ABSTRACT Resistance to thyroid hormone (RTH) is an inherited

ABSTRACT
Resistance to thyroid hormone (RTH) is an inherited
disorder generally caused by mutations in the TH
receptor (hTR) β gene, and characterized by high levels
of circulating (TH), non suppressed TSH and reduced
peripheral sensitivity to TH. Mutations of this gene have
been identified in more than 150 families.
In this study we investigated three families in which the
index cases showed clinical and biochemical signs of
RTH (no clear simptoms of hyperthyroidism, goiter,
high
TH
and
normal
TSH,
absence
of
thyroid
autoantibodies) Genomic DNA from peripheral blood
leukocytes of the index cases and other available family
members
was
isolated
by
the
standard
phenol/clorophorm method. The DNA obtained was
amplified by the polimerase chain reaction (PCR), using
specific primers complementary to intronic sequences
flanking exons 5 to 10 of hTRβ gene. The nucleotide
sequence of each exon was examined by direct
sequencing of single strand PCR products. In order to
confirm the genetic defect and to study its distribution
inside the family allele specific amplification technique
1
was performed in the kindred.
The mutations detected by direct sequencing of the
genomic DNA were generated in vitro using site-specific
mutagenesis into hTRβ cDNA.The T3 affinity of the
mutant and wild type TR was evaluated by synthesizing
in vitro the receptor proteins from cDNA templates.Two
“de novo” and one familial heterozigous mutations were
identified: a single base mutation (C to G) at nucleotide
1321 corresponding to a leucine to valine substitution at
codon 346 (L346V) in exon 9 in the first family; a
heterozigous G to A transition at nucleotide 1037 of exon
8 at codon 251, resulting in a glycine to a glutamic acid
substitution (G251E) in the second family; a C to G
mutation at nucleotide 1226 of exon 9 , resulting in a
serine to phenylalanine substitution at codon 314 , in the
third family. Paternity studies performed on the 2 index
cases and their parents confirmed thebpeternity and
demostrated with “de novo “ mutations that both these
mutations had raisen “de novo”. The T3-binding
affinities of the mutant receptors L346V, G251E and
S314C,
expressed
in
vitro
using
site-directed
mutagenesis, were 1,5%, 48%, and 68% of the wild type
respectively, thus confirming the functional significance
2
of the mutations found.
3
RIASSUNTO
La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei (RTH) è
una rara malattia autosomica dominante generalmente
determinata da mutazioni del gene β dei recettori (TRβ)
degli ormoni tiroidei (TH) e caratterizzata da gozzo, alti
livelli di ormoni circolanti (TH), TSH non soppresso,
ridotta risposta periferica ai TH senza chiari sintomi di
ipertiroidismo.
Lo scopo della tesi è stato quello di studiare l’eziologia
genetica della RTH negli individui appartenenti a tre
diverse famiglie che presentavano un quadro clinico e
biochimico compatibile con quello della RTH sopra
descritto e indagare sul significato funzionale delle
mutazioni trovate, mediante mutagenesi sito specifica e
trascrizione e traduzione in vitro dei recettori mutati al
fine di valutare la loro affinità di legame per i TH
rispetto al recettore nativo.
Il DNA genomico estratto da leucociti di sangue
periferico è stato amplificato mediante Polymerase
Chain Reaction (PCR), usando specifici “primers”
complementari alle sequenze introniche fiancheggianti
gli esoni 5-10 del gene TRβ. La sequenza nucleotidica di
4
ciascun
esone
è
stata
esaminata
mediante
sequenziamento diretto dei prodotti di PCR a singola
catena. La tecnica dell’amplificazione allele-specifica era
usata per confermare il difetto genetico nei propositi e
studiarne la distribuzione in tutti i membri disponibili
delle famiglie. L’analisi della sequenza nucleotidica degli
esoni che codificano
per
TRβ ha
consentito
di
individuare tre nuove mutazioni nei soggetti affetti da
RTH appartenenti alle tre famiglie in esame: una singola
sostituzione nucleotidica eterozigote (C con G) al
nucleotide 1321 producente la sostituzione di una
leucina con una valina al codone 346 (L346V) nell’esone
9 della prima famiglia; una mutazione eterozigote al
nucleotide 1037 di una singola base (G con A) dell’esone
8 al codone 251, determinante la sostituzione di una
glicina con acido glutammico (G251E) nella seconda
famiglia e una mutazione eterozigote nell’esone 9 al
nucleotide 1226 risultante in una sostituzione di una
serina con una cisteina al codone 314 (S314C) nei soggetti
affetti da RTH della terza famiglia.L’amplificazione
allele
specifica
ha
confermato
la
presenza
delle
mutazioni nei propositi e ha permesso di studiare la
distribuzione delle mutazioni all’interno delle famiglie
studiate. Le mutazioni individuate sono le uniche
5
evidenziate negli esoni esaminati.
Dallo studio genetico dei campioni di DNA dei soggetti
indagati nelle prime due famiglie e dei rispettivi
genitori, la probabilità di paternità cumulativa risultante
dalla somma delle singole probabilità per i quattro
polimorfismi studiati, era superiore al 99,9%.I tre
recettori mutati (L346V, G251E e S314C) prodotti ed
espressi in vitro mostravano una affinità per la T3
nettamente inferiore a quella del recettore nativo,
confermando
così
il
significato
funzionale
delle
mutazioni trovate.
In conclusione, in tre famiglie con RTH sono state
trovate tre nuove mutazioni che si manifestano come “ de
novo” in due famiglie e in forma familiare nella terza,
che sono trasmesse con modalità ereditaria di tipo
autosomico dominante e che evidenziano, in studi di
mutagenesi
sito
specifica,
un
chiaro
significato
funzionale dimostrando così il loro ruolo eziologico nella
malattia.
1.INTRODUZIONE
6
1.1 Concetti generali
La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei (RTH) è
una rara endocrinopatia ereditaria caratterizzata da una
ridotta responsività dei tessuti corporei agli ormoni
tiroidei (TH). Lo studio di tale disordine si è rilevato di
particolare
interesse
in
quanto
ha
aiutato
la
comprensione del meccanismo di azione dei TH. La
refrattarietà
tissutale
all’azione
dei
TH
varia
notevolmente di intensità in base al tipo di tessuto e al
singolo paziente affetto, così che il fenotipo clinico della
sindrome si esprime in modo notevolmente differente
fra le diverse famiglie colpite e nell’ambito di una stessa
famiglia dando luogo ad un gruppo eterogeneo di
condizioni cliniche. Per tale motivo la RTH fornisce
un’interessante occasione per lo studio in vivo della
specificità tissutale dell’azione dei TH.
La variabilità delle manifestazioni cliniche in termini di
severità e di coinvolgimento d’organi, suggerisce che la
RTH possa essere causata da difetti in varie tappe
dell’azione
dei TH.
Questo
ha
portato
ad
una
subclassificazione della sindrome in: RTH generalizzata
7
(GRTH),
RTH
ipofisaria
(PRTH),
RTH
periferica
(PTRTH).
Dal 1967, epoca in cui Refetoff descrisse il primo caso di
RTH, ne sono stati identificati circa 500 casi.
Il disordine è familiare, a trasmissione autosomica
dominante e, occasionalmente, autosomica recessiva. Dal
punto di vista clinico la sindrome è caratterizzata da
gozzo, elevate concentrazioni sieriche di TH e da livelli
inappropiatamente non soppressi (normali o alti) di
TSH. Nei soggetti affetti dalla forma autosomica
recessiva il difetto molecolare è caratterizzato dalla
delezione della maggior parte della regione codificante
del hTRβ: solo gli omozigoti sono affetti da RTH, mentre
gli eterozigoti sono normali da un punto di vista clinico e
biochimico.
La resistenza generalizzata ai TH (GRTH), in cui la
maggior parte degli organi corporei è variabilmente
resistente agli ormoni tiroidei è la forma di resistenza più
rappresentata.
Nella sindrome della resistenza ipofisaria ai TH (PRTH)
o inappropiata secrezione non neoplastica di TSH, la
resistenza è limitata all’ipofisi mentre i tessuti periferici
mostrano
una
normale
responsività
8
ai
TH.
In
conseguenza
dell’alterato
feed-back
si
manifesta
iperincrezione di TSH e di TH con manifestazioni
cliniche di iportiroidismo (tachicardia, ipersudorazione,
nervosismo con ipercinesia) e gozzo.
La RTH periferica (PTRTH) è stata descritta in letteratura
in un solo caso (Kaplan e Coll. nel 1981) ed è
caratterizzata
da
manifestazioni
cliniche
di
ipertiroidismo in conseguenza dell’iporesponsività dei
tessuti periferici ai TH, e da normali concentrazioni di
TSH e TH. Tuttavia è possibile che la sindrome sia più
comune ma che il variabile coinvolgimento dei tessuti
periferici e i livelli sierici normali di TSH e TH ne
rendano difficile l’identificazione clinica. I meccanismi
fisiopatologici di quest’ultimo disordine devono ancora
essere identificati ma, in analogia con altre forme, è
possibile ipotizzare che entrino in gioco modificazioni
dei recettori per i TH (TR).
Attualmente,
considerate
la
notevole
eterogeneità
fenotipica e la presenza di mutazioni geniche simili nella
GRTH e nella PRTH, la maggior parte dei ricercatori non
ritiene valida questa subclassificazione delle sindromi da
resistenza ai TH quasi fossero entità distinte, pensando
al contrario che all’interno della RTH, esista un vasto
9
spettro di manifestazioni cliniche.
Il concetto di resistenza agli ormoni è stato introdotto da
R.Fuller Albright et al. Nel 1937, con la descrizione dello
pseudo ipoparatioidismo (1). L’ipotesi formulata da
questi autori secondo cui tale condizione era dovuta
all’incapacità degli organi bersaglio di rispondere alla
stimolazione ormonale piuttosto che alla deficienza di
paratormone, non solo si è rivelata corretta, ma ha dato il
via ad una serie di ricerche che hanno portato alla
scoperta dei recettori degli ormoni, le molecole che ne
mediano l’azione.
In presenza di ridotto effetto degli ormoni devono essere
valutati numerosi meccanismi fisiopatologici:
1. l’attività biologica dell’ormone può essere alterata a
causa di anormalità nella struttura della molecola;
2. La trasformazione chimica della forma inattiva nella
forma attiva dell’ormone può essere alterata;
3. Possono verificarsi interazioni tra l’ormone ed altre
sostanze, per esempio dei carriers proteici, che riducono
l’accesso dell’ormone ai tessuti;
4. Un difetto della membrana plasmatica può ridurre la
disponibilità dell’ormone per la cellula;
5. Può esserci un difetto a livello del recettore ormonale;
10
6. Possono esserci delle anomalie a livello post-recettoriale.
Nel 1967 Refetoff descriveva i primi casi di RTH: tre
fratelli, nati da un matrimonio tra consanguinei, che si
presentavano clinicamente eu- o ipo-tirodei, ma con
elevati valori di TH circolanti. Ulteriori indagini
confermarono gli alti livelli di TH sia totali che liberi,
assenza di anormalità delle proteine di trasporto dei TH,
e dimostrarono che la secrezione ipofisaria di TH era
refrattaria all’effetto di un eccesso di TH esogeni
(Refetoff S, DeGroot LJ, Bernard B, DeWimd LT; Studies
of
sibship with apparent herditary resistance to the
intracellular action of thyroid hormone. Metabolism.
1972; 21:723-56) (Beranl J, Refetoff S
, DeGroot LJ:
Abnormalites of triiodothyronine binding to lymphocyte
and fibroblast nuclei from a patient with peripheral
resistance to thyroid hormone action. J. Clin Endocrinol.
1978; 47:1266-72).
La prova inequivocabile che il difetto fosse dovuto ad
una forma di resistenza intracellulare ai TH venne dalla
dimostrazione che la T3 e T4 dei soggetti in esame erano
degli L-isomeri attivi (3,4). Dal 1967 sono stati descritti
più di 500 casi di RTH, 400 di essi sono forme di GRTH,
in cui la maggior parte degli organi corporei è
11
variabilmente resistente ai TH (5,6). Nel 20% dei casi è
stata riportata una PRTH, in cui solo la ghiandola
ipofisaria si mostrerebbe resistente, mentre gli altri
organi risponderebbero normalmente ai TH (7,8).
Con il miglioramento delle possibilità diagnostiche, un
numero sempre maggiore di casi di RTH è stato
identificato ed è ora evidente che questi casi sono molto
più comuni di quanto inizialmente creduto. Le difficoltà
di riconoscimento della sindrome e gli errori diagnostici
fanno comunque sì che la reale incidenza della RTH
nella popolazione sia al momento sconosciuta (10). La
RTH può essere evidente già al momento della nascita, o
può, come più spesso accade, essere riconosciuta in
seguito.
A differenza di altre tireopatie che si manifestano
prevalentemente nella donna, la RTH si distribuisce
uniformemente tra i due sessi (11).
1.2 Ereditarietà
12
La RTH è una rara malattia genetica ereditata con
modalità autosomica dominante, con l’eccezione di una
famiglia, la prima descritta, in cui si presentava come
autosomica recessiva (2). Solo nel 18% dei casi la malattia
sembra essere sporadica, ma nella maggior parte di essi
si tratta di mutazioni “de novo” (11).
2.1 Dati Clinici
La RTH comprende un gruppo eterogeneo di condizioni
cliniche, le cui caratteristiche dipendono dal grado di
compensazione raggiunto dai vari organi e apparati per
mezzo delle aumentate concentrazioni di TH circolanti.
Considerando che il grado di compensazione può
variare tra individui, nei diversi tessuti di uno stesso
soggetto ed anche nei diversi periodi della sua vita, i
soggetti con RTH mostrano un fenotipo molto variabile
(11,12,13).
In
generale
non
esistono
sintomi
patognomonici di RTH.I soggetti affetti sono solitamente
13
asintomatici e giungono all’attenzione del medico per la
presenza di gozzo. L’iperplasia della ghiandola tiroidea
è, appunto, l’anomalia clinica più comune essendo stata
descritta in più dell’80% dei casi di RTH (voce biblio) e
ciò non sorprende se si considera che l’iperattività
tiroidea è mantenuta dal TSH.
Le
altre
manifestazioni
cliniche
sono
modeste,
aspecifiche e tali da far spesso sospettare disfunzioni
della ghiandola tiroidea di diversa natura: alcuni quadri
clinici possono richiamare uno stato di ipotiroidismo
(ritardo nella crescita e nello sviluppo mentale nei
bambini); quando invece i sintomi più evidenti sono
tachicardia,
disturbi
dell’emotività,
ipercinesia
si
sospetta uno stato di tireotossicosi (11).
La sindrome è pertanto definita solo a livello biochimico
e caratterizzata da elevati livelli di TH circolanti e da
valori dell’ormone ipofisario stimolante la tiroide (TSH)
normali o aumentati.
Nel caso più raro della PRTH, si evidenziano sintomi
predominanti
di
ipertiroidismo.
Le
elevate
concentrazioni di TH circolanti non riescono ad inibire la
secrezione di TSH da parte dell’ipofisi, essendo la
ghiandola resistente, con il risultato di mantenere una
14
iperattività tiroidea. L’eccessiva stimolazione ormonale
dei tessuti periferici, che non sono resistenti, causa chiare
manifestazioni di tireotossicosi (11). Gli altri sintomi di
RTH in ordine di frequenza sono: deficit dell’attenzione,
ritardo della crescita ossea, anomalie della funzionalità
cardiaca, in particolar modo tachicardia e palpitazioni,
difficoltà di linguaggio, deficit uditivo di tipo percettivo.
Possono essere presenti inoltre, con minore frequenza:
ittero
neonatale,
dentizione,
ipotonia
astenia,
infantile,
sonnolenza,
ritardo
gracilità
nella
infantile,
infezioni ricorrenti delle prime vie aeree.
Un alto numero di condizioni patologiche associate è
stato descritto in pazienti (voce biblio) con RTH. Non se
ne conosce però la loro relazione causale con RTH poiché
la loro rara occorrenza può far pensare che l’associazione
sia fortuita. Si tratta di prurigo, displasia ectodermica,
ittiosi congenita, alopecia congenita, cardite reumatica,
sella parzialmente vuota, emicrania, rene policistico,
diabete mellito, otite media, schizofrenia.
1.3 Dati di laboratorio
15
Elevati livelli sierici delle frazioni libere dei TH (FT4,
FT3), associati a TSH non soppresso, sono i requisiti
fondamentali per effettuare la diagnosi di RTH (11).
Quando si è di fronte ad un soggetto con TH elevati in
associazione con TSH non soppresso deve essere, per
prima cosa, stabilito lo stato metabolico dell’individuo.
Se il soggetto è clinicamente eutiroideo, ci troviamo
probabilmente di fronte ad un caso di RTH generalizzata
(GRTH) ed è consigliabile un’indagine dello stato
tiroideo dei familiari. Se invece l’individuo ha sintomi di
ipertiroidismo occorre fare una diagnosi differenziale tra
la PRTH ed un tumore ipofisario TSH-secernente (vedi
diagnosi differenziale).
I risultati dei dosaggi dei marcatori tissutali sono in
accordo con uno stato di eutiroidismo nel caso di GRTH,
mentre sono più o meno compatibili con uno stato di
ipertiroidismo nel caso di PRTH. E’ tuttavia da ricordare
che, al contrario del dosaggio del TSH sierico, che è un
indice preciso dell’azione tiroidea a livello ipofisario,
non esistono marcatori specifici e sensibili dell’azione dei
TH sui tessuti periferici.
16
1.4 Variabilità fenotipica della RTH
Nella RTH l’ipofisi ed i tessuti periferici non sono
sempre coinvolti in egual misura e questo può provocare
un mosaico di sintomi compatibili con ipotiroidismo ed
ipertiroidismo nei soggetti affetti. Se il
grado di
resistenza è simile nell’ipofisi e nei tessuti periferici, gli
alti livelli circolanti di TH determinano un compenso ed
i pazienti appaiono eutiroidei. I pazienti con una
resistenza
prevalentemente
ipofisaria
sono
essenzialmente ipertiroidei.
Un aspetto interessante della RTH è la grande variabilità
fenotipica che si riscontra nei casi descritti, tanto che una
stessa mutazione, esprimentesi in due famiglie non
imparentate, determina fenotipi completamente diversi
(79). Ma anche all’interno di una stessa famiglia si
descrivono fenotipi eterogenei da un punto di vista
clinico (13,80).
1.5 Diagnosi differenziale
17
In considerazione del fatto che i dati clinici dei soggetti
affetti da RTH non sono diagnostici, la sindrome
dovrebbe essere sospettata tutte le volte che un
individuo presenta elevati livelli di TH circolanti
associati a livelli normali o elevati di TSH specie se
accompagnati da gozzo. Questi dati di laboratorio
dovrebbero essere riprodotti su campioni di sangue
ottenuti in due separate occasioni a distanza di almeno
due settimane l’uno dall’altro. Inoltre, in considerazione
della natura ereditaria della sindrome, è utile effettuare
una valutazione ormonale dei parenti più prossimi.
• La diagnosi differenziale comprende una serie di
indagini volte a valutare la presenza di eventuali
anomalie delle proteine di trasporto dei TH, la presenza
di
autoanticorpi
anti-T3,
anti-T4
e
le
possibili
interferenze nel dosaggio del TSH. Se l’individuo appare
clinicamente eutiroideo la diagnosi di resistenza può
essere effettuata solo dopo l’esclusione delle altre cause
di ipertiroxinemia con eutiroidismo. Nel caso meno
frequente in cui l’individuo sia ipertiroideo è necessario
stabilire se l’inappropiata secrezione di TSH sia dovuta
ad una forma di resistenza selettiva ipofisaria oppure ad
un adenoma ipofisario TSH-secernente. A tale scopo si
18
devono eseguire le seguenti indagini:
• la ricerca di un eventuale tumore ipofisario mediante
TAC o RMN;
• la misura delle α-subunità del TSH ed il loro rapporto
molare col TSH intero (αSU/TSH);
• lo studio della soppressione del TSH mediante dosi
crescenti di T3;
• il test di stimolazione del TSH mediante TRH;
• la misura della captazione tiroidea del radioiodio;
• il dosaggio delle altre tropine ipofisarie.(voce biblio)
1.6 Basi molecolari della malattia
La RTH è generalmente causata da mutazioni di un solo
allele del gene hTRβ codificante il recettore nucleare per
i TH (v. eziologia) più spesso nella regione di legame
dell’ormone
(esoni
8-9-10).
La
comprensione
del
meccanismo molecolare che genera la malattia richiede
pertanto
un’adeguata
conoscenza
del
meccanismo
d’azione dei TH, a partire dalla struttura e dalla
19
fisiologia dei recettori dei TH.
Negli anni ’60, alcuni ricercatori scoprirono che molte
azioni fisiologiche mediate dai TH erano precedute da
un aumento della sintesi di RNA messaggero (mRNA),
suggerendo che i TH ed in particolare la T3 esplicassero
la loro azione mediante il controllo dell’espressione
genica (14). Ulteriori studi confermarono questi risultati
e successivamente furono identificati dei recettori
nucleari ad alta affinità per la T3 (15,16,17). Alla metà
degli anni ’80, venne isolato del cDNA che codificava per
proteine ad alta affinità per la T3. La caratterizzazione di
questi recettori avvenne in seguito all’identificazione dei
recettori per i glucocorticoidi (GR): fu evidenziata,
infatti, una forte omologia di sequenza fra il cDNA che
codificava per il GR ed il prodotto di un oncogene virale,
v-erbA,
responsabile
dell’eritroblastosi
aviaria.
Considerando che i recettori per gli ormoni ad azione
nucleare potessero essere strutturalmente correlati a
quelli già noti, due gruppi di ricercatori (18, 19)
esaminarono, con sonde di v-erbA, genoteche diverse di
cDNA, rispettivamente di placenta umana e di embrione
di pollo ed identificarono due molecole di cDNA: una,
che codificava per una proteina del peso molecolare di
20
52 kDa, successivamente indicata come tipoβ (18) ed
un’altra che codificava per una proteina del peso
molecolare di 46 kda, detta tipo α, (19), entrambe in
grado di legare i TH con un’affinità (kd=0,3X10-10 M) e
con uno spettro di legame simile a quello dei recettori
nativi. Da questi dati fu dedotto, quindi, che il protooncogene cellulare c-erbA codifica per il recettore dei
TH.
Fu subito chiaro che le differenze tra le due proteine
isolate non erano da imputare alla diversa specie di
appartenenza, ma al fatto che esistessero isoforme
recettoriali multiple (20, 21, 22). Molte di queste isoforme
vennero rapidamente identificate in diversi
tipi di
animali (nel pollo, nel topo, nell’uomo).
Esistono due tipi di recettori per gli ormoni tiroidei: TRα
e TRβ. Nell’uomo i TR sono codificati da due geni
localizzati su cromosomi diversi: il gene per il TRα
(hTRα) mappa sul cromosoma 17 (23, 24), quello per il
TRβ (hTRβ) mappa sul cromosoma 3 (25). Il gene hTRβ si
estende per circa 250 kb e la sequenza nucleotidica è
suddivisa in 10 esoni dei quali i primi due non
codificanti (26). Anche la sequenza nucleotidica del gene
hTRα è suddivisa in 10 esoni di cui il primo non
21
codificante, ma le sequenze introniche hanno una minore
estensione e l’intero gene è circa 27 kb (27). Entrambi
questi geni, danno origine, attraverso processi di splicing
alternativo, ad isoforme recettoriali diverse. Il gene hTRα
dà origine a due forme recettoriali strutturalmente simili,
TRα1 e TRα2, che differiscono a livello della regione
contenente il dominio che lega la T3: nella forma TRα2
gli ultimi 40 aminoacidi in posizione carbossi-terminale,
sono sostituiti da una sequenza diversa di 120
aminoacidi (28). Questa variante strutturale non è in
grado di legare la T3 e pertanto non può essere definita
un recettore funzionale (29). Il ruolo del TRα2 è ancora
sconosciuto.
Saggi
di
trasfezione suggeriscono
la
possibilità che TRα2 possa inibire l’azione delle altre
isoforme (voce biblio).
Le forme β1 e β2, anch’esse generate per splicing
alternativo del gene hTRβ, sono invece, entrambe
recettori
funzionali,
pur
differendo
nella
regione
aminoterminale (26).
Il recettore degli ormoni tiroidei è ubiquitario, ma la
distribuzione tissutale delle isoforme dei TR varia, così
come l’espressione di tali recettori durante le diverse fasi
dello sviluppo dell’organismo (30, 31, 32). I TRα1 sono
22
ampiamente espressi fin dalle prime fasi dello sviluppo e
principalmente sono localizzati nel miocardio, nel
muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo bruno; i TRβ
sono espressi nelle fasi tardive dell’embriogenesi: il TRβ1
è rappresentato prevalentemente nei reni, nel fegato, ed
in misura minore, nel tessuto adiposo bruno; il hTRβ2 è
espresso esclusivamente a livello dell’ipofisi anteriore ed
in alcune parti dell’ipotalamo (20).
1.6.1 Struttura del recettore
I recettori degli ormoni tiroidei (TR) e quelli per i
glucocorticoidi (GR) appartengono ad una famiglia più
ampia di recettori nucleari, di cui fanno parte anche i
recettori per i mineralcorticoidi (MR), per gli estrogeni
(ER), per gli androgeni (AR), per il progesterone (PR),
per la vitamina D (VDR), per l’acido retinoico (RAR) e
molte altre proteine la cui funzione non è ancora stata
ben definita e che per questo vengono indicate come
recettori orfani (33).
Questi recettori presentano delle caratteristiche comuni
relative al meccanismo di azione (sito di azione a livello
nucleare; legame a specifiche sequenze di DNA; capacità
23
di regolare la trascrizione genica) e all’organizzazione
strutturale in domini funzionali, altamente conservati
(34).
Nel caso di TRα e TRβ, le proteine recettoriali, costituite
rispettivamente da 410 e 461 aminoacidi, possiedono un
dominio aminoterminale (domini A/B), un dominio
legante il DNA (dominio C), separato dal dominio
carbossi-terminale legante l’ormone (dominio E), da una
regione cerniera (dominio D) che si estende per circa 40100 aminoacidi (33) (fig.1). Il dominio aminoterminale
non ha un ruolo funzionale ben definito, probabilmente
è coinvolto nella transattivazione e nella regolazione
differenziale
di
specifici
geni;
è
una
regione
estremamente variabile sia nella lunghezza, che nel
contenuto aminoacidico (35, 36, 37). Il dominio che
interagisce con il DNA è invece molto conservato e
presenta una struttura caratteristica per il legame a
specifiche
sequenze di DNA, comune a molti fattori
trascrizionali, il motivo “a dita di zinco”(zinc finger).
Questo motivo strutturale è
ripetuto due volte nel
dominio C dei TR ed è caratterizzato dalla presenza di
due coppie di cisteine, separate da una serie di residui
aminoacidici, le quali si coordinano con un atomo di
24
zinco dando luogo ad un loop peptidico, che media il
legame al DNA (38). Nel primo zinc finger è presente
una regione detta “P-box”, altamente conservata nella
superfamiglia dei recettori nucleari, che determina la
specificità del legame al DNA, in base alla quale si
possono individuare due sottogruppi: il primo include il
recettore per i TH, il recettore per gli estrogeni, il
recettore per l’acido retinoico ed il recettore per la
vitamina D; il secondo sottogruppo include i recettori
per gli androgeni, i recettori per i mineralcorticoidi e i
recettori per il progesterone (voce biblio). Il secondo zinc
finger è caratterizzato da una sequenza aminoacidica
importante per la dimerizzazione del recettore (“D box”)
(39). Una seconda regione coinvolta nella formazione di
dimeri è localizzata nella regione carbossi-terminale del
recettore ed è costituita da una serie di sequenze ripetute
(heptad repeats), che contengono residui di leucina ed altri
aminoacidi
idrofobici
(40).
Le
heptad
repeats
rappresentano dei motivi molto conservati, comuni a
numerosi fattori attivanti la trascrizione, le così dette
leucine zipper. La regione carbossi-terminale
presenta,
inoltre, il dominio che lega la T3 ed è ormai chiaro che
mutazioni che incorrono in questa regione, determinano
la riduzione dell’affinità di legame della proteina
25
recettoriale per la T3 e sono causa di resistenza ai TH.
Gli studi cristallografici condotti sul TRα e, più
recentemente sul TRβ hanno mostrato la struttura
tridimensionale della della tasca in cui si lega la T3:
l’ormone giace incassato nel core idrofobico della
struttura, in un subdominio del quale il ligando è parte
integrante (43). Molti residui aminoacidici stabiliscono
legami diretti con la molecola ormonale (legami
idrogeno). Il fatto che l’ormone venga completamente
incorporato dal recettore potrebbe spiegare l’elevata
affinità del recettore per la T3 (kd=0,3X10-10 M). La
regione cerniera (dominio D), dotata di notevole
mobilità, contiene una sequenza aminoacidica deputata
alla localizzazione intracellulare del recettore (33).
Questa regione sembra inoltre essere implicata nel
legame con la T3, nella repressione basale della
trascrizione e probabilmente ha un’influenza sulla
struttura tridimensionale del recettore, rappresentando
un perno attorno al quale la molecola recettoriale può
ruotare (34).
1.6.2 Struttura del gene hTRβ
β
26
Il gene hTRβ, situato sul cromosoma 3, consta di 10 esoni
codificanti. Ciascun esone correla con domini funzionali
della proteina TRβ. Gli esoni dallo ottavo al decimo
codificano l’RNA messaggero (mRNA) per il dominio
legante la T3 (dominio E); l’esone 7 codifica l’mRNA per
la cosiddetta regione cerniera del recettore (hinge region)
(dominio D); mentre gli esoni 5 e 6 codificano l’mRNA
per il dominio legante il DNA (dominio C).
1.6.3 Elementi responsivi agli ormoni tiroidei (TRE)
I recettori TRα e TRβ agiscono a livello nucleare,
riconoscendo specifiche sequenze di DNA localizzate
nelle regioni regolatrici dei geni bersaglio degli ormoni
tiroidei, gli elementi responsivi agli ormoni tiroidei
(TRE) (33, 44). Anche altri membri della superfamiglia
dei recettori nucleari si legano, in forma omodimerica, a
sequenze palindromiche di DNA (elementi responsivi
agli ormoni, TRE), ma il legame dei TR ai TRE sembra
essere molto più complesso, come dimostrano analisi
mutazionali di TRE nel gene dell’ormone della crescita,
condotte nel topo (45). Gli elementi responsivi agli
ormoni tiroidei sono costituiti da due emisiti esamerici
27
che presentano la sequenza consenso
AGGT(C/A)A (il
quinto nucleotide può essere C oppure A). I TRE hanno
una notevole variabilità nel numero di nucleotidi, nello
spaziamento e nell’orientamento: i due emisiti, infatti,
possono essere orientati, rispettivamente, come sequenze
dirette
ripetute
DR
(AGGTCAnAGGTCA),
come
palindromi TREpal (AGGTCAnTGACCT), oppure come
palindromi invertiti, IP (TGACCTnAGGTGA) (40, 46, 47,
48). Ogni emisito lega una singola molecola di TR
(monomero); due emisiti legano due molecole (dimero). I
dimeri possono essere costituiti da due molecole di TR
identiche (omodimeri), da due isoforme TR (TRβ1TRβ2), oppure da un etrodimero costituito da un TR
legato
ad
un
cofattore
nucleare
(TRAP).
La
localizzazione dei TRE rispetto al punto di inizio della
trascrizione, l’orientamento degli emisiti, il numero dei
nucleotidi interposti (n) e la struttura delle sequenze
fiancheggianti gli elementi responsivi ai TR influenzano
fortemente la risposta funzionale prodotta dagli ormoni
tiroidei (48, 49). Lo spaziamento ottimale per il legame
della forma omo- ed etero- dimerica del TR al DNA e per
l’attività TREpal, DR e IP sembra essere n=0, n=4 e n=6
nucleotidi rispettivamente (TREpal 0, DR 4, IP 6), ma dal
momento che i TR possono legarsi debolmente anche ad
28
elementi responsivi DR5, DR6, il legame ai TRE non è
rigidamente recettore-specifico (50, 51).
Alcuni geni bersaglio sono regolati positivamente dagli
ormoni tiroidei, è il caso del gene dell’ormone della
crescita, del gene per le catene pesanti della miosina; altri
geni bersaglio sono invece regolati negativamente dai
TH, come nel caso dei geni per TRH e per le subunità α e
β del TSH. La struttura dei TRE presenti nelle regioni
regolatrici dei due diversi tipi di geni varia: sono
presenti TRE positivi e TRE
negativi. Questi ultimi sono elementi compositi costituiti
da uno o più emisiti degenerati, capaci di legare una
varietà di complessi TR (52).
E’ dimostrato che l’interazione tra il TR ed il TRE
provoca il ripiegamento del DNA, a causa del quale si
ritiene che le sequenze nucleotidiche fiancheggianti gli
elementi
responsivi
siano
direttamente
coinvolte
nell’attivazione trascrizionale dei geni bersaglio; ulteriori
studi consentiranno di chiarire il loro ruolo effettivo
(53).Quella proposta è una descrizione semplice e
schematica
dei
TRE
e,
nonostante
la
recente
identificazione di strutture molto più complesse, rimane
il modello più valido per chiarire l’organizzazione di
29
questi elementi.
1.6.4 Meccanismo di azione degli ormoni tiroidei
Il
recettore
degli
ormoni
tiroidei
è
un
fattore
trascrizionale, regola l’attività trascrizionale dei geni
bersaglio.
Esistono diverse isoforme funzionali del recettore degli
ormoni tiroidei, che possono legarsi agli elementi
responsivi sul DNA come monomeri (TRα, TRβ),
omodimeri (TRα-TRα), ed eterodimeri costituiti da
molecole legate o ad altre isoforme TR (TRα-TRβ)
oppure ad una serie di proteine indicate come fattori
accessori o TRAP (thyroid hormone receptor auxiliary
proteins) (54, 55).
E’ probabile che entrambe le forme recettoriali, sia quella
monomerica che quella dimerica, siano attive ed è inoltre
possibile che le diverse interazioni proteina-proteina
abbiano proprietà biologiche diverse (56). Il legame dei
monomeri e degli omodimeri al DNA è piuttosto debole
a causa della rapida dissociazione del complesso TRTRE. Il TR si lega più stabilmente nella forma
eterodimerica, cioè in associazione a proteine nucleari
30
(TRAP) (57). L’identità delle TRAP è rimasta elusiva fino
alla scoperta che RXR, un membro della superfamiglia
dei recettori nucleari che risponde a tutti i derivati trans
dell’acido retinoico, promuove il legame non solo del
TR, ma anche di RAR e VDR agli elementi responsivi sul
DNA.
E’
ormai
accettato
che
RXR,
presente
ubiquitariamente nel nucleo delle cellule, sia il principale
se non l’unico tra i fattori accessori ed è dimostrato che la
forma eterodimerica più stabile e quindi funzionalmente
più attiva, è quella in cui il TR si presenta legato a una
molecola di RXR (58, 59, 60).
Il recettore TR è prevalentemente localizzato nel nucleo
della cellula ed è legato al DNA anche in assenza
dell’ormone: in questo caso (assenza di T3) esso
determina una repressione della trascrizione basale dei
geni regolati positivamente dai TH e, d’altra parte, non
inibisce la trascrizione dei geni regolati negativamente
(61,
62).La
cambiamento
presenza
dell’ormone
conformazionale
determina
della
un
molecola
recettoriale e produce un effetto opposto a quello
generato dal recettore legato ai TRE in assenza di T3,
perché favorisce il distacco delle forme omodimeriche e
promuove, invece, il legame degli eterodimeri TR-TRAP
31
agli elementi responsivi sul DNA (fig.2) (63).In tal modo
i TH attivano la trascrizione dei geni bersaglio regolati
positivamente e inibiscono, invece, la trascrizione dei
geni regolati negativamente. Recentemente è stato
dimostrato che l’effetto del complesso T3-recettore sui
geni bersaglio coinvolge anche altri tipi di proteine
capaci di legarsi agli eterodimeri TR-TRAP, chiamati
rispettivamente corepressori e coattivatori (fig.3) (64, 65,
66).
1.7 Eziologia della RTH
L’ipotesi che il difetto responsabile della RTH fosse
localizzato a livello del sito di azione intracellulare
dell’ormone tiroideo venne formulata subito dopo la
descrizione della sindrome (2).Ovviamente l’opportunità
di testare questa ipotesi si presentò solo in seguito alla
scoperta dei recettori degli ormoni tiroidei (TR) (16).I
primi studi furono condotti su cellule mononucleate di
sangue prelevato da soggetti affetti e mostrarono una
ridotta affinità di legame
per la T3, ma questi
32
incoraggianti
risultati
non
furono
confermati
successivamente (4).Con l’identificazione dei geni che
codificano per i TR, i tentativi di individuare eventuali
difetti a livello recettoriale si intensificarono. Nel 1988,
un gruppo di ricercatori (Usala e coll.), sfruttando i
nuovi TR umani clonati, esaminò l’associazione genetica
(linkage) tra il gene che conferisce la malattia ed il gene
hTRβ che codifica per il recettore dei TH. Lo studio fu
condotto in una famiglia di cui alcuni membri erano
affetti da RTH. Lo studio dei polimorfismi della
lunghezza dei frammenti di restrizione (RFLP) con le
endonucleasi BamHI ed i EcoRV, mostrava che entrambi
gli RFLP cosegregano con la RTH. Il calcolo del Lod
score (il logaritmo del rapporto della probabilità che due
loci siano associati, con frazione di ricombinazione =0, e
la probabilità che non siano associati con frazione di
ricombinazione =ϑ) era 3,91. Un valore di Lod score
maggiore di 3 viene accettato come significativo per
l’associazione tra i due loci. Questi studi di linkage
stabilirono quindi una forte associazione fra il locus
hTRβ sul cromosoma 3 e la RTH (67). Tali risultati
furono
confermati
successivamente
(1989)
con
l’identificazione di due diverse mutazioni puntiformi del
gene hTRβ in due famiglie
non imparentate, affette
33
dalla RTH (voce biblio). La presenza della mutazione fu
riscontrata esclusivamente nei soggetti affetti dalla RTH,
appartenenti alle due famiglie. In entrambi i casi solo
uno dei due alleli TRβ era coinvolto, confermando
l’ereditarietà di tipo dominante della malattia, ipotizzata
precedentemente sulla base dello studio dei pedigree
delle famiglie. Queste mutazioni puntiformi sono
responsabili di una singola sostituzione aminoacidica
nella proteina recettoriale e causano, ognuna, un diverso
grado di alterazione della affinità di legame per la T3,
lasciando inalterato però il legame del recettore sl DNA
(68, 69). La maggior parte delle mutazioni descritte fino
ad oggi è di tipo puntiforme; in alcuni casi sono descritte
alterazioni di tipo diverso (delezione o aggiunta di
nucleotidi, mutazioni frame-shift, codoni di stop) ed in
una famiglia è stata descritta la completa delezione della
sequenza codificante il TRβ (70). In questo ultimo caso la
malattia era ereditata con modalità autosomica recessiva
ed i soggetti eterozigoti si presentavano normali da un
punto di vista clinico e biochimico. La maggior parte
delle mutazioni identificate mappa in aree calde che si
estendono dal codone 234 al 282, dal codone 310 al 353 e
dal codone 429 al 460 del gene hTRβ (hot spots ),
localizzate
nel
dominio
legante la T3 (esoni 8-934
10), (fig.4) (71, 72, 73). Più del 60% di tutte le mutazioni
recettoriali osservate avvengono in regioni ricche di
dinucleotidi GC (4 o più G o C consecutive) (voce biblio).
E’ necessario che tali mutazioni segreghino con il
fenotipo della RTH, siano presenti cioè, nei soggetti
affetti ed assenti nei soggetti sani e possibilmente
esprimano,
in
esperimenti
di
trasfezione
genica
transitoria, un recettore con ridotte capacità funzionali
(legame alla T3, dimerizzazione, transattivazione).
D’altra parte, in circa un sesto dei soggetti affetti da
RTH, non sono state identificate mutazioni né nel gene
hTRβ né nel gene hTRα. Questi dati suggeriscono che
potrebbero esistere altre isoforme recettoriali non ancora
identificate o che potrebbero essere scoperti altri
meccanismi, non recettoriali, capaci di indurre RTH
(voce biblio).
1.8 Patogenesi della RTH
Le mutazioni geniche possono essere classificate, da un
punto di vista funzionale, in mutazioni provocanti un
guadagno di funzione, una sua perdita o un’attività
dominante negativa. Quest’ultima indica la capacità del
35
prodotto dell’allele mutato di interferire direttamente
con la funzione della proteina nativa.
Esempi di mutazioni provocanti un guadagno di
funzione sono l’adenoma tossico tiroideo, che sarebbe
dovuto, nella prevalenza dei casi, ad una mutazione
somatica nella porzione transmembranale del recettore
del
TSH,
la
pubertà
precoce
da
mutazione
transmembranale del recettore dell’LH. Questo genere di
mutazioni
è
ereditato
con
modalità
autosomica
dominante.
Esempi di mutazioni provocanti una perdita di funzione
sono la resistenza agli androgeni, alla vitamina d e ai
glucocorticoidi, che mostrano un tipo d’ereditarietà
legata
al
cromosoma
X
o
autosomica
recessiva,
rispettivamente.
Al contrario, la massima parte delle famiglie affette
dalla RTH mostra un’ereditarietà di tipo autosomico
dominante (11). L’analisi del DNA genomico di questi
pazienti ha generalmente dimostrato la presenza di
mutazioni in uno solo dei due alleli della isoforma β del
recettore dei TH negli esoni che codificano per il
dominio legante la T3. Dal momento che la maggior
parte delle cellule contiene due alleli dell’isoforma α ed
36
un allele β normali, la perdita di funzione di un solo
allele β non sembra sufficiente a spiegare la RTH. Il
rilievo dell’assenza pressoché totale del gene hTRβ in
una famiglia affetta da RTH (70), in cui solo gli
omozigoti sono affetti dalla malattia, dimostra che
l’assenza di una copia del gene β non è sufficiente a
causare la RTH. D’altra parte la severità del quadro
clinico e funzionale dell’unico soggetto omozigote
descritto in letteratura, affetto da una mutazione nel
dominio legante la T3, dimostra l’azione dominante
negativa del TRβ mutato sul TRα nativo (75, 76).Queste
osservazioni sono state recentemente confermate da
studi in vitro che hanno dimostrato come i TR mutati
siano capaci di bloccare l’attività delle isoforme α e β
normali in esperimenti di espressione genica transitoria
(77). Sono stati proposti tre meccanismi per spiegare
come i TR mutati possano inibire la funzione dei
recettori normali:
a)
la formazione di dimeri inattivi. I recettori mutati
formano dimeri con i recettori nativi, producendo dimeri
inattivi dal punto di vista trascrizionale;
b)
la competizione da parte degli omo- ed eterodimeri mutati per il legame al DNA: i TRβ mutati
37
possono formare omo- ed etero—dimeri con RXR o altre
proteine nucleari accessorie sugli elementi di risposta
agli ormoni tiroidei, producendo complessi inattivi dal
punto di vista trascrizionale e che per di più rimangono
legati ai TRE in presenza della T3, bloccando così la
trascrizione dei geni bersaglio;
c)
Il sequestro di quantità critiche di
proteine
accessorie o coattivatori nucleari da parte dei recettori
mutati: il sequestro, mediante interazioni proteinaproteina,
di
quantità
critiche
di
fattori
nucleari
importanti per l’attivazione della trascrizione mediata
dal ligando può bloccare la trascrizione stessa (74).
Questi tre meccanismi sono considerati principali, ma
altri sono possibili ed inoltre l’uno non esclude l’altro
nella patogenesi della RTH (fig. 5, 6).
E’ molto interessante notare che benché il recettore della
vitamina D (VDR) abbia molti aspetti in comune con i
TR, quali la capacità di formare omo- ed etero-dimeri e
di legarsi al DNA, nessuna famiglia con la resistenza alla
vitamina D ha mostrato un tipo di ereditarietà
autosomica dominante. Probabilmente la differenza sta
nel fatto che le mutazioni del VDR risiedono nel dominio
legante il DNA o creano precoci interruzioni della
38
proteina: si producono così mutanti incapaci di
interferire nella funzione del recettore nativo e la
sindrome si può manifestare solo in forma omozigote
(78).
2. SCOPO DELLA TESI
Lo scopo della tesi è stato quello di studiare l’eziologia
genetica della sindrome della resistenza agli ormoni
tiroidei in tre soggetti appartenenti a tre famiglie diverse
che presentavano un quadro clinico e biochimico
compatibile con quello della RTH.
Inoltre,
sono
dimostrare
stati
eseguiti
l’importanza
studi
biologica
funzionali
delle
per
mutazioni
trovate ed in particolare è stata indagata l’affinità dei
recettori mutati per gli ormoni tiroidei.
39
3.MATERIALI E METODI
3.1
Pazienti analizzati
Sono state indagate 3 famiglie nelle quali alcuni membri
presentavano
un
quadro
clinico
e
biochimico
compatibile con una forma generalizzata di RTH (gozzo,
TH
elevati,
autoanticorpi
TSH
non
anti-tiroide
soppresso
e
di
in
assenza
di
chiari
sintomi
di
ipertiroidismo).Complessivamente sono stati analizzati x
individui di cui y sono risultati affetti da RTH. I
40
propositi di ciascuna famiglia sono stati analizzati in
modo più completo nell’ambito di ricoveri ospedalieri
della durata di circa 12 giorni; i parenti sono stati per la
maggior parte valutati solo da un punto di vista
biochimico e genetico. I familiari non affetti da RTH
hanno formato il gruppo dei controlli normali.
3.2
Metodiche in vitro
3.2.1 Estrazione del DNA da leucociti di sangue
periferico
3.2.2
Il metodo di estrazione utilizzato rappresenta una
variante di quello più antico che utilizza il solo fenolo,
un liquido pesante non miscibile con l’acqua. Se, infatti,
del fenolo è aggiunto ad una soluzione acquosa, le due
fasi sembrano inizialmente mescolarsi per poi tornare a
separarsi a causa della forza di gravità. Se nella fase
acquosa sono contenute proteine complessate con acidi
nucleici, la miscelazione con fenolo e la stratificazione
delle due fasi, produrrà un residuo bianchiccio e
41
semisolido
all’interfaccia. La
maggior parte delle
proteine verrà a trovarsi in basso, nella fase fenolica e gli
acidi nucleici si troveranno nella fase superiore acquosa.
Per ottenere le due fasi limpide si procede ripetendo la
procedura dall’inizio. In questo modo si elimineranno le
proteine denaturate che si presentano normalmente
all’interfaccia dopo il primo passaggio e che non
possono passare nella fase fenolica. A questo punto si
utilizza il cloroformio il quale sequestrerà il fenolo (che
deve essere eliminato) e farà appesantire la fase organica
cosicché si separerà più nettamente. Il DNA viene poi
fatto precipitare a freddo con l’aggiunta di quantità di
fenolo pari al doppio del volume finale ottenuto.
Al sangue, prelevato in EDTA (5ml), vengono aggiunti
10 ml di T10 E10 (Tris-HCl 10 mM Ph 7.5, EDTA 10 mM
pH, pH 7,5. La miscela ottenuta è agitata (si utilizza un
agitatore rotante end-over-end, continental Equipment)
per 10 minuti; si centrifuga poi a 3000 rpm per 10 minuti
per eliminare i globuli rossi e le frazioni citoplasmatiche
dei globuli bianchi. Il sedimento viene risospeso in 15 ml
di T10 E1 (Tris-HCl 10 mM, EDTA 1 mM) pH 7,5.
La miscela ottenuta viene nuovamente agitata per 10
minuti e successivamente centrifugata a 3000 rpm per
42
altri 10 minuti. Questa operazione viene ripetuta fino a
che non si ottiene un sedimento bianco. A questo punto
si aggiungono al sedimento ottenuto 5 ml di soluzione di
omogenizzazione (Urea 8M, NaCl 0,3 M, Tris 10 mM,
EDTA 5mM, SDS 0,2 %) e si pone la miscela
sull’agitatore per almeno due ore (meglio per tutta la
notte).
Si aggiungono 5 ml di una miscela di fenolo-cloroformioisoamilico, si agita per 10 minuti e poi si centrifuga a
3000 rpm per altri 10 minuti. Separate le due fasi e
recuperata la fase superiore che contiene il DNA, si
ripete una seconda estrazione con fenolo-cloroformioisoamilico. Questa volta la fase superiore viene trasferita
in altra provetta e si aggiungono due volumi di etere; si
agita per 10 minuti e si centrifuga per altri 10 minuti.
Eliminata la fase superiore, si ripete una seconda
estrazione con etere come sopra.
La precipitazione del DNA si effettua aggiungendo due
volumi di etanolo al 96 %. Il filamento di DNA ottenuto
viene recuperato con una pipetta Pasteur (la cui punta
era stata precedentemente arrotondata al calore) e
lasciato esposto all’aria per circa 15 minuti per far
evaporare del tutto l’etanolo rimasto. Al filamento
43
essiccato viene aggiunto 1 ml di T10E1 e la provetta
viene lasciata per tutta la notte sull’agitatore per far
andare in soluzione tutto il DNA ottenuto.
La concentrazione del DNA estratto si determina
misurando l’assorbanza della soluzione contenente il
DNA ottenuto alle lunghezze d’onda di 260 nm (che
misura la OD di acido nucleico presente) e di 280 nm
(che misura
la
OD
proteica
presente)
con uno
spettrofotometro Beckman. Una densità ottica uguale a 1
corrisponde a 50 µg/ml di DNAa doppia elica. Il
rapporto tra i due valori relativi alla lettura a λ=260 nm e
λ=280 nm valuta la purezza del campione : preparazioni
pure di DNA producono valori di OD 260/280 compresi
tra 1,8 e 2.
3.2.2 Amplificazione in vitro del DNA mediante
Polymerase Chain Reaction
Questa tecnica consente di produrre un enorme numero
di copie di specifiche sequenze di DNA. La Polymerase
Chain Reaction (PCR) sfrutta alcune peculiarità della
duplicazione del DNA. La DNA polimerasi impiega un
44
DNA a singolo filamento come stampo per la sintesi di
un nuovo filamento complementare .Questi stampi di
DNA a filamento singolo possono essere semplicemente
prodotti
riscaldando
il
DNA
a
doppia
elica
a
temperature vicine a quelle di ebollizione. La DNA
polimerasi necessita anche di una piccola regione di
DNA a doppia elica. Il punto di inizio della sintesi del
DNA può, quindi, essere specificato fornendo come
innesco un oligonucleotide, il primer, che si appai allo
stampo proprio in quel punto. Si utilizza un primer
oligonucleotidico per ciascun filamento in modo che
entrambi i filamenti possano servire come stampo. Per
questa tecnica vengono scelti dei primers fiancheggianti
la regione di DNA che deve essere amplificata, cosicché i
nuovi filamenti di DNA sintetizzati a partire da ciascun
primer, si estendano fino alla posizione del primer del
filamento opposto. Ciascun filamento di nuova sintesi
presenta, nuovi siti per l’appaiamento dei primers. Il
miscuglio di reazione viene ancora scaldato in modo da
separare i filamenti originari da quelli di nuova sintesi
che sono ancora disponibili per ulteriori cicli di
ibridazione con il primer, sintesi del DNA e separazione
dei filamenti.Al termine di n cicli il miscuglio di reazione
contiene un numero massimo teorico di molecole di
45
DNA a doppia elica pari a 2n : tali molecole sono le copie
della sequenza di DNA compresa tra i due primers. Una
importante caratteristica della PCR è quella di poter
attuare l’amplificazione di specifiche regioni di DNA
bersaglio. (voce biblio)
Per amplificare gli esoni 5-6-7-8-9-10 del gene c-erbAè
stato utilizzato DNA genomico. Le sequenze dei primers
utilizzati sono riportati in tabella. Ogni reazione è
ottimizzata in modo da ottenere il minor numero di
bande aspecifiche, modificando la temperatura di attacco
dei primers e la concentrazione del cloruro di magnesio
(tabella).
• Un microgrammo di DNA viene amplificato in un
volume di reazione finale di 50 µl contenente : 50
picomoli di ciascuno dei due primers utilizzati, 0,2 mM
di ciascun dNTP, MgCl2 alle concentrazioni riportate in
tabella e 2,5 unità di Taq polimerasi ( PROMEGA) nel
suo tampone 10x (500mM Tris-Hcl pH 9, 1% Triton). Si
stratifica sulla miscela di reazione dell’olio minerale per
prevenire l’evaporazione durante il susseguirsi dei cicli
di reazione. I cicli di reazione si effettuano secondo il
seguente schema:
• denaturazione per cinque minuti a 94°C
46
• accoppiamento dei primers per un minuto a 67°C
• polimerizzazione per 90 secondi a 72°
• denaturazione per un minuto a 94°C
Si effettuano 25-30 cicli. Dopo l’ultimo ciclo, viene
raggiunta e mantenuta una temperatura di 72°C per 7
minuti. Un’aliquota dei prodotti di amplificazione
ottenuti viene sottoposta ad elettroforesi su gel di
agarosio all’ 1% per verificare la resa e la specificità della
reazione. Vengono solitamente caricati nei pozzetti 5µl di
prodotto di reazione addizionato ad 1 µl di loading
buffer.
3.2.3 Purificazione dei prodotti di amplificazione
Prima di effettuare lo studio del DNA mediante la
reazione
di
sequenza,
è
necessario
effetture
la
purificazione dei prodotti di PCR.
Si utilizza, a questo scopo, il kit “Wizard PCR Preps”
(PROMEGA). I prodotti di PCR vengono separati per
mezzo di elettroforesi su gel di agarosio Low Melting
Point 1% in tampone TAE (Tris acetato 0,04 M, EDTA
0,001 M) colorato con bromuro di etidio, che emette
un’intensa fluorescenza quando è legato al DNA a
47
doppia elica. Le bande della taglia attesa, vengono
ritagliate dal gel e disciolte a 65°C per 15 minuti. Si
aggiunge quindi 1 ml di resina ad ogni campione e si
agita per 30 secondi; quest’ultima operazione si può
effettuare anche manualmente. I campioni vengono
filtrati con opportune minicolonne. Le colonne vengono
quindi lavate con
2 ml di isopropanolo 80% e
centrifugate 2 minuti a 12000xg. Si aggiungono 70 µl di
T10E1 sulle colonne e dopo aver atteso almeno 5 minuti, si
centrifugano di nuovo (45 secondi a 12000xg) per
permettere l’eluizione del DNA. All’eluito (70µl) si
aggiunge un’aliquota di acqua sterile per aumentare il
volume e facilitare la precipitazione. Al volume totale
che abbiamo ottenuto, si aggiunge NaCl 2M in quantità
pari ad 1/10 del volume finale e 2,5 volumi di etanolo
100%. Dopo aver lasciato la soluzione così ottenuta per
15 minuti a –80°C o per una notte a –20°C, si centrifuga
alla massima velocità (12000xg) per 20 minuti in
microcentrifuga
(Microcentrifugette
4214
ALC).
Eliminato il surnatante, si aggiunge una quantità di
etanolo al 70% (500 µl circa) che ricopra il precipitato,
allo scopo di eliminare i sali in eccesso, si centrifuga
nuovamente per cinque minuti, si decanta e si pongono i
campioni nel liofilizzatore
(Biorad) per il tempo
48
necessario ad eliminare tutto l’etanolo (8 minuti circa). Il
precipitato viene risospeso in 50 µl di acqua sterile; il
DNA così purificato può essere ora sequenziato.
3.2.4 Analisi della sequenza nucleotidica
L’analisi della sequenza nucleotidica del DNA, viene
effettuata con il metodo enzimatico, messo a punto da
Sanger
e
collaboratori
sull’interruzione
(84).
controllata
La
tecnica
della
si
basa
replicazione
enzimatica del DNA: si utilizza la DNA polimerasi I per
copiare una particolare sequenza di DNA a singolo
filamento. E’ necessario utilizzare un primer che
funzioni da innesco per la DNA polimerasi, che
solitamente è sintetizzato chimicamente. La miscela di
reazione contiene i quattro desossinucleotidi e un
analogo 2’,3’-dideossi di uno di essi. L’incorporazione di
questo analogo blocca la crescita ulteriore della nuova
catena perché è privo del terminale ossidrilico in 3’,
necessario
per
fosfodiesterico.
lunghezza
formare
Vengono
diversa,
tutti
il
successivo
prodotti
con
legame
frammenti
l’analogo
di
dideossi
all’estremità 3’. Le quattro serie di frammenti così
49
ottenute, vengono sottoposte ad elettroforesi e la
sequenza delle basi del nuovo DNA può essere letta dall’
autoradiografia delle quattro linee.
L’ analisi di sequenza viene eseguita utilizzando il
“Sequenase
version
2.0
DNA
Sequencing
Kit
(USB)”.Viene pertanto seguito il protocollo consigliato
dalla
ditta
fornitrice,
che
comprende
le
tappe
sottoelencate.
Il DNA da sequenziare, viene denaturato col calore a
95°C per 5 minuti in presenza di 1 µl di primer 50
picomoli) e acqua bidistillata per un volume finale di 10
µl; successivamente la denaturazione viene mantenuta
con incubazione a 4°C. Alla miscela così ottenuta,
vengono aggiunti:
• 2 µl di Sequenase buffer (200mM Tris-HCl pH 7,5, 100
mM MgCl2 , 250 mM NaCl)
• 1 µl DTT 0,1 M
• 2 µl di una miscela di deossinucleotidi (7,5 µM dTTP,
dCTP, dGTP) diluiti 1:10 in acqua
• 0,5 µl di (35S)dATP.
• 2 µl di sequenase polimerasi, diluita 1:8 con il tampone
(10mM Tris-HCl, pH 7,5, 5mM DTT 0,5 mg/ml BSA)
• Dopo quattro minuti dall’aggiunta della Sequenase, la
50
miscela viene divisa in quattro aliquote ognuna delle
quali viene aggiunta ai quattro terminatori dideossi
preventivamente riscaldati a 37°C
• Dopo altri quattro minuti si blocca la reazione
aggiungendo
4
µl
di
“stop
solution”(95%
di
formammide; 20mM di EDTA, 0,05% blu di bromo
fenolo e 0,05% di xilene).
• La concentrazione dei dideossinucleotidi rispetto a
quella dei deossinucleotidi è calcolata in modo che in
ogni provetta si formino catene di tutte le lunghezze
possibili. In questo modo ciascuna delle quattro reazioni
contiene
una
popolazione
di
catene
marcate
radioattivamente, allungate a partire dal primer, che
hanno un’estremità 5’ fissa che corrisponde all’attacco
del primer ed un’estremità 3’ variabile che termina ad
una base specifica. Per analizzare i prodotti finali della
reazione, che differiscono tra loro per una sola base, è
necessario usare un particolare tipo di gel ad altissima
risoluzione, così composto:
• Poliacrilammide
6%
(soluzione
di
acrilammide-
bisacrilammide 19:1)
• Urea 50%
• TBE 20x (Tris base 0,5 M, acido borico 0,5 M, EDTA 0,5
51
M pH 8)
• Sucrosio 50%
• Acqua
• Temed 0,05 %
• Ammonio persolfato 0,005%
L’alto potere risolutivo è dovuto all’acrilammide, mentre
la presenza di urea, garantisce che ogni frammento di
DNA si mantenga perfettamente denaturato. I campioni,
denaturati per tre minuti a 95°C, vengono fatti migrare a
2.000V per un tempo variabile da due a tre ore, a
seconda della lunghezza dell’esone sequenziato.
Terminata la corsa ,il gel viene trattato per 20 minuti con
una soluzione di acido acetico glaciale diluito
1:5 in
acqua distillata ed in una soluzione di metanolo diluito
nello stesso modo. Poi si lava con circa due litri di acqua
e si aspira con l’ausilio di una pompa a vuoto. Il gel
viene poi fatto aderire ad un foglio di carta Whatman 3
MM, ricoperto con pellicola aderente e seccato in un gel
dryer ad 80°C collegato ad una pompa a vuoto (Bio-rad).
A questo punto si espone il gel, così essiccato, ad una
lastra
autoradiografica
in
un’apposita
cassetta
a
temperatura ambiente per due notti.
Successivamente si legge la sequenza delle basi
52
nucleotidiche dal basso verso l’alto . i frammenti di DNA
più lunghi hanno infatti una mobilità elettroforetica
minore, migrano di meno e si localizzano nella parte alta
del gel che corrisponde quindi all’estremità 3’ del
filamento di DNA.
Per ciascun campione vengono effettuate almeno tre
analisi di sequenza a partire da differenti prodotti di
amplificazione, per confermare i risultati ottenuti.
3.2.5 Indagini di paternità
Le stesse metodiche (estrazione del DNA genomico dai
leucociti, amplificazione del DNA mediante PCR) sono
state utilizzate per lo studio di 4 polimorfismi VNRT
(Variable Number of Tandem Repeat), al fine di
confermare la paternità dei soggetti in esame e di
escludere una possibile adozione.
3.2.6 Amplificazione allele specifica
• L’amplificazione allele-specifica viene eseguita sul DNA
genomico
estratto
dai
leucociti
53
con
la
metodica
precedentemente descritta. Si utilizzano 50 picomoli
delle coppie di primers AB, AC, DE, DF, FG (tabella ) che
si accoppiano in reazioni separate ad 1 µg di DNA
genomico ed amplificati mediante PCR, per 25-30 cicli.
Un ciclo è costituito dalle seguenti fasi:
• Denaturazione del DNA per 1 minuto a 94°C
• Accoppiamento dei primers allo stampo di DNA per 2
minuti a 57°C o 60°C
• Polimerizzazione per 2 minuti a 67°C.
I prodotti di amplificazione vengono quindi sottoposti
ad elettroforesi su gel di agarosio al 2% in TAE e con
bromuro di etidio.
3.2.7 Mutagenesi sito-diretta
La mutagenesi sito-diretta è stata utilizzata per lo studio
della funzione delle proteine codificanti il recettore β dei
TH nativo e mutato.
La mutagenesi del recettore nativo TRβ è stata eseguita
nel batteriofago M13mp18 usando il metodo descritto da
Kunkel nel 1985. La strategia usata e’ di clonare il DNA
che deve essere mutato in un vettore, quale il
batteriofago sopra-citato, il cui DNA esiste sia a singolo
54
che a doppio filamento.
Il batteriofago M13mp18 che deve essere mutagenizzato,
è trasformato all’interno di un ceppo batterico (E. Coli
CJ236) che porta mutazioni (dut−, ung− ) inattivanti gli
enzimi dUTPasi ed N-uracil-glicosilasi rispettivamente.
La mutazione dut risulta in un’alta concentrazione
intracellulare di dUTP, che può essere incorporato nel
DNA al posto della timina e che non è successivamente
rimosso
a causa della mutazione ung. Il singolo
filamento di DNA di M13mp18 contenente uracili
ottenuto da CJ236, è usato come campione per la sintesi
in vitro di un filamento complementare. La reazione di
sintesi è innescata da un oligonucleotide portante la
mutazione desiderata.
Quando il doppio filamento di DNA è trasformato
all’interno di una cellula (MV1190)
con l’enzima N-
uracil-glicosilasi funzionale, il filamento contenente
l’uracile è efficientemente inattivato consentendo al
filamento superstite mutagenizzato di replicarsi. La
trasformazione è ottimizzata utilizzando 0,3 ml di cellule
competenti ( rese tali con la metodica del CaCl2 a caldo)
miscelate in un tubo di polipropilene a 1-10 ng di fago
ricombinante se trasformato in Cj236 o 3-10 ng di
55
reazione di sintesi se la trasformazione avviene in
MV1190.La miscela di reazione è incubata in ghiaccio per
30-90 minuti e poi è messa a 65°C per 3 minuti.
I
reagenti ed i ceppi batterici richiesti sono ottenuti dal kit
Muta –gene M13 In Vitro Mutagenesis Kit, Version 2
(BIO-RAD).
Il TRβ nativo è stato clonato nel sito HindIII di
M13mp18. Lo stock del batteriofago è stato titolato su
MV1190 nel modo seguente: diluizioni seriali (102, 104
,106 , 108) sono state preparate in un brodo LB (10g
bactotritone, 5g di estratto di lievito, 10g di NaCl, acqua
deionizzata fino ad un volume finale di 1 litro). 100 µl di
ogni diluizione è stata aggiunta a 200 µl di una nuova
cultura di MV1190 lasciata crescere tutta la notte. La
miscela è stata incubata per 5 minuti a temperatura
ambiente , poi sono stati aggiunti 3 ml di agar liquido YT
(0.5x di brodo YT: 16g di bactotriptone, 5g di NaCl ed
acqua per un volume finale di 1 litro; e agar 0.5% w/v) a
50 °C e versati immediatamente per ricoprire una piastra
di agar LB. Le piastre erano preparate in modo da
solidificare a temperatura ambiente e poi erano incubate
per tutta la notte a 37°C. La titolazione del batteriofago
era calcolata in unità formanti placca (pfu) ml dallo stock
56
di partenza.
CJ236 era piastrato su LB agar contenente cloramfenicolo
(30 µg/ml). Una singola colonia è stata inoculata in 10 ml
di LB più cloramfenicolo (30 µg/ml) ed incubata per
tutta la notte a 37°C. 1ml di cultura è stata inoculata in
250 ml di 2xYT ed incubata a 37°C, agitandola fino a
quando la densità ottica a 600λ non era di 0,3
(approssimativamente 1x108 cfu/ml). Il fago è stato poi
addizionato per avere una molteplicità di infezione ≤ 0,2
pfu/cfu e l’incubazione è stata protratta per altre 4-5 ore.
30 ml di cultura è stata centrifugata a 17000xg per 15
minuti e poi il surnatante contenente il fago è stato
trasferito in un nuovo tubo e centrifugato brevemente.
150 µg di RNAasi è stata addizionata al secondo
surnatante ed incubata per 30 minuti a temperatura
ambiente. Il fago è stato precipitato con l’aggiunta di ¼
del volume di ammonio acetato 3,5 M ed il 20% del
volume di PEG 8000 ed incubato in ghiaccio per 30
minuti a temperatura ambiente; il pellet è stato poi
centrifugato a 17000 xg per 15 minuti a 4 °C. Il
surnatante è stato eliminato ed il pellet asciugato
centrifugandolo brevemente, poi è stato risospeso in 200
µl di soluzione ad alta concentrazione salina (300mM
57
NaCl; 100mM Tris pH 8.0; 1mM EDTA) ed incubato in
ghiaccio per 30 minuti. Il materiale insolubile è stato
rimosso con una microcentrifugazione per 2 minuti ed il
surnatante contenente il fago (con l’uracile inserito nel
DNA) è stato trasferito in un nuovo tubo. Il fago è stato
titolato sia su CJ236 che su MV1190. Un titolo almeno 104
volte più basso di MV1190 indicava l’efficienza di
incorporazione dell’uracile nel DNA del fago. Lo stock
del fago è stato conservato al massimo per una settimana
a 4°C prima di estrarre il DNA. Il DNA estratto è stato
conservato a –20°C ed utilizzato immediatamente.
Il primer oligonucleotidico contenente la mutazione,
consisteva di 20-30 nucleotidi in lunghezza. 200pmol di
primer sono state sospese in 30 µl di “kinase buffer” (100
mM Tris pH 8.0; 10 mM MgCl2; 5 mm DTT; 0,4 mM ATP
neutralizzante) e sono state fosforilate usando 4,5 U di
T4 polynucleotide kinase. La miscela di reazione è stata
incubata a 37°C per 45 minuti e successivamente
riscaldata fino a 65°C per 10 minuti per inattivare la
kinasi.
2-3 pmol di primer fosforilato sono state aggiunte a 200
ng (0,1 pmol) del campione di fago contenente uracili in
10 µl di “annealing buffer” (20 mM Tris-HCl ph 7.4; 2
58
mM MgCl2; 50 mm NaCl). La miscela di reazione è stata
portata a 70°C e poi la temperatura è stata abbassata di
due gradi ogni minuto fino a 30°C, dopodichè è stata
messa in ghiaccio.
Al primer fosforilato mantenuto in ghiaccio, sono stati
aggiunti in sequenza: 1 µl di tampone di sintesi (0,4 mM
di ciascun dNTP; 0,75 mM ATP; 17,5 mM Tris-HCl pH
7.4; 3,75 mM MgCl2 ; 21,5 mM DTT), 2,5 (1 µl) unità di T4
DNA ligasi e 0,5 unità (1 µl) di T7 DNA polimerasi
(diluita 1:2 con fosfato di potassio 20 mM pH 7.4 a
freddo; 1mM DTT; 0,1 mM EDTA; 50% di glicerolo).
L’incubazione è stata protratta in ghiaccio per altri 5
minuti, poi la reazione è stata portata a 25°C per 5 minuti
e, per finire, a 37°C per 30 minuti. La reazione terminava
dopo l’aggiunta di 90 µl di “stop buffer” (10 mM Tris,
pH 8.0; 10 mM EDTA). L’avvenuta reazione di sintesi è
stata confermata mediante elettroforesi su gel di
agarosio. 5-10 µl di miscela di reazione è stata poi
trasformata in cellule competenti MV1190 (ung+) in
modo da selezionare il filamento di DNA contenente
uracili.
Sono poi state selezionate singole placche ed
usate per preparare DNA fagico a singolo filamento, che
è stato sequenziato per individuare la mutazione, ed è
59
stato digerito con HindIII per verificare l’integrità
dell’inserto. Il DNA è stato estratto con il metodo del
fenolo/cloroformio.Al surnatante che si ottiene dopo
due successive centrifugazioni, si aggiungono 1/10 del
volume di ammonio acetato e 2,5 volumi di etanolo. Si
mette la miscela ottenuta a –80°C per 30 minuti
dopodiché si procede come descritto nella sezione 3.2.1.
Lo stock fagico contenente le mutazioni desiderate era
conservato a 4°C.
3.2.8 Saggio di legame della T3
I prodotti della mutagenesi in vitro conteneti i cDNA
codificanti per l’hTR
nativo e mutato erano subclonati
in pGEMT7z a partire dal batteriofago M13mp18.Il
vettore con gli inserti erano trasformati in cellule
competenti JM109.
I su descritti saggi di legame della T3 erano eseguiti
presso
il
laboratorio
di
biologia
molecolare
del
Dipartimento di Medicina dell’ Università di Cambridge,
direttore Dr V.K.K. Chatterjee.
I cDNA per i TRβ nativi (WT) e mutati (MT) sono stati
60
trascritti e tradotti usando “TNT T7-coupled reticulocyte
lysate system” in presenza o assenza di metionina
marcata con 35S. I prodotti marcati con
35S
Ci/mmol;
analizzati
Amersham
intl.,
UK)
erano
(1000
mediante elettroforesi in gel SDS poliacrilammide 8-18 %
ed autoradiografati.
L’affinità di legame per la T3 (Ka) è stata determinata in
esperimenti di saturazione usando
125I-T3
in tampone di
legame. Le proteine recettoriali erano incubate con 0,2
nM di 125 I-T3 per 24 ore a 4° C e quantità variabili di T3
fredda. Le proteine legate e libere erano separate
mediante l’uso di un filtro legante le proteine (Millipore
HAWP02500) collegato ad una pompa a vuoto.I filtri
erano poi trasferiti in tubi di polipropilene la loro
radioattività misurata con
(Packard
CobraTM 5010).
un contatore gamma
Il
legame
specifico
era
determinato in incubazioni parallele con un eccesso di
T3 fredda. Le costanti di affinità erano calcolate
mediante analisi di Scatchard.
4.RISULTATI
61
4.1 Indagini genetiche e funzionali in tre famiglie in
cui sono state individuate tre nuove mutazioni
4.1.1 Pedigree
La figura () mostra i pedigree parziali delle tre famiglie
studiate in cui sono riportati i soggetti indagati. Nella
prima famiglia esaminata il soggetto studiato era una
donna di 42 anni, sposata, il cui figlio deceduto all’età di
12 anni per una malformazione cardiaca, presentava
anch’egli un quadro biochimico compatibile con quello
della RTH. Nella seconda famiglia il proposito era un
uomo di 37 anni, sposato, con un figlio di 3 anni
anch’egli affetto dalla sindrome. Nella terza famiglia il
soggetto studiato era una ragazza di 17 anni dalle
indagini svolte sui vari membri di questa famiglia, la
madre risultava essere anch’essa affetta da RTH.
Tutti e tre i soggetti in esame e gli altri familiari affetti
presentavano segni clinici e biochimici della RTH
generalizzata (assenza di sintomi da ipertiroidismo,
gozzo, elevati valori di TH circolanti, TSH nella norma o
elevato e responsivo al TRH, assenza di autoanticorpi
antitiroide, evidenza di resistenza periferica all’azione
62
dei TH).
4.1.2 Indagini biochimiche
Le tabelle xyz mostrano il profilo ormonale di alcuni
membri delle tre famiglie studiate: sono evidenti alti
livelli sierici di ormoni tiroidei con valori di TSH normali
o elevati nei soggetti affetti da RTH, mentre tali valori
sono perfettamente nella norma per i familiari non
affetti.
La somministrazione di dosi crescenti di T3 (50-100-200
µg/die)
nei
soggetti
affetti
ha
evidenziato
una
progressiva riduzione della risposta del TSH al TRH, ma
di grado minore rispetto ai familiari non affetti dalla
sindrome ed una mancata o ridotta modificazione dei
parametri
metabolismo
periferici
basale,
(peso,
ferritina,
frequenza
cardiaca,
creatinfosfochinasi,
colesterolo, SHBG etc.) rispetto ai soggetti sani. Il
dosaggio di SHBG (sex hormone binding globulin) e di
TBG (thyroxine binding globulin) ha dato risultati nella
norma così come la misura delle α-subunità del TSH ed
il loro rapporto molare col TSH intero. La RMN
ipofisaria ha escluso, inoltre, la presenza di adenomi
63
ipofisari TSH secernenti.
4.1.3 Ricerca della mutazione nel gene hTRβ
β
L’analisi della sequenza nucleotidica degli esoni che
codificano per il recettore hTRβ nella prima famiglia ha
evidenziato la presenza di una mutazione puntiforme
eterozigote (C con G) al nucleotide 1321 dell’esone 9, che
comporta la sostituzione di una leucina con una valina al
codone 346 (L346V), nel dominio legante la T3(fig).
Nella seconda famiglia è stata riscontrata una mutazione
puntiforme
eterozigote
(G
con
A)
nell’esone
8,
codificante per la porzione amino-terminale del dominio
legante la T3, al nucleotide 1037 risultante nella
sostituzione di una glicina con un acido glutammico al
codone 251 (G251E) (fig).
Nella terza famiglia è stata individuata una mutazione
puntiforme eterozigote (C con G) al nucleotide 1226
dell’esone 9, determinante la sostituzione di una serina
con una cisteina al codone 314 (S314C), nel dominio
legante la T3.
L’analisi della sequenza nucleotidica è stata ripetuta, per
64
ciascun campione, almeno tre volte a partire da prodotti
di amplificazione indipendenti e paragonata a quelle di
altri individui non affetti dalla sindrome. L’analisi degli
altri esoni del gene hTRβ non evidenziava mutazioni
addizionali.
4.1.4 Studio
della
distribuzione
familiare
della
mutazione mediante amplificazione allele specifica
Per confermare le mutazioni individuate tramite l’analisi
della
sequenza
nucleotidica
e
per
studiarne
la
distribuzione all’interno delle famiglie, è stata utilizzata
la tecnica dell’amplificazione allele specifica.
Nell’amplificazione del DNA dei soggetti appartenenti a
tutte e tre le famiglie, si evidenziava una banda specifica
per l’allele normale sia nei propositi che nei controlli
normali, mentre era presente una banda specifica per
l’allele mutato solo nei soggetti affetti da RTH. Le figure
xyz mostrano rispettivamente i risultati ottenuti nei
propositi delle tre famiglie con i relativi controlli
normali.
65
4.1.5 Saggi di legame della T3
Per dimostrare il valore funzionale delle tre mutazioni
trovate sono stati fatti studi di mutagenesi in vitro,
mediante la tecnica della mutagenesi sito-specifica ed è
stata valutata l’affinità di legame dei tre recettori mutati
sintetizzati in vitro. Il recettore nativo hTRβ mostrava
un’affinità di legame alla T3 (KaWT) dell’ordine di 10-10
M ed in confronto a questo ciascun mutante mostrava
un’affinità (KaMT) variamente ridotta con rapporto
KaMT/ KaWT pari rispettivamente a :0,02 per L346V;
0,28 per G251E; 0,7 per S314C.
Questi dati indicano una ridotta affinità per il ligando
dei recettori che presentano le tre mutazioni trovate e
dimostrano quindi il significato funzionale delle stesse
ed il loro ruolo eziologico nella sindrome.
4.1.6 Studi di paternità
Lo studio dei polimorfismi VNTR e STR effettuato sul
proposito ed i suoi genitori, nelle due famiglie in cui la
66
mutazione appariva
“de-novo”
nel proposito, ha
evidenziato che la probabilità di paternità cumulativa,
risultante dalla forma delle singole probabilità per i
quattro polimorfismi studiati, era del 99,95%. Le indagini
sono
state
eseguite
col
consenso
delle
persone
interessate, dall’Istituto di Citogenetica dell’Università di
Pisa.
5. DISCUSSIONE
La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei (RTH) è
una rara malattia genetica solitamente trasmessa con
67
modalità autosomica dominante caratterizzata dal fatto
che gli individui affetti, nonostante livelli ematici
significativamente
elevati
di
TH,
non
mostrano
generalmente chiari segni clinici di tireotossicosi. Data la
scarsa rilevanza clinica della sindrome questa rimane a
lungo sconosciuta e viene solitamente diagnosticata in
età adulta malgrado sia causata da un difetto genetico.
La possibilità di dosare frazioni libere di TH con metodi
accurati e specifici e soprattutto lo sviluppo di metodi
ultrasensibili per il dosaggio del TSH, che permettono di
distinguere
chiaramente
i
soggetti
normali
dai
tireotossici, hanno reso più facile il riconoscimento dei
casi di RTH. Tuttavia sono ancora relativamente
frequenti gli errori diagnostici che portano ad un’erronea
terapia con conseguenti danni al paziente.
La diagnosi era posta sulla base dei segni clinici e delle
seguenti caratteristiche biochimiche:
• Elevati valori di FT4 e FT3 in presenza di un TSH non
soppresso;
• Netta riduzione della soppressione dose-dipendente del
TSH basale e dopo stimolazione con TRH alla
somministrazione di dosi crescenti di valori dei
marcatori dell’azione periferica dei TH compresi nei
68
limiti della norma.
Grazie alle nuove tecniche di biologia molecolare è
attualmente possibile effettuare una diagnosi eziologica
della malattia. Infatti in tutte le famiglie sono state
trovate mutazioni puntiformi del recettore hTRβ: la
mutazione L346V riscontrata nella prima famiglia, la
mutazione G251E riscontrata nella seconda famiglia e la
S314C riscontrata nella terza famiglia. Tali mutazioni
erano presenti solo negli individui affetti ed erano
ereditate dai rispettivi figli con modalità autosomica
dominante. Le prime due si manifestano come forme
“de-novo”, in quanto assenti nei genitori dei soggetti in
esame dei quali è stata peraltro dimostrata la paternità
con le opportune indagini genetiche.
Delle mutazioni descritte è stato effettuato lo studio in
vitro mediante mutagenesi sito-specifica in modo da
confermare il ruolo funzionale delle alterazioni da queste
indotte sul TRβ. Gli esperimenti di espressione in vitro
delle proteine recettoriali mutate (le metodiche utilizzate
sono
descritte più
MATERIALI
l’inequivocabile
E
dettagliatamente
METODI)
ruolo
nella sezione
hanno
funzionale
delle
dimostrato
mutazioni
trovate. Infatti in tutti e tre i casi le mutazioni L346V,
69
G251E, e S314C producono una chiara riduzione
dell’affinità di legame alla T3 dei recettori e di
conseguenza riducono l’effetto degli ormoni tiroidei sui
geni bersaglio.
La RTH è una malattia ereditaria trasmessa in maniera
autosomica dominante e soltanto nel 18% dei casi
descritti sembra essere sporadica. A differenza di altre
malattie
della
tiroide,
la
RTH
si
distribuisce
uniformemente tra i due sessi. La distribuzione
geografica della malattia non è nota, ma tra i soggetti
affetti ci sono individui di varie nazionalità ed
appartenenti a gruppi etnici diversi.
La scoperta delle prime mutazioni del gene hTRβ in
soggetti affetti da RTH, avvenne nel 1989, più di 20 anni
dopo la descrizione della sindrome ad opera di S.
Refetoff.
A tutt’oggi sono state descritti circa 500 casi di RTH. La
maggior parte delle mutazioni trovate mappa in aree
calde (hot spots) localizzate negli esoni 9 e 10 del gene
hTRβ che codificano per il dominio legante la T3.
• Le mutazioni eterozigoti del gene hTRβ mostrano un
effetto dominante negativo: i recettori TR mutati
bloccano cioè l’attività delle isoforme α e β normali. Vari
70
i
meccanismi
proposti
per
spiegare
tale
effetto
dominante negativo:
• La formazione di dimeri inattivi dal punto di vista
trascrizionale
• La competizione degli omo- ed eterodimeri mutati per il
legame al DNA
• Il sequestro di quantità critiche di proteine accessorie o
co-attivatori nucleari da parte dei recettori mutati.
Le mutazioni del gene hTRβ determinano l’alterazione
dell’affinità di legame per la T3 delle proteine recettoriali
mutate, anche se non esiste una chiara correlazione tra
questa alterazione e la severità del quadro clinico
relativo. Nel caso della RTH non è
infatti possibile
stabilire una precisa correlazione tra genotipo e fenotipo
e la variabilità fenotipica della sindrome è notevole.
Nella RTH il grado di compensazione varia a livello dei
diversi organi ed apparati e se la resistenza ipofisaria è
dominante, il soggetto è ipertiroideo. In altri termini
esiste uno spettro continuo del fenotipo dell’RTH da
forme di resistenza esclusivamente ipofisaria a forme di
resistenza generalizzata.
Benché le manifestazioni cliniche siano eterogenee, il
profilo biochimico è tipico ed inequivocabile in assenza
71
di una precedente tiroidectomia. La storia familiare, il
dosaggio degli ormoni TSH, FT4, FT3, degli anticorpi
antiitiroide, della TBG, della SHBG e della alfa subunità
del TSH e una RMN ipofisaria, sono sufficienti ad
escludere:
• il morbo di Basedow;
• anomalie delle proteine leganti la T3;
• adenomi ipofisari TSH secernenti.
Le
caratteristiche
biochimiche
della
RTH
sono
rappresentate da elevati livelli di TH circolanti, associati
a TSH non soppresso. Fino a pochi anni fa non era
possibile porre una diagnosi eziologica della sindrome.
Al giorno d’oggi, grazie allo sviluppo delle tecniche del
DNA ricombinante, è possibile trovare la causa di questa
infrequente malattia ereditaria. In particolare queste
tecniche consistono in:
a)
estrazione del DNA genomico
b)
amplificazione mediante PCR
c)
sequenziamento diretto enzimatico
d)
amplificazione allele-specifica
e)
mutagenesi sito-diretta
f)
trascrizione e traduzione in vitro
72
g)
saggi di legame della T3 per lo studio dell’affinità
recettoriale.
L’individuazione dei difetti molecolari che stanno alla
base della RTH hanno infine permesso di approfondire
enormemente le conoscenze sul meccanismo di azione
degli ormoni tiroidei.
6. CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE
La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei è una
patologia rara, ma l’interesse che suscita a livello
scientifico è notevole: la RTH fornisce un valido modello
per lo studio della fisiopatologia recettoriale ed in
particolare
per
la
comprensione
del
meccanismo
d’azione dei TH. La notevole quantità di nuove
informazioni che sono state accumulate negli ultimi 8
73
anni dimostra il forte interesse nei confronti della RTH
sia da parte degli studiosi di base che da parte dei clinici.
Nonostante i cospicui progressi nella fisiopatologia di
questa sindrome, alcune importanti questioni rimangono
ancora non risolte; la principale fra queste è l’incapacità
di
spiegare
pienemente
la
variabilità
fenotipica
caratteristica della RTH a cui contribuisce la mancanza
di marcatori tissutali dell’azione dei TH sufficientemente
sensibili e specifici.
E’ evidente che lo studio della sindrome non può
prescindere dalla comprensione della normale funzione
dei recettori TR, ma anche a questo proposito ci sono
numerosi aspetti da chiarire:
• Le diverse isoforme recettoriali hanno ruoli funzionali
specifici?
• Le diverse forme recettoriali monomerica, omodimerica,
eterodimerica hanno tutte un ruolo funzionale?
• Se così fosse, potrebbero le diverse forme recettoriali
essere responsabili della variabilità della resistenza per i
diversi geni bersaglio?
In ogni caso i maggiori progressi verso la comprensione
della malattia sono stati fatti grazie agli studi di biologia
molecolare. Un obiettivo a lungo termine riguarda la
74
possibilità
di
sfruttare
queste
nuove
conoscenze
molecolari a scopo terapeutico. Sarebbe, a questo
proposito, importante sapere quanto del fenotipo della
RTH è stabilito durante le prime fasi dello sviluppo e
quanto invece dopo la nascita, quando sarebbe più facile
intervenire. Il modello dei topi transgenici, recentemente
sviluppato in alcuni laboratori, potrà aiutare a chiarire i
meccanismi
molecolari
della
resistenza
ai
TH
direttamente in vivo, rispetto agli esperimenti in vitro e
potrà anche essere utile nello sviluppo di nuove terapie
farmacologiche e genetiche applicabili alla RTH.
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85
ABSTRACT
RIASSUNTO…………………………………………………
………1
1.INTRODUZIONE…………………………………………
……….4
1.1
CONCETTI
GENERALI…………………………………………4
1.2
EDITARIETA’………………………………………………
……..9
1.3
DATI
DI
LABORATORIO………………………………………13
1.4
VARIABILITA’
RTH…..………………14
FENOTIPICA
DELLA
1.5
DIAGNOSI
DIFFERENZIALE…………………………………..14
1.6
BASI
MOLECOLARI
86
DELLA
MALATTIA…………………….16
1.6.1
Struttura
recettore…………………………………………..20
1.6.2
Struttura
del
hTRβ………………………………………..24
del
gene
1.6.3
Elementi
responsivi
tiroidei……………………..24
agli
ormoni
1.6.4
Meccanismo
di
tiroidei………………….27
degli
ormoni
azione
1.7
EZIOLOGIA
RTH…………………………………………29
DELLA
1.8
PATOGENESI
RTH………………………………………33
DELLA
2.
SCOPO
TESI…………………………………………37
DELLA
3.
MATERIALI
METODI………….………………………….38
E
3.1
PAZIENTI
ANALIZZATI…………………………………………38
3.2
METODICHE
87
IN
VITRO……………………………………………39
3.2.1 Estrazione del DNA da leucociti si sangue
periferico………….39
3.2.2 Amplificazione in vitro del DNA mediante
PCR……………….42
3.2.3
Purificazione
dei
amplificazione…………………….44
prodotti
3.2.4
Analisi
della
nucleotidica………………………………46
di
sequenza
3.2.5
Indagini
di
paternità………………………………………………..51
3.2.6
Amplificazione
specifica……………………………………51
3.2.7
Mutagenesi
……………………………………………52
3.2.8
Saggi
di
legame
T3…………………………………………….54
allele
sito-diretta
alla
4.
RISULTATI…………………………………………………
…56
88
4.1 INDAGINI GENETICHE E FUNZIONALIIN TRE
FAMIGLIE IN CUI SONO STATE INDIVIDUATE TRE
NUOVE
MUTAZIONI…………………………………………………
…………56
4.1.1
Pedigree………………………………………………………
…….56
4.1.2
Indagini
biochimiche……………………………………………..57
4.1.3
Ricerca
della
mutazione
hTRβ……………………….58
nel
gene
4.1.4 Studio della distribuzione funzionale della
mutazione
mediante
amplificazione
allele
spacifica…………………………………………59
4.1.5
Saggi
di
legame
T3…………………………………………...59
alla
4.1.6
Studi
di
paternità…………………………………………………..61
5.
DISCUSSIONE………………………………………………
..62
89
6.
CONCLUSIONI
FUTURE……………..68
E
90
PROSPETTIVE