“CLASSICO MANIFESTO” / S’inaugura oggi la mostra alla Triennale di Milano Il mito di Venere si agita in uno spot L’antichità rivive nella pubblicità: un gioco infinito di PATRIZIA CALEFATO Nel 1981 Italo Calvino dava alla domanda “Perché leggere i classici?” quattordici risposte che erano in realtà quattordici definizioni tra loro complementari di cosa si possa intendere per “classico”. Quel testo di Calvino dà l’idea della complessità che la risposta a una simile domanda comporta, ed è oggi a sua volta divenuto “un classico”, cioè, per usare una di quelle definizioni, un testo di cui “si sente dire di solito Sto rileggendo….e mai Sto leggendo…”. Tra le definizioni che lo scrittore italiano dà di “classico”, alcune lasciano intendere che questo termine non abbia solamente a che vedere con dei libri, ma anche con figure dell’immaginario, con visioni, con motivi e forme che vivono nel tessuto culturale attraverso i tempi e le generazioni. Essi si “nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da incoscio collettivo o individuale” e “ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato(o semplicemente nel linguaggio o nel costume)”. A partire da questa idea della traccia nella memoria che il classico rappresenta, si rende allora possibile guardare alle forme contemporanee della comunicazione scorgendo a volte in essa la presenza possibiledi pezzi di classicità. Questa prospettiva ha animato i curatori della mostra Classico manifesto, che si apre oggi presso la Triennale di Milano:quante tracce del classico sono presenti oggi nella comunicazione pubblicitaria? Il David di Michelangelo che indossa i jeans; la Gioconda presentata con i capelli lisci o frisèe; la Venere di Milo che fa da testimonial per svariate campagne, tra cui una birra e una pubblicità-progresso a favore dei disabili; il gruppo del Lacoonte che ispira una pubblicità di profumi:si tratta di banalizzazioni e desacralizzazioni di modelli intoccabili o piuttosto di forme attraverso cui il classico rivive e si rimette in continuazione continuamente attraverso mezzi diversi di comunicazione? La mostra – coordinata tra gli altri da Monica Centenni, classicista allo Iuav di Venezia, e Fausto Colombo, sociologo dei mass media alla Cattolica di Milano – opta per la seconda ipotesi. La pubblicità non è, a parere dei curatori, semplicemente il modo attraverso cui si esercita l’arte della persuasione, più o meno occulta;essa costituisce un elemento culturale importante, e dunque non v’è alcuno “scandalo” nell’uso che molto spesso essa fa dei modelli artistici o di motivi culturali “alti”. Anzi, questi modelli divengono citazioni nel senso etimologico della parola che è, come scrive Maria Rosaria Dagostino nel suo saggio contenuto nel catalogo della mostra, “messa in movimento” di miti, simboli e immagini che costituiscono il patrimonio culturale condiviso. Ecco allora che una pubblicità di moda sulla quale si sofferma Monica Centenni può fare ricorso al modello della Afrodite accovacciata, una scultura perduta realizzata nel III secolo a.C. per Nicomede II di Bitinia di cui ci sono giunte diverse copie dall’epoca romana fino al Rinascimento. Ecco che in una pubblicità automobilistica che associa la vettura a una museruola, la studiosa Federica Pellati ritrova la citazione dell’emblema di Francesco II Gonzaga (1498 circa)che evoca la forza domata tenuta sotto controllo Un’altra auto si ispira invece all’Odissea, mentre una catena di supermercati celebra artisti del passato e personaggi storici giocando sui nomi propri, come Ravanello Sanzio o Piero della Franpesca. La presenza del classico può avvenire attraverso icone della cultura classica – antiche, rinascimentali o moderne – che vengono usate come testimonial di eccezione in forza della loro auctoritas. Possono essereutilizzati “pseudoclassici”, come nel caso di una pubblicità degli anni ’70 che cita la Creazione di Adamo di Michelangelo, in cui Dio passa all’Uomo un paio di jean. Può anche trattarsi di semplici allusioni, come quella in cui un giornale arrotolato ricrea l’immagine del Colosseo per fare pubblicità al più noto quotidiano sportivo italiano. Il classico può rivivere “à la maniere de”, come quando il dipinto di Manet Un bar aux Folies-Bergères fornisce l’ambientazione alla pubblicità di uno storico aperitivo italiano. Può trattarsi infine di archetipi della memoria collettiva, come nel caso della figura della canefora del repertorio classico e della portatrice di acqua del repertorio folklorico che si traducono nelle forme di una modella che porta la bottiglia di un celebre profumo. Il rapporto tra classicità e discorso pubblicitario è anche un gioco all’infinito, dal momento che celebri pubblicità divengono esse stesse dei classici, sia quando sono state create da artisti importanti e d’avanguardia – vedi l’opera di Depero per Campari negli anni ’20 del Novecento – sia quando restano come modelli a loro volta citati. Certo, in questo gioco sussiste il pericolo di confondere tempi e memorie, di pensare, come spesso accade nella postmodernità, che non ci sia un passato dietro la cattiva attualità in cui siamo coinvolti. E’ importante allora ricordare sempre altre due delle definizioni di Calvino che riguardano il classico e la sua capacità di intervenire attivamente, anche criticamente, nel presente: “è classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno”. E ancora:”è classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”. E questo è senz’altro il messaggio di questa bella mostra milanese. (Gazzetta del Mezzogiorno del 12 febbraio 2008)