tutto ciò che operava la sommergeva e profondava in esso sangue influirsi influssi influiva rinfluiva e il sangue influiva rinfluiva influssi rinfluire rinfluisce rin fluisce influssi rinfluivono influsii rinfluivono superesaltando allora il Santo mi versò sul capo un vaso e il sangue mi coperse tutta. Anche la Santa versò. Il latte mescolandosi col sangue mi fa una bellissima veste. Obumbrata la faccia o, o, o (silenzio) o, o, o (sil.) o se le piante potessino avere amore, non griderebbero altro o, io non lo so (sil.) timui timore amoris. Timui timore amoris. Timui timore amoris (sil.) ma dillo, ma dillo mors intravit per fenestras. Ma tu perché figure immagini e facce, aspirazione, inspirazione e respirazione in te. (sil.) vieni sul corpo tuo aperture a noi incognite. Usci, finestre, buche, celle, forami di cielo, caverne. Senza fondo stillanti. Sono le piaghe dentro cui mi perdo vieni, vieni con la corona: le sue spine, lunghe, trapassano il Padre Eterno in cielo egli scrive su di me con il sangue. Tu con il latte della Vergine. Lo Spirito con le lagrime vieni non si aprino le nuvole, si bene il vergineo ventre (sil.) si ma vieni, vieni, deh, vieni, o, vieni vieni (sil.) ohimé, vivendo muoio (sil.) o, o, o (sil.) (stando un poco si pone a sedere) orsù eccomi in terra (sil.) non posso ir più giù io (sil.) e sì (sil.) o savia pazzia (sil.) (aprendosi nelle braccia tutta sirilassa, ferma ferma. E poi comincia a divincu- 2004 » larsi: gesti e moti che pare si consumi, per un pezzo) io non intendo (sil.) è meglio il tuo, sì. si (sil.) ohimé (sil.) tu sei senza fine, ma io vorrei veder in te qualche fine. I primi schizzi di Infinito nero, estasi di un atto, risalgono all’estate 1997. Il libretto si basa sui testi di Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica dell’inizio del XVII secolo. Alla fine degli anni ’80 avevo trovato un’edizione moderna di una scelta dei suoi scritti, Le parole dell’estasi. Maria Maddalena de’ Pazzi era folle e aveva delle visioni mistiche. Proveniva da una famiglia fiorentina molto conosciuta e questa è probabilmente la ragione per la quale è stata canonizzata. La sua figura è imbarazzante, quasi diabolica. In lei è difficile distinguere veramente Dio dal Diavolo. Le sue visioni sono sempre angoscianti e rivelano un autentico carattere patologico. Il modo in cui i suoi testi ci sono pervenuti è singolare. Maria Maddalena de’ Pazzi non scriveva. Tutto ciò che ci è pervenuto di lei è stato trasmesso oralmente. La sua storia è stupefacente. Otto novizie stavano con lei, quattro ripetevano quello che diceva, poiché ella parlava troppo velocemente per essere seguita, e quattro scrivevano quello che le prime ripetevano. Le parole zampillavano da lei come una mitraglia, poi ella cadeva in un lungo silenzio. Questa bizzarria, questa evidente patologia, è una forma estrema di oralità. Non si trattava più di parole, ma di una cascata, di un flusso verbale. La storia di Maria Maddalena de’ Pazzi, i suoi dettati di gruppo, le sue parole e le loro trascrizioni hanno qualcosa di particolarmente teatrale, e potrebbero essere il soggetto di un‘opera, o piuttosto di un film o di un documentario. Questa scissione tra l’enunciazione la più rapida possibile e il mutismo più completo, la transizione spontanea verso il silenzio, caratterizzano anche la mia musica. Il silenzio non è vuoto ma è nascita del suono, esperienza della vita. Forse il mio silenzio è ora più sobrio. Non avrei mai pensato di poter scrivere l’inizio del lavoro, con il suo ritmo di respirazione. Stiamo in ascolto del nostro cuore? Rifiuto ogni amplificazione degli strumenti perché l’ascoltatore deve sentire il diverso respiro e i battiti del cuore di Maria Maddalena. Ma uno strumento, il legno di un pianoforte sono un cuore? Non avevo probabilmente mai utilizzato prima i suoni e i rumori con la stessa consapevolezza e precisione, con una tale sicurezza tecnica. Sono arrivato davvero in profondità, fino al suono del silenzio. Le mie opere recenti sono praticamente nude. Questa nudità è determinante per l’ascolto. E’ a questa condizione che la musica si impadronisce di noi. Tutte le forme di linguaggio e di esperienza si alterano, perdono la loro normalità quando sono limitate, ed è sufficiente un solo suono per comprendere cosa è il suono o il silenzio. All’inizio il tema centrale di Infinito nero era il dialogo, l’idea di polarità, il nero e il bianco. Dapprima avevo anche pensato a due solisti. Lo spazio della scena doveva essere diviso, non con delle costruzioni ma dalla luce, nera e bianca. Non una divisione costante, ma cambiamenti rapidi della luce, quasi un batter d’occhio. Questi cambiamenti riflettono l’immagine dell’opera e delle sue implicazioni. La cosa più importante è che l’idea della concordanza delle contraddizioni sia visibile. Infinito nero avrebbe potuto essere intitolato Infinito bianco. Non è un paradosso: se io fisso a lungo il bianco o il nero, vedo la stessa cosa. La partitura non contiene alcune indicazione di messa in scena, tranne che alla fine, dove è precisato che l’interprete si torce, come roso dall’interno. Durante la composizione mi è tornato alla mente uno studio sull’isteria di Charcot, della fine del XIX secolo. Charcot analizza i movimenti dei “posseduti dal diavolo”, come sono riprodotti dalla pittura. In un certo movimento a terra gli isterici tendono il loro corpo come un arco, sostenuto unicamente dai piedi e dalle spalle. E’ singolare che le novizie abbiano descritto gli stessi movimenti Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » in Maria Maddalena de’ Pazzi: “Si siede e comincia a torcersi”. Questi movimenti caratterizzano una posseduta dal diavolo. In una seconda versione il libretto riprendeva anche qualche riga di Jules Laforgue. Poiché Laforgue teneva una posizione “critica”, le ho eliminate. Il suo testo fa parte dei dintorni dell’opera, ma Maria Maddalena de’ Pazzi traduce meglio la solitudine, il dolore e il sentimento della perdita. Il risultato è più convincente così, senza rotture stilistiche. Perché resta questa separazione tra il nero e il bianco, tra Dio e il Diavolo, forse tra il silenzio e la parola. O tra la respirazione e il silenzio da Maria Maddalena de’Pazzi Da una conversazione con Salvatore Sciarrino attorno a Infinito nero Divertimento Ensemble | Rondò I primi schizzi di Infinito nero, estasi di un atto, risalgono all’estate 1997. Il libretto si basa sui testi di Maria Maddalena de’ Pazzi, una mistica dell’inizio del XVII secolo. Alla fine degli anni ’80 avevo trovato un’edizione moderna di una scelta dei suoi scritti, Le parole dell’estasi. Maria Maddalena de’ Pazzi era folle e aveva delle visioni mistiche. Proveniva da una famiglia fiorentina molto conosciuta e questa è probabilmente la ragione per la quale è stata canonizzata. La sua figura è imbarazzante, quasi diabolica. In lei è difficile distinguere veramente Dio dal Diavolo. Le sue visioni sono sempre angoscianti e rivelano un autentico carattere patologico. Il modo in cui i suoi testi ci sono pervenuti è singolare. Maria Maddalena de’ Pazzi non scriveva. Tutto ciò che ci è pervenuto di lei è stato trasmesso oralmente. La sua storia è stupefacente. Otto novizie stavano con lei, quattro ripetevano quello che diceva, poiché ella parlava troppo velocemente per essere seguita, e quattro scrivevano quello che le prime ripetevano. Le parole zampillavano da lei come una mitraglia, poi ella cadeva in un lungo silenzio. Questa bizzarria, questa evidente patologia, è una forma estrema di oralità. Non si trattava più di parole, ma di una cascata, di un flusso verbale. La storia di Maria Maddalena de’ Pazzi, i suoi dettati di gruppo, le sue parole e le loro trascrizioni hanno qualcosa di particolarmente teatrale, e potrebbero essere il soggetto di un‘opera, o piuttosto di un film o di un documentario. Questa scissione tra l’enunciazione la più rapida possibile e il mutismo più completo, la transizione spontanea verso il silenzio, caratterizzano anche la mia musica. Il silenzio non è vuoto ma è nascita del suono, esperienza della vita. Forse il mio silenzio è ora più sobrio. Non avrei mai pensato di poter scrivere l’inizio del lavoro, con il suo ritmo di respirazione. Stiamo in ascolto del nostro cuore? Rifiuto ogni amplificazione degli strumenti perché l’ascoltatore deve sentire il diverso respiro e i battiti del cuore di Maria Maddalena. Ma uno strumento, il legno di un pianoforte sono un cuore? Non avevo probabilmente mai utilizzato prima i suoni e i rumori con la stessa consapevolezza e precisione, con una tale sicurezza tecnica. Sono arrivato davvero in profondità, fino al suono del silenzio. Le mie opere recenti sono praticamente nude. Questa nudità è determinante per l’ascolto. E’ a questa condizione che la musica si impadronisce di noi. Tutte le forme di linguaggio e di esperienza si alterano, perdono la loro normalità quando sono limitate, ed è sufficiente un solo suono per comprendere cosa è il suono o il silenzio. All’inizio il tema centrale di Infinito nero era il dialogo, l’idea di polarità, il nero e il bianco. Dapprima avevo anche pensato a due solisti. Lo spazio della scena doveva essere diviso, non con delle costruzioni ma dalla luce, nera e bianca. Non una divisione costante, ma cambiamenti rapidi della luce, quasi un batter d’occhio. Questi cambiamenti riflettono l’immagine dell’opera e 2004 » delle sue implicazioni. La cosa più importante è che l’idea della concordanza delle contraddizioni sia visibile. Infinito nero avrebbe potuto essere intitolato Infinito bianco. Non è un paradosso: se io fisso a lungo il bianco o il nero, vedo la stessa cosa. La partitura non contiene alcune indicazione di messa in scena, tranne che alla fine, dove è precisato che l’interprete si torce, come roso dall’interno. Durante la composizione mi è tornato alla mente uno studio sull’isteria di Charcot, della fine del XIX secolo. Charcot analizza i movimenti dei “posseduti dal diavolo”, come sono riprodotti dalla pittura. In un certo movimento a terra gli isterici tendono il loro corpo come un arco, sostenuto unicamente dai piedi e dalle spalle. E’ singolare che le novizie abbiano descritto gli stessi movimenti in Maria Maddalena de’ Pazzi: “Si siede e comincia a torcersi”. Questi movimenti caratterizzano una posseduta dal diavolo. In una seconda versione il libretto riprendeva anche qualche riga di Jules Laforgue. Poiché Laforgue teneva una posizione “critica”, le ho eliminate. Il suo testo fa parte dei dintorni dell’opera, ma Maria Maddalena de’ Pazzi traduce meglio la solitudine, il dolore e il sentimento della perdita. Il risultato è più convincente così, senza rotture stilistiche. Perché resta questa separazione tra il nero e il bianco, tra Dio e il Diavolo, forse tra il silenzio e la parola. O tra la respirazione e il silenzio. Lorenzo Pagliei Free floating clouds, note dell’autore Free floating clouds è un omaggio a Sam Francis, pittore espressionista astratto americano, e porta il titolo di una sua opera. L’incontro con la sua pittura è stata una di quelle esplosioni personali che costellano la vita di ognuno di cui è difficile parlare in poche righe. Uno degli aspetti che più m’affascina di Sam Francis è la forma, non solo quella globale ma anche quella del piccolo e medio livello: le sue forme sono sfumate, debordanti rispetto alla pennellata. Il colore segue sempre un gesto forte ma straripa con la propria energia e personalità dal suo letto; gli incontri-scontri-fusioni di due o più colori in parte vengono composti e in parte si accolgono i risultati dei loro incontriscolature-tempi di asciugamento. Tutto è a strati, sovrapposto, complesso, rivisto, corretto, incanalato verso la direzione che si vorrebbe ma pieno di imprevisti locali, di sorprese. “Tutto s’insinua in ogni spazio disponibile” Spesso sui binari forniti da rulli da imbianchino si situano le storie oscure di getti violenti di più colori. Ne consegue un’idea di strutture sfocate, insofferenti di un’identità univoca seppure incanalate in direzioni evidenti e nasce un felice cortocircuito: il particolare violento e inquieto costruisce grandi strutture talvolta elementari talvolta complesse. Il risultato è che guardando una tela a distanze diverse si scopre sempre qualcosa di nuovo; è un’esperienza simile a quando si cammina in alta montagna: se si continua a salire le cose attorno assumono forme e significati differenti. Altro elemento fondante di Francis è il rapporto luce/oscurità/colore. “il colore nasce dalla fusione della luce e del buio” “io non uso il nero, il nero lo ricavo da altri colori…lavoro con l’oscurità” “lavoro partendo dalla luminosità della luce del foglio verso l’oscurità che è dentro di me. il bianco della carta è la luce che io uso… è un dialogo fra me e questa luce. cerco la luce corrispondente dentro di me, se non l’avessi dentro non potrei lavorarci” E dunque vi è il Bianco: il Bianco è il tessuto connettivo di tutto ed è usato come silenzio incredibilmente risonante di ciò che è attorno e assai spesso, in spropositata presenza rispetto al colore, è posto al centro delle tele come loro vero protagonista. Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » “lo spazio al centro attrae l’attenzione” Cosa tutto ciò possa suggerire ai miei suoni è un mistero personale non del tutto risolto né conchiuso. Melodie sfocate dai contorni sfuggenti che lasciano però traccia della loro armonia originale sullo sfondo come colore fondamentale. Un suono inquieto, sporco: un’etica del “bel rumore” e non del “bel suono”. Sipari da sollevare per scoprire cosa c’è sotto fino ad arrivare al bianco di fondo. Mi accade spesso di risonare a un pensiero a strati come quello di Francis, forse perché dietro ogni cosa c’è sempre qualcos’altro da scoprire, da rendere percepibile mediante sottrazione. Ogni suono ha dietro di sé infiniti altri suoni, che possiamo svelare/ascoltare come se fossero infiniti sipari. In questa ottica il suono non può che essere allusivo, facente parte di un’architettura che comprenda più dimensioni parallele. Sorge dunque la questione del Silenzio, della possibilità o impossibilità della sua esistenza e si affaccia l’idea di un Silenzio relativo: nascono i silenzi. Quali e quanti silenzi esistono, variamente echeggianti di ciò che precede, sovrapposti a ciò che c’è ora o carichi d’attesa, presaghi di ciò che sarà? Gérard Grisey sosteneva che “il silenzio è il suono che non siamo in grado di percepire”, dunque un concetto liminare i cui confini vanno relativizzati e spostati più in là ogni volta che un’esperienza ci svela un nuovo suono precedentemente considerato silenzio. Ogni volta siamo di fronte a un nuovo silenzio da scoprire. Luciano Berio di Luciano Violante Berio è la musica della responsabilità civile; è la musica dell’agorà, del luogo in cui si discute prima di decidere, la musica del luogo in cui si formulano le domande. Oggi siamo di fronte ad un eccesso di risposte e ad una carenza di domande, come in un bazar, dove le modalità con le quali ci vengono offerte valanghe di merci ci impediscono di chiederci se esse servano davvero. Nel mondo dominato dai valori civili, le risposte sono guidate dalle domande; in un mondo dove sono prevalenti i valori dello scambio, al contrario, sono le risposte che guidano le domande. La musica di Berio aiuta a riprendere il primato dei valori civili e a darci il coraggio delle domande. in Sequenze per Luciano Berio, edizioni Ricordi Luciano Berio Sequenza VII, per oboe Divertimento Ensemble | Rondò L’idea che si staglia con più immediatezza in Sequenza VII consiste nell’oscillazione del discorso melodico intorno al si bequadro tenuto dall’inizio alla fine, emesso “dietro le quinte” da uno strumento dal vivo o preregistrato. L’intero senso armonico del pezzo è legato a questa nota perno, che ne costituisce in qualche modo il centro gravitazionale. L’idea di polifonia o di “doppio” trova qui una nuova realizzazione particolarmente efficace. A un livello puramente simbolico, si può dire che questa nota tenuta si riallacci alla funzione che l’oboe ha in orchestra come strumento di riferimento per l’accordatura (è l’oboe che dà il la). Ma il si pare anche un omaggio al dedicatario del lavoro, Heinz Holliger, le cui iniziali corrispondono al si bequadro nella nomenclatura tedesca (h). La distribuzione sulla pagina della partitura in 13 righi di 13 segmenti, che può essere messa in relazione con le 13 lettere che compongono il nome di Holliger, non è stata voluta dal compositore (il quale, tuttavia, ha trovato divertente questa casuale coincidenza, così come quella del numero attribuito a Circles nel catalogo Universal – 32123 – che rivela la struttura dell’opera!). E’ quasi superfluo sottolineare in qual misura Berio utilizzi in questa Sequenza tutte le risorse dello strumento: da un lato il virtuosismo digitale, l’abilità richiesta dagli ampi intervalli, da un tipo di emissione in cui predomina 2004 » lo staccato a diverse velocità, dai numerosissimi cambiamenti di intensità ecc.; d’altro lato, l’utilizzazione delle nuove tecniche esecutive, come i suoni multipli, i cambi di diteggiatura su una stessa nota, i doppi trilli o i trilli su micro-intervalli, l’uso del soffio e della pressione delle labbra. Berio dà vita qui a un’immagine dello strumento che si pone in netta opposizione rispetto a quella convenzionale. La violenza e il carattere febbrile di Sequenza VII troncano con il legato melodico sfruttato dalla letteratura per oboe, l’aspetto bucolico dello strumento. Bruno Maderna Serenata n. 2 (1957), di Massimo Mila Divertimento Ensemble | Rondò In certe biografie la Serenata n. 2 per 11 strumenti del 1954 viene designata come una Neufassung, un rifacimento di quella del ‘46. Rifacimento molto sostanziale, se dobbiamo presta fede alla descrizione che ne dava allora il programma veneziano. “L’autore - vi si affermava - intende ricollegarsi alla tradizione barocca e classica dei concerti da camera e, nel caso specifico, ai divertimenti, serenate, musiche da giardino. Liberamente fluiscono nella stesura polifonica del testo ricordi secenteschi, atteggiamenti neoclassici, mai però parodiati o comunque piegati ad intenzioni umoristiche, ma confluenti in un tutto organico che alla composizione da valore quasi di biografia”. Quali ricordi secenteschi, quali atteggiamenti neoclassici si potrebbero mai riscontrare nell’asciutto e frizzante puntillismo della Serenata che ora ascolteremo, e che del resto, nella partitura a stampa, è esplicitamente intitolata Serenata n. 2 e reca la data, non del 1954, bensì del 1957? Gli 11 strumenti sono 13: flauto, clarinetto, clarinetto basso, tromba, corno, arpa, xilofono e vibrafono, pianoforte e Glockenspiel, violino, viola e contrabbasso (a 5 corde). Infatti la composizione del 1957 si trova spesso indicata, in certi programmi, come Serenata per 13 strumenti: è la stessa cosa, se si considera che xilofono e vibrafono, affidati a uno stesso esecutore, non possono suonare contemporaneamente, e lo stesso dicasi per il pianoforte e per l’argentino campanello del Glockenspiel, sacro alla memoria mozartiana di Papageno. A voler essere pignoli, gli strumenti sono addirittura 14, perché il flauto si alterna di continuo con l’ottavino; ma l’esecutore è unico, mentre due se ne richiedono invece per clarinetto e clarinetto basso. In parole povere, mai più di 11 strumenti possono suonare contemporaneamente. La Serenata del 1946 constava, secondo il programma veneziano, di quattro tempi: allegro sostenuto, lento, andante, allegro energico. La Serenata del 1957 non presenta vere interruzioni tra gli episodi che la compongono. Comincia senza alcuna indicazione di movimento, ma solo con una prescrizione di metronomo, cui è aggiunta, tra parentesi, l’avvertenza: “un poco liberamente”. Poi passa attraverso uno “scherzando”, segue un “allegro alla danza” e infine un “allegro”. Il decorso unitario della composizione e l’assenza totale di modi neoclassici, barocchi o secenteschi autorizzano a supporre che la Serenata n. 2 del ‘57, celebre punto di partenza dell’avanguardia musicale italiana, sia altra cosa della Serenata del 1946, forse rifatta nel 1954. Gli 11, o 13, strumenti lavorano sempre come voci reali, sicché, nonostante la leggerezza dello strumento, grande è la densità polifonica della scrittura. L’inizio, per suoni isolati del flauto (e dell’ottavino), ha qualcosa di pastorale ed elegiaco, nel senso greco della parola, secondo quel criterio aulodico di canto strumentale puro, di melodia assoluta, che Moderna connetteva a strumenti univoci come il flauto e l’oboe. I suoni si combinano a poco a poco, subentrando il flauto all’ottavino ed integrandosi ad esso il violino, la viola e il violoncello. Qual è il decorso delle note? come si presenta il discorso musicale di questi suoni ben presto ripartiti e divaricati sui diversi strumenti, secondo la tecnica del puntillismo? È un discorso seriale, dodecafonico, come spesso si afferma? 2004 » C’è in questo pezzo un particolare ben curioso, che non mi sembra sia mai stato rilevato. L’inizio solitario dell’ottavino ha tutta l’aria di voler sgranare una serie dodecafonica: dieci note diverse si succedono, a partire dal do iniziale. Ma, all’undicesima, ecco un altro do: la serie viene interrotta, prima dell’esaurimento del totale cromatico. Che succede? Viene subito la curiosità di controllare quali note sono state omesse: sol e si bemolle. Si guarda innanzi, e il sol si trova quasi subito, nel clarinetto. Il si bemolle no. Strano. Si continua a cercare più avanti: niente si bemolle in tutta la prima pagina di partitura, niente nella seconda. Si gira il foglio, pagina 3, pagina 4: neanche l’ombra d’un si bemolle. Ormai la caccia al si bemolle si fa affannosa. Si scrutano le pagine: otto, dieci, venti pagine (la partitura ne conta in tutto 49); mai un si bemolle. Ogni volta che il discorso sembrerebbe portarvi, sempre all’ultimo momento svolta via e svicola in altra direzione, come quelle maledette palline che in certi giochi di pazienza bisognerebbe far cadere in un buco, agitando ed oscillando una tavoletta. Ormai il fenomeno non può più essere casuale. Delle due l’una: o Moderna si è divertito a comporre un pezzo dove non ricorra mai il si bemolle, come ci si potrebbe esercitare a scrivere una poesia o un romanzo senza far mai uso della lettera b, oppure se lo tiene in serbo per spenderlo al momento buono. In questo caso, chissà che momento emozionante sarà quello in cui la nota renitente farà finalmente il suo ingresso nella composizione! È vera questa seconda ipotesi: il si bemolle compare dopo 28 pagine di partitura, quando, esaurito il capriccioso “Allegro alla danza” col suo gioco ostinato ed umoristico di note ribattute, la composizione prende un nuovo corso e si assesta nell’ultimo e definitivo movimento, “Allegro”. Ciò avviene con una specie di schianto, una fiammata sonora tutta tremula e incandescente: si tratta semplicemente d’un accordo di note lungamente tenute, fra le quali il famoso si bemolle, nel clarinetto basso, ma siccome l’idea stessa di accordo è incompatibile con l’estetica del puntillismo che fin qui governava il lavoro, è ovvio che dopo tanti suoni isolati, staccati, puntigliosamente separati l’uno dall’altro, l’esplosione prolungata d’un accordo quasi organistico prende un rilievo sensazionale. Dopo questo turgido rigonfio sonoro, dove il famoso si bemolle viene raccolto in un tremolo del pianoforte, la composizione si avvia verso la conclusione - “meno mosso”, “ancora meno mosso” - attraverso il solito procedimento, caro a Moderna, che potremmo chiamare della “fine per disintegrazione”. Il tessuto sonoro si smaglia a poco a poco, si restaura la tecnica dei suoni isolati. Emerge spesso il violino solo con certi suoni acuti che paiono lamenti ed evocano reminiscenze vivaldiane (“piange lo rosignolo”), ed alla fine sopravvive per ultimo all’estinzione graduale di tutti gli strumenti. Serenata, dunque: serenata come affermazione di ottimismo, di serenità, del piacere di far musica. Ma serenata malinconica. Non ci si aspetti uno sfoggio di buon umore rossiniano. Le Serenate di Moderna e dei suoi compagni furono, sì, l’affermazione d’una rinascente fiducia nella vita dopo le lugubri disperazioni dell’espressionismo. Ma è chiaro che si tratta di un’allegria di naufragi, per dirla con Ungaretti: l’allegria di cui può essere capace una generazione che ha avuto vent’anni quando il mondo andava a ferro e fuoco sotto i bombardamenti a tappeto, gli ebrei venivano sterminati nelle camere a gas e s’impiccavano i partigiani ai ganci delle macellerie. Questo non va mai dimenticato. Divertimento Ensemble | Rondò 2004 C. Debussy Sonata per violoncello e pianoforte Chi del mondo arabescato di Chambonnières, Rameau e Couperin attraversano e segnano a fondo la Sonata per violoncello. Basta ascoltare il toccatistico avvio del pianoforte, simile a un’improvvisazione clavicembalistica, cui si lega col suo canto assorto ma pronto ad accendersi di umori bizzarri il violoncello. La soave “Sérénade” evoca un appassionato duetto tra liuto e chitarra, prima di condensarsi come gioco aperto a tutte le combinazioni brillanti e strumentalmente imprevedibili nel concitato finale. La sonata per violoncello fu eseguita per la prima volta a Parigi il 4 marzo 1916 dall’autore con Joseph Salmon. H. Dutilleux Trois strophes sur le nom de Sacher In occasione del 70° anniversario di Paul Sacher, celebrato il 2 maggio 1976 alla Tonhalle di Zurigo, Mstislav Rostropovitch, domandò a 12 compositori di scrivere un omaggio per violoncello solo sulle lettere del nome SACHER (cioè eS A C H E Re). Furono così eseguiti pezzi di Conrad Beck, Luciano Berio, Pierre Boulez, Benjamin Britten, Henri Dutilleux, Wolfgang Fortner, Alberto Ginastera, Cristobal Halffter, Hans Werner Henze, Heinz Holliger, Klaus Huber e Witold Lutoslawski. Henri Dutilleux ha in seguito esteso il suo “omaggio” aggiungendo alla prima composizione altri due pezzi. Il titolo scelto per questa breve suite si riferisce a un’idea di ritorno, se non di “rima”; il legame tra ogni strofa è costituito dal frammento musicale formato dalle sei lettere del nome SACHER, con l’utilizzo del procedimento “a specchio”. Le due corde gravi dello strumento sono scordate: il sol abbassato a un fa diesis e il do a un si bemolle. Alla fine della prima strofa si trova una breve citazione della Musica per archi celesta e percussione di Béla Bartók, che Paul Sacher commissionò e diresse per la prima volta a Basilea nel 1937. Y. Maresz Entrelacs, nota di Yan Maresz Oltre che motivo decorativo alle figure geometriche gli “entrelacs” (ornamenti ad intreccio) rappresentano spesso nell’arte antica l’ondulazione e l’accavallamento dei flutti o la vibrazione dell’aria. Più recentemente schematizzano le connessioni e le interazioni complesse di un livello della realtà inaccessibile ai nostri sensi (rete di comunicazioni, neurobiologia, fisica delle particelle). Evocano anche l’unione di elementi indipendenti fra loro che coabitano armoniosamente. Ecco perché il titolo di questo pezzo non designa un risultato musicale, un processo di scrittura e meno ancora una preoccupazione di natura ornamentale; la forza di evocazione simbolica e il potenziale di rappresentazione schematica che questo termine ricopre lo pongono in una dimensione particolare, portatrice di una “poetica ondulatoria” al servizio dell’immaginario e della sua materializzazione. L’unificazione e l’omogeneità dei timbri in un discorso spesso monodico rafforza l’aspetto lineare della scrittura di Entrelacs. In questo pezzo la linea, animata da una pulsazione interna, è considerata come un vettore. Entità dinamica, elastica, sviluppa delle sinuose simmetrie soggette a torsioni e stiramenti fino al punto di rottura, dove si presta volentieri a effimere coreografie. La linea è anche il tratto reale o immaginario che separa le cose; essa diventa allora un limite, una frontiera. Da questa nozione deriva una evoluzione formale dove i contrasti e i cambiamenti improvvisi di direzione che costituiscono le diverse parti del pezzo sono nello stesso tempo dei mezzi per ritrovare il cammino iniziale. Divertimento Ensemble | Rondò 2004 G. Grisey, Stele per due percussionisti, nota di Gérard Grisey Come far emergere il ritmo dalla durata, un’organizzazione cellulare da un flusso che obbedisce a leggi diverse? Come schizzare in modo conciso e al limite del silenzio una iscrizione ritmica dapprima indistinguibile e poi scandita in una forma arcaica? Durante la composizione mi è apparsa un’immagine, quella di un archeologo mentre scopre una stele e la spolvera fino a mettere in luce un’iscrizione funeraria. P. Dusapin Tre studi per pianoforte, nota di Jan Pace Venti anni di carriera sono stati necessari a Pascal Dusapin per decidersi a scrivere una partitura per pianoforte. Non che gli mancasse familiarità con lo strumento; lo suonava infatti da lungo tempo, in privato, praticando il jazz e altre forme di improvvisazione. Ma come molti compositori hanno potuto sperimentare, il pianoforte porta con sé un pesante bagaglio storico, per non dire dell’abbondanza di interpretazioni “musicali” degli esecutori. La scala temperata e la serie degli armonici costringono a un’attenzione alle implicazioni armoniche e tonali maggiore che scrivendo per altri strumenti. Gli Studi superano queste difficoltà con grande abilità; assolutamente idiomatici nell’uso dell’armonia, della sonorità e dell’articolazione, essi prevengono tuttavia ogni assimilazione troppo facile a modelli esistenti. Questi studi non costituiscono la prima incursione di Dusapin nella scrittura pianistica. Sono stati preceduti dalle “allucinazioni” del Trio Rombach nel quale sono prefigurati alcuni elementi stilistici del ciclo. Questo ciclo ormai completo è stato scritti fra il 1997 e il 2001 su commissione dei pianisti Alain Planès, Vanessa Wagner, Michael Rudy e mia. Dusapin ha dichiarato di considerare questi pezzi più che degli studi di virtuosismo nel senso tradizionale del termine, degli “autentici studi di composizione racchiusi uno nell’altro come delle bamboline russe (matriochka)”. La scrittura pianistica riprende certi aspetti delle prime opere di Dusapin, ma sviluppandoli in una dimensione più originale. Le figure musicali, ispide, e non levigate e fra loro omogenee, presentano dei violenti contrasti dinamici e di articolazione, anche nei passaggi lenti. La tessitura volutamente limitata, conferisce un grado ulteriore di tristezza a una musica di “lamentazione”, che si ritrova in numerosi pezzi. Vi si riflette anche l’interesse di Dusapin per le musiche popolari francesi, greche e del mondo arabo (più esplicitamente nella melodia dal carattere popolare del secondo studio). La sua curiosità per la scrittura pianistica derivata dal jazz si ritrova nell’uso di una articolazione nella quale l’ultima nota di una frase è leggermente separata e accentata. La musica ha sempre un carattere di improvvisazione e le strutture più complesse sembrano nascere spontaneamente da motivi semplici, presentati all’inizio dei pezzi. I primi quattro studi costituiscono una evidente unità e sono spesso stati presentati insieme; tuttavia ogni pezzo ha una sua propria fisionomia. Il primo studio, il più lungo, crea il proprio mondo, sontuoso e insieme triste, attraverso un “gioco di evoluzioni melodiche” mentre il secondo più animato, è costituito da sviluppi ritmici”, da l’ouverture di danza in ritmo puntato fino ai tremoli non misurati della conclusione. Le “combinazioni armoniche” del terzo studio generano un movimento armonico molto sviluppato, essendo la linea melodica tagliente dell’inizio continuamente interrotta da agglomerati di abbellimenti (un procedimento che Dusapin utilizza anche nel secondo movimento del suo concerto per pianoforte A quia). Quando le linee si riducono a semplici altezze reiterate, il lirismo acquista un carattere di desolazione e di evidente disperazione. Il quarto studio, a spirale come un vortice, si fa furioso e simile a una toccata. Presentando all’inizio una successione di differenti gesti, poi uno “sviluppo per eliminazione degli elementi musicali precedenti”, questo studio conduce Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » a una semplice oscillazione intorno a due altezze, senza condurre da nessuna parte: è questo un motivo ricorrente all’interno del ciclo. Il ciclo avrebbe potuto concludersi così. Ma con il pezzo più strano di tutti, il quinto, entriamo in un altro mondo che contrasta violentemente con quello precedente. Le melodie, i gesti e le armonie, benchè legati agli studi precedenti, generano una struttura luminosa e in espansione; la raccomandazione espressa di uilizzare il meno possibile il pedale porta invece a una musica rarefatta, arida, disperata, apparentemente incapace di andare oltre l’oscillazione tra il si e il la bemolle. Con il sesto pezzo, di atmosfera simile a quella degli altri studi, i tremoli frenetici, le dinamiche penetranti e la frequenza di note ripetute, raggiungono una dimensione di passione feroce e una turbolenza senza precedenti. Il settimo studio, straziante, dal carattere di epilogo, ricapitola brevemente i sei pezzi precedenti, prima di ritornare alle note che avevano aperto l’intero ciclo, “una musica di grande tristezza”. Ma, secondo Dusapin, “si avrà il sentimento di una fine che, a dire il vero, è un nuovo inizio… Questo significa che non si deve ascoltare ma capire… il che fa una grande differenza, non è vero?” P. Dusapin Aria, nota di Pascal Dusapin Aria è una commissione della città di Strasburgo e di “Musica 92” per il bicentenario della morte di Mozart. La sua prima esecuzione, ad opera del clarinettista Armand Angster e dei solisti dell’Orchestra Filarmonica di Strasburgo diretti da Oliviers Dejours, è avvenuta il 4 febbraio 1992 a Salisburgo. Questo concerto per clarinetto e ensemble, in tre parti concatenate fra loro, è dedicato a Francoise Kübler e Armand Angster per la nascita di Lera. Die Stücke der Windrose, für Salonorchester (1988/94) Sin dai primi schizzi per questo ciclo di composizioni mi sono riproposto di variare spesso la prospettiva geografica delle mie riflessioni musicali. Forse questa scelta dipende anche dalla mia nascita nell’emisfero meridionale: se vi si è trascorsa la prima parte della vita, quella oltremodo fondamentale, determinati vissuti, certe nostalgie e alcune idee schematiche restano collegati a punti cardinali diversi, del tutto opposti al corrispondente mondo affettivo degli europei. Ancora oggi per me il Sud non ha niente a che vedere con l’idea del caldo, bensì è legato al freddo: la Patagonia, la Terra del Fuoco, l’Antartide. Per lo stesso motivo il Nord è tutt’altro che freddo: sole spietato e ombre stagliate, umidità pesante, paesaggi desertici e siccità. Per esempio, se il concetto di “Vicino Oriente” per molti rimanda a un ambito culturale orientale, per coloro che abitano in Estremo Oriente lo stesso concetto evoca l’esatto opposto. Le nostre idee sono inclini alle semplificazioni, si basano su impressioni di viaggio fugaci o durevoli, su letture ed esperienze, su simpatie e antipatie. Se dopo sole poche battute ci si sente trasportati nel punto geografico al quale ogni brano fa riferimento, come ascoltatori possiamo arricchire l’atmosfera del pezzo con frammenti dei nostri ricordi o delle nostre esperienze musicali sul posto. Si potrebbero indicare i luoghi dei brani da salotto come compositum sui generis, dove analisi e sintesi si congiungono cautamente per sottolineare la relatività dei punti cardinali. Difficilmente le 32 suddivisioni dei gradi geografici mi avrebbero potuto ispirare altrettanti brani, ma volevo scriverne almeno 8. Ogni punto dei quattro quadranti Nord, Sud, Est, Ovest richiedeva un’esplorazione complessa. Metterla in musica, sempre con lo stesso orga- Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » nico di clarinetto, pianoforte, armonium, 2 violini, viola, violoncello e contrabbasso, dove soltanto le percussioni mutano strumentazione di brano in brano, rimase una sfida costante nella realizzazione del ciclo. Osten 1988/89 Quale Oriente? Nè il Vicino nè l’Estremo, ma la regione diffusa ante portas che comincia e finisce già ai fiumi Oder e Neiße… ma dove? Se posso usare i dati geografici a grandi linee, lo scenario di questo breve pezzo si trova in qualche località fra la Transcarpazia e il golfo di Finlandia: mi trovo in un vagone di terza classe in uno di quei favolosi treni che circolano tra Kischinjew e Iwano-Frankowsk, Balassagyarmat e Hódmezövásárhely, Kamenez-Podolski e Piotroków Trybunalski. Viaggia con me un gruppo di musicisti che sembrano essere saltati fuori da un album di fotografie ingiallite. Cominciano a suonare per me. Lo scenario in movimento richiede una prassi esecutiva rapida; brandelli di melodie e ritmi caratteristici mutano più velocemente dei villaggi che si susseguono imprecisi. Certamente, nella mia cosmologia musicale privata do sempre un bonus all’Oriente. Nordwesten 1991 In questo pezzo mi sono riferito per la prima volta alla musica autoctona delle Ande sudamericane, che ho ascoltata spesso sia in Sudamerica sia in Europa, di prima, seconda e – per così dire – terz’ultima mano. In questo caso, ciò avviene attraverso un ensemble con un organico molto lontano da quello impiegato nelle fonti autentiche, cosa che ritengo particolarmente adatta a un periodo in cui i concetti di permeabilità e di influsso reciproco sono diventati centrali nel trattare linguaggi e culture musicali. D’altra parte l’illusione e l’evocazione fanno parte della natura della Salonmusik. Sentendosi trasportato nel punto geografico al quale mi riferisco, l’ascoltatore, anche solo dopo poche battute, è in grado di arricchire l’atmosfera del pezzo con frammenti dei suoi ricordi musicali o di avventure sul posto. Die Stücke der Windrose trattano il significato mutevole dei punti cardinali e la loro relatività implicita. Osservare questo condizionamento in relazione a un luogo che cambia è uno degli obietivi principali di questo ciclo. Provai una grande sorpresa, tempo fa, leggendo un trattato musicologico sul tamburo sciamanico kultrún, un tamburo con una sola pelle e con cassa armonica di forma semicircolare usato dai machis della civiltà Araucana-Mapuche del Cile meridionale. Maria Ester Grebe descrive il microcosmo simbolico dello strumento affermando che “rappresenta allo stesso tempo l’universo di questo popolo primordiale e le sue funzioni trascendentali”. Colori e disegni sulla superficie della pelle simboleggiano i quattro piani della visione verticale del mondo, mentre i quattro punti cardinali simboleggiano le gradazioni orizzontali tra il bene e il male (El kultrùn Mapuche: un microcosmo simbòlico, “Revista Musical Chilena”, 123-124, Santiago 1973). Ne risulta un orientamento etico della superficie della Terra: Nella descrizione di questo mondo immaginario mi ha fortemente affascinato la visione verticale e proprio questo è l’aspetto importante nei miei brani da salotto. Sono partito dalla considerazione che i diversi punti cardinali ci si presentano come su una carta geografica posta in verticale: il Nord allo Zenit, l’Est alla destra, il Sud in basso e l’Ovest alla sinistra. Per questa ragione ogni pezzo finisce con la contemplazione muta di un punto nella direzione di riferimento, come se gli sguardi degli esecutori fossero indicatori stradali congelati. Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » Inoltre in Nordwesten, dopo la prima parte nella quale si avvicina al podio una processione indiana immaginaria, ha luogo un ballo di commiato, che ho scritto usando una polipentatonia rigorosa, come omaggio a un sistema sonoro che ci è sicuramente rimasto estraneo. Per questa musica straniante possano perdonarmi gli dèi che hanno messo le ali alla rappresentazione del kultrún. Suden 1989 Visto dall’Europa centrale, il Sud al di là delle Alpi viene spesso associato a un’immagine sintetica composta principalmente da cielo terso e atmosfera cordiale e rilassata. Tuttavia, nella stagione calda si ripresenta sempre la preoccupazione che questo modello idilliaco potrebbe allontanarsi dalla realtà, ancor più di quanto sia avvenuto finora. Secondo tale ipotesi, per la musica del Sud mediterraneo rimane veramente poco spazio. In maniera altrettanto netta, vengono messi a confronto in questo brano ritmi e melodie che provengono da diverse regioni e che hanno un carattere tale da poterle proporre come aneddoti acustici. Qui il tempo è usato deliberatamente come il parametro che permette di far risaltare le trasformazioni di una musica popolare liberamente inventata. Allo stesso modo, l’inequivocabile tarantella iniziale perde il suo slancio di danza soltanto perché è rallentata, per far emergere tante sfaccettature nascoste. Che i confini tra ebbrezza e malinconia, tra gioia e malumore siano spesso fluidi, possono dimostrarlo chiaramente i tempi musicali: la stessa musica, eseguita con un diverso stacco di tempo, cambia repentinamente, forse fino a diventare irriconoscibile, per poi procedere senza sforzo in un’atmosfera opposta. Analogamente, le comunicazioni che si possono fare con la musica sono altrettanto numerose quanto le sfumature del linguaggio verbale. Fortunatamente però la loro essenza resta mutevole in ogni istante. Westen 1993/94 Se esistesse un punto cardinale chiamato press’a poco Ost o Evost, lo avrei scelto come titolo per la mia composizione. Infatti, qui la rosa dei venti non indica una destinazione precisa che si raggiunge sempre con lo stesso percorso, ma è simile a un’indicazione che mostri due direzioni diverse, come la testa di Giano bifronte. Tema di Westen [Ovest] è il reciproco dare e avere di due culture musicali, che si manifestò innanzi tutto come una profonda africanizzazione del Nordamerica e che condusse poi, anche se soltanto in parte e in maniera molto più debole, a un’americanizzazione della musica africana. Musica dei neri? dei bianchi? dei “neranchi”? È diventato sempre più difficile trovare risposte precise a tali questioni, poiché oggi l’identità culturale dei popoli non fa perno sull’estetica, ma principalmente sull’ambito socio e geopolitico, e con grande virulenza. Forse per un’ironia degli dèi della vendetta, gli schiavi africani resero gli americani – almeno in prospettiva musicale – un popolo primitivo. Comunque, sul lungo periodo i neri hanno colonizzato i bianchi. Tutto questo mi ha sempre interessato molto, forse perché dare risalto alla purezza in relazione al concetto di cultura mi è sembrato spesso insulso e perfino sospetto. Di conseguenza, presto attenzione al plusvalore fondamentale degli influssi palesi o nascosti che si manifestano otticamente e acusticamente. Nell’agosto del 1970 presentai la proposta di una produzione televisiva che per svariate ragioni, ma soprattutto a causa della problematica affrontata, non fu realizzata. Il film era intitolato Bianco su nero e voglio offrirne la trama agli ascoltatori di Westen; essa può chiarire i pensieri che ho delineato. “Arriva in Africa una spedizione musico-antropologica proveniente dall’Eu- Divertimento Ensemble | Rondò 2004 » ropa. Lo scopo del viaggio di ricerca è l’inventario delle tradizioni musicali e delle danze presso un’etnia di neri che, grazie alla sua infelice posizione geografica, ha scarsi contatti con la parte civilizzata del continente nero. I bianchi sono ampiamente dotati di regali – specchietti, biglie di vetro, coltellini ecc. – e li distribuiscono immediatamente al loro arrivo. Dopo alcuni giorni di trattative, i lavori possono iniziare. L’accordo prevede una procedura accurata: dai più anziani fino ai più giovani, ognuno deve eseguire da solo canti e danze. Dopo alcune settimane, i neri constatano sgomenti che all’improvviso si stanno moltiplicando le morti inspiegabili. Questo è tanto più strano, in quanto le persone dell’etnia raggiungono in genere un’età particolarmente ragguardevole e non si sono manifestate malattie o epidemie. I neri si riuniscono sconvolti attorno al loro esperto di medicina e discutono agitati per alcuni giorni, constatando infine che le persone morte erano quelle che avevano cantato ai bianchi tutte le melodie che ricordavano. Una folla infuriata affronta i ricercatori, ma essi riescono a calmarla con ulteriori doni e con la promessa di regalare l’intera attrezzatura da cucina alla conclusione del progetto. Il lavoro procede, anche se qualcosa è cambiato nell’atteggiamento dei neri: ora sembrano avere una capacità mnemonica decisamente superiore, che rivela una tradizione orale insospettata. Le sedute diventano più lunghe e il folklore, che prima era semplice e soltanto abbozzato, si delinea ora più ricco e complesso. Tuttavia, i ricercatori sono inflessibili sulle ripetizioni, le interrompono subito e richiedono melodie a loro ancora sconosciute. Temendo di pagare con la morte l’inaridirsi della fantasia, i neri cominciano a inserire elementi della musica occidentale che hanno orecchiato dai dischi che il tecnico del suono ascolta di sera nella sua tenda. Gradualmente, l’impercettibile e inarrestabile transizione di elementi musicali si trasforma in una perfetta imitazione. Alcune settimane dopo, i ricercatori lasciano soddisfatti il villaggio, non soltanto mantenendo la promessa (l’intera attrezzatura da cucina) ma regalando ai neri anche giradischi e dischi. Anni dopo, arriva in Baviera una spedizione musico-antropologica proveniente dall’Africa…” Westen è una commissione del WDR ed è dedicata al mio amico e mèntore redazionale Klaus Schöning: in lui ho potuto osservare con gioia, nei tanti anni della nostra collaborazione, come l’arte della dimensione acustica possa davvero aiutare ad ascoltare il suono dell’erba che cresce. M.K. Gérard Zinsstag Tempor Divertimento Ensemble | Rondò Temperatura, temperamento: calore, colore. O soltanto angoscia, nel Tempo, che i latini ci consegnano di genere neutro? Mai neutrale comunque e qui capace di assumere tre diversi caratteri: incarceré, suspendu, manipulé. Nulla è se non per come appare. Ossessivo, ci imprigiona all’inizio il pizzicato “secco” degli archi, orizzonte fisso come sbarre di una galera, gelido rimbalzo ai tocchi di desiderio del pianoforte. Rumori, nella solitudine: echi, rimbombi, ripetizioni, scansioni subite da chi è privo della libertà. (Il sogno troncato del prigioniero, il sadismo di chi lo illude: ascoltare Dallapiccola, Montale). Ma quando avviene questo sogno? È l’alba, oppure la notte a schiudersi su quelle visioni impotenti? Tecniche strumentali raffinate: divaricazioni di altezza, a creare conflitti spaesanti; il suono è tempo, nel tempo diventa struttura percettiva: la ripetizione si trasforma in concentrazione, l’economia degli intervalli provoca l’ondeggiare di un pendolo, che incanta. “Résonance spectrale”, viene indicato in partitura; e nell’episodio conclusivo, il tempo manipolato, si vuole esplicitamente raggiungere l’illusione: “souffle sans emission du son”. Ma in quel preciso istante sentiamo il flauto. Si sfalda il confine tra ascolto 2004 » e visione, la persistenza del suono non è più nello strumento ma nell’aria e poi, soltanto, nella mente: così sperimentava, col sonoscoop, Luigi Nono nello studio di Friburgo. Quanti piano sono possibili, udibili? “Piano, piano, piano, piano, piano, fortissimo nel mio cuore”, scriveva pensando a Schubert. Utopia del suono infinito, manipolazione genetica ambitissima dai compositori, loro faustiano delirio. Non occorre barattare l’anima con l’eternità, basterà “aumentare progressivamente la pressione dell’archetto, provocando così l’emissione di armonici molto lontani”. Lo straniamento è garantito, se l’esecuzione è efficace. E il “pizzicato secco” dell’inizio, diventa ora, al congedo, un “pizzicato arpeggiato”, svanito. H. Holliger Studie II di Luca Avanzi Heinz Holliger ha scritto numerosi brani per oboe, strumento da lui investigato come nessuno prima d’ora, soprattutto nella prima parte della sua carriera. Già a 20 anni, vincendo i più importanti concorsi internazionali, veniva riconosciuto come il Paganini dell’oboe, ed a questo periodo risalgono Mobile (oboe e arpa), Trio (oboe viola e arpa), Sonata (1960). Intorno agli anni ’70 arrivò all’apice dello sperimentalismo, con Cardiophonie (oboe e 3 nastri collegati al cuore dell’esecutore che dà il tactus dell’intero brano) e Studie über mehrklange (oboe solo), pezzo virtuosistico e drammatico che utilizza esclusivamente multifonici in rapidissima alternanza. Verso gli anni ’80 Holliger inizia ad impiegare organici sempre più ampi, ma trova ancora il tempo per scrivere un brano per oboe solo, commissionatogli dal Concorso Internazionale di Ginevra: Studie II. Il brano, scritto nel 1981, utilizza lo strumento alle sue estreme possibilità, usando molte delle nuove tecniche da lui stesso inventate. Glissandi, microtoni, intervalli amplissimi, dinamiche ed articolazioni estreme, armonici, accordi, sono solo alcune delle risorse qui impiegate. Un curioso effetto consiste nel glissando con una mano mentre l’altra esegue un trillo doppio; già usato nello Studie über mehrklange è invece il trillo suonato con due differenti velocità da ambo le mani. Il pezzo inizia con un’introduzione in forma di cadenza che sfocia in una sezione polifonica, dove ad una linea cantabile nel registro medio si sovrappone un elettrico trillo doppio che arricchisce la melodia soprastante. Rapidamente il contesto si trasforma in un periodo con dinamiche molto soffuse, dove il compositore esplora gli intervalli quartitonali intorno all’ottava, indicando anche possibili alternative timbriche. Dopo un lungo La variato timbricamente, attraverso una zona di rielaborazione motivica si passa al finale, dove usando la figura retorica del chiasmo Holliger crea un effetto insolito sull’oboe, incrociando la dinamica dal fff al pp con l’accelerazione temporale. Divertimento Ensemble | Rondò 2004 Luciano Berio Sequenza X L’assimilazione, la trasformazione ed il superamento di aspetti strumentali (o vocali) idiomatici sono talvolta intrinseci allo sviluppo musicale delle mie precedenti Sequenze. La Sequenza X per tromba e risonanze di pianoforte, invece, ne è quasi priva (se si esclude un fuggevole riferimento all’inno israeliano, Ha Tiqwa, “La speranza”). In questa Sequenza la tromba è usata in modo naturale e diretto ed è forse esattamente questa nudità che fa della Sequenza X la più faticosa di tutte. Sequenza X è stata scritta nel 1984 per Thomas Stevens (Luciano Berio). Luciano Berio di Luciano Violante in Sequenze per Luciano Berio, edizioni Ricordi Berio è la musica della responsabilità civile; è la musica dell’agorà, del luogo in cui si discute prima di decidere, la musica del luogo in cui si formulano le domande. Oggi siamo di fronte ad un eccesso di risposte e ad una carenza di domande, come in un bazar, dove le modalità con le quali ci vengono offerte valanghe di merci ci impediscono di chiederci se esse servano davvero. Nel mondo dominato dai valori civili, le risposte sono guidate dalle domande; in un mondo dove sono prevalenti i valori dello scambio, al contrario, sono le risposte che guidano le domande. La musica di Berio aiuta a riprendere il primato dei valori civili e a darci il coraggio delle domande. Paul Hindemith Sonata per flauto e pianoforte (1936) Heiter bewegt Sehr langsam Sehr lebhaft-Marsch Dmitrij Sostakovic (1906-1975) Dedicatosi giovanissimo alla musica, si diplomò in pianoforte a 17 anni e a 19, con la prima sinfonia, si rivelò come compositore. Nelle sue opere mostrava influssi e assimilazioni della musica occidentale, il che gli costò - nel 1934 - l’accusa di formalismo da parte della critica sovietica. Da allora, con la quinta sinfonia, andò modificando il suo linguaggio, rendendolo più semplice e alieno da radicalismi di avanguardia. Nel frattempo cominciò a insegnare al conservatorio di Leningrado e poi a quello di Mosca, diventando in breve il compositore più apprezzato dal regime. Egli riversò sulla musica da camera Divertimento Ensemble | Rondò La Sonata per flauto e pianoforte è stata composta nel 1936, periodo in cui Hindemith insegnava alla Hochschule di Berlino. Nel 1937, a causa dei forti contrasti con il regime nazista che considerava la sua musica il prodotto e l’espressione di un’arte “degenerata” è costretto ad abbandonare. Autore di pagine teatrali, sinfoniche, cameristiche, la sua riflessione estetica produce esiti severi, strutturati in modelli formali sempre rigorosamente definiti. Ricordiamo che, negli anni ’20, Hindemith era partito da una sorta di “espressionismo anti-espressionista” con il quale voleva accentuare drammaticamente la sua scrittura compositiva. Hindemith stesso dichiara di voler perseguire una ostentata “durezza fonica”. Tutto questo lo possiamo ritrovare nella Sonata per flauto e pianoforte: 1° movimento in forma sonata con il primo tema energico e deciso mentre il secondo leggero e lirico, 2° movimento – sehr langsam – atmosfera attonita, immota, a tratti quasi allucinante: la mano destra del pianoforte segna un ritmo inesorabile mentre il flauto si apre in un “canto” non espressivo drammaticamente sofferto, poi più rassegnato, 3° movimento - Marsch – conclusiva, sarcastica e grottesca in quella terzina sul secondo movimento del tema del flauto che dà un senso di irregolarità, di grossolanità alla marcia stessa, privandola della necessaria sicurezza ritmica. 2004 » qualche audace innovazione sintattica, ma nel 1948 dovette fare una nuova autocritica per meglio aderire alle tesi del realismo socialista, non senza enfasi e palesi accademismi che limitarono il suo innegabile talento e la sua geniale fantasia. Ebbe numerosi premi di Stato. Trio n.2 op.67 (premio Stralin): fu la sua replica immediata agli avvenimenti drammatici della Grande guerra. L’opera è dedicata a Sollertinsky, amico del compositore ed eminente musicologo morto durante le ostilità. Nel comporre questo trio S. rispetta la tradizione musicale russa iniziata da Tchaikovsky (Trio alla memoria di un grande artista) e ripresa da Arensky e Rachmaninov. L. van Beethoven Sonata in la maggiore op. 69 per violoncello e pianoforte Alle Sonate beethoveniane per violoncello e pianoforte - in tutto cinque viene attribuita una particolare importanza storica per la modernità stilistica che in esse si ritrova. Per la precisione, oltre alla consueta, sostanziale arditezza del linguaggio, si sottolinea generalmente in queste Sonate il rapporto paritario fra i due strumenti, in cui il violoncello, definitivamente emancipato da qualsiasi subordinazione, dialoga costantemente col pianoforte. La caratteristica dell’opera 69 è la rinuncia all’orpello virtuosistico, decorativo o di maniera, insieme alla correlazione, armoniosamente espressiva, tra i vari movimenti, dove i due strumenti dialogano con elegante lirismo e intensità. Scritta fra il 1807 e il 1808, dedicata all’amico barone Ignaz von Gleichenstein, violoncellista dilettante, e pubblicata nel 1809 - anni cruciali per l’attività beethoveniana - la Sonata si presenta in tre tempi: i primi due rappresentati dall’iniziale “Allegro, ma non tanto’’ e dallo “Scherzo: Allegro molto”, articolato in cinque sezioni a causa della ripetizione del Trio. La Sonata è poi conclusa da un “Allegro vivace”, introdotto da un brevissimo e sommesso “Adagio cantabile”. A. Dvorak Quintetto in la maggiore op. 81 per pianoforte e archi Inspiegabilmente meno eseguito delle opere similari di Schumann o Brahms, questo Quintetto, che è il secondo scritto da Dvorák (il primo, op. 5, data 1872) è un lavoro di altissimo livello artistico, sicuramente da annoverarsi tra i migliori del maestro boemo. Scritto nell’arco di 3 mesi, tra l’agosto e l’ottobre del 1887, dispiega nei 4 movimenti di cui è costituito un’inventiva ispirata, esuberante, di immediato potere comunicativo, dove convergono i temi caratteristici del compositore boemo: temi popolari straordinariamente nobilitati, nostalgie pensose, estrose impennate, atmosfere contemplative. Il tutto ordinato secondo un progetto formale non schematico eppure assai solido, persuasivo, che tende a disegnare un diagramma più emozionale che intellettuale. Il primo movimento, “Allegro ma non tanto”, esibisce un’espressività toccante, ora energica, ora amorosamente lirica, che mostra evidenti impronte brahmsiane. A questa ampia prima sezione segue, non meno esteso, il secondo movimento, “Dumka”: “Andante con moto”. Qui l’atmosfera assume toni più sentimentali e si svolge secondo lo schema tipico di alternanza tra motivi lenti, malinconici, ed altri, di carattere più sereno. La struttura è quella del rondò. Mosso e zampillante è poi lo “Scherzo: Molto vivace”, cui Dvorák aggiunse la specifica di “Furiant”. Si tratta di una danza boema dall’andamento particolare, asimmetrico, che però qui viene liberamente interpreta ed ampliata. Il “Finale: Allegro” è una pagina scintillante, ricca di spirito umoristico e di viva fantasia. La conclusione è giocosa e serena. Quest’opera riuscitissima fu pubblicata da Simrock nel 1888 ed ebbe la prima esecuzione nel gennaio dello stesso anno a Praga. Divertimento Ensemble | Rondò 2004