ABSTRACT Resistance to thyroid hormone (RTH) is an inherited disorder generally caused by mutations in the TH receptor (hTR) β gene, and characterized by high levels of circulating (TH), non suppressed TSH and reduced peripheral sensitivity to TH. Mutations of this gene have been identified in more than 150 families. In this study we investigated three families in which the index cases showed clinical and biochemical signs of RTH (no clear simptoms of hyperthyroidism, goiter, high TH and normal TSH, absence of thyroid autoantibodies) Genomic DNA from peripheral blood leukocytes of the index cases and other available family members was isolated by the standard phenol/clorophorm method. The DNA obtained was amplified by the polimerase chain reaction (PCR), using specific primers complementary to intronic sequences flanking exons 5 to 10 of hTRβ gene. The nucleotide sequence of each exon was examined by direct sequencing of single strand PCR products. In order to confirm the genetic defect and to study its distribution inside the family allele specific amplification technique 1 was performed in the kindred. The mutations detected by direct sequencing of the genomic DNA were generated in vitro using site-specific mutagenesis into hTRβ cDNA.The T3 affinity of the mutant and wild type TR was evaluated by synthesizing in vitro the receptor proteins from cDNA templates.Two “de novo” and one familial heterozigous mutations were identified: a single base mutation (C to G) at nucleotide 1321 corresponding to a leucine to valine substitution at codon 346 (L346V) in exon 9 in the first family; a heterozigous G to A transition at nucleotide 1037 of exon 8 at codon 251, resulting in a glycine to a glutamic acid substitution (G251E) in the second family; a C to G mutation at nucleotide 1226 of exon 9 , resulting in a serine to phenylalanine substitution at codon 314 , in the third family. Paternity studies performed on the 2 index cases and their parents confirmed thebpeternity and demostrated with “de novo “ mutations that both these mutations had raisen “de novo”. The T3-binding affinities of the mutant receptors L346V, G251E and S314C, expressed in vitro using site-directed mutagenesis, were 1,5%, 48%, and 68% of the wild type respectively, thus confirming the functional significance 2 of the mutations found. 3 RIASSUNTO La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei (RTH) è una rara malattia autosomica dominante generalmente determinata da mutazioni del gene β dei recettori (TRβ) degli ormoni tiroidei (TH) e caratterizzata da gozzo, alti livelli di ormoni circolanti (TH), TSH non soppresso, ridotta risposta periferica ai TH senza chiari sintomi di ipertiroidismo. Lo scopo della tesi è stato quello di studiare l’eziologia genetica della RTH negli individui appartenenti a tre diverse famiglie che presentavano un quadro clinico e biochimico compatibile con quello della RTH sopra descritto e indagare sul significato funzionale delle mutazioni trovate, mediante mutagenesi sito specifica e trascrizione e traduzione in vitro dei recettori mutati al fine di valutare la loro affinità di legame per i TH rispetto al recettore nativo. Il DNA genomico estratto da leucociti di sangue periferico è stato amplificato mediante Polymerase Chain Reaction (PCR), usando specifici “primers” complementari alle sequenze introniche fiancheggianti gli esoni 5-10 del gene TRβ. La sequenza nucleotidica di 4 ciascun esone è stata esaminata mediante sequenziamento diretto dei prodotti di PCR a singola catena. La tecnica dell’amplificazione allele-specifica era usata per confermare il difetto genetico nei propositi e studiarne la distribuzione in tutti i membri disponibili delle famiglie. L’analisi della sequenza nucleotidica degli esoni che codificano per TRβ ha consentito di individuare tre nuove mutazioni nei soggetti affetti da RTH appartenenti alle tre famiglie in esame: una singola sostituzione nucleotidica eterozigote (C con G) al nucleotide 1321 producente la sostituzione di una leucina con una valina al codone 346 (L346V) nell’esone 9 della prima famiglia; una mutazione eterozigote al nucleotide 1037 di una singola base (G con A) dell’esone 8 al codone 251, determinante la sostituzione di una glicina con acido glutammico (G251E) nella seconda famiglia e una mutazione eterozigote nell’esone 9 al nucleotide 1226 risultante in una sostituzione di una serina con una cisteina al codone 314 (S314C) nei soggetti affetti da RTH della terza famiglia.L’amplificazione allele specifica ha confermato la presenza delle mutazioni nei propositi e ha permesso di studiare la distribuzione delle mutazioni all’interno delle famiglie studiate. Le mutazioni individuate sono le uniche 5 evidenziate negli esoni esaminati. Dallo studio genetico dei campioni di DNA dei soggetti indagati nelle prime due famiglie e dei rispettivi genitori, la probabilità di paternità cumulativa risultante dalla somma delle singole probabilità per i quattro polimorfismi studiati, era superiore al 99,9%.I tre recettori mutati (L346V, G251E e S314C) prodotti ed espressi in vitro mostravano una affinità per la T3 nettamente inferiore a quella del recettore nativo, confermando così il significato funzionale delle mutazioni trovate. In conclusione, in tre famiglie con RTH sono state trovate tre nuove mutazioni che si manifestano come “ de novo” in due famiglie e in forma familiare nella terza, che sono trasmesse con modalità ereditaria di tipo autosomico dominante e che evidenziano, in studi di mutagenesi sito specifica, un chiaro significato funzionale dimostrando così il loro ruolo eziologico nella malattia. 1.INTRODUZIONE 6 1.1 Concetti generali La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei (RTH) è una rara endocrinopatia ereditaria caratterizzata da una ridotta responsività dei tessuti corporei agli ormoni tiroidei (TH). Lo studio di tale disordine si è rilevato di particolare interesse in quanto ha aiutato la comprensione del meccanismo di azione dei TH. La refrattarietà tissutale all’azione dei TH varia notevolmente di intensità in base al tipo di tessuto e al singolo paziente affetto, così che il fenotipo clinico della sindrome si esprime in modo notevolmente differente fra le diverse famiglie colpite e nell’ambito di una stessa famiglia dando luogo ad un gruppo eterogeneo di condizioni cliniche. Per tale motivo la RTH fornisce un’interessante occasione per lo studio in vivo della specificità tissutale dell’azione dei TH. La variabilità delle manifestazioni cliniche in termini di severità e di coinvolgimento d’organi, suggerisce che la RTH possa essere causata da difetti in varie tappe dell’azione dei TH. Questo ha portato ad una subclassificazione della sindrome in: RTH generalizzata 7 (GRTH), RTH ipofisaria (PRTH), RTH periferica (PTRTH). Dal 1967, epoca in cui Refetoff descrisse il primo caso di RTH, ne sono stati identificati circa 500 casi. Il disordine è familiare, a trasmissione autosomica dominante e, occasionalmente, autosomica recessiva. Dal punto di vista clinico la sindrome è caratterizzata da gozzo, elevate concentrazioni sieriche di TH e da livelli inappropiatamente non soppressi (normali o alti) di TSH. Nei soggetti affetti dalla forma autosomica recessiva il difetto molecolare è caratterizzato dalla delezione della maggior parte della regione codificante del hTRβ: solo gli omozigoti sono affetti da RTH, mentre gli eterozigoti sono normali da un punto di vista clinico e biochimico. La resistenza generalizzata ai TH (GRTH), in cui la maggior parte degli organi corporei è variabilmente resistente agli ormoni tiroidei è la forma di resistenza più rappresentata. Nella sindrome della resistenza ipofisaria ai TH (PRTH) o inappropiata secrezione non neoplastica di TSH, la resistenza è limitata all’ipofisi mentre i tessuti periferici mostrano una normale responsività 8 ai TH. In conseguenza dell’alterato feed-back si manifesta iperincrezione di TSH e di TH con manifestazioni cliniche di iportiroidismo (tachicardia, ipersudorazione, nervosismo con ipercinesia) e gozzo. La RTH periferica (PTRTH) è stata descritta in letteratura in un solo caso (Kaplan e Coll. nel 1981) ed è caratterizzata da manifestazioni cliniche di ipertiroidismo in conseguenza dell’iporesponsività dei tessuti periferici ai TH, e da normali concentrazioni di TSH e TH. Tuttavia è possibile che la sindrome sia più comune ma che il variabile coinvolgimento dei tessuti periferici e i livelli sierici normali di TSH e TH ne rendano difficile l’identificazione clinica. I meccanismi fisiopatologici di quest’ultimo disordine devono ancora essere identificati ma, in analogia con altre forme, è possibile ipotizzare che entrino in gioco modificazioni dei recettori per i TH (TR). Attualmente, considerate la notevole eterogeneità fenotipica e la presenza di mutazioni geniche simili nella GRTH e nella PRTH, la maggior parte dei ricercatori non ritiene valida questa subclassificazione delle sindromi da resistenza ai TH quasi fossero entità distinte, pensando al contrario che all’interno della RTH, esista un vasto 9 spettro di manifestazioni cliniche. Il concetto di resistenza agli ormoni è stato introdotto da R.Fuller Albright et al. Nel 1937, con la descrizione dello pseudo ipoparatioidismo (1). L’ipotesi formulata da questi autori secondo cui tale condizione era dovuta all’incapacità degli organi bersaglio di rispondere alla stimolazione ormonale piuttosto che alla deficienza di paratormone, non solo si è rivelata corretta, ma ha dato il via ad una serie di ricerche che hanno portato alla scoperta dei recettori degli ormoni, le molecole che ne mediano l’azione. In presenza di ridotto effetto degli ormoni devono essere valutati numerosi meccanismi fisiopatologici: 1. l’attività biologica dell’ormone può essere alterata a causa di anormalità nella struttura della molecola; 2. La trasformazione chimica della forma inattiva nella forma attiva dell’ormone può essere alterata; 3. Possono verificarsi interazioni tra l’ormone ed altre sostanze, per esempio dei carriers proteici, che riducono l’accesso dell’ormone ai tessuti; 4. Un difetto della membrana plasmatica può ridurre la disponibilità dell’ormone per la cellula; 5. Può esserci un difetto a livello del recettore ormonale; 10 6. Possono esserci delle anomalie a livello post-recettoriale. Nel 1967 Refetoff descriveva i primi casi di RTH: tre fratelli, nati da un matrimonio tra consanguinei, che si presentavano clinicamente eu- o ipo-tirodei, ma con elevati valori di TH circolanti. Ulteriori indagini confermarono gli alti livelli di TH sia totali che liberi, assenza di anormalità delle proteine di trasporto dei TH, e dimostrarono che la secrezione ipofisaria di TH era refrattaria all’effetto di un eccesso di TH esogeni (Refetoff S, DeGroot LJ, Bernard B, DeWimd LT; Studies of sibship with apparent herditary resistance to the intracellular action of thyroid hormone. Metabolism. 1972; 21:723-56) (Beranl J, Refetoff S , DeGroot LJ: Abnormalites of triiodothyronine binding to lymphocyte and fibroblast nuclei from a patient with peripheral resistance to thyroid hormone action. J. Clin Endocrinol. 1978; 47:1266-72). La prova inequivocabile che il difetto fosse dovuto ad una forma di resistenza intracellulare ai TH venne dalla dimostrazione che la T3 e T4 dei soggetti in esame erano degli L-isomeri attivi (3,4). Dal 1967 sono stati descritti più di 500 casi di RTH, 400 di essi sono forme di GRTH, in cui la maggior parte degli organi corporei è 11 variabilmente resistente ai TH (5,6). Nel 20% dei casi è stata riportata una PRTH, in cui solo la ghiandola ipofisaria si mostrerebbe resistente, mentre gli altri organi risponderebbero normalmente ai TH (7,8). Con il miglioramento delle possibilità diagnostiche, un numero sempre maggiore di casi di RTH è stato identificato ed è ora evidente che questi casi sono molto più comuni di quanto inizialmente creduto. Le difficoltà di riconoscimento della sindrome e gli errori diagnostici fanno comunque sì che la reale incidenza della RTH nella popolazione sia al momento sconosciuta (10). La RTH può essere evidente già al momento della nascita, o può, come più spesso accade, essere riconosciuta in seguito. A differenza di altre tireopatie che si manifestano prevalentemente nella donna, la RTH si distribuisce uniformemente tra i due sessi (11). 1.2 Ereditarietà 12 La RTH è una rara malattia genetica ereditata con modalità autosomica dominante, con l’eccezione di una famiglia, la prima descritta, in cui si presentava come autosomica recessiva (2). Solo nel 18% dei casi la malattia sembra essere sporadica, ma nella maggior parte di essi si tratta di mutazioni “de novo” (11). 2.1 Dati Clinici La RTH comprende un gruppo eterogeneo di condizioni cliniche, le cui caratteristiche dipendono dal grado di compensazione raggiunto dai vari organi e apparati per mezzo delle aumentate concentrazioni di TH circolanti. Considerando che il grado di compensazione può variare tra individui, nei diversi tessuti di uno stesso soggetto ed anche nei diversi periodi della sua vita, i soggetti con RTH mostrano un fenotipo molto variabile (11,12,13). In generale non esistono sintomi patognomonici di RTH.I soggetti affetti sono solitamente 13 asintomatici e giungono all’attenzione del medico per la presenza di gozzo. L’iperplasia della ghiandola tiroidea è, appunto, l’anomalia clinica più comune essendo stata descritta in più dell’80% dei casi di RTH (voce biblio) e ciò non sorprende se si considera che l’iperattività tiroidea è mantenuta dal TSH. Le altre manifestazioni cliniche sono modeste, aspecifiche e tali da far spesso sospettare disfunzioni della ghiandola tiroidea di diversa natura: alcuni quadri clinici possono richiamare uno stato di ipotiroidismo (ritardo nella crescita e nello sviluppo mentale nei bambini); quando invece i sintomi più evidenti sono tachicardia, disturbi dell’emotività, ipercinesia si sospetta uno stato di tireotossicosi (11). La sindrome è pertanto definita solo a livello biochimico e caratterizzata da elevati livelli di TH circolanti e da valori dell’ormone ipofisario stimolante la tiroide (TSH) normali o aumentati. Nel caso più raro della PRTH, si evidenziano sintomi predominanti di ipertiroidismo. Le elevate concentrazioni di TH circolanti non riescono ad inibire la secrezione di TSH da parte dell’ipofisi, essendo la ghiandola resistente, con il risultato di mantenere una 14 iperattività tiroidea. L’eccessiva stimolazione ormonale dei tessuti periferici, che non sono resistenti, causa chiare manifestazioni di tireotossicosi (11). Gli altri sintomi di RTH in ordine di frequenza sono: deficit dell’attenzione, ritardo della crescita ossea, anomalie della funzionalità cardiaca, in particolar modo tachicardia e palpitazioni, difficoltà di linguaggio, deficit uditivo di tipo percettivo. Possono essere presenti inoltre, con minore frequenza: ittero neonatale, dentizione, ipotonia astenia, infantile, sonnolenza, ritardo gracilità nella infantile, infezioni ricorrenti delle prime vie aeree. Un alto numero di condizioni patologiche associate è stato descritto in pazienti (voce biblio) con RTH. Non se ne conosce però la loro relazione causale con RTH poiché la loro rara occorrenza può far pensare che l’associazione sia fortuita. Si tratta di prurigo, displasia ectodermica, ittiosi congenita, alopecia congenita, cardite reumatica, sella parzialmente vuota, emicrania, rene policistico, diabete mellito, otite media, schizofrenia. 1.3 Dati di laboratorio 15 Elevati livelli sierici delle frazioni libere dei TH (FT4, FT3), associati a TSH non soppresso, sono i requisiti fondamentali per effettuare la diagnosi di RTH (11). Quando si è di fronte ad un soggetto con TH elevati in associazione con TSH non soppresso deve essere, per prima cosa, stabilito lo stato metabolico dell’individuo. Se il soggetto è clinicamente eutiroideo, ci troviamo probabilmente di fronte ad un caso di RTH generalizzata (GRTH) ed è consigliabile un’indagine dello stato tiroideo dei familiari. Se invece l’individuo ha sintomi di ipertiroidismo occorre fare una diagnosi differenziale tra la PRTH ed un tumore ipofisario TSH-secernente (vedi diagnosi differenziale). I risultati dei dosaggi dei marcatori tissutali sono in accordo con uno stato di eutiroidismo nel caso di GRTH, mentre sono più o meno compatibili con uno stato di ipertiroidismo nel caso di PRTH. E’ tuttavia da ricordare che, al contrario del dosaggio del TSH sierico, che è un indice preciso dell’azione tiroidea a livello ipofisario, non esistono marcatori specifici e sensibili dell’azione dei TH sui tessuti periferici. 16 1.4 Variabilità fenotipica della RTH Nella RTH l’ipofisi ed i tessuti periferici non sono sempre coinvolti in egual misura e questo può provocare un mosaico di sintomi compatibili con ipotiroidismo ed ipertiroidismo nei soggetti affetti. Se il grado di resistenza è simile nell’ipofisi e nei tessuti periferici, gli alti livelli circolanti di TH determinano un compenso ed i pazienti appaiono eutiroidei. I pazienti con una resistenza prevalentemente ipofisaria sono essenzialmente ipertiroidei. Un aspetto interessante della RTH è la grande variabilità fenotipica che si riscontra nei casi descritti, tanto che una stessa mutazione, esprimentesi in due famiglie non imparentate, determina fenotipi completamente diversi (79). Ma anche all’interno di una stessa famiglia si descrivono fenotipi eterogenei da un punto di vista clinico (13,80). 1.5 Diagnosi differenziale 17 In considerazione del fatto che i dati clinici dei soggetti affetti da RTH non sono diagnostici, la sindrome dovrebbe essere sospettata tutte le volte che un individuo presenta elevati livelli di TH circolanti associati a livelli normali o elevati di TSH specie se accompagnati da gozzo. Questi dati di laboratorio dovrebbero essere riprodotti su campioni di sangue ottenuti in due separate occasioni a distanza di almeno due settimane l’uno dall’altro. Inoltre, in considerazione della natura ereditaria della sindrome, è utile effettuare una valutazione ormonale dei parenti più prossimi. • La diagnosi differenziale comprende una serie di indagini volte a valutare la presenza di eventuali anomalie delle proteine di trasporto dei TH, la presenza di autoanticorpi anti-T3, anti-T4 e le possibili interferenze nel dosaggio del TSH. Se l’individuo appare clinicamente eutiroideo la diagnosi di resistenza può essere effettuata solo dopo l’esclusione delle altre cause di ipertiroxinemia con eutiroidismo. Nel caso meno frequente in cui l’individuo sia ipertiroideo è necessario stabilire se l’inappropiata secrezione di TSH sia dovuta ad una forma di resistenza selettiva ipofisaria oppure ad un adenoma ipofisario TSH-secernente. A tale scopo si 18 devono eseguire le seguenti indagini: • la ricerca di un eventuale tumore ipofisario mediante TAC o RMN; • la misura delle α-subunità del TSH ed il loro rapporto molare col TSH intero (αSU/TSH); • lo studio della soppressione del TSH mediante dosi crescenti di T3; • il test di stimolazione del TSH mediante TRH; • la misura della captazione tiroidea del radioiodio; • il dosaggio delle altre tropine ipofisarie.(voce biblio) 1.6 Basi molecolari della malattia La RTH è generalmente causata da mutazioni di un solo allele del gene hTRβ codificante il recettore nucleare per i TH (v. eziologia) più spesso nella regione di legame dell’ormone (esoni 8-9-10). La comprensione del meccanismo molecolare che genera la malattia richiede pertanto un’adeguata conoscenza del meccanismo d’azione dei TH, a partire dalla struttura e dalla 19 fisiologia dei recettori dei TH. Negli anni ’60, alcuni ricercatori scoprirono che molte azioni fisiologiche mediate dai TH erano precedute da un aumento della sintesi di RNA messaggero (mRNA), suggerendo che i TH ed in particolare la T3 esplicassero la loro azione mediante il controllo dell’espressione genica (14). Ulteriori studi confermarono questi risultati e successivamente furono identificati dei recettori nucleari ad alta affinità per la T3 (15,16,17). Alla metà degli anni ’80, venne isolato del cDNA che codificava per proteine ad alta affinità per la T3. La caratterizzazione di questi recettori avvenne in seguito all’identificazione dei recettori per i glucocorticoidi (GR): fu evidenziata, infatti, una forte omologia di sequenza fra il cDNA che codificava per il GR ed il prodotto di un oncogene virale, v-erbA, responsabile dell’eritroblastosi aviaria. Considerando che i recettori per gli ormoni ad azione nucleare potessero essere strutturalmente correlati a quelli già noti, due gruppi di ricercatori (18, 19) esaminarono, con sonde di v-erbA, genoteche diverse di cDNA, rispettivamente di placenta umana e di embrione di pollo ed identificarono due molecole di cDNA: una, che codificava per una proteina del peso molecolare di 20 52 kDa, successivamente indicata come tipoβ (18) ed un’altra che codificava per una proteina del peso molecolare di 46 kda, detta tipo α, (19), entrambe in grado di legare i TH con un’affinità (kd=0,3X10-10 M) e con uno spettro di legame simile a quello dei recettori nativi. Da questi dati fu dedotto, quindi, che il protooncogene cellulare c-erbA codifica per il recettore dei TH. Fu subito chiaro che le differenze tra le due proteine isolate non erano da imputare alla diversa specie di appartenenza, ma al fatto che esistessero isoforme recettoriali multiple (20, 21, 22). Molte di queste isoforme vennero rapidamente identificate in diversi tipi di animali (nel pollo, nel topo, nell’uomo). Esistono due tipi di recettori per gli ormoni tiroidei: TRα e TRβ. Nell’uomo i TR sono codificati da due geni localizzati su cromosomi diversi: il gene per il TRα (hTRα) mappa sul cromosoma 17 (23, 24), quello per il TRβ (hTRβ) mappa sul cromosoma 3 (25). Il gene hTRβ si estende per circa 250 kb e la sequenza nucleotidica è suddivisa in 10 esoni dei quali i primi due non codificanti (26). Anche la sequenza nucleotidica del gene hTRα è suddivisa in 10 esoni di cui il primo non 21 codificante, ma le sequenze introniche hanno una minore estensione e l’intero gene è circa 27 kb (27). Entrambi questi geni, danno origine, attraverso processi di splicing alternativo, ad isoforme recettoriali diverse. Il gene hTRα dà origine a due forme recettoriali strutturalmente simili, TRα1 e TRα2, che differiscono a livello della regione contenente il dominio che lega la T3: nella forma TRα2 gli ultimi 40 aminoacidi in posizione carbossi-terminale, sono sostituiti da una sequenza diversa di 120 aminoacidi (28). Questa variante strutturale non è in grado di legare la T3 e pertanto non può essere definita un recettore funzionale (29). Il ruolo del TRα2 è ancora sconosciuto. Saggi di trasfezione suggeriscono la possibilità che TRα2 possa inibire l’azione delle altre isoforme (voce biblio). Le forme β1 e β2, anch’esse generate per splicing alternativo del gene hTRβ, sono invece, entrambe recettori funzionali, pur differendo nella regione aminoterminale (26). Il recettore degli ormoni tiroidei è ubiquitario, ma la distribuzione tissutale delle isoforme dei TR varia, così come l’espressione di tali recettori durante le diverse fasi dello sviluppo dell’organismo (30, 31, 32). I TRα1 sono 22 ampiamente espressi fin dalle prime fasi dello sviluppo e principalmente sono localizzati nel miocardio, nel muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo bruno; i TRβ sono espressi nelle fasi tardive dell’embriogenesi: il TRβ1 è rappresentato prevalentemente nei reni, nel fegato, ed in misura minore, nel tessuto adiposo bruno; il hTRβ2 è espresso esclusivamente a livello dell’ipofisi anteriore ed in alcune parti dell’ipotalamo (20). 1.6.1 Struttura del recettore I recettori degli ormoni tiroidei (TR) e quelli per i glucocorticoidi (GR) appartengono ad una famiglia più ampia di recettori nucleari, di cui fanno parte anche i recettori per i mineralcorticoidi (MR), per gli estrogeni (ER), per gli androgeni (AR), per il progesterone (PR), per la vitamina D (VDR), per l’acido retinoico (RAR) e molte altre proteine la cui funzione non è ancora stata ben definita e che per questo vengono indicate come recettori orfani (33). Questi recettori presentano delle caratteristiche comuni relative al meccanismo di azione (sito di azione a livello nucleare; legame a specifiche sequenze di DNA; capacità 23 di regolare la trascrizione genica) e all’organizzazione strutturale in domini funzionali, altamente conservati (34). Nel caso di TRα e TRβ, le proteine recettoriali, costituite rispettivamente da 410 e 461 aminoacidi, possiedono un dominio aminoterminale (domini A/B), un dominio legante il DNA (dominio C), separato dal dominio carbossi-terminale legante l’ormone (dominio E), da una regione cerniera (dominio D) che si estende per circa 40100 aminoacidi (33) (fig.1). Il dominio aminoterminale non ha un ruolo funzionale ben definito, probabilmente è coinvolto nella transattivazione e nella regolazione differenziale di specifici geni; è una regione estremamente variabile sia nella lunghezza, che nel contenuto aminoacidico (35, 36, 37). Il dominio che interagisce con il DNA è invece molto conservato e presenta una struttura caratteristica per il legame a specifiche sequenze di DNA, comune a molti fattori trascrizionali, il motivo “a dita di zinco”(zinc finger). Questo motivo strutturale è ripetuto due volte nel dominio C dei TR ed è caratterizzato dalla presenza di due coppie di cisteine, separate da una serie di residui aminoacidici, le quali si coordinano con un atomo di 24 zinco dando luogo ad un loop peptidico, che media il legame al DNA (38). Nel primo zinc finger è presente una regione detta “P-box”, altamente conservata nella superfamiglia dei recettori nucleari, che determina la specificità del legame al DNA, in base alla quale si possono individuare due sottogruppi: il primo include il recettore per i TH, il recettore per gli estrogeni, il recettore per l’acido retinoico ed il recettore per la vitamina D; il secondo sottogruppo include i recettori per gli androgeni, i recettori per i mineralcorticoidi e i recettori per il progesterone (voce biblio). Il secondo zinc finger è caratterizzato da una sequenza aminoacidica importante per la dimerizzazione del recettore (“D box”) (39). Una seconda regione coinvolta nella formazione di dimeri è localizzata nella regione carbossi-terminale del recettore ed è costituita da una serie di sequenze ripetute (heptad repeats), che contengono residui di leucina ed altri aminoacidi idrofobici (40). Le heptad repeats rappresentano dei motivi molto conservati, comuni a numerosi fattori attivanti la trascrizione, le così dette leucine zipper. La regione carbossi-terminale presenta, inoltre, il dominio che lega la T3 ed è ormai chiaro che mutazioni che incorrono in questa regione, determinano la riduzione dell’affinità di legame della proteina 25 recettoriale per la T3 e sono causa di resistenza ai TH. Gli studi cristallografici condotti sul TRα e, più recentemente sul TRβ hanno mostrato la struttura tridimensionale della della tasca in cui si lega la T3: l’ormone giace incassato nel core idrofobico della struttura, in un subdominio del quale il ligando è parte integrante (43). Molti residui aminoacidici stabiliscono legami diretti con la molecola ormonale (legami idrogeno). Il fatto che l’ormone venga completamente incorporato dal recettore potrebbe spiegare l’elevata affinità del recettore per la T3 (kd=0,3X10-10 M). La regione cerniera (dominio D), dotata di notevole mobilità, contiene una sequenza aminoacidica deputata alla localizzazione intracellulare del recettore (33). Questa regione sembra inoltre essere implicata nel legame con la T3, nella repressione basale della trascrizione e probabilmente ha un’influenza sulla struttura tridimensionale del recettore, rappresentando un perno attorno al quale la molecola recettoriale può ruotare (34). 1.6.2 Struttura del gene hTRβ β 26 Il gene hTRβ, situato sul cromosoma 3, consta di 10 esoni codificanti. Ciascun esone correla con domini funzionali della proteina TRβ. Gli esoni dallo ottavo al decimo codificano l’RNA messaggero (mRNA) per il dominio legante la T3 (dominio E); l’esone 7 codifica l’mRNA per la cosiddetta regione cerniera del recettore (hinge region) (dominio D); mentre gli esoni 5 e 6 codificano l’mRNA per il dominio legante il DNA (dominio C). 1.6.3 Elementi responsivi agli ormoni tiroidei (TRE) I recettori TRα e TRβ agiscono a livello nucleare, riconoscendo specifiche sequenze di DNA localizzate nelle regioni regolatrici dei geni bersaglio degli ormoni tiroidei, gli elementi responsivi agli ormoni tiroidei (TRE) (33, 44). Anche altri membri della superfamiglia dei recettori nucleari si legano, in forma omodimerica, a sequenze palindromiche di DNA (elementi responsivi agli ormoni, TRE), ma il legame dei TR ai TRE sembra essere molto più complesso, come dimostrano analisi mutazionali di TRE nel gene dell’ormone della crescita, condotte nel topo (45). Gli elementi responsivi agli ormoni tiroidei sono costituiti da due emisiti esamerici 27 che presentano la sequenza consenso AGGT(C/A)A (il quinto nucleotide può essere C oppure A). I TRE hanno una notevole variabilità nel numero di nucleotidi, nello spaziamento e nell’orientamento: i due emisiti, infatti, possono essere orientati, rispettivamente, come sequenze dirette ripetute DR (AGGTCAnAGGTCA), come palindromi TREpal (AGGTCAnTGACCT), oppure come palindromi invertiti, IP (TGACCTnAGGTGA) (40, 46, 47, 48). Ogni emisito lega una singola molecola di TR (monomero); due emisiti legano due molecole (dimero). I dimeri possono essere costituiti da due molecole di TR identiche (omodimeri), da due isoforme TR (TRβ1TRβ2), oppure da un etrodimero costituito da un TR legato ad un cofattore nucleare (TRAP). La localizzazione dei TRE rispetto al punto di inizio della trascrizione, l’orientamento degli emisiti, il numero dei nucleotidi interposti (n) e la struttura delle sequenze fiancheggianti gli elementi responsivi ai TR influenzano fortemente la risposta funzionale prodotta dagli ormoni tiroidei (48, 49). Lo spaziamento ottimale per il legame della forma omo- ed etero- dimerica del TR al DNA e per l’attività TREpal, DR e IP sembra essere n=0, n=4 e n=6 nucleotidi rispettivamente (TREpal 0, DR 4, IP 6), ma dal momento che i TR possono legarsi debolmente anche ad 28 elementi responsivi DR5, DR6, il legame ai TRE non è rigidamente recettore-specifico (50, 51). Alcuni geni bersaglio sono regolati positivamente dagli ormoni tiroidei, è il caso del gene dell’ormone della crescita, del gene per le catene pesanti della miosina; altri geni bersaglio sono invece regolati negativamente dai TH, come nel caso dei geni per TRH e per le subunità α e β del TSH. La struttura dei TRE presenti nelle regioni regolatrici dei due diversi tipi di geni varia: sono presenti TRE positivi e TRE negativi. Questi ultimi sono elementi compositi costituiti da uno o più emisiti degenerati, capaci di legare una varietà di complessi TR (52). E’ dimostrato che l’interazione tra il TR ed il TRE provoca il ripiegamento del DNA, a causa del quale si ritiene che le sequenze nucleotidiche fiancheggianti gli elementi responsivi siano direttamente coinvolte nell’attivazione trascrizionale dei geni bersaglio; ulteriori studi consentiranno di chiarire il loro ruolo effettivo (53).Quella proposta è una descrizione semplice e schematica dei TRE e, nonostante la recente identificazione di strutture molto più complesse, rimane il modello più valido per chiarire l’organizzazione di 29 questi elementi. 1.6.4 Meccanismo di azione degli ormoni tiroidei Il recettore degli ormoni tiroidei è un fattore trascrizionale, regola l’attività trascrizionale dei geni bersaglio. Esistono diverse isoforme funzionali del recettore degli ormoni tiroidei, che possono legarsi agli elementi responsivi sul DNA come monomeri (TRα, TRβ), omodimeri (TRα-TRα), ed eterodimeri costituiti da molecole legate o ad altre isoforme TR (TRα-TRβ) oppure ad una serie di proteine indicate come fattori accessori o TRAP (thyroid hormone receptor auxiliary proteins) (54, 55). E’ probabile che entrambe le forme recettoriali, sia quella monomerica che quella dimerica, siano attive ed è inoltre possibile che le diverse interazioni proteina-proteina abbiano proprietà biologiche diverse (56). Il legame dei monomeri e degli omodimeri al DNA è piuttosto debole a causa della rapida dissociazione del complesso TRTRE. Il TR si lega più stabilmente nella forma eterodimerica, cioè in associazione a proteine nucleari 30 (TRAP) (57). L’identità delle TRAP è rimasta elusiva fino alla scoperta che RXR, un membro della superfamiglia dei recettori nucleari che risponde a tutti i derivati trans dell’acido retinoico, promuove il legame non solo del TR, ma anche di RAR e VDR agli elementi responsivi sul DNA. E’ ormai accettato che RXR, presente ubiquitariamente nel nucleo delle cellule, sia il principale se non l’unico tra i fattori accessori ed è dimostrato che la forma eterodimerica più stabile e quindi funzionalmente più attiva, è quella in cui il TR si presenta legato a una molecola di RXR (58, 59, 60). Il recettore TR è prevalentemente localizzato nel nucleo della cellula ed è legato al DNA anche in assenza dell’ormone: in questo caso (assenza di T3) esso determina una repressione della trascrizione basale dei geni regolati positivamente dai TH e, d’altra parte, non inibisce la trascrizione dei geni regolati negativamente (61, 62).La cambiamento presenza dell’ormone conformazionale determina della un molecola recettoriale e produce un effetto opposto a quello generato dal recettore legato ai TRE in assenza di T3, perché favorisce il distacco delle forme omodimeriche e promuove, invece, il legame degli eterodimeri TR-TRAP 31 agli elementi responsivi sul DNA (fig.2) (63).In tal modo i TH attivano la trascrizione dei geni bersaglio regolati positivamente e inibiscono, invece, la trascrizione dei geni regolati negativamente. Recentemente è stato dimostrato che l’effetto del complesso T3-recettore sui geni bersaglio coinvolge anche altri tipi di proteine capaci di legarsi agli eterodimeri TR-TRAP, chiamati rispettivamente corepressori e coattivatori (fig.3) (64, 65, 66). 1.7 Eziologia della RTH L’ipotesi che il difetto responsabile della RTH fosse localizzato a livello del sito di azione intracellulare dell’ormone tiroideo venne formulata subito dopo la descrizione della sindrome (2).Ovviamente l’opportunità di testare questa ipotesi si presentò solo in seguito alla scoperta dei recettori degli ormoni tiroidei (TR) (16).I primi studi furono condotti su cellule mononucleate di sangue prelevato da soggetti affetti e mostrarono una ridotta affinità di legame per la T3, ma questi 32 incoraggianti risultati non furono confermati successivamente (4).Con l’identificazione dei geni che codificano per i TR, i tentativi di individuare eventuali difetti a livello recettoriale si intensificarono. Nel 1988, un gruppo di ricercatori (Usala e coll.), sfruttando i nuovi TR umani clonati, esaminò l’associazione genetica (linkage) tra il gene che conferisce la malattia ed il gene hTRβ che codifica per il recettore dei TH. Lo studio fu condotto in una famiglia di cui alcuni membri erano affetti da RTH. Lo studio dei polimorfismi della lunghezza dei frammenti di restrizione (RFLP) con le endonucleasi BamHI ed i EcoRV, mostrava che entrambi gli RFLP cosegregano con la RTH. Il calcolo del Lod score (il logaritmo del rapporto della probabilità che due loci siano associati, con frazione di ricombinazione =0, e la probabilità che non siano associati con frazione di ricombinazione =ϑ) era 3,91. Un valore di Lod score maggiore di 3 viene accettato come significativo per l’associazione tra i due loci. Questi studi di linkage stabilirono quindi una forte associazione fra il locus hTRβ sul cromosoma 3 e la RTH (67). Tali risultati furono confermati successivamente (1989) con l’identificazione di due diverse mutazioni puntiformi del gene hTRβ in due famiglie non imparentate, affette 33 dalla RTH (voce biblio). La presenza della mutazione fu riscontrata esclusivamente nei soggetti affetti dalla RTH, appartenenti alle due famiglie. In entrambi i casi solo uno dei due alleli TRβ era coinvolto, confermando l’ereditarietà di tipo dominante della malattia, ipotizzata precedentemente sulla base dello studio dei pedigree delle famiglie. Queste mutazioni puntiformi sono responsabili di una singola sostituzione aminoacidica nella proteina recettoriale e causano, ognuna, un diverso grado di alterazione della affinità di legame per la T3, lasciando inalterato però il legame del recettore sl DNA (68, 69). La maggior parte delle mutazioni descritte fino ad oggi è di tipo puntiforme; in alcuni casi sono descritte alterazioni di tipo diverso (delezione o aggiunta di nucleotidi, mutazioni frame-shift, codoni di stop) ed in una famiglia è stata descritta la completa delezione della sequenza codificante il TRβ (70). In questo ultimo caso la malattia era ereditata con modalità autosomica recessiva ed i soggetti eterozigoti si presentavano normali da un punto di vista clinico e biochimico. La maggior parte delle mutazioni identificate mappa in aree calde che si estendono dal codone 234 al 282, dal codone 310 al 353 e dal codone 429 al 460 del gene hTRβ (hot spots ), localizzate nel dominio legante la T3 (esoni 8-934 10), (fig.4) (71, 72, 73). Più del 60% di tutte le mutazioni recettoriali osservate avvengono in regioni ricche di dinucleotidi GC (4 o più G o C consecutive) (voce biblio). E’ necessario che tali mutazioni segreghino con il fenotipo della RTH, siano presenti cioè, nei soggetti affetti ed assenti nei soggetti sani e possibilmente esprimano, in esperimenti di trasfezione genica transitoria, un recettore con ridotte capacità funzionali (legame alla T3, dimerizzazione, transattivazione). D’altra parte, in circa un sesto dei soggetti affetti da RTH, non sono state identificate mutazioni né nel gene hTRβ né nel gene hTRα. Questi dati suggeriscono che potrebbero esistere altre isoforme recettoriali non ancora identificate o che potrebbero essere scoperti altri meccanismi, non recettoriali, capaci di indurre RTH (voce biblio). 1.8 Patogenesi della RTH Le mutazioni geniche possono essere classificate, da un punto di vista funzionale, in mutazioni provocanti un guadagno di funzione, una sua perdita o un’attività dominante negativa. Quest’ultima indica la capacità del 35 prodotto dell’allele mutato di interferire direttamente con la funzione della proteina nativa. Esempi di mutazioni provocanti un guadagno di funzione sono l’adenoma tossico tiroideo, che sarebbe dovuto, nella prevalenza dei casi, ad una mutazione somatica nella porzione transmembranale del recettore del TSH, la pubertà precoce da mutazione transmembranale del recettore dell’LH. Questo genere di mutazioni è ereditato con modalità autosomica dominante. Esempi di mutazioni provocanti una perdita di funzione sono la resistenza agli androgeni, alla vitamina d e ai glucocorticoidi, che mostrano un tipo d’ereditarietà legata al cromosoma X o autosomica recessiva, rispettivamente. Al contrario, la massima parte delle famiglie affette dalla RTH mostra un’ereditarietà di tipo autosomico dominante (11). L’analisi del DNA genomico di questi pazienti ha generalmente dimostrato la presenza di mutazioni in uno solo dei due alleli della isoforma β del recettore dei TH negli esoni che codificano per il dominio legante la T3. Dal momento che la maggior parte delle cellule contiene due alleli dell’isoforma α ed 36 un allele β normali, la perdita di funzione di un solo allele β non sembra sufficiente a spiegare la RTH. Il rilievo dell’assenza pressoché totale del gene hTRβ in una famiglia affetta da RTH (70), in cui solo gli omozigoti sono affetti dalla malattia, dimostra che l’assenza di una copia del gene β non è sufficiente a causare la RTH. D’altra parte la severità del quadro clinico e funzionale dell’unico soggetto omozigote descritto in letteratura, affetto da una mutazione nel dominio legante la T3, dimostra l’azione dominante negativa del TRβ mutato sul TRα nativo (75, 76).Queste osservazioni sono state recentemente confermate da studi in vitro che hanno dimostrato come i TR mutati siano capaci di bloccare l’attività delle isoforme α e β normali in esperimenti di espressione genica transitoria (77). Sono stati proposti tre meccanismi per spiegare come i TR mutati possano inibire la funzione dei recettori normali: a) la formazione di dimeri inattivi. I recettori mutati formano dimeri con i recettori nativi, producendo dimeri inattivi dal punto di vista trascrizionale; b) la competizione da parte degli omo- ed eterodimeri mutati per il legame al DNA: i TRβ mutati 37 possono formare omo- ed etero—dimeri con RXR o altre proteine nucleari accessorie sugli elementi di risposta agli ormoni tiroidei, producendo complessi inattivi dal punto di vista trascrizionale e che per di più rimangono legati ai TRE in presenza della T3, bloccando così la trascrizione dei geni bersaglio; c) Il sequestro di quantità critiche di proteine accessorie o coattivatori nucleari da parte dei recettori mutati: il sequestro, mediante interazioni proteinaproteina, di quantità critiche di fattori nucleari importanti per l’attivazione della trascrizione mediata dal ligando può bloccare la trascrizione stessa (74). Questi tre meccanismi sono considerati principali, ma altri sono possibili ed inoltre l’uno non esclude l’altro nella patogenesi della RTH (fig. 5, 6). E’ molto interessante notare che benché il recettore della vitamina D (VDR) abbia molti aspetti in comune con i TR, quali la capacità di formare omo- ed etero-dimeri e di legarsi al DNA, nessuna famiglia con la resistenza alla vitamina D ha mostrato un tipo di ereditarietà autosomica dominante. Probabilmente la differenza sta nel fatto che le mutazioni del VDR risiedono nel dominio legante il DNA o creano precoci interruzioni della 38 proteina: si producono così mutanti incapaci di interferire nella funzione del recettore nativo e la sindrome si può manifestare solo in forma omozigote (78). 2. SCOPO DELLA TESI Lo scopo della tesi è stato quello di studiare l’eziologia genetica della sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei in tre soggetti appartenenti a tre famiglie diverse che presentavano un quadro clinico e biochimico compatibile con quello della RTH. Inoltre, sono dimostrare stati eseguiti l’importanza studi biologica funzionali delle per mutazioni trovate ed in particolare è stata indagata l’affinità dei recettori mutati per gli ormoni tiroidei. 39 3.MATERIALI E METODI 3.1 Pazienti analizzati Sono state indagate 3 famiglie nelle quali alcuni membri presentavano un quadro clinico e biochimico compatibile con una forma generalizzata di RTH (gozzo, TH elevati, autoanticorpi TSH non anti-tiroide soppresso e di in assenza di chiari sintomi di ipertiroidismo).Complessivamente sono stati analizzati x individui di cui y sono risultati affetti da RTH. I 40 propositi di ciascuna famiglia sono stati analizzati in modo più completo nell’ambito di ricoveri ospedalieri della durata di circa 12 giorni; i parenti sono stati per la maggior parte valutati solo da un punto di vista biochimico e genetico. I familiari non affetti da RTH hanno formato il gruppo dei controlli normali. 3.2 Metodiche in vitro 3.2.1 Estrazione del DNA da leucociti di sangue periferico 3.2.2 Il metodo di estrazione utilizzato rappresenta una variante di quello più antico che utilizza il solo fenolo, un liquido pesante non miscibile con l’acqua. Se, infatti, del fenolo è aggiunto ad una soluzione acquosa, le due fasi sembrano inizialmente mescolarsi per poi tornare a separarsi a causa della forza di gravità. Se nella fase acquosa sono contenute proteine complessate con acidi nucleici, la miscelazione con fenolo e la stratificazione delle due fasi, produrrà un residuo bianchiccio e 41 semisolido all’interfaccia. La maggior parte delle proteine verrà a trovarsi in basso, nella fase fenolica e gli acidi nucleici si troveranno nella fase superiore acquosa. Per ottenere le due fasi limpide si procede ripetendo la procedura dall’inizio. In questo modo si elimineranno le proteine denaturate che si presentano normalmente all’interfaccia dopo il primo passaggio e che non possono passare nella fase fenolica. A questo punto si utilizza il cloroformio il quale sequestrerà il fenolo (che deve essere eliminato) e farà appesantire la fase organica cosicché si separerà più nettamente. Il DNA viene poi fatto precipitare a freddo con l’aggiunta di quantità di fenolo pari al doppio del volume finale ottenuto. Al sangue, prelevato in EDTA (5ml), vengono aggiunti 10 ml di T10 E10 (Tris-HCl 10 mM Ph 7.5, EDTA 10 mM pH, pH 7,5. La miscela ottenuta è agitata (si utilizza un agitatore rotante end-over-end, continental Equipment) per 10 minuti; si centrifuga poi a 3000 rpm per 10 minuti per eliminare i globuli rossi e le frazioni citoplasmatiche dei globuli bianchi. Il sedimento viene risospeso in 15 ml di T10 E1 (Tris-HCl 10 mM, EDTA 1 mM) pH 7,5. La miscela ottenuta viene nuovamente agitata per 10 minuti e successivamente centrifugata a 3000 rpm per 42 altri 10 minuti. Questa operazione viene ripetuta fino a che non si ottiene un sedimento bianco. A questo punto si aggiungono al sedimento ottenuto 5 ml di soluzione di omogenizzazione (Urea 8M, NaCl 0,3 M, Tris 10 mM, EDTA 5mM, SDS 0,2 %) e si pone la miscela sull’agitatore per almeno due ore (meglio per tutta la notte). Si aggiungono 5 ml di una miscela di fenolo-cloroformioisoamilico, si agita per 10 minuti e poi si centrifuga a 3000 rpm per altri 10 minuti. Separate le due fasi e recuperata la fase superiore che contiene il DNA, si ripete una seconda estrazione con fenolo-cloroformioisoamilico. Questa volta la fase superiore viene trasferita in altra provetta e si aggiungono due volumi di etere; si agita per 10 minuti e si centrifuga per altri 10 minuti. Eliminata la fase superiore, si ripete una seconda estrazione con etere come sopra. La precipitazione del DNA si effettua aggiungendo due volumi di etanolo al 96 %. Il filamento di DNA ottenuto viene recuperato con una pipetta Pasteur (la cui punta era stata precedentemente arrotondata al calore) e lasciato esposto all’aria per circa 15 minuti per far evaporare del tutto l’etanolo rimasto. Al filamento 43 essiccato viene aggiunto 1 ml di T10E1 e la provetta viene lasciata per tutta la notte sull’agitatore per far andare in soluzione tutto il DNA ottenuto. La concentrazione del DNA estratto si determina misurando l’assorbanza della soluzione contenente il DNA ottenuto alle lunghezze d’onda di 260 nm (che misura la OD di acido nucleico presente) e di 280 nm (che misura la OD proteica presente) con uno spettrofotometro Beckman. Una densità ottica uguale a 1 corrisponde a 50 µg/ml di DNAa doppia elica. Il rapporto tra i due valori relativi alla lettura a λ=260 nm e λ=280 nm valuta la purezza del campione : preparazioni pure di DNA producono valori di OD 260/280 compresi tra 1,8 e 2. 3.2.2 Amplificazione in vitro del DNA mediante Polymerase Chain Reaction Questa tecnica consente di produrre un enorme numero di copie di specifiche sequenze di DNA. La Polymerase Chain Reaction (PCR) sfrutta alcune peculiarità della duplicazione del DNA. La DNA polimerasi impiega un 44 DNA a singolo filamento come stampo per la sintesi di un nuovo filamento complementare .Questi stampi di DNA a filamento singolo possono essere semplicemente prodotti riscaldando il DNA a doppia elica a temperature vicine a quelle di ebollizione. La DNA polimerasi necessita anche di una piccola regione di DNA a doppia elica. Il punto di inizio della sintesi del DNA può, quindi, essere specificato fornendo come innesco un oligonucleotide, il primer, che si appai allo stampo proprio in quel punto. Si utilizza un primer oligonucleotidico per ciascun filamento in modo che entrambi i filamenti possano servire come stampo. Per questa tecnica vengono scelti dei primers fiancheggianti la regione di DNA che deve essere amplificata, cosicché i nuovi filamenti di DNA sintetizzati a partire da ciascun primer, si estendano fino alla posizione del primer del filamento opposto. Ciascun filamento di nuova sintesi presenta, nuovi siti per l’appaiamento dei primers. Il miscuglio di reazione viene ancora scaldato in modo da separare i filamenti originari da quelli di nuova sintesi che sono ancora disponibili per ulteriori cicli di ibridazione con il primer, sintesi del DNA e separazione dei filamenti.Al termine di n cicli il miscuglio di reazione contiene un numero massimo teorico di molecole di 45 DNA a doppia elica pari a 2n : tali molecole sono le copie della sequenza di DNA compresa tra i due primers. Una importante caratteristica della PCR è quella di poter attuare l’amplificazione di specifiche regioni di DNA bersaglio. (voce biblio) Per amplificare gli esoni 5-6-7-8-9-10 del gene c-erbAè stato utilizzato DNA genomico. Le sequenze dei primers utilizzati sono riportati in tabella. Ogni reazione è ottimizzata in modo da ottenere il minor numero di bande aspecifiche, modificando la temperatura di attacco dei primers e la concentrazione del cloruro di magnesio (tabella). • Un microgrammo di DNA viene amplificato in un volume di reazione finale di 50 µl contenente : 50 picomoli di ciascuno dei due primers utilizzati, 0,2 mM di ciascun dNTP, MgCl2 alle concentrazioni riportate in tabella e 2,5 unità di Taq polimerasi ( PROMEGA) nel suo tampone 10x (500mM Tris-Hcl pH 9, 1% Triton). Si stratifica sulla miscela di reazione dell’olio minerale per prevenire l’evaporazione durante il susseguirsi dei cicli di reazione. I cicli di reazione si effettuano secondo il seguente schema: • denaturazione per cinque minuti a 94°C 46 • accoppiamento dei primers per un minuto a 67°C • polimerizzazione per 90 secondi a 72° • denaturazione per un minuto a 94°C Si effettuano 25-30 cicli. Dopo l’ultimo ciclo, viene raggiunta e mantenuta una temperatura di 72°C per 7 minuti. Un’aliquota dei prodotti di amplificazione ottenuti viene sottoposta ad elettroforesi su gel di agarosio all’ 1% per verificare la resa e la specificità della reazione. Vengono solitamente caricati nei pozzetti 5µl di prodotto di reazione addizionato ad 1 µl di loading buffer. 3.2.3 Purificazione dei prodotti di amplificazione Prima di effettuare lo studio del DNA mediante la reazione di sequenza, è necessario effetture la purificazione dei prodotti di PCR. Si utilizza, a questo scopo, il kit “Wizard PCR Preps” (PROMEGA). I prodotti di PCR vengono separati per mezzo di elettroforesi su gel di agarosio Low Melting Point 1% in tampone TAE (Tris acetato 0,04 M, EDTA 0,001 M) colorato con bromuro di etidio, che emette un’intensa fluorescenza quando è legato al DNA a 47 doppia elica. Le bande della taglia attesa, vengono ritagliate dal gel e disciolte a 65°C per 15 minuti. Si aggiunge quindi 1 ml di resina ad ogni campione e si agita per 30 secondi; quest’ultima operazione si può effettuare anche manualmente. I campioni vengono filtrati con opportune minicolonne. Le colonne vengono quindi lavate con 2 ml di isopropanolo 80% e centrifugate 2 minuti a 12000xg. Si aggiungono 70 µl di T10E1 sulle colonne e dopo aver atteso almeno 5 minuti, si centrifugano di nuovo (45 secondi a 12000xg) per permettere l’eluizione del DNA. All’eluito (70µl) si aggiunge un’aliquota di acqua sterile per aumentare il volume e facilitare la precipitazione. Al volume totale che abbiamo ottenuto, si aggiunge NaCl 2M in quantità pari ad 1/10 del volume finale e 2,5 volumi di etanolo 100%. Dopo aver lasciato la soluzione così ottenuta per 15 minuti a –80°C o per una notte a –20°C, si centrifuga alla massima velocità (12000xg) per 20 minuti in microcentrifuga (Microcentrifugette 4214 ALC). Eliminato il surnatante, si aggiunge una quantità di etanolo al 70% (500 µl circa) che ricopra il precipitato, allo scopo di eliminare i sali in eccesso, si centrifuga nuovamente per cinque minuti, si decanta e si pongono i campioni nel liofilizzatore (Biorad) per il tempo 48 necessario ad eliminare tutto l’etanolo (8 minuti circa). Il precipitato viene risospeso in 50 µl di acqua sterile; il DNA così purificato può essere ora sequenziato. 3.2.4 Analisi della sequenza nucleotidica L’analisi della sequenza nucleotidica del DNA, viene effettuata con il metodo enzimatico, messo a punto da Sanger e collaboratori sull’interruzione (84). controllata La tecnica della si basa replicazione enzimatica del DNA: si utilizza la DNA polimerasi I per copiare una particolare sequenza di DNA a singolo filamento. E’ necessario utilizzare un primer che funzioni da innesco per la DNA polimerasi, che solitamente è sintetizzato chimicamente. La miscela di reazione contiene i quattro desossinucleotidi e un analogo 2’,3’-dideossi di uno di essi. L’incorporazione di questo analogo blocca la crescita ulteriore della nuova catena perché è privo del terminale ossidrilico in 3’, necessario per fosfodiesterico. lunghezza formare Vengono diversa, tutti il successivo prodotti con legame frammenti l’analogo di dideossi all’estremità 3’. Le quattro serie di frammenti così 49 ottenute, vengono sottoposte ad elettroforesi e la sequenza delle basi del nuovo DNA può essere letta dall’ autoradiografia delle quattro linee. L’ analisi di sequenza viene eseguita utilizzando il “Sequenase version 2.0 DNA Sequencing Kit (USB)”.Viene pertanto seguito il protocollo consigliato dalla ditta fornitrice, che comprende le tappe sottoelencate. Il DNA da sequenziare, viene denaturato col calore a 95°C per 5 minuti in presenza di 1 µl di primer 50 picomoli) e acqua bidistillata per un volume finale di 10 µl; successivamente la denaturazione viene mantenuta con incubazione a 4°C. Alla miscela così ottenuta, vengono aggiunti: • 2 µl di Sequenase buffer (200mM Tris-HCl pH 7,5, 100 mM MgCl2 , 250 mM NaCl) • 1 µl DTT 0,1 M • 2 µl di una miscela di deossinucleotidi (7,5 µM dTTP, dCTP, dGTP) diluiti 1:10 in acqua • 0,5 µl di (35S)dATP. • 2 µl di sequenase polimerasi, diluita 1:8 con il tampone (10mM Tris-HCl, pH 7,5, 5mM DTT 0,5 mg/ml BSA) • Dopo quattro minuti dall’aggiunta della Sequenase, la 50 miscela viene divisa in quattro aliquote ognuna delle quali viene aggiunta ai quattro terminatori dideossi preventivamente riscaldati a 37°C • Dopo altri quattro minuti si blocca la reazione aggiungendo 4 µl di “stop solution”(95% di formammide; 20mM di EDTA, 0,05% blu di bromo fenolo e 0,05% di xilene). • La concentrazione dei dideossinucleotidi rispetto a quella dei deossinucleotidi è calcolata in modo che in ogni provetta si formino catene di tutte le lunghezze possibili. In questo modo ciascuna delle quattro reazioni contiene una popolazione di catene marcate radioattivamente, allungate a partire dal primer, che hanno un’estremità 5’ fissa che corrisponde all’attacco del primer ed un’estremità 3’ variabile che termina ad una base specifica. Per analizzare i prodotti finali della reazione, che differiscono tra loro per una sola base, è necessario usare un particolare tipo di gel ad altissima risoluzione, così composto: • Poliacrilammide 6% (soluzione di acrilammide- bisacrilammide 19:1) • Urea 50% • TBE 20x (Tris base 0,5 M, acido borico 0,5 M, EDTA 0,5 51 M pH 8) • Sucrosio 50% • Acqua • Temed 0,05 % • Ammonio persolfato 0,005% L’alto potere risolutivo è dovuto all’acrilammide, mentre la presenza di urea, garantisce che ogni frammento di DNA si mantenga perfettamente denaturato. I campioni, denaturati per tre minuti a 95°C, vengono fatti migrare a 2.000V per un tempo variabile da due a tre ore, a seconda della lunghezza dell’esone sequenziato. Terminata la corsa ,il gel viene trattato per 20 minuti con una soluzione di acido acetico glaciale diluito 1:5 in acqua distillata ed in una soluzione di metanolo diluito nello stesso modo. Poi si lava con circa due litri di acqua e si aspira con l’ausilio di una pompa a vuoto. Il gel viene poi fatto aderire ad un foglio di carta Whatman 3 MM, ricoperto con pellicola aderente e seccato in un gel dryer ad 80°C collegato ad una pompa a vuoto (Bio-rad). A questo punto si espone il gel, così essiccato, ad una lastra autoradiografica in un’apposita cassetta a temperatura ambiente per due notti. Successivamente si legge la sequenza delle basi 52 nucleotidiche dal basso verso l’alto . i frammenti di DNA più lunghi hanno infatti una mobilità elettroforetica minore, migrano di meno e si localizzano nella parte alta del gel che corrisponde quindi all’estremità 3’ del filamento di DNA. Per ciascun campione vengono effettuate almeno tre analisi di sequenza a partire da differenti prodotti di amplificazione, per confermare i risultati ottenuti. 3.2.5 Indagini di paternità Le stesse metodiche (estrazione del DNA genomico dai leucociti, amplificazione del DNA mediante PCR) sono state utilizzate per lo studio di 4 polimorfismi VNRT (Variable Number of Tandem Repeat), al fine di confermare la paternità dei soggetti in esame e di escludere una possibile adozione. 3.2.6 Amplificazione allele specifica • L’amplificazione allele-specifica viene eseguita sul DNA genomico estratto dai leucociti 53 con la metodica precedentemente descritta. Si utilizzano 50 picomoli delle coppie di primers AB, AC, DE, DF, FG (tabella ) che si accoppiano in reazioni separate ad 1 µg di DNA genomico ed amplificati mediante PCR, per 25-30 cicli. Un ciclo è costituito dalle seguenti fasi: • Denaturazione del DNA per 1 minuto a 94°C • Accoppiamento dei primers allo stampo di DNA per 2 minuti a 57°C o 60°C • Polimerizzazione per 2 minuti a 67°C. I prodotti di amplificazione vengono quindi sottoposti ad elettroforesi su gel di agarosio al 2% in TAE e con bromuro di etidio. 3.2.7 Mutagenesi sito-diretta La mutagenesi sito-diretta è stata utilizzata per lo studio della funzione delle proteine codificanti il recettore β dei TH nativo e mutato. La mutagenesi del recettore nativo TRβ è stata eseguita nel batteriofago M13mp18 usando il metodo descritto da Kunkel nel 1985. La strategia usata e’ di clonare il DNA che deve essere mutato in un vettore, quale il batteriofago sopra-citato, il cui DNA esiste sia a singolo 54 che a doppio filamento. Il batteriofago M13mp18 che deve essere mutagenizzato, è trasformato all’interno di un ceppo batterico (E. Coli CJ236) che porta mutazioni (dut−, ung− ) inattivanti gli enzimi dUTPasi ed N-uracil-glicosilasi rispettivamente. La mutazione dut risulta in un’alta concentrazione intracellulare di dUTP, che può essere incorporato nel DNA al posto della timina e che non è successivamente rimosso a causa della mutazione ung. Il singolo filamento di DNA di M13mp18 contenente uracili ottenuto da CJ236, è usato come campione per la sintesi in vitro di un filamento complementare. La reazione di sintesi è innescata da un oligonucleotide portante la mutazione desiderata. Quando il doppio filamento di DNA è trasformato all’interno di una cellula (MV1190) con l’enzima N- uracil-glicosilasi funzionale, il filamento contenente l’uracile è efficientemente inattivato consentendo al filamento superstite mutagenizzato di replicarsi. La trasformazione è ottimizzata utilizzando 0,3 ml di cellule competenti ( rese tali con la metodica del CaCl2 a caldo) miscelate in un tubo di polipropilene a 1-10 ng di fago ricombinante se trasformato in Cj236 o 3-10 ng di 55 reazione di sintesi se la trasformazione avviene in MV1190.La miscela di reazione è incubata in ghiaccio per 30-90 minuti e poi è messa a 65°C per 3 minuti. I reagenti ed i ceppi batterici richiesti sono ottenuti dal kit Muta –gene M13 In Vitro Mutagenesis Kit, Version 2 (BIO-RAD). Il TRβ nativo è stato clonato nel sito HindIII di M13mp18. Lo stock del batteriofago è stato titolato su MV1190 nel modo seguente: diluizioni seriali (102, 104 ,106 , 108) sono state preparate in un brodo LB (10g bactotritone, 5g di estratto di lievito, 10g di NaCl, acqua deionizzata fino ad un volume finale di 1 litro). 100 µl di ogni diluizione è stata aggiunta a 200 µl di una nuova cultura di MV1190 lasciata crescere tutta la notte. La miscela è stata incubata per 5 minuti a temperatura ambiente , poi sono stati aggiunti 3 ml di agar liquido YT (0.5x di brodo YT: 16g di bactotriptone, 5g di NaCl ed acqua per un volume finale di 1 litro; e agar 0.5% w/v) a 50 °C e versati immediatamente per ricoprire una piastra di agar LB. Le piastre erano preparate in modo da solidificare a temperatura ambiente e poi erano incubate per tutta la notte a 37°C. La titolazione del batteriofago era calcolata in unità formanti placca (pfu) ml dallo stock 56 di partenza. CJ236 era piastrato su LB agar contenente cloramfenicolo (30 µg/ml). Una singola colonia è stata inoculata in 10 ml di LB più cloramfenicolo (30 µg/ml) ed incubata per tutta la notte a 37°C. 1ml di cultura è stata inoculata in 250 ml di 2xYT ed incubata a 37°C, agitandola fino a quando la densità ottica a 600λ non era di 0,3 (approssimativamente 1x108 cfu/ml). Il fago è stato poi addizionato per avere una molteplicità di infezione ≤ 0,2 pfu/cfu e l’incubazione è stata protratta per altre 4-5 ore. 30 ml di cultura è stata centrifugata a 17000xg per 15 minuti e poi il surnatante contenente il fago è stato trasferito in un nuovo tubo e centrifugato brevemente. 150 µg di RNAasi è stata addizionata al secondo surnatante ed incubata per 30 minuti a temperatura ambiente. Il fago è stato precipitato con l’aggiunta di ¼ del volume di ammonio acetato 3,5 M ed il 20% del volume di PEG 8000 ed incubato in ghiaccio per 30 minuti a temperatura ambiente; il pellet è stato poi centrifugato a 17000 xg per 15 minuti a 4 °C. Il surnatante è stato eliminato ed il pellet asciugato centrifugandolo brevemente, poi è stato risospeso in 200 µl di soluzione ad alta concentrazione salina (300mM 57 NaCl; 100mM Tris pH 8.0; 1mM EDTA) ed incubato in ghiaccio per 30 minuti. Il materiale insolubile è stato rimosso con una microcentrifugazione per 2 minuti ed il surnatante contenente il fago (con l’uracile inserito nel DNA) è stato trasferito in un nuovo tubo. Il fago è stato titolato sia su CJ236 che su MV1190. Un titolo almeno 104 volte più basso di MV1190 indicava l’efficienza di incorporazione dell’uracile nel DNA del fago. Lo stock del fago è stato conservato al massimo per una settimana a 4°C prima di estrarre il DNA. Il DNA estratto è stato conservato a –20°C ed utilizzato immediatamente. Il primer oligonucleotidico contenente la mutazione, consisteva di 20-30 nucleotidi in lunghezza. 200pmol di primer sono state sospese in 30 µl di “kinase buffer” (100 mM Tris pH 8.0; 10 mM MgCl2; 5 mm DTT; 0,4 mM ATP neutralizzante) e sono state fosforilate usando 4,5 U di T4 polynucleotide kinase. La miscela di reazione è stata incubata a 37°C per 45 minuti e successivamente riscaldata fino a 65°C per 10 minuti per inattivare la kinasi. 2-3 pmol di primer fosforilato sono state aggiunte a 200 ng (0,1 pmol) del campione di fago contenente uracili in 10 µl di “annealing buffer” (20 mM Tris-HCl ph 7.4; 2 58 mM MgCl2; 50 mm NaCl). La miscela di reazione è stata portata a 70°C e poi la temperatura è stata abbassata di due gradi ogni minuto fino a 30°C, dopodichè è stata messa in ghiaccio. Al primer fosforilato mantenuto in ghiaccio, sono stati aggiunti in sequenza: 1 µl di tampone di sintesi (0,4 mM di ciascun dNTP; 0,75 mM ATP; 17,5 mM Tris-HCl pH 7.4; 3,75 mM MgCl2 ; 21,5 mM DTT), 2,5 (1 µl) unità di T4 DNA ligasi e 0,5 unità (1 µl) di T7 DNA polimerasi (diluita 1:2 con fosfato di potassio 20 mM pH 7.4 a freddo; 1mM DTT; 0,1 mM EDTA; 50% di glicerolo). L’incubazione è stata protratta in ghiaccio per altri 5 minuti, poi la reazione è stata portata a 25°C per 5 minuti e, per finire, a 37°C per 30 minuti. La reazione terminava dopo l’aggiunta di 90 µl di “stop buffer” (10 mM Tris, pH 8.0; 10 mM EDTA). L’avvenuta reazione di sintesi è stata confermata mediante elettroforesi su gel di agarosio. 5-10 µl di miscela di reazione è stata poi trasformata in cellule competenti MV1190 (ung+) in modo da selezionare il filamento di DNA contenente uracili. Sono poi state selezionate singole placche ed usate per preparare DNA fagico a singolo filamento, che è stato sequenziato per individuare la mutazione, ed è 59 stato digerito con HindIII per verificare l’integrità dell’inserto. Il DNA è stato estratto con il metodo del fenolo/cloroformio.Al surnatante che si ottiene dopo due successive centrifugazioni, si aggiungono 1/10 del volume di ammonio acetato e 2,5 volumi di etanolo. Si mette la miscela ottenuta a –80°C per 30 minuti dopodiché si procede come descritto nella sezione 3.2.1. Lo stock fagico contenente le mutazioni desiderate era conservato a 4°C. 3.2.8 Saggio di legame della T3 I prodotti della mutagenesi in vitro conteneti i cDNA codificanti per l’hTR nativo e mutato erano subclonati in pGEMT7z a partire dal batteriofago M13mp18.Il vettore con gli inserti erano trasformati in cellule competenti JM109. I su descritti saggi di legame della T3 erano eseguiti presso il laboratorio di biologia molecolare del Dipartimento di Medicina dell’ Università di Cambridge, direttore Dr V.K.K. Chatterjee. I cDNA per i TRβ nativi (WT) e mutati (MT) sono stati 60 trascritti e tradotti usando “TNT T7-coupled reticulocyte lysate system” in presenza o assenza di metionina marcata con 35S. I prodotti marcati con 35S Ci/mmol; analizzati Amersham intl., UK) erano (1000 mediante elettroforesi in gel SDS poliacrilammide 8-18 % ed autoradiografati. L’affinità di legame per la T3 (Ka) è stata determinata in esperimenti di saturazione usando 125I-T3 in tampone di legame. Le proteine recettoriali erano incubate con 0,2 nM di 125 I-T3 per 24 ore a 4° C e quantità variabili di T3 fredda. Le proteine legate e libere erano separate mediante l’uso di un filtro legante le proteine (Millipore HAWP02500) collegato ad una pompa a vuoto.I filtri erano poi trasferiti in tubi di polipropilene la loro radioattività misurata con (Packard CobraTM 5010). un contatore gamma Il legame specifico era determinato in incubazioni parallele con un eccesso di T3 fredda. Le costanti di affinità erano calcolate mediante analisi di Scatchard. 4.RISULTATI 61 4.1 Indagini genetiche e funzionali in tre famiglie in cui sono state individuate tre nuove mutazioni 4.1.1 Pedigree La figura () mostra i pedigree parziali delle tre famiglie studiate in cui sono riportati i soggetti indagati. Nella prima famiglia esaminata il soggetto studiato era una donna di 42 anni, sposata, il cui figlio deceduto all’età di 12 anni per una malformazione cardiaca, presentava anch’egli un quadro biochimico compatibile con quello della RTH. Nella seconda famiglia il proposito era un uomo di 37 anni, sposato, con un figlio di 3 anni anch’egli affetto dalla sindrome. Nella terza famiglia il soggetto studiato era una ragazza di 17 anni dalle indagini svolte sui vari membri di questa famiglia, la madre risultava essere anch’essa affetta da RTH. Tutti e tre i soggetti in esame e gli altri familiari affetti presentavano segni clinici e biochimici della RTH generalizzata (assenza di sintomi da ipertiroidismo, gozzo, elevati valori di TH circolanti, TSH nella norma o elevato e responsivo al TRH, assenza di autoanticorpi antitiroide, evidenza di resistenza periferica all’azione 62 dei TH). 4.1.2 Indagini biochimiche Le tabelle xyz mostrano il profilo ormonale di alcuni membri delle tre famiglie studiate: sono evidenti alti livelli sierici di ormoni tiroidei con valori di TSH normali o elevati nei soggetti affetti da RTH, mentre tali valori sono perfettamente nella norma per i familiari non affetti. La somministrazione di dosi crescenti di T3 (50-100-200 µg/die) nei soggetti affetti ha evidenziato una progressiva riduzione della risposta del TSH al TRH, ma di grado minore rispetto ai familiari non affetti dalla sindrome ed una mancata o ridotta modificazione dei parametri metabolismo periferici basale, (peso, ferritina, frequenza cardiaca, creatinfosfochinasi, colesterolo, SHBG etc.) rispetto ai soggetti sani. Il dosaggio di SHBG (sex hormone binding globulin) e di TBG (thyroxine binding globulin) ha dato risultati nella norma così come la misura delle α-subunità del TSH ed il loro rapporto molare col TSH intero. La RMN ipofisaria ha escluso, inoltre, la presenza di adenomi 63 ipofisari TSH secernenti. 4.1.3 Ricerca della mutazione nel gene hTRβ β L’analisi della sequenza nucleotidica degli esoni che codificano per il recettore hTRβ nella prima famiglia ha evidenziato la presenza di una mutazione puntiforme eterozigote (C con G) al nucleotide 1321 dell’esone 9, che comporta la sostituzione di una leucina con una valina al codone 346 (L346V), nel dominio legante la T3(fig). Nella seconda famiglia è stata riscontrata una mutazione puntiforme eterozigote (G con A) nell’esone 8, codificante per la porzione amino-terminale del dominio legante la T3, al nucleotide 1037 risultante nella sostituzione di una glicina con un acido glutammico al codone 251 (G251E) (fig). Nella terza famiglia è stata individuata una mutazione puntiforme eterozigote (C con G) al nucleotide 1226 dell’esone 9, determinante la sostituzione di una serina con una cisteina al codone 314 (S314C), nel dominio legante la T3. L’analisi della sequenza nucleotidica è stata ripetuta, per 64 ciascun campione, almeno tre volte a partire da prodotti di amplificazione indipendenti e paragonata a quelle di altri individui non affetti dalla sindrome. L’analisi degli altri esoni del gene hTRβ non evidenziava mutazioni addizionali. 4.1.4 Studio della distribuzione familiare della mutazione mediante amplificazione allele specifica Per confermare le mutazioni individuate tramite l’analisi della sequenza nucleotidica e per studiarne la distribuzione all’interno delle famiglie, è stata utilizzata la tecnica dell’amplificazione allele specifica. Nell’amplificazione del DNA dei soggetti appartenenti a tutte e tre le famiglie, si evidenziava una banda specifica per l’allele normale sia nei propositi che nei controlli normali, mentre era presente una banda specifica per l’allele mutato solo nei soggetti affetti da RTH. Le figure xyz mostrano rispettivamente i risultati ottenuti nei propositi delle tre famiglie con i relativi controlli normali. 65 4.1.5 Saggi di legame della T3 Per dimostrare il valore funzionale delle tre mutazioni trovate sono stati fatti studi di mutagenesi in vitro, mediante la tecnica della mutagenesi sito-specifica ed è stata valutata l’affinità di legame dei tre recettori mutati sintetizzati in vitro. Il recettore nativo hTRβ mostrava un’affinità di legame alla T3 (KaWT) dell’ordine di 10-10 M ed in confronto a questo ciascun mutante mostrava un’affinità (KaMT) variamente ridotta con rapporto KaMT/ KaWT pari rispettivamente a :0,02 per L346V; 0,28 per G251E; 0,7 per S314C. Questi dati indicano una ridotta affinità per il ligando dei recettori che presentano le tre mutazioni trovate e dimostrano quindi il significato funzionale delle stesse ed il loro ruolo eziologico nella sindrome. 4.1.6 Studi di paternità Lo studio dei polimorfismi VNTR e STR effettuato sul proposito ed i suoi genitori, nelle due famiglie in cui la 66 mutazione appariva “de-novo” nel proposito, ha evidenziato che la probabilità di paternità cumulativa, risultante dalla forma delle singole probabilità per i quattro polimorfismi studiati, era del 99,95%. Le indagini sono state eseguite col consenso delle persone interessate, dall’Istituto di Citogenetica dell’Università di Pisa. 5. DISCUSSIONE La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei (RTH) è una rara malattia genetica solitamente trasmessa con 67 modalità autosomica dominante caratterizzata dal fatto che gli individui affetti, nonostante livelli ematici significativamente elevati di TH, non mostrano generalmente chiari segni clinici di tireotossicosi. Data la scarsa rilevanza clinica della sindrome questa rimane a lungo sconosciuta e viene solitamente diagnosticata in età adulta malgrado sia causata da un difetto genetico. La possibilità di dosare frazioni libere di TH con metodi accurati e specifici e soprattutto lo sviluppo di metodi ultrasensibili per il dosaggio del TSH, che permettono di distinguere chiaramente i soggetti normali dai tireotossici, hanno reso più facile il riconoscimento dei casi di RTH. Tuttavia sono ancora relativamente frequenti gli errori diagnostici che portano ad un’erronea terapia con conseguenti danni al paziente. La diagnosi era posta sulla base dei segni clinici e delle seguenti caratteristiche biochimiche: • Elevati valori di FT4 e FT3 in presenza di un TSH non soppresso; • Netta riduzione della soppressione dose-dipendente del TSH basale e dopo stimolazione con TRH alla somministrazione di dosi crescenti di valori dei marcatori dell’azione periferica dei TH compresi nei 68 limiti della norma. Grazie alle nuove tecniche di biologia molecolare è attualmente possibile effettuare una diagnosi eziologica della malattia. Infatti in tutte le famiglie sono state trovate mutazioni puntiformi del recettore hTRβ: la mutazione L346V riscontrata nella prima famiglia, la mutazione G251E riscontrata nella seconda famiglia e la S314C riscontrata nella terza famiglia. Tali mutazioni erano presenti solo negli individui affetti ed erano ereditate dai rispettivi figli con modalità autosomica dominante. Le prime due si manifestano come forme “de-novo”, in quanto assenti nei genitori dei soggetti in esame dei quali è stata peraltro dimostrata la paternità con le opportune indagini genetiche. Delle mutazioni descritte è stato effettuato lo studio in vitro mediante mutagenesi sito-specifica in modo da confermare il ruolo funzionale delle alterazioni da queste indotte sul TRβ. Gli esperimenti di espressione in vitro delle proteine recettoriali mutate (le metodiche utilizzate sono descritte più MATERIALI l’inequivocabile E dettagliatamente METODI) ruolo nella sezione hanno funzionale delle dimostrato mutazioni trovate. Infatti in tutti e tre i casi le mutazioni L346V, 69 G251E, e S314C producono una chiara riduzione dell’affinità di legame alla T3 dei recettori e di conseguenza riducono l’effetto degli ormoni tiroidei sui geni bersaglio. La RTH è una malattia ereditaria trasmessa in maniera autosomica dominante e soltanto nel 18% dei casi descritti sembra essere sporadica. A differenza di altre malattie della tiroide, la RTH si distribuisce uniformemente tra i due sessi. La distribuzione geografica della malattia non è nota, ma tra i soggetti affetti ci sono individui di varie nazionalità ed appartenenti a gruppi etnici diversi. La scoperta delle prime mutazioni del gene hTRβ in soggetti affetti da RTH, avvenne nel 1989, più di 20 anni dopo la descrizione della sindrome ad opera di S. Refetoff. A tutt’oggi sono state descritti circa 500 casi di RTH. La maggior parte delle mutazioni trovate mappa in aree calde (hot spots) localizzate negli esoni 9 e 10 del gene hTRβ che codificano per il dominio legante la T3. • Le mutazioni eterozigoti del gene hTRβ mostrano un effetto dominante negativo: i recettori TR mutati bloccano cioè l’attività delle isoforme α e β normali. Vari 70 i meccanismi proposti per spiegare tale effetto dominante negativo: • La formazione di dimeri inattivi dal punto di vista trascrizionale • La competizione degli omo- ed eterodimeri mutati per il legame al DNA • Il sequestro di quantità critiche di proteine accessorie o co-attivatori nucleari da parte dei recettori mutati. Le mutazioni del gene hTRβ determinano l’alterazione dell’affinità di legame per la T3 delle proteine recettoriali mutate, anche se non esiste una chiara correlazione tra questa alterazione e la severità del quadro clinico relativo. Nel caso della RTH non è infatti possibile stabilire una precisa correlazione tra genotipo e fenotipo e la variabilità fenotipica della sindrome è notevole. Nella RTH il grado di compensazione varia a livello dei diversi organi ed apparati e se la resistenza ipofisaria è dominante, il soggetto è ipertiroideo. In altri termini esiste uno spettro continuo del fenotipo dell’RTH da forme di resistenza esclusivamente ipofisaria a forme di resistenza generalizzata. Benché le manifestazioni cliniche siano eterogenee, il profilo biochimico è tipico ed inequivocabile in assenza 71 di una precedente tiroidectomia. La storia familiare, il dosaggio degli ormoni TSH, FT4, FT3, degli anticorpi antiitiroide, della TBG, della SHBG e della alfa subunità del TSH e una RMN ipofisaria, sono sufficienti ad escludere: • il morbo di Basedow; • anomalie delle proteine leganti la T3; • adenomi ipofisari TSH secernenti. Le caratteristiche biochimiche della RTH sono rappresentate da elevati livelli di TH circolanti, associati a TSH non soppresso. Fino a pochi anni fa non era possibile porre una diagnosi eziologica della sindrome. Al giorno d’oggi, grazie allo sviluppo delle tecniche del DNA ricombinante, è possibile trovare la causa di questa infrequente malattia ereditaria. In particolare queste tecniche consistono in: a) estrazione del DNA genomico b) amplificazione mediante PCR c) sequenziamento diretto enzimatico d) amplificazione allele-specifica e) mutagenesi sito-diretta f) trascrizione e traduzione in vitro 72 g) saggi di legame della T3 per lo studio dell’affinità recettoriale. L’individuazione dei difetti molecolari che stanno alla base della RTH hanno infine permesso di approfondire enormemente le conoscenze sul meccanismo di azione degli ormoni tiroidei. 6. CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE La sindrome della resistenza agli ormoni tiroidei è una patologia rara, ma l’interesse che suscita a livello scientifico è notevole: la RTH fornisce un valido modello per lo studio della fisiopatologia recettoriale ed in particolare per la comprensione del meccanismo d’azione dei TH. La notevole quantità di nuove informazioni che sono state accumulate negli ultimi 8 73 anni dimostra il forte interesse nei confronti della RTH sia da parte degli studiosi di base che da parte dei clinici. Nonostante i cospicui progressi nella fisiopatologia di questa sindrome, alcune importanti questioni rimangono ancora non risolte; la principale fra queste è l’incapacità di spiegare pienemente la variabilità fenotipica caratteristica della RTH a cui contribuisce la mancanza di marcatori tissutali dell’azione dei TH sufficientemente sensibili e specifici. E’ evidente che lo studio della sindrome non può prescindere dalla comprensione della normale funzione dei recettori TR, ma anche a questo proposito ci sono numerosi aspetti da chiarire: • Le diverse isoforme recettoriali hanno ruoli funzionali specifici? • Le diverse forme recettoriali monomerica, omodimerica, eterodimerica hanno tutte un ruolo funzionale? • Se così fosse, potrebbero le diverse forme recettoriali essere responsabili della variabilità della resistenza per i diversi geni bersaglio? In ogni caso i maggiori progressi verso la comprensione della malattia sono stati fatti grazie agli studi di biologia molecolare. Un obiettivo a lungo termine riguarda la 74 possibilità di sfruttare queste nuove conoscenze molecolari a scopo terapeutico. Sarebbe, a questo proposito, importante sapere quanto del fenotipo della RTH è stabilito durante le prime fasi dello sviluppo e quanto invece dopo la nascita, quando sarebbe più facile intervenire. Il modello dei topi transgenici, recentemente sviluppato in alcuni laboratori, potrà aiutare a chiarire i meccanismi molecolari della resistenza ai TH direttamente in vivo, rispetto agli esperimenti in vitro e potrà anche essere utile nello sviluppo di nuove terapie farmacologiche e genetiche applicabili alla RTH. BIBLIOGRAFIA 1) Albright F., Burnett C.H., Smith PH., Parson W: Pseudo-hypoparathyroidism – an example of SeabrightBantam syndrome. Endocrinology 1942; £0:922-92. 2) L.T.: Studies of sibship wit apparent hereditary resistance to the intracellular action of tyroid hormone. Refetoff S.,DeGrot L.J., Bernard B., DeWind Metabolism 1972; 21: 723-56. 3) Bernal J., Refetoff S., DeGroot L.J: Abnormalities of triiodothyronine binding to lymphocyte and fibroblast nuclei from a patient with peripheral resistance to yhyroid hormone action. J. Clin. 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MATERIALI METODI………….………………………….38 E 3.1 PAZIENTI ANALIZZATI…………………………………………38 3.2 METODICHE 87 IN VITRO……………………………………………39 3.2.1 Estrazione del DNA da leucociti si sangue periferico………….39 3.2.2 Amplificazione in vitro del DNA mediante PCR……………….42 3.2.3 Purificazione dei amplificazione…………………….44 prodotti 3.2.4 Analisi della nucleotidica………………………………46 di sequenza 3.2.5 Indagini di paternità………………………………………………..51 3.2.6 Amplificazione specifica……………………………………51 3.2.7 Mutagenesi ……………………………………………52 3.2.8 Saggi di legame T3…………………………………………….54 allele sito-diretta alla 4. RISULTATI………………………………………………… …56 88 4.1 INDAGINI GENETICHE E FUNZIONALIIN TRE FAMIGLIE IN CUI SONO STATE INDIVIDUATE TRE NUOVE MUTAZIONI………………………………………………… …………56 4.1.1 Pedigree……………………………………………………… …….56 4.1.2 Indagini biochimiche……………………………………………..57 4.1.3 Ricerca della mutazione hTRβ……………………….58 nel gene 4.1.4 Studio della distribuzione funzionale della mutazione mediante amplificazione allele spacifica…………………………………………59 4.1.5 Saggi di legame T3…………………………………………...59 alla 4.1.6 Studi di paternità…………………………………………………..61 5. DISCUSSIONE……………………………………………… ..62 89 6. CONCLUSIONI FUTURE……………..68 E 90 PROSPETTIVE