Claudio de Bertolini EVIDENZA scienza E RELATIVISMO in psichiatria, psicoanalisi e psichiatria forense Note di epistemologia Armando editore Sommario Parte I: Le Domande e Le Premesse Epistemologiche 9 Evidenza, scienza e relativismo Le domande 11 Le premesse epistemologiche I.1. Echi Storici Echi dal mondo greco Dai Greci a Kant Da Kant al Circolo di Vienna I.2. Popper e i post-popperiani Popper Lakatos: il falsificazionismo sofisticato Kuhn: i paradigmi Feyerabend: Contro il metodo Per concludere I.3. L’ermeneutica 21 21 22 27 33 35 35 54 61 73 80 85 Parte II: LA PSICHIATRIA: OGGETTO/I E METODO/I II.1. Gli indirizzi in psichiatria L’indirizzo organicista L’indirizzo sociale La psicoanalisi II.2. La psichiatria nel suo insieme II.3. Analisi clinica e forense di tre casi 121 123 131 155 166 197 225 Conclusioni 293 Appendice Il rapporto della mente con il suo cervello Ancora sui paradigmi Per terminare 321 321 324 337 Ringraziamenti 339 Riferimenti bibliografici 341 Indice analitico 346 Al termine degli eventi narrati, mentre osserva l’incendio dell’Abbazia, Frate Guglielmo di Baskerville commenta: “Temi i profeti e coloro che sono disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro […]. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, far ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla morbosa passione per la verità”. E Adso, il giovane discepolo, che in seguito sperò sempre “che Dio avesse perdonato al suo maestro i molti atti di orgoglio che la sua fierezza intellettuale gli aveva fatto commettere”, in un passo precedente lamenta: “dell’unico amore terreno della mia vita non sapevo, e non seppi mai, il nome”. Umberto Eco, Il nome della rosa Parte I Le Domande e Le Premesse Epistemologiche Evidenza, scienza e relativismo Le domande Psichiatria: opinioni o disciplina scientifica? Problemi epistemologici in psichiatria Queste pagine nascono dal desiderio di portare un contributo al dibattito su una questione che è nel DNA della psichiatria: la sua scientificità e, in ultima istanza, la credibilità di quanto fanno gli psichiatri sotto le sue insegne. Proviamo a dare una prima inquadratura del problema. L’amore e l’odio, la speranza e la paura, la felicità e la tristezza, la conoscenza e l’ignoranza, gli ideali e la meschinità abitano da sempre i miti, le religioni, l’arte e, da sempre, animano gli uomini. Anche la disperazione, le perversioni, le fobie, le allucinazioni e i deliri prendono l’uomo, lo scuotono, lo accompagnano e lo divorano. Molti uomini hanno attraversato questo mondo, alcuni ne sono rimasti travolti, alcuni lo hanno cantato, altri ancora hanno pregato gli dei di riservare loro una buona sorte. Alcuni uomini hanno cercato di capirlo e di lenire le sofferenze: gli psichiatri sono gli eredi di questi primi esploratori e la psichiatria è il loro credo. Credo complesso e sfrangiato, affascinante ma con diverse declinazioni nelle molteplici scuole; credo discusso e anche criticato. Traduciamo in un linguaggio più “consono”: la psiche, nelle sue varie espressioni pulsionali, cognitive, ideali e patologiche è sempre stata al centro non solo della vita ma anche dell’interesse dell’uomo, dell’arte, della filosofia e della scienza. Ma le teorie e le prassi che ne sono derivate, pur sofisticate e sorprendenti per alcuni aspetti, non sono riuscite a trovare un quadro completo, coerente e condiviso, che le sintetizzi adeguatamente. Non solo: le varie scuole sono spesso in 11 contrasto e, peggio, non si sono ancora accordate su un metodo che permetta loro di confrontarsi e di dirimere le dispute. Da questo problema, ma non solo, muovono le accuse degli uomini di scienza che rimproverano alla psichiatria di non essersi ancora liberata, almeno in molti dei suoi aspetti, da un approccio conoscitivo di tipo metafisico o, comunque, prescientifico con l’invito ad appropriarsi del “metodo scientifico”; da qui alcune perplessità e ambivalenze dei colleghi, dei pazienti e, più in generale, del contesto sociale nei confronti dell’operato degli psichiatri. Questo è il cuore del problema, o dei molti problemi, che vogliamo affrontare. È questo un problema, ben si comprende, di ampia portata per le sue implicazioni e conseguenze, ma la cui soluzione sembrerebbe di relativa semplicità: adottare e applicare il metodo scientifico. La difficoltà sarebbe quindi legata non tanto al merito della questione, ma piuttosto alla psicologia degli psichiatri che si negano ostinatamente alla ragione e alla scienza, incantati dagli echi dei miti, della poesia e della follia stessa. La critica è semplicistica e tutta la questione appare più interessante, complessa e feconda. Più stimolante per la psichiatria che continuamente si pone i problemi della lacerazione dei suoi linguaggi, della sua legittimazione teorica, del suo potere terapeutico; più complessa per la medicina che attraverso la psichiatria è forzata a oltrepassare il mero dato biologico e a ritrovare la globalità della persona; più feconda per la scienza stessa che con la psichiatria lambisce le regioni estreme in cui riesce a spingersi, ma in cui rischia anche di arenarsi. Pensare alle basi scientifiche della psichiatria riporta ai fondamenti stessi della scienza e, quantomeno, riapre un’altra questione all’epistemologia contemporanea. In questa prospettiva ci interrogheremo su cosa è la scienza, quale il suo metodo, quali il suo oggetto e il suo ambito, sul valore dell’osservazione e dell’induzione, sui suoi rapporti con la metafisica e con il sociale. Cercheremo di chiarire il senso di parole, solo apparentemente simili, come apparenza, evidenza, opinione, conoscenza, scienza, capire, comprendere, metodo scientifico, verificabilità, falsificazione, verosimiglianza, ermeneutica, relativismo, verità. Proveremo a decifrare i vari indirizzi della psichiatria, i loro rapporti reciproci e 12 le eventuali interconnessioni. Tenteremo infine di vedere i riflessi di tutto ciò nella pratica quotidiana della psichiatria e nelle scelte, più o meno consapevoli, del singolo operatore. Articoliamo ora meglio le nostre domande, iniziando con la questione del definire la scienza e il suo metodo. È questa una questione antica che riporta il nostro pensare alle sue origini, ai filosofi greci, alla distinzione tra doxa (l’opinione), episteme (la conoscenza scientifica), phronesis (il sapere etico), tecne (l’abilità dell’artigiano), via via lungo i sentieri dell’empirismo e del razionalismo, dello scontro tra Galilei e Bellarmino, fino a Kant e poi a Hegel, alla crisi della scienza e al Circolo di Vienna. E ancora ci muoveremo attraverso le critiche all’induttivismo (con il povero tacchino di Russel che viene “induttivisticamente tradito” a Natale), il crollo del mito dell’“immacolata percezione” e la consapevolezza che la scienza “si fa i fatti suoi”, l’illusione della verifica e il pensiero di Popper che con la sua macchina logica e con l’accetta della falsificazione rifonda il metodo scientifico, definisce una teoria scientifica, la differenzia dalle ipotesi metafisiche e dalle ideologie e indica la relazione tra conoscenza scientifica e verità. Vedremo se è falsificabile il falsificazionista Popper, se il suo metodo è vincolante o è solo una convenzione. Queste e altre questioni alimentano il dibattito fra i post-popperiani, in particolare Lakatos, Kuhn e Feyerabend. I programmi di ricerca di Lakatos da un lato chiariscono ulteriormente la questione del falsificazionismo, dall’altro riportano la metafisica nel cuore della scienza. Kuhn, mediante i paradigmi, mostra come il progresso della scienza e le sue rivoluzioni siano ben più complessi di quanto la comparazione con esperienze cruciali possa far trasparire, evidenzia inoltre come i fattori sociali ne condizionino lo sviluppo e come questo sviluppo non sia necessariamente un progresso. Con Feyerabend infine è il metodo stesso nei suoi fondamenti, nella sua utilità e nella sua fecondità a essere negato o, quantomeno, scardinato. Ma subito un’altra e più vasta questione si pone: il metodo scientifico è applicabile a tutti gli oggetti che vogliamo conoscere? Se lo scopo del metodo scientifico è quello di ricercare la regolarità nel ripetersi dei fenomeni e di stabilire le leggi che governano il loro accadimento, è applicabile ai casi unici, non misurabili, non ripetibili, 13 come ad esempio la storia? Ci sono leggi che determinano la progressione storica o ci sono solo “tendenze”, per cui lo sviluppo storico non è prevedibile? E se così fosse, come si falsificano queste “tendenze” o, quantomeno, come possono essere giustificate e corroborate dai fatti? È definitivamente stabilito che il metodo scientifico è unico oppure a oggetti diversi si possono, anzi si devono, applicare metodi diversi? Che ne è della distinzione che Dilthey fece fra le scienze della natura che spiegano (erklaeren) il mondo del dover essere e quelle dello spirito che cercano di comprendere (verstehen) il mondo del voler essere? Il metodo scientifico riesce a coprire per intero l’ambito del conoscibile e quello della verità? È l’unico strumento di conoscenza? L’esperienza di conoscenza e di verità che si ha nell’incontro con l’opera d’arte è scientifica? È vera? Su cosa si fonda? Cosa ne dà giustificazione e garanzia? Quali criteri abbiamo per scegliere fra varie interpretazioni dell’opera artistica? Quale rapporto c’è tra ermeneutica e scienza? Quale rapporto allora fra conoscenza e scienza? E veniamo alla questione più centrale del nostro interesse: la psichiatria ha un suo fondamento scientifico o è solo vana speculazione che si trova ancora in una fase metafisica, ideologica, comunque prescientifica? Ancora prima, esistono leggi che determinano la sequenza degli eventi psicologici? Come si conciliano queste eventuali leggi con il libero arbitrio, con il progetto di sé, con l’etica? Come si conciliano con i condizionamenti interpersonali e sociali? In ogni caso, l’unicità delle singole persone, la non ripetibilità del loro essere al mondo, l’intimità dei vissuti, il carattere inconscio di alcuni di questi, la loro non misurabilità, non sono tali da scoraggiare l’applicazione del metodo scientifico come l’ha definito Popper? È reale il pericolo che l’applicazione del metodo scientifico obblighi a una “riduzione” della psiche tale da toglierle ogni “umanità”, da “oggettivizzarla” in un freddo comportamento, in un “cadavere” che al tavolo autoptico della scienza ha ormai ben poco da dirci? Tutto ciò, ovvero l’impossibilità di trovare leggi che stabiliscono l’accadere degli eventi e che permettano di prevederlo, non è ancora più vero per la follia, che si pone proprio come il disordine patologico di un già complesso equilibrio psichico proiettato verso la libera realizzazione di sé? Le domande non sono solo sul metodo ma riguardano anche l’og14 getto della psichiatria: cos’è la follia? È veramente uno squilibrio o non è piuttosto un ordine diverso? È almeno un “unico oggetto” oppure sotto la sua superficie fenomenica abitano oggetti diversi, agglomerati solo dall’estraneità e dal timore che inducono in chi li incontra e dalle istituzioni che li contengono? Altre domande riguardano le risposte che la psichiatria ha dato o può dare. Come mai in psichiatria esistono vari indirizzi? Gli indirizzi corrispondono ai programmi di ricerca o ai paradigmi? A che punto è il dibattito sulla scientificità della psicoanalisi? Qual è il rapporto fra un indirizzo e un altro? Quale il rapporto fra i singoli indirizzi e l’insieme, ad esempio, fra psicoanalisi e psichiatria? Sarà possibile trovare una sintesi o almeno un’integrazione fra i vari indirizzi, e con quale metodo? Oppure, con Feyerabend, dobbiamo schierarci contro un metodo che rischia di ingabbiare, di incapsulare, i nostri sforzi? Fuori dal metodo cosa ci aspetta? È possibile che l’uomo, per conoscere un suo simile, utilizzi l’empatia, ciò che intuitivamente sente per lui? In altri termini: l’empatia, l’identificazione, la relazione, il transfert e il controtransfert possono essere elementi di scienza o almeno di conoscenza? Come differenziarli dalle illusioni fallaci? Potrà l’ermeneutica darci una risposta? Ermeneutica e metodo scientifico possono incontrarsi, riconoscersi nei loro rapporti, sposarsi in una sintesi oppure dovranno militare per sempre in campi diversi? Quali i rapporti fra psichiatria e metafisica, teologia, etica e istanze sociali? Tutte queste questioni riguardano aspetti teorici, “in alto”; ma dobbiamo interrogarci anche “in basso”. Cosa giustifica la prassi della psichiatria? E non è essa stessa solo il braccio mistificante dell’ordine costituito? Ogni tecnica è altrettanto legittima? Chi o cosa la può legittimare? Infine, tutte queste problematiche condizionano le opinioni, le scelte, le adesioni a un singolo indirizzo piuttosto che a un altro e le terapie del singolo psichiatra? Su cosa si basano le sue decisioni? Contano solo l’autorità o il carisma del maestro, del supervisore? C’è un metodo che, in tutto questo, permette un confronto se non chiarificatore almeno progressivo? Le domande, o alcune di esse, sono state poste. E sono domande che non interessano solo la psichiatria; interessano, seppur con accenti diversi, la psicologia che della psichiatria è premessa, la medici15 na, la storia, il diritto, tutte quelle che venivano chiamate “le scienze umane”. Non si pensi che la risposta a queste domande abbia solo significato speculativo, accademico. Le parole e le teorie non solo descrivono, sotto la molteplicità e la varietà dell’apparenza, l’essenza delle “cose” e del loro accadere, ma anche le ordinano e danno loro significato e potere. Le parole sono figlie della conoscenza e dell’ignoranza, sono il frutto di teorie e con loro sono intrecciate. Le parole definiscono i fenomeni e ne determinano altri. Le parole decidono se l’alimentazione di un paziente in coma è terapia o accanimento terapeutico; stabiliscono se un vissuto è semplice tristezza o un disturbo depressivo che esonera dal lavoro e può dare diritto a una pensione, ecc. Quando chi ne ha il potere incontra un deficit delle funzioni cognitive e lo chiama “demenza”, apre le porte a nuovi diritti ma anche alla perdita di altri. Lo stesso fenomeno è stato chiamato delirio, possessione, squilibrio neurochimico, dissidenza. Una persona che protesta contro uno stato che gli offre “democraticamente” tutto il necessario e molte altre opportunità, può essere chiamato dissidente o schizofrenico paranoide, almeno in una fase prodromica; se è uno schizofrenico e la teoria afferma che i migliori risultati si ottengono trattando precocemente “questi pazienti” con gli stessi farmaci che si usano nella fase conclamata della patologia ecco che a quella persona verranno somministrate robuste dosi di neurolettici. Che poi qualcuno insista nel chiamarlo dissidente e che il trattamento sia definito “lavaggio del cervello” è sempre questione di parole, anche se carica di conseguenze pratiche drammatiche. Le teorie non solo danno senso alle parole con cui descriviamo i fenomeni ma stabiliscono rapporti di causa ed effetto dei fenomeni che le parole descrivono, determinano, o almeno modificano, gli eventi futuri. Sono le nostre conoscenze che stabiliscono la formazione degli operatori, orientano le terapie e con esse stabiliscono il destino dei pazienti, plasmano le istituzioni in cui si opera e le gerarchie che le attraversano. Se prevale la teoria che vede nei fattori biologici l’origine della malattie mentali è evidente che anche la loro terapia avrà un’impronta biologica e che le strutture a essa deputate saranno affidate ai medici; se prevarrà invece l’ipotesi psicodinamica 16 ecco che allora le psicoterapie avranno una loro legittimazione e le assicurazioni salderanno le parcelle degli psicoterapeuti e, per rimanere a questioni pratiche, anche gli psicologi clinici avranno uno spazio rilevante e potranno aspirare a dirigere una struttura finalizzata alla terapia dei disturbi psichici. Le parole e le teorie, nel loro DNA, hanno dunque il potere di chi le ha generate e il potere che sono chiamate a esercitare. Come lenti magiche le teorie danno potere a chi le conosce e le usa, ma possono anche deformare la capacità di vedere e a volte accecare quegli stessi a cui danno potere. Nessuna teoria è “scientificamente vera”; anche per questo è bene conoscere non solo il loro contenuto ma anche la loro storia, la loro identità, i loro effetti. Ma c’è un’altra importante questione che si pone più “in alto”, su un piano filosofico ed epistemologico; in un’altra prospettiva possiamo dire che queste pagine sono anche una scommessa. Kant ci ha insegnato che la cosa in sé è inconoscibile e che l’immagine che ne abbiamo è una nostra costruzione. Ci rassicura peraltro che questa costruzione avviene attraverso categorie della percezione e del pensiero, della “ragione”, categorie comuni a tutta l’Umanità per cui anche la ricostruzione è comune e condivisa. È però evidente che a un certo punto questa conoscenza si divarica e ogni cultura e ogni persona hanno visioni del mondo diverse. Come si sono sviluppate queste visioni? Oltre alle categorie kantiane ve ne sono altre di stampo affettivo, storico, culturale, istituzionale, ecc.? Sono tutte altrettanto “vere”? Come possiamo valutarle? La scienza, che dai più è ritenuta metodo di conoscenza infallibile e che certo è il più potente e affidabile, è veramente in grado di mostrarci la “verità” ontologica dell’essere? Dopo Kant la scienza ha forse “dimenticato” questa questione. È con Popper che l’epistemologia ricorda che le leggi scientifiche sono solo ipotetiche e che la verità è irraggiungibile. Con i post-popperiani la divaricazione si fa ancora più marcata. A fianco di un divenire ontologico in cui l’essere muta il suo manifestarsi fenomenologico, esiste un divenire dell’interpretare che plasma teorie e mondi diversi, plausibili, a volte verosimili, spesso incommensurabili. Questo è quello che ci dice l’epistemologia. 17 La scommessa è allora mettere Kant e tutta l’epistemologia contemporanea come punto di partenza e applicare le loro prescrizioni alla medicina e in particolare alla psichiatria; vedere poi se e come sia possibile edificare questa disciplina o piuttosto se e come siano possibili varie edificazioni e come in esse giochino non solo le categorie kantiane ma anche altre categorie, pre-giudizi, prospettive storiche e culturali, pressioni politiche, interessi economici, metodo “scientifico” e altro ancora. Vedere infine quanto le diverse, possibili costruzioni siano verosimili e con quali criteri scegliamo fra loro. Questa quindi la nostra domanda: come si pone la psichiatria di fronte alla prospettiva kantiana e alle prescrizioni della epistemologia? E, seppure solo in quanto matrice della psichiatria, come si pone la medicina stessa? In psichiatria e medicina ci avviciniamo, interpretando i vari fenomeni, alla realtà ontologica, “scopriamo” la realtà sotto il suo velo fenomenologico o piuttosto le nostre teorie sono solo ardite costruzioni che certo sono “interpretazioni” della realtà fenomenica ma al contempo sono solo costruzioni e poi ricostruzioni logiche di una realtà che sul piano ontologico resta comunque inconoscibile? Se così fosse, questi modelli logici con cui costruiamo il nostro sapere hanno almeno la legittimazione del metodo scientifico o sono solo semplici ipotesi che non hanno nessun diritto nell’ambito della scienza? Pensiamo alla “depressione” o alla malaria, malattie conosciute da secoli e ancora ben presenti nel mondo. Anche in queste malattie possiamo dire che la realtà ontologica ci sfugge, che abbiamo solo una realtà fenomenica e che su questa realtà costruiamo modelli che con la cesoia della falsificazione perfezioniamo corroborandoli con i fatti per poi cambiare paradigma e dare una seconda costruzione ben diversa dalla prima o invece dobbiamo solo attenerci all’evidenza e credere che approfondendo questa ci avvicineremo sempre più alla sua realtà ontologica? Questa è la domanda e dare una risposta è la scommessa che alimenta le successive pagine. Recentemente in medicina è nata una corrente di pensiero, l’Evidence Based Medicine, che sollecita a fondare le proprie decisioni, diagnostiche e terapeutiche, sulla valutazione critica dei risultati repe18 ribili dalla letteratura scientifica. Questo significa che ciò che interessa specificatamente la EBM non è semplicemente quello che deriva da ricerche, ma prevalentemente da studi clinici controllati e linee-guida di pratica clinica; dati quindi ottenuti mediante una valutazione critica degli studi esistenti. A volte se ne dà una lettura “ingenua” e si dimentica che la medicina in quanto tale è da sempre basata sull’evidenza clinica. Queste pagine non entrano direttamente in questa questione che interessa il piano clinico ma tentano di allargare il dibattito al piano più ampiamente filosofico ed epistemologico, in particolare al sovraccarico teorico che supporta ogni teoria. Proprio perché l’evidenza ingenua è fallace ed è illusoria la speranza di affidarsi a lei, tanto più deve essere forte il metodo che unico ci può guidare sulle strade della conoscenza. Detto questo, vedremo anche i limiti della scienza sia sul piano metodologico sia in merito all’ambito di applicabilità. Non faremo più riferimento, in modo specifico, alla Evidence Based Medicine perché tutte le considerazioni che seguono lo fanno in modo implicito. Per rispondere a tutte queste questioni il testo, nella prima parte, riprende le premesse epistemologiche. Iniziamo ascoltando qualche eco dagli antichi filosofi che già si interrogavano sulla “verità” di ciò che ci appare e che riteniamo vero, sul significato delle parole e sul valore delle teorie. Riprenderemo poi alcuni concetti che dal Medio Evo ci accompagneranno a Kant. E vedremo come Kant, nella sua rivoluzione della teoria della conoscenza, ponga i fondamenti dell’epistemologia contemporanea. Affronteremo successivamente la crisi della scienza a fine ’800 per giungere a Popper e ai post-popperiani. Infine volgeremo uno sguardo all’ermeneutica per ricavare alcune considerazioni che ci aiuteranno a comprendere il problema metodologico della psichiatria. È di tutta evidenza che questo non vuole essere un riassunto “per psichiatri” della storia dell’epistemologia; vogliamo solo riprendere alcuni concetti che, anche se non sempre verrà esplicitato, hanno un rimando diretto ad aspetti clinici. La seconda parte è poi dedicata ai fondamenti epistemologici della psichiatria, alla sua articolazione nei vari indirizzi, al dibattito epistemologico sulla psicoanalisi, al fondamento teorico dell’indagine clinica e delle terapie in psichiatria. 19 Il progetto è certo ambizioso: forte è la coscienza dei limiti ma più forte il desiderio di affrontare e condividere una questione che, unica, può legittimare l’insegnamento e la pratica della psichiatria. 20 Le premesse epistemologiche I.1. Echi Storici Le parole e le teorie disegnano il passato, il presente e il futuro; ma è affidabile questo disegno? Prima di analizzare le varie voci del dibattito epistemologico contemporaneo e di vedere come nascono e si affermano le parole e le leggi della scienza, è opportuno richiamare alcuni fotogrammi, alcuni nuclei fecondi che ci sono stati tramandati dal mondo greco; quello dell’illusorietà dell’apparenza, quello della matematica come strumento di conoscenza, quello del “mondo delle idee”, quello delle categorie. È inteso che accennare a tutto quello che sono state nella storia della filosofia greca e poi europea la questione gnoseologica e quella epistemologica è impresa che non ci interessa. Molto meglio lo fa un qualsiasi manuale di storia della filosofia per i licei. E tuttavia è utile riprendere alcuni concetti, e il riferimento è soprattutto a quello di “evidenza”, e ricordare che sono questioni affrontate e superate più di due millenni fa. Lo scopo di queste prime pagine non è quindi quello di offrire una storia filosofica della questione ma piuttosto quello di dare un rapido disegno che richiama le lezioni liceali e che, in una prospettiva attuale, ci introduca alle questioni che vogliamo affrontare. È anche evidente che in questa prospettiva non ha senso pensare a una bibliografia. 21 Echi dal mondo greco Da sempre gli uomini hanno intravisto che l’apparenza di ciò che percepivano era solo l’ombra di un mondo più complesso e hanno cercato di comprenderlo. Lo si è interpretato dapprima come l’espressione, la fenomenizzazione di una pluralità di enti metafisici ordinati, più o meno, in modo gerarchico. Questa lettura è stata senza dubbio l’esplicarsi di un animismo infantile, ma, nel contempo, ha anche aperto le porte alle religioni e, successivamente, alla speculazione filosofica. Nel pensiero occidentale sono i filosofi greci a porre per primi, in forma più matura, vorrei dire filosofica e non più animistica, la questione della non affidabilità dell’apparenza, a porre la contrapposizione fra la doxa, l’opinione, il senso comune, e l’episteme, la conoscenza scientifica. L’apparenza è infatti in continua evoluzione, modificata continuamente dal divenire, macerata e ricreata dal correre del tempo; l’albero germoglia, fiorisce, fa il frutto e poi lo perde, si spoglia di ogni colore quando arriva l’inverno e poi riprende il suo corso. I sensi ci ingannano: il ramo che teniamo nelle nostre mani sembra piegarsi quando lo immergiamo nell’acqua per poi tornare come prima quando lo togliamo. Cosa rappresentano allora le parole? Cosa è “davvero” un albero? Ma possiamo chiederci nello stesso modo cosa è davvero “la tosse” che affligge Carlo da tempo e cosa “la schizofrenia” che rende così “strana” Giovanna. Se non possiamo credere all’apparenza, ai nostri sensi, alle parole stesse, a cosa possiamo dunque credere? Cosa è posto a garanzia delle nostre affermazioni? Dove trovano fondamento le opinioni? Qual è il rapporto fra le cose, l’osservatore, il pensiero? Pitagora Pitagora, cinquecento anni prima di Cristo, diede una prima risposta che è ancora di assoluta attualità: l’apparenza delle cose è vana, la vera natura del mondo sta nell’ordinamento geometrico che lo organizza ed è esprimibile in numeri; il numero è l’essenza delle cose e una profonda armonia regola l’universo. Così è per il moto degli astri, per il ritmo dei giorni e delle stagioni, per l’intero ordine. La mate22 matica, o meglio il linguaggio matematico, è insomma la struttura, il vocabolario, la sintassi dell’essere e quindi è il codice per interpretarlo. Ma anche la musica è linguaggio matematico e quindi rapporti matematici animano l’estetica, l’arte. La bellezza dei templi esprime l’equilibrio delle loro proporzioni geometriche, quella dei volti è data dalle loro proporzioni. Con un balzo di venticinque secoli, come possiamo non pensare alla matematica dei moderni ingegneri che ha trasformato e trasforma il mondo? Come non pensare però anche ai trattati di anatomia, di patologia generale e di clinica medica, di psicopatologia e di psichiatria così poveri di matematica; e per converso ai “miseri” risultati di Lombroso che, in pieno Positivismo, si illudeva di individuare gli squilibri della mente nelle misure del cranio. Ma torniamo al mondo greco. L’inaffidabilità dei nostri sensi e del senso comune, ma anche i paradossi della matematica, sono ripresi da molti filosofi; si pensi alla forza e alla bellezza di Zenone di Elea (490-430 a.C.) che, contro l’evidenza, sostiene pubblicamente, basandosi su un ragionamento matematico, che Achille non avrebbe mai potuto raggiungere la tartaruga che lo precedeva di un solo passo; e pone così, anche se non del tutto compreso, ardui problemi di logica e le premesse del calcolo infinitesimale. Certo è possibile anche una lettura debole dei paradossi di Zenone, vale a dire che intendesse criticare la matematica; resta, tuttavia, lo spirito di questa discussione che si incentra sui punti critici dove matematica e percezione si scontrano in un dibattito accaduto pubblicamente nel V secolo a.C. Si pone così, seppure in nuce, quello che sarà il conflitto tra razionalismo ed empirismo. I Sofisti Di fronte a queste difficoltà ebbe voce anche la posizione più scettica, ben rappresentata dai Sofisti. A uno di loro, Protagora (480 ca.410 ca. a.C.), dobbiamo il concetto che l’uomo è la misura di tutte le cose, concetto che si sviluppa e si articola nell’uomo come singolo soggetto, per il quale le cose sono, insuperabilmente, come gli appaiono. Tale concezione si allarga anche alla cultura di ogni gruppo sociale che ha tradizioni, opinioni e leggi proprie, per cui ad esempio presso i Persiani è naturale congiungersi con la madre, le sorelle e le 23 figlie, mentre ciò è per i Greci turpe e illegale, come Edipo ebbe a sperimentare. Davanti all’impossibilità di verità e di valori assoluti, la scelta si basa allora in un’anticipazione del pragmatismo o dell’utilitarismo, in sostanza nel vantaggio e nell’utilità che una certa conoscenza, una certa lettura, comporta per il singolo e per il gruppo. Socrate Diversa ancora è la posizione di Socrate (469-399 a.C.), convinto assertore che la verità è raggiungibile, che è anzi già dentro ogni uomo. Il saggio sa di non sapere ma sa che la verità è avvicinabile. Da qui trae origine il suo interesse centrale per l’uomo e la riproposizione del motto che fu già di Talete e dell’oracolo delfico, il conosci te stesso. Da qui prende forma anche il suo metodo, la maieutica, che con domande incalzanti demolisce i pregiudizi dell’interlocutore, la presunzione del sapere, e fa nascere, “estraendola”, la verità che ciascuno ha dentro di sé. In questo dialogo a spirale, che continuamente confronta le opinioni, le critica e le rinnova per poi nuovamente criticarle, non è difficile leggere gli albori del metodo psicanalitico e, forse, dell’ermeneutica. Ma da dove viene questa conoscenza, come è possibile che l’uomo abbia dentro di sé questa verità? Socrate, come già Pitagora e poi Platone, crede alla metempsicosi, al ripetersi delle reincarnazioni dell’anima che conserva dentro di sé la conoscenza delle cose, anche se velata dalla dimenticanza e sommersa dai pregiudizi. Conoscere è insomma ricordare. Platone Con Platone (427-347 a.C.) e Aristotele il percorso verso le basi della conoscenza ha un ulteriore, poderoso progresso. Il pensiero di Platone è così ampio e complesso e altrettanto vasta la sua teoria gnoseologica, che non possiamo certo pensare di riassumerlo in poche righe. A ogni modo l’analisi, per quanto breve, del mito della caverna può evocare quelle immagini che sono il fine di questi echi storici, quanto meno a livello di suggestione. Gli schiavi incatenati nella caverna vedono, proiettate sul fondo, le ombre degli oggetti illuminati dal fuoco e scambiano quelle ombre per la realtà. La caverna oscura è il nostro mondo e noi siamo gli schiavi incatenati dall’ignoranza e 24 dalle passioni; le ombre rappresentano l’immagine superficiale delle cose illuminate dal fuoco, prima pallida e incerta luce della conoscenza. Ma è fuori dalla caverna che sta la realtà ultima, le idee; è fuori dalla caverna che sta il sole, la possibilità della conoscenza e della virtù. Il mito è più complesso e nel percorso dello schiavo che esce dalla caverna e poi ritorna per riferire ai compagni cosa ha visto sono indicate le varie tappe di questo cammino di iniziazione verso la conoscenza e la virtù. Per i nostri fini può essere sufficiente ribadire come fin da allora era piena la consapevolezza dell’illusorietà dell’apparenza fenomenica e della fallacità della conoscenza che a essa si affida. La vera conoscenza sta infatti nel vedere questo mondo delle idee, separato dalle “cose sensibili” (i fenomeni) e matrice di esse: il mondo dell’iperuranio. Varie sono state le interpretazioni date a questo mondo delle idee: è certamente un mondo trascendente, separato dal nostro, immutabile e perfetto, che sta al mondo concreto in cui abitiamo come il modello sta alla copia. Ma va sottolineato che le idee non rappresentano, almeno in prima istanza, idee di cose concrete quali l’uomo o il tavolo, ma piuttosto idee-valori come il Bene, il Bello, il Giusto e idee matematiche come i numeri, i loro rapporti, le figure geometriche. Tra il mondo delle idee e il mondo fenomenico che vediamo vi è un rapporto: il Demiurgo ha infatti plasmato la materia preesistente sul modello delle idee, a “immagine e somiglianza” delle idee e quindi secondo una struttura di tipo matematico. È chiaro allora, riprendendo il mito della caverna, che la vera conoscenza è conoscenza delle idee. Ma come si può conoscerle? Anche per Platone la conoscenza è in realtà reminiscenza, è già dentro di noi, è innata, grazie alla metempsicosi che ha permesso all’anima, prima di reincarnarsi, di partecipare al mondo delle idee e quindi di conoscerlo. Aristotele Aristotele (384-322 a.C.) completa la grande costruzione epistemologica del pensiero greco. Pur essendo stato allievo di Platone per un ventennio, egli ha un marcato interesse anche per gli oggetti reali della natura e, più che a una gerarchizzazione del sapere, punta a una “enciclopedia” della conoscenza. Forse anche a causa di questa diversa prospettiva, critica le idee di Platone e si impegna nello studio dell’es25 sere in quanto essere. L’essere si manifesta però in una molteplicità di modi. Volge allora l’attenzione alle “categorie” dell’essere, vale a dire alle sue caratteristiche fondamentali e strutturali, prima tra tutte la sostanza che, unione di materia e forma, indica “che cos’è una cosa”, ed “è per sé”, e poi tutte le altre categorie che da essa dipendono esprimendone degli “attributi”: la qualità e la quantità, la relazione, l’agire e il subire, il luogo e il tempo. Le categorie non sono solo ontologiche, non sono solo caratteristiche dell’essere, ma sono anche logiche, sono i predicati dell’essere e le griglie attraverso cui lo conosciamo. L’oggetto concreto è dato dall’unione indissolubile di struttura e di materia (il vaso è il risultato dell’argilla e della struttura che lo plasma e che rende vaso l’argilla). È chiaro ora che la vera conoscenza dovrà mirare a cogliere la sostanza e l’articolarsi delle categorie; il principio delle cose, che per Platone stava nell’iperuranio, con Aristotele risiede quindi dentro le cose, nella loro concretezza fenomenica. Una “eccellente diapositiva” di questa differente visione, di questa ulteriore contrapposizione fra “razionalismo ed empirismo”, è conservata nelle stanze di Raffaello dei Musei Vaticani dove i due filosofi sono rappresentati con il dito indice della mano destra puntato rispettivamente verso il cielo e verso la terra. Va ancora osservato che in questo modo Aristotele affianca alla visione pitagorica e platonica, incentrata sui rapporti matematici e sulle idee-etiche, potremmo quasi dire sulla razionalità, la questione della qualità e quindi della osservazione della natura, ritenuta precedentemente del tutto illusoria e fuorviante. Grande attenzione è da lui inoltre dedicata alla logica, la forma comune di cui si avvalgono le scienze e il cui rapporto con l’essere, l’ontologia, diventa a questo punto necessario. Ma su cosa opera la logica, su cosa poggiano le sue categorie formali, dove prende le sue definizioni e cosa la legittima? Nulla, se non la diretta intuizione delle essenze delle cose che affiorano nell’esperienza, la frequentazione delle cose stesse. Non vogliamo certo, in queste poche righe, pretendere di avere sintetizzato la mole del pensiero greco; abbiamo solo cercato di mostrare come siano state poste, fin da allora, alcune importanti questioni e come, per strade diverse, se ne siano cercate le risposte. Vedremo come molte di queste idee abbiano fruttificato e siano ancora presenti, seppure in forme più sofisticate, nel pensiero contemporaneo. 26 Ma forse non è inutile chiedersi fin d’ora se questo ci aiuta a capire cosa significa “albero”, se c’è “l’idea di albero” su cui il Demiurgo ha plasmato il singolo albero per affidarlo poi al divenire; e, fuor di metafora, se ci aiuta a comprendere cosa significa schizofrenia, che rapporto c’è fra schizofrenia e schizofrenico, dove abbiamo “trovato” questi concetti, forse questa “idea”. Certo sarebbe bello se il singolo malato stesse alla sua malattia come il singolo triangolo sta al concetto matematico di triangolo; sarebbe allora sufficiente “riconoscerlo” e subito saremmo in grado di sapere di lui molte cose come le conosciamo di quel singolo triangolo di cui subito sappiamo che è figura piuttosto spigolosa, che la somma dei suoi angoli è 180 gradi e molte altre cose più o meno superficiali. Ci basterebbe allora conoscere l’“idea” di schizofrenia, piuttosto che di dissidente, che è nell’iperuranio; dobbiamo invece accontentarci della definizione che ne danno le varie e successive edizioni dei trattati e dei manuali diagnostici. Dai Greci a Kant Il Medio Evo Nel Medio Evo, che in parte si riaggancia a Platone, l’epistemologia conosce una nuova “soluzione” che ne segna però anche il limite. Alla verità “rilevata” dal filosofo, dal sapiente, si sostituisce la verità “rivelata” dai testi sacri e certificata dall’Autorità che ne è l’interprete e il custode assoluto. La conoscenza razionale si deve rapportare prima di tutto alle verità della religione e con essa all’intuizione mistica e, in ultima istanza, alla fede. Fra queste diverse fonti di conoscenza non può esservi contrasto: si pensi al celebre motto di S. Anselmo, “conosco per credere e credo per conoscere”. Se poi si dovesse creare un disaccordo tra ragione e fede, è chiaro che sarebbe la ragione a dover cedere il passo, essendo essa sola fallibile. La conoscenza non trova più la sua giustificazione nell’osservazione, nella razionalità del linguaggio matematico, nel recupero di una verità che comunque è dentro di noi; tutte queste fonti “interne” alla conoscenza, pur valide e anche opportune, devono inginocchiarsi, qualora vi sia scontro, con un ben più importante e forte principio esterno al procedimento, alle 27 regole della conoscenza: il giudizio dell’Autorità cui la verità è stata rivelata. L’Umanesimo È nel tardo Medio Evo, con l’Umanesimo, e nell’epoca rinascimentale che il dibattito epistemologico può riprendere forza; l’uomo recupera la sua posizione centrale nell’universo, ritrova i testi aristotelici, si dà nuovi modelli culturali, sociali, politici e indaga la natura che lo circonda. Avviene così che le due fonti della conoscenza, l’esperienza e l’intelletto, si trovano a essere dialetticamente contrapposte. Per l’empirismo classico, il cui principale esponente fu forse Bacone (15611626), la conoscenza deve infatti fondarsi sull’osservazione; l’uomo è una tabula rasa, ovvero una sorta di lavagna sulla quale vengono lasciate delle tracce da parte dell’esperienza. Secondo Bacone questa tabula rasa iniziale è stata purtroppo gradualmente segnata da pregiudizi personali e/o socioculturali che alterano la percezione della realtà così come si presenterebbe nella sua evidenza. Per giungere alla conoscenza è quindi necessario e sufficiente che ognuno si spogli dei propri pregiudizi, dei propri preconcetti, della anticipatio mentis, purifichi la mente e si dia a un’osservazione pura. Da questi dati e con il procedimento induttivo, cioè dalla generalizzazione delle regolarità osservate in un numero sufficientemente ampio di casi, si giunge poi alla scoperta delle leggi generali che determinano proprio queste regolarità. Ma già Aristotele aveva messo in guardia contro i limiti dell’induttivismo, che non può mai contemplare l’osservazione di tutti i casi possibili e quindi, non potendo dare alcuna certezza, è privo di autentico valore. Dall’altra parte, il razionalismo, il cui più illustre rappresentante è stato Cartesio (1596-1650), afferma che non ci si può basare sui sensi, che sono per loro natura fallaci, ma bisogna affidarsi all’intelletto, in particolare alla logica e al procedimento deduttivo. Per questa via si ha il recupero della logica aristotelica, in particolare del sillogismo, e l’utilizzo del più recente sviluppo delle dimostrazioni matematiche. Tuttavia la forma logica del sillogismo e delle dimostrazioni matematiche garantisce solo la correttezza formale e non il risultato; dipende infatti dalla esattezza delle premesse che il risultato sia corretto. Ma come si possono ottenere delle “corrette” premesse? 28 Così descritti, i due metodi, induttivo e deduttivo, e le due linee di pensiero, l’empirismo e il razionalismo, sembrano rigidamente contrapposti. In realtà non è proprio così: entrambi sono concordi nell’opporsi a rimandare la questione di ciò che legittima la conoscenza a un’Autorità esterna alla scienza e reclamano invece un’Autorità interna, anche se su questo poi si dividono, cercandola, gli uni, nei sensi e, gli altri, nell’intelletto. Inoltre l’osservazione, l’induzione, le leggi, la deduzione e la spiegazione del singolo caso vanno a costituire un unico arco epistemologico che sale dalla base dei fatti osservati, trova, attraverso l’induzione, delle leggi che sono la sua chiave di volta e, con la deduzione, attraverso il fatto singolo da spiegare si riappoggia al mondo fenomenico. L’arco epistemologico è tuttavia una costruzione molto semplificata delle posizioni ben più complesse e problematiche dell’empirismo e del razionalismo ed è comunque una costruzione scricchiolante che poggia su basi instabili e con larghe crepe nelle strutture portanti. L’empirismo non riesce infatti a giustificare completamente la base osservativa, la sua oggettività, e meno ancora giustifica la possibilità di formulare attraverso l’induzione delle leggi generali, alle quali anzi, al termine, esplicitamente rinuncia. Lo scetticismo di Hume, l’ultimo grande empirista, mostra in modo definitivo tutte queste difficoltà. A sua volta il razionalismo non riesce a legittimare le origini e l’oggettività delle leggi razionali, che pone come premesse, se non attraverso il ricorso a un ente supremo che le giustifichi; in ogni caso, rinunciando ai dati forniti dall’esperienza, non riesce ad aggiungere nulla di nuovo ai suoi asserti, che si trovano così a “macinare sempre la stessa farina”. Spinoza conclude che l’unica Sostanza è Dio, che si manifesta nel mondo, e che quest’ultimo da Dio deve quindi essere dedotto; così pure le monadi di Leibniz possono trovare un reciproco accordo solo in Dio e nell’armonia da Egli prestabilita. Galileo e Newton Appare evidente come la filosofia non riesca quindi più a dare solide basi alla scienza che tuttavia, con Galilei e Newton, ha già gettato i fondamenti del metodo scientifico e sta raggiungendo nuove grandi mete. Il punto di partenza di questo metodo consiste nella raccolta dei 29 dati empirici su base osservativa, senza preconcetti e senza pregiudizi; questa raccolta deve essere pubblica, ripetibile e deve portare a dati quantitativi, ovvero numerici. Questi dati devono poi essere tradotti in linguaggio matematico e successivamente elaborati con il metodo induttivo e secondo le regole del calcolo matematico, in ipotesi che li interpretano e li ordinano. Queste ipotesi, espresse in linguaggio matematico, per mezzo di opportuni esperimenti, devono essere sottoposte a verifica e se, attraverso questa, vengono confermate, hanno valore di leggi scientifiche, hanno cioè la capacità di descrivere le modalità in cui i fenomeni presi in esame accadono. Nonostante la potenza di questo metodo e i risultati ottenuti, lo sviluppo della scienza dovrà conoscere la celebre e tragica vicenda che vide contrapposti, nel XVII secolo, Galilei e Bellarmino e, tramite loro, scienza e religione, forse solo “scuole” epistemologiche diverse, sicuramente scienza e potere. Il cardinale, già inquisitore di Giordano Bruno, era ben disposto a concedere a Galilei che la nuova teoria eliocentrica ben si accordava con le apparenze e soprattutto che facilitava il calcolo del moto dei pianeti rispetto alla teoria geocentrica, ma il tutto doveva valere rigidamente come semplice ipotesi matematica, come strumento di calcolo, che nulla poteva cambiare nella visione della realtà fisica per la quale faceva testo la Bibbia, o per meglio dire, l’interpretazione che della Bibbia dava l’Autorità ecclesiastica del tempo. Poiché le idee sulla scienza e non solo, al di là di ogni dibattito epistemologico, hanno anche una valenza sociale e istituzionale nel loro affermarsi, la disputa si concluse nella nota maniera. Non è detto peraltro che Bellarmino avesse “tutti i torti”. Non si pensi nemmeno che il principio di un’Autorità deputata a stabilire la verità di una teoria sia completamente tramontato, e anche i fattori socioculturali, e forse il potere sociale, ancora giocano un ruolo tutt’altro che secondario sia nella scienza che nella psichiatria, ma per affrontare questo argomento dobbiamo attendere il pensiero di Feyerabend. Kant Kant (1724-1804) è il filosofo che sul finire dell’Illuminismo porta nuove prospettive al problema della conoscenza e lo fa entrare nella 30 modernità. Opera infatti una rivoluzione copernicana della gnoseologia. La filosofia precedente aveva accettato la visione pitagorica di una realtà ordinata da leggi a essa interne, leggi geometrico-matematiche, e vedeva nella scienza lo strumento per trovare queste leggi; ordinatore della realtà e garante della corrispondenza tra realtà e intelletto era poi, in modo più o meno evidente e variamente accentuato, un ente metafisico e supremo. Con Kant il rapporto è rovesciato: è l’intelletto che ordina il mondo esterno secondo le sue leggi, è la mente umana, che non scopre le leggi dell’universo, ma con le categorie dell’intelletto dà a esso struttura, ordine e norme. Certo i dati, i fenomeni, anche se non sono la “realtà”, vengono dalla realtà, ma è l’uomo che li interpreta, li collega, li ordina, li lega in strutture, che dà le leggi. L’analisi critica va quindi rivolta non alla cosa pensata, ma all’io che pensa, al modo, alle forme del pensare. Non c’è più bisogno di un garante esterno, non c’è più la necessità di un ente metafisico: la conoscenza è libera dalla trascendenza. Ma come vengono organizzati i dati, come vengono poste queste leggi, cosa le rende, se non vere, accettabili e condivisibili? Il primo grado di questo processo di organizzazione del mondo è dato dall’intuizione, l’apprensione immediata delle sensazioni che vengono ordinate nelle categorie dello spazio e del tempo, griglie ineliminabili della nostra attività intuitiva, esigenze a priori della nostra esperienza. La seconda tappa è data dall’attività dell’intelletto che coordina, organizza, lega i dati dell’esperienza secondo delle “leggi” concettuali dette categorie. Queste categorie sono quindi le modalità, le griglie a priori secondo cui funziona l’intelletto e sono le leggi che l’intelletto dà ai dati sensibili che l’intuizione ha sistemato nelle forme di spazio e tempo. Per Platone le idee e l’ordine delle cose erano nell’iperuranio e la mente umana ne aveva il ricordo; con Aristotele erano invece nelle cose e anche nella mente che le leggeva; con Kant le categorie sono invece nell’intelletto che è l’unico ordinatore dei dati sensoriali. Le idee, pensate come ontologiche e, con Aristotele, anche logiche, in Kant sono solo logiche e disegnano un mondo che “in realtà” è inconoscibile. Va però subito chiarito che ciò non porta alla soggettività, all’arbitrarietà della conoscenza, tutt’altro: anche se possiamo conoscere 31 solo “i fenomeni”, ovvero le cose quali ci appaiono nell’esperienza, le categorie dell’intelletto che ci rendono possibile la conoscenza sono comuni all’Umanità, sono forme a priori e ineliminabili della mente umana, fuori dalle cose, ma non metafisiche, non fenomeniche, non trascendenti, bensì trascendentali, universali e necessarie (“chiamo trascendentale ogni conoscenza che ha a che fare non con gli oggetti, ma col nostro modo di conoscere gli oggetti in quanto deve essere possibile a priori”). Come le forme di spazio e tempo costituiscono quasi delle lenti attraverso cui i dati sensoriali devono passare, così le categorie dell’intelletto sono griglie, modalità, in cui questi dati necessariamente devono essere ordinati. Le categorie sono dodici e vengono divise in quattro gruppi; quelle della quantità: unità, pluralità, totalità; quelle della qualità: realtà, negazione, limitazione; quelle della relazione: sostanza e accidente, causa ed effetto, reciproca azione; infine quelle della modalità: possibilità, esistenza, necessità. Inoltre queste categorie convergono verso una costruzione unitaria, trovano unità, in quella che è la categoria delle categorie: l’unità dell’io. Questa grande opera di rifondazione, che vede l’io non più come fotografo del mondo esterno, ma come suo ordinatore e legislatore (che per certi versi riprende e dà conferma e valore massimo a Protagora il quale vedeva nell’uomo la misura di tutte le cose), ha però un costo, lascia aperto un problema: la cosa in sé. Kant non dubita che i dati, i fenomeni che l’esperienza coglie abbiano una base concreta, reale, fuori dal soggetto; l’io ordina la natura ma non la crea, eppure la cosa in sé, al di là dell’esperienza fenomenica, non è conoscibile. Conseguenza fondamentale di tutto questo disegno è che la conoscenza trova nel noumeno (“ciò che è pensato”), nella cosa in sé, un ostacolo invalicabile. Ed è così che anche la conoscenza scientifica richiede un ripensamento. Vi è infine un terzo livello, oltre all’intuizione e all’intelletto: la ragione, che organizza i concetti in totalità assolute, le idee. La mente umana costruisce insomma, accanto al mondo dell’esperienza, un mondo ben più vasto: l’idea di anima, di mondo come un tutto, di Dio. Ma tali idee non appartengono alla scienza, essendo fuori da ciò che possiamo percepire. Ciò non nega loro la massima importanza, anzi: 32 la libertà, l’estetica, l’etica, il dovere, la virtù sono valori sommi, ma restano fuori dai confini della possibilità di conoscenza e dal suo meccanicismo. Non vi è dubbio che il pensiero di Kant rivoluziona ogni precedente teoria sulla conoscenza e tuttavia non ci ha ancora risolto il problema in cui ci dibattiamo: chi o cosa ci autorizza a credere che le nostre affermazioni sono vere o comunque a scegliere fra due affermazioni contrapposte, o almeno diverse, quella vera. Possiamo forse aggiungere che le categorie dell’io non sembrano, in una prospettiva neurobiologica e anche antropologica, così necessarie e universali come sono state descritte, ma possono essere plasmate e deformate da disegni culturali e da cariche affettive; si pensi al delirio di Kotard del melanconico in cui la categoria del tempo (ma non solo quella) è così deformata che il malato si trova in un inferno senza tempo da cui nemmeno la morte può liberalo. Da Kant al Circolo di Vienna Il progresso e la crisi della scienza Proprio sul noumeno il pensiero post-kantiano si scinde: l’idealismo, con un sovraccarico di metafisica, sempre più si allontana dalla realtà concreta, semplice espressione fenomenica dell’idea; il Positivismo, per recuperare la concretezza della natura, allenta la struttura logica e torna a una scienza che a fatica supera la semplice osservazione e catalogazione. Malgrado questa distanza dalla filosofia, la scienza progredisce rapidamente; proprio in questa progressione, tuttavia, trova i suoi limiti e la necessità di un ripensamento dei suoi fondamenti. La matematica, la fisica, la biologia, la sociologia scricchiolano infatti nelle loro fondamenta. La matematica, regina delle scienze logiche, deve confrontarsi con le geometrie non euclidee e deve fornire nuove basi epistemologiche ai suoi postulati; ma dove può trovarle se non nell’evidenza della realtà che non riesce però più a dare risposte univoche? E quale oggettività possono avere se sono possibili postulati autocontraddittori, se sono possibili diverse geometrie? Ci si trova così all’inizio del 33 20esimo secolo, con buona pace di Pitagora e di Galilei, a ridiscutere dei fondamenti della matematica e a dettarne, “per convenzione”, i postulati. Ma non solo la matematica vive queste difficoltà. La fisica, prima fra le scienze empiriche, deve confrontarsi con la presenza di due teorie, quella ondulatoria e quella corpuscolare, contrapposte, ma entrambe necessarie per spiegare alcuni fenomeni luminosi. La biologia, a sua volta, non riesce a dare fondamento scientifico al vitalismo né soluzione alla vecchia contrapposizione con il meccanicismo. La sociologia si sfrangia in interpretazioni diverse che non riescono a trovare un terreno e un metodo di confronto. Il Circolo di Vienna Incerta essa stessa sui suoi fondamenti, la scienza conosce la sua crisi. A questa crisi della scienza cerca di dare risposta il Circolo di Vienna, che nel 1929 pubblica il suo manifesto programmatico dal titolo La concezione scientifica del mondo. La premessa è che le difficoltà che la scienza stava incontrando risiedevano nel linguaggio che utilizzava. Compito della filosofia era allora analizzare questo linguaggio, chiarificarlo e purificarlo dai termini equivoci o metafisici, comunque privi di significato o fuorvianti. Questa analisi si divise in due settori: la semantica, ovvero lo studio dei rapporti tra parole e fatti, e la sintassi, ovvero lo studio delle strutture formali del linguaggio. In questa prospettiva la scienza diventa linguaggio e ha al suo fondamento la sintassi, le regole di questo linguaggio che, ripetiamo, è unico per tutte le scienze. Ciò che varia nelle singole scienze è la semantica, ovvero l’uso di termini diversi a seconda dei campi del sapere di cui la singola disciplina si occupa. Sul piano formale cardini del linguaggio scientifico sono il criterio di significanza, per cui le uniche proposizioni che hanno senso sono quelle suscettibili di verifica empirica e fattuale, e il principio di verificazione, per cui un’asserzione è vera se essa e tutte le conseguenze che se ne possono trarre corrispondono ai fatti. Viene così stabilita una linea di demarcazione tra i discorsi scientifici, “sensati”, e tutti gli altri e viene inoltre definito un criterio per “verificare” se le teorie “sensate” ovvero scientifiche sono “vere”. Sul versante della semantica il cardine è il linguaggio “fisicalistico” o “cosale”, per cui ogni termine deve essere riportato 34 all’esperienza diretta che lo giustifica. In realtà a questa posizione iniziale molto rigida sono seguite la prima e la seconda liberalizzazione che hanno modificato la questione, ma su questo torneremo quando parleremo del comportamentismo. Dopo il Circolo di Vienna sfuma il problema della “conoscenza ingenua” e viene posto in primo piano quello della “conoscenza scientifica”. Su questa strada, anche noi non ci occuperemo più del problema dell’opinione, della conoscenza ingenua, ma solo del problema della “conoscenza scientifica”. La conoscenza “ingenua” è la ricostruzione del mondo operata dall’io attraverso le categorie kantiane e la tradizione culturale, la conoscenza “scientifica” prevede un ulteriore passaggio, prevede la lente, il filtro, la procedura logica del mondo scientifico. Certo anche la conoscenza “ingenua” deve attenersi ad alcuni criteri logici come ad esempio al principio della non contraddizione, ma la conoscenza scientifica esige, come vedremo, altre e ulteriori condizioni. Con l’eco del Circolo di Vienna chiudiamo questi flash storici che ci hanno portati a Popper, il filosofo della scienza che rinnova il discorso sul metodo. Ci è sembrato utile aver ricordato come il problema della conoscenza, dell’oggettività, della giustificazione delle teorie scientifiche, sia antico e abbia provocato un dibattito che, a questo punto della nostra indagine, non è certo risolto. Vedremo nel prossimo paragrafo come Popper, in questo dibattito, pone una nuova pietra miliare. E forse è utile ricordare, visto che la psichiatria è il cardine del nostro interesse, che proprio Popper mosse alla psicoanalisi rilevanti critiche di ordine metodologico, critiche che ne hanno messo in discussione la credibilità e, per riflesso, anche quella di importanti settori della psichiatria. I.2. Popper e i Post-popperiani Popper Karl Popper nasce a Vienna nel 1902, ma, dopo l’occupazione nazista dell’Austria, si trasferisce a Londra, nella cui Università diviene 35 professore di logica dal 1945 e dove svolge la sua attività di filosofo interessandosi prevalentemente ai problemi dell’epistemologia. Muore nel 1994. Con lui lasciamo le categorie della conoscenza e affrontiamo le leggi della scienza. Le critiche: i limiti dell’osservazione e dell’induzione L’analisi di Popper, che traccia le linee del neoempirismo o empirismo critico, si innesta nel dibattito del Circolo di Vienna e critica il metodo scientifico e l’arco epistemologico tradizionali. Il suo pensiero muove da due critiche serrate: la prima all’osservazione “pura”, la seconda all’induzione. Per quanto riguarda l’osservazione, tre sono i punti su cui centra la sua critica. La prima considerazione di Popper è che è impossibile osservare in modo passivo, neutrale: se uno vi chiedesse di osservare qui e ora, voi chiedereste cosa osservare, infatti le cose da considerare attorno a noi sono innumerevoli, ad esempio la distanza fra il nostro naso e il libro, fra il naso e l’angolo superiore destro della pagina, o quello inferiore sinistro e così via. Se cioè provassimo a osservare tutti i fatti ne resteremmo inondati prima e affogati poi e, malgrado ciò, non avremmo certo osservato tutto. Serve insomma un filtro, bisogna polarizzare l’attenzione su alcuni fatti tralasciando tutti gli innumerevoli altri. Il secondo punto su cui Popper sofferma la sua critica è che noi non siamo affatto una tabula rasa che si lascerà segnare, impressionare dalla semplice e pura forza dei fenomeni. Al contrario siamo una tabula plena di storia e di memoria biologica, culturale e personale; e qui si sentono gli echi di tutte le considerazioni che già l’empirismo, e in particolare Hume, aveva elaborato, e si sentono anche gli echi delle categorie trascendentali di Kant. I nostri organi di senso hanno caratteristiche particolari che “raccolgono” solo una piccola parte di fenomeni, non possono ad esempio rilevare gli ultrasuoni, la gamma di radiazioni luminose che la retina può percepire è assai ristretta e così via e ciò comporta inevitabilmente una restrizione fenomenologica del campo di conoscenza. I fenomeni vengono comunque ordinati in schemi, in categorie della percezione e dell’intelletto che sono necessarie, ineliminabili e “a priori”. Hanno inoltre importanza gli 36 scenari culturali di una data epoca e di una determinata società, che danno ai singoli eventi un senso e un significato certo criticabili, ma inevitabilmente presenti. E contano anche i modi percettivi del singolo individuo, il suo campo di percezione, la sua area esperienziale, il suo mondo di significati e di valori. Inoltre, e questo è il terzo punto, l’osservazione che, come dicevamo, non è passiva, è guidata dall’osservatore che usa l’attenzione per focalizzare un determinato aspetto in rapporto a uno specifico problema. È il problema la molla che fa scattare l’osservazione e che la guida; e il problema nasce o da un bisogno, o da una delusione, o da un’incongruenza, o da una difficoltà che l’osservatore incontra a contatto con la realtà. Quando urge un bisogno, o le nostre aspettative restano deluse o si incontra una contraddizione (e questi sono i punti più interessanti in una prospettiva epistemologica), ecco che si attiva un “bisogno di chiarimento”, di soluzione del problema, e con esso e per esso si attiva l’osservazione, si controllano le ipotesi, le attese, le si confrontano con l’esperienza, o meglio con quella parte di essa che può dare risposte, o che noi pensiamo possa fornire una soluzione. In sintesi “il problema” è la molla dell’osservazione, l’attenzione permette di illuminare quella parte di mondo fenomenico che si reputa possa dare una qualche soluzione, la mente è infine l’organizzatrice dei dati che l’osservazione fornisce. Forzando appena il pensiero di Popper, possiamo affermare che l’osservazione non è quindi neutrale e oggettiva; non solo passa attraverso i filtri delle categorie kantiane della percezione, ma è inevitabilmente e fortemente “attiva”, “costruita”, “finalizzata”. L’osservazione, in estrema sintesi, porta solo nuovi spunti fenomenici, scelti dall’attenzione, filtrati dagli organi di senso e plasmati dalle categorie a priori in una costruzione del mondo che è già inevitabilmente data a priori. In questo pre-giudizio trova la sua collocazione e il suo senso, in genere arricchendolo, raramente entrandovi in conflitto. Sono anzi noti i meccanismi mentali che tendono a evitare queste incongruenze e che adattano le nuove percezioni al disegno preesistente. Cade così, sotto la critica di Popper, il “dogma dell’immacolata percezione” e il filosofo può ironicamente concludere che fu una for37 tuna e certo un risparmio opportuno non avere dato a Bacone quella borsa di studio che, a quanto sosteneva, gli avrebbe permesso nel giro di tre anni di purificare la mente dai pregiudizi e di raggiungere quella purezza di osservazione che gli avrebbe aperto la porta alla conoscenza! Già alla luce di queste prime considerazioni possiamo quindi affermare che l’osservazione senza la teoria è cieca, e che la scienza si fa “i fatti suoi”, li sceglie e li plasma inevitabilmente. Vedremo con i prossimi Autori come la questione sia ancor più complessa. Può forse sembrare che queste speculazioni siano lontane dalla medicina e dalla pratica clinica. A nostro avviso così non è; su questo torneremo. Possiamo però subito esemplificare e cercare di applicare queste considerazioni all’ambito medico, all’esame obiettivo. Quest’ultimo non è affatto osservazione pura e ingenua, obiettiva come il nome suggerisce, è anzi un’osservazione mirata e sovraccarica di teorie e di conoscenza medica. Se così non fosse, un bimbo privo di pregiudizi o uno studente al primo anno, quantomeno un filosofo o un ricercatore addestrato a osservare, osserverebbero e “vedrebbero” di più del medico sovraccarico di conoscenze. Invece, tra le mille e mille cose che potrebbe osservare, il medico fissa l’attenzione solo su quelle che la teoria gli dice essere importanti, non chiede il numero di scarpe, non guarda se il paziente si tinge i capelli; comprime invece punti specifici, magari allentando di colpo la pressione, evoca con manovre complesse riflessi noti solo all’esperto; ma se sospetta un’acromegalia, ecco allora che l’eventuale crescita dei piedi diviene importante, se c’è una patologia cutanea l’uso di coloranti per capelli va indagato. La teoria insomma guida e indica come e cosa osservare. Lo stesso modello vale anche per tutte le altre situazioni; si pensi alla raccolta dell’anamnesi ma anche alla scoperta di nuovi farmaci: nessuno ormai cercherebbe un nuovo ipnotico se ne avessimo già uno ottimale (se non avessimo cioè un problema) e nessuno lo farebbe somministrando a caso, libero da ogni pregiudizio e da ogni teoria precedente, infusi vegetali o qualsiasi altra cosa ai pazienti insonni; il procedimento, come ben sappiamo, è più complesso e sovraccarico di storia, di teoria, di problemi, di speranze, di errori e di congetture. 38 Veniamo alla seconda critica di Popper, quella contro l’induzione (il procedimento logico con cui si tenta di passare dai casi particolari alla regola generale), secondo cui “l’induzione è una macchina logica illusoria”. Ci è noto, e lo era anche a Popper, che i limiti del processo induttivo erano stati già messi in rilievo da Aristotele e anche dal successivo pensiero epistemologico, da Hume ad esempio. Anche se l’osservazione evidenzia una qualche ripetitività di un determinato accadimento, questa ripetitività non può divenire di per se stessa una legge del fenomeno osservato. L’induzione infatti non può produrre leggi, ma solo generalizzazioni, non essendo in grado di osservare tutti i casi possibili. È infatti tutt’altro che logico pensare che sia giustificato inferire considerazioni universali da osservazioni singolari per quanto numerose possano essere queste ultime; ad esempio per quante siano le persone di pelle bianca che possiamo aver osservato, ciò non giustifica affatto la conclusione che tutte le persone abbiano la pelle bianca. Ciò è ben illustrato, con ironia anglosassone, dalla storia del tacchino induttivista di cui parlava Bertrand Russel (1872-1970). Fin dal primo giorno il tacchino osservò che nel suo allevamento gli veniva dato il cibo alle nove del mattino e, da buon induttivista, non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni; passavano i giorni, con la pioggia e con il sole, con il freddo e con il caldo, sempre alle nove arrivava il cibo; dopo centinaia di osservazioni fu tranquillo e soddisfatto: ogni giorno alle nove avrebbe pranzato! Si “stupì” quando tale induzione si rivelò drammaticamente falsa alla vigilia di Natale, allorché, invece di avere il cibo, fu messo in pentola. Imparò così, drammaticamente, non solo che del domani non v’è certezza ma che nemmeno può darcela il metodo induttivo. Possiamo osservare che oltre al metodo, era forse poco adeguata la domanda; invece di chiedersi quale era la legge che regolava il fenomeno avrebbe dovuto chiedersi perché mai gli portavano regolarmente il cibo tutti i giorni. Ma il mondo delle motivazioni non era forse alla portata del nostro povero tacchino induttivista. Popper ribadisce quindi che l’induzione è illusoria, non può mai garantire su cosa riserva il futuro ed è anzi smentita anche da una sola situazione contrastante con i suoi assunti. Con queste due critiche Popper toglie la base osservativa, la base 39 di appoggio, e uno dei pilastri portanti, l’induzione, all’arco epistemologico che così crolla fragorosamente. La proposta: ipotesi, deduzione, falsificazione Ma su queste rovine Popper erige la sua proposta: il metodo ipotetico deduttivo, una nuova macchina logica che permetta di far avanzare e progredire la conoscenza. Per Popper non è di alcun rilievo e non ha alcuna importanza al fine della verità di una teoria sapere come nasce un’ipotesi di spiegazione scientifica: può essere la generalizzazione di molte osservazioni o di poche osservazioni; può essere un’intuizione, un atto creativo, un sogno; può essere vedere con occhi nuovi cose antiche o vedere con strumenti nuovi aspetti nascosti di cose antiche o nuove. Keplero non è giunto alla teoria eliocentrica per avere raccolto nuove osservazioni, ma per aver dato diversa forma a ciò che gli astronomi osservavano da secoli. La struttura molecolare del benzene non è stata compresa sommando sempre più informazioni, ma un sogno con il serpente che si morde la coda ha permesso a Kekulè di intuire che l’unico modo per saturare le due valenze ancora libere nella catena dei sei atomi di carbonio era chiuderla su se stessa ad anello. Quello che invece importa è che le teorie siano formulate in modo tale da poter essere portate al “tribunale dei fatti” ovvero da poter essere confrontate con i fatti. Questo è il passaggio, la differenza, fra conoscenza intuitiva e conoscenza scientifica. In questo Popper si rifà al criterio di significanza enunciato dal Circolo di Vienna, che anche per lui segna il confine fra un’osservazione scientifica e tutte le altre asserzioni forse vere ma metafisiche e non controllabili e quindi non scientifiche. Ad esempio, affermare che la storia dell’Umanità è mossa dalla volontà di un Essere Superiore che sfugge per sua natura a ogni percezione umana, può corrispondere a verità, può essere anche espressione di profonda saggezza, ma non è riportabile al tribunale dei fatti, è fuori dal confine che il criterio di significanza dà alla scienza, non è scientifico. Certo non basta che un’ipotesi sia scientifica, sia cioè all’interno del criterio di significanza, per essere vera; per essere scientifica un’ipotesi deve essere confrontabile con i fatti; per essere “vera” deve essere da essi corroborata, sostenuta e supportata; 40 è sbagliata, seppur scientifica, quando non trova corrispondenza nei fatti. Proprio in questo continuo controllare la teoria con i fatti sta per Popper il lavoro dello scienziato. Ma, dice il filosofo, e in questo consistono l’originalità e la forza del suo metodo, controllare le teorie con i fatti non vuol dire cercare prove a loro sostegno, non vuol dire verificarle. Per quante prove noi portassimo a loro sostegno non avremmo ottenuto nulla di più di quell’illusione di verità che rimproveravamo al metodo induttivo. Nulla servì al povero tacchino induttivista verificare per decine di volte la sua ipotesi ricavata da centinaia di osservazioni, e a nulla servì perché la procedura logica era sempre la stessa e non era una procedura, un metodo attendibile. E dunque Popper “prescrive” di falsificare la teoria, di metterla alla prova nelle sue conseguenze più strane e improbabili, e di farlo non dove si mostra forte, ma nei suoi punti più deboli, nelle sue conseguenze più impreviste. In questa indagine serrata, in questo sforzo continuo di cercarne il limite e l’errore, consistono allora il lavoro dello scienziato e il controllo della teoria. È proprio questa procedura che differenzia la conoscenza comune da quella scientifica. È strano come questo processo di falsificazione sia sembrato a molti uomini di scienza un po’ bizzarro e come ancora si continui a parlare di verifica delle ipotesi. In realtà anche nella logica, nella dialettica quotidiana si usa questa procedura della falsificazione. Pensiamo ad esempio alla discussione tra una moglie giovane e bella e il marito geloso, che dubita (ecco il problema) dell’“onestà” della consorte troppo distratta o troppo felice. Innanzitutto discuteranno di cosa significhi onestà, se uno sguardo troppo lungo, se una gonna troppo corta o se un giro di valzer siano sufficienti per incrinarla. E quando si saranno accordati su questo, il marito non verificherà certo l’infedeltà della moglie a caso, non sospetterà delle prime persone che si presentano alla mente, la portinaia, o il vecchio e bisbetico vicino di casa; sospetterà invece di uomini giovani, belli, interessanti e di situazioni favorevoli. E poco gli importerà di non essere stato tradito con Giovanni, con Piero o con altri cento (la verifica che certo la moglie propone); temerà anche un solo rivale, gli basterà quell’unica volta per falsificare l’ipotesi della fedeltà della moglie. Resta la questione se la signora non abbia ottime ragioni per uscire dalla scomoda gab41 bia di una monogamia ormai arida in cui si sente prigioniera, ma, più seriamente, questo, sulle motivazioni, è argomento che esce dal dominio del metodo scientifico della falsificazione che, unico, a parere di Popper, può guidarci nella comprensione delle cose anche se poco può dirci sulle ragioni dei comportamenti. Va ancora sottolineato che in realtà, tra verificazione e falsificazione esiste un’asimmetria logica, proprio perché mille conferme non “verificano” nulla, mentre una sola falsificazione smentisce l’ipotesi. È insomma, seppure in prospettiva diversa, il limite del metodo induttivo in cui una ulteriore osservazione, una ulteriore conferma o verifica, non salvano il tacchino induttivista dal pranzo di Natale. Il lavoro dello scienziato consiste invece nel trovare i possibili errori della teoria; e come noi impariamo dai nostri errori, così il progresso della scienza è una storia di errori eliminati. Proprio a questo fine gli scienziati immaginano esperimenti “cruciali” in cui si confrontano con i fatti le previsioni più inattese, più “strane” che da una teoria si possono ricavare. Si cerca proprio di saggiarne le ipotesi più improbabili nel tentativo di falsificarla e proprio il superare queste prove dà forza e credibilità alla teoria. Corollario di quanto detto è che una buona legge, una buona teoria, prevede molte cose e ne vieta molte altre, perché, come si può facilmente comprendere, una prescrizione molto precisa vieta specularmente tutte le altre possibilità. Si pensi alle leggi di Keplero sul moto dei satelliti: la legge è una buona legge, perché appunto prescrive che ogni satellite sia in un certo momento in un determinato e preciso posto, lungo quella specifica orbita, e vieta quindi che sia negli infiniti punti fuori dall’orbita, e vieta anche che, pur essendo nell’orbita, lo sia un po’ prima o un po’ dopo del momento prescritto. È insomma, in linea di principio, estremamente falsificabile; ma, proprio perché pur essendo falsificabile non è mai stata falsificata, è una buona, anzi un’ottima legge. Ed è anche un valido esempio di come gli scienziati procedono nel loro lavoro, di come le leggi vengano severamente messe alla prova dei fatti con esperimenti cruciali e di come superino i test più difficili. Infatti anche le leggi di Keplero hanno avuto momenti di difficoltà ed esami severi. La situazione forse più esemplificativa fu quella che 42 portò alla scoperta di Nettuno. L’astronomo Galle infatti, nei suoi studi, evidenziò che i pianeti avevano dei leggeri scostamenti dall’orbita prevista e questo sembrava falsificare la teoria, a meno che non vi fosse una qualche massa, un pianeta sconosciuto, che causava questi scostamenti! E i calcoli fatti in base alla teoria ne indicavano anche l’orbita, ne prevedevano la posizione in ogni preciso istante. Quale più ardita, interessante e improbabile scommessa, quale più rischioso ma significativo esperimento cruciale si sarebbe potuto trovare per una teoria? L’osservazione rilevò quella massa, quel nuovo pianeta, e la teoria superò la prova, trasformando quella che pareva una sua falsificazione in una nuova importante prova a suo favore. Altri esempi si ricavano dalla storia dell’affermarsi di altre teorie. La teoria ondulatoria, ad esempio, ebbe all’inizio vari oppositori, ma ogni resistenza fu superata quando si riuscì a dimostrare l’esistenza di una macchiolina bianca al centro dell’ombra di un disco circolare, conseguenza del tutto stravagante, apparentemente assurda, ma necessaria della teoria stessa. Analogamente, la teoria di Einstein permise di risolvere, come una delle sue conseguenze inizialmente non previste, l’anomalia riscontrata nel moto del perielio di Mercurio. Possiamo già anticipare che una delle critiche che Popper mosse alla psicoanalisi fu proprio quella di non riuscire a fare previsioni e nemmeno di “vietare” qualche evento, di non riuscire pertanto a progettare esperimenti cruciali in cui fallire o trovare conferma nei fatti e quindi di progredire. Questa impossibilità di fare ipotesi falsificabili sarebbe, seguendo il pensiero di Popper, il grande limite della psicoanalisi (in questo equiparata al marxismo), lo spartiacque che la colloca furori dall’ambito scientifico. Ma questo è solo un primo spunto per un’analisi che faremo in seguito. Verosimiglianza e progresso Quanto fin qui esposto ci introduce ad altri due interessanti aspetti del pensiero popperiano, fra loro collegati: la verosimiglianza e il progresso delle teorie. Il metodo di Popper, con la falsificazione, mira a trovare l’errore e a eliminarlo; ma questa spietata caccia all’errore non ci assicura mai, né mai potrà farlo, che qualche errore possa essere ancora presente e che la teoria che stiamo indagando sia “vera”. 43