LA TUTELA PENALE DELLA PERSONA NELLE RELAZIONI

AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 LA TUTELA PENALE DELLA PERSONA NELLE RELAZIONI AFFETTIVE ED IL CONCETTO DI FAMIGLIA NEL DIRITTO PENALE Paolo Pittaro
Professore di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trieste
Sommario: 1. Premessa. – 2. Le circostanze aggravanti comuni. – 3. Le fattispecie specifiche e le circostanze aggravanti speciali nei delitti contro la persona. – 4. Il delitto di atti persecutori. – 5. La non punibilità nei delitti contro il patrimonio ... – 6. ... e contro l’amministrazione della giustizia. – 7. I delitti contro la famiglia. – 8. Famiglia legittima e famiglia di fatto. – 9. Conclusioni.
1. Premessa Accostare il diritto penale alle relazioni affettive ed allo stesso concetto di famiglia 1 si presenta
come un’operazione psicologicamente ruvida, posto che una dimensione intima, di per sé positiva ed appagante, viene quasi ad inquinarsi nel contatto con il mondo dell’illecito e delle sanzioni criminali: il che sta a significare che la sfera dei sentimenti potrebbe venir violata, una sorta d’incantesimo essere frantumato ed un ideale messo a contatto con la dura realtà.
Invero, questo è il destino stesso del giure penale, che certo non avrebbe ragione d’esistere se le
norme, morali prima ancora che giuridiche, non venissero infrante, se nello stesso essere umano non albergasse la figura di Caino assieme a quella di Abele. Ma, tant’è, questa è la grandezza
e la drammaticità dell’uomo, lo scotto che paga per la sua libertà di scegliere i propri comportamenti e, di conseguenza, di portarne la responsabilità. E questo vale anche per il settore oggetto della nostra riflessione, per quanto spiacevole possa essere.
Si tratta, dunque, di chiedersi in quale modo il sistema penale possa intervenire a tutela di una
relazione interpersonale guidata dall’affectio, sia essa consacrata o meno nel contesto istituzionale del consorzio familiare.
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Sul tema, nell’ambito dell’ampia letteratura esistente, cfr., indicativamente, di recente, e per tutti, A. CADOPPI (a cura di), I
reati contro la famiglia, Utet, Torino, 2006; S. RIONDATO (a cura di), Diritto penale della famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, a cura di P. Zatti, vol. IV, II ed., Giuffrè, Milano, 2011; A. SPENA, I reati contro la famiglia, vol. XIII, in Trattato di diritto penale, diretto da C.F. Grosso-T. Padovani-A. Pagliaro, Giuffrè, Milano, 2012, nonché la vasta bibliografia ivi riportata.
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FOCUS 2. Le circostanze aggravanti comuni Il primo piano di lettura muove dal rilievo che il rapporto affettivo può, in un certo qual senso,
rendere più agevole la commissione di un reato, posto che il sentimento esistente fra le parti rende
una di queste più debole, facilitando la commissione dell’illecito a suo danno da parte dell’altra.
Il legislatore ha previsto tale eventualità disponendo, all’art. 61, n. 11, c.p., una circostanza aggravante comune (cioè valida per tutti i reati, con un aumento della pena base sino ad un terzo), e di ampia portata, che si applica per «l’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione, o
di ospitalità». Ovviamente, per abuso di autorità si intende l’autorità privata (l’abuso di autorità pubblica è previsto nel n. 9 dello stesso art. 61), quale, ad esempio, quella genitoriale.
La ratio di tale aggravante comune poggia sul concetto di abuso, nel senso che trattasi di un
“abuso di fiducia”, di quella fiducia sorta pressoché spontaneamente nel costante, quotidiano
svolgersi delle relazioni interpersonali citate. In altri termini, si è approfittato di chi si fidava,
che aveva abbassato la guardia, se mai l’aveva alzata.
Non diverso il discorso per le aggravanti comuni riferibili al reato plurisoggettivo, anche se le
disposizioni presentano un quadro più complesso. In rapida sintesi, si tratti di determinazione
od istigazione di persona non imputabile (art. 111), ovvero di determinazione od istigazione di
un minore o di un imputabile menomato (art. 112, 1° comma, n. 4), non solo vengono previste
delle aggravanti per il determinatore o l’istigatore (artt. 111, 1° comma e 112, 1° comma, n. 4),
ma in tutte le ipotesi viene stabilito un ulteriore aggravamento se si tratta del genitore esercente
la potestà (art. 111, 2° comma; art. 112, 3° comma).
Anche in queste ipotesi la ratio della norma è individuabile con chiarezza. Il delitto, infatti, è
valutato più gravemente nei confronti di colui che eserciti una pressione psicologica a delinquere nei confronti di soggetti che, per le loro condizioni psico-fisiche, presentino una minorata capacità a resistere a tali pressioni. Parimenti, il delitto viene vieppiù aggravato se tale soggetto è proprio il genitore esercente la potestà, che strumentalizza la prole, abusando della sua posizione di supremazia e di relazione affettiva, per farle commettere un reato.
Un ultimo inciso. L’art. 69, 4° comma c.p. (come sostituito dall’art. 3 della l. 5 dicembre 2005,
n. 251: c.d. ex Cirielli), in deroga al previsto giudizio di bilanciamento delle circostanze, prevede un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti
proprio nelle ipotesi di cui agli artt. 111 e 112, 1° comma, n. 4, c.p.
3. Le fattispecie specifiche e le circostanze aggravanti speciali nei delitti contro la persona Il secondo piano di lettura contempla specifici delitti, non necessariamente intrafamiliari, ma
che possono essere compiuti in tale contesto. In questa ipotesi sono previste fattispecie incriminatrici specifiche ovvero circostanze aggravanti, ovviamente speciali ovvero autonome, in
quanto connesse solamente a tali reati. Alludiamo, in particolare, ai delitti contro la persona
(Titolo XII) previsti dal codice penale.
Nell’ambito del delitti contro la persona viene subito in esame il delitto di omicidio (art. 575
c.p.). Ebbene, l’art. 577 afferma, al 1° comma, che «si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto dall’art. 575 è commesso: 1) contro l’ascendente o il discendente [...]», mentre il 2° comma dispone altresì, che «la pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in
linea retta».
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 Poiché la norma citata si riferisce a “ascendenti” e “discendenti”, è necessario richiamare l’art.
540 c.p., il quale afferma che «agli effetti della legge penale, quando il rapporto di parentela è considerato come elemento costitutivo o come circostanza aggravante o attenuante o come causa di non
punibilità, la filiazione illegittima è equiparata alla filiazione legittima». Si tratta di un’importante
disposizione che, per quanto contenuta nella parte speciale del codice, ha una portata generale,
poiché inizia con l’inciso «agli effetti della legge penale».
Il 2° comma dell’art. 577 allarga l’ipotesi dell’omicidio aggravato ad altri membri della famiglia,
giungendo ad includere pure gli affini in linea retta. A tale proposito è necessario richiamare
un’altra norma del codice penale, l’art. 307, 4° comma, il quale afferma che «agli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti; nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole».
Peraltro, l’art. 585 dispone che le aggravanti inerenti ai rapporti familiari evidenziate per l’omicidio valgono, seppur nei limiti ivi previsti, anche per i delitti di lesioni (artt. 592 e 593) e per
l’omicidio preterintenzionale (art. 584). Si noti, invece, come esse siano escluse per il delitto di
percosse (art. 581), che non viene aggravato se commesso nel contesto intrafamiliare.
Sempre nell’ambito dei delitti contro la persona particolare interesse presenta il delitto di «abbandono di persone minori o incapaci» disciplinato dall’art. 591 c.p., ove il 4° comma dispone
che «le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge,
ovvero dall’adottante o dall’adottato»: superfluo sottolineare che trattasi di un delitto contro l’incolumità individuale, in quanto commesso nei confronti di un soggetto che non ha la capacità
di provvedere a se stesso.
Peraltro, dei delitti contro la persona fanno parte anche quelli contro la libertà personale (disciplinati dalla Sezione II), fra i quali spicca il sequestro di persona, ove il 2° comma dell’art.
605 c.p. prevede, una particolare aggravante speciale, «se il fatto è commesso: 1) in danno di un
ascendente, di un discendente o del coniuge [...]».
Nella citata Sezione poi, com’è noto, sono state inserite le nuove fattispecie dei reati sessuali.
Così l’art. 609 bis c.p. prevede il reato di “violenza sessuale”. Tra le circostanze aggravanti, di
cui all’art. 609 ter, il n. 5 prevede il fatto commesso «nei confronti di persona che non ha compiuto
gli anni sedici della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore».
L’art. 609 quater prevede, invece, gli “atti sessuali con minorenne”. Ai sensi del 1° comma, n. 2
(come sostituito dall’art. 6, 1° comma, l. 6 febbraio 2006, n. 38) soggiace alla pena stabilita
dall’art. 609 bis chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali
con persona che «non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore,
anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una
relazione di convivenza».
Parimenti il capoverso del medesimo articolo stabilisce che, «al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 609-bis, l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, o il tutore che, con l’abuso dei poteri connessi alla sua posizione, compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli
anni sedici», è comunque punito con la reclusione, sia pure di minor durata.
Ed ancora, l’art. 609 septies, dispone che tutti questi delitti sono punibili a querela della persona
offesa, il cui termine di proposizione viene elevato a sei mesi: querela che, una volta presentata,
diviene irrevocabile. A sua volta, il 4° comma stabilisce che «si procede tuttavia d’ufficio: [...] 2)
se il fatto è commesso dall’ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore
ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di
vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza».
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FOCUS L’art. 609 octies, che prevede la “violenza sessuale di gruppo”, stabilisce, al 3° comma, che «la pena è aumentata se concorre taluna delle citate circostanze aggravanti previste dall’art. 609-ter». Il 4°
comma dell’art. 609 octies prevede, invece, una diminuzione di pena (fino ad un terzo: art. 64
c.p.) «per chi sia stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni stabilite dai
numeri 3) e 4) del primo comma e dal terzo comma dell’art. 112»: le fattispecie già delineate, supra.
Infine, a chiusura delle disposizioni sui delitti sessuali, l’art. 609 nonies dispone che «la condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura
penale per alcuno dei delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e
609-octies comporta: 1) la perdita della potestà del genitore, quando la qualità di genitore è elemento costitutivo o circostanza aggravante del reato; 2) l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela ed alla curatela; 3) la perdita del diritto agli alimenti e l’esclusione dalla successione
della persona offesa». La prima ipotesi è una classica pena accessoria, mentre le ultime due sono
effetti penali della condanna.
4. Il delitto di atti persecutori Inerente al tema in oggetto appare l’art. 612 bis c.p., rubricato “Atti persecutori” (introdotto
dall’art. 7 del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito nella l. 23 aprile 2009, n. 38, ed inserito nel
codice fra i delitti contro la persona e, più precisamente, contro la libertà morale) 2, il quale punisce, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta
taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un
fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da
relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie scelte o abitudini di vita».
A tale proposito, se per prossimo congiunto devono intendersi le figure già individuate dal citato art. 307, 4° comma, c.p., deve sottolinearsi che la relazione affettiva non implica la convivenza e come essa non possa confondersi con la relazione sessuale, e che essa possa essere non necessariamente amorosa, ed indifferentemente se fra persone dello stesso o di diverso sesso e, in
ogni caso, non di poco conto ma ben apprezzabile.
Peraltro, ai sensi del 2° comma dell’art. 612 bis c.p., «la pena è aumentata se il fatto è commesso
dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva
alla persona offesa»: trattasi dell’ipotesi – quanto mai frequente nella realtà – del soggetto che
non accetta la fine del rapporto sentimentale, sia esso sancito matrimonialmente o meno, e
continua a perseguitare l’ex partner, al fine di ricucire o re-instaurare il rapporto stesso o come
ritorsione per la decisione da questi presa.
Si noti che, mentre nel caso della relazione affettiva, questa dev’essere cessata, il fallimento del
matrimonio dev’essere giuridicamente sancito dalla pronuncia di divorzio ovvero di separazione legale: non appare ammissibile, pertanto, la mera separazione di fatto.
5. La non punibilità nei delitti contro il patrimonio ... Nei delitti contro il patrimonio viene in rilievo un’unica previsione, l’art. 649, che, quale vera e
propria norma di chiusura, si pone alla fine di tale categoria di reati quale “disposizione comune”
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Su tale fattispecie cfr., volendo, P. PITTARO, La disciplina penale dello stalking, in Studi in onore di Mario Pisani, vol. III, La
Tribuna, Piacenza, 2010, p. 499 ss.
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 a tutti, e di particolare rilievo: «Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente separato; 2) di un ascendente o discendente o di un
affine in linea retta, ovvero dell’adottante o dell’adottato; 3) di un fratello o di una sorella che con lui
convivano. / I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa, se commessi a danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano con
l’autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con lui conviventi. / Le
disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli articoli 628, 629 e 630 [rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione] e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone».
Come mai, dunque, questo favor nei confronti di determinati delitti intra-familiari, favor tanto
più accentuato quanto più stretto è il vincolo familiare? La ratio è di origine antica, e si identifica non nella indifferenza, da parte dello Stato, riguardo ai rapporti intrafamiliari con riflessi patrimoniali, bensì in una vera e propria “tutela del patrimonio familiare”, nel senso che esso deve
conservare la propria integrità e non deve venir disperso. Donde la mancata punibilità se il patrimonio rimane nell’ambito della famiglia, dati gli stretti vincoli che legano il soggetto attivo e
quello passivo del reato. Donde una tutela minore, rappresentata dalla punibilità a querela di
parte, se si rimane nel contesto familiare, ma i relativi vincoli sono meno stretti. Infine, una assenza di tutela, se il reato è caratterizzato da forme di violenza, che ovviamente prevalgono
sull’esigenza della conservazione del patrimonio nel seno della famiglia.
Lo schema è esattamente l’inverso di quello vigente per i delitti contro la persona, specie quelli
a matrice sessuale: ivi quanto più il vincolo familiare è stretto, tanto più grave è il reato; ove esso si allenta, il delitto diviene perseguibile a querela di parte. Nei delitti contro il patrimonio,
invece, il vincolo familiare può perfino condurre alla non punibilità ovvero, se meno intenso,
alla perseguibilità a querela di parte.
6. ... e contro l’amministrazione della giustizia Per altro verso, l’art. 384, 1° comma, c.p. dispone che «Nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363,
364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto
per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave
e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore».
Siamo nell’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, quali omessa denuncia da
parte del pubblico ufficiale, dell’incaricato di pubblico servizio ovvero del cittadino, omissione
di referto, rifiuto di uffici legalmente dovuti, autocalunnia, false informazioni al pubblico ministero ovvero al difensore, falsa perizia o interpretazione e, in particolare, i reati di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) e di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.).
Il preciso richiamo al “prossimo congiunto” rinvia alla definizione di cui citato art. 307, 4°
comma, c.p., e la prevista causa di non punibilità effettua un giudizio di comparazione valoriale,
ritenendo l’affectio che conduce alla necessità di salvare costui da quel grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore come prevalente rispetto ad una primaria funzione dello Stato, quale il rendere giustizia.
7. I delitti contro la famiglia Si è così giunti al terzo piano di lettura. Il Titolo XI del Libro II del Codice, dedicato, per l’appunto, ai “Delitti contro la famiglia”, è diviso in quattro Capi. Trascuriamo, in questa sede, i primi
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FOCUS tre, disciplinanti i delitti, rispettivamente, contro il matrimonio, contro la morale familiare e contro lo stato di famiglia, per accentrare l’attenzione sul quarto, che contempla i “delitti contro
l’assistenza familiare”, anche se, a ben vedere, la stessa rubrica del Capo non appare del tutto corretta, posto che, dei sei delitti previsti, solo il primo appare ad essa direttamente riconducibile.
Alludiamo all’art. 570 c.p., dedicato alla “Violazione degli obblighi di assistenza familiare”, il
quale prevede, schematicamente, tre ipotesi criminose. Il 1° comma punisce la violazione degli
obblighi di “assistenza morale”, mentre il successivo 2° comma contempla la violazione degli
obblighi di “assistenza materiale”, distinta in due diverse fattispecie. Sottolineiamo, della prima
fattispecie, l’inciso «comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie»: non a caso si è sostenuto, ed a ragione, che la norma non è sufficientemente determinata e che, pertanto, potrebbe presentare profili di illegittimità costituzionale (in relazione
all’art. 25, 2° comma, Cost.). In tale dizione la Suprema Corte include tutti quei fatti moralmente illeciti che non costituiscono (o non costituiscono più) reato: ad esempio, l’incesto senza pubblico scandalo, l’adulterio o il concubinato. D’altra parte, si deve sottolineare che il punto non sta nel comprendere quale sia la condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie tout court intesa, bensì quella condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie attraverso la quale il soggetto si sottrae agli obblighi di assistenza inerente alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge: i classici esempi sono quello del genitore che non presti la propria
opera per l’educazione del figlio, o se ne disinteressi completamente, ovvero quello del genitore che aizzi la prole contro l’altro coniuge, e via dicendo.
I due successivi delitti sono in stretta connessione fra loro. L’art. 571 c.p. (“Abuso dei mezzi di
correzione o di disciplina”) punisce «chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in
danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte», mentre,
l’art. 572 c.p. (“Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) punisce, a sua volta, «chiunque,
fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte».
Infine, l’art. 573 c.p. (“Sottrazione consensuale di minorenni”) prevede la sanzione criminale
per «chiunque sottrae un minorenne, che abbia compiuto gli anni quattordici, col consenso di esso, al
genitore esercente la potestà dei genitori o al tutore, ovvero lo ritiene contro la volontà del medesimo
genitore o tutore», mentre l’art. 574 c.p. (“Sottrazione di persone incapaci”) viene a punire
«chiunque sottrae un minore degli anni quattordici, o un infermo di mente, al genitore esercente la
potestà dei genitori, al tutore o al curatore, o a chi ne abbia la vigilanza o la custodia, ovvero lo ritiene contro la volontà dei medesimi».
Nel primo delitto il minore è consenziente; nel secondo non può nemmeno dare il consenso,
in quanto incapace. Non sono delitti necessariamente intrafamiliari, ma li ricordiamo in questa
sede, in quanto la cronaca recente ci offerto esempi di un genitore divorziato o separato non
affidatario del figlio minore che, invece, lo sottrae, con o senza il consenso di questi, alla potestà
dell’altro coniuge, cui il tribunale l’aveva affidato.
A tale proposito l’art. 574 bis c.p., come inserito dall’art. 3, 29° comma, lett. b), l. 15 luglio 2009, n.
94, ha introdotto il delitto di “Sottrazione e trattenimento di minore all’estero”, in forza del quale
viene punito, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque sottrae un minore al genitore esercente la potestà dei genitori o al tutore, conducendolo o trattenendolo all’estero contro la volontà del medesimo genitore o tutore, impedendo in tutto o in parte allo stesso l’esercizio della potestà genitoriale».
La pena è minore «se il fatto è commesso nei confronti di un minore che abbia compiuto gli anni quattordici e con il suo consenso», mentre, comunque, se tali fatti «sono commessi da un genitore in danno
del figlio minore, la condanna comporta la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori».
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 8. Famiglia legittima e famiglia di fatto A questo punto ci si può chiedere se le varie fattispecie evidenziate siano riconducibili solo nel
contesto della famiglia legittima ovvero anche in quella di fatto, ossia, in altri termini, se le relazioni affettive siano rilevanti solo in nell’ambito di tale istituto come giuridicamente definito 3.
A tale proposito si impongono alcune precisazioni.
Non v’è dubbio che il legislatore del 1930, specie in un’atmosfera politicamente autoritaria,
avesse della famiglia il concetto proprio dello stato etico, intesa come il tassello fondamentale
dell’ordinamento, strutturata gerarchicamente nella sottomissione al marito/genitore da parte
della moglie e dei figli. Così come è ben palese che la riforma del diritto di famiglia, attuata dalla l. n. 151/1975, abbia mutato radicalmente tale impostazione, al punto stesso che, a tacer
d’altro, la stessa potestà genitoriale viene ora vista non più come un potere (dal quale si può essere privati, ad esempio, come sanzione accessoria), ma come un doveroso supporto in funzione dello sviluppo del minore.
Peraltro, la stessa Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che è ben vero che l’art. 29
riconosce la famiglia come una società naturale caratterizzata dalla stabilità perché fondata sul
matrimonio, ma è anche vero che una famiglia c.d. di fatto, che poggia solo sulla buona volontà
dei conviventi, trova comunque riconoscimento nel contesto dei diritti dell’uomo che l’art. 2
riconosce in ogni formazione sociale 4.
D’altra parte, il legislatore stesso ha congegnato alcune fattispecie a tutela del soggetto debole (si
pensi alle citate aggravanti comuni ovvero agli artt. 571 e 572 c.p.), ove la prevaricazione può essere esercitata non solo nell’ambito della famiglia istituzionale, ma anche nel contesto lavorativo, di
relazioni d’ufficio, di ospitalità, di coabitazione, ovvero di istruzione, di vigilanza o di custodia.
Non a caso, pertanto, la stessa giurisprudenza è oramai orientata ad affermare che, ad esempio
in tema di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., deve considerarsi come famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di
assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione 5. Ne consegue
che il delitto si consuma anche tra persone legate soltanto da un puro rapporto di fatto, che, per
le intime relazioni e consuetudini di vita correnti tra le stesse, presenti somiglianza ed analogia
con quello proprio delle relazioni coniugali 6.
Il tema, tuttavia, è particolarmente delicato, non tanto e non solo per questioni etiche od assiologiche, ma per il fatto che ci stiamo muovendo sul terreno del diritto penale, non solo caratterizzato dai fondamentali princìpi di tipicità, tassatività e determinatezza, ma ove, proprio in
funzione della fondamentale ratio di garanzia, vige il divieto dell’analogia in malam partem, sancito all’art. 25, 2° comma, Cost., dall’art. 1 c.p. e dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al c.c.
Se, dunque il sistema penale, come si è visto supra, restringe alla definizione dei prossimi congiunti di cui all’art. 307 c.p. alcune fattispecie penali ovvero circostanze aggravanti, non è lecito
estendere tale concetto ad altri soggetti. Né tale operazione sarebbe possibile alla Corte costituzionale, anche se ritenesse violato in tale discriminazione il principio di uguaglianza, in quanto una sentenza in tal senso, necessariamente additiva, verrebbe a creare una norma penale incriminatrice: operazione ed essa inibita.
3
Sul tema ci permettiamo rinviare al quadro giurisprudenziale posto da P. PITTARO, Il (controverso) rilievo giuridico della
famiglia di fatto nel diritto penale, in Famiglia e diritto, 2010, p. 933 ss.
4
Cfr., ad esempio, Corte cost., sent. 18 novembre 1986, n. 237, in Foro it., 1987, I, c. 2353 ss.; Corte cost. 18 gennaio 1996,
n. 8, in Giur. cost., 1986, p. 81 ss.
5
Cass. pen., Sez. III, 19 gennaio 2010, B.S., n. 9242, in Dir. giust., 2010.
6
Cass. pen., Sez. II, 2 ottobre 2009, T.L., n. 40727, in Dir. giust., 2009.
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FOCUS Bisogna, tuttavia, anche rimarcare che il legislatore, per quanto solo di recente, ha preso contezza di tale problema, innovando le fattispecie aggravate dei reati sessuali, includendo nel novero dei soggetti attivi, accanto al genitore o al tutore, pure il convivente.
Diversa potrebbe essere la soluzione in riferimento alle previsioni di non punibilità previste per i
prossimi congiunti nel reati contro il patrimonio ovvero contro l’amministrazione della giustizia,
ove l’estensione al soggetto legato da convivenza o dall’affectio si risolverebbe in bonam partem e
non contra reum. Tuttavia, non solo la giurisprudenza di legittimità si è dimostrata, a tale proposito, nettamente contraria, richiamandosi al princìpio di stretta legalità, ma la stessa Corte costituzionale, ripetutamente, ha affermato, da un lato, che una equiparazione di tale genere si estenderebbe a molte altre ipotesi del sistema penale, anche in malam partem, con evidente vulnus di altre
disposizioni costituzionali e, dall’altro lato, che si tratterebbe comunque di una decisione additiva, poiché, n effetti, le cause di non punibilità costituiscono altrettante deroghe a norme penali
generali: il che comporta un giudizio di ponderazione volta a soluzioni che giocano fra ragioni diverse e confliggenti (quelle a favore della norma generale e quella a favore della norma derogatoria): giudizio che deve riconoscersi appartenere primariamente al potere legislativo 7.
La questione era stata posta soprattutto in riferimento ai delitti contro l’amministrazione della
giustizia, ove nel reato di favoreggiamento personale il convivente non può usufruire della causa
di non punibilità che l’art. 384, 1° comma, c.p. riserva ai soli prossimi congiunti, mentre l’art. 199
del nuovo codice di procedura penale estende la facoltà di astensione dalla testimonianza ai prossimi congiunti precisando che tale disposizione si applica pure «a chi, pur non essendo coniuge
dell’imputato, come tale conviva od abbia convissuto con esso», e limitatamente ai fatti verificatisi o
appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale. Come dire che, interrogato dal giudice o
dal pubblico ministero, il convivente può astenersi dalla testimonianza o dal fornire informazioni,
mentre se interrogato, sul medesimo fatto, dalla polizia giudiziaria può incorrere nel reato di favoreggiamento personale, non potendo invocare la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p.
9. Conclusioni Queste scarne notazioni ci conducono ad un rilievo conclusivo, tale da stimolare la riflessione.
Nel diritto penale vige il principio di “frammentarietà”. E la frammentarietà si oppone alla
“completezza”. In altri termini: non tutti i comportamenti umani illeciti devono essere puniti
penalmente: sarebbe impossibile e porterebbe ad un controllo sociale esasperato. Bisogna, pertanto, scegliere i beni da proteggere e le modalità di lesione da ritenere penalmente rilevanti.
Da quanto esposto, sia pur schematicamente, sembra, invece, che il legislatore abbia finora seguito la via della “frammentazione”. Non sembri un gioco di parole: la frammentazione si oppone all’“unitarietà”, così come la frammentarietà si oppone alla completezza. L’equivoco,
dunque, non è linguistico, ma si annida nella prassi, nella tecnica legislativa: la frammentazione,
consistendo nella mancanza di unitarietà, potrebbe portare all’incoerenza ed all’irrazionalità.
In definitiva, spetta al legislatore, specie in una sempre auspicata riforma del codice penale,
identificare, in modo coerente, razionale ed esaustivo, la portata penalistica sia del valore “famiglia” sia delle relazioni affettive: senza freni reazionari, autoritari, antiquati, da un lato; ma
anche senza fughe in avanti poco meditate, dall’altro lato.
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Corte cost. 20 aprile 2004, n. 121, in Famiglia e diritto, 2004, p. 329 ss., nonché, da ultimo, Corte cost. 8 maggio 2009, n.
140, in Giur. cost., 2009, p. 1513 ss.
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 LA TUTELA PENALE DEL MINORE VITTIMA DI REATO: PROFILI SISTEMATICI E SPUNTI CRITICI Lorenzo Picotti
Ordinario di Diritto penale e Diritto penale dell’Informatica, Facoltà di Giurisprudenza, Università
di Verona
Sommario: 1. Premessa: il “minore” di fronte al diritto penale. – 2. Il minore quale “soggetto” (passivo) titolare di
diritti inviolabili alla stregua delle fonti sovranazionali. – 3. “Meritevolezza” costituzionale e “bisogno” effettivo di tutela penale dei diritti e degli interessi dei minori. – 4. Profili sistematici: beni giuridici protetti e collocazione dei delitti
a danno dei minori nel codice penale. – 4.1. Delitti contro la vita. – 4.2. Delitti contro l’integrità fisica e psichica. – 4.3.
Delitti contro la libertà personale e di “sfruttamento” dei minori. – 4.4. Delitti contro la libertà ed integrità sessuali. –
4.5. Delitti contro la “morale familiare” e lo stato di famiglia. – 4.6. Delitti contro i diritti ed interessi patrimoniali od
economici dei minori, in specie contro il diritto al mantenimento. – 4.7. Delitti contro altri provvedimenti giudiziari a
tutela dei minori, in specie la violazione delle misure contro la violenza nelle relazioni familiari. – 5. Conclusioni.
1. Premessa: il “minore” di fronte al diritto penale La trattazione del tema, assai ampio ed articolato, concernente la tutela penale del minore “vittima” di reato deve muovere da una premessa, che ne consideri la posizione più generale nel
nostro ordinamento positivo.
Ed al riguardo va sottolineato che l’interesse del diritto penale per i minori è ancora prevalentemente centrato sulla sua posizione di specifico “autore” di reati, in conformità ad una secolare
tradizione risalente alla seconda metà dell’Ottocento, allorché l’approccio criminologico ed
empirico della Scuola positiva fece emergere la necessità di non ignorare il problema della delinquenza minorile, per la pericolosità sociale che poteva dimostrare e per l’esigenza di un trattamento specifico ed individualizzato: per cui, andando al di là dell’“incapacità” giuridica dei
minori stessi ad essere considerati o meno penalmente responsabili di reati (secondo la concezione classica della Scuola di Francesco Carrara, ispiratrice del Codice penale Zanardelli del
1889, secondo cui la responsabilità penale avrebbe sempre presupposto un “libero arbitrio”
ben difficile da riconoscere in soggetti non ancora maturi), il sistema non doveva comunque
ignorarli, ma anzi stabilire speciali misure di difesa sociale e, nel contempo, “correzionali”, per
contrastarne il rischio di recidiva e per tendere alla loro (ri)educazione e (ri)socializzazione. A
tal fine si imponeva una previa differenziazione fra i diversi possibili “tipi” criminologici, cui
dovevano corrispondere altrettante tipologie di misure trattamentali. Un siffatto programma è
stato solo parzialmente attuato nella successiva legislazione ed, in particolare, è limitatamente
filtrato nel codice penale Rocco del 1930, in cui si è introdotta la distinzione fra minori non
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FOCUS imputabili (artt. 97 e 224 c.p.) ed imputabili (artt. 98 e 225 c.p.), non pericolosi e pericolosi (ex
artt. 203 e 204 c.p.), prevedendosi per questi ultimi specifiche “misure di sicurezza” sia detentive (quali i riformatori giudiziari, anche “speciali”: art. 223 e 227 c.p.), che non detentive (quale
la libertà vigilata ex art. 228, ult. comma, c.p.). Nel contempo, un’intera disciplina speciale, che
toccava il campo civile, amministrativo e penale, è stata introdotta con il r.d.l. 20 luglio 1934, n.
1404, istitutivo del Tribunale per i minori, che ancor oggi operano.
Benché tale impianto abbia subito negli anni numerose modifiche ed integrazioni, gli interventi
sono peraltro stati solo settoriali e contingenti, per cui l’adeguamento (invero non del tutto
compiuto) del diritto di famiglia e della filiazione ai nuovi valori e principi democratici affermati dalla Costituzione del 1947 ha trovato ben più scarno riscontro nell’ambito penale. A parte
l’abolizione delle misure “amministrative” (in specie delle “case di rieducazione”) ed alcuni importanti interventi della Corte costituzionale, che hanno spazzato via le presunzioni di pericolosità sociale, palesemente confliggenti con istanze di trattamento individualizzato, vi è stato solo
un importante riordino delle competenze penali, grazie all’introduzione della nuova disciplina
del processo penale minorile, di cui al d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448. Ma per il resto, l’impianto di diritto penale sostanziale, risalente al periodo fascista, tuttora resiste con immeritata fortuna, in assenza di un sistematico ed organico intervento riformatore, che in verità dovrebbe
toccare anche la materia penitenziaria, visto che è rimasta a tutt’oggi inadempiuta la promessa
contenuta nell’art. 79, l. 26 luglio 1975, n. 354, secondo cui le norme, da essa stabilite per gli
adulti, si sarebbero applicate «anche nei confronti dei minori degli anni diciotto sottoposti a misure
penali, fino a quando non sarà provveduto con apposita legge».
Non deve stupire, allora, che al minore “vittima” di reato, seppur meritevole e bisognoso di
adeguata e specifica tutela penale, il legislatore italiano abbia dedicato ancor minore attenzione.
Invero, si sono avute negli ultimi anni alcune riforme settoriali su tale versante, ma soprattutto
per l’input di fonti e prescrizioni sovranazionali, in assenza di un disegno riformatore sistematico e sorretto dalla necessaria volontà politica. Per cui il quadro che si cercherà ora di tratteggiare si presenta frammentario, incoerente e talora difficile da ricostruire.
2. Il minore quale “soggetto” (passivo) titolare di diritti inviolabili alla stregua delle fonti sovra‐
nazionali Sono state soprattutto le fonti e previsioni sovranazionali che hanno spinto il legislatore italiano, negli ultimi due decenni, ad intervenire con nuove o riformulate incriminazioni penali dirette ad assicurare o rafforzare la tutela penale del minore contro abusi e fatti lesivi, di cui molto
frequentemente è vittima silenziosa o rassegnata o, comunque, inascoltata.
Lo stesso riconoscimento della sua piena dignità e qualità di “uomo” (o “donna”) è implicitamente negata dalla concezione sottesa al termine “minore”, tuttora corrente – e resistente – nel
diritto italiano, che allude ad un soggetto non (ancora) completamente pari ad un “maggiorenne” (adulto).
Ma da tale pieno riconoscimento occorre invece muovere, per giungere ad un’effettiva protezione e garanzia dei suoi diritti fondamentali ed “inviolabili”, che per l’art. 2 Cost. appartengono ad ogni “persona” umana, come solennemente proclamato dalle Convenzioni internazionali, a partire dalla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948, che ne individua il
momento genetico nella stessa “nascita”.
Su tale base essenziale vanno poi sviluppati gli specifici strumenti di protezione dei minori, in
quanto soggetti in fase di crescita, evoluzione e maturazione, non ancora autosufficienti né ca13
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 paci di autonoma ed efficace difesa dei propri diritti, che sono perciò maggiormente esposti al
rischio di aggressioni e violazioni da parte sia di singoli che di organizzazioni criminali.
In questa sede basti richiamare la fondamentale “Convenzione sui diritti dei bambini” (o “fanciulli”: in inglese children, nozione comprendente, ex art. 1, «ogni essere umano avente un’età inferiore a diciotto anni»), promossa dalle Nazioni Unite e firmata a New York il 20 novembre
1989, che rende esplicito l’obbligo degli Stati aderenti di dare preminente considerazione, in
ogni decisione, all’«interesse superiore del fanciullo» (art. 3) ed impone loro di prendere ogni
«adeguata misura» e «provvedimento» (compresa, dunque, l’introduzione di apposite sanzioni
penali, pur se non espressamente menzionate) per «proteggere» i fanciulli (bambini, ragazzi,
giovani) dalla droga (art. 33), dallo sfruttamento e dalla violenza sessuali (art. 34), dal rapimento e dalla tratta (art. 35) e da «ogni altra forma di sfruttamento pregiudizievole al [loro] benessere (...) in ogni suo aspetto» (art. 36).
Innumerevoli altri atti e fonti sovranazionali hanno poi specificato e reso più stringenti, con riguardo a singoli settori ed aspetti, gli obblighi di protezione (anche) penale dei diritti ed interessi dei minori.
In particolare, la Convenzione di Lanzarote del 2007, promossa dal Consiglio d’Europa, riguarda
in modo sistematico ed organico la protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali a loro danno, mentre le decisioni quadro dell’Unione europea 2004/68/GAI, contro l’abuso
e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, e 2002/629/GAI, contro la tratta
di esseri umani, sono state recentemente sostituite, ampliate ed aggiornate dalle nuove direttive
2011/92/UE del 13 dicembre 201 contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, e 2011/36/UE del 5 aprile 2011 contro la tratta di esseri umani. Si tratta delle
prime direttive contenenti esplicite norme di armonizzazione dei reati e delle pene, dirette a conseguire una più forte cooperazione fra gli Stati membri, emanate sulla base delle nuove competenze attribuite all’Unione europea dall’art. 83, par. 1 dell’attuale Trattato sul suo funzionamento
(TFUE), come riformato dal Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
Come viene sottolineato nei “considerando” dell’ultima direttiva citata, esse si presentano fra
loro strettamente “complementari”, dato che molti minori sono vittime della tratta e, poi, vittime di abusi e sfruttamento sessuali. E la loro pressoché contestuale emanazione dimostra la
“priorità” che ha per l’Unione europea la lotta non solo contro la tratta, ma anche contro
l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, in conformità alle indicazioni del programma di Stoccolma – in cui sono state definite le linee portanti della politica
criminale dell’Unione europea in campo penale per il quinquennio 2010-2015 – al fine di assicurare il pieno riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali, quali sanciti dalla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione che nel
contempo ha conferito ad essa valore di Trattato.
Ebbene, l’art. 24, par. 2, di tale Carta prevede che in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi
compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’“interesse superiore” del minore deve
essere considerato preminente. E tale principio orienta il contenuto anche di un’altra direttiva,
proposta dalla Commissione europea con atto 18.5.2011 COM (2011) 275 def. ed attualmente in corso di approvazione, che dovrà sostituire la decisione quadro 2001/220/GAI relativa
alla posizione della vittima nel processo penale.
Riguardando più specificamente la disciplina processuale, la nuova direttiva si basa sull’art. 82,
par. 2 TFUE, che conferisce specifiche competenze all’Unione europea anche per quanto attiene alla posizione della vittima nel processo penale, per cui contiene un complesso di «norme
minime riguardanti i diritti, l’assistenza e la protezione delle vittime di reato». Nel suo ambito, una
particolare disciplina concerne la posizione del minore, considerato “vittima vulnerabile” sia
per le sue “condizioni personali”, sia in quanto sia vittima di violenza sessuale o di tratta (art.
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FOCUS 18, par. 1, lett. a) e par. 2, lett. a) e b). Conseguentemente, gli devono essere assicurati una speciale protezione, ex art. 17, e molteplici diritti ulteriori: in specie all’assenza di contatti con gli
autori dei reati (art. 19), alla protezione negli interrogatori durante le indagini (art. 20) e più in
generale nel corso di tutto il procedimento penale (art. 21), con peculiare riguardo alla posizione dei minori (art. 22), oltre che alla vita privata (art. 23).
3. “Meritevolezza” costituzionale e “bisogno” effettivo di tutela penale dei diritti e degli inte‐
ressi dei minori Il problema che concretamente si pone a livello degli ordinamenti nazionali, nel cui ambito soltanto possono trovare concreta attuazione le esigenze ed, anzi, i veri e propri obblighi di tutela
penale derivanti dalle menzionate fonti sovranazionali, è quello dell’effettiva “meritevolezza”
dei diritti e degli interessi dei minori, nonché “necessità” (o “bisogno”) di loro protezione attraverso sanzioni di natura penale, in conformità ai due parametri della Strafwürdigkeit e dello
Strafbedürfnis elaborati dalla dottrina tedesca per articolare i il giudizio di sussidiarietà penale.
Non si tratta soltanto, per il legislatore, di dare adeguata formulazione tecnica alle fattispecie
incriminatrici, in attuazione delle norme sovranazionali e nel rispetto dei principi di legalità e di
tassatività, ma anche di vagliarne il contenuto alla stregua delle esigenze sostanziali di offensività e di proporzionalità, che devono sempre porsi come “limiti”, nella scelta dello strumento penale, per un moderno Stato democratico di diritto, in quanto a sua volta fortemente incisivo sui
diritti delle persone cui si deve applicare.
Al riguardo, rifermenti importanti per la legittimazione costituzionale delle scelte legislative di penalizzazione in materia di protezione dei diritti e degli interessi dei minori possono rinvenirsi in
un complesso di norme, che oltre al menzionato art. 2 Cost. – aperto al pieno “riconoscimento”
e, dunque, alla “garanzia” e tutela “positiva” dei diritti inviolabili dell’uomo, quali affermati nelle
fonti e Convenzioni internazionali – deve includere l’art. 3, commi 1 e 2, Cost., secondo cui deve
essere garantita la “pari dignità sociale” ed eguaglianza (anche) dei minori, contro ogni discriminazione anche “di fatto”, essendo compito della Repubblica «rimuovere gli ostacoli» che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana»: compito che dunque si raccorda strettamente con le
più specifiche previsioni di cui agli artt. 30 e 31, in specie 2° comma, Cost., che pongono i minori
al centro degli obblighi giuridici di mantenimento, istruzione e educazione, nonché più in generale
di protezione, gravanti non solo – in primis – sui genitori, ma anche sulla Repubblica, che deve
agevolarne l’adempimento e comunque favorire tutti gli istituti necessari allo scopo.
Indiscutibile essendo, dunque, l’esplicita rilevanza costituzionale e perciò “meritevolezza” di
tutela penale dei diritti ed interessi dei minori, si deve vagliarne la “necessità”, come impone il
menzionato canone di sussidiarietà (od extrema ratio) del ricorso alla sanzione penale, rispetto
ad altre tecniche o forme alternative di tutela ed intervento extrapenali.
Al riguardo, è evidente l’ampio, ma non illimitato spazio di discrezionalità di cui gode il legislatore, che da un lato è però vincolato alle scelte di penalizzazione compiute a livello sovranazionale, dall’altro non può non considerare il rango elevato dei beni giuridici di volta in volta da
proteggere (vita, integrità fisica e psichica, libertà personale ed autodeterminazione in campo
sessuale, possibilità di pieno sviluppo della personalità, ecc.) e soprattutto l’i rreparabilità della
loro eventuale offesa, rispetto alle esigenze di corretto e libero sviluppo della “personalità” dei
minori stessi, da garantire in modo particolare ex artt. 3, 2° comma e 31, 2° comma, Cost.
La loro posizione di strutturale debolezza economica e psicologica verso gli adulti, la pervasività
ed insidiosità delle forme d’aggressione cui sono esposti, non solo all’interno stesso dei contesti
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 familiari o delle relazioni familiari e parafamiliari, scolastiche, nell’ambito di attività sportive e
del tempo libero, ecc., ma anche nei rapporti esterni, dati i caratteri dell’odierna evoluzione sociale e tecnologica, a partire dal campo delle telecomunicazioni (internet, cellulari, smartphone), degli strumenti di ripresa e di riproduzione audio e video, dei trasporti pubblici e privati,
ecc., data l’estrema facilità e libertà di movimento e di circolazione, da e per ogni parte del pianeta, con connessa globalizzazione dei predetti rischi, che vengono così accentuati dal differenziale delle condizioni economiche e culturali poste immediatamente a confronto. Sembra quindi da escludere – specie nella prospettiva della necessaria armonizzazione ed cooperazione sovranazionale – che il legislatore possa rinunciare al ricorso alla tutela penale in questo campo,
pur se ovviamente dovrà rispettare i limiti imposti dal principio di proporzionalità con riferimento al rango dei beni da proteggere ed alla gravità delle offese.
4. Profili sistematici: beni giuridici protetti e collocazione dei delitti a danno dei minori nel co‐
dice penale Passando ora all’esame delle diverse fattispecie previste nel vigente ordinamento positivo italiano, poste a tutela penale dei minori, che vi assumono quindi la posizione di “vittime”, bisogna ricordare che se ne rinvengono in svariati ambiti e corpi normativi, con palese assenza di
un organico disegno legislativo, frequenti incoerenze di formulazione e di livelli sanzionatori.
Per cui non è agevole ricostruire le linee di fondo di un sistema che, come già detto (supra, par.
1), non nasce da unitarie scelte del legislatore, ma è frutto di uno stratificarsi d’interventi disparati e di differente origine storica, aventi portata e finalità politico-criminali diverse, dettate dal
contesto in cui sono stati concepiti, spesso per esigenze contingenti.
Per delinearne, seppur senza pretesa di esaustività, il quadro assai complesso e poi, eventualmente, vagliarne la conformità alle esigenze di protezione penale espresse dalle sopra richiamate fonti
sovranazionali e costituzionali, occorrerà dunque considerare primariamente i vari beni giuridici
che di volta in volta costituiscono lo specifico oggetto della tutela penale, che non sempre sono
coerenti con la variegata collocazione “topografica” dei reati da considerare nelle diverse parti,
sezioni, capitoli o titoli del codice penale, ovvero – al di fuori di esso – in singole leggi speciali.
4.1. Delitti contro la vita Innanzitutto troviamo nel Titolo XII, dedicato ai delitti “contro la persona”, ed in particolare
nel suo Capo I che riguarda i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, specifiche norme
che rafforzano la tutela penale della vita dei minori, fin dal momento del termine della gravidanza, come chiarisce la speciale disposizione dell’art. 578 c.p., che pur costituendo una norma
“di privilegio” per la madre che si trovi nelle particolari condizioni di abbandono materiale e morale in cui commetta infanticidio, espressamente equipara il «feto durante il parto» al «neonato
[...] dopo il parto», riconducendoli entrambi alla nozione giuridica di “uomo” di cui alle diverse
fattispecie in materia di omicidio, sia doloso, che preterintenzionale, che colposo.
Al fine di garantire, poi, l’applicazione delle comuni fattispecie omicidiarie, specifiche disposizioni escludono sempre la rilevanza del “consenso” del minore degli anni diciotto, rispetto all’ipotesi
più mite dell’omicidio del consenziente (art. 579, 3° comma, n. 1, c.p.), e del minore degli anni
quattordici, rispetto a quella di istigazione od aiuto al suicidio, reato le cui pene sono comunque
aggravate, se la vittima è invece minore degli anni diciotto (art. 580, 2° comma, c.p.).
Quando poi la vittima minorenne sia “discendente” dell’autore del reato, a questo si applicherà la
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FOCUS circostanza aggravante speciale prevista per l’omicidio, anche preterintenzionale, e per le lesioni
personali dolose, ex artt. 576, 1° comma, n. 2; 577, 1° comma, n. 1 e 585 c.p. Ed in questo ambito
vanno anche menzionate due speciali circostanze aggravanti: la prima inserita nell’art. 575, 1°
comma, n. 5) c.p., quale riformulato dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. in l. 23 aprile 2009, n.
38, che stabilisce la pena dell’ergastolo se il delitto di omicidio è commesso «in occasione della
commissione di taluno dei delitti» di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo di cui appresso si dirà (par. 4.4); l’altra relativa alla morte cagionata dal colpevole
di sequestro di persona in danno di minore, ai sensi dei nuovi comma 3 e 4 dell’art. 605 c.p., quali
introdotti dalla medesima normativa del 2009 (e su cui si tornerà infra, par. 4.3).
4.2. Delitti contro l’integrità fisica e psichica In secondo luogo vengono protette specificamente, nel medesimo Capo I del Titolo XII, l’integrità e la salute, sia fisica che psichica, del minore, non soltanto tramite la menzionata circostanza aggravante speciale delle lesioni personali dolose (ex art. 585 c.p.), ma anche mediante
apposite incriminazioni, quali l’abbandono di persone minori o incapaci (art. 591 c.p.) e l’omissione
di soccorso (art. 593 c.p.).
La prima norma configura un “reato proprio” di mera condotta, anche omissiva, consistente
nell’abbandono, da parte di chi abbia la custodia o l’obbligo di cura del soggetto passivo, che si
applica sempre se si tratti di minore degli anni quattordici, mentre rispetto al il minore degli
anni diciotto la pena è prevista solo se l’abbandono si realizzi all’estero, da parte di cittadino italiano, cui il minore sia stato affidato nel territorio dello Stato, in conformità ad una concezione
“autarchica” del potere punitivo nazionale, che non appare oggi adeguata alla globalizzazione e
facilità di circolazione all’estero delle persone. Specifiche circostanze aggravanti sono stabilite
se il fatto sia commesso (fra gli altri) dal genitore, dal tutore e dall’adottante.
La seconda disposizione prevede a tutela – in specie – del «fanciullo minore di anni dieci» una
sorta di presunzione assoluta di «incapacità» di provvedere a se stesso, con conseguente obbligo di protezione e soccorso in capo a chiunque lo trovi «abbandonato o smarrito».
È stata viceversa abrogata la fattispecie “di favore” per chi commetta l’abbandono di neonato
«per causa d’onore» (ex art. 592 c.p.), a seguito della l. 5 agosto 1981, n. 442, che ha operato un
doveroso, seppur tardivo, adeguamento dell’ordinamento penale alle nuove gerarchie di valori
riconducibili al dettato costituzionale, eliminando dal codice tutte le odiose ipotesi “di favore”
per l’autore di delitti contro la vita e la persona motivate da siffatta ragione.
Più di recente è stato viceversa introdotto nel codice penale, dalla l. 9 gennaio 2006, n. 7, il
nuovo delitto di «pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili», per cui è prevista una
specifica circostanza aggravante quando siano commesse «a danno di un minore» (art. 583 bis,
3° comma, c.p.).
Sotto il profilo della tutela penale dell’integrità anche psichica dei minori, del loro diritto ad una
corretta educazione ed a non essere esposti a violenze e prevaricazioni nell’ambito familiare e
scolastico, che potrebbero pregiudicare il pieno ed equilibrato sviluppo della loro personalità,
si devono menzionare due fattispecie collocate nel Titolo XI, fra i delitti contro la famiglia, ed
in specie contro “l’assistenza familiare” cui è intitolato il Capo IV. Si tratta dei delitti di «abuso
dei mezzi di correzione o di disciplina» (art. 571 c.p.) e di «maltrattamenti in famiglia» (art. 572
c.p.), che pur non essendo applicabili soltanto a tutela dei minori, ricorrono con relativa frequenza a loro danno.
La prima disposizione trova sempre meno applicazione, perché presuppone un potere di ricorrere a mezzi corporali e fisici di “correzione o disciplina”, di cui il soggetto agente “abusi”, che
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 non è invece oggi riconosciuto, se non in limiti del tutto eccezionali, a chi eserciti “autorità” o
funzioni di “educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia” o che sia affidatario di un minore
per l’esercizio di una professione o di un’arte: con la conseguenza che, in luogo di questa fattispecie “di favore” per i soggetti menzionati (come risulta dalle cornici edittali di pena assai ridotte), si dovranno applicare per lo più le comuni ipotesi di lesioni personali dolose o addirittura di omicidio, che nella fattispecie costituiscono invece circostanze aggravanti.
L’altra disposizione, di ben più larga applicazione, include invece condotte abituali di “maltrattamenti” che pur non consistano singolarmente in fatti ciascuno penalmente rilevanti (ad es. di
lesioni o percosse, la cui punizione potrebbe concorrere), ma ricadano su «un minore degli anni
quattordici», ovvero – in alternativa – su una persona della famiglia, da intendere ormai in senso ampio, comprensiva delle convivenze di fatto, ovvero su persone sottoposte od affidate
all’agente per le citate ragioni di «educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia» od ancora
per l’esercizio di una professione o di un’arte: situazioni tutte in cui, evidentemente, possono
con frequenza trovarsi minori che pur abbiano compiuto i quattordici anni. Ed è quindi palese
l’incongruenza di mantenere questo complesso di ipotesi nella prospettiva di tutela penale
“della famiglia”, anziché in quella della “persona”, in specie se di minor età.
4.3. Delitti contro la libertà personale e di “sfruttamento” dei minori Un quadro assai ampio ed in gran parte più moderno di fattispecie penali è previsto oggi a tutela della libertà del minore, da considerare sotto molteplici profili, che vanno dalla vera e propria
“libertà individuale” di locomozione e stabilimento, alla “libertà morale” fino al rispetto della
sua “dignità” e personalità: beni che possono essere offesi da molteplici forme di aggressione
ed in specie di sfruttamento dei minori, da ricondurre alla categoria assai ampia delle c.d. “nuove schiavitù” che si presentano oggi alla coscienza sociale come un effetto intollerabile soprattutto della globalizzazione.
È impossibile, in questa sede, entrare nel dettaglio delle molteplici fattispecie via via introdotte
o modificate, per cui ci si limiterà a menzionare le più significative riforme intervenute, a partire dalla fine degli anni ’90, soprattutto nell’ambito del Titolo XII, Capo III, Sezione I del Libro
II del codice penale, intitolata ai delitti contro la “personalità individuale”, per lo più in attuazione delle sopraindicate convenzioni e fonti sovranazionali.
Innanzitutto vanno ricordate le leggi 3 agosto 1998, n. 269 e 6 febbraio 2006, n. 38, che hanno
introdotto e poi inasprito ed esteso i delitti – del tutto nuovi per il nostro ordinamento – di
prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.), pornografia minorile (artt. 600 ter, 600 quater e 600 quater.1 c.p., che include ora anche la “pornografia virtuale”) ed iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600 quinquies c.p.), al fine di combattere lo sfruttamento dei minori a scopo sessuale.
Sul versante della lotta alla schiavitù, alla tratta ed alle diverse altre forme di sfruttamento dei
minori a fini soprattutto economici vanno ricordate la l. 11 agosto 2003, n. 228, che ha interamente riformulato i delitti di schiavitù, servitù e tratta (nuovi artt. 600, 601 e 602 c.p.), fino alle
più recenti leggi 15 luglio 2009, n. 94, che ha specificamente introdotto il nuovo delitto di
«impiego di minori nell’accattonaggio» (art. 600 octies c.p., che ha sostituito la più blanda contravvenzione di cui all’abrogato art. 671 c.p.) e 2 luglio 2010, n. 108, che ha raggruppato e riformulato, nell’art. 602 ter c.p., una serie di “circostanze aggravanti” speciali dei delitti di schiavitù e tratta, fra cui in primis quella che la persona offesa sia “minore degli anni diciotto” (cui consegue un aumento da un terzo alla metà delle pene già estremamente severe previste per i menzionati reati), in parte sovrapponendosi alla previsione dell’art. 600 sexies, che già prevede cir18
FOCUS costanze aggravanti speciali – che determinano il predetto aumento di pena – se questi stessi
delitti, oltre quelli introdotti dalla l. n. 269/1998, sono commessi in danno di “minore degli anni
quattordici” (1° comma); mentre se sono commessi da un ascendente, dal genitore adottivo o
loro coniuge o convivente, dal coniuge od affini entro il secondo grado o da parenti entro il
quarto grado, o da persone affidatarie del minore per ragioni di cura, educazione, istruzione,
vigilanza, custodia, lavoro, nonché in danno di minore in stato di infermità o minorazione psichica, naturale o provocata, l’aumento è dalla metà a due terzi (2° comma).
Da ultimo, va infine menzionato il d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella l. 14 settembre
2011, n. 148, ha introdotto il delitto di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» (art.
603 bis c.p.), nel cui ambito è prevista, fra le circostanze aggravanti speciali che determinano un
aumento di pena da un terzo alla metà, quella «che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in
età non lavorativa» (2° comma, n. 2).
Quest’ampio complesso di norme, non ben coordinate tra loro dal punto di vista sistematico e
sanzionatorio (basti il rilievo che fra quelli di schiavitù e servitù, di cui all’art. 600 c.p., e quelli
di tratta ed acquisto od alienazione di schiavi di cui agli artt. 601 e 602 c.p., con relative pene
accessorie ex art. 602 bis e circostanze aggravanti speciali ex art. 602 ter c.p.) sono interpolate le
molteplici disposizioni che puniscono invece le menzionate forme di sfruttamento dei minori a
fini sessuali, con relative circostanze aggravanti ed attenuanti speciali (art. 600 sexies c.p.), casi
di confisca speciale e pene accessorie (art. 600 septies c.p.), nonché il delitto di impiego di minori per l’accattonaggio (art. 600 octies c.p.).
Un generale riordino della materia appare dunque necessario, e la prossima occasione potrebbe essere rappresentata dall’attuazione delle due recenti direttive dell’Unione europea contro
la tratta (2011/36/UE) e contro lo sfruttamento sessuale e dei minori e la pornografia minorile
(2011/92/UE), di cui sopra si è detto (cfr. par. 2).
Infine, vanno menzionati in questo ambito anche le diverse fattispecie di sottrazione consensuale
di minorenni, che abbiano compiuto gli anni quattordici (art. 573 c.p.), di sottrazione di persone incapaci, fra cui il minore di anni quattordici (art. 574 c.p.) e di sottrazione e mantenimento
di minore all’estero (art. 574 bis c.p., introdotto dalla citata l. n. 94/2009). Si tratta di incriminazioni collocate, invero, nel Titolo XI, dedicato ai delitti contro la famiglia, ed in specie nel
suo Capo IV, relativo a quelli “contro l’assistenza familiare”, in quanto visti come offensivi
dell’esercizio della potestà genitoriale, come dimostra la ben più mite pena stabilita rispetto a
quella del sequestro di persona (ex art. 605 c.p.), che proprio a seguito della stessa novella legislativa vede invece sensibilmente aggravata la sanzione (reclusione da tre a dodici anni) se «il
fatto è commesso in danno di un minore» (nuovo 3° comma, aggiunto dalla l. n. 94/2009); od
anche dell’oggi abrogato “ratto a fine di libidine” di cui all’art. 525 c.p. (mentre se il ratto fosse
stato “a fine di matrimonio” o per causa d’onore, operava addirittura un’attenuante). Soprattutto è da rilevare la peculiarità della punibilità dei primi due delitti soltanto “a querela” del titolare
della potestà genitoriale (che però non è solo il genitore che la eserciti, come affermato dalla
sentenza della Corte cost. n. 9/1964; e già le prime due norme citate menzionano anche l’eventuale tutore o curatore e chi ne abbia la vigilanza o custodia).
Nella nuova fattispecie introdotta nel 2009 è addirittura divenuto elemento essenziale del reato
l’impedimento in tutto od in parte dell’esercizio della potestà genitoriale all’altro genitore. Per
cui una ben limitata rilevanza ha la presenza o meno del “consenso” del minore stesso, che soltanto se abbia compiuto gli anni quattordici vale a distinguere la meno grave ipotesi dell’art.
573 da quella dell’art. 574 c.p., ovvero a comportare un’attenuazione della pena nel caso del delitto di cui all’art. 574 bis c.p. (cfr. 2° comma del medesimo). Tuttavia non può ignorarsi, in una
prospettiva di doveroso riconoscimento dei diritti fondamentali del minore quale individuo
19
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 dotato di propria personalità e, dunque, libertà, che anch’egli deve rientrare nell’oggetto della
tutela penale, incidendo detti fatti sulle sue stesse condizioni di vita e di pieno e libero sviluppo.
Tanto che nell’ambito del nuovo delitto di stalking (art. 612 bis c.p., rubricato “atti persecutori”
ed introdotto dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito nella citata l. n. 38/2009), è stata prevista una speciale circostanza aggravante «se il fatto è commesso a danno di un minore», che
comporta un aumento di pena fino alla metà (3° comma) e la procedibilità d’ufficio (4° comma).
Ed all’analoga circostanza aggravante introdotta nel caso di sequestro di persona, già sopra
menzionata, si accompagna altresì una speciale fattispecie di delitto aggravato dall’evento, secondo cui la pena è dell’ergastolo «se il colpevole cagiona la morte del minore sequestrato» (art.
605, 4° comma, c.p., introdotto dalla l. n. 94/2009, che ha in tal caso equiparato la sanzione a
quella stabilita per il “sequestro di persona a scopo di estorsione” di cui all’art. 630 c.p., cui la
nuova fattispecie si avvicina anche come problemi interpretativi concernenti l’imputazione dell’evento aggravatore, oltre che per la disciplina “premiale” parimenti introdotta nei commi seguenti dell’art. 605 c.p., benché non sia in questo caso richiesta la qualificante finalità estorsiva).
4.4. Delitti contro la libertà ed integrità sessuali La l. 15 febbraio 1996, n. 66, nel riformare profondamente la materia dei reati sessuali in generale, ha voluto segnare un forte momento di discontinuità rispetto a quella anteriormente prevista dal codice Rocco, dedicando fra l’altro una particolare attenzione alla tutela penale dei
minori.
Si tratta infatti di in un ambito di estrema importanza per il loro equilibrato sviluppo umano e
psicologico, in cui si deve garantire, da un lato, la massima protezione contro ogni abuso, strumentale alla soddisfazione di egoistiche esigenze degli adulti, che vanno a danno di una loro
adeguata maturazione, dall’altro un indispensabile e progressivamente crescente spazio di libertà, per consentire esperienze confacenti all’età, di grande rilievo per la formazione della loro
personalità individuale.
La disciplina introdotta ed oggi vigente è significativamente innovativa sotto diversi profili. Innanzitutto, le norme sono state collocate nel Titolo XII, Capitolo III, dedicato alla libertà personale, mentre sono state abrogate quelle previgenti, che erano collocate nel Titolo IX, dedicato ai delitti “contro la moralità pubblica”. Quanto ai loro contenuti, sono state riformulate molteplici previsioni, in specie in materia di “violenza sessuale” (art. 609 bis c.p., che ha fra l’altro
superato la distinzione fra atti di congiunzione carnale ed atti di libidine) e di “corruzione di minorenne” (art. 609 quinquies c.p., che rispetto al previgente art. 530 c.p. ha soppresso l’incredibile causa di non punibilità prevista a favore di chi commettesse il fatto, anche di congiunzione
carnale e di atti di libidine, nei confronti di minore “già moralmente corrotto”); mentre sono
state introdotte specifiche circostanze aggravanti delle già più severe pene, se il fatto sia commesso “nei confronti” di minore degli anni quattordici, ovvero anche di anni sedici, se autore
sia l’ascendente, il genitore anche adottivo o il tutore, e comunque con una ancor più severo
aggravamento di pena se il minore non abbia compiuto gli anni dieci (art. 609 ter, rispettivamente 1° comma, nn. 1 e 5, e 2° comma). Infine è stata introdotta – oltre alla nuova figura della
violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies) – la nuova specifica incriminazione degli “atti sessuali con minorenne” (art. 609 quater), che ne stabilisce la punibilità anche al di fuori delle condizioni stabilite per la violenza sessuale, se il minore non abbia compiuto gli anni quattordici,
ovvero anche gli anni sedici se autore ne sia l’ascendente, il genitore anche adottivo o il di lui
convivente, il tutore, o colui cui il minore è affidato per ragioni di cura, educazione, istruzione,
vigilanza, custodia, lavoro, o che abbia comunque con lui una relazione di convivenza.
20
FOCUS In tali ultime ipotesi, i delitti a danno di minori sono sempre procedibili d’ufficio (cfr. art. 609
septies, 3° comma, n. 2), come pure in ogni caso di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p., e di atti
sessuali con minorenne (ex art. 609 quater c.p.), allorché si tratti di minore di anni dieci (cfr.
art. 609 septies, 3° comma, nn. 1 e 5). Per cui è evidente il tentativo del legislatore italiano di ridurre, ma non escludere del tutto la scelta molto discussa della procedibilità a querela per detti
delitti, di cui le vittime siano maggiorenni, seppur con le speciali regole dell’irrevocabilità e del
termine raddoppiato a sei mesi per la proponibilità.
Nel contempo, l’art. 609 quater, 3° comma, stabilisce la “non punibilità” degli atti sessuali fra
minorenni, a partire dal compimento di tredici anni, sempre che la differenza di età non sia superiore a tre anni.
Tale articolata disciplina dei reati sessuali ha trovato una sorta di completamento nelle menzionate disposizioni introdotte nel 1998 e nel 2006, concernenti la repressione penale dei delitti di prostituzione minorile, che si applica anche a colui che “compie” gli atti sessuali con il minore, benché quest’ultimo esprima il proprio consenso ad essi «in cambio di denaro o di altra utilità economica» (art. 600 bis, commi 2, 3 e 4, che invero graduano in via decrescente la pena, in
relazione all’età del minore rispettivamente inferiore a sedici ovvero a diciotto anni, consentendo sempre in alternativa anche la sola pena pecuniaria); oltre che dalle incriminazioni in
materia di pornografia minorile e di iniziative turistiche finalizzate alla prostituzione minorile, per
cui non è mai dirimente l’eventuale consenso del minore stesso (cfr. supra par. 4.3). Ma va anche menzionata la speciale circostanza aggravante di cui all’art. 575, 1° comma, n. 5) c.p., quale
riformulata dal citato d.l. n. 11/2009, che comporta la pena dell’ergastolo se il delitto di omicidio è commesso «in occasione della commissione di taluno dei delitti» di violenza sessuale, atti
sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo di cui si è detto.
4.5. Delitti contro la “morale familiare” e lo stato di famiglia Una collocazione separata dai delitti sessuali mantiene invece il discusso delitto di “incesto” (art.
564 c.p.), che nel diverso ambito del Titolo XI, dedicato ai delitti contro la famiglia, apre il Capo
II dedicato a quelli “contro la morale familiare” (composto per il resto da un’altra unica fattispecie, bagatellare, che a conferma dell’autoritaria prospettiva da cui muoveva il legislatore del 1930
sanziona come “attentati alla morale familiare” l’esposizione per mezzo della stampa di circostanze offensive della stessa). Nell’incesto non sono in effetti protetti i diritti e libertà delle eventuali
vittime ‘vulnerabili’ e più esposte all’adescamento, quali i minori – rispetto a cui resta salva, ovviamente, l’applicabilità degli esaminati delitti sessuali: tanto che lo speciale delitto in esame non
compare più in molti ordinamenti penali moderni – né esigenze eugenetiche, data la punibilità di
rapporti anche tra affini, bensì (come ritenuto dalla nostra Corte costituzionale, con una discussa
sentenza che ha respinto le molteplici censure d’illegittimità sollevate) l’esigenza di escludere i
rapporti sessuali tra componenti della famiglia diversi dai coniugi, per «evitare perturbazioni della
vita familiare» ed «aprire alla più vasta società la formazione di strutture di natura familiare» (Corte cost. n. 518/2000; ad una conclusione analoga è pervenuta anche la più recente sentenza della
Corte costituzionale tedesca del 26 febbraio 2008, con riferimento ad una relazione consensuale
fra fratello e sorella maggiorenni). Senonché una simile prospettiva pubblicistica, di tutela di un
astratto modello di famiglia, lascia aperta la paradossale possibilità che sia sanzionato anche lo
stesso minore imputabile, che partecipi all’incesto.
Sempre nel Titolo XI sono infine da menzionare i “delitti contro lo stato di famiglia” (Capo
III), che consistono per lo più in reati di falsità documentale (ideologica od anche materiale:
artt. 566, 1° comma e 567, 2° comma), ovvero in condotte di “occultamento” (art. 566, 2° com21
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 ma), “sostituzione” (art. 567, 1° comma) di neonati o “presentazione” di fanciulli «in un ospizio
di trovatelli o in un altro luogo di beneficienza» (art. 568), che mirano a proteggere lo “stato” di
“figlio legittimo” o “naturale riconosciuto” (soprattutto) di neonati o fanciulli. Ma si tratta di
fattispecie in parte obsolete, che potrebbero essere assorbite nella punibilità di altri delitti di
falsità documentale ovvero contro la persona, essendo in ogni caso necessario un adeguamento
alle riforme nel frattempo intervenute od in corso nella disciplina civile della filiazione.
4.6. Delitti contro i diritti ed interessi patrimoniali od economici dei minori, in specie contro il diritto al mantenimento Ben maggiore importanza pratica ed applicazione concreta hanno le norme penali poste a tutela
dei diritti ed interessi di natura patrimoniale od economica del minore, in specie del suo diritto al
mantenimento cui sono obbliati – per espresso precetto costituzionale (art. 30 Cost.) – i “genitori” ed in caso di loro “incapacità” i soggetti stabiliti dalla legge, in particolare dal codice civile.
L’insieme di queste fattispecie è però sparso in diverse parti del codice penale e della legislazione
speciale, concernente la separazione ed il divorzio, per cui è necessario ricomporne il quadro.
Ma prima di tutto va menzionato il delitto di “circonvenzione di persone incapaci” (art. 643 c.p.),
che si colloca nell’ambito dei delitti contro il patrimonio (Titolo XIII del libro II del codice penale) “mediante frode” (Capo II), benché si sostanzi – piuttosto che in un artificio o raggiro – in un
abuso di condizioni preesistenti, costitute dai “bisogni”, dalle “passioni” o anche dalla mera “inesperienza” della persona minore (ovvero, in alternativa, dallo stato d’infermità o di deficienza di
qualsiasi altra persona): abuso a seguito del quale il soggetto passivo è indotto a compiere un atto
dannoso per sé o per altri, secondo lo schema tipico dei c.d. delitti di “cooperazione artificiosa”
della vittima. Chiaramente la protezione del patrimonio del minore (o di terzi) si associa così alla
tutela penale del suo pur limitato spazio di autonomia negoziale, riconosciuto dallo stesso ordinamento soprattutto nell’ambito delle attività lavorative: ed in una coerente prospettiva personalistica, appare dunque corretta un’interpretazione estensiva del concetto di effetto “dannoso” che
qualifica l’atto consumativo del reato, non circoscrivendolo alla mera rilevanza economica.
Il diritto del minore al mantenimento è invece specificamente protetto da altre autonome fattispecie, a partire da quella di “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, che nel suo complesso articolato punisce, innanzitutto, l’abbandono del domicilio domestico ed ogni altra
“condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie” che si traducano nella «sottrazione
agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori» (ovvero alla qualità di coniuge: art.
570, 1° comma, c.p.). Ma più gravemente, come è sottolineato altresì dalla procedibilità d’ufficio, sono punite la “malversazione” e la “dilapidazione” dei beni del figlio minore (oltre che
del pupillo o del coniuge), nonché il «far mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età
minore ovvero inabili al lavoro» (oltre che agli ascendenti od al coniuge che non sia legalmente
separato: art. 570, 2° comma, rispettivamente nn. 1 e 2 c.p.).
In quest’ultima più importante ipotesi, il limite della tutela penale è ravvisato dalla giurisprudenza nella sussistenza oggettiva dello “stato di bisogno” della vittima, ferma la necessità di
colpevolezza dolosa dell’agente, che deve avere la necessaria, seppur minima, disponibilità di
mezzi per poter concretamente adempiere all’obbligo, escluso però che possa essere considerato scusante il fatto che si sia messo egli stesso volontariamente o per negligenza in condizione
di non poter adempiere.
La fattispecie va poi coordinata con quelle che puniscono con la medesima pena (della reclusione fino ad un anno e della multa da € 103 a € 1.032) la pura violazione, anche parziale,
dell’«obbligo di corresponsione dell’assegno» stabilito dal giudice civile a favore dei figli in sede
22
FOCUS di procedimento per lo scioglimento del matrimonio (art. 12 sexies, l. 1° dicembre 1970, n. 898,
e succ. modifiche) e, più in generale, la «violazione degli obblighi di natura economica» stabilite
a loro favore dal giudice anche in sede di separazione dei genitori od altri procedimenti assimilati (art. 3, l. 8 febbraio 2006, n. 54, in tema di c.d. affido condiviso). In tutti questi casi, come
risulta dal rinvio solo quoad poenam all’art. 570 c.p., si prescinde dallo “stato di bisogno” della
vittima, per cui la sanzione penale congiunta consente al giudice di garantirle una certa efficacia
(a differenza di quanto avviene, invece, rispetto agli obblighi economici verso il coniuge in regime di separazione), subordinando, ad es., la concessione della sospensione condizionale all’effettivo pagamento di quanto dovuto anche per arretrati non corrisposti (ex art. 165, 1°
comma, c.p.), vista altresì la procedibilità d’ufficio per i reati a danno di minori.
4.7. Delitti contro altri provvedimenti giudiziari a tutela dei minori, in specie la violazione delle misure contro la violenza nelle relazioni familiari Due ulteriori fattispecie incriminatrici c.d. “in bianco” ricorrono con relativa frequenza nel
campo dei possibili delitti a danno di minori.
Si tratta, innanzitutto, del classico delitto di cui all’art. 388 c.p., che punisce la mancata esecuzione dolosa di un ordine del giudice, che alla stregua del suo 2° comma sanziona specificamente
l’elusione di provvedimenti concernenti (fra l’altro) “l’affidamento di minori”. In tal modo, si
presta ad essere applicato in tutte le molteplici situazioni in cui siano violati, ad es., gli obblighi
relativi alle visite o alla permanenza di un figlio minore presso l’altro coniuge o terzi. La pena
non è tuttavia particolarmente incisiva, potendo essere anche soltanto pecuniaria (in alternativa a quella detentiva “fino a tre anni”), e la procedibilità è a querela di parte, per cui la disciplina
penale si presta ad essere del tutto sussidiaria alla regolamentazione ed eventuale definizione
del possibile conflitto in sede civilistica.
Successivamente, anche l’art. 6, l. 4 aprile 2001, n. 154, contro la violenza nelle relazioni familiari,
punendo «chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’art. 342-ter c.c. ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione [o divorzio]», rinvia alla pena
stabilita dall’art. 388 c.p., così presidiando penalmente il rispetto dei provvedimenti emanati dal
giudice civile (in camera di consiglio) in casi in cui, pur senza che ricorra un reato, «la condotta
del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla
libertà dell’altro coniuge o convivente» ovvero anche (ex art. 5, l. n. 154/2001) di «altro componente del nucleo familiare», fra cui rientrano in primo luogo i (figli) minori. Il reato peraltro è sempre
procedibile a querela di parte, per l’esplicito rinvio altresì all’ultimo comma del citato art. 388 c.p.
La menzionata legge contro gli abusi nelle relazioni familiari ha altresì introdotto nuove misure
cautelari di natura penale, di analogo contenuto, quale in specie l’«allontanamento dalla casa
familiare» (art. 282 bis c.p.p.) – cui si è aggiunta quella del «divieto di avvicinamento ai luoghi
frequentati dalla persona offesa» (art. 282 ter c.p.p., introdotto dal citato d.l. n. 11/2009 conv. in
l. n. 38/2009) – che si applicano, nel caso di delitti sessuali, prostituzione minorile, pedopornografia, violazione degli obblighi di assistenza familiare, abuso dei mezzi di correzione, anche
al di fuori dei limiti di pena stabiliti per le misure coercitive “personali” dall’art. 280 c.p.p.
5. Conclusioni L’esame dell’articolato quadro di norme dirette a proteggere penalmente il minore vittima di
reato ha evidenziato la molteplicità non solo di fattispecie che possono venire in rilievo, ma an23
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 che di profili problematici riconducibili all’assenza di un’organica visione d’insieme ed alla frequente approssimazione tecnico-normativa del legislatore.
Il succedersi di riforme parziali e di interventi novellistici anche del tutto contingenti (come
quelli collocati negli ultimi “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009, senza alcuna specifica
considerazione della peculiarità della materia e del tessuto normativo in cui si inserivano) ha
determinato incoerenze sistematiche e di livelli sanzionatori, aggravando la dispersione delle
fattispecie nei vari rami dell’ordinamento penale, anche extracodicistico.
Certamente, per quanto concerne l’impianto del codice del 1930, che pur ancora sopravvive,
sono evidenti i limiti dell’approccio legato all’ideologia autoritaria dell’epoca fascista, che portava a collocare la tutela penale dei minori nella prospettiva di “pubblicizzazione” dei beni giuridici ed, in specie, dell’istituzione familiare, vista come un’articolazione della società organizzata nello Stato, a scapito di un approccio personalistico, che invece si deve fondare – alla stregua del dettato costituzionale e delle carte e convenzioni internazionali (cfr. supra par. 2) – sul
riconoscimento e la garanzia dei diritti ed interessi degli individui, anche “minori”. Emblematica
di tale contraddizione nelle gerarchie di valori da proteggere penalmente è l’esaminata disciplina dell’incesto, che ancora sopravvive legato al requisito del “pubblico scandalo” (art. 564 c.p.:
cfr. supra par. 4.5), come pure il rilievo di parametri indeterminati e di dimensione sopraindividuale, quale il concetto di “morale delle famiglie”, cui primariamente si dovrebbero conformare
le condotte dei singoli, piuttosto che al rispetto dei diritti ed interessi degli altri soggetti delle
relazioni familiari (e parafamiliari, anche di fatto) in cui devono essere a pieno titolo ricompresi anche i “minori”.
Anche se importanti passi avanti sono certamente ed in più occasioni stati fatti (specie in materia
di delitti sessuali, di prostituzione minorile, di pedopornografia e sfruttamento non solo sessuale ma
anche lavorativo dei minori, comprese le nuove forme di schiavitù e servitù, fra cui l’accattonaggio),
un discorso critico particolare merita, anche sotto il profilo tecnico-normativo, la tendenza del
legislatore a ricorrere con grande frequenza, specie nelle ultime novelle, alla previsione di circostanze aggravanti nel caso di reati commessi “a danno” (o talora: “in danno”) di minori.
Se questa tecnica sembra avere incisivi effetti sul piano sanzionatorio, in realtà essi possono essere
vanificati dal giudizio di bilanciamento fra circostanze eterogenee, anche “speciali”, ex art. 69 c.p.
Inoltre, una formulazione siffatta non coglie la specificità delle ipotesi da punire allorché vittima
sia un minore, nei diversi riflessi che possono darsi quanto a modalità di condotta o altri requisiti costitutivi del “fatto” di reato.
Infine, dal punto di vista delle garanzie per la persona imputata, si creano ampie aree di responsabilità penale sottratte alla piena applicazione del principio di colpevolezza, in quanto secondo
le regole generali (ex art. 59 c.p.) il regime di imputazione soggettiva non esige che siano investite dal dolo dell’agente e l’errore quindi non esclude la punibilità, se determinato da colpa,
specie nel caso riguardi l’età della persona offesa (che già soggiace alla disciplina dell’art. 60, ult.
comma, c.p.), benché questa costituisce la specifica ratio legis della più severa sanzione.
Al riguardo è significativa la soluzione di compromesso individuata dalla Corte costituzionale a
proposito dell’art. 609 sexies c.p., che in materia di delitti sessuali «in danno di persona minore di
anni quattrodici» escludeva ogni rilievo all’ignoranza od errore sull’età della persona offesa, con
regola viceversa non ripetuta nella successiva disciplina penale dei delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile, iniziative turistiche finalizzate alla prostituzione minorile.
Ebbene la Corte, pur riconoscendo che una siffatta presunzione assoluta di conoscenza confliggerebbe con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., ha ritenuto che sia però possibile un’interpretazione “conforme” a detto principio, per la necessità di un “collegamento
soggettivo” con l’agente dell’elemento dell’età dell’offeso, attorno a cui ruota l’intero disvalore
24
FOCUS del reato, senza che ciò comporti l’applicazione delle regole generali in tema di imputazione
dolosa e di errore sul fatto, di cui agli artt. 43 e 47 c.p.: con l’effetto pratico che l’errore colposo
sull’età dunque non scusa, quello incolpevole invece sì (Corte cost. 24 luglio 2007, n. 322).
In definitiva, tale vicenda dimostra ulteriormente la necessità di un organico intervento legislativo, che dia ordine e proporzione anche alle diverse cornici sanzionatorie, razionalizzando altresì la scelta dei regimi di procedibilità (che di regola dovrebbe essere d’ufficio, salvo eccezionali ipotesi di procedibilità a querela).
Ma in ogni caso le esigenze, assolutamente condivisibili e fondate sulle fonti sovranazionali e costituzionali, di più energica e soprattutto più efficace tutela penale dei diritti ed interessi dei “minori”, non devono portare a comprimere o, addirittura, sacrificare ingiustamente le garanzie sostanziali di legalità, tassatività, offensività e colpevolezza, oltre che quelle processuali del giusto
processo ed, in primis, del divieto di inversione dell’onere della prova, che vanno sempre assicurate all’imputato, tanto più di fronte alla gravità delle sanzioni penali che possono venire in rilievo.
Certamente non può costituire dunque risposta condivisibile a dette esigenze di tutela e di garanzia la via del mero inasprimento sanzionatorio, specie se realizzo tramite il ricorso ad una
molteplicità disordinata di circostanze aggravanti, aventi soprattutto una funzione simbolica, di
messaggio propagandistico nell’ottica di una politica criminale diretta da logiche “securitarie”.
Viceversa, si impone una riconsiderazione globale della materia, che sia attenta alle esigenze
preventive ed a quelle di assistenza concreta della vittime, fin da prima dell’inizio del processo
penale e poi durante tutto il suo svolgimento, estendendosi ulteriormente al tempo ad esso successivo, perché solo in tale prospettiva di “personalizzazione” dell’intervento della giustizia penale, ad ogni livello, la persona minore può trovare quell’effettiva protezione da parte dell’ordinamento giuridico, di cui necessita e che può condurre a contrastare realmente le offese così
variegate ed inaccettabili dei suoi diritti ed interessi fondamentali.
25
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 IL MINORE TESTIMONE NEL PROCEDIMENTO PENALE: ESIGENZE DI PROTEZIONE E RICERCA DELLA VERITÀ Francesco Pisano
Avvocato del Foro di Cagliari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Ascoltare il minore nel procedimento penale. – 3. Il minore, testimone vulnerabile. – 4.
L’incidente probatorio: generalità e questioni aperte. – 5. L’incidente probatorio: prospettive evolutive dell’ordinamento UE. – 6. La questione del recupero delle dichiarazioni predibattimentali. – 7. Metodologie di esame del
minore. – 8. Conclusioni.
1. Premessa È di questi giorni, mentre chiudiamo questo numero della nostra rivista, la notizia della sentenza che ha definito il processo per abusi sessuali collettivi su bambini di una scuola dell’infanzia
di Rignano Flaminio da parte di un gruppo di adulti tra cui insegnanti ed un bidello: tutti gli
imputati sono stati assolti. Si legge sulle cronache di genitori sconvolti che hanno preso a calci
la porta dell’aula del tribunale e delle polemiche innescate dalla decisione. C’è chi teme che
questo esito sancisca che quella dei bambini è una testimonianza “di serie B”; c’è chi invece sostiene che i giudici hanno correttamente valutato l’inattendibilità di dichiarazioni accusatorie
raccolte in modo del tutto scorretto; altri ancora si chiedono semplicemente in quali condizioni si trovino questi bambini, dopo l’esperienza devastante di un processo che ha accertato la
mancanza di vittimizzazione primaria causandone una secondaria e, si potrebbe dire, iatrogena,
con conseguenze pesantissime per il loro futuro.
Si tratta di una vicenda esemplare, una serie di dichiarazioni a reticolo provenienti da diversi
bambini di una scuola materna, o meglio, in prima battuta, ovviamente, dai genitori che a loro
volta riferivano quanto detto dai loro figli; alle prime segnalazioni avevano fatto seguito numerose sollecitazioni ai minori in fase di indagini, anche con videoregistrazioni effettuate dai genitori, ed infine la raccolta della prova in incidente probatorio.
È stata poi la volta delle perizie sull’attendibilità dei testimoni, altro terreno di scontro tra esperti
con diversi approcci, anche soggettivi ed ideologici e non solo tecnico scientifici.
Una vicenda che pone in tutta la sua gravità il problema dell’accertamento di reati che feriscono profondamente la coscienza collettiva; accertamento che spesso può facilmente rischiare di
trasformare il processo in una moderna ordalia in cui, a differenza che nell’antichità, è la persona offesa, e non l’accusato, ad essere sottoposta ad un supplizio; mentre l’imputato rischia,
sull’esito di questo supplizio, pesantissime condanne.
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FOCUS In questo quadro mi sembra importante ricordare che seppure in questo tipo di reati è spesso
inevitabile che le dichiarazioni della persona offesa assumano un ruolo centrale, ed a volte anche
esclusivo, nella raccolta di indizi e prove, è sempre bene tenere conto di tutti i possibili strumenti di indagine che possono risultare estremamente utili anche in queste vicende.
Proprio a proposito del caso di Rignano si è osservato che una semplice intercettazione ambientale, ad esempio, avrebbe potuto consentire di confermare o escludere anomalie nella vita
quotidiana dell’istituto, come le uscite collettive di bambini ed insegnanti per trasferirsi nel
luogo in cui si sarebbero verificati gli abusi.
Intercettazioni telefoniche, telematiche, ambientali; indagini tese alla raccolta di informazioni il
più possibile complete sul contesto di provenienza del minore (pensiamo alla presenza di conflitti intrafamiliari tra accusatore ed accusato, alle denunce di abuso nel corso di separazioni e crisi
della coppia), per valutare al meglio portata e qualità del contributo che il minore stesso può dare
alle indagini; gli strumenti in possesso del titolare delle indagini, ma anche dei difensori, sia in sede di indagini difensive, che nel potere di sollecitare il PM ed indicare temi di indagine ed elementi indiziari, sono molti e possono giocare un ruolo da non sottovalutare per evitare, nei limiti
del possibile, di ridurre l’istruzione probatoria all’escussione di un bambino, spesso molto piccolo.
2. Ascoltare il minore nel procedimento penale A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 77/2003, che ha ratificato la convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti da parte dei minori, si è sviluppata una giurisprudenza su contenuto,
significato e confini dell’ascolto del minore nelle procedure giudiziarie che lo riguardano.
La l. n. 54/2006, e prima ancora il regolamento Bruxelles II bis dell’Unione europea, hanno ulteriormente precisato l’obbligo di ascolto del minore nelle procedure relative ad affidamento e
responsabilità genitoriale. Obbligo che ha trovato un autorevole sottolineatura nella notissima
sentenza delle Sezioni Unite n. 2238/2009, che ha affermato l’obbligatorietà dell’ascolto, con
onere per il giudice di motivare il perché, nel singolo caso, l’interesse del minore si tuteli meglio
non procedendo all’ascolto.
Giurisprudenza e dottrina vanno chiarendo che l’attività di ascolto del minore è strumentale
all’esplicazione di un diritto della personalità del minore stesso. Appare del tutto evidente che
l’ascolto si iscriva, qui, in una dimensione altra rispetto all’attività di ricerca della prova.
Nel procedimento penale il minore è invece sentito quale fonte di prova dichiarativa: sommario informatore del pubblico ministero (ed in astratto anche del difensore che svolga indagini
difensive) nella fase delle indagini preliminari; testimone nel processo, o in quella enclave di
istruzione probatoria che si verifica nella fase predibattimentale con l’incidente probatorio.
Delineata la fondamentale distinzione tra le due diverse cornici e finalità dell’ascolto, o se si
preferisce, più sinteticamente, tra diritto ad essere ascoltato e obbligo di rendere testimonianza,
non resta che esaminare la norma del codice di procedura penale che stabilisce il principio cardine dell’assunzione della prova dichiarativa: l’art. 196 c.p.p. prevede che ogni persona ha la capacità a testimoniare; l’art 497 c.p.p., 2° comma stabilisce che i minori infraquattordicenni sono
esentati dall’ammonizione sulle conseguenze di dichiarazioni false e non devono dichiarare di
assumere l’obbligo di dire la verità.
Proprio l’analogia con la scelta operata dal sistema del processo penale venne considerata dalla
Corte costituzionale nel 1975, sent. n. 149, per dichiarare l’illegittimità della limitazione legale
della capacità a rendere testimonianza nel processo civile da parte del minore infraquattordicenne (art. 248 c.p.c.).
È quindi il giudice a valutare, prima ancora che l’attendibilità del testimone minorenne, la sua
capacità a rendere la testimonianza.
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 3. Il minore, testimone vulnerabile Nel diritto vivente dell’Unione europea sia le vittime di minore età sia le vittime anche maggiorenni, di particolari reati, come i maltrattamenti e la violenza sessuale, sono definite vulnerabili
ed hanno diritto ad un particolare trattamento. I minori vittime di maltrattamenti ed abusi,
quindi, hanno un doppio statuto di vulnerabilità.
Parlo di diritto vivente perché l’ordinamento attuale prevede lo status di vittima vulnerabile ma
non ne definisce i requisiti specifici, che sono stati integrati dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia dell’Unione europea.
Il riferimento normativo è la Decisione Quadro dell’Unione europea 2001/220/GAI sulla posizione delle vittime nel processo penale.
Una pronuncia fondamentale della Corte di Giustizia dell’Unione europea è stata resa su una
questione pregiudiziale proposta dal giudice italiano che investita le norme della decisione
quadro sulla tutela delle vittime particolarmente vulnerabili: si tratta della nota sentenza Pupino.
Il PM di Firenze nel corso di indagini per maltrattamenti ed abuso dei mezzi di correzione a carico di una maestra di scuola dell’infanzia, chiedeva al GIP l’incidente probatorio allegando il
rischio di deterioramento della capacità mnestica dei bambini in tenerissima età rispetto ai
tempi del processo. Il Gip riteneva di non poter accogliere la richiesta in quanto l’audizione dei
minori in incidente probatorio era previsto all’epoca solo quando si procedeva per reati sessuali; sollevava però questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost., per
l’ingiustificato trattamento che i minori, vittime fragili, ricevevano in relazione alla tipologia di
reati subiti, peraltro anche nel giudizio a quo, trattandosi di reati lesivi di beni fondamentali;
sollevava altresì questione pregiudiziale alla Corte UE, chiedendo se l’art 398 bis c.p.p. poteva
essere interpretato alla luce della Decisione Quadro n. 220/2001 nel senso di consentire l’incidente probatorio nel giudizio a quo, considerando che la Decisione Quadro imponeva agli stati
membri di garantire i diritti delle vittime vulnerabili, come i minorenni, di essere sentiti in forme protette, il minore numero di volte possibile volta, prima del processo e a non eccessiva distanza di tempo dal fatto, per limitare al massimo il “danno da processo”.
La Corte costituzionale, con sent. n. 529/2002, rigettava la questione, dichiarando che essa si
risolveva in una scelta discrezionale legittimamente operata dal legislatore, che non appariva
irragionevole, anche considerando la peculiarità dei reati di violenza sessuale.
La Consulta richiamava anche l’assetto di garanzie tradizionali per la protezione del minore,
assicurate indipendentemente dal reato per cui si procede, come l’udienza a porte chiuse e la
sottrazione all’esame incrociato delle parti in dibattimento.
Molta maggiore rilevanza ebbe, invece, la questione pregiudiziale trattata dalla Grande Camera
della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che con la pronuncia del 16 giugno 2005 nel procedimento C-105/03, stabilì alcuni principi fondamentali sulla materia e sull’intero diritto dell’Unione in rapporto all’esercizio della giustizia penale degli stati membri:
• la decisione quadro è uno strumento che vincola gli Stati al raggiungimento di determinati
scopi, pur lasciandoli liberi quanto alle modalità con cui conseguirli;
• nell’interpretazione delle norme interne il giudice nazionale deve ritenersi vincolato dal contenuto delle norme di una Decisione Quadro, pur se, qualora non vi sia possibilità di interpretazione conforme, la norma non possa essere disapplicata, ma si deve aprire la procedura prevista dal diritto interno per risolvere il contrasto.
La Corte di Giustizia concludeva decidendo che in forza della decisione quadro doveva essere
assicurato in tutti gli stati membri il diritto dei bambini che assumono la posizione di persone
offese nel procedimento penale allo speciale trattamento in essa indicato.
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FOCUS Si deve a questa pronuncia l’impulso alla riforma dell’istituto dell’incidente probatorio avvenuta nel 2009, con l’ampliamento del meccanismo dell’audizione protetta per raccogliere anticipatamente la prova per tutti i minori, e non solo gli infrasedicenni, ed anche per i reati di maltrattamento e stalking, e non solo per quelli sessuali. Una riforma di necessario adeguamento
del nostro ordinamento al diritto dell’Unione.
4. L’incidente probatorio: generalità e questioni aperte Nato per porre rimedio al rischio di compromissione o perdita della fonte di prova (es.: testimone anziano o malato; necessità di accertamenti su cose soggette a deterioramento o distruzione) l’istituto dell’incidente probatorio, con riferimento ai minori diviene strumento per realizzare, nella raccolta della prova, l’equilibrio tra le esigenze di protezione del testimone minorenne ed il rispetto del contraddittorio nella formazione della prova stessa.
Il quadro degli strumenti per la protezione del minore nel processo, cioè l’audizione a porte
chiuse, la sottrazione all’esame incrociato, l’assistenza affettiva di un familiare o di una persona
significativa, l’assistenza dei servizi ai sensi dell’art 609 decies c.p., risulta notevolmente arricchito dal meccanismo di assunzione anticipata della prova a richiesta di una delle parti.
È da precisare che la persona offesa non riveste la qualità di parte fino alla costituzione di parte
civile; essa può solo sollecitare il pubblico ministero a chiedere l’incidente probatorio e non
esistono strumenti di impugnazione del diniego del PM a procedere in tal senso.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea si è recentemente pronunciata, sempre su questione
pregiudiziale proposta dall’ufficio gip gup di Firenze, nel senso che tale mancata previsione nel
nostro ordinamento non viola la decisione quadro sui diritti delle vittime.
L’aspetto maggiormente delicato di questo istituto è costituito dalle modalità con cui avviene
l’audizione testimoniale, spesso non direttamente curata dal giudice (per le indagini preliminari o dell’udienza preliminare), ma da parte di un esperto che dal giudice è nominato.
La previsione di cui all’art 498 c.p.p., che il giudice nell’esaminare il minore possa avvalersi «dell’ausilio di un esperto di psicologia infantile», è assai vaga riguardo al contenuto di questo avvalersi.
Questo ha comportato lo sviluppo di diverse prassi, non solo in relazione all’età del minore, il che
appare del tutto sensato, ma anche in dipendenza di scelte ed approcci differenti da parte degli
uffici giudiziari, e a volte di diversi giudici dello stesso ufficio, oltre che in dipendenza dell’approccio e delle convinzioni personali dei singoli esperti di volta in volta incaricati: vi sono audizioni totalmente demandate all’esperto ed audizioni condotte dal giudice assieme all’esperto; a
volte il minore non entra a contatto con il giudice, a volte ha modo di incontrarlo, all’inizio o alla
fine dell’audizione, a volte fuori udienza e a volte, invece, nel contesto dell’attività che viene audiovideoregistrata. Lo stesso primo incontro tra minore ed esperto avviene a volte direttamente
in udienza, altre volte in un attività che la precede, su disposizione del giudice e sulla quale le parti
non hanno alcun potere di controllo. In alcuni uffici l’esperto che conduce l’esame ha un auricolare collegato con la stanza in cui si trovano il giudice e le parti; in questi casi a volte queste ultime
hanno tutte il microfono e possono quindi interloquire direttamente con l’esperto stesso, mentre
a volte solo il presidente può interloquire, eventualmente su sollecitazione delle parti stesse.
Quando non si utilizza l’auricolare e non vi è possibilità di comunicare tra la stanza in cui si trova il giudice con le parti e quella in cui l’esperto è con il minore, l’esame del minore è preceduto
da una sorta di briefing sullo svolgimento dell’esame, che a volte si ripete nel corso dello stesso
in una breve sospensione, in cui le parti indicano al giudice ed all’esperto domande e contestazioni da formulare al minore e formulano osservazioni sull’esame.
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 È pacifico nella prassi, benché nessuna norma lo disponga, che l’esperto sia autorizzato dal giudice che dispone l’incidente probatorio a consultare gli atti di indagine finora compiuti che sono anche a conoscenza dell’indagato e della persona offesa, in quanto sono oggetto di discovery
completa mediante deposito nella cancelleria gip-gup da parte del titolare delle indagini.
Questo accesso agli atti da parte dell’esperto ovviamente favorisce la dinamica di sua sostituzione al giudice nell’esame del minore, piuttosto che l’ausilio al giudice nella conduzione dell’esame stesso.
La varietà di prassi, buone e cattive, è davvero eccessiva e di per sé indice della necessità di
giungere alla condivisione di alcuni punti fermi, pur mantenendo la necessaria flessibilità operativa in considerazione delle caratteristiche di età e grado evolutivo del minore.
Il punto maggiormente critico è dato però dal fatto che vi è una profonda disomogeneità rispetto alla stessa attivazione dell’incidente probatorio, che spesso non viene richiesto o si celebra a notevole distanza dai fatti oggetto della testimonianza.
Il problema si pone nei seguenti termini: il quadro di garanzie di protezione del minore nel
procedimento penale è tutto spostato in avanti, cioè è relativo essenzialmente al momento della raccolta della prova. Tale assetto di garanzie può poi essere anticipato alla fase precedente
con l’incidente probatorio, ma non vi è un obbligo in tal senso. La comunità degli esperti in psicologia infantile (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili) è nella maggioranza concorde
sul fatto che le dichiarazioni del bambino pongono meno problemi di attendibilità quanto minore è il tempo trascorso dai fatti a cui si riferiscono.
Anche la Cassazione ha da tempo affermato che le prime rivelazioni da parte dei minorenni sono
le più attendibili. Che le dichiarazioni del minore utili al processo siano raccolte il più possibile a
ridosso dei fatti a cui si riferiscono è auspicato anche dalle linee guida per la giustizia child friendly
licenziate dal Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010 ed è, soprattutto, prescritto nella convenzione di Lanzarote contro lo sfruttamento sessuale dei minori, aperta alla firma dal Consiglio
d’Europa il 25 ottobre 2007 e che l’Italia ha sottoscritto, dando avvio alla procedura di ratifica (il 17
maggio 2012 il testo della legge di ratifica è stato approvato dal Senato ed è tornato alla Camera).
Ma se queste sono le indicazioni che provengono dalla miglior scienza ed esperienza, anche recepite dalla giurisprudenza di legittimità e confermate da linee guida e nelle prospettive evolutive dell’ordinamento sovranazionale, resta il fatto che non esiste, allo stato, un vincolo normativo che presidia la celebrazione immediata o comunque senza ritardo della raccolta della prova
dichiarativa del minore.
5. L’incidente probatorio: prospettive evolutive dell’ordinamento UE Come si è precedentemente osservato la materia di cui ci occupiamo è fortemente segnata dal
peso della legislazione sovranazionale. Il contesto giuridico europeo è caratterizzato da due elementi fondamentali collegati all’entrata in vigore del trattati di Lisbona: il primo è l’abolizione del
terzo pilastro UE, in cui rientrava l’ambito GAI, giustizia e affari interni, e che era caratterizzato in
senso internazionalista e non sovranazionale, con normazione che impegnava i singoli Stati a raggiungere determinati obiettivi, ma non incidendo in modo immediato nei loro ordinamenti; il
secondo è la costituzionalizzazione della carta di Nizza ed il recepimento nel diritto dell’Unione
dei principi CEDU e della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In forza di questi elementi oggi dobbiamo fare i conti con una normazione europea sui temi della
giustizia delle persone e delle relazioni, compresa la giustizia penale, che sempre più è direttamente efficace nell’ordinamento interno e con il potere del giudice sovranazionale di individuare
le norme interne incompatibili con l’ordinamento sovranazionale e quindi da disapplicare.
30
FOCUS Clamoroso esempio di questa evoluzione, tra i tanti, è stata la sentenza della Corte di Giustizia
dell’Unione europea che ha di fatto aperto le porte delle carceri italiane dichiarando che doveva essere disapplicata la norma che criminalizzava la mancata ottemperanza all’ordine di espulsione da parte dell’immigrato irregolare per contrasto con la direttiva rimpatri dell’Unione.
Tornando al nostro tema, è in corso di preparazione una direttiva UE in materia di protezione
delle vittime nel procedimento penale che sostituirà la decisione quadro e che a differenza di
quest’ultima ha un ben più forte carattere di vincolatività per gli stati membri.
La proposta di direttiva, COM(2011), tra le altre cose presenta due elementi degni di nota:
a) l’espressa individuazione dei minori e delle vittime di reati sessuali come vittime particolarmente vulnerabili;
b) l’obbligo di raccolta delle dichiarazioni del minore fin nella fase di indagine in modo che esse abbiano efficacia probatoria nel processo.
L’entrata in vigore della direttiva, così come della ratifica della convenzione i Lanzarote, porranno rimedio alle attuali incertezze e la decisione di assumere la testimonianza del minore verrà sotratta a valutazioni di strategia investigativa o, peggio ancora, a inquietanti percorsi di
“preparazione del minore”. L’incidente probatorio dovrà avvenire senza ritardo e non dopo mesi
o anni e magari dopo ripetute audizioni a sommarie informazioni e presa in carico dei servizi
con colloqui con vari operatori e trattamenti psicoterapeutici.
6. La questione del recupero delle dichiarazioni predibattimentali Il drammatico problema che si pone attualmente in assenza di una prassi condivisa o di un vincolo normativo a svolgere senza ritardo l’attività di raccolta della prova è dato dalle conseguenze dell’impossibilità sopravvenuta di raccoglierla successivamente.
È essenziale, per ragionare su questo problema, tenere conto del fatto che le dichiarazioni che il
minore rende al PM o agli ufficiali di polizia dallo stesso delegati, o anche ad un esperto sempre
incaricato dal titolare delle indagini, si inquadrano nell’attività di raccolta di informazioni al fine di orientamento delle indagini e di assicurazione della fonte di prova. L’indagato, ovviamente, non ha notizia di questa attività né diritto al contraddittorio.
La possibilità che il materiale raccolto in questa fase possa entrare nel dibattimento diventando
materiale probatorio a pieno titolo, è pertanto eccezionale e ridotta all’unica ipotesi di cui all’art. 512 c.p.p.: quando si tratti di atti di cui è divenuta impossibile la ripetizione per circostanze non prevedibili.
Impossibilità in senso oggettivo, quindi ed imprevedibilità dell’evento da parte di chi richiede o ha
interesse all’ingresso dell’atto nel dibattimento. La parte che fa la relativa richiesta è, ovviamente,
onerata dal dimostrare sia l’impossibilità, sia l’imprevedibilità dell’evento che l’ha generata.
Occorre considerare che non vi è alcuna norma che regoli, limiti e fornisca di garanzie di protezione l’escussione del minore da parte del titolare delle indagini, in quanto, come si è detto le
garanzie sono tutte spostate in avanti e riferite all’assunzione della prova.
Il risultato è che il minore può giungere al dibattimento, come all’incidente probatorio, se questo non si celebra tempestivamente, dopo ripetute dichiarazioni raccolte a verbale di sommarie
informazioni testimoniali.
Ebbene, non è infrequente che si ponga, nei procedimenti di cui ci occupiamo, il seguente problema: il minore non è stato sentito in incidente probatorio o questo si celebra a lunghissima
distanza dai fatti: i servizi che lo seguono, o un professionista, anche incaricato dal giudice, attestano che l’audizione testimoniale costituisce per il minore un rischio di grave sofferenza psi31
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 chica, oppure che il minore ha avuto nel tempo un fenomeno di rimozione e non è in grado di
rievocare i fatti sui quali è già stato escusso a sommarie informazioni.
A questo punto si aprono due strade alternative: o il minore viene sentito ugualmente con gli
ovvi rischi che ne seguono sia per la sua salute psichica e sia per l’esito del procedimento, nel
caso della rimozione; oppure si ritiene applicabile l’art 512 c.p.p.; si fa così entrare nel giudizio
una “prova prefabbricata”, rispetto alla quale l’accusato subisce una grave limitazione del diritto
di difesa: gli resta il contraddittorio sulla prova, mentre è privato del diritto al contraddittorio
nella formazione della prova.
Sono due scenari entrambi inquietanti: nel primo caso è il minore a subire un tormento, tanto
più penoso quanto inutile ai fini di giustizia, trattandosi di una prova spesso non convincente e
che sarà soggetta a contestazioni. Nel secondo caso l’imputato è privato del right of confontation, diritto fondamentale sancito dalla CEDU e costantemente richiamati dalla giurisprudenza
della Corte Europea di Strasburgo, tra l’altro proprio in molti processi, anche italiani, in tema di
abusi sessuali sui minori. Si tratta del nucleo fondamentale del giusto processo: la possibilità
per l’accusato di controinterrogare il suo accusatore.
La prova costituita dalla lettura delle dichiarazioni rese in fase di indagini sarà poi soggetta,
come si diceva, a ovvie contestazioni, in quanto è ben difficile sostenere che non era prevedibile che la sofferenza ed il tempo trascorso potessero influire nella capacità di testimoniare o rendere particolarmente pregiudizievole per il minore ricevere una nuova sollecitazione a parlare.
Va infine rilevato che proprio in relazione al recupero ai fini del giudizio delle dichiarazioni
predibattimentali si va registrando una discrasia tra l’ordinamento processuale penale italiano e
la CEDU, in quanto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha stabilito e ribadito che in nessun caso una condanna può fondarsi esclusivamente su prove costituite da atti compiuti in fase
di indagini senza il contradittorio con l’accusato. Invece l’art 512 c.p.p., benché sia restrittivo
nel prevedere la deroga al contradittorio nella formazione della prova solo in caso di impossibilità oggettiva e non prevedibile a ripetere gli atti, non vieta, però, che si pervenga a condanna
anche solo unicamente sulla base di tali non ripetibili.
La mancata tempestiva assunzione dell’audizione testimoniale del minore,, conduce, in conclusione, sempre ed in ogni caso ad un risultato negativo, di cui possono fare le spese sia la persona offesa, sia l’imputato e persino entrambi.
7. Metodologie di esame del minore Da un esame sommario dei motivi di appello e di cassazione di una grande quantità di sentenza
relative ad abusi e maltrattamenti su minori, si evince che le doglianze di chi impugna sono
quasi sempre relative alla mancanza di correttezza dell’assunzione della prova testimoniale della persona offesa rispetto alle indicazioni della miglio scienza ed esperienza in tema di testimonianza del minore. La realtà è che difficilmente possono essere gli esperti a dare risposte certe
agli operatori del diritto soprattutto quando anche al loro interno sono divisi da visioni ed approcci estremamente differenti.
Quel che certamente si deve fare è di considerare come indiscutibili i punti sui quali vi è una
posizione largamente condivisa nella comunità scientifica di riferimento, quanto meno per poter chiedere di volta in volta, ad un esperto, i motivi per cui se ne discosta.
Il riferimento obbligatorio è costituito da almeno tre documenti, tutti facilmente reperibili anche sull’internet: le linee guida deontologiche dello psicologo forense elaborate dall’associazione italiana di psicologia giuridica; la Carta di Noto, nella versione aggiornata del 2011; ma soprattutto le linee guida della consensus conference intersocietaria sulla testimonianza del minore
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FOCUS nel processo penale, che rappresenta certamente l’attuale riferimento scientifico maggiormente
accreditato ed autorevole, trattandosi di un documento sottoscritto e pubblicato nel 2010 da
ben sei tra associazioni e società scientifiche rappresentative di professionisti esperti di psicologia dell’infanzia e dell’adolescenza. La dialettica tra operatori del diritto ed esperti, che sono a
tutti gli effetti operatori del processo penale, sarà tanto più feconda quanto più fondata su una
conoscenza reciproca delle rispettive mission professionali nel contesto del procedimento, senza alcuna dinamica di subordinazione o di delega. L’esperto deve rendere un servizio al procedimento, portandovi il suo sapere tecnico, dandone conto rispetto agli standards della comunità scientifica di riferimento e nel rispetto delle regole e delle finalità del procedimento stesso;
spetta soprattutto al giudice, ed è interesse delle parti, assicurare tale rispetto.
8. Conclusioni Troppo a lungo, io credo, si è ragionato sulla contrapposizione tra diritto del minore alla protezione
e diritto della difesa da parte dell’imputato. Si tratta di una contrapposizione che non sussiste e che
corrisponde ad un ozioso dibattito pseudoscientifico e ideologico, quando non tristemente condizionato da interessi estranei al buon andamento della giustizia, tra difensori ad oltranza ed a priori
di tesi colpevoliste, da una parte, e professionisti dello smascheramento dei falsi abusi dall’altra.
Il minore, testimone vulnerabile per le sue caratteristiche, ha diritto ad uno speciale statuto di
protezione quando è coinvolto in un procedimento penale.
Questo statuto di protezione prescinde dalle valutazioni su capacità a testimoniare, credibilità
ed attendibilità delle dichiarazioni rese e, infine, dal fatto che il minore sia o no stato vittima di
abuso, perché questo, l’eventuale responsabilità penale dell’imputato, è proprio ciò che deve
essere accertato.
Questo diritto del minore alla protezione, a che il processo penale fletta alcune sue modalità
operative in considerazione della vulnerabilità del minore stesso, non si bilancia con il diritto di
difesa, ma si attua nel giusto processo.
Il giusto processo risponde ad un interesse fondamentale della società prima ancora che dell’accusato; e risponde anche ad un preciso interesse della vittima.
Esistono gli strumenti che consentono di raccogliere la prova con tempi e modalità tali che non
solo siano rispettose dell’esigenza di protezione del minore ed al contempo del giusto processo;
ma possono anche assicurare un processo giusto, attraverso un’efficace istruzione probatoria.
Spesso infatti si dimentica che l’audizione tempestiva, protetta e mediata da un esperto, un vero esperto, non risponde solo ad esigenze di protezione, ma anche di genuinità della prova.
L’art. 188 c.p.p., rubricato “libertà morale della persona nell’assunzione della prova” dispone il
divieto di «impiegare metodi o tecniche idonee a influire sulla libertà di autodeterminazione o di alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti».
È chiaro che sottrarre il minore all’esame incrociato, esaminandolo a porte chiuse e sottraendolo al
confronto diretto e con l’accusato ed utilizzando tecniche di escussione appropriate alle caratteristiche psicologiche ed evolutive che egli presenta, significa non solo evitare di esporlo a pregiudizio, ma anche attingere alla fonte di prova nella maniera più idonea a preservarne la genuinità.
Sono le scienze dell’età evolutiva che ci dicono che sottoporre un bambino ad un esame incrociato,
con esame diretto e controesame con domande suggestive, è un modo inappropriato di assumere
informazioni attendibili; qualcosa che dunque nuoce non solo al bambino, ma anche al processo.
Lo statuto di speciale protezione della fonte dichiarativa minorenne deve quindi trovare completa attuazione nel nostro ordinamento ed a pieno titolo essere riconosciuto come modalità
specifica di attuazione del giusto processo e non come un’ipotesi di deroga allo stesso.
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI ECONOMICI NELLE RELAZIONI FAMILIARI: IL PUNTO SUI CONFINI DELLA TUTELA PENALE Matteo Pinna
Avvocato del Foro di Cagliari
Sommario: 1. Crisi delle relazioni familiari e protezione economica dei soggetti deboli: il fronte disorganico (ed
anacronistico) della tutela penale. – 2. Separazione e affidamento (art. 3, l. n. 54/2006). – 3. Divorzio (art. 12
sexies, l. n. 898/1970). – 4. Privazione dei mezzi di sussistenza (art. 570, 2° comma, n. 2, c.p.). – 5. Elusione fraudolenta di provvedimenti giudiziari (art. 388, 1° comma, c.p.). – 6. Interazioni tra fattispecie. – 7. Conclusioni.
1. Crisi delle relazioni familiari e protezione economica dei soggetti deboli: il fronte disorgani‐
co (ed anacronistico) della tutela penale È noto che sul piano della coerenza sistematica e della tecnica normativa, la tutela penale delle
relazioni familiari non brilla per chiarezza e linearità, ma soprattutto mostra un alto tasso di
anacronismo: il passaggio – avviato ormai da più di quarant’anni – da una concezione autoritaria costruita intorno alla stabilità dei vincoli quale primario interesse pubblico ad un modello
democratico costituzionalmente orientato, consensualistico-sociale, non ha notoriamente stimolato analoghe trasformazioni nel sistema delle incriminazioni 1, verso schemi di tutela imperniati, più che sulla conservazione dei rapporti e dell’ordine familiare, sulla difesa dei soggetti
deboli in caso di crisi dei legami di solidarietà personale.
Ciò vale in modo particolare per la protezione degli interessi economici: un fronte frastagliato
e disorganico, prodotto da una disciplina sanzionatoria formatasi “per accumulo” a partire dal
nucleo spiccatamente autoritario dei delitti contro la famiglia previsti dal codice Rocco, passando attraverso la seconda riforma sul divorzio del 1987 e fino alla recente legge del 2006 sull’affidamento condiviso.
Sul terreno dell’inosservanza degli obblighi patrimoniali l’apparato punitivo attuale ruota essenzialmente intorno a quattro fattispecie principali: (1) il delitto di «omessa prestazione dei mezzi
di sussistenza» di cui all’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p., mai modificato nella sua struttura fondamentale dal 1930, la cui inattualità «ha potuto resistere, in parte, al tempo solo grazie all’indeterminatezza della formulazione» 2; (2) il delitto di sottrazione all’obbligo di corresponsione del1
In argomento, diffusamente, R. BARTOLI, Modelli di tutela penale contro la violazione degli obblighi familiari, in Pol. dir.,
2008, p. 481 ss.
2
P. ZAGNONI BONILINI, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, a cura di
A. Cadoppi, vol. VI, Utet, Torino, 2009, p. 504.
34
FOCUS l’assegno divorzile di mantenimento (art. 12 sexies, l. n. 898/1970, introdotto dalla c.d. seconda
riforma del divorzio del 1987); (3) il delitto di sottrazione agli obblighi economici imposti in
sede di separazione e di affidamento dei figli (art. 3, l. n. 54/2006); l’elusione fraudolenta degli
obblighi derivanti da provvedimenti giudiziari (art. 388, 1° comma, c.p., come modificato dalla
l. n. 94/2009).
All’interno di questo sottosistema l’impegno ermeneutico è complicato innanzitutto dalla discutibile tecnica di formulazione dei precetti e delle sanzioni: l’unica disposizione strutturalmente compiuta è infatti quella di cui all’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p., ovvero la più datata; unica a descrivere compiutamente la condotta materiale (quella di chi «fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non
sia legalmente separato per sua colpa»), a fissare direttamente la sanzione (reclusione fino a un
anno e multa da 103 a 1.032 euro), a specificare il regime di procedibilità (a querela di parte,
d’ufficio se il reato è commesso in danno di minori), ad introdurre una clausola di sussidiarietà
espressa (art. 570, 4° comma, c.p.). Le restanti e più moderne fattispecie – proprio quelle introdotte appositamente per sanzionare l’inadempimento degli obblighi economici nelle crisi
familiari – sono invece il fumoso risultato normativo di una sequenza di rinvii “a cascata”: la
«disposizione penale» introdotta più recentemente dalla l. n. 54/2006 sull’affidamento condiviso si limita infatti, senza alcuna specificazione, a prevedere che «in caso di violazione degli obblighi di natura economica si applica l’art. 12-sexies» della legge sul divorzio; il quale, come si sa, è
però esso stesso un rinvio sia sul precetto che sulla pena («al coniuge che si sottrae all’obbligo di
corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 [...] si applicano le pene previste
dall’art. 570 del codice penale»), e necessita di essere integrato dalle due norme extrapenali della medesima legge che regolano rispettivamente l’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge e
quello di mantenimento a favore dei figli nonché, quoad poenam, dall’art. 570 c.p. che peraltro
contiene trattamenti sanzionatori eterogenei (pena alternativa nelle ipotesi del 1° comma, pena
congiunta in quelle del 2° comma) 3 e regimi di procedibilità diversificati.
Insomma un quadro nel quale gli ordinari strumenti di tutela – quelli che dovrebbero essere
attivati fisiologicamente per proteggere i diritti patrimoniali dei familiari deboli al di fuori dei
casi limite previsti dal codice penale – non sono normativamente autosufficienti, con tutte le
difficoltà che ne derivano innanzitutto in punto di corretta identificazione delle condotte punibili. E ciò appare ancora più paradossale se si pensa che proprio la fattispecie di riferimento – a
differenza di quelle più recenti modellate “in bianco” su di essa – rappresenta, lo si ripete, una
delle espressioni più paradigmatiche del modello pre-costituzionale ormai tramontato di famiglia 4 come «istituto etico-giuridico» 5, diretto primariamente alla conservazione degli assetti
formalizzati con il vincolo matrimoniale piuttosto che alla salvaguardia – centrale in tutti gli interventi repubblicani sul diritto di famiglia – dei diritti individuali dei suoi componenti.
Ciò premesso, e rinviando ai paragrafi che seguono una sintetica analisi delle principali questioni poste dalle singole fattispecie, si può tentare una rapida ricognizione dell’area di illiceità.
Può incorrere oggi in responsabilità penale: 1) il genitore che non rispetta gli obblighi di natura
economica stabiliti anche in via provvisoria in favore dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti in sede di separazione personale, divorzio, dichiarazione di nullità del matrimonio o
3
In argomento L. PICOTTI, Le disposizioni penali della nuova legge sull’affidamento condiviso dei figli, in Famiglia e diritto,
2006, p. 553 ss.
4
Sul tema, per tutti, V. SCORDAMAGLIA, Prospettive di nuova tutela penale della famiglia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, p. 366 ss.
5
Si tratta della nota espressione della Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale.
35
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 comunque nelle decisioni sull’affidamento di cui agli artt. 155 ss. c.c. (art. 3, l. n. 54/2006); 2)
il coniuge o il genitore che si sottrae alla corresponsione dell’assegno di mantenimento stabilito
in via definitiva in sede di divorzio in favore dell’ex coniuge o dei figli; 3) il coniuge o il genitore
che, avendone la capacità economica, fa mancare all’altro coniuge (anche separato) o ai figli
minori o maggiorenni non autosufficienti i mezzi necessari per le elementari esigenze di sostentamento (art. 570, 2° comma, n. 2, c.p.); 4) il coniuge, l’ex coniuge o il genitore il quale, al fine
di sottrarsi ai contenuti patrimoniali di provvedimenti giudiziari posti a tutela dell’altro coniuge, dell’ex coniuge o dei figli, compie su beni propri o altrui atti simulati o fraudolenti (art. 388,
1° comma, c.p.).
Almeno in astratto la combinazione – e talvolta la sovrapposizione in concorso eterogeneo –
delle figure delittuose appena elencate dovrebbe coprire tutti i comportamenti idonei a frustrare o a mettere in pericolo le aspettative patrimoniali dei soggetti deboli nell’ambito delle crisi
familiari. Tuttavia così non è, poiché rimangono vasti quanto ingiustificati vuoti di tutela come
quello che riguarda la tutela patrimoniale ordinaria in favore del coniuge separato, su cui si tornerà più avanti.
Si può comunque notare, per come è oggi strutturato il sistema, che nella fase della crisi delle
relazioni familiari la disciplina penalistica è diversa a seconda che si tratti della coppia oppure
del rapporto tra genitori e figli. Nel primo caso esiste una differenza essenziale tra coniuge separato e coniuge divorziato, per quest’ultimo essendo sanzionata anche solo l’inosservanza degli obblighi patrimoniali imposti dal giudice mentre per il primo la responsabilità penale è limitata ai casi estremi in cui si facciano mancare i mezzi di sostentamento. Solo in relazione ai figli
il perimetro della protezione penale copre di fatto tutti gli spazi possibili, ossia tutte le ipotesi di
inadempimento degli obblighi economici imposti da provvedimenti giudiziari.
2. Separazione e affidamento (art. 3, l. n. 54/2006) La riforma del 2006 sull’affidamento condiviso ha segnato la fine di un sistema – peraltro “salvato” dalla Corte costituzionale in una nota sentenza del 1989 6 – nel quale la tutela penale del
regime patrimoniale della separazione era sostanzialmente affidato alla fattispecie limite
dell’art. 570 c.p.
In virtù della norma di chiusura di cui all’art. 4, 2° comma, l. n. 54/2006, peraltro, le nuove incriminazioni sono destinate ad operare, oltre che nel contesto naturale della separazione, anche
nei casi di «scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché nei procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» 7.
L’uso – piuttosto discutibile, come si è visto – del rinvio all’art. 12 sexies della legge sul divorzio
non implica però, come sembra ormai fuori discussione, una sovrapponibilità dei beneficiari,
ed in particolare l’automatica estensione della tutela a tutti i soggetti protetti dalla normativa
sul divorzio, ivi compreso il coniuge: è il contenuto normativo dell’intervento del 2006, limitato alle misure poste a protezione dei figli, a non consentire estensioni.
L’art. 3 della l. n. 54/2006 protegge dunque soltanto, secondo l’esegesi che appare preferibile
su base testuale e sistematica, l’interesse dei figli (sia minori che maggiorenni non indipendenti
6
Corte cost. 31 luglio 1989, n. 472, in Cass. pen., 1990, p. 374 s.
Sulle implicazioni penali della riforma del 2006 cfr. L. PICOTTI, op. cit., p. 555; G. DOSI, Le nuove norme sull’affidamento e
sul mantenimento dei figli e il nuovo processo di separazione e divorzio, in Dir. giust., suppl. al fasc. n. 23, 2006, p. 35 ss.
7
36
FOCUS economicamente) all’integrale rispetto 8 delle prescrizioni patrimoniali imposte ai genitori (anche in via provvisoria) nell’ambito dei provvedimenti di cui agli artt. 155 ss. c.c. (assegni di mantenimento, ma anche provvedimenti sull’assegnazione della casa familiare), nonché – stante il
rinvio all’art. 2 della medesima legge – degli specifici provvedimenti adottati dal giudice nell’ipotesi di «gravi inadempienze» o di «atti che arrechino pregiudizio al minore» (nuovo art. 709
ter c.p.c.).
Tale interpretazione è stata di recente avvalorata anche dalla giurisprudenza di legittimità 9: nel
disattendere la tesi secondo cui «in ipotesi di violazione degli obblighi di natura economica, in materia di separazione dei genitori, sarebbe sanzionato penalmente tanto il mancato mantenimento del
genitore nei confronti del figlio, quanto il mancato mantenimento del coniuge nei confronti dell’altro», la Corte di Cassazione ha rilevato che essendo l’art. 3 citato una «norma penale di chiusura di una legge speciale di riforma, [...] debba ragionevolmente supporsi che la “violazione degli obblighi di natura economica” si riferisca in modo esclusivo al novellato art. 155 c.c. ed alle successive
norme introdotte in materia», come peraltro si desumerebbe in modo inequivoco dai lavori preparatori. Per quante comprensibili perplessità possa sollevare il risultato esegetico, è dunque
pacifico anche per il Supremo collegio che «dalla riforma del 2006 è rimasta esclusa la sanzione
di natura penale per il mancato adempimento degli obblighi verso il coniuge separato», e l’interpretazione che si impone «è quella che individua gli obblighi di natura economica oggetto di tutela penale soltanto in quegli obblighi economici regolamentati dalla legge n. 54 del 2006, e cioè: gli obblighi
di natura economica posti a carico di un genitore a favore dei figli (minorenni e maggiorenni), escludendo quindi gli obblighi posti a carico di un coniuge a favore dell’altro, avuto riguardo al fatto che questi rapporti economici [...] non sono stati oggetto di modifica da parte della legge n. 54 del 2006»; la
conseguenza, conclude la sentenza, è che «ai coniugi separati rimane solo la tutela individuata dall’art. 570 c.p.» 10.
Secondo molti si tratterebbe di un’asimmetria paradossale: la protezione penale sarebbe più
ampia dove non esiste più neppure un sostrato familiare, e sarebbe invece estremamente più
circoscritta dove tale sostrato, per quanto deteriorato, ancora sussiste 11. E a poco servirebbe,
secondo questa impostazione, rievocare gli argomenti spesi dalla Corte costituzionale nel 1989
per giustificare tale squilibrio 12: il separato, invece che essere più laicamente avvicinato al divorziato nella protezione penalistica, continua di fatto ad essere – in linea con una visione ancora implicitamente assolutistica ed autoritaria delle relazioni familiari – assimilato al coniuge.
Su tali conclusioni critiche si può certamente essere d’accordo, seppure per ragioni forse ancora più elementari: il vuoto di tutela penale nei confronti dei diritti patrimoniali del coniuge se8
A proposito dell’irrilevanza di adempimenti parziali pur sufficienti per il soddisfacimento dei bisogni del minore v., di recente, Cass., Sez. VI, 5 aprile 2011, n. 16458.
9
Cass., Sez. VI, 22 settembre 2011, n. 36263.
10
Per le medesime conclusioni, in dottrina, L. PICOTTI, op. cit., p. 553; dello stesso avviso F. KING, Le novità introdotte in
ambito penale dalla legge sull’affidamento condiviso (l. 8 febbraio 2006, n. 54), in Cass. pen., 2006, p. 2622. Sul tema v. anche,
in generale, F. CESARI, Le disposizioni penali e l’affidamento. La violazione degli obblighi economici previsti dalla legge sull’affidamento condiviso, in M. SESTA-A. ARCERI (a cura di), L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, Utet, Torino, 2012, p.
1029 ss.
11
È l’autorevole opinione di T. PADOVANI, Art. 12-sexies, in G. CIAN-G. OPPO-A. TRABUCCHI, Commentario al diritto italiano della famiglia, vol. VI, Cedam, Padova, 1993, p. 536 s., il quale si domanda appunto «se sia plausibile che la tutela assuma dimensioni inverse rispetto alla “consistenza” delle situazioni tutelate: maggiore là dove difetta un sostrato familiare, minore
là dove esso ricorre, se si considera che proprio la sussistenza di una famiglia finisce col rendere più significativa l’offesa, perché la
innesta in un contesto di doveri ancora attuali».
12
Secondo questa impostazione, in estrema sintesi, non sarebbe irragionevole tutelare in forme più estese una posizione
soggettiva, quale il mero diritto di credito del coniuge divorziato, tendenzialmente più debole ed esposta di quella del coniuge
separato, il quale può comunque normalmente contare su un rapporto personale non definitivamente compromesso.
37
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 parato è inaccettabile non solo e non tanto per le incrostazioni ideologiche che probabilmente
lo alimentano, quanto – più semplicemente – per la scarsa attenzione per la posizione di un
soggetto debole, vero fulcro di una moderna politica delle incriminazioni in ambito familiare 13.
Circoscritta rispetto alla disciplina del divorzio sul fronte dei soggetti passivi, la tutela penale
della fase di separazione è invece più ampia sul fronte delle posizioni giuridiche tutelate: l’art. 3
l. n. 54/2006 impone infatti il rispetto di qualunque provvedimento di natura economica, non
solo dell’assegno di mantenimento; rilevano le inadempienze sul quantum, ma anche quelle che
attengono al «modo con cui [ciascuno dei genitori] deve contribuire» al mantenimento dei figli
(art. 155, 2° comma, c.c.); il presidio penale opera, oltre che nella fase di separazione, in tutte le
altre situazioni assimilate dall’art. 4, 2° comma, l. n. 54/2006, quindi anche nel divorzio (sotto
questo profilo, a ben vedere, l’art. 3 sostanzialmente assorbe e duplica l’art. 12 sexies, l. n. 898/
1970) oltre che nei casi di nullità del matrimonio.
Secondo un’opinione dottrinale non ancora vagliata dalla giurisprudenza di legittimità, il rinvio
a qualunque obbligo «di natura economica» concernente i figli stabilito in generale dalla disciplina civilistica implicherebbe la rilevanza anche delle mere violazioni «dell’obbligo generale
gravante su “ciascuno dei genitori” di provvedere in sede di separazione (ma anche nelle altre situazioni enunciate dall’art. 4, comma 2, legge n. 54/2006) al “mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”» 14, considerati «1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso
ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti
domestici e di cura assunti da ciascun genitore» (art. 155 c.c., come novellato dalla l. n. 54/2006).
Si tratta, dal punto di vista strutturale, di un reato omissivo puro di natura permanente, unico
nel caso di violazioni ripetute di un medesimo obbligo (ad esempio, il mancato versamento a
diverse scadenze), plurimo in caso di violazioni anche singole di obblighi di natura differente.
Trattandosi di delitto a dolo generico, la responsabilità non è esclusa nei casi limite in cui, sul
piano volitivo, manchi una vera e propria decisione di non adempiere, e l’agente si trovi per
esempio nel dubbio «se sia conveniente proporre, invece, richiesta di revoca o cercare un diverso accordo con il coniuge, per il supposto modificarsi di alcune condizioni o per l’emergere di nuove situazioni che potrebbero incidere sulla misura o la modalità del contributo da versare», essendo irrilevante ed assimilabile all’errore tendenzialmente inescusabile sul precetto l’errata percezione o
interpretazione dei contenuti dell’obbligo o del provvedimento impositivo. Analoga conclusione, alla luce della struttura formale dell’incriminazione, dovrebbe raggiungersi nelle ipotesi in
cui si raggiunga, successivamente al provvedimento giurisdizionale, un accordo tra i genitori in
relazione alla totale o parziale disapplicazione del contenuto delle prescrizioni patrimoniali 15.
13
In questo senso, persuasivamente, R. BARTOLI, op. cit., p. 503, secondo cui «se al centro della tutela si pone il soggetto più
debole, le due fasi della separazione e del divorzio finiscono per essere nella sostanza identiche, con la conseguenza che una tutela
deve scattare nel momento in cui non si adempie l’obbligo imposto dal giudice. Potendosi tutt’al più attribuire rilevanza alla differenza che mentre la separazione consente ai coniugi di ritornare assieme, al contrario il divorzio segna la totale cessazione del rapporto, differenza che può essere fatta valere non sul piano dell’assetto della tutela, bensì eventualmente sul regime di procedibilità».
14
Così L. PICOTTI, op. cit., p. 558.
15
Difficilmente sostenibile, su questo terreno, la posizione di alcune decisioni di merito a proposito della rilevanza di accordi totalmente o parzialmente derogatori tra i coniugi. Cfr. da ultimo, su questa linea, Trib. Trieste 31 gennaio 2011: in
un caso in cui i genitori decisero, il giorno dopo il provvedimento di omologazione della separazione consensuale, di non
dare «pedissequa esecuzione a quanto giudizialmente stabilito in relazione agli obblighi economici del padre rispetto alla figlia,
prevedendo che [il primo], invece di versare mensilmente alla moglie per il mantenimento della bambina [una determinata somma]
più le ulteriori spese, provvedesse direttamente a tutto quello di cui la piccola aveva bisogno tenendola con sé all’incirca per tre
giorni alla settimana», considerato che «la situazione fattuale sopravvenuta era completamente diversa da quella fotografata al
momento della omologa», il giudice di merito ha assolto l’imputato per insussistenza del fatto. Sul punto continuano però a
valere, in senso critico, le osservazioni della dottrina in punto di rilevanza genericamente esimente di analoghe situazioni a
38
FOCUS Il rinvio indiretto all’art. 570 c.p., nonostante le molte e giustificate perplessità sollevate in dottrina 16, secondo la giurisprudenza va inteso come riferito al più severo trattamento sanzionatorio di cui al 2° comma (pena congiunta reclusione e multa), «trattandosi di obbligo di natura economica e non di assistenza morale» 17.
La procedibilità è astrattamente a querela di parte, ma se si tratta di minori (cioè praticamente
sempre) si procede d’ufficio, a norma dell’art. 570, 3° comma, c.p., che costituisce il termine finale di riferimento 18.
3. Divorzio (art. 12 sexies, l. n. 898/1970) Fattispecie strutturalmente più schematica e lineare, l’art. 12 sexies della legge sul divorzio punisce la mancata corresponsione dell’assegno stabilito in favore dell’ex coniuge (art. 5, l. n. 898/
1970) o dei figli (art. 6, l. n. 898/1970): non pone quindi particolari difficoltà nell’individuazione delle condotte punibili o nell’accertamento, ai cui fini è sufficiente verificare la volontaria
sottrazione al pagamento, indipendentemente da qualunque indagine in ordine all’effettivo stato di bisogno dell’avente diritto. Secondo l’opinione prevalente rileva anche l’adempimento parziale, atteso che «il reato si configura per la semplice omissione della corresponsione dell’assegno
nella misura disposta dal giudice» 19.
Qui i profili controversi attengono piuttosto (1) alla rilevanza esimente delle situazioni di effettiva incapacità economica dell’obbligato nonché (2) all’efficacia scusante, quale eventuale errore su legge extra-penale rilevante a norma dell’art. 47, 3° comma, c.p., dell’errore sull’obbligo
di corresponsione dell’assegno.
Sulla prima questione la giurisprudenza di legittimità sembra avere definitivamente dipanato i
dubbi generati dalla matrice formale dell’incriminazione e dall’incidenza apparentemente intangibile della decisione civile sull’accertamento penale, per concludere nel senso dell’esclusione di responsabilità nelle ipotesi di assoluta impossibilità economica, la quale deve essere però
provata con rigore dall’imputato che la invochi e non deve trovare origine in comportamenti
anche solo colposi 20. Conclusione, come si può notare, concettualmente modellata sugli schemi interpretativi elaborati con riferimento alla privazione dei mezzi di sussistenza (v. infra, par.
4) e sulla quale, in verità, potrebbero sollevarsi non poche perplessità, soprattutto alla luce della permanente disponibilità in capo all’obbligato, nelle ipotesi di eccessiva gravosità economica, di strumenti civilistici di revisione delle condizioni patrimoniali imposte.
proposito della sottrazione al pagamento dell’assegno divorzile: cfr., tra gli altri, G. SERVETTI, La riforma della legge sul divorzio: una nuova fattispecie incriminatrice, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, p. 978, secondo cui «sembra essere lasciato ben poco
spazio all’obbligato per allegare nel processo penale circostanze genericamente esimenti della sua responsabilità, quando questi
non si sia tempestivamente attivato nella apposita sede per conseguire la riduzione dei propri obblighi di contenuto patrimoniale o
l’esonero dagli stessi».
16
Anche qualificando come fattispecie autonoma, e non come circostanza aggravante, il delitto di cui all’art. 570, 2º comma, n.
2, c.p., secondo un’opinione persuasiva già sviluppata con riferimento all’art. 12 sexies, l. n. 898/1970 sarebbe sistematicamente più coerente sanzionare in modo più lieve (con la pena alternativa prevista dal 1° comma dell’art. 570 c.p.) l’inosservanza
degli obblighi patrimoniali rispetto alla condotta, dal più accentuato disvalore, di chi faccia mancare i mezzi di sussistenza al
familiare: così F. FIERRO CENDERELLI, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Enc. dir., XLVI, 1993, p. 779.
17
Cass., Sez. VI, 31 ottobre 1996, Greco, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 1111, con nota di P. ZAGNONI BONILINI, La sanzione di cui all’art. 12-sexies.
18
Cass., Sez. VI, 2 marzo 2004, in Foro it., Rep., 2005, voce Assistenza familiare, n. 1.
19
Cass., Sez. VI, 13 marzo 2000, in Cass. pen., 2002, p. 1722.
20
Cass., Sez. VI, 15 aprile 2003, in Dir. pen. proc., 2003, p. 1507 ss.
39
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 Sul piano soggettivo anche la valutazione degli eventuali errori sull’obbligo di corresponsione
dell’assegno divorzile (più frequenti, per esempio, nella prospettiva di eventuali compensazioni
con crediti vantati – magari per eccedenze nelle precedenti elargizioni – nei confronti dell’avente
diritto) soggiace, nella giurisprudenza sull’art. 12 sexies, al perentorio assunto giurisprudenziale
– la cui convincente confutazione dottrinale è naturalmente superfluo rievocare – secondo cui
«non è scusabile l’errore che incide su precetti e termini delle altre branche del diritto, introdotti ad integrazione della norma penale, proprio perché essi determinano il contenuto del precetto penale» 21.
Impostazione che appare ancora meno convincente ove l’erroneo convincimento cada (come
nell’ipotesi della compensazione, giuridicamente impraticabile in materia di debiti alimentari
in virtù dell’art. 447, 2° comma, c.c.) su norme diverse da quelle – per usare le criticate categorie del diritto vivente – “direttamente integratrici” del precetto (nel caso dell’art. 12 sexies, gli
artt. 5 e 6 della l. n. 898/1970) 22, e quindi rilevanti «dopo che è stato definito, in base alla ratio
della norma penale, il significato penalistico dell’elemento normativo» 23.
4. Privazione dei mezzi di sussistenza (art. 570, 2° comma, n. 2, c.p.) Sul fronte delle tutele economiche la «violazione degli obblighi di assistenza familiare» di cui
all’art. 570, 2° comma, c.p. – essendo l’ipotesi della dilapidazione dei beni del figlio minore
quasi solo teorica, anche in virtù del principio di parificazione dei poteri dei genitori nella gestione patrimoniale 24 – sopravvive principalmente (con una certa vitalità, peraltro) nella forma
di cui all’art. 570, 2° comma, n. 2 c.p., destinata a svolgere un ruolo sussidiario di copertura rispetto alle forme più gravi di deparenting, e a porsi in possibile concorso formale con gli strumenti di tutela delle forme ordinarie di inadempimento degli obblighi patrimoniali di cui si è
finora discusso.
Nella prospettiva dei soggetti passivi 25 è ormai pacifica l’interpretazione restrittiva: il concetto
– di matrice legale, non giudiziale 26 – di prestazione dei mezzi di sussistenza, diverso da quelli
di “alimenti” o di “mantenimento” di estrazione civilistica 27, corrisponde «a un grado minimo
21
Cass., Sez. V, 11 gennaio 2000, n. 2174, in Cass. pen., 2001, p. 1480.
In argomento F. RANZATTO, Brevi riflessioni sul reato di omesso pagamento dell’assegno di divorzio, in Dir. pen. proc., 2003,
p. 1512.
23
Si tratta del criterio autorevolmente elaborato da F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, Padova, 2001, p. 387.
24
E. ANTONINI, La violazione degli obblighi di assistenza familiare nei mutati scenari della famiglia, in Dir. pen. proc., 2009, p. 906.
22
25
Tra i quali rientrano, come è noto, gli ascendenti, i discendenti legittimi, legittimati, naturali riconosciuti o dichiarati
giudizialmente ma anche (in considerazione dell’assoluta genericità del termine “discendente”) non riconosciuti o non riconoscibili se minori o, se maggiorenni, inabili al lavoro, il coniuge «non [...] separato per sua colpa» (secondo l’opinione
prevalente tale ultimo inciso deve intendersi però tacitamente abrogato, a causa della non assimilabilità tra il concetto originario di “colpa” e quello attuale di “addebito” introdotto dalla riforma del 1975: in argomento P. ZAGNONI BONILINI, op.
cit., p. 539) e con esclusione dei conviventi more uxorio, dei fratelli e delle sorelle, dei suoceri, dei generi e delle nuore.
26
P. PITTARO, Sul delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Famiglia e diritto, 1995, p. 585.
27
La non implicazione tra i concetti penalistici e quelli civilistici è naturalmente reciproca: come l’inosservanza degli obblighi economici stabiliti in sede civile non implica automaticamente responsabilità ex art. 570 c.p. (sul punto cfr., ex plurimis, Cass., Sez. VI, 11 luglio 2001, in Famiglia e diritto, 2002, p. 375 ss., con nota di G. DEL PAPA, Violazione degli obblighi
di assistenza familiare e mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento al figlio), così è concettualmente configurabile
una responsabilità per omessa prestazione dei mezzi di sussistenza anche in caso di puntuale rispetto delle prescrizioni del
giudice civile, ove queste siano divenute chiaramente insufficienti (in questo senso Cass., Sez. VI, 20 ottobre 1989, in Cass.
pen., 1991, p. 781 nonché, più recentemente, Cass., Sez. VI, 17 maggio 2004, n. 32508, in Guida dir., 2004, 36, p. 66). Sulla
differenza, anche ai fini penalistici, tra i concetti di “mezzi di sussistenza”, “mantenimento” e “alimenti” – quest’ultimo intermedio tra i due – v. in particolare la citata Cass., Sez. VI, 11 luglio 2001, pubblicata anche in Dir. pen. proc., 2002, p. 483,
40
FOCUS di assistenza economica sufficiente a garantire al familiare bisognoso lo stretto necessario per soddisfare esigenze prioritarie (vitto, alloggio, vestiario, medicinali) senza riguardo alla posizione sociale e
alle condizioni di vita pregresse» 28; deve comunque profilarsi, in capo al familiare debole, una
condizione definibile oggettivamente come stato di bisogno, per quanto l’opinione dominante
– contraddittoriamente, secondo alcuni – giudichi irrilevante che alla soddisfazione dei bisogni
primari provvedano, per esempio, l’altro genitore 29 o addirittura terzi 30, ovvero – nell’ottica
dell’eventuale configurabilità di un mero tentativo – che l’omissione si traduca in un effettivo
pregiudizio per il familiare bisognoso 31.
Secondo l’interpretazioned prevalente, va peraltro ricordato, la minore età implica automaticamente lo stato di bisogno 32.
Quasi unanime l’esclusione di responsabilità ai sensi dell’art. 570 c.p. nelle ipotesi di assoluta incapacità economica dell’obbligato, per quanto l’inquadramento dogmatico del fenomeno sia tuttora incerto tra l’inconcepibilità materiale dell’omissione in caso di impossibilità di adempimento
del dovere, la scriminante 33 o l’esimente 34, con tutte le intuibili conseguenze in punto di distribuzione dell’onere probatorio 35. Deve trattarsi – in linea con un’esegesi costruita intorno al dovere
generale di assistenza in favore dei familiari – di incapacità assoluta e perdurante per tutto il periodo rilevante, involontaria e incolpevole 36: in sostanza un vero e proprio stato di indigenza assimilabile a quello dei soggetti in favore dei quali l’obbligo dovrebbe essere adempiuto.
L’obbligo di corrispondere i mezzi necessari per la sussistenza permane fino a quando lo status
dell’avente diritto non muti definitivamente a seguito di sentenza passata in giudicato, come
con nota di C. FOLADORE (nonché in Dir. giust., 2001, p. 45, con nota di C. UBALDI, Alimenti e sussistenza: istituti differenti),
secondo cui il primo identificherebbe «ciò che è strettamente indispensabile, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto, alla vita, come il vitto, l’abitazione, i canoni per le utenze indispensabili, i medicinali, le spese per
l’istruzione dei figli, il vestiario», mentre «la nozione di “mantenimento”, di portata molto ampia, comprende [...] tutto quanto
sia richiesto per un tenore di vita adeguato alla posizione economico-sociale dei coniugi (soddisfacimento di tutte le esigenze di vita
del mantenuto indipendentemente dal suo stato di bisogno). Nella nozione di “alimenti”, che si pone a metà strada tra le altre due,
rientra oltre a ciò che è indispensabile per le primarie esigenze di vita anche ciò che è soltanto utile o che è conforme alla condizione
dell’alimentando e proporzionale alle sostanze dell’obbligato».
28
E. ANTONINI, op. cit., p. 906. In argomento, tradizionalmente, G. PISAPIA, Delitti contro la famiglia, Utet, Torino, 1953, p.
707. Sull’irrilevanza del semplice ridimensionamento del tenore di vita v. Cass., Sez. VI, 8 luglio 2004, in Dir. giust., 2004,
37, p. 78.
29
Sul punto, di recente, Cass., Sez. VI, 14 aprile 2008, n. 27051. Il profilo, secondo la giurisprudenza, è irrilevante anche sul
piano psicologico, risolvendosi per esempio l’erroneo convincimento di un genitore di non essere tenuto al sostentamento
dei figli minori quando a ciò provveda interamente l’altro in un errore sul precetto. In generale, sulla nozione di stato di bisogno, v. anche Cass., Sez. VI, 26 marzo 2003, in Cass. pen., 2004, p. 3246; Cass., Sez. VI, 18 luglio 2002, in Dir. giust.,
2002, p. 29, con commento di V. PEZZELLA, Quando il coniuge cerca invano tutela penale dopo la separazione.
30
Cass., Sez. VI, 1° dicembre 2003, in Cass. pen., 2005, p. 2264; Cass., Sez. VI, 21 settembre 2001, in Cass. pen., 2003, p.
534. In dottrina, sul tema, M. T. CUSUMANO, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Trattato di diritto di famiglia, IV, Diritto penale della famiglia, a cura di S. Riondato, Giuffrè, Milano, 2002, p. 494.
31
In argomento cfr. F.R. FANTUZZI, Mancata somministrazione di mezzi di sussistenza a più familiari: unicità o pluralità di
reati, in Famiglia e diritto, 2008, p. 1018. In giurisprudenza, di recente, Cass., Sez. VI, 11 febbraio 2010, n. 8998, secondo
cui «ai fini dell’integrazione del reato [...] è sufficiente che il soggetto obbligato a garantire i mezzi di sussistenza al minore li abbia negati determinando, in astratto, la nascita di una situazione di pericolo, senza che assuma alcuna rilevanza la circostanza
che altri soggetti intervengano, provvedendo in via sussidiaria ed impedendo, così, che il pericolo si trasformi in vero e proprio danno».
32
Cass., Sez. VI, 2 maggio 2007, in Cass. pen., 2008, p. 628; Cass., Sez. VI, 1° dicembre 2003; Cass., Sez. VI, 26 marzo 2003.
33
Cass., Sez. VI, 7 maggio 1998, in Cass. pen., 1999, p. 1472.
34
Cass., Sez. VI, 23 gennaio 1997, n. 5969, in Cass. pen., 1998, p. 2024.
35
Secondo Cass., Sez. VI, 8 luglio 2004, cit., p. 80 l’onere grava interamente sull’obbligato. Nello stesso senso Cass., Sez.
VI, 13 settembre 2007.
36
Non esclude la responsabilità, secondo la giurisprudenza (Cass., Sez. VI, 18 luglio 2002, in Dir. giust., 2002, 40, p. 29), il
disimpegno dell’obbligato nella ricerca di un impiego.
41
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 nel caso di disconoscimento di paternità, nel quale l’accertamento opera ex nunc e quindi non è
idoneo, trattandosi di una fattispecie incriminatrice collegata ad una «situazione ex lege, non
alla filiazione naturale», ad incidere sull’elemento materiale del reato né può costituire oggetto,
sul piano processuale, di una questione pregiudiziale ex art. 3 c.p.p. legittimante la sospensione
del processo penale 37. Analogamente la revoca dell’adozione avrebbe effetto a fini liberatori
soltanto dal passaggio in giudicato della decisione 38.
Per quanto il profilo meriterebbe probabilmente maggiore approfondimento in relazione alle diverse tipologie di provvedimenti dichiarativi 39, secondo la giurisprudenza la decadenza dalla potestà genitoriale non fa venire meno – coerentemente con la prospettiva civilistica secondo cui il
genitore decaduto ai sensi dell’art. 330 c.c. perde i poteri di istruzione e di educazione dei figli, ma
non i doveri di mantenimento 40 – l’obbligo di corresponsione dei mezzi di sussistenza 41.
Una lettura costituzionalmente orientata della fattispecie di cui all’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p.,
in linea con i modelli di tutela degli interessi economici del singolo componente del nucleo familiare, ha indotto recentemente le Sezioni unite (spezzando, anche sul piano dell’oggettività
giuridica, l’unitarietà di interpretazione delle figure delittuose previste dall’art. 570 c.p. ed avvalorando l’idea che il concetto penalistico di famiglia non possa più dirsi unitario) ad affermare
la pluralità di reati nell’ipotesi di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza in danno di più
familiari bisognosi 42.
5. Elusione fraudolenta di provvedimenti giudiziari (art. 388, 1° comma, c.p.) Sul terreno della patologia delle relazioni economiche familiari possono infine venire in rilievo
le fattispecie di cui all’art. 388 c.p., recentemente riscritto dalla l. n. 94/2009.
Più frequentemente invocato per sanzionare l’elusione o l’inosservanza di un «provvedimento
del giudice civile [...] che concerna l’affidamento di minori» (2° comma) 43, l’art. 388 c.p. punisce
anche – nella nuova formulazione del 1° comma, più generica ed inclusiva – la condotta di chi,
«per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell’autorità giudizia-
37
Cass., Sez. VI, 3 luglio 2008, n. 27051, in Famiglia e diritto, 2008, p. 1147 ss., con nota di P. PITTARO, Violazione degli obblighi di assistenza familiare e disconoscimento di paternità. Si trattava di un caso nel quale un padre, nelle more della procedura di disconoscimento di paternità, aveva smesso di contribuire al sostentamento di un figlio – portato con sé dalla moglie che nel frattempo era andata a vivere con il padre naturale – del quale aveva scoperto di non essere il padre biologico.
38
P. PITTARO, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, cit., p. 1149; F. FIERRO CENDERELLI, Art. 570 c.p., in Codice
penale commentato, a cura di in G. Marinucci-E. Dolcini, II ed., Ipsoa, Milano, 2006, p. 3733.
39
Lo nota giustamente S. P. BRACCHI, Art. 570 c.p. e decadenza o sospensione della potestà genitoriale, in Famiglia, persone e
successioni, 2011, p. 530.
40
Cfr. P. VERCELLONE, La potestà dei genitori, in G. COLLURA-L. LENTI-M. MANTOVANI (a cura di), Trattato di diritto di
famiglia, II, Filiazione, diretto da P. Zatti, Giuffrè, Milano, 2002, p. 1046 s.
41
Cass., Sez. VI, 24 maggio 2007, in Famiglia e diritto, 2007, p. 918, con nota di N. FOLLA, Il genitore decaduto dalla potestà
perde i poteri ma non i doveri di assistenza familiare; Cass., Sez. VI, 12 novembre 2009, n. 43288. S. P. BRACCHI, op. cit., p.
530 ss.
42
Cass., S.U., 26 febbraio 2008, n. 8413, in Famiglia e diritto, 2008, p. 1013, secondo la quale l’art. 570 c.p. «fa riferimento
ad un ventaglio di condotte di natura diversa che, fermo restando il fine di tutela della famiglia e dei rapporti di assistenza
nell’ambito familiare, prende in considerazione condotte ed eventi di diversa natura per i quali ben possono individuarsi beni non
omogenei ma parimenti tutelati. E per ciascuna di queste ipotesi ben possono darsi soluzioni diverse quanto al tema della unicità o
pluralità di reati».
43
La giurisprudenza esclude che l’art. 388, 2° comma, c.p. possa essere applicato in relazione ai provvedimenti patrimoniali
concernenti l’affidamento (Cass., Sez. VI, 5 settembre 2000, n. 9414, in Studium iuris, 2000, p. 222; Cass., Sez. VI, 20 ottobre 1995, n. 1627, in Cass. pen., 1997, p. 415).
42
FOCUS ria, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi all’autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli
altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti».
La nozione di simulazione, caratterizzata dalla preordinata divergenza tra volontà negoziale dichiarata e volontà effettiva, viene comunemente assimilata a quella civilistica, sia assoluta che
relativa; quella di frode, secondo l’opinione maggioritaria, comprende anche le condotte meramente omissive (oltre che quelle astrattamente legittime, ma realizzate allo specifico fine di
eludere gli obblighi imposti dal provvedimento giudiziario) e deve essere intesa in senso lato,
come comprendente qualsiasi condotta che produca altrui pregiudizio con ingiusto profitto
dell’agente 44 tanto attraverso attività negoziali quanto attraverso altri comportamenti materiali
comunque diretti a pregiudicare o frustrare le aspettative del beneficiario di provvedimenti giudiziari, a prescindere dalla ricorrenza di artifici o raggiri del tipo richiesto per la configurabilità
del delitto di truffa.
6. Interazioni tra fattispecie Per ciò che concerne le possibili interazioni tra l’art. 3, l. n. 54/2006 e l’art. 12 sexies, l. n.
898/1970, da un lato, e l’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p., dall’altro, in dottrina prevale – sulla base
dell’affermata omogeneità tra i beni giuridici, della coincidenza dei soggetti e dell’identica matrice fattuale – l’opinione secondo cui l’ipotesi di mancata corresponsione dell’assegno divorzile o di inadempimento degli obblighi imposti in favore dei figli in sede di separazione personale, ove privi il soggetto passivo dei mezzi di sussistenza, configuri un concorso apparente, pur
risolto in termini non univoci – a causa di un non univoco inquadramento dogmatico 45 – quanto alla prevalenza dell’una o delle altre fattispecie. La giurisprudenza sembra invece orientata,
seppure senza particolari sforzi argomentativi, ad affermare il concorso formale eterogeneo 46.
Qualora la mancata corresponsione dell’assegno divorzile o l’inosservanza dei provvedimenti
patrimoniali concernenti l’affidamento dei figli venga realizzata con comportamenti simulati o
fraudolenti dovrebbe essere applicato anche l’art. 388, 1° comma, c.p., eventualmente in concorso con l’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p. qualora l’elusione finisca anche per privare i beneficiari
dei mezzi di sussistenza.
7. Conclusioni Per diverse e significative ragioni che vanno dall’obsolescenza ideologica della matrice punitiva
alla discutibile tecnica di costruzione delle fattispecie più recenti – lo si è già scritto in apertura –
44
L. CONTI, voce Mancata esecuzione dei provvedimenti del giudice, in Enc. dir., XXV, 1975, p. 298. In giurisprudenza cfr.
Cass., Sez. VI, 22 maggio 2006, n. 17543, in Famiglia e diritto, 2006, p. 631.
45
Secondo alcuni, per esempio, l’art. 12 sexies sarebbe norma speciale rispetto all’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p., applicabile
comunque anche nelle ipotesi in cui la mancata corresponsione dell’assegno abbia privato il beneficiario del minimo necessario per vivere (così, tra gli altri, A. LANZI, Art. 12-sexies, in AA.VV., Commentario alla riforma sul divorzio, Ipsoa, Milano, 1987, p. 152); per altri la norma speciale sarebbe, al contrario, l’art. 570, 2° comma, n. 2, c.p., in considerazione del più
severo trattamento sanzionatorio e dell’attitudine ad esaurire le connotazioni antigiuridiche del comportamento (E. QUADRI, Legittimità costituzionale della nuova tutela penale del divorzio, in Foro it., 1990, I, c. 1815,), o comunque per effetto delle dinamiche applicative della c.d. specialità reciproca o bilaterale (T. PADOVANI, op. cit., p. 542. Propende invece per un
rapporto di sussidiarietà, più che di specialità, F. FIERRO CENDERELLI, La violazione degli obblighi di assistenza familiare,
Cedam, Padova, 2007, p. 298.
46
Così, di recente, Cass., Sez. VI, 16 giugno 2011, n. 34736; per analoghe conclusioni Cass., Sez. VI, 19 maggio 2005, n.
32540.
43
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 appare evidente la difficoltà del sistema penale di protezione patrimoniale dei familiari deboli
di adattarsi con efficacia ai profondi cambiamenti dell’istituzione familiare negli ultimi decenni,
e soprattutto di raccogliere le sfide che si affacciano all’orizzonte del diritto di famiglia (specie
sul terreno della famiglia di fatto e su quello delle unioni tra persone dello stesso sesso).
L’effetto è una risposta punitiva spesso scoordinata e frammentaria, su alcuni fronti (in particolare su quello della tutela dei diritti economici del coniuge separato, come si è visto) carente e
su altri forse sovrabbondante, comunque poco coerente con l’idea di un moderno diritto penale minimo, che affida le risposte sanzionatorie e cautelari ordinarie – specie in aree della vita
sociale, come quella in esame, nelle quali, «aumentando lo spazio lasciato all’autonomia dei singoli, il complesso delle relazioni [...] ad effetti patrimoniali [sembra orientarsi] verso una dimensione
sempre più privatistica» 47 – agli altri settori dell’ordinamento e che riserva la sanzione penale
(concepita peraltro in termini più raffinati e moderni rispetto all’attuale, inaccettabile ed inefficace monopolio della pena detentiva) alle lesioni più riprovevoli dei diritti fondamentali.
Volendo immaginare – più pragmaticamente rispetto a prospettive di riforma radicale per il
momento non incluse nell’agenda delle priorità – alcune possibili correzioni, sarebbe probabilmente opportuno ragionare intorno a modelli che, tanto sul piano sostanziale quanto su
quello processuale, rendano meno macchinoso l’accertamento allargando, più in linea con l’inquadramento privatistico degli interessi in gioco, gli spazi delle possibilità compositive e conciliative 48.
47
A. KAPUN, Inosservanza delle prescrizioni contenute nella sentenza di “divorzio”: quale reato?, in Famiglia e diritto, 2006, p.
638; sul tema cfr. anche A. MICONI TONELLI, voce Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Dig. disc. pen., XV,
1994, p. 3).
48
In questa prospettiva, per esempio, si dovrebbe forse guardare con maggiore attenzione al procedimento penale di pace,
sia per i suoi meccanismi di attivazione (tra i quali rientra, come è noto, anche il ricorso immediato della persona offesa)
sia per la sua fisiologica attitudine compositiva. In argomento cfr. E. ANTONINI, op. cit., p. 910. R. BARTOLI, op. cit., p. 505,
suggerisce «l’opportunità di differenziare la disciplina non tanto sul piano della struttura della fattispecie, ma su quello della disciplina della procedibilità, ragion per cui mentre in caso di separazione sarebbe necessaria la querela, nell’ipotesi del divorzio il
mancato adempimento sarebbe procedibile d’ufficio. Detto diversamente, là dove esiste ancora la possibilità che il rapporto tra i
coniugi si ricomponga, è opportuno rimettere alla volontà della vittima la volontà di perseguire o meno il reato, con la conseguenza
che si agirà soltanto là dove si riterrà il rapporto ormai del tutto compromesso e quindi ormai destinato al divorzio».
44
FOCUS LA VIOLENZA DOMESTICA: DEFINIZIONE E CORRELATI PSICOLOGICI Ludovica Iesu
Psicologa psicoterapeuta, mediatrice familiare
Sommario: 1. La famiglia da luogo di protezione a luogo di vittimizzazione. – 2. Legami intimi violenti. – 3.
L’impotenza appresa. – 4. Le strategie di prevenzione ed intervento.
1. La famiglia da luogo di protezione a luogo di vittimizzazione Quando si tratta la violenza domestica, spesso, tra gli operatori che se ne occupano, non vi è
sufficiente chiarezza in quanto con lo stesso termine, generalmente, si indicano fattori di differente natura e gravità racchiusi in un termine iperinclusivo e generico che non permette di cogliere e diversificare diverse tipologie di violenza perpetuate all’interno di un contesto fondamentale per lo sviluppo di un individuo: la famiglia.
Il termine domus rimanda alle mura domestiche e quindi ad un luogo in cui si sviluppano e
strutturano relazioni in un contesto familiare, affettivo e di condivisione: infatti, alla base della
violenza domestica, vi è sempre e necessariamente un legame significativo, intimo, tra partner
connotato da un elevato grado di intimità ma anche da una distruttività insita in tale legame.
Nel nostro paese si è riscontrata una resistenza culturale ad accettare che nella famiglia, considerata come un luogo protetto che dovrebbe tutelare i componenti attraverso i vincoli dell’amore e della solidarietà, si possano consumare atti di violenza e di prevaricazione. D’altra parte,
se non ci si attiene ad una concezione idealizzata della famiglia, è necessario considerare che,
come ogni altro gruppo sociale, anche quello familiare esprime una quota di conflittualità insita
in ogni relazione, pertanto, il focus dovrebbe essere centrato per comprendere le dinamiche
per cui una famiglia passa da una “fisiologica” espressione del conflitto a manifestazioni di tipo
violento.
Il fenomeno della violenza domestica è spesso associato ad il cosidetto “numero oscuro” 1 di
casi, nel senso che pochi, tra quelli realmente accaduti, vengono denunciati alle autorità giudiziarie mentre, in altri casi, episodi di violenza non verificatesi vengono denunciati e strumentalizzati in circostanze specifiche come per esempio nelle separazioni coniugali conflittuali.
1
P. ROMITO, Un silenzio assordante, Franco Angeli, Milano, 2005; v. anche P. ROMITO, Violenza alle donne e risposte delle
istituzioni, Prospettive internazionali, Franco Angeli, Milano, 2000; P. ROMITO, La violenza di genere su donne e minori, Franco
Angeli, Milano, 2000.
45
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 2. Legami intimi violenti È fondamentale, quando di tratta la violenza domestica, chiarire come la violenza sia agita
sempre all’interno di una relazione tra due partner che presuppone l’esistenza fra la vittima e il
perpetratore di un legame intimo, affettivo e significativo tale da qualificare tale tipologia di relazioni come legami intimi violenti 2. Nella letteratura anglosassone, infatti, viene attualmente
preferita alla terminologia Domestic Violence quella di Intimate Partner Violence (IPV) intesa
come «atti o tentativi di violenza fisica o sessuale, abuso psicologico, emozionale da parte di un coniuge, ex-coniuge, fidanzato/a, ex-fidanzato/a» 3, in quanto si evidenzia, con tale termine, che si
tratta di violenza agita nei confronti del partner intimo 4.
Attualmente si è verificato un rinnovato interesse scientifico per la violenza nei legami intimi
nei diversi Paesi del mondo. Progressivamente infatti si è compreso che l’IPV non rappresenta
un fenomeno esclusivamente privato, ma, al contrario, un problema di ordine collettivo inerente una delle forme di violenza più gravi e diffuse che ha costi e conseguenze a tutti i livelli (individuale, familiare, comunitario, sociale, sanitario). Se, per esempio, si pensa che l’IPV viene agita esclusivamente in un contesto familiare, emerge come ad esserne esposti e, soprattutto, a subirne le conseguenze psicologiche e/o fisiche, oltre alla vittime prescelte, vi sono anche i figli
della coppia costretti ad assistere alla violenza (violenza assistita) tra i propri genitori o, in taluni casi, ad essere coinvolti direttamente nell’episodio violento.
Un dato rilevante e che deve essere chiaro si riferisce al fatto che questo tipo di violenza si verifica
in tutti i Paesi, a prescindere dal gruppo sociale, economico, religioso e culturale (WHO, 2002),
costituendosi come una problematica di rilevanza sociale mondiale 5. L’IPV prevede due attori:
una vittima, in genere la donna, ed un perpetratore, in genere, un uomo, inseriti in una relazione
di coppia significativa ma disfunzionale che perdura tuttavia nel tempo. Recentemente gli studi
sul fenomeno hanno riscoperto l’interesse scientifico per le dinamiche interne a suddetta relazione: infatti, in passato, le ricerche si concentravano sulle violenze a cui la donna veniva sottoposta
dal proprio partner oppure ci si occupava delle caratteristiche intrapsichiche della personalità della donna maltrattata, ricercando prevalentemente degli indicatori di psicopatologia individuale.
3. L’impotenza appresa Gli studi della Walker (1984) 6, invece, hanno spostato il focus attentivo permettendo di considerare il fenomeno della violenza come un ciclo reiterante e focalizzandosi sulla comprensione
2
M. MALAGOLI TOGLIATTI-L. IESU-L. CARAVELLI, Affido condiviso e violenza nei legami intimi, in Maltrattamento e abuso
all’infanzia, vol. 9, n. 3, novembre 2007, pp. 27-47; M.R. CALLAHAN-R.M. TOLMAN-D.G. SAUNDERS, Adolescent Dating Violence Victimizazion and Psychological Well-Being in Journal of Adolescent Health, 18, 6, pp. 664-681, 2003; JC. SILVERMAN-A.
RAJ-K. CLEMENTS, Dating Violence and Associated Sexual Risk and Pregnancy Among Adolescent Girl in the United States, in
Pediatrics, 114, 2, pp. 220-225, 2004.
3
A.C. BALDRY, Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio, Franco Angeli, Milano,
2006; v. anche A.C. BALDRY, La violenza domestica: il lato oscuro della famiglia, in M. BARBAGLI, La criminalità in Italia, Il
Mulino, Bologna, 2003; A.C. BALDRY, La violenza sulla donna in famiglia, in Trattato generale degli abusi e delle dipendenze, a
cura di U. Nizzoli-M. Pissacroia, vol. I, Piccin Editore, Padova, 2003.
4
A.C. BALDRY, Dai maltrattamenti all’omicidio, cit.
5
G. MUSUMECI-M. S. SIGNORELLI-E. ARCIDIACONO-E. AGUGLIA, La violenza domestica: un problema di salute pubblica, in
Psichiatria, Psicologia e Diritto, 6, gennaio 2012.
6
L.E. WALKER, The Battered Woman Syndrome, Springer Publishers, New York, 1984; v. anche L.E. WALKER, The Battered
Woman Syndrome, Springer Publishers, New York, 2000.
46
FOCUS delle conseguenze della violenza che incidono pesantemente sull’incapacità della vittima di sottrarsi da una relazione violenta. La Walker ha identificato così la sindrome della donna battuta,
come conseguenza di una relazione violenta disfunzionale i cui sintomi psicologici sviluppati
dalle vittime sono simili a quelli della Sindrome Post-Traumatica da Stress diagnosticata nel
DSM IV-TR 7. L’autrice ha individuato il concetto della learned helplessness o impotenza appresa, come una componente fondante della sindrome della donna maltrattata per spiegare
l’impossibilità delle vittime, che potrebbero sviluppare strategie di coping, di interrompere una
relazione violenta. Secondo il concetto di impotenza appresa, la vittima avverte la sensazione di
non riuscire a gestire avvenimenti centrali nella propria vita, valutandoli come non dominabili,
ed apprende così l’incapacità di aiutarsi e di chiedere aiuto.
Va evidenziato che quando ci si riferisce all’IPV si immagina immediatamente che la donna
possa essere l’unica vittima possibile e pensabile di violenza mentre la letteratura americana ci
segnala l’esistenza anche della sindrome dell’uomo battuto; l’interesse scientifico prevalente,
infatti, si è centrato sui casi di donne maltrattate, rendendo il maltrattamento degli uomini un
fenomeno raramente discusso. Una ragione plausibile per tale disinteresse è dovuta al fatto che
le donne vengono considerate più deboli e bisognose di aiuto rispetto agli uomini ed inoltre le
conseguenze della violenza che una donna può infliggere su un uomo sono ritenute di scarsa
gravità rispetto a quelle derivanti dalla violenza maschile, soprattutto se si pensa alla violenza
fisica piuttosto che alla violenza psicologica che può sortire comunque effetti devastanti. La
sindrome dell’uomo battuto pertanto deve considerarsi come un fenomeno più raro, infatti, le
cronache e le statistiche che hanno analizzato il fenomeno dell’IPV hanno osservato che si tratta di un fenomeno di genere 8.
4. Le strategie di prevenzione ed intervento Date queste premesse e la riscoperta dell’IPV come un problema di natura sociale è implicito
chiedersi quali strumenti esistono per affrontarlo.
Si evidenzia in alcuni Paesi un incremento degli investimenti sociali per comprendere tale fenomeno e trovare strategie di intervento adatte a arginarlo e prevenirlo. In particolare, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2002) si è impegnata attivamente attraverso un rapporto sulla violenza nel mondo, raggruppando i risultati di ricerche effettuate in diversi Paesi
con l’obiettivo di analizzare le caratteristiche delle persone coinvolte e i fattori di rischio che
intervengono nelle situazioni di violenza. Da tale relazione emerge che gli strumenti utili per
contrastare il fenomeno purtroppo non sono ancora sufficienti e coordinati da poter sortire un
effetto ragguardevole sulla diminuzione della violenza nella coppia. Sulla suddetta possibilità di
studio/intervento influisce, ovviamente, anche il cosiddetto numero oscuro (Romito, 2000b,
2005), rappresentato dai casi in cui la donna per vari motivi, pur subendo violenze da parte del
partner, non sporge denuncia. Esso rappresenta il primo grande problema per lo studio delle
caratteristiche della violenza nei legami intimi e di conseguenza per l’intervento su di essa.
Nel nostro paese l’unica forma d’intervento specifico che si sta diffondendo è quella dell’istituzione dei centri anti-violenza donna che offrono sostegno gratuito alle donne, assistenza legale e
7
AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION (APA), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, IV ed. (DSM-IV-TR),
trad. it. Masson, Milano, 2003.
8
WHO, World Report on Violence and Health. (tr. it. Violenza e salute nel mondo. Rapporto dell’Organizzazione Mondiale della
sanità, CIS Editore, Milano, 2002.
47
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 psicologica ed anche la possibilità di sottrarsi alla violenza rifugiandosi presso case di accoglienza insieme ai figli, inoltre, sono state istituite anche delle linee telefoniche nazionali e gratuite per la denuncia anonima delle violenze e l’assistenza alle donne che la subiscono. Tali servizi, tuttavia, presentano il limite di divenire attivi solo se la vittima decide di chiedere aiuto o
di effettuare una denuncia, ma, com’è facile intuire solo poche, tra le vittime, riescono ad uscire
dallo stato di impotenza appresa e a chiedere aiuto.
Va al contempo evidenziata la nascita di una cultura giuridica più sensibile ed attenta che ha introdotto la legge contro la violenza sessuale (l. n. 66/1996), la legge contro la pedofilia (l. n. 259/
1998), le due leggi in tema di allontanamento del familiare violento da casa (l. n. 149/2001) e di
ordini di protezione (l. n. 154/2001).
Considerata la diffusione crescente del fenomeno appare necessario dunque compiere ulteriori
studi sulla violenza nei legami intimi che consentano di analizzare i diversi fattori di rischio che
intervengono nelle situazioni di violenza all’interno della coppia a tutti i livelli (individuale, relazionale, storico, culturali, di comunità e della società) per poter progettare procedure di valutazione diagnostica standardizzata adatta alla raccolta dei dati in qualunque contesto possibile
che facilitino la comunicazione tra gli operatori coinvolti anche e soprattutto attraverso l’utilizzo di un linguaggio comune e la condivisione di obiettivi finalizzati alla gestione del fenomeno
stesso. Inoltre l’individuazione dei fattori di rischio per la violenza di coppia faciliterebbe anche
l’elaborazione di interventi mirati di prevenzione, in particolare quella primaria, da attuarsi attraverso interventi di politica sociale, educativi e collettivi, per mezzo dei mezzi d’informazione, per cercare di scardinare gli stereotipi culturali e favorire gli orientamenti etici che costituiscono l’asse della convivenza civile.
Infine, risulta indispensabile individuare gli elementi che predispongono a condizioni di violenza per la formazione specifica e settoriale degli operatori che operano nei diversi contesti (psico-sociale, medico, giuridico, socio-assistenziale) attraverso campagne di informazione e sensibilizzazione che costituiscono la prevenzione primaria del fenomeno. Se ogni organizzazione,
Istituzione o ente, si accostasse all’IPV con una formazione di base e una metodologia adeguata
si otterrebbero maggiori informazioni utili a raggiungere livelli conoscitivi superiori sulla violenza nei legami intimi e all’implementazione di programmi efficaci di prevenzione primaria, secondaria e terziaria.
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FOCUS GLI ORDINI DI PROTEZIONE: PROBLEMATICHE SOSTANZIALI E PROCESSUALI Giuseppe Ondei
Presidente della Sezione famiglia e minori del Tribunale di Brescia
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Tipologie soggettive e oggettive di violenza familiare. – 3. Gli ordini di protezione. – 4. Problematiche di diritto sostanziale. – 4.1. Presupposti oggettivi. – 4.2. Presupposti soggettivi. – 4.3. Il
contenuto. – 4.4. Durata e proroga. – 4.5. Modalità e difficoltà di attuazione. – 4.6. Sanzioni. – 5. Problematiche di
diritto processuale. – 5.1. Competenza e attribuzioni. – 5.2. Scrittura, non obbligatorietà di difesa tecnica e intervento di altre parti. – 5.3. Procedimento.
1. Introduzione La famiglia rappresenta un sistema complesso, in cui agiscono individui, ruoli, responsabilità e
mansioni. Si tratta di un sistema determinato da vincoli di tipo affettivo, in cui sussistono sia affetti positivi (quali il rispetto, la condivisione, l’amore ed il desiderio sessuale), sia affetti negativi
(quali l’odio, la sopraffazione, la violenza, la prevaricazione e la perversione). La famiglia rappresenta, per definizione, uno degli ambiti di potenziale protezione per i suoi membri, ma all’occorrenza può diventare anche un ambiente ostile e pericoloso per l’integrità fisica e psichica dei soggetti che ne fanno parte. Le pareti domestiche possono essere il teatro di frequenti violenze, anche perché talvolta la famiglia si trasforma in un sistema di attribuzioni dei ruoli maschili e femminili in cui prevale da un lato il modello di dominanza e dall’altro quello di sottomissione. La
violenza in famiglia, allora, non rappresenta soltanto l’esplosione di un conflitto, ma lo sfogo di
insoddisfazioni, tensioni, rabbie, frustrazioni. Gli schemi mentali appresi, le esperienze che hanno
caratterizzato la vita pre-matrimoniale ed i comportamenti della famiglia di provenienza, sono gli
elementi caratterizzanti il conflitto di coppia. In un ambito di attribuzioni falsate, in quanto non
filtrate o non negoziate dai partner, la violenza familiare nasce da spazi di incomprensioni.
Fino a pochi decenni or sono, sulla base di una impostazione della famiglia vista come oasi di
pace e di armonia da cui ogni forma di violenza è bandita, la donna che denunciava veniva vista
come una deviante, una diversa che aveva fallito nel compito assegnatole dalle istituzioni e dalla società, ovvero di mantenere, a tutti i costi, l’unità familiare.
Tuttavia, la violenza intesa come prevaricazione fisica, psicologica, sociale, economica e sessuale, esercitata da parte di un soggetto in posizione di forza nei confronti di soggetti più deboli,
(quali donne, bambini, anziani e disabili) è un fenomeno sociale di origini remote. Tale fenomeno è stato specificatamente studiato soltanto negli ultimi decenni, sotto l’impulso degli studi
49
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 condotti negli Stati Uniti d’America, che hanno accelerato l’analisi del fenomeno anche in Europa.
Orbene, l’analisi del fenomeno ha portato alla luce cambiamenti culturali rilevanti, la cui diretta
conseguenza sono stati i vari interventi legislativi intervenuti sia a livello nazionale che internazionale. Infatti, fino alla metà del ventesimo secolo, in Italia, così come in altri paesi, i soggetti
deboli della famiglia (in particolare i minori, gli anziani e le donne) non godevano degli stessi
diritti riconosciuti agli altri cittadini, quali il diritto all’istruzione, al voto ed lavoro qualificato
(in quanto il lavoro casalingo e quello svolto nell’impresa familiare non veniva riconosciuto).
Inoltre tali soggetti avevano diritti fondamentali limitati, in particolare nell’ambito familiare.
Ma non solo: costituisce dato ormai acquisito alle ricerche condotte in materia che la violenza
familiare – soprattutto nell’ambito della coppia – si compie secondo un percorso circolare la
cui interruzione implica uno sforzo considerevole da parte della vittima 1. Soltanto in questi ultimi anni il fenomeno della violenza intrafamiliare, ed in particolare della violenza contro le
donne nell’ambito della famiglia (sia essa moglie, convivente, madre o figlia), si è trasformato
da una questione privata ad una problema pubblico.
2. Tipologie soggettive e oggettive di violenza familiare Prima di affrontare le problematiche giurisprudenziali e dottrinali legate agli artt. 342 bis e 342
ter c.c. e 736 bis c.p.c., come introdotti nel codice civile e nel codice di procedura civile dalla l.
n. 154/2001 e come modificati dalla l. n. 304/2003, è opportuno inquadrare il fenomeno della
violenza in famiglia, a cui tali norme si propongono di porre rimedio, dalla giusta prospettiva sociologica, eliminando alcuni pregiudizi molto diffusi nel pensiero comune, secondo i quali la violenza in famiglia:
1. sarebbe propria di contesti sociali degradati;
2. vedrebbe come autori persone affette da disturbi psichici, spesso a causa di droga, alcool o
gioco d’azzardo;
3. sarebbe esercitata esclusivamente dal “sesso forte” contro il “sesso debole”.
In realtà questa piaga sociale appartiene ad ogni contesto sociale, risultando anzi più difficile da
debellare nelle fasce sociali più elevate, in cui è spesso considerata un “fatto privato” tra marito
e moglie, con conseguente riluttanza a rivolgersi ai servizi socio-sanitari pubblici; è spesso opera di “insospettabili”, persone perfettamente inserite nella società, senza alcuna manifestazione
evidente di problemi psichici; sebbene più spesso frutto del comportamento di un uomo verso
una donna, è in taluni, pur rari, casi, frutto del comportamento di una donna verso un uomo.
I tipi di violenza, che il legislatore, negli ultimi anni, ha mostrato di voler arginare, sono vari, sia
dal punto di vista soggettivo che oggettivo 2.
1
Fornita per la prima volta di veste teorica da parte della studiosa E. WALKER nell’opera The Battered Woman Syndrome,
Springer Publishers, New York, 1984, la ciclicità della violenza è costituita dall’alternarsi costante di tre fasi distinte: una
prima fase caratterizzata dalla crescita della tensione tra i partners in cui si manifestano sentimenti di insofferenza e di ostilità sfocianti in forme di aggressività tollerabili (es. violenza verbale); una seconda fase che coincide con la sempre più frequente perdita di autocontrollo da parte del partner violento e in cui si compiono gli abusi più gravi; e, infine, una terza fase, detta del pentimento e dell’affetto, in cui il maltrattante assume un atteggiamento di sottomissione rispetto alla sua vittima creando, così, il presupposto per una temporanea riconciliazione e alimentando nella vittima la speranza di una definitiva cessazione delle violenze. Tale alternanza di momento di tensioni e momenti di calma innesca nel soggetto passivo
la tendenza a sopportare le violenze per raggiungere il prima possibile lo stadio di successiva apparente tranquillità nella
costante (ma vana) speranza che gli abusi un giorno o l’alto siano destinati a cessare.
2
Per un’analisi più approfondita, F.M. ZANASI, Violenza in famiglia e stalking, Giuffrè, Milano, 2006.
50
FOCUS Da un punto di vista soggettivo, non si tratta solo di violenza fra coniugi o conviventi, ma anche,
solo per fare alcuni esempi, di relazioni: 1) figlio/genitore; 2) fratello/sorella; 3) nipote/nonno.
Da un punto di vista oggettivo, la violenza, finalizzata alla sopraffazione del familiare debole attraverso umiliazioni e vere e proprie aggressioni fisiche, si può realizzare con diverse modalità 3.
Abbiamo, infatti, in una ideale grammatica della violenza:
1. la violenza psicologica: atteggiamenti penetranti ma sottili (ad esempio, intimidazioni, minacce, vessazioni, denigrazioni, rimproveri continui e persecutori), tali da non essere, in un
primo momento, nemmeno percepiti come violenza da parte della stessa vittima 4;
2. la violenza fisica: non solo produrre lividi, ferite e fratture, ma anche urlare e aggredire verbalmente la vittima, spaccare oggetti, metterle le mani al collo, minacciarla con armi o coltelli;
3. la violenza economica: atteggiamenti (spesso non riconosciuti come violenza) volti a impedire che il familiare diventi economicamente indipendente, in modo da poter esercitare su di
lui un controllo indiretto ma incisivo;
4. la violenza “assistita”: violenza subita non dal minore in prima persona, ma cui il minore assiste o direttamente (trovandosi nella stessa stanza in cui i genitori stanno litigando) o indirettamente (essendo a conoscenza della violenza) o percependone gli effetti 5.
Soprattutto quest’ultimo tipo di violenza è sovente causa di autoestraniamento e depersonalizzazione nel bambino che diventa adulto, e spesso non gli consentirà né di percepire la pericolosità reale degli avvenimenti né di operare un’attribuzione causale degli avvenimenti.
Il diritto incontra non poche difficoltà nel prevenire e sanzionare le violenze nell’ambito della
famiglia. La legge, infatti, interviene soltanto quando l’equilibrio è ormai compromesso e si sono già innescati, nell’ambito della famiglia, quei meccanismi che conducono inevitabilmente
alla rottura definitiva dei vincoli affettivi. Il diritto è, infatti, restio a frapporsi nei contrasti intrafamiliari, se non quando le vittime siano dei minori, o, comunque, si configurino ipotesi di gravi reati (ad esempio maltrattamenti o violenze sessuali) 6.
Tuttavia negli ultimi anni partendo dall’assunto che «l’individuo è tale, con tutte le prerogative garantite dall’ordinamento, anche all’interno della famiglia, cosicché le norme poste a tutela della persona
non devono trovare alcun ostacolo nelle mura domestiche», si è riusciti a spostare la priorità della tutela giuridica verso gli interessi ed i diritti del singolo, rispetto agli interessi della famiglia attraverso un prevalente orientamento alla vittima secondo i suggerimenti e le soluzioni evidenziati dallo
3
Nell’incipit del romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj si dice significativamente che «Tutte la famiglie felici sono uguali,
ogni famiglia infelice, invece, è disgraziata a modo suo».
4
Si è recentemente affermata anche un forma di violenza subdola – definita alienazione parentale – che ha come vero protagonista la donna e come primo oggetto il figlio della medesima non di rado accomunato nella stessa sorte al padre quale
figura da cancellare per sempre perché ritenuta, in una proiezione distorta della propria genitorialità, inadeguata al ruolo.
La Corte di Cassazione penale con la sent. 10 gennaio 2011, n. 552 ha avuto modo di precisare che strumentalizzare i figli
per vendicarsi del partner integra gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., e con la sent. 23 settembre 2011, n. 36053 ha ravvisato i maltrattamenti in un atteggiamento iperprotettivo di una mamma e di un nonno nei
confronti di una bambina tale da limitarne lo sviluppo della personalità e delle potenzialità a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente.
5
In tal senso il Trib. Min. L’Aquila 19 febbraio 2002, in Famiglia e Diritto, 2003, p. 482 ha ritenuto che la visione da parte
del minore di ripetute aggressioni fisiche alla madre iintegri un vero e proprio abuso familiare.
6
L’approccio al tema della famiglia e dei minori vede come punti di partenza storico le parole di Carlo Arturo Jemolo per il
quale la famiglia «è isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto ... è la rocca sull’onda ed il granito che costituisce la base appartiene al mondo degli affetti, agli istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto» v. C. A. JEMOLO,
La famiglia ed il diritto, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Catania, Napoli, 1949, II, p. 57.
51
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 studio comparato ed in particolare dall’esperienza dell’area giuridica anglosassone 7.
Pertanto sia la dottrina che la giurisprudenza hanno attribuito una valenza più pregnante alla
personalità ed ai diritti del singolo coniuge all’interno della coppia, facendo leva sui diritti fondamentali della persona e ritenendo necessaria una soglia minima di solidarietà e di rispetto
comunque necessaria e doverosa per la personalità del partner. Date queste premesse, è possibile parlare oggi di tutela risarcitoria a favore di un coniuge se l’altro ha violato diritti e doveri
di rilevanza costituzionale (in primis ex art. 29 Cost.).
Nell’ordinamento italiano esistono due binari per la tutela del soggetto vittima di violenze in
famiglia, ovvero quello penale e quello civile. Se la violenza integra gli estremi di un reato la vittima può chiedere che l’ordinamento intervenga per punire l’aggressore tramite gli strumenti
della giustizia penale.
In alternativa, la vittima può decidere di agire di fronte al giudice civile per ottenere, tramite
una sentenza di separazione o di divorzio, la rottura del vincolo coniugale e, quindi, manifestare la volontà di vivere separati. Alternativamente o cumulativamente, potrà richiedere, se ne
esistono i presupposti, la cessazione del comportamento molesto e/o violento (tutela inibitoria) ed il pagamento di somme di denaro a titolo di risarcimento (tutela risarcitoria).
3. Gli ordini di protezione Gli ordini di protezioni 8 vengono introdotti dalla l. n. 154/2001, che con gli artt. 342 bis e 342
ter c.c. (con il relativo art. 736 bis c.p.c.) si propone di fornire un rimedio pure a quelle situazioni di abuso non sfocianti in una separazione giudiziale o in un divorzio (non essendo applicabili laddove, come vedremo meglio più avanti, sia in corso un procedimento di questo genere), la famiglia non è più una “zona franca” in cui gli interessi degli individui sono compressi in
nome del “superiore interesse” del gruppo, ma piuttosto il luogo in cui ciascun membro può
«meglio coltivare i propri interessi individuali in vista di una più completa realizzazione».
L’istituto dell’ordine di protezione contro gli abusi familiari è, pertanto, uno strumento duttile,
capace di adattarsi a situazioni molto diverse, secondo la prudente valutazione del giudice ed è
perfettamente coerente con il volto costituzionale della famiglia ispirato ai valori dell’uguaglianza
morale e giuridica nei rapporti tra i coniugi e con i figli 9.
E la normativa in esame ha, pure, influenzato anche il campo della responsabilità civile, dato la
Corte di Cassazione ha consolidato il principio di applicazione dell’art. 2043 c.c. (già accennato, fra l’altro, da Cass. n. 7713/2000), ritenendo che «il rispetto della dignità e della personalità,
nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della
responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa
tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare [...]; e dovendo
7
Cfr. M. PALADINI (a cura di), Gli abusi familiari. Misura personali e patrimoniali di protezione. Profili di diritto civile, penale e
comparato, Cedam, Padova, 2009.
8
Tra i tanti contributi in tema, F. AULETTA, L’azione civile contro la violenza nelle relazioni familiari, (art. 736-bis c.p.c.), in Riv.
dir. proc., 2001, pp. 1046-1048; F. TOMMASEO, Abuso della potestà e allontanamento coattivo dalla casa familiare, in Famiglia
e diritto, 2002, p. 638; L.A. SCARANO, L’ordine di allontanamento dalla casa familiare, in Familia, 2003, p. 333; A.G. CIANCI,
Gli ordini di protezione familiare, Giuffrè, Milano, 2003, p. 211; e R. PACIA DEPINGUENTE, Presupposti soggettivi degli ordini
di protezione e problemi di coordinamento con gli artt. 300 ss. c.c., in Familia, 2004, p. 760. E. D’ALESSANDRO, Gli ordini civili
di protezione contro gli abusi familiari: profili processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 1, p. 225 e da ultimo C. MINELLA,
La tutela della famiglia e dei minori, Experta, Forlì, FC, 2012, pp. da 139 a 243.
9
V. F.M. ZANASI, Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, Giuffrè, Milano, 2008, p. 14.
52
FOCUS dall’altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio [...] riceva la propria
sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia,
esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto [...], dovendosi invece predicare
una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia
ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia [...] quale fatto generatore di responsabilità aquiliana» 10. Il tutto, però, in una
logica compensativa aliena da logiche punitive quali quelle che paiono, invece, affermarsi in
tema di interpretazione ed applicazione dell’art. 709 ter c.p.c. 11.
4. Problematiche di diritto sostanziale 4.1. Presupposti oggettivi L’art. 342 bis c.c. afferma che, «quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più provvedimenti di cui all’art. 342 ter c.c.».
Pertanto, per l’applicazione dei provvedimenti di cui all’art. 342 ter c.c. (vale a dire, appunto, gli
ordini di protezione contro gli abusi familiari) è necessario che:
1. vi sia una condotta causa di «grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà»
della vittima della condotta stessa;
2. tale condotta si verifichi all’interno di una relazione familiare.
Poiché il requisito di cui al punto 2) riguarda i presupposti soggettivi degli ordini di protezione
di cui agli artt. 342 bis e ter, bisogna, ora, appuntare l’attenzione sul requisito di cui al punto 1),
esaminando, nell’ordine, i seguenti concetti:
a) “condotta pregiudizievole”;
b) “integrità fisica o morale” e “libertà”;
c) “grave pregiudizio”.
A questi tre concetti, facilmente desumibili dal testo della norma, se ne aggiungerà un quarto,
d) il “nesso di causalità” fra la “condotta pregiudizievole” e il “grave pregiudizio all’integrità fisica
o morale ovvero alla libertà”.
La condotta pregiudizievole Analizzando il testo della norma, emerge immediatamente come il legislatore abbia scelto un
criterio di atipicità dell’illecito, non definendo le caratteristiche della condotta 12, se non in rela-
10
Da ultimo, cfr, in tal senso, Cass. 10 aprile 2012, n. 5652, ma v. anche Cass. 4 maggio 2011, n. 18853 e Cass. 12 aprile
2006, n. 8512. In dottrina cfr. G. FACCI, Il nuovo danno non patrimoniale nelle relazioni familiari, in Famiglia e diritto, 2005,
p. 306; G. FACCI, Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno, in Famiglia e diritto, 2009, p. 1147 ss.; C. MIGHELA,
Il risarcimento del danno derivante dal cd. illecito endofamiliare, in Resp. civ. prev., 2010, p. 8; P. STANZIONE-B. TROISI, Principi generali del diritto civile, Giappichelli, Torino, 2011, p. 57.
11
Sul tema, cfr. G. FERRANDO, Responsabilità civile e rapporti familiari alla luce della l. n. 54/2006, in Famiglia, persone e successioni, 2007, p. 590 ss. In tema di art. 709 ter c.p.c., A. D’ANGELO, Il risarcimento del danno come sanzione? Alcune riflessioni
sul nuovo art. 709 ter c.p.c., in Familia, 2006, pp. 1031-1051.
12
Come l’oracolo di Delfi, quì, il legislatore ha preferito non parlare né nascondere ma solo suggerire.
53
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 zione a quel “pregiudizio” che analizzeremo in seguito: dunque, la condotta è tale da integrare
gli estremi necessari per l’applicazione degli ordini di protezione qualora sia, appunto, «causa
di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà» di un familiare, vale a dire produttiva di un illegittimo evento dannoso contro uno di questi beni giuridici costituzionalmente
tutelati. Il concetto di «abuso familiare» non è, pertanto, definito di per sé, ma soltanto in relazione ai suoi effetti: è abuso familiare il comportamento che è causa, appunto, “di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà” di un familiare. L’utilizzo del concetto di
atipicità dell’illecito 13 permette, così, di ricomprendere nella nozione di abuso ogni tipo di
comportamento lesivo (fermo restando il requisito del “grave pregiudizio”), adattandosi duttilmente ai multiformi tipi di violenza che, come abbiamo visto, possono caratterizzare le relazioni familiari, e passando dalle forme estreme, che integrano anche gli estremi di fattispecie
penalmente rilevanti, a forme per così dire minori di violenza o di semplice prevaricazione, che
non costituiscono illeciti penali ma che possono costituire illeciti civili, come tali fonti di responsabilità aquiliana.
Può, allora, individuarsi un rapporto di genere a specie fra la nozione di “responsabilità aquiliana” e quella di “abuso familiare”, e lo stesso rapporto sarà individuabile fra la nozione di “abuso
familiare” e quella di “reato familiare”, con una gradazione del concetto di violenza, ferma restando la possibilità di configurare un “abuso familiare” penalmente rilevante non soltanto qualora siano integrati gli estremi di un “reato familiare”, ma anche qualora alcuni reati comuni
(pensiamo alla violenza sessuale) vengano integrati all’interno delle mura domestiche.
L’ampiezza della nozione di “abuso familiare” non sembra essere però tale da permettere di ricomprendervi anche la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio ex artt. 143 ss. c.c. 14.
È vero sì, come sostiene il Cianci, che l’adulterio, ossia la violazione dell’obbligo di fedeltà, può
comportare un deterioramento delle relazioni interpersonali tale da incidere sul benessere psicofisico del coniuge tradito, così come la violazione dell’obbligo di assistenza morale e materiale, se rivolta contro un coniuge malato o particolarmente fragile psicologicamente, può cagionare un grave pregiudizio.
Tuttavia bisogna osservare che l’art. 342 bis c.c., quando parla di “condotta”, presuppone un
comportamento attivo, tanto più che il provvedimento del giudice dovrà comprendere l’ordine di
“cessazione della condotta”, dunque inevitabilmente attiva, perché possa, appunto, “cessare”: la
natura meramente omissiva delle violazioni degli obblighi coniugali e familiari non appare, allora,
compatibile con la necessità di un comportamento attivo per la configurazione dell’abuso.
Si potrà obiettare che, nel caso, sopra esaminato, dell’adulterio, indubbiamente vi è un comportamento attivo 15. Tuttavia bisogna precisare che, adottando gli ordini di protezione, è assai probabile che il giudice ordini l’allontanamento dalla casa familiare: trattandosi di una misura evidentemente volta non tanto a punire, ma piuttosto (come vedremo) a prevenire il ripetersi della
condotta lesiva, non si vede come essa possa risultare utile a prevenire il ripetersi del tradimento,
facendo emergere come gli artt. 342 bis e 342 ter c.c. riguardino violazioni diverse, o comunque
ulteriori, rispetto alle semplici violazioni dei doveri di cui agli artt. 143 ss. c.c. Considerazioni analoghe possono essere svolte anche a proposito della violazione di altri doveri, come quello di assistenza morale, alla quale sicuramente non gioverebbe l’allontanamento dalla casa familiare.
13
Va qui richiamato il concetto di “sineddoche essenziale” della noma giuridica ben rappresentato negli scritti di da P.G.
Monateri.
14
Così si è espresso Trib. Salerno 20 maggio 2009, inedita.
15
Per completezza va ricordato che la Cassazione penale con la recente sent. n. 15.057/2012 ha ritenuto integrante il reato
di maltrattamenti in famiglia la condotta reiteratamente prevaricatrice, caratterizzata da una continua serie di insulti e infedeltà ostentate, tali da determinare sofferenze morali.
54
FOCUS Per quanto riguarda, poi, i conviventi more uxorio, cui la disciplina degli artt. 342 bis e 342 ter
c.c. è applicabile per espressa volontà legislativa (art. 5, l. n. 154/2001), anche la dottrina favorevole a ravvisare l’applicabilità degli artt. 342 bis e 342 ter c.c. in caso di violazione dei doveri
coniugali aveva, comunque, escluso tale applicabilità nel caso dei conviventi more uxorio, configurandosi i loro doveri reciproci come semplici obbligazioni naturali. In questo caso, dunque,
l’applicabilità degli ordini di protezione è senza dubbio esclusa.
Nella verifica della sussistenza dell’abuso familiare il giudice gode inevitabilmente di un ampio
potere discrezionale il cui esercizio impone l’attenta valutazione di quei casi nei quali il confine
tra una tollerabile conflittualità domestica tra coniugi o conviventi e vere e proprie situazioni di
abuso pare assai incerto. Si tratta di una valutazione particolarmente delicata soprattutto laddove la parte istante lamenti esclusivamente un grave pregiudizio all’integrità morale.
Per esempio non è stato dato l’ordine di protezione in un caso in cui la richiesta era stata presentata dalla moglie nei confronti del marito sulla base di una situazione di consolidata e reciproca conflittualità ed intolleranza di cui ciascun coniuge imputava all’altro la responsabilità o
nel caso in cui vi era una conflittualità nell’ambito della quale gli episodi di violenza si sarebbero connotati per occasionalità e scarsa frequenza e per gli effetti non oggettivamente gravi 16.
Mentre è stata disposta la misura a fronte della condotta di un marito di nazionalità marocchina fondata sull’esercizio di un preteso jus corrigendi nei confronti della moglie in quanto tale
condotta si era tradotta in una limitazione della libertà dell’altro coniuge integrante una modalità di relazione che non può essere tollerata né giustificata col richiamo a consuetudini, tradizioni o pratiche eventualmente operanti in altri ordinamenti 17.
In altro caso è stato dato l’ordine di protezione contro il marito che, nell’ambito della crisi coniugale insorta da pochi mesi, non forniva alla moglie il danaro occorrente per le esigenze primarie di
quest’ultima e della famiglia, provvedendo, però, in prima persona al reperimento delle provviste
domestiche e a talune spese mediche, o nel caso della moglie che trascorrendo le ore notturne in
chat con un altro uomo veniva accusata dal marito di trascurare i suoi obblighi familiari 18.
Va, peraltro, detto che i tentativi di dotare di elementi qualificanti le condotte pregiudizievoli
non devono condurre ad una sorta di tipizzazione (seppur prasseologica) dei comportamenti
rilevanti ai sensi dell’art. 342 bis c.c. dal momento che ciò rischierebbe di vanificare l’esigenza
primaria di una tempestiva tutela delle vittime da tutte le forme di abuso che rechino loro grave
pregiudizio. Una parte della dottrina ha criticato il deficit di tassatività dei presupposti ma in
punto giova rilevare che questi provvedimenti sono frutto del necessario bilanciamento tra valori coinvolti anche in relazione alla durata limitata degli ordini di protezione.
Certo resta sempre il fatto che come spesso oramai accade un distratto legislatore rimette al
giudice l’ingrato compito di riempire normativamente vuoti o lacune nella formazione del dato
legislativo avvicinando sempre più pericolosamente il giudice allo “Empsycon dikaion” (giustizia vivente) ben illustrato da Aristotele nel Libro V dell’Etica Nicomachea ma, per contro, allontanandolo positivamente dalla figura di liturgista di riti illuministici che scaturisce dalla erronea convinzione che il giudice sia mera “bouche de la loi”.
L’integrità fisica e morale Il concetto di “integrità fisica o morale” può essere scisso in “integrità fisica” e “integrità morale”,
e può ricomprendere, data la rilevanza costituzionale del bene della salute, anche l’integrità psichica, compromessa da ogni vessazione psicologica subita da un familiare.
16
Trib Bari 18 luglio 2002, in De Jure.
Trib Bologna 25 maggio 2007, in Famiglia, persone e successioni, 2007, 10, p. 841 ss.
18
Trib. Salerno 20 maggio 2009, in De Jure.
17
55
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 Secondo la definizione data dal De Marzo 19 l’integrità fisica, pregiudicata da atti che incidano
direttamente sul corpo, è «presupposto per una piena partecipazione alla vita di relazione», mentre l’integrità morale è «l’insieme degli attributi di libertà che consentano al soggetto di autodeterminarsi». Dunque, non sarà necessaria una lesione fisica o psichica per poter parlare di abuso,
essendo sufficiente un attentato alla dignità personale (il cosiddetto “mobbing familiare”): non
saranno cioè necessarie percosse, lesioni o minacce, dato che la violenza, come abbiamo visto,
ben potrà estrinsecarsi in forme meno palesi, come, ad esempio, continue denigrazioni e umiliazioni o continuo svilimento del ruolo genitoriale. Non dimenticandosi che nell’ambito familiare anche atti che apparentemente non sono caratterizzati in sé da un’estrema gravità possono
assumere tale rilevanza.
La libertà Per quanto riguarda la “libertà”, essa consiste nel diritto di tenere un comportamento omissivo
da parte dei consociati (nel caso specifico, dagli altri appartenenti al nucleo familiare), in modo
da non avere ostacoli nell’esercizio della libertà stessa, e poter così realizzare le proprie scelte:
sicché integreranno la condotta di cui all’art. 342 bis c.c. tutte le forme di indebita intromissione nella sfera dei comportamenti e delle scelte individuali, in particolare tutte le forme di coercizione della libertà personale (artt. 2 e 13 Cost.) tali da impedire i movimenti di un familiare
(salvo quanto necessario in relazione all’età e alle condizioni del soggetto), le limitazioni alla
libertà religiosa (art. 19 Cost.) e alla libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), nonché la violazione della riservatezza, quando, ad esempio, venga violata la segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.) 20.
Ricapitolando, abbiamo tre beni giuridici la cui lesione è presa in considerazione dal legislatore: si tratta di beni indicati in maniera molto generica, per cui la giurisprudenza ben potrà interpretarli in maniera estensiva, ma non potrà, come giustamente sostiene la dottrina, ritenere
rilevanti comportamenti che causino lesioni a beni non rientranti in questa, pur generica, lista,
come ad esempio comportamenti che causino lesioni economiche che non si risolvano in lesioni ad uno dei beni giuridici sopra indicati, lesioni economiche per le quali esistono strumenti diversi, come l’inabilitazione. Per contro integra gli estremi della tipologia dell’abuso familiare il caso di colui che andando oltre gli obblighi di mantenimento tiene una serie di atteggiamenti volti essenzialmente ad impedire che il familiare sia o possa diventare economicamente
indipendente per poter esercitare sullo stesso un controllo indiretto 21.
La gravità del pregiudizio Non ogni condotta (ossia comportamento attivo) di un membro del consorzio familiare che
sia causa di lesioni fisiche o psichiche o che attenti alla dignità personale o alla libertà di un altro membro del medesimo consorzio integra un abuso nel senso richiesto dall’art. 342 bis c.c.
Questo articolo richiede infatti un ulteriore carattere che deve riguardare non la condotta in sé,
ma il pregiudizio prodotto (ferma restando, come vedremo, la non applicabilità dell’ordine di
protezione laddove il pregiudizio risulti sproporzionato rispetto alla condotta).
19
G. DE MARZO, La legge sulla violenza familiare: uno studio interdisciplinare, in Famiglia e diritto, 2002, p. 545.
L.A. SCARANO, op. cit., p. 338.
21
A proposito si ricorda che secondo i dati Istat, pubblicati nell’anno 2007, più di 7 milioni di donne hanno subito o subiscono violenza psicologica: tra le forme più diffuse, dopo l’isolamento (46,7%) e il controllo (40,7%) vi è proprio la violenza economica con il 30,7% dei casi.
20
56
FOCUS L’art. 342 bis c.c. parla di “grave pregiudizio”, sintagma già utilizzato (e più volte) nel libro primo del codice civile per indicare danni non patrimoniali. Il pregiudizio, insomma, per dirla con
il provvedimento del Tribunale di Bari del 18 luglio 2002 22, deve essere “di entità non comune”,
avendo riguardo non solo al singolo comportamento in sé considerato, ma anche all’eventuale
sua reiterazione, e può essere anche indiretto, vale a dire dovuto non ad aggressioni subite non
sulla propria persona, ma ad aggressioni subite da congiunti: dunque, come confermato da un
provvedimento del Tribunale di Palermo del 4 giugno 2000, anche una singola condotta può
causare un grave pregiudizio, e, dunque, può integrare gli estremi di un “abuso familiare”, se
comunque si possa temere la reiterazione del comportamento 23.
Non sembra, invece, da seguire l’opinione espressa il 12 ottobre 2001 dal Tribunale di Trani 24,
secondo il quale, per configurare l’abuso, sono necessarie «reiterate azioni ravvicinate nel tempo e
consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati dalla citata norma in modo che ne sia gravemente e senza soluzione di continuità temporale alterato il regime di normale convivenza familiare», dato che
l’art. 342 bis c.c. non parla di continuità della condotta (e l’art. 342 ter c.c., parlando di cessazione
della condotta, non sembra comunque escludere un’interpretazione come quella offerta dal Tribunale di Palermo, sopra citata), né tantomeno parla di alterazione del “regime di normale convivenza familiare”, anche se questa sarà normalmente una immediata conseguenza degli abusi.
Certamente per ravvisare l’entità “non comune” del pregiudizio, tale da giustificare l’adozione
degli ordini di protezione, sarà comunque necessario un vulnus alla dignità personale di un familiare, non essendo sufficienti né una semplice incomunicabilità fra i coniugi 25 o la reciproca
intolleranza, e nemmeno dei litigi, per quanto aspri nei toni, ma non aggravati da elementi ulteriori causativi, appunto, di tale vulnus. E nemmeno rileveranno le motivazioni alla base di tali
comportamenti o le colpe nella determinazione della situazione.
A questo elemento materiale, infatti, non dovrà aggiungersi l’elemento psicologico della volontarietà e consapevolezza, dato che l’abuso non è necessariamente un delitto 26 (come tale richiedente, salvo diversa previsione, il dolo), e, dunque, può configurarsi anche in assenza di dolo,
semplicemente in presenza dei presupposti necessari per la configurazione di un responsabilità
risarcitoria per l’illecito extracontrattuale.
Lo stesso art. 342 bis c.c. non fa alcun riferimento ai criteri di imputazione del dolo e della colpa quali autonomi presupposti: ciò che deve essere valutato è l’obiettiva attitudine lesiva
dell’integrità psicofisica e dell’integrità morale o della libertà dell’agente e non anche la capacità
di intendere e di volere né il dolo o la colpa 27. Infatti il punto di vista preminente è quello della
vittima e non già dell’autore sicché deve essere escluso qualsiasi intento punitivo e/ sanzionatorio dell’ordine di protezione che solo potrebbe giustificare la rilevanza dell’imputabilità e dell’elemento psicologico dell’autore della condotta quali autonomi presupposti di tutela, a mag-
22
Trib. Bari, decreto 28 luglio 2004, in Foro it., 2005, I, c. 555.
In senso conforme v. C PETITTI, Le misure contro la violenza nelle relazioni familiari: modalità applicative e problemi procedurali, in Famiglia e diritto, 2002, p. 400.
24
Trib. Trani 12 ottobre 2001, in Famiglia e diritto, 2002, p. 395.
25
Che sembrano sempre più informare la loro esistenza e credere al detto di Eraclito: «Polemos (conflitto) è padre di tutte le cose».
26
Si consideri che anche recentemente la Cassazione penale (sent. n. 15680/2012 ha ritenuto che il reato di maltrattamenti in
famiglia presuppone l’accertamento di una condotta abituale, volta a creare una condizione di soggezione ed asservimento della persona di famiglia, finalità che deve essere consapevolmente avuta di mira dall’autore nello svolgimento di tale pratica sopraffattrice. In particolare, se pure non è richiesto il dolo specifico, la condotta rilevante deve essere caratterizzata nell’agente
dalla coscienza e volontà di sottoporre la parte offesa ad uno stato di sottoposizione psicologica e di sofferenza.
27
Così A. RENDA, Abuso familiare, in AA.VV., Gli abusi familiari. Misura personali e patrimoniali di protezione. Profili di diritto civile, penale e comparato, a cura di M. Paladini, Cedam, Padova, 2009, p. 11.
23
57
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 gior ragione ove si consideri che persino nell’ambito del sistema della responsabilità civile il difetto della capacità di intendere e di volere non esclude la tutela indennitaria del danneggiato,
sia pure sulla base di una scelta discrezionale del giudice ed in considerazione delle condizioni
economiche delle parti (cfr. art. 2047, 1° comma, c.c.). Invero l’avversa interpretazione sembra
eccessivamente condizionata da una visione prettamente penalistica della fattispecie che non
trova alcuna giustificazione.
Con riguardo al comportamento violento derivante da un’infermità psichica, esiste una giurisprudenza e una dottrina che ritengono non conforme agli scopi della legge l’allontanamento
del familiare malato.
In punto va precisato che se è vero che la finalità della l. n. 154/2001 non è certamente quella
di espellere dal nucleo familiare anche se provvisoriamente il componente che non per sua colpa è affetto da turbe psichiche o mentali, è altrettanto vero che l’allontanamento non può essere precluso quando si riveli l’unico strumento in grado di apprestare un’efficace protezione ai
soggetti passivi impedendo la reiterazione della lesione dei diritti fondamentali dell’individuo
quali quelli dell’integrità fisica e della libertà personale. Anche se è chiaro che in questi casi sarà
assai difficile trovare un contemperamento tra l’interesse delle vittime e quello della persona
con problemi psichici le cui esigenze e i cui diritti dovranno essere, parimenti adeguatamente
salvaguardati dall’ordinamento.
A tal fine il Tribunale di Milano 28, in accoglimento di un’istanza di due anziani genitori maltrattati dal figlio maggiorenne, ha dato l’ordine di protezione incaricando contestualmente le strutture sanitarie competenti per la predisposizione di un progetto terapeutico per il trattamento
dei problemi psichici manifestati dall’abusante ordinando ai genitori di procedere tramite gli
operatori del CPS al mantenimento del figlio mediante versamento di assegno mensile per un
periodo di mesi sei dall’effettivo allontanamento 29.
E ad identiche conclusioni deve pervenirsi anche nel caso di figlio che con la propria condotta
violenta ed aggressiva protrattasi nel tempo ha arrecato rilevanti lesioni a beni giuridici fondamentali dei genitori (ledendone la dignità della persona o la serenità familiare) pure nel caso in
cui tale condotta derivi da eventuali errori educativi dei genitori stessi nei confronti del figlio.
Il nesso di causalità La condotta che può giustificare l’applicazione degli ordini di protezione non è definita di per
sé, ma in relazione al pregiudizio causato: il nesso di causalità fra condotta e pregiudizio è non
solo necessario, ma, addirittura, elemento costitutivo dell’abuso 30. La necessità del nesso di
causalità fra la condotta abusiva e l’evento della lesione fisica o psichica e dell’attentato alla dignità personale implica poi, da una parte, che non sarà considerata abusiva una condotta di lieve entità oggettiva che causi, in relazione a condizioni psicologiche di particolare fragilità del
destinatario, effetti sproporzionati (anche se, adottando le riflessioni sviluppate dalla dottrina
penale, potremo parlare di abuso, a mio giudizio, laddove l’autore della condotta sia comunque
a conoscenza della fragilità psicologica del soggetto passivo); dall’altra parte, però, una condotta potenzialmente pregiudizievole non integrerà un abuso se rivolta contro un soggetto che,
grazie ad una sua particolare resistenza psicologica, non risulterà danneggiato.
28
Trib. Milano 6 febbraio 2003, in P. DI MARTINO, Violenze Familiari, Edizioni Giuridiche Simone, Napoli, 2004, p. 126
In tal senso si sono espressi anche il Trib. Messina 24 settembre 2005, in De Jure e il Trib. Rovereto 26 luglio 2007, in De
Jure ed il Trib. Venezia con decreto 10 agosto 2005.
30
Così ha espressamente statuito il Trib. Barletta 1° aprile 2008, in Famiglia, persone e successioni, 2008, 7, p. 656 e Trib.
Reggio Emilia 10 maggio 2007 nonché Trib. Bologna 25 maggio 2007, in Famiglia, persone e successioni, 2007, 10, p. 841.
29
58
FOCUS La cautelarità e l’attualità del pregiudizio Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti questi provvedimenti hanno natura cautelare: essi mirano a porre le condizioni necessarie per evitare il reiterarsi di condotte che possano
causare un pregiudizio irreparabile. Il requisito dell’irreparabilità del pregiudizio, pur non
espressamente richiesto, come invece accade normalmente nelle ipotesi di tutela cautelare, è,
secondo alcun autori, implicito, dato che è considerato di per sé irreparabile ogni abuso che incida su beni di rilevanza costituzionale, come quelli tutelati dalla norma.
Per quanto riguarda la questione concernente la necessità o meno che il pregiudizio si sia già
prodotto, la dottrina prevalente, data la natura cautelare del provvedimento, sostiene che non
sia necessario che l’evento dannoso si sia già consumato, bastando invece l’imminenza del pregiudizio, cioè un alto grado di probabilità. In realtà, pur essendo indubbio che gli ordini di protezione mirino non soltanto a far cessare gli abusi “in corso”, ma anche a prevenire il verificarsi
di abusi ulteriori, il testo della norma non sembra fornire solidi appigli a questa interpretazione.
L’art. 342 bis c.c. parla, infatti, di condotta che «è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o
morale ovvero alla libertà» di un familiare, presupponendo, dunque, che il pregiudizio sia attuale: è, pertanto, la stessa nozione di “abuso familiare” come condotta causativa di pregiudizio per
determinati beni giuridici a spingere verso quest’ultima interpretazione.
E ancora: l’art. 342 ter c.c. parla di coniuge o convivente «che ha tenuto la condotta pregiudizievole», prevedendo come contenuto imprescindibile dell’ordine di protezione la «cessazione
della condotta». Sicché nessun dubbio può esservi sulla necessità che la condotta debba essere
già stata posta in essere; e appare a tal punto difficile configurare concretamente una discrasia
fra il momento in cui viene posta in essere la condotta e quello in cui si verifica il pregiudizio
(dato che anche un semplice singolo episodio di violenza, ad esempio, pur non causando necessariamente lesioni fisiche sarà considerato fonte di grave pregiudizio almeno morale), fermo
restando che, anche qualora si configurasse astrattamente la possibilità di tale discrasia, la lettera dell’art. 342 bis c.c. dovrebbe far propendere per la soluzione negativa relativamente alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto in oggetto prima del verificarsi di un
qualche pregiudizio concreto, potendo essere tale pregiudizio notevolmente inferiore rispetto
a quello futuro e probabile che si intende evitare tramite l’adozione degli ordini di protezione 31.
4.2. Presupposti soggettivi Come si è visto, i presupposti necessari per l’adozione degli ordini di protezione sono due.
Il primo è l’esistenza di una condotta da cui derivi grave pregiudizio per l’integrità fisica o morale ovvero per la libertà di una persona, ed è stato esaminato nelle pagine precedenti.
Il secondo riguarda i soggetti coinvolti, dato che la condotta, secondo l’art. 342 bis c.c., deve
avere come protagonisti, sia dal lato attivo che da quello passivo, due soggetti che siano fra
loro coniugi o conviventi, prevedendo, poi, l’art. 5, l. n. 154/2001 l’estensione dell’ambito di
applicabilità della normativa anche alla condotta tenuta “da un altro componente del nucleo
familiare” ovvero «nei confronti di altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal
convivente».
31
In senso contrario, v. però, Trib. Napoli, Sez. I bis, decreto 2 luglio 2008, n. 12865, in Famiglia e minori, 2009, 2, p. 21,
secondo cui: «sembra doversi escludere la necessità che il pregiudizio debba essersi (in tutto o in parte) verificato giacché l’esigenza che la misura è finalizzata a salvaguardare consiste proprio nell’evitare il verificarsi del danno. Evitare l’aggravamento se già in
atto: ma, ancor prima, e a fortiori, l’insorgenza».
59
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 La normativa in esame accoglie dunque una nozione estesa di “famiglia”, comprendente ogni
forma di parentela e di convivenza stabile, con piena equiparazione, dunque, fra matrimonio e
convivenza more uxorio 32.
Si consideri, poi, che nel diritto penale il richiamo contenuto nell’art. 572 c.p. alla “famiglia” va
inteso riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di
vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo 33.
Coniugi Ovviamente il primo caso in cui la disciplina degli ordini di protezione è quello della condotta
di un coniuge nei confronti di un altro coniuge. Il legislatore ha, in tal modo, riconosciuto legittimazione attiva a proporre istanza per l’emanazione di un ordine di protezione al coniuge del
familiare maltrattante assecondando un dato criminologico incontestabile secondo cui la maggior parte degli episodi di violenza interviene ad opera del marito ai danni della moglie. Le ricerche empiriche hanno, poi, evidenziato che le esplosioni più intense di violenza occorrono in
corrispondenza della manifestazione, da parte della vittima della volontà di porre fine al vincolo coniugale. E proprio con riguardo a queste situazioni si è posto nella prassi il problema se
considerare la perdurante convivenza tra i coniugi quale requisito indispensabile per l’ammissibilità della misura in tutti quei casi in cui, proprio a causa della condotta violenta di uno dei
due, i coniugi vivono già separati.
La soluzione negativa pare più in linea con l’orientamento alla vittima cui è ispirata l’intera normativa rendendo possibile l’intervento coattivo del giudice proprio nei casi in cui la conflittualità
familiare ha raggiunto livelli così elevati da non consentire più la convivenza tra i coniugi. In taluni casi, infatti, la circostanza dell’allontanamento della vittima dalla casa familiare (es. la vittima
riceve ospitalità temporanea dai genitori) non è da reputarsi ostativa del provvedimento ma è
semmai confermativa del livello di gravità ed intollerabilità raggiunto nella coabitazione 34.
Fermo restando il problema del coordinamento con le ordinanze presidenziali adottabili nei
procedimenti di separazione e divorzio (v. infra, par. 5.d), non vi sarà alcuna differenza fra il caso di richiesta di adozione degli ordini di protezione effettuata in costanza di matrimonio e richiesta effettuata, appunto, qualora si sia giunti ad una separazione, di fatto o di diritto, comportando l’ordine di protezione, in tal caso, non l’allontanamento dalla casa familiare ma il divieto di frequentarla.
Tuttavia, a conferma dell’orientamento dominante, bisogna ricordare l’art. 8, l. n. 154/2001,
per cui gli ordini di protezione sono adottabili anche quando, pendendo il giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, si suppone che la convivenza sia ormai
cessata (purché non sia stata ancora celebrata l’udienza presidenziale), e l’art. 1, l. n. 154/2001
il quale prevede la possibilità, per il giudice, di disporre non l’allontanamento dalla casa familiare ma il divieto a farvi ritorno, presupponendo dunque che la convivenza sia cessata 35.
32
M. PALADINI, La filiazione nella “famiglia di fatto”, Relazione al Convegno La famiglia di fatto, Vigevano, 8 marzo 2002, in
Familia, 2002, p. 619 s.
33
Cfr., tra le tante, Cass. pen., Sez. VI, 22 maggio 2008, n. 20647.
34
In tal senso Trib. Firenze 1° giugno 2002, in P. DI MARTINO, op. cit., p. 107 e R. RUSSO, Gli ordini di protezione contro gli
abusi e le violenze subite in famiglia, in Dir. giust., 2004, p. 109 e Trib. Padova 31 maggio 2006, in Foro it., 2007, 12, I, c.
3572, nonché Trib. Modena 29 luglio 2004, in Gius., 2004, p. 3942. Ma in senso contrario Trib. Napoli 2 novembre 2006,
in Corr. Mer., 2007, p. 2 ha riconosciuto la convivenza come requisito indefettibile per l’emanazione dell’ordine.
35
C. ABATANGELO, Commento agli articoli 342 bis-342 ter c.c., in Commentario breve al diritto della famiglia, a cura di A. Zaccaria, Cedam, Padova, 2008, p. 798; nonché A. DE COL, Comportamenti pregiudizievoli che rimangono rilevanti anche a convivenza
finita, in Famiglia e minori, 2009, 2, p. 26.
60
FOCUS Si pensi anche al caso di moglie e figlio costretti a lasciare la casa familiare per sottrarsi alla
condotta vessatoria del marito il quale, però, continua ad avvicinarsi ai luoghi ove i due dimorano: in tal caso il Tribunale di Bari – Sezione distaccata di Monopoli con decreto 21 ottobre
2010 ha ordinato al marito di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla moglie ed
in particolare al luogo di lavoro e di residenza.
La disciplina non risulterà, invece, applicabile fra ex coniugi, non facendo questi più parte del
medesimo nucleo familiare anche se in punto appare ragionevole e conforme alla ratio della legge
superare l’idea di una totale estraneità “giuridica” tra i coniugi dopo il divorzio nel caso in cui si
presentino problematiche di natura psicologica, sociale e giuridica (prossimità tra autore e vittima per esempio tramite agevole accesso alla casa coniugale 36, presenza di prole comune, violenza
fisica reiterata, esposizione dei figli alla violenza, trasferimento dell’odio ed ella distruttività sui
medesimi, ricatto economico attuato mediante la privazione dei mezzi di sussistenza, circolarità
nella reciproca attribuzione della responsabilità) analoghe a quelle che si manifestano nelle ipotesi di violenza endofamiliare 37. Sicché il rimedio civilistico potrà essere emesso nell’ambito della
relazione post-coniugale ogniqualvolta ne ricorrano i suddetti presupposti applicativi 38.
In definitiva occorre porre attenzione non tanto all’effettiva attualità della convivenza al momento in cui il soggetto leso si rivolge al giudice, quanto alla circostanza che sia la convivenza la
relazione privilegiata che consente di abusare dell’altro 39.
Infine è discusso (anche se qui la dottrina non è unanime) se l’abuso debba aver luogo all’interno della casa coniugale o altrove, per esempio sul luogo di lavoro. L’impostazione meno rigorosa (pur prevalente in giurisprudenza) supera la lettera dell’art 342 ter c.c. (che parrebbe addurre come elemento indispensabile degli ordini di protezione l’ordine di allontanamento) 40 sulla
base della ratio della norma (che è, comunque, quella della massima tutela delle vittime, interrompendo la spirale di violenza e prevaricazioni).
Conviventi Il secondo caso di applicabilità è quello dei conviventi, ossia «quei soggetti legati tra loro da un
vincolo affettivo e solidaristico che si concreta in una partnership, o meglio, in una relazione dotata di
stabilità e durevolezza tale da conferire all’unione di fatto un determinato grado di certezza»: sia
omosessuale 41 che eterosessuale 42.
36
37
Cfr. Trib. Firenze 15 luglio 2002, in Famiglia e diritto, 2003, p. 263.
Cfr. in tal senso, Trib. Reggio Emilia 11 luglio 2007, in De Jure.
38
Si consideri che pure la Cassazione penale ritiene applicabile la misura di cui all’art. 282 bis c.p.p. anche nel caso di già avvenuto abbandono (allontanamento) della casa coniugale da parte del coniuge indagato sul presupposto che la ratio del provvedimento cautelare si esprime in un spettro valutativo di più ampia portata includente rapporti e relazioni interpersonali del
soggetto passivo che trascendono la mera quotidianità di vita e di abitudini nel ristretto ambito delle sole mura domestiche
della casa familiare (cfr. Cass. 17 aprile 2009, n. 16658).
39
In tal senso v. R. RUSSO, Gli ordini di protezione contro gli abusi e le violenza subiti in famiglia, in Dir. giur., 2004, 16, p. 108.
40
R. PACIA DEPINGUENTE, op. cit., p. 762 e R. CONFORTI, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari: la legge 154/2001, in
http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=1580.
41
In tal senso per la definizione dell’unione omosessuale come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso cui spetta
il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi
diritti e doveri – ad esclusione di quello del matrimonio – e con la ragionevole pretesa di un omogeneizzazione del trattamento giuridico a tutela di specifiche situazioni (come potrebbe essere quella della violenza all’interno delle mura domestiche) v.
sent. Corte cost. n. 138/2010, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, 24 giugno 2010 caso Schalk e Kopf c. Austria (per
un diritto delle coppie omosessuali ad una vita familiare ex art. 14 CEDU) e Cass. 15 marzo 2012, n. 4184.
42
Nell’individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione della misura va rilevato che si è superato quella sorta di compromesso che aveva caratterizzato la prima stesura del d.d.l. n. 2675 e che consisteva nella limitazione dell’operatività dell’ordine nei
61
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 Non saranno, così, da tenere in considerazioni quelle relazioni sentimentali non seguite dalla
condivisione dello stesso tetto o quelle convivenze prive di stabilità, caratterizzate dalla mera
coabitazione occasionale 43. Si ritiene che il persistere della convivenza non sia necessario per
l’adozione dei provvedimenti, ben potendo essere questi finalizzati a far rientrare nella casa familiare il convivente che aveva dovuto allontanarsene a causa degli abusi.
Non pare condivisibile, invece, quella giurisprudenza che reputa applicabile l’ordine di protezione anche nel caso di persone occupanti in linea di mero fatto lo stesso immobile – ossia
coabitanti – anche senza formare un nucleo familiare pur nei termini ampi indicati dall’art. 4
del Nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente (d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223)
il quale definisce la famiglia anagrafica come «un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale
nello stesso comune» 44.
Minori e anziani Il terzo caso di applicabilità è quello, espressamente ricordato dall’art. 5, l. n. 154/2001, degli
“altri familiari”: in tal modo, la legge restringe la nozione di “convivente”, non includendovi,
dunque, coloro che coabitano senza, però, che si sia instaurata una convivenza 45.
La nozione di “famiglia”, e dunque quella di “altri familiari”, va qui, come dicevamo, intesa in
senso atecnico, riferita ad una sorta di famiglia “di fatto”, comprendente non soltanto coloro
che sono formalmente legati da un vincolo di parentela o affinità, ma anche coloro che convivono senza alcun vincolo formale di questo genere, risultando altrimenti esclusi dalla protezione, ad esempio, i figli naturali di un coniuge conviventi con la famiglia legittima di quest’ultimo.
Parte della dottrina ritiene che anche una semplice stabile frequentazione (ad esempio, per il
consumo quotidiano dei pasti) da parte di uno dei membri della famiglia “allargata” possa essere sufficiente per l’adozione degli ordini di protezione: in realtà, sembra difficile conciliare la
nozione, pur ampia, di “nucleo familiare” 46 accolta nell’art. 5, l. n. 154/2001 con la semplice
sussistenza di un vincolo di parentela, non accompagnata da coabitazione (salvi i casi, già visti,
in cui la cessazione della coabitazione sia dovuta al comportamento violento di un familiare).
Inoltre, il nucleo familiare così inteso avrà un carattere mobile, ben potendo ricomprendere, ad
esempio, il figlio che, in seguito al divorzio dalla propria moglie, torni a vivere nella famiglia di
origine.
Nel caso di “altri familiari” minori e/o anziani 47, sarà necessario contemperare le esigenze di
protezione della vittima con la considerazione dei bisogni a cui il minore o l’anziano non autosufficiente non possono provvedere, escludendo l’allontanamento o comunque accompagnandolo con altre misure 48.
casi di violenza tra conviventi alle sole ipotesi più meritevoli di protezione, ossia quelle in cui nel nucleo familiare convivano figli
riconosciuti minorenni o maggiorenni non autosufficienti ovvero in cui il convivente abbia un diritto proprio sull’abitazione.
43
Non è sufficiente, invece, come vorrebbe taluna dottrina, il semplice fidanzamento anche se vi siano condotte vessatorie.
44
V. Trib. Prato, decreto 8 giugno 2009, in Famiglia e minori, 2009, 8, p. 78.
45
La dottrina civilistica distingue la convivenza dalla semplice coabitazione: mentre per convivenza si intende la comunione di affetti, per la coabitazione basta la mera abitazione sotto il comune tetto, senza che venga richiesto il consortium dei
coniugi o dei conviventi.
46
Cfr. il nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente (d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223) che all’art. 4 definisce
la famiglia anagrafica come un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da
vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
47
In punto giova rilevare come la convivenza sia vieppiù considerata elemento decisivo anche in tema di risarcimento dei
danni non patrimoniali subiti da familiari non appartenenti alla famiglia cd. nucleare. Cfr. Cass. 16 marzo 2012, n. 4253.
48
Per i rapporti fra gli artt. 342 bis e 342 ter c.c. e gli artt. 330 ss. c.c. v. infra.
62
FOCUS 4.3. Il contenuto L’art. 342 ter c.c. indica tassativamente quale deve essere il contenuto degli ordini di protezione, che è, dunque, tipico, e il giudice può graduarlo, nel caso concreto, secondo il livello di protezione necessario per reprimere l’abuso e prevenirne la reiterazione. Si tratta, cioè, di misure
elastiche, cumulabili fra loro secondo necessità, in un rapporto di reciproca autonomia.
Possiamo però distinguere, a grandi linee, fra contenuto necessario dell’ordine di protezione e
contenuto eventuale.
Costituiranno contenuto necessario degli ordini di protezione:
1. la cessazione della condotta e, stando alla lettera della norma (ma contra, come abbiamo in
parte già visto, la maggioranza della dottrina e della giurisprudenza);
2. l’allontanamento dalla casa familiare.
Ne costituiranno, invece, contenuto eventuale (“ove occorra”):
3. il divieto di avvicinarsi «ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo
di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di
altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia», a meno che l’aggressore non debba frequentare questi luoghi per esigenze lavorative;
4. l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché
delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati;
5. il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi rimaste prive di mezzi
adeguati in seguito all’adozione degli ordini di protezione.
Questa classificazione permette di affermare che, se da una parte non è smentita la reciproca
autonomia fra le diverse misure, non è però possibile adottare un ordine di protezione che contenga esclusivamente una o più misure qui classificate come eventuali in assenza di ciò che ne
costituisce contenuto necessario. In particolare, lo stesso testo normativo (che parla di persone
rimaste prive di mezzi «per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma») fa propendere la giurisprudenza per negare la possibilità di configurare l’ordine di pagamento periodico di somme
di denaro in assenza della misura dell’allontanamento dalla casa familiare.
Una diversa classificazione può farsi tra:
1. provvedimenti di carattere personale, relativi ai rapporti endofamiliari (ordine di cessazione
della condotta, allontanamento dalla casa familiare, divieto di avvicinarsi e frequentare determinati luoghi, intervento dei servizi sociali);
2. provvedimenti di carattere patrimoniale (ordine di pagamento di un assegno periodico).
A tali contenuti si aggiunge, necessariamente, la determinazione delle concrete modalità di attuazione del provvedimento.
Mancano, invece, alcune misure che ben potrebbero impedire il verificarsi di ulteriori episodi
di violenza, come la sospensione del porto d’armi 49.
Si tratta, evidentemente, degli stessi provvedimenti adottabili in sede penale secondo l’art. 282
bis c.p.p., con l’unica eccezione dell’intervento dei servizi sociali, di centri di mediazione fami-
49
Tuttavia va ricordato che ex art. 282 quater c.p.p. (introdotto dall’art. 9, l. 23 aprile 2009, n. 38) i provvedimenti di allontanamento dall’abitazione familiare ex art. 282 bis c.p.p. e quelli del divieto di avvicinamento ex art. 282 ter c.p.p. devono
essere comunicati all’autorità di pubblica sicurezza competente ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni: norma che ben potrebbe applicare analogicamente anche il giudice civile allorquando emette un
ordine di protezione.
63
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 liari o di associazioni di aiuto per le vittime degli abusi: tuttavia, la loro adozione non è subordinata all’esistenza dei rigidi presupposti necessari per l’adozione delle misure cautelari 50.
I singoli ordini di protezione La cessazione della condotta L’ordine di cessazione della condotta rappresenta il “contenuto minimo” degli ordini di protezione, da utilizzare in tutti quei casi di violenza “minore”, in cui il giudice non ritenga opportuno adottare provvedimenti che comportino la rottura della convivenza familiare e, al contempo, ritenga che tale ordine sia sufficiente per porre fine agli abusi. Per evitare una eccessiva
compressione della libertà dell’autore della condotta e per dare una maggior efficacia all’ordine, bisognerà indicare con una certa precisione le condotte vietate, cosa che risulterà particolarmente ardua nei casi di condotte omissive, sempre che le si accolga fra quelle che possono
costituire presupposto degli ordini di protezione. Si ritiene, poi, che il giudice possa prescrivere
comportamenti volti al ripristino dello status quo ante come, per esempio, quello di cancellare
scritte lesive appose sui muri o su supporti nelle vicinanze dell’abitazione della persona o in alti
luoghi ove posano creare in concreto un pregiudizio.
L’allontanamento dalla casa familiare Mentre l’ordine di cessazione della condotta costituisce, senza dubbio, “contenuto minimo”
degli ordini di protezione, sull’ordine di allontanamento dalla casa familiare, come abbiamo visto, la dottrina esprime opinioni divergenti: per alcuni, dunque, esso costituirebbe “contenuto
minimo” ed imprescindibile al pari dell’ordine di cessazione della condotta; per altri, invece, esso
farebbe parte dei contenuti eventuali.
E se i primi hanno dalla loro parte la lettera del testo normativo, che non utilizza, al contrario
che per gli altri ordini di protezione, l’espressione “ove occorra” per indicare i casi in cui il giudice adotterà tale provvedimento, i secondi hanno dalla loro parte la maggioranza della giurisprudenza.
Vediamo ora il significato dell’espressione «allontanamento dalla casa familiare».
L’autore dell’abuso dovrà fissare la propria dimora in un luogo diverso rispetto alla casa familiare (“allontanandosi”, in tal modo, dalla casa familiare, o non facendovi più ritorno qualora si sia
già allontanato), e in tal modo non potrà più esercitare la condotta pregiudizievole per i familiari stessi. Secondo parte della dottrina, l’autore degli abusi perderà, così, pro tempore il diritto
di godimento sulla casa familiare (godimento che poteva detenere a diverso titolo: es. proprietà, usufrutto, locazione, comodato ...), che sarà così trasferito alla vittima degli abusi, la quale
potrà opporlo ai terzi secondo le regole di opponibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare in sede di separazione o divorzio. Parte della dottrina ritiene, invece, non assimilabili le conseguenze del provvedimento di assegnazione della casa familiare in sede di separazione o divorzio con quelle dell’ordine di protezione, ritenendo che la titolarità del diritto resti all’autore degli abusi, essendone trasferito alla vittima soltanto l’esercizio.
Tale provvedimento sarà adottabile anche a danno del convivente more uxorio proprietario
dell’immobile pur in assenza di figli (contrariamente a quanto normalmente previsto in caso di
cessazione della convivenza more uxorio), mentre si dovrà prevedere, nel caso in cui l’autore degli
50
A. FIGONE, Violenza in famiglia e intervento del giudice, in Famiglia e diritto, 2002, p. 506.
64
FOCUS abusi sia il titolare del contratto di locazione, anche l’ordine di pagamento dei relativi canoni 51.
Con riguardo, invece, alle spese condominiali il giudice potrà prenderle in considerazione in
sede di determinazione delle misure patrimoniali a favore degli altri membri della famiglia.
Per individuare la casa familiare va ricordato che l’esigenza degli ordini di protezione è quella di
conservare l’habitat domestico, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola
la vita familiare sicché per casa familiare deve intendesi quell’immobile che abbia costituito il
centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi avessero la disponibilità 52.
Se la vita familiare si svolge in diverse abitazioni, il giudice potrà prevedere l’allontanamento da
più di una, eventualmente con la possibilità di “turni” nelle diverse abitazioni per l’autore degli
abusi e il resto del nucleo familiare, mentre nessun problema sussiste nel caso in cui la “casa
familiare” non sia costituita da un immobile ma, per esempio, da una tenda o una roulotte: in
tali casi, infatti la maggior accessibilità che tali strutture presentano deve essere compensata
dall’adozione di misure accessorie che vietino l’avvicinamento per evitare qualsiasi contatto.
Ovviamente l’allontanamento dalla casa familiare può essere esteso alle pertinenze come l’autorimessa o il giardino.
Non è invece possibile un provvedimento che consenta alla vittima degli abusi di allontanarsi
dalla casa familiare con esonero dai doveri ex artt. 143 ss. c.c.
Se l’abusante abbia già spontaneamente abbandonato l’abitazione l’ordine potrà consistere nel
divieto di far rientro nella casa familiare.
Infine va segnalato che, a seguito della cessazione della convivenza more uxorio e scaduta la misura di protezione, il Tribunale per i Minorenni potrà disporre l’assegnazione della casa coniugale
in favore del genitore non proprietario esercente la potestà sui figli minori ex art. 155 quater c.c.
Il divieto di frequentazione di determinati luoghi Se l’allontanamento dalla casa familiare è finalizzato ad evitare il reiterarsi della condotta all’interno dalle mura domestiche, il divieto di frequentare determinati luoghi è finalizzato ad evitarne il reiterarsi al di fuori delle mura domestiche, creando intorno alla vittima un ambiente
sicuro, in cui si possa escludere il contatto con l’autore degli abusi, evitando allo stesso tempo che
questi possa intervenire nei rapporti di lavoro e amicizia della vittima e creando, così, una sorta di
schermo protettivo indispensabile per un’ordinata ripresa della vita familiare del nucleo cosiddetto “superstite”.
La norma contiene un elenco comprendente il luogo di lavoro dell’istante, il domicilio della
famiglia d’origine, quello dei prossimi congiunti o di altre persone, nonché i luoghi frequentati
dai figli della coppia per ragioni di istruzione. Si tratta di un elenco avente un valore meramente
esemplificativo e, per espressa previsione normativa, si fa salvo il caso in cui l’autore degli abusi
debba frequentare i luoghi di cui sopra per esigenze lavorative, ferma restando la necessità, in
tal caso, di adottare ulteriori cautele per proteggere l’istante.
Data la finalità di questa misura, essa non impedirà soltanto l’accesso dell’autore degli abusi in
questi luoghi, ma anche ogni possibile interazione con essi di tale soggetto, evitando così non solo la violenza fisica, ma anche la pressione psicologica che scaturirebbe dall’indesiderata presenza
dell’aggressore. In questo senso, dunque, il termine “frequentare” è da intendersi in senso ampio.
51
È proprio questa previsione, secondo Scarano, a far propendere per il vero e proprio trasferimento della titolarità del diritto di godimento sulla casa familiare in capo alla vittima e non il trasferimento del semplice esercizio di tale diritto.
52
In senso conforme v. Cass. civ., Sez. I, 27 febbraio 2009, n. 4816.
65
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 Inoltre, è vero che esso è pur sempre riferito all’autore degli abusi, ma questi potrà essere considerato, qualora sia un semplice mandante, pienamente responsabile.
Questa ampiezza di significato, però, non deve far dimenticare che la misura incide su libertà
costituzionalmente tutelate (artt. 13 e 16 Cost.). Di conseguenza, sarà opportuno indicare,
comunque, in maniera piuttosto specifica quali luoghi sono compresi nel divieto 53: pena il possibile annullamento dell’ordine per carenza di determinatezza. Solo attraverso l’esatta individuazione dei luoghi il provvedimento assume una conformazione completa che ne consente
non solo l’esecuzione ma anche il controllo che tali prescrizioni siano osservate 54.
L’intervento di soggetti terzi Altra misura adottabile è l’intervento di soggetti terzi, sia pubblici che privati, e in particolare
servizi sociali, centri di mediazione familiare o associazioni che «che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati».
Tale misura sarà da adottare soprattutto nei casi più gravi, in cui si renda necessario fornire un
supporto alla vittima o aiutare il mantenimento di determinati rapporti interpersonali (in particolare quelli genitore-figli), o ancora accogliere la vittima qualora la permanenza nella casa familiare possa rivelarsi pericolosa o semplicemente sia opportuno aiutare la vittima a superare il
disagio derivante dalla solitudine presso la casa familiare 55, o, infine, quando c’è la necessità di
assicurare l’effettività della protezione in una prospettiva di lunga durata.
Una volta stabilito, sulla base di questi parametri, se far intervenire o meno una di queste istituzioni, bisognerà decidere quale, fra i molteplici enti presenti sul territorio, sia chiamato concretamente ad operare.
Il giudice dovrà così tener conto, innanzitutto, dell’eventuale rapporto già esistente tra la vittima e una determinata associazione; se poi tale rapporto non sussista, la valutazione andrà fatta
in ragione del luogo di residenza della persona, delle caratteristiche degli abusi e dell’attuale disponibilità. In ogni caso, poi, è auspicabile che il giudice indichi la persona fisica responsabile
delle attività di ascolto, assistenza e mediazione, in modo da evitare le inefficienze e le difficoltà
di attribuzione delle responsabilità e, nello stesso tempo, “personalizzare” il sostegno.
Certo è che non si può imporre alla vittima di seguire le attività promosse dall’ente scelto dal
giudice 56, nemmeno quando esse siano finalizzate a ristabilire il dialogo con l’autore degli abusi, e, pertanto, si tratta di una misura non coercitiva 57.
L’intervento dei terzi, ed in particolare dei Servizi Sociali, avviene di solito per prendere in carico il caso, evidenziarne le criticità, vigilare e regolare in via provvisoria le frequentazioni dei
minori da parte dell’abusante in condizioni di sicurezza in modo da evitare contatti con l’altro
genitore che potrebbero determinare ulteriori occasioni di condotte pregiudizievoli 58.
Nell’adottare l’ordine di protezione volto alla regolamentazione dell’eventuale diritto di visita
del genitore allontanato il giudice dovrebbe sentire il minore, ex Cass., S.U., 21 ottobre 2009, n.
53
Per un esempio negativo v. Trib. Genova, Sez. IV, 26 luglio 2011, in www.avvocatidifamiglia.net ove si è posto il «divieto di
allontanarsi dal domicilio coniugale e di non avvicinarsi ad altri luoghi abitualmente frequentati dal coniuge e dai figli».
54
In punto v. Cass., Sez. pen., 8 luglio 2011, n. 26819, che ha riportato nella parte motiva relativamente alla misura di cui
all’art. 282 bis c.p.p. passaggi simili a quanto sopra detto ed estensibili alla misura civilistica.
55
La possibilità di ottenere l’allontanamento non esclude l’importanza delle casa di accoglienza poiché la solitudine presso
la casa familiare può costituire fonte di disagio nella fase post-traumatica.
56
In tal senso cfr. Trib. Novara, 1° luglio 2011, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/6116.php.
57
V. CARDONE-F. VERRI, L’allontanamento del membro violento dalla famiglia, in Trattato della responsabilità civile e penale in
famiglia, a cura di P. Cendon, Cedam, Padova, 2004, p. 2953.
58
V. Trib. Reggio Emilia, decreto 10 maggio 2007, Pres. Piscopo, est. Provenzano, in Costanzo, 2007, p. 843.
66
FOCUS 22238, anche se in punto tale obbligo potrà essere attenuato o eliminato se comporta grave disagio al minore. A sua volta il coniuge o convivente vittima non dovrà ostacolare il diritto di visita del genitore a pena di una serie di conseguenze civili e penali previste dall’ordinamento.
Quanto al riferimento ai centri di mediazione familiare, il riconoscimento di spazi di mediabilità
anche nei casi di violenza e di abuso rappresenta, secondo le parole degli stessi compilatori della legge, «un aiuto offerto dall’ordinamento alla ricomposizione della conflittualità (...) al di fuori degli schemi della separazione e del divorzio». L’intento è, dunque, in quello di superare l’esclusività della logica volta alla rottura definitiva del legame coniugale: con il particolare contenuto
di cui si può arricchire l’ordine di protezione si è voluto creare uno strumento di tutela forte –
perché capace di offrire una protezione pronta ed efficace alle vittime della violenza – ma, allo
stesso tempo, flessibile in quanto in grado anche di favorire, laddove possibile, la ricostituzione
delle relazioni familiari (siano essi giuridicamente riconosciute o di fatto).
Ma, al di là delle intenzioni espresse dai compilatori, la previsione di soluzioni mediatorie non
manca di sollevare qualche perplessità.
La mediazione familiare, infatti, è a tutt’oggi concepita come strumento che si inserisce nel
procedimento di soluzione del vincolo coniugale e che è principalmente focalizzato sulla tutela
dei figli durante i procedimenti di separazione divorzio 59.
Il fatto che la l. n. 154/2001 ammetta un approccio di tipo mediatorio anche nei casi in cui si è
manifestata la violenza all’interno del gruppo familiare, dunque anche in presenza di fatti eventualmente rilevanti da un punto di vista penalistico, fa sì che la mediazione familiare attivabile
ex art. 342 ter c.c. prima di costituire un momento propedeutico a una serena e consapevole
conclusione del rapporto coniugale, con una particolare cura della relazione genitori-figli, diventi uno strumento orientato alla gestione del conflitto intercorrente tra autore e una vittima,
reclamando, di conseguenza, una pragmatica della mediazione analoga a quella che si attua in
campo penale rispetto alla quale, peraltro, risulta piuttosto stridente il carattere non consensuale ovvero il suo essere imposta unilateralmente, oltre che discrezionalmente, dal giudice.
Il pagamento di un assegno periodico La disciplina di un aspetto della violenza domestica per troppo tempo trascurato dal legislatore,
quale quello relativo alla tutela patrimoniale delle vittime risulta imprescindibile e favorire l’emersione di quelle situazioni caratterizzate da una totale indipendenza economica dei soggetti
passivi dai maltrattamenti e la conseguente timore dei primi di rimanere privi di sostentamento
una volta denunciate le violenze subite.
Ecco perché l’ultimo, nell’ordine seguito dall’art. 342 ter c.c., fra i provvedimenti adottabili è
l’ordine di pagamento di un assegno periodico a favore dei familiari, finalizzato a far sì che l’allontanamento dell’autore degli abusi non renda gli altri familiari privi di mezzi adeguati per vivere,
con ciò intendendo permettere loro di conservare il medesimo tenore di vita di cui godevano
prima dell’adozione dei provvedimenti in questione, in analogia a quanto elaborato dalla giurisprudenza in relazione alla determinazione dell’assegno di mantenimento e dell’assegno divorzile.
Analogamente a tali assegni, questa misura non ha finalità risarcitorie (e dunque le somme versate in relazione ad essa non andranno computate ai fini del risarcimento del danno derivante
59
La mediazione familiare viene intesa come un processo attraverso il quale i genitori separati si rivolgono liberamente ad
un terzo neutrale per ridurre gli effetti distruttivi di un grave conflitto che interrompe o disturba la comunicazione fra loro”
processo che mira a ristabilire la comunicazione fra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di
un progetto di organizzazione delle relazioni dopo la separazione e il divorzio. Così F. SCAPARRO, Etica della mediazione familiare, in R. ARDONE-S. MAZZONI, La mediazione familiare. Per un regolazione della conflittualità nelle separazioni e nel divorzio, Giuffrè, Milano, 1994, p. 53.
67
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 dagli abusi), ma natura assistenziale, con un’evidente innovazione nell’ambito di tutte quelle
convivenze, anche omosessuali, in cui normalmente manca, nel nostro ordinamento, ogni obbligazione del partner più agiato di consentire a quello meno agiato di mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva in costanza di convivenza.
È lo stesso giudice a determinare, contestualmente all’adozione della misura, modalità e termini
di versamento (normalmente, bonifico bancario, che evita ogni contatto vittima-aggressore, per
quanto riguarda le modalità, e un mese, per quanto riguarda i termini), eventualmente prevedendo che la somma sia detratta direttamente dalla retribuzione, per essere versata all’avente diritto.
Si tratta di una previsione analoga a quella fatta per i procedimenti di separazione e divorzio,
ma con alcune differenze.
Infatti, da una parte, è sufficiente una mera presunzione di inadempimento (e non che l’inadempimento si sia già verificato), ma dall’altra la distrazione del credito da lavoro è l’unica forma di garanzia prevista, mentre nei procedimenti di separazione e divorzio è prevista anche la
distrazione di crediti diversi o la prestazione di altre garanzie reali o personali o il sequestro, il
che ha suscitato non pochi dubbi di legittimità costituzionale, dato che sembra essere meno tutelata una situazione (quella della vittima degli abusi) che meriterebbe, anzi maggiore tutela
rispetto ad un’altra (quella del coniuge separato o divorziato).
A tal fine il Tribunale di Brescia ritiene che, in casu, deve imporsi un’interpretazione costituzionalmente orientata ed adeguata che deve cogliere, nel potere di stabilire le modalità e i termini
del versamento, una previsione idonea a giustificare un ordine diretto al terzo debitore in funzione chiaramente esecutiva della previsione economica evitando così un’irragionevole diversità di
trattamento di situazioni che, viste nel loro profilo funzionale, sono assolutamente identiche 60.
Non si può, in ogni caso, escludere che oggetto del provvedimento possa essere anche la pensione percepita dall’autore del maltrattamento, dato che tale entrata, sul piano sostanziale è
equiparabile allo stipendio, così come l’INPS potrebbe essere equiparabile al datore di lavoro.
La lettera della legge indica chiaramente la natura accessoria della misura patrimoniale; ma tale
accessorietà va letta con riguardo all’ordine di cessazione della condotta lesiva e non rispetto
all’ordine di allontanamento; se, infatti, la più incisiva e completa tutela del familiare debole
rappresenta la precipua finalità dell’obbligo di corresponsione dell’assegno, tale obbligo potrebbe essere prescritto dal giudice in tutti i casi in cui il maltrattamento si concretizza anche
nel privare di mezzi adeguati il convivente non percettore di reddito autonomo pur senza ricorrere all’esigenza di allontanare l’abusante stante, ad esempio, l’avvenuto allontanamento della
vittima degli abusi.
Nel prevedere l’obbligo di corresponsione dell’assegno il legislatore fa esclusivo riferimento alla finalità di “fornire i mezzi adeguati” che la determinazione della somma dovrà essere attuata
sulla base del solo parametro dell’adeguatezza richiamandosi in tema l’elaborazione della giurisprudenza in materia di assegno di mantenimento e assegno di divorzio 61, o dell’assegno di
mantenimento dei figli anche maggiorenni. Se il riferimento all’assenza di mezzi adeguati costituisce l’unico presupposto oggettivo per l’applicazione della misura patrimoniale, l’individuazione dell’ambito soggettivo della stessa avviene attraverso il generico riferimento ai conviventi
del familiare allontanato quali potenziali beneficiari del provvedimento.
L’estensione dell’onere economico previsto dall’art. 342 ter c.c. al convivente more uxorio non
ha mancato, peraltro, di catalizzare l’attenzione della dottrina sulla questione relativa alla natu-
60
61
In tal senso v. F.M. ZANASI, Gli ordini di protezione, cit., p. 69 e G. DE MARZO, op. cit., p. 542.
Cfr. G. DE MARZO, op. cit., p. 541.
68
FOCUS ra giuridica dell’obbligo di corresponsione, non trovando esso la propria fonte in quegli obblighi di assistenza materiale, di contribuzione ai bisogni della famiglia e di mantenimento dei figli
che sorgono per l’effetto del matrimonio, né potendo fondarsi sull’adempimento dell’obbligazione naturale – categoria a cui si riconducono le prestazioni di mantenimento verso il convivente more uxorio 62 – per sua natura non ripetibile, né sul diritto al risarcimento dei danni dovendosi escludere il carattere risarcitorio dall’obbligo di corresponsione, dal momento che
quest’ultimo si fonda sullo stato di bisogno in cui versano i familiari in conseguenza dell’applicazione della misura, sicché sembra potersi condividere l’opinione di chi ne sottolinea la natura
assistenziale.
La soluzione deve muovere, allora, dall’idea dell’esistenza, in capo al convivente, di un dovere
morale e sociale di garantire un ambiente familiare libero dalla violenza, la cui violazione, mediante le condotte pregiudizievoli, determina la sostituzione ex lege 63 dell’obbligazione naturale
di mantenimento con un obbligo giuridico di natura assistenziale 64.
Nel caso in cui a rendersi responsabile di condotte violente sia stato il figlio si pone il problema
se il giudice possa porre a carico di quest’ultimo un assegno in favore della famiglia rimasta priva di mezzi di sostentamento adeguati. In linea con il dettato codicistico (art. 315, 1° comma,
c.c. relativo ai doveri dei figli verso i genitori «contribuire in relazione alle proprie sostanze e al
proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché conviva con essa») si può escludere la sussistenza di un obbligo del figlio alla produzione di reddito, ma non la condivisione di eventuali
profitti o rendite con la propria famiglia. È di conseguenza ammissibile la condanna del figlio a
proseguire nel sostegno economico dovuto alla luce dei suddetti presupposti alla data di allontanamento della casa familiare: in assenza di detti presupposti nulla potrà essere disposto dal
punto di vista economico salva la sussistenza del diritto agli alimenti dei genitori.
Nonostante l’art. 342 ter c.p.c., a differenza dell’art. 282 bis c.p.p. abbia omesso di qualificare
come titolo esecutivo l’ordine di pagamento del Giudice, l’art. 736 bis, 2° comma, c.p.c. espressamente attribuisce al decreto motivato del giudice civile immediata efficacia esecutiva.
Per determinare il quantum dell’assegno l’art. 736 bis c.p.c. autorizza il giudice, ove occorra, a
disporre d’ufficio indagini sui redditi anche per mezzo della Polizia Tributaria dovendosi, però,
precisare che come nei procedimenti di separazione e divorzio l’esercizio di tale potere del giudice non può sopperire alla carenza probatoria della parte onerata ma vale ad assumere, attraverso uno strumento non consentito informazioni integrative del “bagaglio istruttorio” già fornito, incompleto e non completabile attraverso gli ordinari mezzi di prova 65: ferma restando
l’osservazione che in mancanza di documentazione in ordine ai redditi e/o patrimonio o inda62
Così ha statuito, da ultimo, il supremo collegio con la sent. 15 maggio 2009, n. 11.330, in Guida dir., 2009, 21, p. 95.
Nel diritto romano si attribuiva all’obbligazione naturale la natura di un vero e proprio rapporto giuridico obbligatorio
riconnettendovi una serie di effetti ulteriori rispetto alla soluti retentio; (D 46.1.16.3 e D. 16.2.6 nonché D 36.2.1.1 ammettono la possibilità di garanzia tramite fideiussione, di compensazione e novazione “Novatio est prioris debiti in aliam obligationem
vel civilem vel naturalem transfusio atque translatio”); e la compensazione dell’obbligazione naturale la prevedeva anche il
codice civile del 1865; il nostro ordinamento, invece, non riconosce ai doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c. la caratteristica della giuridicità sicché appare quanto meno problematico trasformare un’obbligazione naturale in obbligazione
civile mediante novazione in quanto vi sarebbe un effetto novativo di debito giuridicamente inesistente e la novazione presuppone la validità del titolo costituivo dell’originaria obbligazione (art. 1230 cc.). Possibile, invece, l’effetto ex lege.
64
In dottrina qualche autore sostiene che la previsione di una prestazione assistenziale ex art. 342 ter c.p.c. a favore del
convivente more uxorio solo nel caso di rottura violenta della convivenza è costituzionalmente illegittima in quanto discriminerebbe due situazioni (cessazione della convivenza da una parte pacifica e dall’altra a seguito di violenza) fondate sul
medesimo presupposto ossia la mancanza di mezzi adeguati ma la tesi non convince sol che si consideri che, in realtà, il
presupposto per l’assegno di mantenimento all’ex convivente è che costui abbia subito violenza sicché nella differenziazione il legislatore appare aver ragionevolmente utilizzato la propria discrezionalità nel disciplinare situazioni diverse.
65
Cfr. Cass. 28 gennaio 2011, n. 2098.
63
69
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 gini in ordine alla capacità dell’obbligato, non potrà applicarsi alcuna misura patrimoniale.
La misura, infine, perde efficacia nel caso in cui dovesse intervenire il provvedimento del giudice della causa di separazione o divorzio (il Presidente del Tribunale) o del giudice minorile volto a dare una stabile regolamentazione dei rapporti economici tra le parti o laddove la vittima
instauri un rapporto stabile e duraturo di convivenza – ossia una famiglia di fatto – con altra
persona perché in tal caso si rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la precedenza convivenza 66.
4.4. Durata e proroga Gli ordini di protezione sono, per loro stessa natura, provvisori, prevedendo la legge che il giudice, nel decreto con cui li prescrive, ne stabilisca anche la durata, comunque non superiore ad
un anno ex lege 23 aprile 2009, n. 38 (prima il termine era di sei mesi) e decorrente dal momento di effettiva esecuzione.
In questo periodo si dovrà tentare la riconciliazione, per cui potranno verificarsi due diverse situazioni. Nella prima, la crisi sarà ricomposta, eventualmente anche prima della scadenza, con
la possibilità, per il giudice, di revocare l’ordine di protezione o graduarlo in senso meno limitante. Nella seconda, la crisi non sarà ricomposta. A questo punto, si potrà avviare un procedimento di separazione o divorzio oppure, più semplicemente, la vittima si troverà una diversa
sistemazione, qualora la casa familiare sia di proprietà dell’aggressore, nel caso delle convivenze
more uxorio. Tuttavia, si potrà richiedere una proroga, con due precisazioni: 1) sarà necessaria
la sussistenza di “gravi motivi”; 2) dovrà essere limitata al tempo “strettamente necessario”.
Con riferimento ai gravi motivi si impone un’interpretazione non particolarmente rigorosa nel
senso di riconoscere rilevanza anche a fatti e comportamenti che pur senza tradursi direttamente in nuovi episodi di violenza, tuttavia siano tali, tenuto conto delle contingenze del caso
concreto e in particolare della situazione di conflitto venutasi a determinare, da generare ulteriori occasioni di contrasto ed esporre nuovamente a pregiudizio la persona protetta.
La proroga sarà, così, disposta non semplicemente in caso di violazione dell’ordine di protezione ma nel caso di reiterazione della condotta pregiudizievole.
La durata della proroga risulterà, poi, da una complessa opera di bilanciamento tra condizioni
della vittima, condizioni del colpevole ed esigenze degli altri membri del nucleo familiare.
Ferma restando la natura provvisoria degli ordini di protezione, che dunque non potranno,
tramite l’istituto della proroga, assumere una portata effettivamente definitiva, dal testo della
norma non si può desumere il divieto di più proroghe successive.
In giurisprudenza si è ritenuto che «la mancata indicazione del termine di durata deve intendersi
come implicita previsione del massimo stabilito dall’art. 343-ter c.p.c.» 67. Dal tenore dell’art. 342
ter c.c. – laddove si afferma che il giudice stabilisce la durata degli ordini di protezione – sembra
preferibile ritenere che, in mancanza di siffatta determinazione della durata, il provvedimento
che dispone l’ordine di protezione vada annullato per carenza di determinatezza su uno degli
elementi essenziali dello stesso: la durata; e sempre che il Giudice non abbia provveduto ad integrarlo 68.
66
Per il principio esposto cfr. Cass. 11 agosto 2011, n. 17195.
V. Trib. Teramo 18 agosto 2006, in P.Q.M., 2006, 2, 3, 78.
68
Per completezza va ricordato che recentemente Cass., S.U. pen. con la sent. 11 maggio 2011, n. 18353 hanno chiarito
che il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta di diritto la
caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale già applicata al condannato.
67
70
FOCUS 4.5. Modalità e difficoltà di attuazione Come abbiamo visto, gli ordini di protezione incidono su beni giuridici di rilevanza costituzionale, rendendo così necessario, ad esempio, indicare con precisione i luoghi che non devono
essere frequentati dall’aggressore. Ma ciò non è sufficiente: il legislatore si è infatti premurato
di prevedere che il giudice, con il decreto con cui stabilisce gli ordini di protezione, determini
“le modalità di attuazione”.
È il giudice, invero, ad aver davanti agli occhi il quadro probatorio e il quadro del conflitto in
atto, ed è dunque lui quello che meglio può effettuare il bilanciamento migliore fra le diverse
esigenze in gioco.
Bisogna precisare (cosa tutt’altro che ovvia) che il bilanciamento va fatto in relazione ad ogni singola misura. Se l’ordine di cessazione della condotta non richiede ulteriori precisazioni (diverse da
quelle relative alla descrizione della condotta da cessare), già l’ordine di allontanamento dalla casa
familiare richiede, ad esempio, la determinazione concreta degli aspetti relativi al cambio di residenza, al ritiro degli effetti personali, alla visita dei figli. Per quanto riguarda, poi, l’ordine di pagamento periodico dell’assegno, è l’art. 736 bis, 2° comma, c.p.c. che attribuisce immediata efficacia
esecutiva al decreto motivato del giudice civile. Qualora, nonostante questa precisione, sorgano
difficoltà o contestazioni relativamente all’esecuzione, è lo stesso giudice ad emanare i provvedimenti opportuni, ivi compresi l’intervento della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
Tuttavia sebbene il tenore letterale del disposto codicistico lasci immaginare un intervento del
Giudice successivo all’inosservanza del provvedimento da parte dell’allontanato, la giurisprudenza ha interpretato la norma nel senso di prevedere direttamente l’eventuale intervento della
forza pubblica e dell’ufficiale sanitario per non mettere a repentaglio la tutela della vittima nelle
more dell’esecuzione del provvedimento.
Così, per esempio, presso il Tribunale di Brescia spesso, al fine di evitare situazioni che potrebbero creare grave disagio alla vittima o annullare l’effetto dell’ordine di protezione, si dispone
che l’ordine di protezione venga notificato dalla parte che lo ha richiesto ma tramite la polizia
giudiziaria (o i Carabinieri o la Polizia di Stato territorialmente competenti) la quale avrà cura
non solo di notificare l’ordine bensì anche di verificarne la costante ottemperanza da parte del
soggetto raggiunto dal provvedimento (per es. all’obbligo di allontanamento) con obbligo di
pronto ed efficace intervento in caso di inottemperanza 69.
E si ricordi che l’Autorità Giudiziaria deve profondere un impegno adeguato e sufficiente a far
rispettare il diritto della vittima all’integrità fisica e morale nonché il diritto di visita del genitore allontanato ai figli minori attraverso misure adeguate ove l’adeguatezza di una misura va giudicata anche in base alla rapidità della sua attuazione 70.
4.6. Sanzioni Sebbene i provvedimenti sin qui esaminati (pur essendo analoghi a quelli previsti in sede penale) abbiano natura civilistica, la sanzione prevista per la loro inosservanza è, come già accennato, di natura penalistica.
L’inosservanza degli ordini di protezione è sanzionata penalmente: l’art. 6, l. n. 154/2001 stabilisce infatti che «chiunque elude l’ordine di protezione previsto dall’art. 342 ter del Codice civile,
69
In senso conforme, v. anche Trib. Milano, decreto 30 novembre 2006.
Il principio generale sopra esposto, applicabile anche in materia i ordini di protezione, è stato elaborato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, 2 novembre 2010 nel caso Piazzi c. Italia, ricorso n. 36168/09 in tema di tutela del diritto di visita del genitore con convivente.
70
71
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei
coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è punito
con la pena stabilita dall’articolo 388, primo comma, del Codice penale. Si applica altresì l’ultimo
comma del medesimo articolo 388 del Codice penale».
Dunque, si applica la pena prevista per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del
giudice, vale a dire la reclusione fino a tre anni o la multa da € 103,00 ad € 1.032,00 con la particolarità della necessaria querela della persona offesa.
Il richiamo alla parte meramente sanzionatoria dell’art. 388 c.p. permette di escludere la necessità del dolo specifico, e non è nemmeno necessaria una condotta subdola, essendo sufficiente
la semplice mancata attuazione dell’ordine del giudice.
Si discute se la sanzione penale si riferisca ad ogni comportamento contrario alle prescrizioni del
giudice o soltanto a quelle finalizzate alla protezione dell’integrità fisica o morale ovvero alla libertà del soggetto protetto. Sebbene, infatti, la lettera della legge e l’interpretazione estensiva del
concetto di elusione prevalentemente accolta dalla giurisprudenza possono far optare per la rilevanza penale di ogni condotta – attiva od omissiva contraria alle prescrizioni dell’ordine di protezione 71, sembra opportuno, in ossequio al canone della extrema ratio, delimitare i confini della
fattispecie. In quest’operazione un ausilio fondamentale è offerto dalla corretta individuazione
del bene giuridico tutelato il quale può validamente fungere da limite ad un’eccessiva dilatazione
dell’ambito dei comportamenti elusivi penalmente rilevante consentendo all’interprete di operare una selezione fra le violazioni delle differenti prescrizioni impartite dal giudice.
Se, pertanto, gli ordini di protezione sono finalizzati alla protezione dei diritti fondamentali della
persona in ambito domestico, allora saranno destinate a rimanere estranee all’intervento del
diritto penale quelle condotte che si pongono in contrasto con prescrizioni (quali ad esempio
quelle relative alle modalità di pagamento dell’assegno) non direttamente strumentali alla protezione della libertà o dell’incolumità della vittima e inoltre che si possa garantire egualmente
– prescindendo, cioè, dalla pena – la finalità propria dell’ordine concretamente emesso.
E quest’esigenza di confinare entro i limiti più possibile definiti i casi di rilevanza penale rinviene la propria ragion d’essere nel principio di sussidiarietà del diritto penale ponendosi, altresì,
in linea con lo spirito di una legge che, nell’affrontare il problema degli abusi domestici, ha indubbiamente inteso accordare prevalenza a strumenti civilistici lasciando al diritto penale sostanziale un ruolo residuale e meramente sanzionatorio.
Si tratta, evidentemente, di un reato proprio, essendo la condotta realizzabile dal solo aggressore: non potranno esserne autori, invece, i servizi sociali e gli altri enti di cui all’art. 342 ter, 2°
comma c.c., né il datore di lavoro che ometta di versare direttamente l’assegno alla vittima.
La violazione di diversi ordini corrisponderà a una plurima violazione della medesima disposizione con il conseguente concorso materiale di reati, uniti, se del caso, dal vincolo della continuazione ex art. 81, 2° comma, c.p. 72.
5. Problematiche di diritto processuale L’art. 736 bis c.p.c., introdotto nel codice di procedura civile contestualmente all’introduzione,
nel codice civile, degli artt. 342 bis e 342 ter c.c., prevede uno specifico procedimento per l’ado-
71
In tal senso v. E. VULLO, L’esecuzione degli ordini civili di protezione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 152 e G. DE MARZO, op.
cit., p. 505.
72
Opinione, del resto, confortata dai lavori parlamentari.
72
FOCUS zione degli ordini di protezione, che li farebbe rientrare nell’ambito, secondo alcuni, della tutela cautelare, secondo altri, dell’inibitoria. A queste opzioni si aggiunge poi quella proposta da
chi, oltre a ravvisare elementi in comune con la tutela cautelare, ha sottolineato anche gli elementi in comune con i procedimenti di volontaria giurisdizione.
Vediamo, innanzitutto, di esaminare le caratteristiche del procedimento ex art. 736 bis c.p.c.,
per poi addentrarci in ulteriori considerazioni sull’alternativa fra la natura cautelare e quella inibitoria.
5.1. Competenza e attribuzioni La competenza è del tribunale del luogo di residenza o domicilio della vittima (art. 736 bis, 1°
comma, c.p.c.): competenza territoriale inderogabile ex art. 28 c.p.c.
Con tale previsione il legislatore intende far sì che qualora la vittima si sia allontanata, magari
proprio a causa degli abusi, dalla casa familiare, non abbia comunque difficoltà a proporre il ricorso, potendo rivolgersi, appunto, anche al tribunale del luogo di domicilio. Il tribunale sarà
quello ordinario anche per gli ordini di protezione emessi a tutela dei minori, e questo per non
separare la loro posizione da quella degli adulti, in modo da permettere al giudice di valutare
tutte le relazioni intersoggettive su cui gli abusi influiscono.
Il tribunale decide in composizione monocratica (art. 736 bis, 1° comma, c.p.c.), e ciò per assicurare quella celerità nelle decisioni necessaria per adottare provvedimenti come quelli in esame.
Tuttavia, è prevista l’applicabilità, in via integrativa e in quanto compatibili (art. 736 bis, 7° comma, c.p.c.), degli artt. 737 ss. c.p.c., ossia quelli riguardanti i procedimenti in camera di consiglio.
Sarà poi il presidente del tribunale ad indicare il giudice persona fisica concretamente chiamato a
decidere. Il procedimento rientra fra quelli che possono essere trattati anche durante il periodo di
sospensione feriale (art. 92, 1° comma, l. ord. giud., come modificato dall’art. 4, l. n. 154/2000).
5.2. Scrittura, non obbligatorietà di difesa tecnica e intervento di altre parti L’art. 737 c.p.c., richiamato dall’art. 736 bis, 7° comma, c.p.c., prevede che l’istanza debba essere formulata per iscritto con ricorso. Inoltre, per favorire la vittima degli abusi, è prevista la non
obbligatorietà della difesa tecnica. Ma c’è un limite alla non obbligatorietà della difesa tecnica?
Secondo una parte della dottrina l’estensione del principio di non obbligatorietà della difesa
tecnica alle diverse attività processuali necessarie per l’accertamento dei fatti potrebbe ritorcersi a sfavore della vittima, normalmente priva di nozioni tecniche, oltre che emotivamente troppo coinvolta per poter affrontare la situazione. A favore della stessa vittima, dunque, secondo la
suddetta dottrina, sembrerebbe opportuno limitare la non obbligatorietà della difesa tecnica
alla sola presentazione dell’istanza, unico atto esplicitamente ricordato dall’art. 736 bis, 1° comma, come effettuabile dalla parte personalmente, ripristinando poi la regola generale dell’art.
82, 3° comma, c.p.c. (ossia, l’obbligatorietà della difesa tecnica) per tutti gli atti successivi. Ma
in merito la suddetta distinzione non pare, però, condivisibile sol che si consideri che laddove il
legislatore ha previsto la possibilità di presentare un ricorso alla parte personalmente si è sempre ritenuto possibile la difesa personale della parte in tutta la procedura: solo nel caso di amministrazione di sostegno – ed eccezionalmente – il supremo collegio ha previsto la possibilità
della necessità dell’intervento di un difensore laddove si vadano ad incidere diritti fondamentali (cfr. Cass. 12 giugno 2006, n. 13584).
Se ad essere legittimata attivamente è la vittima degli abusi (o il suo avvocato, o anche il suo
73
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 rappresentante «secondo le norme che regolano la [sua] capacità», art. 75, 2° comma, c.p.c.), i
familiari, terzi rispetto a fatti specifici, possono spiegare intervento adesivo dipendente, ex art.
105, 2° comma, c.p.c.
Per quanto riguarda il Pubblico Ministero, non ne è previsto esplicitamente l’intervento obbligatorio. La dottrina è così divisa tra chi ritiene che egli possa intervenire solo ex art. 70, 3°
comma, c.p.c. e chi, invece, ritiene che si tratti comunque di “cause matrimoniali”, ai sensi dell’art. 70, 1° comma, n. 2, c.p.c.: il Tribunale di Brescia condivide la prima ipotesi.
Non sono, invece, legittimati a chiedere ordini di protezione i servizi sociali in quanto non indicati dal testo legislativo quali possibili ricorrenti.
5.3. Procedimento L’atto introduttivo è costituito da un ricorso al presidente del tribunale, che conterrà gli elementi richiesti dall’art. 125 c.p.c., e in particolare gli ordini di protezione, patrimoniali o personali, di cui si chiede l’emissione, e i fatti e gli elementi di diritto che ne costituiscono le ragioni,
con le relative conclusioni.
La fase successiva del procedimento (che avrà luogo davanti al giudice indicato dal presidente
del tribunale) potrà poi svolgersi: 1) in contraddittorio fra le parti; 2) inaudita altera parte, in
caso di urgenza.
Nel primo caso, «il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di
istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui
redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo» (art. 736 bis, 2° comma).
Dunque, il giudice, dopo il deposito del ricorso, deve fissare l’udienza di comparizione delle parti
e il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza a cura del ricorrente.
Le parti devono comparire personalmente, e non è previsto un tentativo di conciliazione.
Il giudice avrà, quindi, pur nel rispetto del principio del contraddittorio, ampia libertà nella ricerca delle prove, che potranno riguardare non solo i redditi, ma anche il tenore di vita e il patrimonio delle parti, eventualmente con l’ausilio della polizia tributaria e richiedendo informative a soggetti privati 73. Il contraddittorio sarà invece instaurato solo successivamente nelle situazioni di urgenza. Qui, infatti, il giudice deciderà in merito all’adozione delle misura o immediatamente, al deposito dell’istanza, o assunte sommarie informazioni, fissando contestualmente l’udienza di comparizione delle parti, comunque entro un termine non superiore a quindici
giorni, e lasciando non più di otto giorni alla vittima per la notificazione del ricorso e del decreto all’aggressore. All’udienza, poi, il giudice confermerà, modificherà o revocherà gli ordini (art.
736 bis, 3° comma, c.p.c.).
Ma quali sono le situazioni di urgenza che giustificheranno l’emissione di un provvedimento
inaudita altera parte?
Si tratterà di quelle situazioni di notevole gravità degli abusi, oppure quelle situazioni in cui la
notifica del ricorso, non accompagnata dall’esecuzione degli ordini di protezione, possa determinare una violenta reazione del responsabile. La misura sarà adottabile a prescindere da ogni
valutazione che non sia meramente formale (salvo il caso di adozione informale di sommarie
73
Questa discrezionalità è espressiva del privilegio che il legislatore ha accordato alla funzionalità della misura rispetto alle
esigenze di tutela dei soggetti passivi, a discapito di un rigore garantistico che, forse, le limitazioni anche consistenti alla libertà personale derivanti dallo di protezione, di fatto, reclamerebbero.
74
FOCUS informazioni, attraverso un colloquio anche telefonico con la vittima, i servizi sociali o altre
persone), in attesa dell’udienza, la cui mancata celebrazione nei termini provocherà l’immediata perdita di efficacia delle misure già adottate: soluzione che è frutto di un bilanciamento tra le
esigenze di tutela della vittima e l’assenza di contraddittorio in relazione a provvedimenti che
presentano un alto grado di incidenza sulla libertà personale. Tuttavia va rilevato che una parte
della dottrina ritiene che il termine di notificazione del ricorso e del decreto non sia perentorio.
A proposito, invece, dei tipi di misure adottabili inaudita altera parte, vediamo che non tutte le
misure adottabili nel rispetto del contraddittorio “ordinario” sono adottabili anche inaudita altera parte. Infatti, le misure di carattere patrimoniale richiedono un’attenta valutazione delle
condizioni economiche del responsabile incompatibile con la celerità del procedimento, mentre l’intervento di enti quali i servizi sociali non può essere organizzato in tempi così brevi.
In caso di rigetto l’istanza sarà, tuttavia, liberamente riproponibile poiché il provvedimento negativo non ha alcuna portata preclusiva. È possibile, poi, la richiesta di ampliamento del contenuto di un ordine di protezione precedentemente ottenuto o la modifica dell’ordine di pagamento a causa del sopravvenuto mutamento economico delle condizioni dell’obbligato.
Infine l’ordine di protezione può essere revocato dal giudice che lo ha emesso nel caso di riconciliazione delle parti previo ovviamente l’accertamento da parte del giudice della reale riconciliazione e del fatto che la stessa sia frutto di libera scelta della vittima 74.
74
A tal fine va ricordato che la Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sent. 15 settembre 2011 nella causa C-433/09 e
C-1/10 a proposito della misura penale dell’allontanamento ha precisato che è legittima la misura dell’allontanamento disposta contro gli autori di violenze familiari anche quando le vittime ne contestino l’applicazione e che se una volta disposto
l’allontanamento l’indagato riprende la coabitazione con il consenso della vittima è possibile, a fronte della violazione della misura, disporne con altra più restrittiva della libertà personale ex art. 276 c.p.p. senza che alcun rilievo possa avere il consenso
prestato dalla vittima alla ripresa della convivenza. E ciò trova spiegazione proprio nella circostanza che nell’ambito penalistico
vi è un interesse pubblicistico che va ben oltre l’interesse della vittima. La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. III,
9 settembre 2009, n. 33401/2002 ha segnalato la necessaria dimensione pubblica della violenza domestica con la conseguente
necessità da parte delle autorità statali di interferire nella vita privata per difendere i diritti delle vittime di violenza nelle relazioni familiari. In ogni caso va ricordato che in tutti i sistemi di civiltà evoluta, lo Stato può verificare, in modo intrusivo, le realtà di “disagio anomalo” della famiglia e le loro causa umane, imponendo prescrizioni ai familiari.
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 ORDINI DI PROTEZIONE E PROCEDIMENTO DI SEPARAZIONE Francesca Maria Zanasi
Avvocato del Foro di Milano
Sommario: 1. L. 4 aprile 2001, n. 154. – 1.1. Le modifiche intervenute alla l. n. 154/2001. – 1.2. Le norme. – 2.
Violenza e abuso familiare. – 3. I presupposti per l’emissione del provvedimento. – 3.1. La condotta pregiudizievole. – 3.2. Il grave pregiudizio all’integrità fisica, morale e alla libertà. – 3.3. Il requisito della gravità. – 3.4. Il nesso di
causalità. – 4. Ordine di protezione e procedimento di separazione o divorzio. – 4.1. Prima dell’udienza presidenziale. – 4.2. Dopo l’udienza presidenziale. – 4.3. Davanti al giudice istruttore. – 4.4. I coniugi separati. – 4.5. Dopo
il divorzio. – 5. Il contenuto dell’ordine di protezione. – 6. L’intervento dei servizi sociali, dei centri di mediazione
e delle case protette. – 7. Difficoltà e contestazioni nell’esecuzione. – 8. Revoca dei provvedimenti emessi.
1. L. 4 aprile 2001, n. 154 La l. n. 154/2001 si distingue per aver introdotto una doppia tipologia di misure (di contenuto
non proprio identico), che sono costituite: 1) dalla misura cautelare coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare e 2) dall’ordine di protezione civile.
La legge si compone di otto articoli. L’art. 1 ha introdotto l’ordine di protezione nel processo
penale nell’art. 282 bis c.p. ed ha accresciuto di un 2° comma l’art. 291 c.p. che estende alle varie misure cautelari le misure patrimoniali provvisorie dell’ordine di protezione penale. I restanti
articoli regolamentano invece le misure protettive in materia civile (sostanziale e processuale)
e le conseguenze penali della loro violazione. In particolare, l’art. 2 ha modificato il nostro codice civile dove, nel primo libro, che ha per oggetto le persone e la famiglia, è stato inserito il
Titolo IX-bis recante la disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi familiari.
I presupposti degli ordini protettivi civili vengono delineati dall’art. 342 bis c.c., mentre il 342
ter c.c. ne specifica il contenuto. Le disposizioni processuali sono state introdotte invece dall’art. 3 che ha inserito nel codice di procedura civile il Capo V-bis e l’art. 736 bis.
Il Legislatore ha realizzato così un sistema di protezione a doppio binario per offrire alla vittima
di violenze familiari una doppia tutela. Sia sul piano civile che su quello penale, rimettendo alla
vittima stessa la scelta degli strumenti protettivi da utilizzare. Naturalmente la vittima ricorrerà
più facilmente al giudice penale laddove l’esigenza di tutela si inserisca in un ampio quadro di
condotte delittuose configuranti i reati tipici del focolare domestico.
76
FOCUS 1.1. Le modifiche intervenute alla l. n. 154/2001 L’ordine protettivo penale non è stato mai emendato mentre due sono le modifiche apportate
dal Legislatore all’ordine di protezione civile. La prima, la più importante, è stata introdotta con
la l. 6 novembre 2003, n. 304, che nell’art. 342 bis c.c. ha abrogato la locuzione «qualora il fatto
non costituisca reato perseguibile d’ufficio», così permettendo al giudice civile di emettere il provvedimento anche in presenza di condotte integranti fattispecie di reato perseguibile d’ufficio.
La seconda è stata introdotta con la l. 23 aprile 2009, n. 38, che nell’art. 342 ter, 3° comma, c.c.,
ha sostituito le parole «sei mesi» con «un anno». L’aumento della durata dell’ordine protettivo
permette alle parti di trovare delle soluzioni più radicali alla crisi familiare, evitando la necessità
di ricorrere all’istanza di proroga del termine.
1.2. Le norme Art. 282 bis c.p. Allontanamento dalla casa familiare Con il provvedimento che dispone l’allontanamento il giudice prescrive all’imputato di lasciare
immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’atorizzazione del giudice che procede. L’eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita.
Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi
prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati
abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della
famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
Su richiesta del pubblico ministero, il giudice può altresì ingiungere il pagamento periodico di
un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta,
rimangano prive di mezzi adeguati. Il giudice determina la misura dell’assegno tenendo conto
delle circostanze e dei redditi dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento.
Può ordinare, se necessario, che l’assegno sia versato direttamente al beneficiario da parte del
datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante. L’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo.
I provvedimenti di cui ai commi 2 e 3 possono essere assunti anche successivamente al provvedimento di cui al 1° comma, sempre che questo non sia stato revocato o non abbia comunque
perduto efficacia. Essi, anche se assunti successivamente, perdono efficacia se è revocato o perde comunque efficacia il provvedimento di cui al 1° comma. Il provvedimento di cui al 3° comma, se a favore del coniuge o dei figli, perde efficacia, inoltre, qualora sopravvenga l’ordinanza
prevista dall’art. 708 c.p.c. ovvero altro provvedimento del giudice civile in ordine ai rapporti
economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
Il provvedimento di cui al 3° comma può essere modificato se mutano le condizioni dell’obbligato o del beneficiario, e viene revocato se la convivenza riprende.
Qualora si proceda per uno dei delitti previsti dagli artt. 570, 571, 600 bis, 600 ter, 600 quater,
609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies del codice penale, commesso in danno
dei prossimi congiunti o del convivente, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280.
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AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 Art. 342 bis c.c. Ordine di protezione contro gli abusi familiari Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità
fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, [qualora il fatto non
costituisca reato perseguibile d’ufficio – abrogato dalla l. n. 304/2003], su istanza di parte, può
adottare con decreto uno o più provvedimenti di cui all’art. 342 ter.
Art. 342 ter c.c. Contenuto degli ordini di protezione Con il decreto di cui all’art. 342 bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la
condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in
particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri
prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della
coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro.
Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un
centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il
sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al 1° comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di
versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto
dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
Con il medesimo decreto il giudice, nei casi di cui ai precedenti commi, stabilisce la durata
dell’ordine di protezione, che decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione dello stesso. Questa
non può essere superiore a un anno [così modificata dalla l. n. 38/2009 – antecedentemente
era di sei mesi] e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per
il tempo strettamente necessario.
Con il medesimo decreto il giudice determina le modalità di attuazione. Ove sorgano difficoltà
o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice provvede con decreto ad emanare i
provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
Art. 736 bis c.p.c. Provvedimenti di adozione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari Nei casi di cui all’art. 342 bis del codice civile, l’istanza si propone, anche dalla parte personalmente, con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante, che provvede
in camera di consiglio in composizione monarchica.
Il presidente del tribunale designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso. Il giudice,
sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore
di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare immediatamente l’ordine di protezione fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé
entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. All’udienza il giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione.
Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta il ricorso, ai sensi del
78
FOCUS 2° comma, ovvero conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione precedentemente adottato nel caso di cui al 3° comma, è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal 2°
comma dell’art. 739. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile. Del collegio non fa parte il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Per quanto non previsto dal presente articolo, si applicano al procedimento, in quanto compatibili, gli artt. 737 ss.
2. Violenza e abuso familiare I maltrattamenti endo-familiari rappresentano una forma di violenza che è stata riconosciuta come tale solo negli ultimi dieci anni, e che risente di un retaggio culturale che tendeva a minimizzarla e a giustificarla, riducendo le condotte a meri conflitti coniugali (o tra conviventi), cui non si
doveva dare troppa importanza e destinati ad essere contenuti all’interno delle mura domestiche.
La violenza in famiglia è un fenomeno che si manifesta con condotte aventi modalità ed intensità
sempre diverse, che vanno a ledere molteplici aspetti della persona umana, non solo il corpo ma
anche e, soprattutto, la mente, gli affetti, lo spirito. La difficoltà di dare una definizione della violenza in famiglia ha reso necessario individuare la traccia comune di tutte queste condotte per
giungere a qualificare il fenomeno in base alla finalità a cui gli atti sono diretti. Ovvero la sopraffazione del familiare debole attraverso strategie umilianti e dolorose – che cagionano a chi le subisce
penosissime condizioni di vita – espressione di potere e controllo volte a sottomettere la vittima.
Nel titolo dell’art. 342 bis c.c., il Legislatore è ricorso al termine di abuso familiare per chiarire
quali sono i presupposti indispensabili per richiedere al giudice civile la pronuncia di un ordine
di protezione. Ovvero, che la condotta da sanzionare si sia realizzata in ambito di rapporti di famiglia e che sia stata tale da determinare un sostanziale pregiudizio alla sfera dell’integrità psicofisica e/o alla libertà personale della vittima. Questa previsione non era naturalmente necessaria nell’impianto penale dove il delitto di per sé implica l’abuso, il sopruso e il pregiudizio della vittima. Il Legislatore ha scelto di non definire l’abuso così da includervi ogni comportamento in cui si realizza la violenza domestica. Quindi, la nozione di “abuso familiare” è certamente
più ampia rispetto a quella di “reato familiare” perché per la sua configurazione è sufficiente una
condotta anche solo idonea a cagionare un pregiudizio. In questo modo, il Legislatore ha davvero costruito un sistema di tutela molto flessibile e adattabile alle varie esigenze dei casi concreti. Salvaguardando i soggetti deboli della famiglia, da tutte le forme di prevaricazione e pregiudizio che possono presentarsi.
3. I presupposti per l’emissione del provvedimento La differenza tra l’ordine penale e quello civile è immediata. In ambito civile la vittima può ricorrere direttamente al giudice mentre in quello penale la vittima deve avere proposto denuncia/querela con o senza richiesta dell’ordine protettivo, la cui necessità, infatti, sarà prima valutata dal PM e poi dal giudice per le Indagini preliminari, deputato alla sua pubblicazione. In
ambito penale l’incolumità della persona offesa è il motore che spinge il Pubblico Ministero a
chiedere al GIP l’emissione dell’ordine di cui all’art. 282 bis c.p.p. Sul piano civile, invece, condotta, pregiudizio e nesso di causalità (la cui sussistenza è presupposto cardine), possono estrinsecarsi in vari comportamenti da valutare analiticamente e singolarmente, caso per caso.
79
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 3.1. La condotta pregiudizievole La l. n. 154/2001 non definisce né identifica il minimum di condotta in grado di determinare l’applicazione dell’ordine di protezione. La legge individua solo l’illegittimo evento dannoso (conseguenza della condotta) ovvero «il grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà
dell’altro coniuge o convivente».
Quindi, la condotta può: (a) integrare una fattispecie di reato; oppure (b) configurare un atto
che non è perseguibile penalmente ma tuttavia capace di causare un pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà personale.
Questo significa che nella nozione di condotta pregiudizievole rientrano, non solo le condotte
integranti i reati che più di frequente si realizzano in ambito familiare ma anche le vessazioni
psicologiche o addirittura le mere intimidazioni. Sul punto è interessante la definizione del
Tribunale di Bari «Le violente aggressioni verbali e minacce di arrecare mali ingiusti ledono in modo attuale e concreto l’integrità morale e la libertà del convivente e sono tali da giustificare, in mancanza di fatti integranti reati perseguibili d’ufficio, l’adozione da parte del Giudice civile dei provvedimenti ex art. 342 ter c.c.» 1.
La condotta pregiudizievole è una dizione molto ampia, all’interno della quale possono comprendersi, oltre ai delitti, una serie indefinita di comportamenti idonei ad arrecare effettivo e
serio pregiudizio all’altra persona nei suoi diritti fondamentali e della personalità.
La giurisprudenza di merito si è preoccupata di fornire una definizione della condotta pregiudizievole, concludendo (1) in via generale, che si debba trattare di reiterate azioni, ravvicinate
nel tempo e consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati dalla norma, in modo che ne sia gravemente alterato il regime di normale convivenza familiare 2; (2) senza con ciò escludere, tuttavia, la sussistenza di una condotta pregiudizievole anche nel verificarsi di un solo episodio violento, così grave, da far temere la sua reiterazione 3.
3.2. Il grave pregiudizio all’integrità fisica, morale e alla libertà Il pregiudizio all’integrità fisica e morale si verifica quando la persona è vittima di atti di violenza
fisica o verbale che incidono direttamente sul corpo o sulla sua sfera psichica. Oppure di comportamenti diretti anche verso altri soggetti, che provocano un considerevole sconvolgimento
nella vita familiare.
Nell’interpretare il concetto di evento pregiudizievole si fa riferimento alle elaborazioni formulate in sede penale, in materie di delitti contro la persona. In questo modo, il pregiudizio all’integrità fisica si realizza tutte le volte che la persona è vittima di atti di violenza, direttamente incidenti sul suo corpo (ad es. lesioni, percosse, ecc.). L’integrità morale attiene al patrimonio di
valori di cui il soggetto è titolare, coincidenti, sostanzialmente, con quelli previsti e tutelati dalla
Costituzione, oltre che dalla legge penale (ad es. lesioni all’onore, alla reputazione, alla libertà
sessuale, ecc.). La categoria include nel proprio ambito di applicazione oggettivo anche il pregiudizio all’integrità psichica (ovvero il diritto alla salute ex art. 32 Cost.) particolarmente soggetto ad essere leso nei rapporti familiari patologici. La libertà personale viene, invece, violata
in ogni caso di illecita intromissione nella sfera privata dei comportamenti e delle scelte indivi-
1
Trib. Bari 7 dicembre 2001, in Famiglia e diritto, 2002, p. 396.
Trib. Trani 12 ottobre 2001, in Famiglia e diritto, 2002, p. 395.
3
Trib. Palermo 4 giugno 2001, in Dir. famiglia, 2001, p. 1102.
2
80
FOCUS duali. E si estende a tutti quei profili che riguardano la capacità del soggetto di autodeterminarsi e che consentono al soggetto di realizzare le proprie scelte.
3.3. Il requisito della gravità L’entità del danno deve essere valutata in relazione all’essenzialità delle situazioni giuridiche
soggettive colpite. Per questa ragione, anche degli atti apparentemente non caratterizzati in sé
da una estrema gravità, possono invece assumere rilevanza nel contesto familiare.
La soglia di gravità può dirsi raggiunta quando gli episodi lesivi siano tali – per quantità e reiterazione, ma soprattutto per intensità – da alterare o stravolgere l’ordinario assetto dei rapporti
tra i componenti del nucleo familiare. Nel senso di rendere intollerabile la prosecuzione della
convivenza, se non mettendo a rischio, appunto, i beni della integrità fisica e morale o della libertà degli altri familiari.
Più nello specifico, la giurisprudenza ha precisato che «per potersi dare “grave pregiudizio all’integrità morale” di una persona, deve verificarsi un vulnus alla dignità dell’individuo di entità non
comune, vuoi per la particolare delicatezza dei profili della dignità stessa concretamente incisi, vuoi
per le modalità “forti” dell’offesa arrecata, vuoi per la ripetitività o la prolungata durata nel tempo
della sofferenza patita» 4. E ciò, prescindendo da qualsiasi indagine sulle cause di tali comportamenti e sulle rispettive colpe nella determinazione della situazione 5.
Va registrato, in ogni caso, che, a differenza della condotta (che può concretizzarsi in qualsiasi
comportamento illecito), la individuazione del pregiudizio è regolata dal principio di determinatezza, che limita a queste tre tipologie (integrità fisica, morale e libertà) la configurabilità dell’abuso familiare. Si tratta di categorie sicuramente ampie. Ed è evidente che, anche in questa occasione, il Legislatore ha scelto espressioni che consentono ampi spazi di intervento giudiziale.
La dottrina ha poi dibattuto sull’eventualità che il “grave pregiudizio” debba essersi già verificato o se sia sufficiente che appaia solo come altamente probabile. Da molti è stata ritenuta sufficiente la imminenza del pregiudizio considerando che il sistema degli ordini di protezione non
prevede la necessità della attualità del pregiudizio stesso.
3.4. Il nesso di causalità Il terzo ed ultimo presupposto è rappresentato dal nesso di causalità tra la condotta illecita e
l’evento pregiudizievole. Elemento che consente di attribuire al comportamento antigiuridico
dell’autore della violenza, il danno provocato all’integrità psicofisica e alla libertà della vittima
dell’abuso.
Quindi, nella dinamica della normativa, la condotta dell’abusante non rileva e non può rilevare
in sé, nonostante sia qualificabile come antigiuridica. La condotta potrà determinare invece l’emissione dell’ordine di protezione solo se causativa di un grave pregiudizio all’integrità fisica e
morale ovvero alla libertà della vittima.
La dottrina ha infine sottolineato che tra il comportamento e il pregiudizio deve sussistere un
rapporto di proporzionalità. Quindi, qualora il compimento di atti di lieve entità generi turbamenti sproporzionati rispetto alla condotta, il pregiudizio all’integrità o alla libertà non può attribuirsi alla responsabilità dell’autore ma piuttosto alla particolare fragilità del soggetto passivo
o a fattori esterni che ne condizionano la sua reazione.
4
5
Trib. Bari 18 luglio 2002, in Famiglia e diritto, 2002, p. 623.
Trib. Terni 26 settembre 2003, Foro it., 2005, I, p. 455.
81
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 4. Ordine di protezione e procedimento di separazione o divorzio In ambito penale l’ordine di protezione non è influenzato dai procedimenti di separazione e divorzio e potrà sempre essere chiesto (al e) dal PM a, GIP.
Fa eccezione il contributo economico di cui al 3° comma dell’art. 282 bis c.p.p. che perde efficacia
qualora sopravvenga l’ordinanza presidenziale ovvero altro provvedimento del giudice civile in
ordine ai rapporti economico-patrimoniali tra i coniugi ovvero al mantenimento dei figli.
In ambito civile, invece, i rapporti tra il procedimento di separazione o divorzio e ordini di protezione sono regolati dall’art. 8 della l. (n. 154/2001), intitolato “Ambito di applicazione”.
Duplice l’ipotesi: prima e dopo l’udienza presidenziale.
4.1. Prima dell’udienza presidenziale La domanda per l’emissione dell’ordine di protezione è ammissibile nelle more tra il deposito
del ricorso [per separazione/divorzio] e l’udienza presidenziale. L’ordine protettivo, infatti, controllerà provvisoriamente quel periodo “privo di protezioni”, nel caso in cui i coniugi non riescano a gestire pacificamente questo delicato momento. Il decreto protettivo, però, perde efficacia quando sia successivamente pronunciata l’ordinanza interinale. È evidente, che si tratta di
un’inefficacia causata dal carattere sostitutivo attribuito dalla legge al provvedimento presidenziale. E, naturalmente, durante l’udienza di comparizione dei coniugi avanti al presidente, la vittima deve espressamente domandare la conferma dell’efficacia dell’ordine già emesso. Ovvero la
traduzione dell’ordine di protezione nell’ordinanza del presidente.
Interessante un provvedimento del tribunale di Milano che, in un contesto di conflittualità accertata e di grave pregiudizio della moglie, ha allontanato il marito «atteso, inoltre, che ella appare, allo stato, il coniuge cui è ipotizzabile sarà assegnata la casa coniugale presso la quale vivrà il
figlio che nascerà a breve» 6.
4.2. Dopo l’udienza presidenziale Dopo l’udienza di comparizione dei coniugi avanti al presidente è precluso l’accoglimento del ricorso contro gli abusi familiari, anche se il presidente si è riservato. Naturalmente fino alla pubblicazione dell’ordinanza, rimane valido ed efficace l’eventuale decreto protettivo già emesso.
4.3. Davanti al giudice istruttore Dopo l’ordinanza presidenziale, i provvedimenti contro gli abusi familiari possono essere sempre assunti dal giudice istruttore su istanza di parte nel corso del giudizio. Da tenere, però, presente: (a) che il GI non provvederà con il decreto previsto nell’art. 736 bis c.p.c. ma con ordinanza modificabile e revocabile ex art. 710 c.p.c. ovvero ai sensi dell’art. 4 l. divorzio; (b) che
durante il procedimento di separazione o divorzio, gli ordini di protezione non possono essere
assunti inaudita altera parte. Lo si desume dal fatto che il richiamo dell’art. 8, 1° comma, l. n.
154/2001 prevede che possano essere adottati soltanto i contenuti dei provvedimenti previsti
dall’art. 342 ter c.c. Sul piano applicativo, è evidente che nell’ordine di protezione emesso suc-
6
Trib. Milano 28 ottobre 2008, r.g. n. 63206/2008 – inedita.
82
FOCUS cessivamente all’ordinanza presidenziale (i) non sarà possibile prevedere un assegno a carico
del datore di lavoro. Perché esiste una norma ad hoc. Ovvero l’art. 156, 6° comma, c.c. e l’art. 8
l. divorzio e (ii) non sarà ammissibile nemmeno la richiesta di allontanamento dalla casa familiare se il coniuge ne sia già assegnatario. Ovvero, sia già munito del titolo esecutivo per conseguire il medesimo fine cui è volto l’ordine di protezione invocato (allontanamento dalla casa
coniugale con eventuale ricorso alla forza pubblica, consentito sia dall’art. 613 c.p.c., sia dall’art.
342 ter c.c.).
4.4. I coniugi separati L’illecito è configurabile anche successivamente alla separazione di fatto o giudiziale.
La legge non si esprime rispetto al periodo che intercorre tra la separazione ed il divorzio. Si
tratta comunque di un momento della relazione familiare, per un verso, regolata dal provvedimento di separazione (che sia il verbale omologato o la sentenza) ma, per altro, in cui l’abuso
può caratterizzarsi significativamente ed avvenire nell’ambito di una situazione familiare. E
quindi è evidente che gli ordini di protezione si ritengono applicabili al coniuge separato.
Nella protezione del coniuge separato sono incluse anche le minacce dirette contro il nuovo
partner qualora si risolvano nella lesione mediata del coniuge separato.
4.5. Dopo il divorzio Non è, invece, possibile far ricorso all’ordine di protezione civile nel caso di abusi perpetrati da
un ex coniuge a danno dell’altro dopo che sia stata pronunciata la sentenza di divorzio, o successivamente alla dichiarazione di nullità del matrimonio.
La lettera dell’art. 342 bis c.c. non lascia, infatti, spazio ad una diversa interpretazione. Allo stesso modo, l’art. 5 della l. n. 154/2001, che fa riferimento al «nucleo familiare», non permette di
includere l’ex coniuge, che si trova al di fuori di esso, a meno che non sia stata ripresa una relazione tra gli ex coniugi, che viene a quel punto qualificata come more uxorio e, come tale, consente l’applicabilità degli ordini di protezione.
5. Il contenuto dell’ordine di protezione Gli strumenti di tutela civile possono essere classificati in vari modi. Principalmente si dividono
in due gruppi: (I) da una parte, c’è l’ordine di cessazione della condotta pregiudizievole, che costituisce il nucleo essenziale dei mezzi di tutela e che, quindi, deve essere sempre pronunciato;
(II) dall’altra, ci sono le misure di carattere esclusivamente sussidiario ed eventuale (l’allontanamento dalla casa familiare; il divieto di frequentazione dei luoghi; l’ordine di pagamento; l’ordine di versamento diretto da parte del datore di lavoro).
In relazione al loro contenuto, tutti gli ordini di protezione si distinguono in due tipologie: (1)
quelli aventi carattere personale, relativi ai rapporti tra i familiari e (2) quelli aventi natura patrimoniale.
Esistono poi due principi che regolano i rapporti tra le diverse misure di protezione.
Il primo è la reciproca autonomia delle stesse, che rende flessibili le varie forme di tutela. Autonomia desumibile, peraltro, dall’art. 342 bis c.c. che fa espresso riferimento a «uno o più» provvedimenti, tra i quali, naturalmente, dovrà necessariamente rientrare la misura principale del83
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 l’ordine di cessazione della condotta, alla quale si possono affiancare le altre misure che si rivelino utili per la concreta protezione della vittima.
Il secondo principio è la loro adeguatezza rispetto agli effetti auspicati.
Linee guida che realizzano un sistema fondato sulla gradualità delle misure di protezione che il
giudice dovrà rispettare nella scelta della misura da applicare.
In ambito penale il contenuto dell’ordine protettivo è molto simile. Manca l’ordine di cessazione della condotta che si ritiene tuttavia implicito nel provvedimento assunto.
6. L’intervento dei servizi sociali, dei centri di mediazione e delle case protette L’art. 342 ter c.c. permette al giudice di disporre: (1) l’intervento dei Servizi Sociali o (2) di un
centro di mediazione familiare, nonché (3) delle associazioni di accoglienza di donne e minori
o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti.
Questa iniziativa non è stata estesa all’ambito penale.
Nella prospettiva dell’esaurimento degli effetti dell’ordine di protezione, queste previsioni sono finalizzate sia al sostegno delle parti durante l’attuazione della misura protettiva, che al recupero dei rapporti familiari o al definitivo allontanamento.
L’intervento dei Servizi Sociali è più frequentemente utilizzato nei casi sottoposti all’attenzione
del giudice minorile, ma il Legislatore del 2001 ha condivisibilmente ritenuto utile l’espresso
richiamo del ricorso alle strutture territoriali che in molti casi sono già a conoscenza della difficoltà dell’utente. Spesso, infatti, il coniuge debole si è già rivolto alla struttura pubblica per avere un sostegno psicoterapico e/o per conoscere i propri diritti.
Il servizio pubblico è utile al giudice: (a) che procede nel modo che ritiene più opportuno agli
atti di istruzione necessari assumendo, ove occorra, nei casi di urgenza, sommarie informazioni
sulla situazione della famiglia direttamente dagli operatori sociali così da comprenderne le effettive dinamiche e necessità protettive; (b) per garantire al genitore allontanato la continuità
della funzione genitoriale e la frequentazione dei figli minori (laddove naturalmente non sussista rischio di pregiudizio).
Sulle case protette ci basti che svolgono ancora un ruolo fondamentale ed attualissimo. Anche
perché la solitudine nella casa familiare può costituire fonte di disagio nella fase post-traumatica della vittima. Peraltro, nel disporre il provvedimento, il giudice dovrà innanzitutto tenere
presente l’eventuale sussistenza di un rapporto positivo già stabilito personalmente dalla vittima con una determinata associazione.
L’intervento del Centro di mediazione familiare ha invece uno scopo diverso, ovvero quello di
verificare la disponibilità delle Parti al raggiungimento di un accordo globale che renda il meno
doloroso possibile lo “scioglimento” del nucleo.
Si ritiene di fondamentale importanza che l’ordine del giudice indichi espressamente la persona responsabile dell’attività di ascolto, assistenza o di mediazione poiché la personalizzazione
del sostegno alla famiglia contribuisce ad evitare il verificarsi di inefficienze.
7. Difficoltà e contestazioni nell’esecuzione Nell’ambito delle modalità attuative, l’ultimo comma dell’art. 342 ter c.c. precisa che il giudice
può prevedere l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario laddove ritenga possano insorgere difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione dell’ordine di protezione.
84
FOCUS In realtà, il tenore letterale del disposto codicistico lascia immaginare un intervento del giudice
anche successivo all’inosservanza del provvedimento da parte dell’allontanato. La giurisprudenza,
tuttavia, ha interpretato la norma nel senso di prevedere direttamente e anticipatamente l’eventuale intervento della forza pubblica e/o dell’ufficiale sanitario per non mettere a repentaglio la
tutela della vittima nelle more dell’integrazione del provvedimento. Anche in questo caso è importante che l’ordine del giudice indichi espressamente la forza pubblica territoriale (cfr. tra le
tante, Trib. Milano 4 dicembre 2008, r.g. n. 74996/2008 – inedita – «ordina che al presente
decreto venga data esecuzione, anche con l’ausilio della forza pubblica, individuata sin d’ora nei
carabinieri di ..., competente per territorio»). Ma è evidente che laddove non sia possibile, non
è esclusa una integrazione successiva. Ugualmente utile, non solo per l’emissione del decreto
protettivo ma anche eventualmente ai fini dell’addebito, la richiesta di autorizzazione di parte
ricorrente alla acquisizione delle relazioni di intervento della forza pubblica altrimenti difficilmente ottenibili (ad esempio Trib. Milano 24 aprile 2009, r.g. n. 72436/2009 – inedita – «autorizza ... ad acquisire dai Carabinieri che sono intervenuti nella casa coniugale in data ... relazione
di servizio dell’intervento effettuato ...»).
8. Revoca dei provvedimenti emessi Gli ordini di protezione mirano (a) a tutelare la vittima dai soprusi e, se possibile, (b) a ricostituire l’armonia nelle relazioni familiari anche con la collaborazione di soggetti esterni, quali i
Servizi sociali, i centri di mediazione o, più in generale gli enti di assistenza istituzionalmente
preposti alla protezione della famiglia. È quindi naturale che un’eventuale riconciliazione tra
vittima e aggressore potrebbe determinare il venir meno dei presupposti che hanno portato alla
pronuncia degli ordini di protezione.
Sul piano operativo è interessante la previsione dell’art. 282 bis, 5 °comma, c.p.p. che esclude la
rinuncia alle misure di tutela sulla base della semplice volontà del soggetto a favore del quale gli
ordini sono stati disposti. Nel procedimento civile questa previsione non esiste. Si tratta, infatti, di provvedimenti giudiziali che, in quanto relativi a diritti indisponibili, possono essere revocati solo dal giudice penale, il quale, prima di assumere qualsiasi decisione, è tenuto ad accertare che la riconciliazione sia realmente il frutto di una libera scelta della vittima. Ovvero che la
revoca del provvedimento non comporti pericoli per la integrità psicofisica della vittima stessa.
Questa flessibilità consente di adattare le misure alla realtà della crisi familiare, differenziando
la tutela giudiziale in funzione delle sue varie fasi.
85
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 ABUSI E VIOLENZE NELLE RELAZIONI INTERETNICHE: MULTICULTURALITÀ E DIRITTO PENALE Lorenzo Miazzi
Magistrato della Corte d’Appello di Venezia
Sommario: 1. L’intervento penale nel contesto delle famiglie straniere. – 2. Il reato di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina. – 3. Povertà, marginalità, elemosina: maltrattamenti nei confronti dei minori? – 4. I maltrattamenti violenti in famiglia. – 5. La violenza sessuale intrafamiliare.
1. L’intervento penale nel contesto delle famiglie straniere La trasformazione, irreversibile, dell’Italia in una società multiculturale non avviene facendo
perno sul mondo del lavoro, che è centrale solo per l’occasione dell’ingresso dei migranti, e nel
quale l’impiego di stranieri è ancora limitato soprattutto ad alcuni settori e le seconde generazioni non hanno ancora promosso la mescolanza in ogni ambiente che si ritrova nelle società
più mature sotto questo aspetto. Il tema della multiculturalità è invece emerso sinora prepotentemente nel campo scolastico – in relazione al quale è sorta una riflessione teorica e pratica
davvero importante sull’intercultura – e, necessariamente, imprescindibilmente attorno al ruolo della famiglia. E non potevano esserci dubbi, dato il ruolo cruciale che la famiglia svolge in
ogni società, per cui i problemi che sorgono al suo interno e nelle relazioni interetniche familiari
si trovano in maggiore evidenza.
La famiglia è contemporaneamente il principale motore dell’integrazione e della convivenza,
ma anche il luogo nel quale il conflitto (fra identità e differenze, fra tutela delle minoranze e tutela dei diritti individuali ...) si fa più aspro, e più laboriosa è la mediazione: perché in relazione
ai bambini e alla famiglia «le parti, sia private, sia pubbliche, sono spinte a difendere in modo ‘integralistico’ i propri valori, poiché è in gioco la loro identità culturale» 1.
Spesso il “conflitto” fra norme culturali assume rilevanza giudiziaria, civile o penale; l’intervento giudiziario relativo a famiglie straniere però è problematico anche perché il giudice deve utilizzare norme vecchie, inadeguate, in buona parte inservibili. Gli strumenti normativi e giurisprudenziali con i quali l’Autorità Giudiziaria affronta le questioni civili e penali che riguardano
i minori e le famiglie straniere, infatti, sono quelli pensati e da sempre applicati nella realtà nazio-
1
F. BELVISI, Società multiculturale, costituzione e diritto: verso un nuovo paradigma giudiziale, ricerca Murst 1997, reperibile
al sito http://www.cirfid.unibo.it/murst40-97/40-97/SezioneII/ParteII/2.2/Belvisi2_new.doc, n. 13, p. 4.
86
FOCUS nale. O meglio, alla società italiana esistente o riconosciuta nel momento in cui il legislatore disponeva le strutture e gli strumenti d’intervento: quindi sostanzialmente, per quello che riguarda il diritto civile, alla situazione italiana degli anni ’70; per il diritto penale, l’impianto risale addirittura agli anni ’30 e poche sono state le riforme strutturali.
Ma nel frattempo la famiglia e la società sono molto cambiate e l’immigrazione ha introdotto o
proposto modelli e relazioni familiari sconosciuti, come la famiglia “allargata”, il gruppo o clan,
la poligamia, la kafala, cure genitoriali e rapporti fra parenti molto diversi ...; ma anche il ritorno
a schemi familiari, incentrati sulla potestà del padre, che caratterizzavano la società italiana
prima del 1975.
Ancora più delicato diventa il problema quando si tratti di applicare alle condotte familiari degli stranieri le norme penali: «l’immigrato, nel Paese d’arrivo, trova regole di condotta e, in particolare, norme penali, diverse da quelle presenti nel suo Paese d’origine, e tale diversità è dovuta, almeno
in alcuni casi, alla diversità di cultura. Tale diversità potrebbe, quindi, indurlo a commettere un fatto
previsto come reato nel Paese d’arrivo, ma che risulta, invece, conforme, o per lo meno tollerato, nella
sua cultura d’origine» 2. Sono questi i reati culturalmente motivati, che molto spesso sono riconducibili proprio a violenze in famiglia.
Nel considerare leciti o meno i comportamenti familiari di coloro che, nel determinarsi a quel
comportamento, si erano ispirati o conformati a principi culturali, religiosi e giuridici diversi, si
corre il rischio da un lato «di ritenere punibili, e gravemente punibili, atti ispirati in realtà a tradizioni risalenti o ai valori del gruppo straniero di appartenenza, senza che l’interessato colga il disvalore del gesto. O al contrario ... di arrivare a considerare leciti atti vietati sia giuridicamente che socialmente dalla nostra società omettendo altresì di proteggere i soggetti deboli delle popolazioni immigrate» 3.
Le condotte prese in esame riguardano principalmente l’impiego dei figli minori nell’accattonaggio o nella commissione di furti, oltre che le violenze “domestiche” variamente qualificate
come titolo di reato, ma interessano tutti i reati contro la persona.
2. Il reato di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina Per quanto riguarda il reato di cui all’art. 571 c.p. l’evoluzione della giurisprudenza in relazione
al concetto stesso di correzione 4 toglie certamente gran parte di rilevanza alla specificità delle
condotte dei genitori stranieri: la correzione violenta, o altri tipi di metodi correttivi in contrasto con i principi dell’ordinamento italiano, anche se praticati nella popolazione di provenienza
dei genitori, devono essere censurati traendone le conseguenze anche sul piano civile. Significativa la vicenda di un padre della Costa d’Avorio che come mezzo di punizione (oltre all’abituale uso delle percosse considerate indispensabili) utilizzava spesso una polvere urticante capace di irritare la parte e di provocare dolore o bruciore. Il padre viene denunciato per abuso di
mezzi di correzione nei confronti delle figli minori e contestualmente il Tribunale per i minorenni interviene allontanando le minori dalla famiglia 5.
2
F. BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati, Giuffrè, Milano, 2010, p. 1.
L. MIAZZI, Famiglie straniere e giudici nella società multiculturale, in Minorigiustizia, 2006, n. 1, pp. 12-31.
4
Per cui esso deve essere correlato sino quasi ad identificarsi con quello di educazione e dunque escludendo che possa essere consentito oggi nel nostro paese una educazione fondata su metodi violenti: Cass. 18 marzo 1996, Cambria, in Cass.
pen., 1997, p. 29.
5
Trib. min. Torino, decreto 13 agosto 1999, in Dir., imm. e citt., 2, 2000, p. 144. Interessante rilevare come una delle bambine ricorda l’Africa come un posto cattivo dove adulti e bambini picchiano, idealizzando per contro la realtà italiana.
3
87
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 Egualmente decide il Tribunale per i minorenni di fronte ad un padre che picchia ripetutamente la figlia «quando la vede in compagnia di ragazzi italiani, perché egli vuole che sposi un connazionale ovvero un musulmano». La condotta del padre viene riconosciuta gravemente pregiudizievole «secondo principi propri della nostra cultura e quindi del nostro diritto di famiglia» 6.
Nel caso di una cittadina nigeriana, la cui figlia oltre ad essere stata aggredita verbalmente dalla
madre, presentava segni di percosse alle gambe e ferite sul cuoio capelluto, provocate verosimilmente dal taglio indiscriminato di capelli con forbici da cucina, la madre sosteneva essersi
trattato di un fatto meramente occasionale, e come tale fatto andasse riportato nella giusta dimensione di un incidente di percorso nel naturale rapporto genitore e figlia, che aveva visto la
sua genesi nell’esigenza della madre di tagliare personalmente i capelli alla figlia e di usare la maniera forte per fronteggiare l’isterico e ingiustificato rifiuto della piccola; i giudici del merito, lamentava l’imputata, avevano inoltre omesso di valutare il contesto culturale di provenienza dell’imputata, proveniente da un paese, come la Nigeria, con regole educative del tutto diverse
dalle nostre. La Suprema Corte, ribadendo che «integra la fattispecie criminosa de qua l’uso in
funzione educativa del mezzo astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che
trasmodi nell’abuso sia in ragione dell’arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell’eccesso nella misura» evidenziava come la condotta ascritta all’imputata non poteva
essere scriminata dall’esigenza di tosare la figlia recalcitrante, essendo risultato che all’isterica
opposizione della bambina aveva fatto riscontro altrettanta isterica reazione della madre, che
«indipendentemente dal luogo di provenienza e dall’ambito culturale della genitrice, aveva inteso
proseguire nelle sue operazioni particolarmente pericolose, proprio per affermare la propria autorità
sulla piccola, abusando dei mezzi di correzione e disciplina» 7.
La giurisprudenza si è poi più volte espressa sulla differenza fra il reato in esame e quello di maltrattamenti, affermando che sussiste tale ultimo reato anche quando gli atti violenti possano
ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale
di cui l’agente è portatore. In un caso in cui il ricorrente sosteneva che la sua condotta, pur
estrinsecatasi in reiterati atti di violenza fisica e morale nei confronti del minore, aveva comunque finalità correttivo – educative (con conseguente riconducibilità del fatto, al più, alla fattispecie di cui all’art. 571 c.p.), in relazione anche alle consuetudini del Paese di provenienza
(Marocco), la Suprema Corte affermava che «il primato che il nostro ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione» costituisce uno dei «valori fondamentali dell’ordinamento
(consacrati nei principi di cui agli artt. 2, 3, 30 e 32 Cost.), che fanno parte del visibile e consolidato
patrimonio etico – culturale della nazione e del contesto sovranazionale in cui la stessa è inserita e,
come tali, non sono suscettibili di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto, da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla legge penale italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile» 8.
6
Trib. min. Torino, decreto 4 dicembre 1996, in Dir., imm. e citt., 2, 2000, p. 136. Il padre dichiara nell’audizione: «io sono
musulmano, rispetto le leggi ... lei non capisce quanto sia importante per me la nostra tradizione: so che mi vuole bene, ma non riesco a farmi rispettare».
7
Cass., Sez. VI pen., 21 dicembre 2010-22 marzo 2011, n. 11251.
8
Cass., Sez. VI pen., 7 ottobre 2009, n. 48272, dep. 17 dicembre 2009.
88
FOCUS 3. Povertà, marginalità, elemosina: maltrattamenti nei confronti dei minori? Si tratta certo del reato più significativo, sia per l’evoluzione che esso ha avuto nella società italiana da quando venne introdotto nel 1933, sia nello specifico del confronto con le culture dei
migranti. Non vi norma penale più indeterminata, e più soggetta ad essere riempita con un contenuto culturale, di quella che punisce «chiunque ... maltratta una persona della famiglia, o un
minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità», laddove lo stesso dizionario non va oltre la definizione del maltrattare come il «trattare male con parole o con atti».
Cosa significa allora trattare male? Si è partiti da «una visione angusta del concetto di “maltrattamenti”, ancorata ad un’unica esperienza del passato: quella di un componente della famiglia (ma
potremmo anche dire tranquillamente: dell’uomo), che abitualmente percuote e prevarica gli altri
membri della famiglia (e cioè moglie e/o i figli) con espressioni minacciose ed ingiuriose»; si è arrivati a considerare maltrattamenti le azioni od omissioni rivolte alla persona offesa «in modo tale da
lederne la personalità» (Cass., Sez. VI, ud. 27 ottobre 1997, n. 1146): così da potersi affermare
«che l’interesse protetto dalla norma non è tanto la integrità fisica o quella morale in quanto tali, essendo tali beni tutelati direttamente da altre norme, ma essenzialmente quella complessa ed articolata galassia, che è la personalità o dignità del soggetto debole del rapporto familiare» 9.
Rispetto a questo reato, nel confrontarsi con la società multiculturale sin dall’inizio i giudici
sono sembrati essere in bilico fra una concezione “oggettiva” del reato, che privilegi gli aspetti
di fatto del comportamento, e una considerazione più ampia della relazione familiare che inquadri in modo “soggettivo” il comportamento. Così, per il pretore di Torino «integra l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p. l’impiego abituale di figli minori nell’accattonaggio, dovendosi equiparare tale comportamento ad una ipotesi di maltrattamenti s’intesa come aggressione
al bene della dignità delle persone» 10. Di diverso avviso sullo stesso caso è la Corte d’Appello che
assolve i genitori, con sentenza confermata dalla Suprema Corte; mentre per il pretore la consapevolezza nei bambini «del cattivo trattamento riservato loro dai genitori è del tutto irrilevante», per i giudici di legittimità è essenziale nel delitto di maltrattamenti «il recepimento in chi lo
subisce di un attacco al patrimonio morale, culturale del soggetto passivo (che determini) uno stato
di sofferenza conseguente appunto ad umiliazioni, patimenti, afflizioni e disprezzo» 11; uno stato
che doveva essere escluso nei minori i quali, dalle foto scattate dalla polizia giudiziaria, sembravano trarre motivi «se non di allegria, di distensione» da quella loro attività.
Questo orientamento sembra essere condiviso da altre pronunce per le quali «il semplice fatto
di essere portato gli incroci cittadini a chiedere l’elemosina alle auto che passano» non è prova sufficiente che il bambino si trovi in quello stato di sofferenza necessario per poter ravvisare il reato
di maltrattamenti «qualora ciò avvenga in un contesto di armonia ed affetto familiare» 12. Ma la
stessa Suprema Corte ha poi dato una nuova impostazione al problema, imponendo al giudice
di merito di indagare «fino a che punto l’asserita mancanza di prove di uno stato di umiliazione di
patimenti non rappresenti piuttosto l’ennesimo riscontro alle devastanti conseguenze sullo sviluppo
9
Il testo virgolettato è tratto da P.L. ZANCHETTA, Fazzoletti, spugnette, accendini e minori stranieri, in Dir., imm. e citt., 2,
2007, pp. 105-109.
10
Pret. Torino 4 novembre 1991, in Cass. pen., 1992, p. 1647; per il Pretore «l’impiego abituale dei figli minori nell’accattonaggio ben può dar luogo ad un regime di vita lesivo della dignità personale dei minori stessi, indotti ad acquisire abitudini ed atteggiamenti di servilismo, di piaggeria, di falsità, di auto o commiserazione, che sono frontalmente contrari alla dignità della persona»
e si traduce poi in una sostanziale strumentalizzazione dei figli stessi a scopi di guadagno economico dei coniugi. Conforme
molti anni dopo su caso analogo Trib. Torino 21 ottobre 2002, in Questione Giustizia, 2003, p. 666.
11
Cass. pen., Sez. VI, 7 ottobre 1992, Husejinovic, in Giur. it., 1993, II, c. 582.
12
Trib. riesame Torino, ord. 3 novembre 1998, in Minorigiustizia, 2, 1998, p. 166.
89
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 stesso di un’armonica personalità della vittima, per effetto del protratto “disinteresse” (interessato?)
da parte dei genitori alla salvaguardia dell’integrità della persona umana» 13.
Si giunge così ad una importante pronuncia della Cassazione 14, che prosegue su questa linea
evolutiva della giurisprudenza di legittimità. Il caso riguarda un dodicenne marocchino, convivente in Italia con uno zio, cui era stato affidato, minore che trascorreva le sue giornate vendendo piccoli oggetti per le strade (un’attività identificabile con l’accattonaggio) in luogo di
frequentare la scuola; è bene sottolineare come tale attività avvenisse senza che vi fosse costrizione o, per quanto dato conoscere, anche solo induzione da parte dell’adulto e non risultava
nemmeno che fosse esercitata a profitto di quest’ultimo. Diversi sono i passaggi essenziali della
motivazione della sent. n. 3419/2007 «In primo luogo, oltre all’integrità fisica e psichica, si ritiene
sanzionata dal disposto normativo l’aggressione ai “valori di decoro, di libertà morale”: costituisce
così reato il consentire, da parte dell’affidatario, che un minore trascorra la giornata nella vendita
ambulante di piccoli oggetti, essendo così “sottratto agli interessi propri della sua età”, mentre avrebbe diritto “di affrontare le tappe della sua crescita, con il supporto del soggetto affidatario, in modo
equilibrato e sano”, e venendo in tal modo violato “l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua
personalità”». Da quanto appena detto, si conferma, in secondo luogo, come possano costituire
reato anche i comportamenti omissivi, quali «la condotta della persona che costantemente si disinteressi del minore affidato alle sue cure e alla sua vigilanza». Si affronta, in terzo luogo, l’importante tema del possibile confronto/scontro tra opzioni culturali ed ordinamenti diversi: quelli
propri dell’imputato e della persona offesa (provenienti entrambi dal Marocco) e quelli italiani;
se contrasto esiste, esso trova una soluzione nell’affermazione e nel prevalere dei principi proclamati dalla nostra carta costituzionale, in particolare dei diritti fondamentali da essa tutelati:
si richiamano così gli artt. 2, 29 e 31 Cost. Da ultimo, la sentenza stabilisce che i fatti non rientrano nell’ipotesi di violazione del reato previsto dall’art. 671 c.p., «considerato che l’accattonaggio del piccolo Yassine è l’espressione di una più complessa condizione di vita riservata nel medesimo ...
», mentre l’ipotesi contravvenzionale «rappresenta un minus rispetto a quella di cui all’art. 572
cp, che può eventualmente con essa concorrere» 15.
In sostanza, la sent. n. 3419/2007 richiama ancora il concetto di sofferenza, ma tale elemento
viene ritenuto eventuale e superfluo per valutare la sussistenza del reato in questione: dunque,
secondo questo orientamento, in particolare quando persone offese sono i minori occorre considerare il fatto nella sua oggettività 16.
Ritornano sotto diverso profilo sul problema della sussistenza o meno del reato di maltrattamenti alcune sentenze del Giudice dell’udienza preliminare di Palermo 17 relative a bambini
bengalesi trovati a vendere fiori di sera nei ristoranti di Palermo. Le sentenza permettono di riconsiderare le condotte dei genitori di famiglie straniere che, in condizioni di povertà e margi-
13
Cass. pen. , Sez. VI, 26 giugno 2002, n. 920, in Minorigiustizia, 1, 2002, p. 281.
Cass. pen., Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 3419/2007, in Dir., imm. e citt., 2, 2007, p. 179.
15
P.L. ZANCHETTA, op. cit., p. 105.
16
«Ciò è decisivo nel caso dei minori maghrebini, i quali, ben conoscendo gli impegni assunti dai genitori, “responsabilmente” si adattano, accettano, la loro condizione di vittime, come passaggio obbligato per una vita migliore. Si perpetua così un complesso sistema di
sfruttamento, che ha come ultima vittima il minore, immesso in un ingranaggio, che molto spesso lo porta ad un destino diverso da quello
sperato: il mantenimento di uno stato di marginalità o, peggio, il passaggio dal mondo marginale a quello delinquenziale. E quando si
raggiunge l’obiettivo, il prezzo è troppo alto: nell’immediato una vita faticosa, carica di stress mentale per il senso di abbandono e il sovraccarico di doveri; nel futuro il carattere è segnato dall’eredità morale di quegli anni, come, tra i tanti lasciti, il senso di frustrazione per
il confronto tra la propria vita da giovanissimo e quella dei coetanei “più fortunati”»: così P.L. ZANCHETTA, op. cit., p. 106.
17
Pubblicate sul n. 1, 2008 di Dir., imm. e citt., a p. 203 (sent. 8 maggio 2007) e p. 205 (sent. 7 novembre 2007).
14
90
FOCUS nalità, utilizzano i loro figli, o consentono che altri li sfruttino, per attività certo non adatte alla
loro età, quando non direttamente illecite.
Mentre il pubblico ministero ipotizzava la riduzione in schiavitù, il GIP ritiene insussistenti gli
elementi a sostegno anche dell’ipotesi di reato meno grave prevista dall’art. 572 c.p.
Ed infatti, nel caso del minore A.R., gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria si limitavano
ad un unico controllo su strada da cui era emerso che il bambino, dell’età di dieci anni, alle ore
22,00 circa era intento a vendere fiori nei pressi di un ristorante del centro cittadino. Il GUP ha
pertanto messo in risalto che le altre verifiche sulle condizioni di vita del minore non consentivano di ritenere abituale lo svolgimento di attività lavorativa in ore serali da parte dello stesso.
Ciò perché, nell’assenza di altri controlli sul medesimo minore da parte della PG, le altre persone in grado di riferire elementi circa attività di abuso o sfruttamento del bambino avevano
delineato una situazione di benessere psicofisico ed un rendimento scolastico di A.R. in linea
con quello dei suoi coetanei, anche provenienti da famiglie di fasce sociali più agiate.
A conclusioni analoghe è giunto il GUP nell’altro caso del minore M.R., undicenne al momento del controllo della Squadra Mobile. Il giudice ha motivato il non luogo a procedere, rilevando che la persona offesa non aveva subito alcuna costrizione da parte dei genitori a vendere fiori per strada, attività svolta peraltro in modo sporadico ed in modo da non impedire lo svolgimento della sua esperienza scolastica o da condizionarne il rendimento, e che nemmeno erano
risultate altre limitazioni indebite o violente della personalità del bambino.
4. I maltrattamenti violenti in famiglia Quando invece all’interno del nucleo familiare il rapporto sia improntato a “vessazioni, minacce e violenze” nei confronti della moglie (ma anche ovviamente dei figli), la giurisprudenza è
portata ravvisare il reato di maltrattamenti.
In un primo caso, un cittadino algerino di fede islamica, era accusato di aver sottoposto ripetutamente la moglie (cittadina italiana) e i due figli a violenze, minacce e percosse, rivolte ad imporre loro il rispetto delle regole religiose mussulmane, giungendo a puntare un coltello alla gola della figlia minorenne per indurla a rispettare il digiuno del Ramadan e a portare lo chador a
scuola. Il giudice, ritenuto sussistente l’elemento materiale del reato, affronta il problema
dell’elemento psicologico, rilevando che «può diventare estremamente difficile per il Giudice
l’indagine in ordine all’elemento psicologico di un reato come quello di maltrattamenti, alcune condotte materiali realizzatrici del quale possono essere state poste in essere allo scopo, ritenuto non solo
legittimo ma addirittura dovuto dall’autore, di adattare i comportamenti dei familiari (...) alla regola coranica e ciò al fine (soggettivamente inteso come benevolo) di procurare la salvezza». Il giudice
però rileva anche egli era da molti anni in Europa occidentale (aveva compiuto gli studi a Parigi
prima di trasferirsi in Italia), per cui era indubbiamente «in condizioni di percepire, comprendere
ed esattamente valutare, proprio perché nella sua esperienza di vita e nel suo bagaglio culturale erano
entrati e si erano sedimentati anche i valori e le regole della società occidentale (...), che le imposizioni
poste in essere, da un certo momento, nei confronti dei familiari, le condotte prevaricatrici, le umiliazioni (...) non potevano che avere, così come è poi accaduto, un effetto devastante per il riscontro di
sofferenza che ne è derivato». Riteneva perciò sussistente anche il dolo del reato di maltrattamenti e lo condannava 18.
18
Trib. Arezzo 27 novembre 1997, in Quaderni dir. pol. eccl., 1999, p. 848.
91
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 La Suprema Corte confermava più volte questo orientamento, affermando che «l’elemento soggettivo del reato non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi perciò, particolari potestà sul proprio nucleo familiare» 19. La Cassazione giudicava anche
irrilevante «l’esistenza, nel proprio paese di origine (nella specie tanto l’imputato quanto le vittime
erano di nazionalità albanese), di una concezione della convivenza familiare e dei poteri del capofamiglia secondo cui comportamenti come quelli inquadrabili, secondo l’ordinamento italiano, nella
suddetta figura di reato sarebbero invece accettati come normali» 20. In quest’ultimo caso, affermava che la richiesta difensiva di poter configurare una sorta di consenso dell’avente diritto rilevante ex art. 50 c.p., (giacché, in sostanza, i familiari possono validamente disporre della gerarchia e delle abitudini di vita interne al loro nucleo, senza interferenze esterne) si pone in assoluto contrasto con le norme che stanno a base dell’ordinamento giuridico italiano. I principi costituzionali che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo, la pari dignità sociale e l’eguaglianza
senza distinzione di sesso, nonché i diritti della famiglia e i doveri verso i figli, infatti, «costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto e di fatto nella società civile di
consuetudini, prassi, costumi che suonano come “barbari” a fronte dei risultati ottenuti nel corso dei
secoli per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona».
Anni dopo questa sentenza veniva ripresa (soltanto sostituendo l’aggettivo “barbari” con quello di “antistorici”), per confermare la condanna di un immigrato marocchino accusato di maltrattamenti nei confronti della moglie 21, ribadendo che le pretese di «particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare» che il reo rivendichi in quanto di religione musulmana «si pongono in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento
giuridico italiano e della regolamentazione concreta nei rapporti interpersonali».
In una più recente sentenza, affrontando un caso in cui un immigrato di origine marocchina ricorreva avverso la condanna per il delitto di maltrattamenti ai danni della moglie, anch’essa
marocchina (per averla sottoposta a reiterate ingiurie, percosse, minacce (anche di morte) ed
altri atteggiamenti violenti, culminati, in un’occasione, con la ‘cacciata da casa’ della moglie e,
in un’altra occasione, con l’uso di un coltello per procurarle lievi ferite), confermava la condanna, affermando l’importante principio secondo cui, in mancanza di un’esplicita deroga legislativa, «le tradizioni etico-sociali di coloro che sono presenti nel territorio dello Stato, di natura essenzialmente consuetudinaria benché nel complesso di indiscusso valore culturale, possono essere praticate solo fuori dall’ambito di operatività della norma penale»; principio che per la Corte assume
particolare valore morale e sociale allorché – come nella specie – la tutela penale riguardi materie di rilevanza costituzionale, come la famiglia 22.
Giunge invece all’assoluzione per il delitto di maltrattamenti e alla condanna per le sole lesioni
personali una pronuncia di merito 23. Il Tribunale parte da una attenta ricostruzione anche del
profilo psicologico dei protagonisti e annota: «Ed invero dalla lettura della deposizione resa dai
due protagonisti della vicenda emergono aspettative diverse, per certi aspetti anche confliggenti, che
ciascuno dei due risulta aver riposto nel matrimonio: da un lato l’aspettativa della persona offesa di
una maggiore libertà anche dagli schemi tipici della religione musulmana, in un paese occidentale
come l’Italia che offre altri modelli di vita, l’insofferenza ad assecondare sempre e comunque il marito nelle sue decisioni come vorrebbe la tradizione musulmana, la difficoltà di esternare tutto ciò senza
19
Cass., Sez. V, 8 novembre 2002-8 gennaio 2003, n. 55, in Cass. pen., 2003, p. 1095.
Cass. pen., Sez. VI, 20 ottobre 1999, Bajrami, in Cass. pen., 2002, p. 33.
21
Cass. pen., Sez. VI, 16 dicembre 2008, n. 46300, in Guida dir., 14 marzo 2009, p. 63.
22
Cass. pen., Sez. VI, 29 maggio 2009, n. 22700.
23
Trib. Padova, sent. 22 marzo 2011, in Dir., imm. e citt., 4, 2011, p. 178.
20
92
FOCUS incontrare il dissenso forte del marito, dall’altro l’aspettativa del marito all’osservanza rigorosa dei
dettami della religione e della cultura musulmana e la contrarietà a qualsiasi apertura alla cultura
occidentale, che vede la donna libera di vestire, di muoversi, di lavorare».
Rilevato, in fatto, che la persona offesa «delimita in 6-7 occasioni gli episodi nei quali il marito arriva a percuoterla, di regola con degli schiaffi (solo occasionalmente con il tappetino delle preghiere e
con delle ciabatte)», il Tribunale conclude: «Ciò premesso, se è vero che dalla deposizione è emersa una insofferenza allo stile di vita che il marito voleva imporle, è anche vero che tale imposizione
non è concretizzata in atti di sopraffazione, crudeltà e manifestazioni di disprezzo ripetuti e continui
nel tempo, tali pertanto da integrare il delitto in esame. Tanto più che, come già evidenziato, la persona offesa ha riferito che al di fuori di questi episodi l’imputato si comportava bene con lei. Ritiene
in conclusione questo Tribunale che il numero limitato di occasioni in cui l’imputato ebbe a percuotere
la persona offesa, in assenza di altri atti espressivi di vessazione morale e/o fisica porti a ritenere non
integrato il requisito della abitualità del reato contestato. In assenza di un requisito essenziale del
reato in esame di impone l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste».
5. La violenza sessuale intrafamiliare Sono diversi i casi nei quali un immigrato viene accusato di reati contro la libertà sessuale della
moglie e questi si difende evidenziando che nella propria concezione culturale la donna ha una
posizione subordinata anche nei rapporti attinenti la sfera sessuale.
In un primo caso, la vicenda è quella di due giovani immigrati marocchini, sposatisi a seguito di
matrimonio combinato dai genitori della sposa. Dopo alcuni giorni dall’inizio della convivenza,
il marito costringe con la violenza la moglie ad avere un rapporto sessuale; la cosa si ripete nei
giorni successivi, finché la moglie si allontana e denuncia il marito. Questi si difende, tra l’altro,
eccependo la propria ignoranza inevitabile della legge penale violata e la mancanza del dolo generico: l’imputato sostiene di avere incolpevolmente ignorato che in Italia la violenza sessuale
intraconiugale costituisce reato (tale non è in effetti in Marocco, n.d.r.) e che, di fatto, ignorava
la coazione esercitata sulla moglie dai genitori di lei per obbligarla al matrimonio. Secondo la
Corte di Cassazione 24, invece, le «circostanze invocate con il ricorso (pretese usanze marocchine,
pretesa ignoranza della coazione della volontà della moglie da parte dei genitori, prima settimana di
matrimonio, rispetto della ritrosia della moglie, ecc.) non sono assolutamente idonee a dimostrare, da un lato, la mancanza di dolo generico e, dall’altro, la assoluta inevitabilità della ignoranza
della legge penale italiana in materia di reati sessuali»; ignoranza cui l’imputato poteva rimediare
adempiendo «con il criterio della ordinaria diligenza, al c.d. ‘dovere di informazione’, ossia all’obbligo
di espletare ogni utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente» 25.
In alcuni casi la tensione che si crea nella coppia per il rifiuto della moglie di avere rapporti sessuali (oppure rapporti sessuali “non ordinari”) per la reazione violenta del marito viene considerata in concorso con il reato di maltrattamenti. È questo il caso di un immigrato marocchino,
che ricorre contro la decisione di merito, che sarebbe stata viziata da «un pregiudizio etnocentrico»,
in quanto avrebbe «applicato schemi valutativi, tipici della cultura occidentale, senza rispetto delle
24
Cass. pen., Sez. VI, 17 settembre 2007, n. 34909.
Osserva però F. BASILE, op. cit., p. 221, come sia significativo il fatto che «come la stessa Corte ricorda, fino alla metà degli
anni Settanta del secolo scorso, per la legge italiana (almeno in base all’interpretazione che di essa forniva la giurisprudenza assolutamente dominante) il marito che, con violenza o minaccia, avesse costretto la moglie a compiere o subire atti sessuali, non rispondeva del reato di violenza carnale, a meno che si trattasse di atti sessuali contro natura».
25
93
AIAF RIVISTA 2012/2 maggio-agosto 2012 esigenze di integrazione razziale e senza pesare, nella condotta del reo, cittadino marocchino la diversità culturale e religiosa che ha improntato ed informato, finalisticamente, le azioni da lui compiute e ritenute illecite: maltrattamenti, sequestro di persona, violenza sessuale, violazione degli obblighi
di assistenza familiare».
Secondo la cassazione, l’azione vietata e “contra legem” dello straniero (in particolare la violenza sessuale), non può essere inquadrata e “giustificata nei "profili di soglia” della concezione
della famiglia, tipica del gruppo sociale di appartenenza, che tali condotte appunto consente e,
come nel caso della moglie che rifiuta “il debito coniugale”, perché concezione è in contrasto
«con i principi cardine del nostro ordinamento, anche di rango costituzionale, in tema di famiglia e
rapporti interpersonali di coppia, ivi compresa l’interazione sessuale che nel nostro sistema è stata
rigidamente ed innovativamente regolata dalla L. n. 66 del 1996» 26.
È considerata far parte dei maltrattamenti invece la richiesta pressante (che non giunge alla
violenza sessuale, per la quale l’imputato, viene assolto) di rapporti sessuali non ordinari, ai
quali la moglie non è consenziente ma non oppone un rifiuto netto. Il contesto è quello di un
matrimonio fra due giovani marocchini; il marito aveva posto due condizioni al matrimonio
«io ho chiesto a lei solo due cose. Io ho chiesto di avere il velo ... io sono anche praticante e voglio anche la preghiera ... Queste erano due ... poi ho detto dell’altro non mi interessa niente, non voglio niente
da te». Il giudice, premesso che è indubbio che il particolare contesto culturale e religioso non
può portare a giustificare comportamenti lesivi dei diritti costituzionalmente garantiti e che
trovano la massima tutela, appunto quella penale, giunge all’assoluzione considerando «l’atteggiamento ambiguo della moglie che non opponeva un chiaro rifiuto al marito che desiderava avere
proprio quel tipo di rapporti sessuali e riusciva ad averli senza ricorrere alla forza e senza imporsi
con un atto di forza, peraltro incompatibile con il tipo di rapporto» 27.
26
27
Cass. pen., Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300.
Trib. Padova, sent. 22 marzo 2011, cit.
94