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Francesco Fiume
IL TERRENO
Aspetti fisici, chimici, biologici
e fisiologici
Fiume Francesco
Autore: Francesco Fiume
Titolo: Il terreno. Aspetti fisici, chimici, biologici e fisiologici
Impostazione e grafica: Francesco Fiume
Elena Ciscognetti
Impaginazione: Francesco Fiume
Finito di stampare: 15 settembre 2000
Stampato a Pontecagnano (Salerno)
Presso la Sezione di Biologia, Fisiologia e Difesa
dell’Istituto Sperimentale per l’Orticoltura
Via Cavalleggeri, 25 – 84098 Pontecagnano (Salerno)
Direttore della Sezione: dott. Francesco Fiume
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Il terreno
Presentazione
E’ questo un lavoro realizzato e edito presso la Sezione di Biologia, Fisiologia e
Difesa dell’Istituto Sperimentale per l’Orticoltura di Pontecagnano, avente un carattere
monografico e che attinge ripetutamente dai risultati della ricerca e della
sperimentazione.
Il riferimento alle opere degli Autori della scienza pedologica italiana Comel,
Crescini, Principi, Cavazza, Florenzano, Sequi, Nannipieri è costante.
Si è cercato di studiare il terreno con un approccio che non è quello di costatare che
quel territorio esiste e non è interessato da nessuna evoluzione, ma di osservare
l’ambiente edafico nelle sue dinamiche, relazionali ed evolutive, come un organismo
vivente. Il terreno, costituito da elementi del mondo minerale, vegetale ed animale,
perfettamente ed armoniosamente integrati ed interagenti funzionalmente, ha la capacità
di crescere, di trasformarsi, di riprodursi e, come ogni essere vivente, è dotato di un
proprio metabolismo, per il quale gli elementi inorganici sono trasformati in prodotti
organici e questi in materia organizzata, vivente, plastica (anabolismo) per poi subire un
processo inverso, con il ritorno allo stato di elementi minerali (catabolismo). Per
comprendere, basti pensare ad un terreno ridotto ad un territorio apparentemente
uniforme, senza vita, compatto, compresso e fessurato dalla persistente mancanza
d’acqua e poi osservarlo dopo una pioggia, quando si rigonfia, si espande, si modifica nel
suo aspetto e poi si ricopre di piante e di animali, d’ogni forma e dimensione. La natura
diventa uno spettacolo di cui godere e nella quale integrarsi. Non è necessario dominare
la natura, secondo un principio antropocentrico, bensì raggiungere quell’integrazione con
l’ambiente naturale ed il territorio, dove gli interventi antropici, al pari di quelli di tutti
gli altri esseri viventi e degli elementi inanimati, sono in grado di modificarlo e di
utilizzarne favorevolmente e costruttivamente le risorse.
Questa monografia, dopo una premessa generale sul terreno e sul terreno agrario, è
costituita di due parti fondamentali riguardanti le caratteristiche statiche e dinamiche del
suolo. Naturalmente, la distinzione è soltanto classica, poiché in natura nulla esiste
d’immutabile e di rigorosamente stabile ed il concetto di entità fissa, permanente e
costante può riferirsi soltanto ad un lasso di tempo relativamente limitato, riferito alla
vita dell’uomo e non certo all’ordine di grandezza dell’era geologica.
La caratteristica fondamentale e distintiva del lavoro è lo sviluppo e
l’approfondimento che si è voluto dare alla parte riguardante le condizioni biologiche del
terreno, riguardo al suo dinamismo. Il suolo è popolato da un’infinita varietà di organismi
viventi che, da un punto di vista quantitativo, ha pochi riscontri in altri settori della
biosfera terrestre, tanto che, sicuramente, come sistema polifasico, accanto alle tre fasi
classiche (solida, liquida e gassosa) si può distinguere, ulteriormente, la fase vivente. Lo
studio della biofase ha preso in considerazione, seguendo la scala gerarchica
tassonomica, buona parte degli organismi edafici, da quelli visibili soltanto al
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microscopio elettronico ed a scansione, fino agli animali più grandi, come alcuni
vertebrati ad abitudini ipogee.
Ciascun argomento è stato indagato nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi. Ciò è
alla base dell’apprendimento del metodo scientifico.
Si spera che il linguaggio usato sia chiaro e lineare e che il lavoro possa spingere il
lettore agli opportuni approfondimenti, favorire tra lo studioso ed il mondo edafico il
raggiungimento di un’opportuna simbiosi culturale ed ambientale, essere di sprone e
d’aiuto per il giovane sperimentatore che intende dedicarsi allo studio del terreno ed
intraprendere le ricerche sulla biosfera del suolo ed aumentare le conoscenze nei settori
della pedoflora e della pedofauna, ancora oggi molto scarse. Questi aspetti sono
d’importanza vitale per la gestione di una risorsa ambientale così importante qual è il
suolo e per il mantenimento degli equilibri idrogeologici e biologici naturali, la cui
protezione rappresenta oggi la sfida per l’agricoltura razionale e compatibile del domani
e per la migliore difesa del territorio.
L’AUTORE
Francesco Fiume
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Il terreno
INDICE
PRESENTAZIONE ...........................................................................................
pag.
3
TERRENO E TERRENO AGRARIO ...................................................................
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CARATTERISTICHE STATICHE DEL TERRENO ................................................
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Composizione fisica del terreno agrario ........................................
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Origine del terreno ................................................................................
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Disgregazione delle rocce .............................................................................
Acqua ............................................................................................................
Temperatura ...................................................................................................
Vento ..............................................................................................................
Cristallizzazione ............................................................................................
Forza di gravità ..............................................................................................
Organismi viventi ..........................................................................................
Decomposizione delle rocce ..........................................................................
Acqua ............................................................................................................
Ossigeno .......................................................................................................
Fenomeni di chelazione e scambio ionico.....................................................
Agenti biologici ............................................................................................
Terreni autoctoni.............................................................................................
Terreni alloctoni ............................................................................................
Forza di gravità .............................................................................................
Acqua ............................................................................................................
Acqua corrente ..............................................................................................
Acqua marina ................................................................................................
Acqua allo stato solido ..................................................................................
Vento ..............................................................................................................
Riconoscimento pratico del terreno ...............................................................
Riconoscimento pratico di alcuni minerali ....................................................
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Riconoscimento pratico della provenienza del substrato
pedologico .....................................................................................................
Posizione del terreno .....................................................................................
Scheletro del terreno ......................................................................................
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Orizzonte umifero superficiale ......................................................................
Orizzonte eluviale .........................................................................................
Orizzonte illuviale .........................................................................................
Orizzonte di transizione.................................................................................
Roccia madre..................................................................................................
Suolo ..............................................................................................................
Strato attivo ...................................................................................................
Strato inerte ...................................................................................................
Sottosuolo ......................................................................................................
Strati di inibizione..........................................................................................
Strati impermeabili o impermeabilizzati .......................................................
Crosta o crostone ...........................................................................................
Conglomerato ................................................................................................
Caranto ..........................................................................................................
Ferretto ..........................................................................................................
Cappellaccio ..................................................................................................
Pozzolana ......................................................................................................
Strati permeabili ............................................................................................
Falda freatica .................................................................................................
Strato arido.....................................................................................................
Strato tossico..................................................................................................
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Giacitura ....................................................................................................
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Esposizione ................................................................................................
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Stratificazione e stratigrafia del terreno.........................................
Costituzione ..............................................................................................
Prelevamento del campione ..........................................................................
Separazione dello scheletro ...........................................................................
Separazione della terra fine ...........................................................................
Levigatori a sedimentazione ..........................................................................
Pipetta di Andreasen ......................................................................................
Levigatore di Appiani ....................................................................................
Apparecchio di Atterberg ..............................................................................
Levigatori a circolazione ...............................................................................
Levigatore di Schöne .....................................................................................
Levigatore di Schöne-Kopecki ......................................................................
Terreno a scheletro prevalente .......................................................................
Terreno sabbioso ............................................................................................
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Terreno limoso ...............................................................................................
Terreno argilloso ............................................................................................
Terreni con caratteri intermedi ......................................................................
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Struttura del terreno .............................................................................
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Porosità ..........................................................................................................
Peso specifico ................................................................................................
Determinazione del peso specifico e porosità di un terreno...........................
Sofficità .........................................................................................................
Coesione ........................................................................................................
Adesività o adesione ......................................................................................
Plasticità ........................................................................................................
Permeabilità ...................................................................................................
Determinazione della permeabilità.................................................................
Aerazione ......................................................................................................
Costipamento .................................................................................................
Capacità idrica ...............................................................................................
Contrazione ed espansione o rigonfiamento .................................................
Capillarità ......................................................................................................
Capacità di evaporazione o evaporabilità ......................................................
Misura dell’evaporazione...............................................................................
Igroscopicità ..................................................................................................
Misura dell’igroscopicità................................................................................
Fessurabilità o crepacciabilità .......................................................................
Colore ............................................................................................................
Temperatura ...................................................................................................
Potenziali del terreno......................................................................................
Conducibilità .................................................................................................
Suscettività magnetica ...................................................................................
Struttura del terreno e stato di aggregazione delle particelle ........................
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Condizioni chimiche ..............................................................................
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CARATTERISTICHE DINAMICHE DEL TERRENO .............................................
Fase solida del terreno ...................................................................................
Costituenti inorganici del suolo .....................................................................
Costituenti organici del suolo ........................................................................
Attività delle particelle terrose ......................................................................
Scambio cationico .........................................................................................
Adsorbimento anionico .................................................................................
Reazione del terreno .....................................................................................
Terreni acidi ...................................................................................................
Terreni salini, salsi ed alcalini .......................................................................
Fase liquida ...................................................................................................
Infiltrazione dell’acqua nel terreno ...............................................................
Soluzione circolante ......................................................................................
Valutazione della quantità d’acqua nel terreno ..............................................
Analisi gravimetrica ......................................................................................
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Determinazione tensiometrica .......................................................................
Determinazione conduttimetrica ...................................................................
Determinazione termoelettronica ..................................................................
Determinazione con sonda neutronica ..........................................................
Determinazione mediante riflettometria nel dominio del tempo....................
Qualità dell’acqua irrigua ..............................................................................
Caratteri fisici ................................................................................................
Caratteri chimici ............................................................................................
Apporto ed asportazione di alcuni elementi chimici......................................
Fase gassosa del terreno ................................................................................
Composizione della fase gassosa ..................................................................
Scambi tra aria del terreno ed aria dell’atmosfera .........................................
Analisi della fase gassosa ..............................................................................
Determinazione della permeabilità del terreno all’aria .................................
Determinazione della diffusività del terreno .................................................
Determinazione della concentrazione di un gas componente
l’aria tellurica.................................................................................................
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Condizioni biologiche ............................................................................
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Pedoflora ed entità submicroscopiche ...........................................................
Batteri ............................................................................................................
Actinomiceti ..................................................................................................
Funghi ............................................................................................................
Alghe .............................................................................................................
Licheni ...........................................................................................................
Virus ..............................................................................................................
Riconoscimento e carica dei microrganismi del suolo ..................................
Pedofauna ......................................................................................................
Principali gruppi tassonomici della pedofauna .............................................
Protozoi .........................................................................................................
Metazoi ..........................................................................................................
Platyhelminthes .............................................................................................
Nemertea .......................................................................................................
Nematoda ......................................................................................................
Rotifera ..........................................................................................................
Gastrotricha ..................................................................................................
Mollusca ........................................................................................................
Annelida ........................................................................................................
Arthropoda ....................................................................................................
Tardigrada .....................................................................................................
Onychophora .................................................................................................
Chordata ........................................................................................................
Studio ecologico della pedofauna .................................................................
Reti trofiche e fattori di regolazione della pedofauna ...................................
Principali cicli in natura degli elementi nutritivi delle piante .......................
Ciclo del carbonio .........................................................................................
Degradazione degli zuccheri semplici ...........................................................
Degradazione dell’amido ..............................................................................
Degradazione della cellulosa..........................................................................
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Degradazione delle emicellulose ...................................................................
Degradazione delle pectine ...........................................................................
Degradazione della chitina.............................................................................
Degradazione della lignina ............................................................................
Umificazione e mineralizzazione dei composti organici del
carbonio .........................................................................................................
Ciclo dell’azoto .............................................................................................
Fissazione dell’azoto atmosferico .................................................................
Ammonificazione dell’azoto organico ..........................................................
Nitrificazione dell’azoto ammoniacale .........................................................
Denitrificazione dell’azoto nitrico .................................................................
Ciclo dello zolfo ............................................................................................
Ciclo del fosforo ............................................................................................
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BIBLIOGRAFIA ...............................................................................................
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INDICE ANALITICO ........................................................................................
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TERRENO E TERRENO AGRARIO
La terra è uno dei pianeti del sistema solare sulla cui origine sono state avanzate,
nei secoli, numerose ipotesi. Attualmente, la risposta al problema è cercata in conformità
a fenomeni che si possono effettivamente osservare nello studio dell’universo, senza
ricorrere a teorie fondate sul verificarsi di eventi molto improbabili. Secondo questi
criteri, nella seconda metà del secolo XXI è stato proposto uno schema d’evoluzione del
sistema solare secondo il quale la terra sarebbe derivata dalla condensazione di una
nebulosa rotante attorno al sole. Il processo ricorda l’ipotesi proposta da Kant e Laplace,
anche se oggi, a differenza di quanto avveniva un tempo, i dati disponibili sulla materia
e, quindi, sulle caratteristiche fisiche e chimiche dei pianeti rendono possibile lo studio
termodinamico d’origine e d’accrescimento.
Il nostro pianeta è costituito da strati concentrici di differenti materiali. Lo strato
più esterno, l’atmosfera, è di natura gassosa ed è formato principalmente da azoto ed
ossigeno. Il successivo strato è costituito da acqua, allo stato liquido o solido, si presenta
discontinuo, perché occupa soltanto i sette decimi della superficie terrestre, e va a
formare gli oceani, i mari, i fiumi ed i laghi. Infine, lo strato solido con ulteriori
suddivisioni.
Lo studio della parte solida della terra è stato ed è effettuato mediante misurazioni
indirette, poiché i dati derivati da osservazioni dirette, in miniere oppure in gallerie o
mediante carotaggi meccanici e fisici nei pozzi per la ricerca petrolifera, mai andati oltre
i 7-8 km (soltanto 1/1.000 o poco più del raggio terrestre), sono molto limitati. Tali
misurazioni, effettuate dalla geofisica e dalla sismologia, utilizzano le onde elastiche,
prodotte dai terremoti naturali o artificiali, mediante esplosioni, le quali attraversano la
terra fino alle massime profondità, ritornano alla superficie e trasferiscono ai sismografi
le informazioni qualitative e quantitative sulle caratteristiche del globo.
Dall’insieme degli studi geofisici si è dedotto che lo strato solido della terra è
divisibile, dall’esterno verso l’interno, in tre grandi parti: la crosta, il mantello ed il
nucleo. Essi rappresentano, rispettivamente 1,5%, 82,3% e 16,2% del volume del globo.
Il mantello si approfondisce per circa 3.000 km ed è costituito da silicati di magnesio e da
ferro metallico. Il nucleo misura circa 3.500 km di diametro e, probabilmente, contiene
ferro con poche elevate quantità di nichel, zolfo, silicio e magnesio. La parte più esterna
del nucleo dovrebbe essere allo stato liquido a causa delle elevate temperature, mentre la
parte più interna dovrebbe esistere allo stato solido.
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Il terreno
La porzione che più interessa è la crosta terrestre, la parte superficiale della terra in
cui si identifica uno strato superiore formato di sedimenti, consolidati o no, cui segue il
cosiddetto strato di granito, costituito da rocce ben diverse dal granito, cioè da rocce
sialiche, in cui prevalgono i silicati di alluminio. Lo spessore complessivo è compreso tra
15 e 30 km. A questi strati segue lo strato del basalto, di natura simatica, formato
prevalentemente da silicati di magnesio, cosicché lo spessore complessivo della crosta
terrestre diventa di 30-40 km. La crosta terrestre è composta per 95% da materiale
eruttivo, per 4% da materiale sedimentario, per 0,75% da arenarie e per 0,25% da calcari.
La crosta terrestre continentale differisce da quella osservabile sotto gli oceani poiché, in
quest’ultima, manca lo strato del granito e lo spessore si riduce a 5-20 km.
La crosta terrestre è costituita da un centinaio di elementi, quasi tutti quelli riportati
nella tavola periodica degli elementi. La composizione centesimale, per i primi 16 km, è
riportata nella tabella 1. Questi dati, ai quali non si può attribuire un valore superiore a
quello che hanno nella realtà, confermano che soltanto i primi otto elementi, pari al 98%
del totale, partecipano in modo prevalente alla costituzione della crosta terrestre e, fra
essi, l’ossigeno ed il silicio rappresentano circa il 74%.
Tab. 1 – Composizione media centesimale della crosta terrestre, fino a 16 km di profondità.
Composizione elementare
%
Composizione chimica
%
O
46,46
SiO2
59,08
Si
27,61
Al2O3
15,23
Al
8,07
Fe2O3
3,10
Fe
5,06
FeO
3,72
Mg
2,07
CaO
5,10
Ca
3,64
MgO
3,45
Na
2,75
Na2O
3,71
K
2,58
K2O
3,11
Ti
0,62
H2O
1,30
H
0,14
TiO2
1,03
P
0,12
MnO
0,12
C
0,09
CO2
0,35
Mn
0,09
P2O5
0,29
S
0,06
Cl
0,05
Cl
0,05
SO3
0,03
Br
0,04
C
0,04
F
0,03
Altri ossidi o anidridi
0,29
Altri elementi
0,50
-
-
Totale
100,00
Totale
100,00
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Il terreno è parte integrante della crosta terrestre, della sua parte più superficiale
che, per l’azione incessante di alcuni costituenti attivi dell’atmosfera, come l’acqua,
l’ossigeno e l’anidride carbonica e dell’energia solare, si trasforma in detriti di
dimensioni man mano sempre più piccoli e con strutture molecolari sempre più semplici
e più solubili in acqua, fino alla formazione di entità allo stato colloidale, cioè piccole
particelle, allo stato di estrema suddivisione, invisibili anche al comune microscopio.
Quando tale miscela di detriti diviene idonea ad ospitare cicli biologici della materia
vivente, senza gli interventi modificatori dell’uomo, si origina il terreno naturale.
Qualora tale processo viene ad essere modificato dall’attività umana (coltivazione delle
piante, allevamento degli animali) si origina il terreno agrario.
Nel terreno agrario s’instaurano numerosi e continui cicli della materia vivente.
Tali cicli comprendono la coltivazione delle piante e l’allevamento degli animali
d’interesse agrario, lo sviluppo e la diffusione dei microrganismi, la mineralizzazione dei
loro resti, la decomposizione della materia organica fino alla formazione di composti
umici, l’organicazione degli ioni derivati dai processi di mineralizzazione insieme al
carbonio dell’anidride carbonica dell’atmosfera ed infine, l’organizzazione delle sostanze
organicate in materia vivente, con origine della biomassa e di tutte le funzioni connesse.
Più oltre, saranno trattate in dettaglio le fasi che caratterizzano i processi sinteticamente
descritti. Ora saranno enunciate alcune definizioni per caratterizzare meglio il concetto di
terreno, nelle diverse accezioni.
Secondo la definizione di Comel, il terreno è la superficie solida della crosta
terrestre che si trova in contatto con l’atmosfera e che subisce, di conseguenza,
apprezzabili modificazioni d’ordine fisico, chimico e biologico. Il terreno agrario,
secondo la definizione di De Cillis, è una roccia superficiale discontinua capace di
divenire sede di coltivazione delle piante. Una definizione completa è data da Cavazza
che indica come terreno agrario il sistema costituito, almeno in parte, da materiali solidi
derivati dall’azione più o meno prolungata e combinata degli agenti climatici e biologici,
inclusi quelli antropici, sulla porzione più superficiale della crosta terrestre, sino a
renderla capace di servire come substrato per la coltura delle piante agrarie.
Le azioni dell’uomo sul terreno sono molto limitate, quando ci si trova di fronte ad
un terreno che ospita formazioni naturali come boschi, laghi, montagne. Sono ancora
limitate, quando gli investimenti sono scarsi, le produzioni povere ed è attuata
un’agricoltura estensiva. Diventano vaste, quando, a seguito di ampi investimenti, si
realizzano ricche produzioni ed un’agricoltura cosiddetta intensiva. Così, con l’odierna
meccanizzazione e tecnologia è possibile spianare terreni accentuati o accidentati,
colmare avvallamenti, rendere fertili i suoli paludosi.
Il terreno naturale ha caratteristiche peculiari differenti dal terreno agrario. Il primo
si forma per le azioni naturali concomitanti di agenti fisici, chimici e biologici, mentre il
secondo, in aggiunta a tali azioni, è anche il risultato di un complesso di attività
antropiche, realizzate per la coltivazione e la sorveglianza della vegetazione, con finalità
economiche e nel tentativo di modificare l’azione incessante degli agenti atmosferici a
favore della produttività delle piante d’interesse agrario.
Spesso l’azione dell’uomo sulla formazione e sulle caratteristiche del terreno
agrario è scarsamente influente, così come accade nel caso di terreni che ospitano alcuni
biotopi naturali come i pascoli, i prati, i boschi che l’agricoltore si preoccupa soltanto di
mantenere in efficienza produttiva. Tale azione, tuttavia, può essere talmente vasta,
profonda e ben congegnata, da trasformare o bonificare terreni naturali, molto poveri, in
ricchi terreni agrari, come, ad esempio, i meravigliosi agrumeti ricavati sulle lave
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13
Il terreno
dell’Etna, in Sicilia, la splendida ortoflorofrutticoltura della prosperosa pianura del Sele,
anticamente acquitrinosa e malarica, in Campania, le magnifiche terre delle cascine
lombarde create col lavoro secolare su un terreno spesso inidoneo alla coltivazione.
Il terreno agrario è un substrato vivo giacché reagisce a particolari stimoli. La
vitalità di un terreno agrario è legata alla presenza di elementi e composti minerali, allo
stato di colloide, ed alla presenza di strutture biologiche rappresentate dagli organismi
viventi nel suolo, da quelli molecolari o cellulari a quelli costituiti da tessuti e da organi.
I colloidi ed i microrganismi caratterizzano la reattività e la vitalità del terreno
agrario. I colloidi subiscono grandi trasformazioni in rapporto la loro reattività. Così, se
si disperde un campione di terreno in acqua si ottiene una sospensione molto duratura
dovuta al fatto che particelle di piccolissimo diametro, per l’appunto i colloidi, s’idratano
e si sospendono per lungo periodo. Se al posto del terreno si usa della sabbia, si osserva,
dopo poco tempo, che l’acqua assume una buona limpidezza ed il materiale precipita sul
fondo del recipiente. I microrganismi differiscono dalla materia colloidale non per le
dimensioni, ma perché essi sono caratterizzati dalle funzioni vitali e perché si
moltiplicano ed operano profonde trasformazioni per opera di un complesso sistema
enzimatico di cui sono provvisti. Da ciò, si ribadisce, discende il concetto che il terreno
agrario è qualcosa di modificabile e di vivo, sia per la reattività dei colloidi di cui è
costituito, sia per la vitalità dei microrganismi di cui è popolato.
Come già accennato, l’evento che sancisce inequivocabilmente la raggiunta
condizione di terreno naturale e, nel caso in cui interviene l’attività antropica mediante la
coltivazione e l’allevamento, di terreno agrario è l’instaurarsi del ciclo della materia
vivente che comprende: a) lo sviluppo di microrganismi, di piante e di animali; b) la
decomposizione dei loro resti in composti ed elementi minerali; c) l’impiego di parte dei
prodotti intermedi e finali della decomposizione per la sintesi delle sostanze umiche; d) la
riutilizzazione degli elementi derivati dalla mineralizzazione a seguito dei processi di
organicazione che consentono la vita di nuovi organismi.
Le sostanze umiche hanno anch’esse il carattere di colloidi e dall’interazione dei
colloidi minerali e dei colloidi organici dipende la stabilità di alcune condizioni
strutturali del terreno, di cui si approfondirà in seguito.
La formazione dei colloidi inorganici può essere considerata un processo
largamente irreversibile, mentre la sintesi dei colloidi umici è inserita in un ciclo
bioenergetico ed è un processo ampiamente rinnovabile.
Il ruolo della materia vivente nel terreno agrario è quello di rallentare la
degradazione del potenziale chimico della litosfera, partecipando al ruolo più ampio della
vita terrestre e ritardando il raggiungimento delle condizioni di massima entropia o di
equilibrio. Questo spiega come il depauperamento di un terreno è più rapido quando è
repressa la sua produttività biologica.
L’agricoltura realizzata in condizioni tali da conciliare la resa in biomassa
(produttività) con la conservazione del suolo (ecologia), in assenza di rapporti di
sfruttamento, rappresenta la sfida che il mondo civile e tecnologico e quello della ricerca
deve affrontare, per garantire condizioni di vita qualitativamente buone a tutte le
popolazioni del nostro pianeta.
Oggi non è più sufficiente che il terreno assolva soltanto la funzione di sostegno
meccanico e di substrato nutritivo delle piante coltivate, da sempre ritenuta fondamentale
per il mantenimento e lo sviluppo delle varie forme di vita, ma deve anche sostenere
sempre più attivamente la funzione ecologica, che garantisce la rigenerazione
dell’ambiente, grazie alla capacità di riciclare la crescente quantità di prodotti di rifiuto,
conseguenza dell’incremento delle popolazioni, spesso altamente concentrate soltanto in
Fiume Francesco
alcune aree.
Il terreno agrario assolve, nei confronti della rizosfera e quindi delle piante, ad
alcune funzioni, intendendo per funzione l’attività naturale di un oggetto, sia esso una
cellula, un tessuto, un organo, una sostanza chimica o qualsiasi altra cosa. Le
fondamentali funzioni cui deve assolvere il terreno sono la funzione di abitabilità, la
funzione di nutrizione e la funzione ecologica.
La funzione d’abitabilità è assolta con l’accoglimento delle radici delle piante
agrarie per il sostegno, la vita e la coltivazione delle stesse.
Il terreno agrario dispone di un’adeguata massa (spessore) per consentire alle radici
di occupare tutto lo spazio di cui necessitano ed è caratterizzato da condizioni favorevoli
della temperatura per soddisfare le esigenze termiche delle piante.
E’ dotato di porosità, permeabilità e plasticità (vale a dire capacità di coesione,
espansione e contrazione) in modo da caratterizzarsi per le migliori condizioni di
presenza d’aria e d’acqua e permettere tutte le lavorazioni.
E’ naturalmente privo di sostanze tossiche, come per esempio i pesticidi. I prodotti
antiparassitari e gli erbicidi, oltre ad influire negativamente sulla salute dell’uomo,
possono alterare la distribuzione di microrganismi, funghi, attinomiceti, collemboli, acari
e lombrichi ed agire negativamente sul complesso enzimatico favorevole. Non è
provvisto d’agenti patogeni per le piante coltivate oppure, in ogni caso, i livelli
quantitativi degli stessi sono tali da non raggiungere la soglia di dannosità per le
coltivazioni, in relazione al basso potenziale d’inoculazione che si è venuto a realizzare a
seguito di un raggiunto equilibrio dinamico con le altre popolazioni di organismi viventi
del terreno.
La funzione di nutrizione delle piante è legata alla quantità e qualità degli elementi
nutritivi ed agli agenti apprestatori del nutrimento, inducenti fertilità, cioè la “mirabile
attitudine a produrre” del terreno agrario (Ridolfi, 1843) oppure “il complesso di tutte
quelle condizioni, nessuna esclusa, che nel terreno influiscono sulla produzione della
pianta” (De Cillis e Leggieri, 1938) ed ancora “la sintesi tra terra, atmosfera e pianta
coltivata, vale a dire l’armonia di elementi d’ogni grado, infinitamente piccoli ed
infinitamente grandi, nell’ambito della vita universale” (Oliva, 1939). La stima della
potenzialità di un suolo nei confronti del sostentamento della vita vegetale va esaminata
cercando di scomporre con molta attenzione le sue caratteristiche fondamentali.
Possiamo, pertanto, distinguere una fertilità fisica che va stimata studiando e rilevando i
rapporti con l’acqua, aria e temperatura; una fertilità chimica che va misurata
determinando la disponibilità degli elementi nutritivi ed approfondendo i meccanismi
della nutrizione minerale delle piante attraverso l’assorbimento radicale, le attività
enzimatiche ed il potere assorbente; una fertilità biologica che va quantizzata mediante il
rilievo della presenza e della consistenza quantitativa e qualitativa dei microrganismi e
della sostanza organica e determinando, attraverso le relative trasformazioni di
quest’ultima, l’intensità dell’attività dei primi.
Bisogna tuttavia rilevare che il concetto di fertilità, sulla scia del grande sviluppo
delle scienze chimiche e dei progressi nella produzione di prodotti chimici per
l’agricoltura nell’ultimo secolo, è stato frainteso ed è andato a collimare unicamente con
il concetto di fertilità chimica, dimenticando l’esistenza di una fertilità fisica, vale a dire i
rapporti tra aria, acqua e suolo, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, come
incendi, erosione, genesi di superfici desertiche e, cosa ancor più grave, di una fertilità
microbiologica, trascurando la quale si è incorsi nell’insorgenza del fenomeno della
stanchezza del terreno e di gravi difficoltà produttive, soprattutto di tipo qualitativo.
Va rilevato, quindi, che la fertilità del suolo poggia su basi molto complesse ed oggi
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15
Il terreno
al terreno si chiede molto di più che in passato, anche sotto aspetti diversi da quelli
produttivi. Le terre abbandonate sono soggette a rovinosi fenomeni d’erosione e molto
spesso le pratiche agronomiche contrastano oggi gli obiettivi della conservazione del
suolo, senza considerare il fenomeno dell’inquinamento di quei terreni usati come aree di
scarico, l’aspetto legato ai metalli pesanti ed ai pesticidi, la cui problematica è correlata a
fatti di politica, di economia, di geologia, di ingegneria, di fisica, di microbiologia, di
fauna del suolo e di molti altri aspetti.
La funzione ecologica è una funzione cui il terreno deve assolvere perché l’attività
agricola deve conciliare un’esigenza di produttività con un’esigenza ecologica. La prima
è legata al fatto che bisogna trarre necessariamente dalla coltivazione del terreno la
massima quantità di produzione, caratterizzata fra l’altro dalla migliore qualità e dal
minor costo. La seconda deve mirare alla conservazione del suolo, attraverso la
promozione e lo sviluppo della stabilità della struttura ottimale e della resistenza
all’erosione, ed alla rigenerazione dell’ambiente.
Il terreno, come già detto, deve affrontare la funzione di sostegno e di nutrizione
delle piante, ma deve anche sostenere una funzione ecologica, ritenuta oggi da tutti
d’uguale importanza e consistente nella capacità di rigenerazione ambientale. Diventa
sempre più necessario assorbire e riciclare una massa sempre crescente di rifiuti prodotti
da un carico di popolazione umana in crescente dilatazione, almeno in certi punti della
superficie terrestre. Sulla base delle conoscenze di fisiologia della nutrizione delle piante
e della biochimica del suolo, si può affermare che non esiste contrasto tra l’esigenza
produttiva e l’esigenza ecologica cui il terreno agrario deve assolvere, soprattutto se tali
esigenze sono soddisfatte da un’adeguata gestione operata dall’uomo.
Le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del terreno, che favoriscono
l’efficienza della nutrizione minerale delle piante coltivate, promuovono altresì la
conservazione del suolo e la rigenerazione dell’ambiente, rendendo inesistente il conflitto
tra le esigenze di una resa biomassale del terreno e le esigenze ecologiche. Il contrasto,
tuttavia, insorge e diventa problematico quando si programmano e si realizzano interventi
in agricoltura che ignorano l’aspetto solidale produttivo ed ambientale, che è alla base
dell’abitabilità e della buona qualità della vita del pianeta.
La pedologia studia il terreno dal punto di vista della sua origine, formazione,
evoluzione e costituzione, analizza i fenomeni che avvengono nella sua massa ed
esamina le sue funzioni rispetto alla pianta. Diventa così possibile individuare
chiaramente alcune caratteristiche del terreno agrario che, fondamentalmente, sono di
tipo statico e dinamico. Le prime non mutano attraverso il tempo o subiscono piccole
modificazioni, apprezzabili solo in un tempo sufficiente lungo, comunque inferiore alla
durata d’una generazione dell’uomo. Le caratteristiche statiche sono la composizione
fisica, l’origine, la stratificazione, la giacitura, l’esposizione e la costituzione.
La composizione fisica del terreno agrario consente di individuare diverse porzioni
omogenee, o almeno varianti in modo continuo, dette fasi.
L’origine, legata alla provenienza, consente di stabilire se un terreno può essere
derivato, per esempio, direttamente dalla roccia sottostante oppure provenire da lontano
come quello che prende origine dai sedimenti di un fiume.
La stratificazione permette di stabilire se un terreno agrario può essere costituito
dalla sovrapposizione di successivi strati, per il trasporto di materiale lungo il profilo o
per movimenti di detriti provenienti da punti più o meno distanti, con la formazione
di orizzonti.
La giacitura è in relazione alla posizione del terreno nello spazio e cambia a
Fiume Francesco
seconda che il suolo si trovi in pianura, in collina o in montagna.
L’esposizione interessa soltanto i terreni inclinati ed indica verso quale punto
cardinale è rivolto quel suolo.
La costituzione riguarda le dimensioni delle diverse frazioni di particelle che
costituiscono il terreno.
Le caratteristiche dinamiche sono quelle che modificano continuamente e
rapidamente alcuni parametri fisici e strutturali, certe caratteristiche chimiche ed alcuni
equilibri biologici.
Tali modificazioni, osservabili e tangibili in breve tempo, possono avvenire in
seguito all’intervento di azioni naturali o antropiche, come, per esempio, una pioggia o
una forte variazione di temperatura, una lavorazione, irrigazione o concimazione, la
coltura di un prato o di un pascolo oppure la coltivazione di leguminose o graminacee, di
ortaggi, fiori o colture arboree, l’allevamento del bestiame. Le caratteristiche dinamiche
sono la struttura, le condizioni chimiche e le condizioni biologiche, sinteticamente di
seguito riportate.
La struttura interessa la reciproca disposizione delle particelle del terreno e lo stato
di aggregazione delle stesse.
Le condizioni chimiche caratterizzano il terreno per la quantità e la qualità di
elementi e composti e per tutte le reazioni che avvengono.
Le condizioni biologiche riguardano la vita delle numerosissime specie di
organismi del terreno e sono intimamente legate alle caratteristiche fisiche, chimiche e
chimico-fisiche.
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Il terreno
CARATTERISTICHE STATICHE DEL
TERRENO
Nei primi studi condotti sui processi di formazione del suolo, una grande
importanza fu attribuita all’influenza del tipo di roccia della matrice litologica. Poi fu
considerato l’effetto del clima ad azione predominante, tanto che quasi tutte le proposte
di classificazioni dei suoli si fondano sull’individuazione delle azioni esercitate sui
processi di genesi del terreno, ritenuti correlati agli eventi climatici. Il processo di
formazione del terreno, pertanto, è governato prevalentemente dalle condizioni
climatiche che, come fattori della pedogenesi, possono dominare sul substrato di partenza
ed assumere importanza fondamentale sulla velocità della trasformazione del substrato
originario, nel terreno naturale o coltivato. Sono talmente grandi i legami tra il clima ed il
terreno, che il rapporto pedologico e climatico è ottimamente espresso dalla legge di
zonalità, secondo la quale il medesimo clima produce terreni simili, anche agendo su
matrici pedologiche diverse. In casi particolari, un ciclo della materia vivente può
instaurarsi in presenza di materiali differenti da quelli di natura litologica ed in
concomitanza con processi diversi da quello di formazione dei minerali del terreno. E’ il
caso di suoli che giacciono su matrice calcarea.
Il tempo assume grande rilievo nell’andamento dei processi di disgregazione e
decomposizione delle rocce, nei movimenti dei materiali entro il suolo e nel loro
accumulo in determinate zone. E’ bene rilevare che, pur essendo la velocità della
pedogenesi assai variabile, si tratta sempre di un processo assai lento. Basti pensare che
per creare qualche centimetro di terreno occorrono secoli.
Un terreno ha un ciclo vitale che include lo studio della matrice pedologica e del
suolo immaturo o giovane, maturo e vecchio. Il suolo immaturo possiede grandi
possibilità d’ulteriori evoluzioni ed è caratterizzato da un equilibrio instabile con i fattori
pedogenetici. Il suolo maturo si trova in un equilibrio stabile con tutti i fattori di
trasformazione, indipendentemente dal fatto che essi siano o no una libera espressione
delle forze naturali. Infine, un terreno vecchio è quello che si trova in uno stadio finale o
d’estinzione ed è sottoposto a fenomeni degenerativi o regressivi.
Se le condizioni sono favorevoli, il substrato pedologico può essere trasformato in
suolo immaturo in un tempo relativamente breve, soprattutto se il materiale di partenza è
molto incoerente. Questo tempo può essere quantizzato anche in 100 anni (questa è l’età
di molti rigosuoli, ottenuti dai depositi glaciali o vulcanici non consolidati, diversi da
quelli prodotti, per esempio, dalle recenti alluvioni). Al contrario, il tempo minimo per la
formazione di un suolo bruno lisciviato è di circa 5.000 anni.
Tentativi per determinare alcuni ordini di grandezza dei tempi necessari alla
formazione di terreni che hanno raggiunto il loro grado di maturità sono stati effettuati da
diversi ricercatori.
Fiume Francesco
I risultati ottenuti, tuttavia, non possono essere generalizzati perché il fenomeno
della pedogenesi è tanto complesso che basta una piccolissima modificazione in uno dei
tanti fattori, anche il meno importante, perché i ritmi di formazione e d’evoluzione del
terreno subiscano modifiche così profonde da riflettersi anche sulla loro durata. In
condizioni climatiche estreme possono essere raggiunti traguardi molto diversi dal
terreno agrario. Il deserto o le lateriti rappresentano esempi veramente fallimentari
dell’andamento del processo di pedogenesi.
Sono questi i concetti che stanno alla base delle caratteristiche di staticità del
terreno. Affinché un terreno possa trasformarsi da giovane a maturo, fino a condizioni di
vetustà, occorrono tempi che sono sicuramente più lunghi della durata di una generazione
dell’uomo. Altrettanto si può dire per la composizione fisica del terreno, con riferimento
alle fasi di cui è costituito, che manifesta un forte legame con l’origine e quindi è da
considerare pressoché immutabile nel tempo. Quando il suolo si origina, hanno inizio
alcuni processi evolutivi, caratterizzati da un movimento di elementi minerali ed
organici, lungo tutto il profilo. Proprio attraverso questi movimenti, relativamente lunghi
nel tempo e, pertanto, statici, si ottiene la differenziazione e la stratificazione del profilo
del suolo in orizzonti, ciascuno dei quali riflette differenti processi pedologici. A tal
proposito va detto che, fra tutti i processi pedogenetici, il fenomeno della lisciviazione,
che comporta fra l’altro il trascinamento dell’argilla verso il basso, con formazione di un
orizzonte tessiturale, è senz’altro il più lento ed il più lungo nel tempo. Anche la giacitura
e l’esposizione del terreno sono elementi abbastanza statici e, a meno di grandi e
repentini sconvolgimenti, naturali o antropici, della locale superficie terrestre, possono
difficilmente subire modifiche in un tempo ragionevole. La costituzione del terreno, ossia
le dimensioni delle diverse frazioni particellari che rappresentano il suolo, è la
conseguenza di lente azioni di disgregazione e decomposizione del substrato pedologico,
non modificabili nel breve periodo.
Composizione fisica del terreno agrario
Il terreno è un corpo abbastanza definito nello spazio. Di esso si misura la
superficie, oppure, più approfonditamente, si considerano caratteristiche fisiche come la
densità, la compattezza, il potenziale dell’acqua, oppure elementi correlati come il
volume, la massa, l’umidità, la porosità. Il terreno, da un punto di vista fisico, può
considerarsi un sistema polifasico, costituito dalle seguenti parti fondamentali:
la parte solida o detritica è di varia natura. In essa si distingue una fase minerale
rappresentante la massa principale, una fase organica, costituita dai residui d’organismi
viventi in mineralizzazione, ed una fase organizzata, formata da tutti gli organismi
viventi. Essa rappresenta generalmente solo il 50%, o poco più, del volume del terreno,
mentre la parte rimanente è costituita da un sistema di pori e cavità occupato dalle fasi
liquida e gassosa;
la parte liquida, che include tutta l’acqua del terreno, è impropriamente chiamata
soluzione circolante o soluzione interstiziale. Essa è di grande importanza per la
nutrizione vegetale e la sua azione si manifesta sia direttamente, nel rifornire l’acqua
indispensabile all’attività vegetativa, sia indirettamente, come solvente o veicolo degli
elementi nutritivi, influenzando, così, l’aerazione e le proprietà termiche del suolo;
la parte gassosa o aria del terreno ha gli stessi componenti dell’aria atmosferica.
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Il terreno
Alcuni elementi gassosi, come l’azoto ed i gas nobili possono essere considerati, di
norma, presenti nella stessa composizione centesimale. La somma delle quote percentuali
d’ossigeno ed anidride carbonica è prossima al 20%, come nell’atmosfera, ma i valori
relativi ai due gas, presi singolarmente, se ne differenziano e sono tutt’altro che costanti.
Il contenuto di CO2 nella fase gassosa del terreno, in particolare, è sempre rilevabile in
quantità maggiore che nell’aria atmosferica e, mentre in quest’ultima è di poco superiore
allo 0,03%, nell’aria tellurica varia spesso tra 0,1 e 5% e più. L’acqua, allo stato
aeriforme, è generalmente presente in quantità superiore a quella dell’aria atmosferica,
poiché l’aria tellurica è praticamente sempre satura d’umidità. In condizioni riducenti è
possibile rilevare la presenza di altre sostanze allo stato gassoso come metano, acido
solfidrico ed ammoniaca.
L’importanza dei singoli costituenti dell’aria del terreno è molto variabile, perché
alcuni di essi, come i gas nobili, non avendo alcuna reattività ed essendo sempre presenti
in tracce, non svolgono alcuna attività, mentre altri, pur essendo presenti
occasionalmente (CH4, H2S, NH3), possono manifestare tossicità per le piante e per gli
organismi presenti nel terreno. L’azoto ed il vapore acqueo svolgono sempre una
funzione favorevole, giacché il primo consente lo svolgersi dei processi simbiontici ed
asimbiontici di fissazione, mentre il secondo serve per la vita delle radici, perché ne
impedisce l’essiccamento, e delle popolazioni viventi del terreno. L’anidride carbonica
svolge un ruolo favorevole perché, assorbita per via radicale, può essere utilizzata
direttamente dalle radici e consentire i processi di organicazione del carbonio,
assumendo, inoltre, un ruolo importante nella solubilizzazione degli elementi nutritivi. Il
terreno è il più grande produttore di anidride carbonica e, da un punto di vista generale,
consente, con il ritorno nell’atmosfera di questo gas, la chiusura del ciclo del carbonio.
L’ossigeno è invece, quantitativamente, l’elemento più spesso limitante e quindi più
importante dell’aria del terreno, poiché permette la respirazione delle radici delle piante,
della pedofauna e della pedoflora.
La carenza di ossigeno riduce lo sviluppo delle radici e quindi delle piante. Queste
possono anche morire, in rapporto all’immediata diminuzione e, finanche, portare
all’arresto dell’assorbimento degli elementi nutritivi, a partire dal potassio e poi calcio,
magnesio, azoto e fosforo. L’ossigeno sicuramente può considerarsi il fattore più
importante nel determinare l’approfondimento nel terreno dell’apparato radicale, anche
perché le esigenze d’ossigeno sono proporzionali alle dimensioni delle piante e
dell’apparato radicale. Sotto un certo valore della concentrazione d’ossigeno nell’aria
tellurica, che può essere stimato intorno al 2% per la maggior parte delle specie coltivate,
la pianta cessa del tutto l’accrescimento e si realizzano le condizioni di quella che si
chiama siccità fisiologica.
L’acqua del terreno e l’aria tellurica sono presenti in proporzioni reciprocamente
variabili e la variabilità del rapporto influisce sull’espressione delle proprietà chimiche e
biologiche del terreno e ne determina i limiti. Se la fase solida può essere abbastanza
stabile nel tempo, le altre due fasi possono subire repentini cambiamenti, in relazione ad
eventi naturali (precipitazioni) ed antropici (irrigazione e lavorazione del terreno).
Senza far riferimento ad una composizione atomico-molecolare del terreno, ma
considerando soltanto le leggi macroscopiche della fisica, è possibile riconoscere nel
terreno ulteriori differenti fasi: la fase adsorbita della soluzione del terreno, costituita
dall’acqua e dai soluti adsorbiti; la fase superficiale della stessa soluzione, quella che
rappresenta il confine tra il liquido e l’aria; la fase interna del corpo liquido, vale a dire la
parte liquida, abbastanza lontana dalla superficie, che separa due fasi distinte in modo da
non risentirne le interazioni; infine, tante fasi solide, costituita ciascuna da uno specifico
Fiume Francesco
minerale o composto organico. La montmorillonite, la caolinite, la calcite, un acido
umico, così, rappresentano, ciascuno, tante fasi distinte.
Nella pratica si schematizza raggruppando la parte liquida e quella gassosa in
un’unica fase omogenea detta fase fluida. La parte solida è invece eterogenea ed è
preferibile ulteriormente distinguerla in fasi, per non perdere interessanti informazioni.
Spesso non si considerano le fasi come tali, ma gli stati in cui si trova una sostanza o
elemento: il ferro può trovarsi in fase ionica ed è distinto in una fase ridotta ed ossidata,
in una fase adsorbita, in una fase amorfa o in una fase cristallina.
Origine del terreno
Il terreno agrario si forma dal disfacimento e dalla degradazione delle rocce, da cui
si ottiene direttamente la parte detritica o minerale, dalla decomposizione e
mineralizzazione della materia organica, dalla morte e disorganizzazione della materia
vivente od organizzata. Quest’ultima è formata da organismi viventi i quali, con la fine
del ciclo biologico, sono trasformati in materia organica che è a sua volta modificata.
Il processo di formazione del terreno, da un substrato pedogenetico rappresentato
dalle rocce, è detto pedogenesi. I soli processi di alterazione delle rocce e di
trasformazione dei residui vegetali non sono sufficienti per spiegare tutti i meccanismi
pedogenetici. Lo sviluppo e l’evoluzione del terreno sono processi che avvengono senza
soluzione di continuità ed i diversi tipi di suolo, presenti sulla superficie terrestre,
possono essere considerati fasi transitorie della pedogenesi in determinati momenti
dell’evoluzione delle trasformazioni.
Il processo di pedogenesi è condizionato da fenomeni fisici, chimici e biologici che
includono le trasformazioni delle rocce e dei minerali, l’accumulo e la modificazione
della sostanza organica, la rimozione ed il trasferimento delle diverse sostanze, la
formazione strutturale. Rimozioni, addizioni, trasformazioni e trasferimenti interessano i
costituenti minerali ed i composti organici, gli ossidi, gli idrossidi, gli acidi, i sali solubili
ed insolubili, i minerali argillosi. I sali solubili ed i minerali argillosi possono muoversi
lungo il profilo ed i processi d’idratazione, ossidazione, solubilizzazione, lisciviazione,
scambio ionico, precipitazione, d’omogeneizzazione e separazione inducono un elevato
numero di trasformazioni. Combinazioni di singoli processi e variazioni nell’equilibrio
fra tali combinazioni sono responsabili della variabilità e delle differenziazioni delle
proprietà del terreno.
Il terreno ha origine dalla matrice litologica, da rocce costituenti la litosfera
terrestre e da costituenti rocciosi, a seguito delle alterazioni operate dai molteplici fattori
della pedogenesi.
Le rocce sono sistemi naturali formati da aggregati di minerali (rocce eterogenee)
o, più raramente, da una sola specie minerale (rocce omogenee), costituenti masse
abbastanza cospicue, geologicamente indipendenti e tali da rappresentare elementi
essenziali della litosfera terrestre. Quelle più frequenti, le rocce eterogenee, sono formate
da diversi minerali, distinguibili a volte ad occhio nudo (per esempio nei granitied in
genere nelle rocce eruttive intrusive), talora rilevabili solo al microscopio (per esempio
nelle rocce effusive, quali i basalti o nelle rocce sedimentarie, quali le argille). Le rocce
omogenee sono essenzialmente costituite da un solo minerale, come i depositi di gesso o
di salgemma. Altri minerali possono comparirvi, ma solo con funzione accessoria e non
determinante per l’individuazione del tipo di roccia.
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Il terreno
Le rocce possono essere classificate secondo diversi criteri. Ad esempio, una
distinzione prevede la suddivisione delle rocce, sulla base del grado di coesione degli
elementi componenti, in rocce coerenti, formate da elementi tenacemente uniti tra loro,
rocce incoerenti, rappresentate dalle rocce sciolte, vale a dire ad elementi liberi (ghiaie),
rocce semicoerenti, con caratteri intermedi, ed infine rocce pseudocoerenti, quelle che si
comportano in maniera diversificata secondo la percentuale d’acqua contenuta nei pori.
La classificazione più generalmente adottata è quella genetico-mineralogica, che
tiene conto dell’origine della roccia e dell’associazione dei minerali che la compongono.
Questo tipo di classificazione prevede tre grandi categorie: le rocce eruttive, ossia
formatesi a seguito di consolidamento di masse fuse, le rocce sedimentarie, originate da
accumuli per varie cause di materiali inorganici od organici, le rocce metamorfiche,
derivanti da trasformazioni d’altre rocce preesistenti.
Le rocce eruttive sono dette anche magmatiche e sono la conseguenza del
consolidamento di masse fuse (magmi), sia in profondità nella litosfera, sia in superficie
(lave). Esse sono distinte in intrusive (o plutoniche) se il consolidamento è avvenuto per
lento raffreddamento di masse magmatiche sotto la superficie terrestre, ed effusive (o
vulcaniche), se derivate dal rapido raffreddamento di lave defluite in superficie a seguito
di manifestazioni vulcaniche.
Le rocce eruttive, intrusive ed effusive (in queste ultime distinguendosi le rocce
dovute a lave giunte in superficie già parzialmente cristallizzate e quelle dovute a lave
giunte in superficie ancora completamente fuse), sono indicate nella tabella 2, nella quale
è riportata la denominazione della roccia ed i principali componenti mineralogici.
Tab. 2 – Classificazione schematica delle rocce eruttive.
Rocce intrusive
Componenti mineralogici principali
Rocce effusive
Graniti
Quarzo, ortoclasio, plagioclasio sodico, Porfidi quarziferi
miche, a volte anfiboli e pirosseni
Rioliti
Lipariti
Granodioriti
Plagioclasio sodico, ortoclasio,
miche, anfiboli, a volte pirosseni
Sieniti
Feldspato alcalino, miche, anfiboli, in Porfidi sienitici
varietà a leucite o nefelina
Trachiti
Dioriti
Plagioclasio sodico-calcico, miche, anfiboli, Porfiriti
pirosseni
Andesiti
Gabbri
Plagioclasio ricco di calcio, pirosseni, Diabasi
anfiboli, olivina
Melafiri
Basalti
Peridotiti
Olivina, pirosseni, anfiboli
quarzo, Porfiriti quarzifere
Daciti
Picriti
Le rocce sedimentarie derivano dal deposito (sedimentazione) di materiali diversi e
di varia origine. Tali materiali provengono dalla disgregazione di rocce preesistenti, da
accumuli di resti animali e vegetali, da precipitazione di sali per evaporazione dell’acqua,
dalle combinazioni di tutte le possibilità citate. Quando la sedimentazione avviene
rapidamente si originano depositi caotici e debolmente stratificati. Al contrario, la lenta
sedimentazione di materiali di piccolissime dimensioni o derivati da precipitazione
chimica origina stratificazioni sottili. Le rocce sedimentarie si distinguono in: a)
Fiume Francesco
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sedimentarie clastiche, quelle che hanno subito prima la degradazione fisica, chimica e
chimico-fisica a causa di molteplici agenti naturali; poi il trasporto per merito degli stessi
elementi che hanno prodotto la degradazione oppure ad opera soltanto della forza di
gravità; poi la sedimentazione o deposizione, sia marina sia continentale; infine, la
diaginesi, cioè quel complesso di fenomeni che trasforma un sedimento in roccia per
ricristallizzazione, per cementazione, per metasomatosi (ad esempio la trasformazione di
un deposito calcareo in dolomia); b) sedimentarie d’origine chimica che si sono originate
a causa di massicce precipitazioni di sali per evaporazione dell'acqua; c) sedimentarie
organogene o biogeniche, formate da depositi di resti animali di grandi e piccole
dimensioni, nelle quali è ancora possibile individuare la forma dell’animale oppure ciò
non è più possibile a causa di una generalizzata cristallizzazione (carboni fossili, farina
fossile, fosforiti).
Tab. 3 – Classificazione schematica delle rocce sedimentarie clastiche.
Tipi
Forma
elementi
Incoerenti
Coerenti
Piroclastiche
Incoerenti
Psefitiche (oltre il
angolosi
75% di elementi con
φ > 2 mm)
Blocchi
Breccione
Blocchi vulcanici
Detriti
Brecce
Proietti vulcanici
Ciottoli
Conglomerati Lapilli vulcanici
Ghiaie
Puddinghe
Morene
Tilliti
Tufi incoerenti
Sabbie
Arenarie
Sabbie vulcaniche Tufi arenacei
φ mm 0,02- Limo
0,1
Marne
Polveri vulcaniche Cineriti
Melma
φ mm
0,002-0,02
Ardesie
Pulviscolo
vulcanico
Argilla
Argilliti
tondi
Psefiti pelitiche
angolosi e
tondi
Psammitiche (oltre angolosi
75% di elementi con e/o tondi
φ di 0,1-2 mm)
Pelitiche (φ < 0,1
mm)
Coerenti
Brecce
vulcaniche
Tufi lapidei
Ftaniti
Le rocce clastiche comprendono i conglomerati (frammenti litici arrotondati e
smerigliati), le arenarie (formate da materiali sabbiosi), le siltiti e le argilliti (costituite da
particelle microscopiche). In molti casi le arenarie sono costituite essenzialmente
daquarzo e, se sono cementate da silice, sono classificate con il nome di quarziti. Le
arcosi e le grovacche sono invece caratterizzate dalla presenza di elevate quantità di
feldspati.
La variabilità estrema della composizione delle rocce clastiche, circa la quota dei
diversi tipi litologici (quarzo, silice e feldspati), comporta spesso una difficoltà di
accordo. Si può tuttavia ritenere che la quota di quarzo ammonti all’incirca al 30% delle
arenarie presenti sulla crosta terrestre, quella di quarzo al 15% e quella di feldspati al
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Il terreno
55%. Nella tabella 3 è riportata la composizione delle principali rocce clastiche. Un tipo
di roccia clastica è rappresentato dalle rocce piroclastiche, in cui gli elementi costitutivi
sono di origine vulcanica. Nella tabella 4 è rappresentata la composizione schematica
delle rocce sedimentarie di deposito chimico.
Tab. 4 – Classificazione schematica delle rocce sedimentarie di deposito chimico.
Natura
Tipi
Componenti principali
Salina
Evaporiti
Salgemma NaCl, KCl, KMgCl · 6H2O
Calcarea
Evaporiti
Gesso
CaSO4 · 2H2O
Anidrite
CaSO4
Calcari
cristallini
CaCO3
Ooliti
Pisoliti
Alabastro
Calcare
concrezionato
CaCO3 + impurezze
Travertino
Panchina
Dolomitica
Carniole e Dolomie
CaMg(CO3)2 + impurezze
Silico-ferrifera
Ooliti
3FeO · Al2O3 · 2SiO2 · 3H2O
Silico-alluminifera Laterite
SiO2 + Al2O3 + Fe2O3 + H2O
Silicea
SiO2
Geyserite
Va ancora detto che, a differenza delle rocce eruttive, le rocce sedimentarie si
presentano in genere stratificate e contengono fossili che sono determinanti per la loro
datazione e per quella delle altre rocce, con esse in rapporti stratigrafici e spaziali. Nella
tabella 5 si riporta lo schema di classificazione delle rocce sedimentarie organogene.
Le rocce metamorfiche sono quelle che derivano da preesistenti rocce sedimentarie
o eruttive, a seguito di una loro trasformazione più o meno profonda. Tale cambiamento
può avere come conseguenza la formazione di nuove associazioni mineralogiche, la
modificazione della forma e delle dimensioni dei granuli, con ricristallizzazione dei
minerali, la modificazione della tessitura della roccia, con disposizione sub-parallela dei
minerali e l’assunzione di un tipico andamento detto scistosità.
E' noto un metamorfismo di contatto, un dinamometamorfismo e un metamorfismo
regionale. Il metamorfismo di contatto si ha quando in una roccia avviene l’intrusione di
materiale magmatico, con formazione, attorno alla massa eruttiva, di un’aureola
metamorfica, dove il tipo e l’intensità delle trasformazioni decrescono con l’aumentare
della distanza dall’elemento metamorfico. L’aumento di temperatura (da poche centinaia
di gradi fino ad oltre 800 °C) è sufficiente a determinare la fusione di quasi tutte le rocce
ed a provocare la formazione di nuovi minerali. La zona prossima all’intrusione vede una
Fiume Francesco
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completa cristallizzazione, con formazione di rocce a grana minuta dette cornubianiti,
mentre alcuni minerali, stabili solo a basse temperature, si trasformano in altri a diversa
composizione molecolare. Nelle argille si formano minerali alluminiferi, i calcari
forniscono il calcio per i silicati di calcio oppure ricristallizzano dando luogo alla
formazione di un marmo. Quando il metamorfismo avviene con apporto di nuova
sostanza, che reagisce con quella della roccia trasformata, esso prende il nome di
metasomatosi.
Tab. 5 – Classificazione schematica delle rocce sedimentarie organogene.
Bioclastiche
Tipi
Natura
Incoerenti
Calcarea e
Melme calcaree e
Dolomitica
Depositi conchigliari
Origine
Autoctone
Coerenti
Calcare biochermale (forme
bentoniche)
Calcare biostromale (forme
pelagiche e bentoniche)
Calcare pelagico (forme
pelagiche)
Alloctone
Calcirudidi
Calcareniti
Biochimiche
Fosfatica
Brecce ossifere
Carboniosa
Torba
Carboni fossili
Silicea
Melme a radiolari
Radiolari e diaspri
Melme a spongiari
Spongoliti e selci
Melme a diatomee
Diatomiti
Farina fossile
Tripoli
Fosfatica
Guano
Fosforiti
Bituminosa
Petrolio e gas
Bitumi e piroscisti
Il dinamometamorfismo si ha quando una roccia è sottoposta a pressioni. Tali
pressioni, se sono di tipo idrostatico, determinano nella roccia una riduzione di volume,
la perdita d’acqua di cristallizzazione (ad esempio il gesso passa ad anidrite) e
frantumazione; quando hanno un andamento preferenziale si determina nella roccia la
scistosità. Si ha un metamorfismo regionale quando la temperatura e la pressione si
associano determinando, nelle grandi aree orogenetiche e su sedimenti di geosinclinale in
lento sprofondamento, deformazioni, appiattimenti e ricristallizzazioni. Tali sedimenti
sono in genere arenarie, argille e calcari i cui minerali sono modificati, perdono gli
elementi volatili e – mentre si sommano le azioni di temperatura, pressione e
metasomatosi – le rocce che intanto si formano, caratterizzate da completa
ricristallizzazione e da scistosità, sono denominate scisti cristallini. Questi ultimi sono
rocce rappresentative del grado medio di metamorfismo regionale, formatesi da
sedimenti che, caratterizzati dalla presenza di notevoli quantità d’alluminio, hanno
favorito la genesi di minerali micacei.
Le rocce di metamorfismo regionale sono di basso grado metamorfico se si
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Il terreno
formano sotto condizioni d’alta pressione e di temperatura poco elevata; in tal caso
presentano scarso materiale neogenetico e sono ricche di minerali originari. Le rocce
presentano un medio grado metamorfico se si sono originate sotto temperature più alte e
presentano un’intensa ricristallizzazione, una tessitura grossolana, una disposizione
parallela di minerali definiti da morfologia lamellare (miche) o allungata (orneblende).
Infine, le rocce hanno un alto grado metamorfico quando sono definite da grana
grossolana, zonalità evidente ed una non chiara orientazione planare.
Quasi tutte le rocce metamorfiche mostrano l’influenza combinata della
deformazione meccanica e della ricristallizzazione chimica, differenziandosi per
l’intensità degli effetti dei due processi. Le rocce metamorfiche, che si originano
principalmente per deformazione meccanica, sono denominate cataclastiche e, in
relazione al fatto che le interazioni chimiche sono poco pronunciate, tutte le strutture
presenti e l’orientazione dei minerali sono definite dall’intensità delle modificazioni
subite dai materiali preesistenti.
Le ardesie sono di basso grado metamorfico e la ricca presenza di mica e
fillosilicati cloritici è indice d’elevato contenuto d’alluminio. Gli scisti sono di medio
metamorfismo regionale e si sono formati da sedimenti argillosi che hanno favorito la
costituzione di materiali micacei. Gli gneiss sono tipiche rocce di elevato grado di
metamorfismo, a tessitura grossolana e costituiti da minerali differenti che presentano,
per il loro orientamento cristallografico, un andamento planare definito foliazione.
Nella tabella 6 è sintetizzata la classificazione schematica delle principali rocce
metamorfiche.
Tab. 6 – Sintesi schematica della classificazione delle rocce metamorfiche.
Tipo di roccia
madre
Silicea (arenaria)
Silicoalluminifera
(argille e rocce
acide)
Calcica (calcari)
Metamorfismo di contatto
Zona di
contatto
Zona
media
Zona esterna
Quarziti
Cornubianiti Scisti
Scisti
micacei maculati
Marmi
Metamorfismo regionale
Epizona
Mesozona
Catazona
Quarziti
Gneiss
quarzoso
Gneiss
feldspatico
Ardesie
filladi
Micascisti Gneiss
sillimanitico
Marmi e
Calcefiri
Allumo-calcio- Cornubianiti Marmi Marne a
magnesiaca
Calcefiri chiazze
(marne, rocce
eruttive basiche,
dolomie)
Oficalci
Cipollini Anfiboliti
Scisti verdi Scisti
Granatiti
Prasiniti
anfibolici Eclogiti
Ferromagnesiaca
(rocce eruttive
ultrabasiche)
Cloritoscisti Scisti
Pirosseniti
Talcoscisti Antofillite
Serpentine
Le rocce, sotto l’azione di numerosi processi di alterazione meccanici, fisici e
chimici, danno origine ad una massa inconsolidata che va a costituire la roccia madre. Da
Fiume Francesco
questa, per l’azione dei fattori della pedogenesi e dei processi pedogenetici, prende
origine il terreno.
La roccia madre può essere molto sviluppata (per esempio, in presenza di rocce
tenere ed incoerenti) o ridotta ad un sottile strato o addirittura mancare (per esempio,
quando vi sono rocce dure e compatte, per le quali il processo di alterazione è tanto lento
da andare di pari passo con la formazione del suolo).
L’influenza esercitata dalla roccia madre si rivela maggiormente nei suoli giovani o
soggetti a continui ringiovanimenti, quando i processi di alterazione delle rocce e dei
minerali hanno una prevalenza sui processi di evoluzione della pedogenesi.
Nel caso di suoli molto evoluti, sufficientemente profondi e morfologicamente
piuttosto complessi, altri fattori – come l’apporto di nuovi materiali (d’origine
piroclastica, alluvionale, eolica, animale ed antropica), oppure profonde variazioni
climatiche oppure ampi sconvolgimenti di masse di vegetazione – possono prendere il
sopravvento sui processi pedogenetici di alterazione delle rocce ed imprimere al terreno,
almeno negli strati più superficiali, caratteri molto distanti dal materiale litologico da cui
si sarebbero originati.
Nelle regioni a clima molto caldo (deserti) o intensamente freddo (tundra),
l’influenza della roccia madre sulle caratteristiche del suolo è poco sentita, mentre nelle
regioni temperate, i legami di varia natura, morfologici e strutturali, tra la roccia madre
ed il terreno sono molto più stretti.
Il disfacimento delle rocce avviene a seguito di un processo di disgregazione e di
decomposizione. La disgregazione consiste nel passaggio della roccia dallo stato continuo
e compatto allo stato discontinuo e detritico. La decomposizione consiste in un processo
per il quale i composti complessi, costituenti le rocce, si trasformano in composti più
semplici, fino allo stato di elementi o di semplici raggruppamenti chimici che passano in
soluzione come ioni. La disgregazione avviene per azioni meccaniche e fisiche, senza
operare modificazioni chimiche, mentre la decomposizione si realizza per l’effetto lento
ed incessante delle azioni chimiche.
DISGREGAZIONE DELLE ROCCE
I minerali allo stato cristallino hanno raggiunto una posizione d’equilibrio con le
condizioni d’umidità, temperatura e pressione ambientale che ne assicurano la stabilità.
Nel momento in cui cambia anche uno solo di questi fattori, mutano i rapporti
d’equilibrio ed i minerali tendono a raggiungere un nuovo punto di stabilità che può
portare alla costituzione di nuove forme. I processi d’alterazione delle rocce sono
dominati da fenomeni di tipo fisico e chimico che spesso si manifestano
contemporaneamente, sommando le loro azioni o dando luogo ad effetti sinergici. I
processi di disgregazione delle rocce sono basati sugli effetti dei soli fenomeni meccanici
e fisici i quali, di norma, sono molto veloci e spesse volte spettacolari. Così, la lenta
caduta di pietrisco oppure il repentino staccarsi di grossi massi dalle pareti delle rocce,
oppure l’azione di molti agenti atmosferici, del fuoco, della cristallizzazione delle
soluzioni saline e di molte altre attività, naturali ed antropiche, portano, come risultato
finale, ad un incessante sminuzzamento del materiale originario, che può raggiungere
finanche dimensioni inferiori al millimetro. La disgregazione delle rocce determina
modificazioni profonde nella frattura, nelle forme e nelle dimensioni, ma la struttura
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Il terreno
molecolare e la composizione chimica e mineralogica rimangono invariate e simile a
quella dei materiali di partenza. La disgregazione, quindi, porta alla frantumazione del
substrato pedogenetico ed all’aumento della superficie di contatto con gli agenti
atmosferici, con l’acqua tellurica e con tutti gli altri elementi in grado di realizzare il
successivo gradino d’alterazione delle rocce, completando il processo formativo del
terreno attraverso modificazioni d’ordine chimico e chimico-fisico.
Gli agenti che operano azioni di disgregazione e quindi trasformazioni d’ordine
meccanico e fisico delle rocce sono l’acqua, la temperatura, il vento, la cristallizzazione,
la forza di gravità e gli organismi viventi.
Acqua
L’acqua agisce allo stato d’idrometeora, come acqua di dilavamento, come acqua
corrente, come acqua marina e come acqua allo stato di ghiaccio.
L’acqua, come idrometeora, ha un grande effetto sui processi di disgregazione delle
rocce. Come pioggia, provoca sulla roccia un’azione diretta di picchettìo e, poi,
infiltrandosi, determina lo scoscendimento delle rocce tenere e poco compatte (frane).
Allo stato di rugiada, negli ambienti dove le cosiddette precipitazioni occulte sono
imponenti, l’acqua provoca la mobilizzazione dei sali igroscopici impregnanti le rocce.
Questi sali, giungendo successivamente nei pori e negli interstizi delle rocce e sottoposti
a ricristallizzazione, esercitano un’azione meccanica, con successiva frantumazione del
materiale roccioso.
Nei processi di disgregazione delle rocce, non soltanto l’origine dell’acqua ed il
suo stato fisico sono importanti, ma anche le variazioni della sua quantità. Grandi
acquisti d’acqua meteorica o di precipitazione occulta, come la rugiada, che seguono ad
imponenti perdite causate da prolungati periodi di siccità, esercitano un’enorme azione
dirompente e lacerante delle masse argillose a causa del periodico alternarsi dei processi
d’espansione e di contrazione.
L’acqua di dilavamento è quella che scende in forma di velo lungo i declivi dei
rilievi orografici, provocando una blanda erosione che diventa significativa nel tempo.
L’acqua corrente, come quella fluviale, determina un processo d’erosione
enfatizzato dall’intensa azione abrasiva dei materiali che trasporta in sospensione. Il
risultato che si ottiene è una lenta e continua frantumazione, levigazione e
polverizzazione.
L’acqua marina provoca abrasione a seguito del moto ondoso e del trasporto di
materiale con le mareggiate.
Il ghiaccio causa un notevole aumento di volume dell’acqua insinuatasi nelle
fessure delle rocce e dà luogo a forti pressioni e ad un successivo disfacimento del
materiale quando, poi, l’acqua torna allo stato liquido. E’ noto che l’acqua, alla
temperatura di 4 °C ha la massima densità ed occupa il minimo volume. Ciò aumenta
nella misura di 1/11 nel passaggio dallo stato liquido a quello solido, pari al 9%. Le
conseguenze della dilatazione sono evidenti nelle zone a clima freddo, dove l’alternanza
dello stato solido e liquido dell’acqua manifestano un’evidente azione disgregante a
livello dei pori capillari, negli interstizi e nelle cavità delle rocce (crioclasi).
In generale, l’acqua è un fattore di disgregazione delle rocce più intenso nelle
formazioni rocciose a struttura granulare che in quelle vetrose e compatte, per il semplice
fatto che le prime riescono a trattenerne una maggior quantità.
Fiume Francesco
Temperatura
Le oscillazioni della temperatura inducono disgregazione (termoclasi) delle masse
rocciose, operando dilatazioni e contrazioni differenziate. Il meccanismo avviene in
rapporto alla conducibilità termica ed al coefficiente di dilatazione e contrazione delle
rocce.
La conducibilità termica delle rocce, poiché i materiali rocciosi presentano valori
di conducibilità termica molto bassi, induce un più elevato e rapido riscaldamento o
raffreddamento degli strati superficiali rispetto a quelli più interni, in rapporto alle
oscillazioni termiche giornaliere. Passando, pertanto, bruscamente da una forte
dilatazione, che si verifica durante il giorno, ad una notevole contrazione, che si verifica
durante la notte, le rocce subiscono un contrasto di tensioni tra i settori superficiali e
quelli più profondi proprio a causa della bassa conducibilità calorifica. Le rocce
sollecitate in tal modo si fendono e si desquamano. L’effetto è più evidente quanto più
alta è l’escursione termica e quanto più scuro è il colore delle rocce. In generale, sotto
l’azione dei raggi solari, le rocce scure si riscaldano di più delle rocce chiare e,
conseguentemente, si raffreddano più rapidamente.
Il coefficiente di dilatazione ed il coefficiente di contrazione, essendo diversi per
ciascun minerale costituente le rocce composte, inducono una dilatazione (a seguito
dell’aumento della temperatura) o una contrazione (all’abbassamento della temperatura)
differenziata. Per questo motivo, il minerale che si dilata o si contrae di più esercita una
notevole azione disgregante nella massa dei minerali circondanti, causando una riduzione
della coesione e la produzione di detriti più fini, finanche sabbiosi. La variazione del
volume e della forma cui sono sottoposti i diversi costituenti litici di un sistema roccioso,
il complesso di pressioni e di contropressioni che si verifica nei vari punti, il contrasto di
tensioni, che si stabilisce in ogni senso ed in ogni direzione, causato dalla temperatura, in
conseguenza dell’irraggiamento solare, ha come risultato uno sfaldamento tanto più
profondo quanto più è varia la composizione mineralogica della massa rocciosa e più
differenziato il colore dei minerali costitutivi.
Vento
Il vento contribuisce alla degradazione fisica delle rocce, sia col favorire il distacco
di frammenti in bilico, sia col favorire un ulteriore sminuzzamento a seguito della
percussione del materiale in sospensione, asportandone le parti più deboli e facendo
perdere coesione. Specificatamente, il vento agisce per effetto della:
1) Deflazione quando proietta con forza le particelle sospese nell’aria contro le
masse rocciose, operando una vera abrasione.
2) Corrasione quando le stesse particelle sospese intaccano e levigano il materiale
roccioso.
Il vento agisce in maniera diretta contro un ostacolo roccioso, esercitando una
pressione che cresce col quadrato della velocità. Un forte vento può esercitare una
pressione di 100-200 kg/cm2, rendendo possibile il crollo di rocce non saldamente fissate
alla restante massa.
L’azione del vento può essere ulteriormente incrementata in relazione alla densità
dell’aria, all’angolo d’incidenza con la superficie colpita ed alla forma di quest’ultima.
Il vento rotola, trascina, solleva, trasporta e depone le particelle che riesce a
muovere. Esso può sollevare granuli di sabbia di 0,2 mm di diametro, alla velocità di 5-6
m/s, fino a granuli di 2-3 mm e frammenti ancora più grossi, ad una velocità di 28-22
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Il terreno
m/s. Il pulviscolo sollevato e spostato è abbandonato nelle vicinanze ma può anche
raggiungere grandi distanze. E’ noto che la sabbia desertica africana possa ritrovarsi,
dopo periodi di scirocco, nelle nostre città.
Cristallizzazione
L’azione dirompente sulle masse rocciose esercitata dalla cristallizzazione sembra
avere non trascurabile portata nei paesi desertici subtropicali. Qui, i sali solubili, neutri o
alcalini, che impregnano le rocce, sottraggono, in virtù del loro potere igroscopico,
l’umidità dell’ambiente durante il periodo notturno, quando si verificano considerevoli
precipitazioni occulte, sotto forma di rugiada. I sali solubili, in tal modo mobilizzati,
penetrano nei pori e negli interstizi delle rocce. Col ripristinarsi dell’evaporazione diurna,
sotto l’azione dell’intensa insolazione, i sali cristallizzano nuovamente ed aumentano di
volume. Segue, pertanto, un’azione meccanica di disgregazione sulla massa rocciosa non
dissimile da quella già citata del ghiaccio.
Forza di gravità
In ambienti a morfologia accidentata, la forza di gravità favorisce la caduta ed il
distacco di parti cui sono venute meno le forze di coesione. Sui declivi, anche lievi, le
masse detritiche, particolarmente quando imbevute d’acqua, danno luogo ad un
impercettibile movimento detto di strisciamento del detrito o solifluizione, se lo
spostamento è di qualche centimetro l’anno, e di fluitazione del detrito, se il movimento è
di un centinaio di metri l’anno.
Organismi viventi
Molti organismi viventi sono in grado di operare un’azione meccanica di
disgregazione delle rocce.
Questi sono organismi inferiori e superiori, vegetali ed animali. Su di una massa
rocciosa è difficile che si verifichi la possibilità di vita per le piante superiori. Alghe,
muschi e licheni possono, tuttavia, insediarsi ed operare fessurazioni e sgretolamenti
iniziali.
In particolare i licheni, che rappresentano un’associazione simbiotica tra
cianobatteri e funghi oppure tra alghe e funghi, come poi dettagliatamente si vedrà, si
estendono in superficie ed in profondità, inducendo caratteristiche di spugnosità nella
roccia.
Il lichene può spingere le ife fungine da pochi millimetri fino a 3 cm di profondità,
dipendendo ciò dalle caratteristiche della roccia stessa (durezza, compattezza), ed
esercitare pressioni tali da indurre sgretolamento.
Ciò consente di ottenere una minima quantità di terriccio in grado di accogliere e
dar vita a piante più esigenti. Queste ultime, fra l’altro, continuano ad agire per via
meccanica con le proprie radici, le quali possono penetrare con forza nelle fessure ed
operare ulteriore disgregazione delle rocce. D’altra parte è ben noto l’effetto meccanico,
causato dalla pressione esercitata dalle radici delle piante, sui muri di abitazioni o sulle
recinzioni di orti e giardini, ma anche sulla massicciata di strade e piazze alberate. Basti
pensare che la pressione di turgore delle cellule radicali può raggiungere 10 atmosfere e
che le radici più grosse di un albero, in pieno sviluppo, esercitano pressioni laterali pari a
10-15 kg/cm2. Non va dimenticata l’azione dell’uomo il quale, con mezzi meccanici,
anche d’elevata tecnologia, è in grado facilmente di disgregare una massa rocciosa.
Fiume Francesco
DECOMPOSIZIONE DELLE ROCCE
La decomposizione delle rocce è una parte fondamentale del processo
pedogenetico. Essa avviene attraverso lente e profonde trasformazioni chimiche del
materiale litologico, in cui i composti complessi, rappresentati dai minerali costitutivi, a
seguito di reazioni chimiche, sono trasformati in composti più semplici, eventualmente
fino allo stato di elementi.
Specificamente, la decomposizione della roccia porta alla demolizione dell’edificio
molecolare dei silicati a sviluppo tridimensionale (tectosilicati) fino a composti di
struttura semplice, soggetti a dilavamento e trasporto, rappresentati dai minerali argillosi
a sviluppo bidimensionale (caolinite, montmorillonite, illite e molti altri), ottenuti
attraverso i processi di nucleazione e silicizzazione.
I fenomeni chimici sono notevolmente più importanti poiché, al contrario dei
fenomeni fisici, sono meno appariscenti e più lenti nella loro azione, ma sono capaci
d’incidere profondamente sulla costituzione dei minerali, i quali subiscono profonde e
radicali modifiche.
Molti dei nuovi minerali, ottenuti dalla disgregazione e decomposizione della
roccia madre, possiedono il carattere della colloidalità e determinano quindi un ulteriore,
enorme incremento dello sviluppo della superficie di contatto e della capacità d’agire ed
interagire con l’ambiente circostante.
L’alterazione delle rocce è causata in maggior misura dall’azione di
decomposizione (azione chimica) rispetto al processo di disgregazione (azione fisicomeccanica). Va chiarito, tuttavia, che tanto più è stato intenso il processo di
disgregazione cui la massa rocciosa è stata sottoposta, tanto più rapido sarà il processo di
decomposizione che porterà poi alla formazione del terreno naturale o agrario. Alla
presenza di substrati poco coerenti che, ad esempio, si lasciano facilmente attraversare
dall’acqua, i tempi di formazione del suolo diventano relativamente brevi e più
facilmente si realizza la possibilità di raggiungere la condizione di maturità di un suolo. A
tal proposito, sono tipici i litosuoli (terreni di debole spessore posti su rocce molto dure),
i rendzina (terreni con un orizzonte superiore umifero poggiato su rocce molto calcaree)
ed i suoli che si originano sulle ceneri vulcaniche o su altro materiale incoerente.
Va quindi rilevato che mentre gli agenti fisico-meccanici, a causa del processo di
disgregazione delle rocce, non apportano nessuna modificazione e trasformazione a
livello di composizione mineralogica, gli agenti chimici, fattori pedogenetici di
decomposizione, inducono profonde modificazioni della composizione dei minerali, con
la formazione di composti diversi da quelli della roccia d’origine.
La decomposizione delle rocce, già sottoposte o meno agli operatori della
disgregazione, avviene a causa di fattori pedogenetici rappresentati dall’acqua,
dall’ossigeno e dagli agenti biologici. Processi di chelazione e di scambio ionico
assumono una certa importanza nel favorire la decomposizione e l’attacco dei materiali
primari.
Spesso la decomposizione avviene contemporaneamente alla disgregazione delle
rocce, con fenomeni additivi e di trasformazione della matrice litologica, più o meno
veloci, fino alla formazione dell’elemento terreno.
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Il terreno
Acqua
E’ il fattore più importante di decomposizione delle rocce. Senza acqua, non è
possibile che le rocce possano decomporsi. L’acqua è in grado d’indurre profonde
modificazioni della massa rocciosa dei terreni in via di formazione e di quelli coltivati.
L’acqua agisce attraverso il potere solvente, idrolizzante, idratante e disidratante.
Il potere solvente dell’acqua si esercita su tutti i materiali rocciosi poiché non
esistono sostanze assolutamente insolubili, soprattutto se ciò si rapporta alla temperatura
ed allo stato di disgregazione della roccia. La capacità solvente dell’acqua è tanto più
elevata quanto più alta è la temperatura ed è tanto più manifesta quanto più estesa è la
superficie di contatto e più poroso e permeabile è il substrato roccioso.
Le caratteristiche di solubilità in acqua dei minerali costituenti le rocce sono
differenti. Esistono, infatti, in natura minerali pressoché insolubili in acqua, come il
quarzo e l’apatite, ed altri molto sensibili all’azione solvente dell’acqua, come il
salgemma, la carnallite la cainite, la silvina, i nitrati. Scarsa solubilità presenta il gesso ed
il calcare. Tuttavia, il potere solvente dell’acqua può notevolmente incrementarsi, per la
presenza di elementi o composti presenti in soluzione. Così l’anidride carbonica,
l’ossigeno, i sali e le basi inorganiche ed organiche possono influenzare la capacità
solubilizzante dell’acqua. Se il calcare (CaCO3) si solubilizza in acqua nel rapporto di
1/3·10-3, lo stesso minerale diventa solubile in acqua satura di CO2 nel rapporto di
1/3·10-1. L’anidride carbonica trasforma il carbonato di calcio (pressoché insolubile) in
bicarbonato (molto solubile) secondo la seguente reazione:
CaCO3 + CO2 + H2O ➜ Ca(HCO3)2
La stessa reazione è reversibile, nel senso che la diminuzione della tensione
superficiale dell’anidride carbonica nell’acqua, l’evaporazione del solvente e
l’incremento della temperatura, possono far riprecipitare il bicarbonato come carbonato
che viene, così, ridepositato:
Ca(HCO3)2–CO2–H2O ➜ CaCO3
La prima reazione è la principale causa di quello che si chiama fenomeno carsico,
così chiamato perché è ampiamente presente sulle Alpi carsiche dove è possibile
ritrovare, diffusamente, ampie cavità nello spessore delle rocce. Grandi quantità di
calcare sono mobilizzate dall’acqua la quale, penetrando nelle fratture delle rocce, le
impoverisce di calce, in relazione alla fluttuazione della temperatura ed alle variazioni
della concentrazione d’anidride carbonica. Non di rado, oltre al carbonato di calcio, sono
ampiamente asportate anche le altre basi solubili ed in sito rimane un residuo insolubile.
Il risultato conseguente è la formazione di quelle che si chiamano terre rosse.
Infine, va ricordato il ruolo dell’ossigeno solubilizzato in acqua che ossida i metalli
in ossidi, a loro volta idratati in basi o idrossidi, e trasforma i sali più ridotti (solfuri,
solfiti, nitriti) in sali più ossidati (solfati, nitrati). Non va dimenticata, inoltre, la capacità
di certi sali di migliorare ed aumentare il potere solvente dell’acqua; basti pensare ad
una soluzione acquosa satura di cloruro di sodio che triplica la solubilità del gesso
rispetto al solo solvente.
Fiume Francesco
Il potere idrolizzante dell’acqua consiste nel fatto che il liquido idrolizza
lentamente alcuni minerali, i più importanti dei quali sono costituiti da silicio. I minerali
costituenti la crosta terrestre e contenenti silicio sono oltre il 90%, mentre quelli privi di
tal elemento hanno parte assai limitata nella formazione delle matrici del terreno agrario.
L’idrolisi più importante è quella che avviene a carico di silicati primari, come i feldspati
ed i feldspatoidi, con la formazione di silicati acidi di metalli terrosi (alluminio e ferro),
alcalini (potassio e sodio) ed alcalino-terrosi (calcio e magnesio) che danno luogo
all’argilla vera e propria se a struttura prevalentemente colloidale ed al caolino se a
struttura prevalentemente cristallina (decomposizione argillosa o caolinizzazione delle
rocce silicate). La reazione d’argillificazione o caolinizzazione può così rappresentarsi:
2KAlSi3O8 + 2H2O ➜ 2AlHSiO4 + K2H2SiO4 + 3SiO2
Nella reazione, l’ortoclasio (metatrisilicato doppio d’alluminio e potassio) è
idrolizzato ad ortosilicato acido d’alluminio, ortosilicato acido di potassio e silice. Tale
reazione è tipicamente predominante nelle regioni a clima temperato.
La reazione idrolitica, cosiddetta di decomposizione di laterizzazione,
predominante nelle regioni a clima tropicale, può essere così schematizzata:
2KAlSi3O8 + 4H2O ➜ K2H2SiO4 + 5SiO2 + 2Al(OH)3
in cui, dall’ortoclasio, si ottiene ortosilicato acido di potassio, silice e idrargillite
(idrossido di alluminio), sotto forma cristallina, la quale, associata al diasporo (AlO·OH),
all’allumogelo (gelo di ossido di alluminio idratato con un numero variabile di molecole
d’acqua) ed a vari idrossidi di ferro, costituisce le bauxiti, le lateriti e molti sedimenti
argillosi e prodotti di alterazione allo stato colloidale. L’ortosilicato acido di potassio,
prodotto d’idrolisi delle due precedenti reazioni, può subire ulteriore decomposizione, in
presenza d’anidride carbonica:
K2 H2SiO4 + CO2 ➜ K2CO3 + SiO2 + H2O
con formazione di carbonato di potassio, silice e acqua. Tale reazione avviene
massicciamente nei climi tropicali umidi.
I silicati, essendo i composti più rappresentati nei minerali della parte esterna della
litosfera, sono stati presi ad esempio di come avvengono alcune reazioni d’idrolisi e di
decomposizione sopra riportate. Essi sono considerati, sotto l’aspetto chimico, sali di
acidi silicilici la cui possibile presenza è stata testimoniata dalla composizione dei vari
silicati esistenti in natura.
Il silicio, il secondo componente (27,61%), dopo l’ossigeno (46,48%), dei primi 16
km della crosta terrestre, compreso nel quarto gruppo della tavola degli elementi, insieme
al carbonio, può comportarsi come metallo – perciò ossidandosi dà luogo ad ossido di
silicio o silice (costituente da sola il 12% della massa superficiale della crosta terrestre),
rappresentata nel quarzo e nel calcedonio – oppure come metalloide, per dar luogo, per
ossidazione, ad anidride di silicio:
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Il terreno
Si + O2 ➜ Si O2
silicio + ossigeno ➜ ossido di silicio
L’ossido di silicio (silice), per idratazione, dà luogo a idrossido di silicio, di cui è
costituito l’opale:
SiO2 + 2H2O ➜ Si(OH)4
Ossido di silicio + acqua ➜ idrossido di silicio
La reazione d’idratazione dell’anidride silicica dà luogo ai diversi acidi silicici.
Produce acido metasilicico, i cui sali sono i metasilicati:
SiO2 + H2O ➜ H2SiO3
La silice produce acido ortosilicico, i cui sali sono gli ortosilicati:
SiO2 + 2H2O ➜ H4SiO4
Produce, inoltre, acido metadisilicico, i cui sali sono i metadisilicati:
2SiO2 + H2O ➜ H2Si2O5
Dà luogo, ancora, ad acido diortosilicico, i cui sali sono i diortosilicati o
pirosilicati:
2SiO2 + 3H2O ➜ H6Si2O7
Costituisce acido metatrisilicico, i cui sali sono i metatrisilicati:
3SiO2 + 2H2O ➜ H4Si3O8
Aumentando le molecole d’anidride silicica e d’acqua si ha l’acido tetrasilicico,
pentasilicico, esasilicico.
I minerali contenenti tali silicati, in relazione alla distribuzione nel reticolo
cristallino, danno luogo ai nesosilicati (olivine e granati), sorosilicati (epidoti e
tormaline), inosilicati (pirosseni e anfiboli), fillosilicati (miche, cloriti, serpentino, talco e
molti minerali dell’argilla, del gruppo della caolinite e della montmorillonite) e
tectosilicati (feldspati, feldspatoidi e zeoliti).
Il potere idratante e disidratante consiste nel fatto che l’acqua è in grado di entrare
direttamente nella molecola di un composto o reversibilmente di uscirne, come nel caso
dell’anidrite, solfato di calcio anidro (CaSO4), che si trasforma nella forma idrata, il
Fiume Francesco
gesso (CaSO4 ·2H2O), e viceversa (disidratazione) o del cloruro di calcio che è in grado
di acquisire ben 6 molecole di acqua trasformandosi nella forma esaidrata (CaCl2· 6H2O)
e viceversa, o dell’ematite (Fe2O3) che viene idratata a goethite (FeOOH) e viceversa:
CaSO4 + 2H2O ↔ CaSO4 · 2H2O
CaCl2 + 6H2O ↔ CaCl2· 6H2O
Fe2O3 + H2O ↔ 2FeOOH
Quest’ultima reazione, anche se è completamente reversibile, nei terreni ben
drenati o dove l’azione lisciviante dell’acqua è stata intensa, sembra spostata verso
destra, nel senso che l’ematite è il prodotto finale più stabile, come suggerisce la
colorazione rossiccia di questi terreni.
Va anche ricordato che l’idratazione del composto comporta il suo notevole
aumento di volume e se ciò accade, all’interno di una roccia (nei pori e nelle fessure),
avviene la disgregazione fisica del materiale.
L’acqua, inoltre, per la struttura bipolare della sua molecola e quindi di sensibilità
al gioco delle forze elettriche, è anche in grado di disporsi intorno agli ioni, in misura
diversa, in relazione alla grandezza ed alla valenza degli stessi, isolandoli e contribuendo
a rompere ed attenuare l’originaria compagine del minerale.
Ossigeno
L’ossigeno è presente nell’aria atmosferica, nell’aria confinata negli interstizi delle
rocce ed è disciolto nell’acqua. Esso agisce come ossidante, trasformando i composti
meno ossidati in quelli più ossidati. In particolare esplica la propria azione sui solfuri di
ferro, come la pirite e la marcasite (FeS2) o la pirrotina (FeS) trasformandoli in solfati:
2FeS2 + 5O2 ➜ 2FeO + 4SO2
2FeS + 3O2 ➜ 2FeO + 2SO2
L’ossido ferroso è ulteriormente ossidato ad ossido ferrico e quindi idratato a
idrossido ferrico:
4FeO + O2 ➜2 Fe2O3
Fe2O3 + 3H2O ➜ 2Fe(OH)3
L’anidride solforosa, ottenuta nelle precedenti reazioni è ossidata o idratata,
rispettivamente, ad anidride solforica o acido solforoso:
2SO2 + O2 ➜ 2SO3
SO2 + H2O ➜ H2SO3
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Il terreno
L’anidride solforica e l’acido solforoso, rispettivamente, idratata ed ossidato, danno
luogo ad acido solforico:
SO3 + H2O ➜ H2SO4
2H2SO3 + O2 ➜ 2H2SO4
L’acido solforico reagisce con le basi presenti (di ferro oppure di calcio) e si
trasforma in solfati (rispettivamente di ferro e di calcio):
H2SO4 + Fe(OH)2 ➜ Fe SO4 + 2H2O
H2SO4 + Ca(OH)2 ➜ Ca SO4 + 2H2O
Sono questi alcuni esempi schematici che riguardano l’attività dell’ossigeno su
alcuni minerali nella decomposizione delle rocce.
Tali reazioni possono verificarsi soltanto in via teorica, in quanto composti come
anidridi ed acidi solforosi e solforici si ritrovano soltanto allo stato ionico, a meno che
non ci si trovi di fronte a formazioni geologiche in forte evoluzione (vulcani attivi,
solfatare).
Gli esempi testé citati, riguardanti il ferro ed i solfuri, possono interessare molti
altri composti minerali, come quelli dell’alluminio, titanio, manganese, magnesio, con
formazione di fosfati, carbonati, cloruri.
Fenomeni di chelazione e scambio ionico
La reazione d’equilibrio che permette ad un legante polidentato di occupare più
posizioni nei legami di coordinazione di un catione metallico con formazione di un anello
più o meno stabile è chiamata chelazione. L’EDTA (acido etilendiamminotetracetico) è
un esempio tipico di chelante che è usato in tutti i laboratori proprio per effettuare
reazioni di chelazione.
Il catione Fe2+ presenta sei legami di coordinazione di cui due occupati da due
gruppi amminici (con legame alla valenza dell’azoto del gruppo =CH2–NH–) e quattro
occupati da altrettanti gruppi acetato (con legame alla valenza dell’ossigeno del
carbossile del gruppo acetato –CH2–COO–).Gli ioni idrogeno che si liberano dalla
molecola durante la reazione di chelazione possono partecipare ai meccanismi idrolitici.
Molti prodotti, ottenuti dalla decomposizione di tessuti animali e vegetali, diversi escreti
del metabolismo delle radici o rizoidi di piante superiori ed inferiori e molti metaboliti
originati dall'attività di cellule microbiche, sono in grado di produrre composti organici
ad attività chelante e sono in grado di favorire l’attacco dei minerali e di accelerarne la
decomposizione.
Tuttavia, non si dispongono di molte informazioni sui processi degradativi causati
da prodotti chelanti ed è probabile che questi si combinino direttamente, sulle superfici
dei composti del terreno, con i cationi per dare luogo ad una successiva solubilizzazione
in forma di chelati.
Il pH gioca un ruolo molto importante sulla solubilizzazione dei composti
contenenti cationi. Così, l’alluminio risulta solubile nella forma chelata a valori di pH ai
quali è insolubile come ione. La migliore solubilità dell’alluminio in forma chelata
impedisce, tuttavia, la formazione di quella pellicola protettiva d’alluminio amorfo
Fiume Francesco
insolubile, che si viene a costituire sulle particelle minerali del terreno, determinando una
più rapida degradazione delle stesse particelle cristalline.
Lo scambio ionico di ioni può favorire decomposizione dei materiali solidi del
suolo e, a tal proposito, sono moto attivi gli acidi organici.
Diminuzioni progressive di potassio nella mica, per scambio ionico, determinano
disorganizzazione reticolare irreversibile, con riduzione della grandezza delle particelle
che passano dalle dimensioni di oltre 2 mm a misure inferiori a 2mm.
La riduzione di potassio nelle miche dal 10% a meno dell’1% avviene per
successivi passaggi, secondo il seguente ordine: mica, mica idratata, illite, minerali di
transizione, fino a montmorillonite e vermiculite.
Questo è il processo di genesi dei minerali argillosi per semplice allontanamento di
potassio dagli interstrati della mica. Si tratta di una trasformazione semplice poiché
strutturalmente la mica non subisce modificazioni.
Agenti biologici
Sulla roccia compatta s’insediano organismi come batteri, funghi, alghe, muschi e
licheni che danno luogo a prodotti metabolici in grado di operare decomposizione.
L’effetto prevalente è quello dell’anidride carbonica, che con l’acqua produce acido
carbonico, emessa a seguito della respirazione.
L’importanza dei batteri, funghi e alghe è limitata alle rocce percorse
frequentemente dal deflusso d’acqua piovana ed alla presenza di sostanza organica che
può essere presente nelle rocce stesse (rocce bituminose) o apportata con gli escrementi
animali.
Un ruolo più importante spetta invece ai licheni, di cui si è già accennato a
proposito degli organismi viventi quali agenti di disgregazione. E’ il caso di approfondire
le conoscenze su questi organismi che mostrano un ruolo importante nell’evoluzione
delle matrici del terreno, essendo anch’essi il risultato di un lungo cambiamento
probabilmente non ancora concluso, per il quale il lichene può considerarsi un'entità
biologica non solo autonoma, ma avente un'individualità biochimica che si manifesta
attraverso la formazione di speciali sostanze e pigmenti lichenici, come i vari acidi
lichenici e gli antrachinoni.I licheni sono crittogame avascolari e cellulari, costituite non
da un solo organismo, ma da due diverse piante crittogame associate in una simbiosi più
o meno stretta.
Uno dei simbionti è un micete inferiore o un fungo imperfetto (deuteromiceti) o un
basidiomicete, più frequentemente è un ascomicete. Pertanto, in relazione al simbionte
fungino i licheni si distinguono in ficolicheni, deuterolicheni, basidiolicheni ed
ascolicheni. A seconda che l'ascomicete simbionte sia un pirenomicete o un discomicete
si distinguono ulteriormente in pirenolicheni, meno frequenti, e discolicheni più
abbondanti e comuni.
L'altro simbionte è rappresentato da un cianobatterio o un'alga verde. Oltre ai due
simbionti più o meno obbligati, possono entrare in gioco altre forme di crittogame, la cui
funzione e costanza sono incerte. Alcuni batteri, nonché funghi parassiti dei licheni
possono manifestare un modo di vita che oscilla tra la simbiosi ed il parassitismo.
Da tale conoscenza di complessità biologica si può dedurre come un simile
ecosistema, tanto più stabile quanto più complesso, in grande equilibrio dinamico, abbia
un’importanza notevole nei processi di decomposizione delle rocce e possa giocare un
ruolo preminente nella caratterizzazione biologica del terreno agrario che ne deriva.
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Il terreno
Per quanto concerne l’altro organismo simbionte costituente il lichene, le alghe,
quelle azzurre (considerate dai sistematici non alghe ma uno speciale gruppo di batteri
detti cianobatteri) sono dell'ordine Nostocales; quelle verdi sono dell'ordine
Chlorococcales o Trentepohliales. Poiché le alghe lichenizzanti di questo gruppo possono
vivere anche autonomamente, non sempre lo stesso fungo lichenicolo si associa con la
stessa alga lichenicola, benchè si abbiano preferenze più o meno nette. Talvolta si ha una
sorta di reazione difensiva da parte del fungo con la formazione di una specie di galla
detta cefalodio. L'associazione del micelio fungino con l'alga porta alla formazione del
tallo a volte gelatinoso, a struttura varia, nel quale le cellule dell'alga sono denominate
gonidi, mentre il micelio può formare organi d’adesione e penetrazione nelle cellule
dell'alga.
Il significato della simbiosi appare chiaro se si considera che il fungo è un
organismo eterotrofo mentre l'alga è autotrofa, ma se s'interpreta facilmente ciò che l'alga
cede al fungo, meno facile è capire quale vantaggio trae l'alga dall'associazione.
Probabilmente, il fungo, penetrando nella roccia in profondità, è in grado di procurarsi
sostanze, tra cui anche l’acqua conservata a lungo, mancanti in superficie, dove spesso si
stabiliscono condizioni proibitive di vita.
I licheni endolitici, d’interesse nella genesi del terreno, vivono su rocce o sassi,
come quelli della famiglia Physciaceae e Lecideaceae, o su pietre calcaree, come quelli
della famiglia Verrucariaceae (pirenolicheni). Il loro maggiore interesse sta nel fatto che
i licheni, assieme a qualche alga e forse pochi funghi, sono rappresentanti della
vegetazione pioniera delle rocce nude, formando il primo straterello di terreno agrario sul
quale gradatamente s’insedieranno le specie più evolute. Ciò si deve al fatto che i licheni,
formando sostanza organica per la sintesi clorofilliana, operata dalle alghe, si
accontentano di assai poco in fatto d’alimentazione minerale, mentre possono
sopravvivere anche a notevoli e prolungate deficienze d’acqua. Naturalmente il prezzo di
questa frugalità è una crescita straordinariamente lenta: pochi millimetri l'anno sotto le
migliori condizioni di vita.
Le pareti cellulari, generalmente chitinose, sono formate da galattosidi come
lichenina e isolichenina. I principi attivi sono dati dall'acido cetrarico (deriva dall'acido
fumarprotocetrarico che per idrolisi dà due molecole d’acido fumarico ed una molecola
d’acido protocetrarico), dall'orceina ed altri acidi lichenici, come l'acido alfalichenstearico o l'acido usnico. Si conoscono un centinaio di acidi lichenici e ciò fa capire
la grande importanza dei licheni nel processo di litiasi. Tra le forme crostose delle rocce
o pietre, sono noti il Rhizocarpon geographicum, che forma disegni geografici in nero su
fondo giallo, nonché le Graphis e le Opegrapha, che imitano i geroglifici.
I licheni - approfondendosi nello spessore delle rocce, dove producono acido
carbonico, derivato dall’anidride carbonica della respirazione, ed una moltitudine di acidi
organici - sono in grado di dar luogo a complessi di assorbimento e di scambio e quindi
attaccare carbonati, solfati, fosfati e finanche silicati.
Sulla minima quantità di terriccio ottenuta, a seguito di tale azione di
decomposizione, ma anche di disgregazione, possono insediarsi muschi rupicoli
modellati a cuscinetto i quali possono spingere i loro rizoidi assorbenti fino a 10-20 cm di
profondità.
La materia organica e quindi gli acidi organici prodotti con la loro morte inducono
ulteriore decomposizione e col tempo rendono possibile l’insediamento di piante erbacee
le quali, per mezzo delle loro radici, compiranno un energico lavoro di disgregazione e di
produzione di residui organici per dar luogo a terriccio e favorire l’accoglimento di
piante vieppiù superiori, con effetti sempre più efficaci sulla pedogenesi.
Fiume Francesco
Infine, le piante superiori che si sono insediate, attraverso la produzione di acidi
organici da parte delle radici e la caduta dei loro frutti, consentiranno la vita di organismi
del regno animale (insetti, acari, anellidi) che direttamente (prodotti di escrezione) ed
indirettamente (decomposizione dei loro resti) contribuiranno ad ulteriori decomposizioni
ed alla formazione del terreno agrario.
Un’ulteriore trattazione relativa a quest’importante gruppo di organismi vegetali,
che tanta parte hanno nei processi di pedogenesi, sarà effettuata nella parte riguardante le
condizioni biologiche del terreno.
I materiali detritici - che si sono formati per l’azione di forze di disgregazione (le
quali hanno provocato modificazioni d’ordine meccanico e fisico della matrice
originaria) e per l’opera di agenti di decomposizione (che hanno indotto trasformazioni
d’ordine chimico del substrato litologico) - possono rimanere in sito, senza subire
apprezzabili spostamenti, oppure possono andare incontro a spostamenti o rimozioni più
o meno vaste ed ampie. Nel primo caso si formano i terreni autoctoni, nel secondo i
terreni alloctoni, i quali, se dotati di un minimo di fertilità per la coltivazione delle piante,
sono tutti considerati terreni agrari più o meno produttivi.
TERRENI AUTOCTONI
I materiali derivanti dalla disgregazione e decomposizione del substrato litologico
possono rimanere sul luogo da cui si sono originati, in corrispondenza della roccia madre.
Questi sono detti terreni autoctoni o in posto e possono distinguersi in terreni residuali,
parautoctoni e di accumulazione.
I terreni residuali sono quelli che derivano dall’accumulo del materiale più o meno
integro che si è originato per fenomeni principalmente meccanico-fisici di disgregazione
della roccia madre sottostante. Questi, non avendo subita decomposizione, hanno la
stessa natura chimica della roccia che li ha originati. Tali sono i terreni granitici e
quarziferi che derivano da rocce costituite da granito (miscela di calcare, ortoclasio e
mica) oppure da quarzo.
I terreni parautoctoni si hanno quando il materiale che si è accumulato per
disgregazione ha subìto fenomeni più o meno profondi di decomposizione, in rapporto
all’intensità dell’azione degli agenti chimici e biologici. Di conseguenza, la
composizione chimica di questi terreni viene ad essere differente da quella della roccia
madre. Le terre rosse sono i rappresentanti tipici di questo tipo di terreni avendo subito la
solubilizzazione del calcare in bicarbonato (decomposizione della roccia) e risultando,
pertanto, costituiti soltanto dai residui insolubili (sali di ferro), diversi chimicamente
dalla roccia madre.
I terreni di accumulazione sono quelli che derivano da detriti organici, rimasti tali
per carenza di ossigeno e che si sono accumulati nel tempo direttamente sulla roccia o su
terreni di varia origine. Tra questi ricordiamo i terreni torbosi, come le torbiere, che si
sono formati nell’acqua per accumulo di materiali organici e per carenza di ossigeno; i
terreni di bosco e delle vecchie praterie che si sono formati per accumulo di materiali
vegetali e di escrementi di animali; le terremare che si sono formate per accumulo dei
residui organici delle attività di uomini primitivi (palafitte) e si trovano in luoghi dove
nel passato remoto c’erano stagni e acque paludose. Questi terreni, avendo un’origine
diversa dalla roccia sottostante, hanno anche una composizione chimica più differente in
relazione al grado di mescolanza con i detriti minerali della roccia madre.
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Il terreno
In generale, i terreni residuali e parautoctoni hanno uno spessore limitato tanto che
è possibile osservare la roccia matrice affiorante. La ridotta profondità di tali terreni è
dovuta al fatto che lo strato iniziale di detriti disgregati e decomposti ha preservato la
sottostante roccia madre dai diversi agenti, impedendo il successivo disfacimento.
I terreni di accumulazione, invece, in relazione alla quantità di materiale organico
accumulato, possono essere anche molto profondi (torbiere); tuttavia, non tutte le piante
agrarie si prestano ad essere coltivate in tali terreni, in rapporto alle loro particolari
caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche.
L’esame di riconoscimento dei terreni autoctoni non solo è necessario, ma e anche
utile in rapporto alle importanti correlazioni esistenti tra le caratteristiche chimiche della
roccia madre e quelle del terreno formato. In Italia e nelle regioni con analoga
geomorfologia è piuttosto difficile che i processi di pedogenesi sono in grado di
apportare modificazioni così profonde da cancellare ogni rapporto tra la roccia madre ed
il terreno. E ciò è ancora più difficile nei territori a morfologia accidentata ed in
corrispondenza di zone collinari o montuose. L’agricoltore per tentare di identificare, con
un certo grado di sicurezza, le rocce ed i costituenti del proprio terreno potrà consultare
utilmente le carte geologiche regionali in scala 1:100.000, che ormai illustrano
completamente il territorio nazionale, e rilevare l’indicazione del periodo geologico di
formazione dei complessi rocciosi affioranti, ossia l’età, e la natura litologica.
TERRENI ALLOCTONI
I prodotti di disgregazione e decomposizione delle masse rocciose, spesse volte
sono allontanati dal luogo in cui si sono formati e trasportati in altri luoghi, dove vanno a
costituire i terreni alloctoni o di trasporto.
Numerosi sono i fattori che operano il trasporto dei materiali detritici. L’esame di
ognuno di questi fattori consente di comprendere l’origine dei terreni alloctoni, la cui
denominazione è in stretto rapporto con il fattore predominante che ha operato
l’allontanamento dal substrato litologico originario.
I fattori di trasporto che incidono maggiormente sulla formazione dei terreni
alloctoni sono rappresentati dalla forza di gravità, dall’acqua e dal vento.
Forza di gravità
Si è già parlato della forza di gravità come causa concomitante ad altri fattori di
disgregazione delle rocce, con formazione di materiale detritico di varia dimensione. Qui
si parlerà della forza di gravità come concausa di trasporto di detriti che andranno a
costituire i terreni agrari in luoghi diversi da quelli dove è allocata la matrice originaria. I
terreni che si sono costituiti per azione di tale causa sono detti colluviali e sono formati
da ammassi detritici, spesso a grana grossa, originatisi per caduta ed accumulo di
materiale detritico alla base di montagne e rilievi, dai fianchi acclivi e scoscesi. I depositi
o terreni che si formano, spesso pietrosi, possono classificarsi in:
a) Falde di detrito che si formano alla base dei rilievi per progressivo e lento
accumulo di detriti che da loro si staccano. Si trovano ai piedi di pareti costituite da rocce
con strati le cui testate sono orizzontali o poco inclinate, con struttura e consistenza
uniformi. La disposizione del materiale è caotica, con gli elementi più voluminosi
prevalenti nella parte inferiore, in relazione alle forze d’inerzia che s’instaurano durante
Fiume Francesco
la caduta. La pendenza della falda è variabile e può superare i 40°, specie nelle regioni
calcareo-dolomitiche.
b) Coni di detrito che si formano per la caduta verticale dei detriti provenienti da
formazioni non omogenee. Il cono è costituito da blocchi nella parte superiore e detriti
più fini nella zona laterale. La pendenza massima è minore che nelle falde di detrito.
c) Falde di frana che si originano per brusca e massiccia caduta di detriti in una
sola volta lungo le pendici di un rilievo.
d) Coni di frana che si originano per caduta verticale, in una sola volta, di una
massa detritica. Il cono è costituito da materiali più grossi verso la base, in relazione alla
massa e volume del materiale sottoposto alla gravità.
Questi terreni presentano scarso interesse agrario perché costituiti da detriti rocciosi
quasi privi di terra.
Con il tempo possono ospitare alla superficie dei grossi elementi, di cui sono
costituiti, degli organismi viventi come i muschi ed i licheni i quali lentamente preparano
un ambiente pedologico più favorevole alle piante. Qualora il detrito che si è formato
risulti più minuto, diventa possibile l’insediamento di una vegetazione che dà origine alla
formazione di una cotica erbosa che consente, successivamente, l’utilizzazione di questi
territori con un’agricoltura silvo-pastorale.
Un particolare tipo di terreni, dove la forza di gravità entra in gioco in un secondo
momento, è rappresentato dai terreni piroclastici che si sono originati a seguito della
forza eruttiva di un vulcano.
Le forti pressioni che si originano durante l’eruzione scagliano, lontano dal
vulcano, grandi quantità di materiale eruttivo che, per gravità, piomba al suolo
originando un terreno piroclastico. Tali terreni, per la loro origine, sono ricchi di materiali
potassici e di ceneri e sono, pertanto, dotati di un’ottima fertilità; il loro spessore è
variabile, in rapporto all’intensità ed al numero delle eruzioni che si sono verificate nel
tempo e nello spazio.
Acqua
L’acqua è uno dei fattori più importanti d’origine e trasporto dei terreni alloctoni e
dà luogo a suoli agrari, con caratteristiche molto variabili, in relazione allo stato fisico e
cinetico ed al modo con cui ha operato il movimento del detrito. In rapporto allo stato
cinetico, l’acqua agisce allo stato liquido, come acqua corrente ed acqua marina, ed allo
stato solido, come ghiaccio.
ACQUA CORRENTE
L’acqua dei fiumi e dei ruscelli origina i cosiddetti terreni alluvionali. Il complesso
dei materiali detritici che è trasportato, le cui dimensioni vanno dai grossi massi fino alle
particelle argillose di piccolissime dimensioni, proviene dall’erosione delle rocce. Tali
materiali sono trasportati e successivamente depositati dalle acque dei torrenti e dei fiumi
lungo il loro corso.
I grandi massi che si distaccano dalle parti più elevate di un bacino torrentizio e
precipitano sul suo letto, rimangono fermi, fino a che, progressivamente corrasi ed erosi,
consumati ed arrotondati dall’impatto dei materiali solidi più sottili sospesi nelle acque
correnti, non vengono anch'essi rimossi dall’energia cinetica della corrente.
I vari materiali poi si depositano via via che la forza di trasporto delle acque
diminuisce fino ad annullarsi, cosicché, mentre i materiali più minuti possono arrivare
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Il terreno
fino alla parte terminale del corso fluviale o torrentizio, quelli di maggiori dimensioni,
sabbie grossolane, ghiaie, ciottoli, tendono a depositarsi nelle zone più a monte, per poi
subire la stessa sorte di corrasione ed erosione, in un ciclo che si ripete infinite volte.
Se lungo il corso d'acqua, la velocità diminuisce, sia per diminuzione della
pendenza dell'alveo, sia per aumento della sua sezione, sia per la variazione della
quantità d'acqua, in rapporto all'andamento pluviometrico, dovranno sedimentarsi quei
materiali che, per la minore velocità risultante, non possono essere più trascinati.
I materiali detritici ora si depositano sul letto del fiume, ora si espandono
lateralmente quando le acque traboccano dall'alveo normale. Nel primo caso si potrà
osservare una graduale sopraelevazione dell'alveo, in modo che il corso d'acqua si trova a
scorrere ad un livello superiore a quello dei terreni circostanti. Tale fenomeno è
accentuato dalle arginature, che costringono il fiume a riversare nell'ultima parte del suo
corso la massima quantità dei materiali trascinati.
Più generalmente i materiali detritici, durante le piene, si depositano ai lati del
corso d'acqua, riempiendo i fondi delle valli e determinando la formazione delle pianure
alluvionali.
Si possono avere depositi prevalentemente ghiaiosi, sabbiosi o argillosi, a
stratificazione per lo più irregolari - in strati differentemente inclinati gli uni rispetto agli
altri, in relazione ai cambiamenti subiti dalla direzione della corrente - talora ad elementi
uniformi, ma spesso mescolati in varia misura od anche in banchi alternanti di ciottoli,
sabbie e argille.
Le dimensioni dei materiali che costituiscono una pianura alluvionale tendono a
diminuire da monte a valle, in conseguenza della diminuzione della velocità delle acque
e, quindi, della loro capacità di trasporto.
La composizione chimica delle alluvioni di una pianura è influenzata dalla natura
delle rocce predominanti nel bacino d’alimentazione dei singoli corsi d'acqua. Essa sarà
abbastanza uniforme quando i detriti provengono da un unico tipo litologico, ma le
caratteristiche originarie si possono modificare di mano in mano che i detriti convergono
a valle. Rimaneggiamenti totali o parziali delle alluvioni producono sensibili
modificazioni nella composizione mineralogica ed in quella fisico-chimica
In relazione a quanto descritto, possiamo riconoscere diversi tipi di formazioni
pedologiche e distinguerle in:
a) conoidi di deiezione costituiti da grosse particelle che vengono depositate a
seguito di una diminuzione di velocità dell’acqua corrente. Si determina, così, un
accumulo di materiale alluvionale, a forma di ventaglio col vertice rivolto a monte, nel
punto in cui un corso d'acqua, generalmente a carattere torrentizio, sbocca nella valle
principale. Essendo questa solitamente poco pendente, si ha una perdita di energia delle
acque che depositano gradualmente il materiale trasportato: quello più grossolano al
vertice, cioè verso la sorgente, quello sempre più fine verso la base del conoide stesso,
cioè verso la foce.
La forma a ventaglio è da attribuire principalmente alle piene, che fanno cambiare
percorso al torrente con escavazione di un nuovo letto destinato ad essere riempito ed
abbandonato alla piena successiva. Coni costruiti da corsi d'acqua di grandi dimensioni
che si allungano con pendenza dolce per un lungo tratto nella valle principale, sono detti
conoidi alluvionali. Tra questi ed i conoidi di deiezione esiste tutta una gamma di forme
intermedie, di seguito riportate.
b) alluvioni di inondazione sono costituite da piccole particelle che si accumulano
in prossimità della foce di un fiume a seguito della ridotta velocità dell’acqua;
Fiume Francesco
c) alluvioni di delta sono costituite da particelle finissime, depositate alla foce del
fiume, per una completa riduzione della velocità di scorrimento dell’acqua fluviale,
causata dall’assenza di pendenza del terreno (pianura), dal contrasto, in opposta
direzione, del moto ondoso del mare in cui il corso d’acqua si riversa.
I terreni alluvionali sono costituiti da particelle eterogenee che aumentano di
grandezza media passando dalla foce alla sorgente del fiume. Le particelle sono
eterogenee anche nello stesso punto in rapporto alla velocità dell’acqua, molto legata al
periodo stagionale.
Nel periodo delle piogge, infatti, il fiume ingrossa e trasporterà i detriti anche più
grossi verso foce; nei periodi siccitosi, per scarsità d’acqua nel fiume e bassa velocità le
particelle piccole saranno depositate, oltre che verso la foce, anche lungo il percorso del
fiume.
I terreni alluvionali sono profondi, fertili, di costituzione variabile. Esempi di
terreni alluvionali sono quelli della pianura Padana, del Sele e di S. Eufemia formati,
rispettivamente dal Po, Sele e Crati.
Per la particolare posizione e natura litologica, i conoidi hanno costituito zone
d’insediamento umano e di coltivazioni.
ACQUA MARINA
Con il suo movimento contribuisce al trasporto di materiali detritici, generalmente
di tipo sabbioso, i quali possono sedimentarsi sul fondo in quantità tale da sollevarlo,
determinandone l’emersione.
Si origina un terreno, sufficientemente permeabile, perché ricco in sabbia, ma che,
per l’eccessiva quantità di sali può non essere coltivabile. Fortunatamente tali terre salse
sono spesso a reazione neutra o non troppo alcalina, permeabili e pianeggianti.
Ciò consente, nel tempo, un adeguato dilavamento naturale. Se a questo si
aggiunge il lavoro umano, allo scopo di facilitare la penetrazione delle acque meteoriche
nel suolo oppure di ottenerne l’evacuazione, mediante una rete di canali a deflusso
naturale (terre salse e salso-alcaline della piana ferrarese, argille plioceniche e
calanchifere dell’Appennino emiliano, toscano e marchiggiano, crete senesi, biancane del
Volterrano ed alcune formazioni geologiche della dorsale appenninica d’epoca terziaria,
tutte d’origine marina), è possibile giungere alla creazione di un fertile terreno agrario.
L’acqua del mare è stato altresì il fattore che ha originato i polder olandesi. Questi
sono terreni sabbiosi che si sono formati per il deposito di materiali solidi trasportati dal
mare e trattenuti da imponenti argini, aventi la funzione di difenderli dalle alte maree. I
polder, che nel tempo sono stati privati della salsedine a seguito di un dilavamento
naturale, sono oggi intensamente coltivati con piante ad alto reddito come fiori ed
ortaggi.
Terreni di analoga origine si trovano in Germania e sono detti marchen.
Gli arenili, terreni di trasporto per opera dell’acqua marina, sono molto fertili e
sono costituiti da sabbia in massima parte.
Essi rappresentano quel tratto di spiaggia sabbiosa che è abbandonato dal mare.
Si formano sulle coste basse dai detriti apportati dai corsi d'acqua e dai prodotti di
abrasione marina trascinati dalle onde di ritorno e dal riflusso fuori della zona delle onde
battenti; una porzione di tali detriti costieri è trasportata dal vento dominante e deposta ai
piedi delle ripe e nelle concavità.
Queste sono gradualmente colmate e si trasformano in ampie distese di sabbie le
42
43
Il terreno
quali possono essere alternatamente invase ed abbandonate dalla marea.
L'arenile, la cui genesi è legata a tutti i fattori determinanti il trasporto dei detriti
nella formazione dei terreni alloctoni (acqua corrente e marina, vento), quando è
abbondantemente dilavato e depurato della salsedine, in maniera naturale per opera delle
acque piovane o artificialmente per azioni antropiche, può trasformarsi in un fertilissimo
substrato di coltivazione di piante agrarie.
Sono state esaminate le principali azioni di trasporto operate dall’acqua, in
relazione al suo stato cinetico (acqua corrente e marina).
Ma l’acqua può avere azioni di fondamentale ed anche di preponderante interesse
quando agisce in relazione allo stato fisico, particolarmente quello solido (ghiaccio),
come accade nei ghiacciai.
ACQUA ALLO STATO SOLIDO
L’acqua allo stato solido evidenzia il proprio effetto nella formazione dei terreni
alloctoni attraverso il movimento del ghiacciaio, il quale è responsabile della formazione
di terreni agrari detti glaciali morenici o diluviali.
Il ghiacciaio, nello scendere, per gravità, verso valle, lungo le pendici del rilievo,
ingloba i detriti e le particelle terrose, di varia grandezza, i quali, per l’attrito creatosi fra
loro e la roccia sottostante, formano un materiale poltaceo detto melma glaciale. Tali
materiali possono essere lasciati lungo il pendio oppure possono essere depositati a valle,
in funzione della temperatura dell’aria e quindi della fusione e solidificazione dell’acqua.
Il ghiaccio, pertanto, fondendosi e ricreandosi e, quindi, deponendo e trasportando il
materiale conglobato, lascia una serie di strati a ripiano di differente superficie, per
costruire una struttura ad anfiteatro.
Esempi di questo tipo si riscontrano presso le colline a sud del lago di Garda o della
Brianza.
Questi terreni sono costituiti da materiali di grossezza variabile e mescolati in vario
modo, perciò la loro fertilità oscilla entro limiti assai ampi.
I terreni morenici delle nostre regioni sono legate almeno a tre glaciazioni che
vengono distinte con i nomi di Mindeliano, Rissiano e Würmiano, con dubbie tracce di
uno sdoppiamento della prima, la più antica.
Durante il Quaternario il clima non è stato sempre costante e, a periodi di maggior
sviluppo dei ghiacciai e conseguente loro avanzata, hanno fatto seguito periodi di
regresso, durante i quali gli stessi ghiacciai hanno sgomberato le valli per poi
nuovamente invaderli.
I depositi morenici presentano una caotica distribuzione di vari detriti rocciosi. Tali
detriti hanno l’aspetto di ciottoli ovoidali, con una superficie levigata e spesso presentano
striature e scalfitture dovute alla sfregamento con altre rocce più dure. Accanto al
materiale più grossolano vi possono essere materiali più sottili, sia di formazione
primaria che di deposito. Le caratteristiche fisiche dei terreni morenici sono una buona
porosità e permeabilità. Queste proprietà inducono in questi terreni un facile smaltimento
delle acque meteoriche ed evitano ogni ristagno di acqua ed accumulo di umidità.
Vento
Si è già parlato del vento come causa di disgregazione delle rocce. Ora si parlerà
dello stesso elemento come causa di trasporto di detriti con formazione di terreni eolici.
Il vento solleva o spinge le particelle detritiche, di varia dimensione e peso, in rapporto
Fiume Francesco
alla sua velocità, trasportandole ad una certa distanza.
I terreni eolici si distinguono in terreni dunosi e derivati dal loess. I primi costituiti
da dune, cioè rilievi a superficie arrotondata, formati da detriti grossolani, incoerenti e
mobili per rotolamento, le cui particelle non sono sollevate ma semplicemente spinte.
Sono in genere terreni scarsamente fertili che si sono formati lungo le coste (dune marine
o costiere) o all’interno, lontane dal mare (dune continentali).
I loess hanno avuto origine dall’azione del vento spesso in zone desertiche, dove la
degradazione delle rocce è stata molto attiva nelle ere geologiche anteriori all’attuale. A
differenza dei terreni dunosi, i loess sono costituiti da particelle, di solito molto fini, in
pratica polverulente e di grana molto uniforme, le quali sono sollevate dal vento e
trasportate in zone lontane, spesso in avvallamenti.
La quantità di deposito operato dal vento è tale che la profondità dei loess può
raggiungere i 40 m. Pertanto, essi sono costituiti da depositi di particelle di natura limosa,
di colore giallastro o bruno-giallastro ed hanno la proprietà di rimanere in pareti quasi
verticali senza franare, per questo i corsi d'acqua hanno potuto incidervi sponde assai
profonde.
Il loess, depositandosi sulle piante poliennali, le ha gradatamente ricoperte, in
modo che la vegetazione è stata costretta a svilupparsi a livelli sempre più alti.
Il notevole grado di scistosità, secondo piani verticali, è da attribuire
all'orientamento verticale delle radici delle piante sepolte.
I loess sono privi di stratificazione, tipica dei sedimenti, a causa della gran lentezza
con la quale il materiale si è accumulato.
Il contenuto di sostanze minerali utili alle piante, soprattutto carbonato di calcio, è
in genere abbastanza elevato, a meno di fenomeni carsici intervenuti. Dal loess, infatti,
derivano terreni d’elevata fertilità.
Il loess si ritrova nelle vallate del Reno, dell'Elba, del Danubio, nelle pianure della
Francia settentrionale, del Belgio, della Boemia e della Russia meridionale. In queste
regioni, nel Pleistocene infraglaciale, le rocce hanno subito un'intensa disgregazione con
formazione di minutissimi materiali che sono stati spinti verso aree steppiche per opera
della deflazione. Alla presenza d’umidità la vegetazione si sviluppa con gran vigore.
Terreni di siffatta genesi si riscontrano anche in Italia, nella collina di Torino.
Infine ricordiamo alcune terre rosse d’origine eolica, che si ottengono quando il
materiale detritico, privato della parte calcarea per azioni di decomposizione, ricco di
materiali insolubili, è trasportato in siti lontani per opera del vento.
RICONOSCIMENTO PRATICO DEL TERRENO
Un aspetto pratico di notevole importanza nello studio del terreno agrario è il
saperne riconoscere, grosso modo, l’origine, sia per quanto attiene la composizione
mineralogica, sia per quanto riguarda la provenienza del substrato.
Il problema non è semplice da risolvere poiché è necessaria una buona
preparazione in alcune materie come la chimica, la mineralogia, la pedologia ed altre
discipline affini e specialistiche.
Ogni minerale e ciascun terreno costituito da diversi composti, semplici o
complessi, possiedono speciali caratteristiche che ne permettono una specifica
identificazione, ma i mezzi e le metodiche sono spesso laboriosi e presuppongono
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45
Il terreno
approfondite conoscenze.
Tuttavia alcuni saggi preliminari, con riferimento al riconoscimento dei minerali,
ed attente osservazioni attinenti la posizione del terreno e l’esame delle particelle
grossolane che costituiscono il suolo possono spesso bastare per avere utili elementi
d’identificazione.
Il riconoscimento pratico di un terreno comporta l’individuazione dei minerali che
lo costituiscono e l’analisi di alcuni parametri che consentono di comprendere la
provenienza del substrato pedologico.
Riconoscimento pratico di alcuni minerali
Il riconoscimento dei minerali richiede una specifica preparazione che si può
ottenere dallo studio di apposite discipline.
Tuttavia alcuni saggi preliminari possono orientare e guidare circa la presenza di
alcuni minerali.
In primo luogo, nel tentare il riconoscimento della composizione mineralogica di
un terreno agrario, è consigliabile consultare le carte geolitologiche della zona dove è
ubicato il terreno oggetto di studio, giacché la conoscenza della roccia madre può fornire
validi elementi orientativi sulla presenza di un minerale anziché un altro.
Un terreno ricco in particelle colloidali deve prima essere privato delle stesse con la
levigazione e, qualora la superficie delle particelle minerali è incrostata, asportando tale
rivestimento con acido ossalico o cloridrico, prestando attenzione a non modificare la
composizione chimica originaria.
Sul materiale così ottenuto si fanno le prime osservazioni sull’aspetto, colore,
lucentezza, stato di conservazione e si separano i minerali cristallini da quelli in granuli o
squame.
Queste ultime - indicanti presenza di miche, talco, cloriti - si possono separare
facendo scorrere il tutto su un foglio di carta ruvida; esse rimangono aderenti alle asperità
e potranno essere esaminate.
Un tipo di analisi relativamente sofisticata, basata sull'osservazione microscopica,
per l'individuazione dei minerali presenti nella roccia, da cui ha avuto origine il terreno,
avviene mediante la tecnica delle sezioni sottili, per la quale un frammento di roccia, di
dimensione dell'ordine di un centimetro, è fissato su un vetrino e, mediante molatura,
ridotto ad una lamina a facce piane e parallele, di spessore che non superi qualche
centesimo di millimetro. Il preparato viene quindi studiato e la roccia è classificata in
base alle proprietà che si evidenziano con l'uso del microscopio polarizzatore, il quale
permette di individuare i minerali presenti sulla scorta delle loro proprietà ottiche.
Gli elementi fisici che vanno esaminati sono: il colore – assente o biancastro
(quarzo, opale, feldspati, nefelina, leucite, natrolite, analcime, gesso, anidrite, calcite,
aragonite, magnesite, dolomite), giallastro (pirite, marcasite, pirrotina, limonite, siderite,
titanite, quarzo citrino, zolfo), verde (olivina, serpentino, cloriti, apatite, diallagio,
diopside, augite, pistacite, talco), nero o verde scuro (orneblenda, ipersteno, magnetite,
ilmenite, biotite), bruno o grigio (quarzo grigio, ematite, bronzite), rosso (almandino,
ortoclasio, rutilo, zircone), azzurro o violetto (ametista, vivianite) – la lucentezza (così
l’aspetto metallico di certe particelle può indicare presenza di pirite, pirrotina, magnetite,
ematite o ilmenite), la durezza (tenendo presente, empiricamente, che l’unghia del pollice
è capace di rigare minerali di durezza fino a 2 della scala di Mohs, che una moneta o una
solida punta di rame riga durezze inferiori a 3, che minerali che rigano il vetro hanno
durezza superiore a 5 o 6, che uno spillo d’acciaio riga minerali di durezza inferiore a 6,
Fiume Francesco
46
che minerali con durezza 7 sprigionano scintille se percossi con metalli), il peso specifico
se possibile.
Con questi esami fisici preliminari è possibile ottenere alcuni elementi di giudizio
che possono essere completati ricorrendo ad alcuni saggi chimici.
Alcuni di questi sono sintetizzati nella tabella 7 la quale riporta il trattamento
chimico cui sottoporre il campione, i composti o minerali che passano, lentamente o
rapidamente in soluzione, gli eventuali gas prodotti a seguito dell’effervescenza
sviluppata durante la reazione, l’eventuale residuo o precipitato ottenuto e l’eventuale
colorazione della soluzione.
Tab. 7 – Trattamenti chimici e corrispondente passaggio in soluzione dei sali del minerale,
effervescenza e sviluppo di gas, residuo e colore della soluzione, per il
riconoscimento orientativo della composizione mineralogica di un terreno.
Trattamento
Passaggio in soluzione
rapido
lento
(1)
(2)
H2O distill. cloruri, bicarbonati,
nitrati, solfati
HCl al 10% calcite, aragonite
HCl
Gas
prodotti
(1) (2)
Residuo
Colore
della
soluzione
carbonati, solfati
-
-
-
incolore
(gesso) ed
-
-
-
incolore
-
incolore
altri carbonati
CO2 CO2
magnetite, limonite,
-
CO2 Fe2O3
giallo
siderite, rodocrosite,
-
CO2 Fe2O3
giallo
pirrotina
-
H2S S
apatite, vivianite,
Ca3(PO4)2
nefelina, sodalite
SiO2
dolomite, magnesite
CO2
-
siderite,
CO2
-
alcuni solfuri apirite
FeO
giallo
H2S S
plagioclasi basici
SiO2
ematite, goethite,
Fe2O3
giallo
ilmenite
Fe2O3
giallo
HCl
bollente
pirosseni, anfiboli
Fe2O3
giallo
H2SO4
biotite, zircone, caolino
HF
quarzo e feldspati
augite, orneblenda,
epidoto, muscovite,
talco
47
Il terreno
La ricerca principale, una volta trattati i minerali estratti dal terreno con acqua o gli
acidi inorganici indicati in tabella 7, sarà rivolta all’individuazione dei singoli anioni e
cationi.
Senza ricorrere ad analisi sofisticate, spesso di elevato costo, o ad attrezzature di
gran precisione, come lo spettrofotometro o quello ad assorbimento atomico, il
riconoscimento dei principali composti costituenti i minerali del terreno può effettuarsi
ricorrendo ad alcuni saggi ed impiegando alcuni reattivi.
Così, per esempio, la determinazione dei carbonati, come quelli contenuti nel
calcare, si effettua sottoponendo il campione a trattamento con acido cloridrico. Dal
volume d’anidride carbonica svolta si risale al contenuto in calcare (metodo
gasvolumetrico).
L’apparecchiatura che si usa è il calcimetro e fra i tanti che si conoscono, quello più
preciso, è il calcimetro Dietrich Fruhling che permette di eseguire accurate correzioni
rispetto alla temperatura (da 10 a 25 °C) ed alla pressione atmosferica (da 720 a 786 tor).
I reattivi che si impiegano sono semplicemente rappresentati dall’acido cloridrico (HCl
densità = 1,18) diluito 1:1.
Il risultato della determinazione si esprime come CaCO3%.
Un'altra analisi di laboratorio che spesso è indispensabile effettuare per i terreni è la
determinazione del calcare attivo.
Mentre il calcare totale misura la percentuale di carbonato di calcio presente nel
campione, la determinazione del calcare attivo che esprime la caratteristica del calcare di
passare o meno facilmente in soluzione.
I reattivi occorrenti per questa determinazione sono l’ossalato di ammonio (NH4−
COO−COO−NH4⋅H2O), soluzione 0,2 N (14,212 g/l), il permanganato di potassio
(KMnO4), soluzione 0,1 N (3,161 g/l), l’acido solforico concentrato (H2SO4 d = 1,84)
diluito 1:10, il cloruro di ammonio (NH4Cl), soluzione satura, il solfato di alluminio
[Al2(SO4)3], soluzione al 50% e, infine, l’ammoniaca (NH3 d = 0,892).
Un campione del peso di 10,0 g si addiziona di 250 ml della soluzione di ossalato
d’ammonio e si sottopone ad agitazione meccanica per due ore.
Si filtra: 20 ml di filtrato si titolano a caldo (60-70 °C) con permanganato di
potassio in presenza di acido solforico.
Contemporaneamente si effettua una prova in bianco su 20 ml della soluzione di
ossalato d’ammonio. Il calcare attivo percentuale è dato dalla seguente relazione:
Calcare attivo % = (A-B) ⋅ N ⋅ 50 ⋅ 0,125
dove: A = ml di KMnO4 usati nella prova in bianco;
B = ml di KMnO4 usati nella prova con il campione;
N = normalità di KMnO4;
50 = peso equivalente CaCO3.
Fiume Francesco
48
Tab. 8 – Determinazione di alcuni anioni e cationi, ottenuti per solubilizzazione in acqua,
mediante trattamento delle soluzioni con specifici reattivi e successivo esame del
colore e dei composti precipitati.
Anione Catione
Trattamento
Soluzione
Precipitato
Aspetto
Composto
Cl¯
AgNO3
intorbidamento
Bianco-caseoso
AgCl2
SO42¯
BaCl2
intorbidamento
Bianco
BaSO4
CO32¯
HCl
intorbidamento
NO3¯
H2SO4 + difenilamina
blu scuro
NO2¯
Ac. Acetico + FeSO4
bruno-scura
PO43¯
HNO3 + (NH4)2MoO4
F¯
H2SO4
CO2
Giallo
(NH4)3 PO4· 12MoO3
HF (1)
Ca2+
NH4 ossalato
Bianco-cristallino Ca ossalato
Mg2+
Na2HPO4 + NH4OH
Bianco-cristallino NH MgPO
4
4
Na+
K2H2Sb2O7
Bianco
Na2H2Sb2O7
K+
HClO4
Bianco
KClO4
Fe2+
HNO3 + NH4OH
Rosso-fioccoso
Fe(OH)3
Al3+
HNO3 + NH4OH
Bianco-fioccoso
Al(OH)3
NH4+
NaOH oppure KOH
NH3 ↑ (2)
(1) si riconosce perché intacca il vetro del contenitore
(2) forte odore di ammoniaca che si svolge dalla soluzione.
Alcuni saggi principali di laboratorio sono sinteticamente riportati in tabella 8, per
quanto concerne quelli ottenuti per solubilizzazione in acqua, ed in tabella 9, per quelli
ottenuti per solubilizzazione del minerale in acido cloridrico diluito, in acido cloridrico
concentrato ed eventualmente a caldo, in acido solforico concentrato e in acido
fluoridrico.
Sono state date alcune indicazioni per un sommario orientamento nel
riconoscimento di minerali costituenti il terreno.
Tuttavia, un lavoro di questo tipo presuppone, fra l’altro, una certa cultura e pratica
di chimica analitica ed il poter disporre di una certa attrezzatura, anche se relativamente
modesta. Ad ogni modo non è una competenza precipua dell’agronomo pedologo l’esatta
identificazione della mineralogia del terreno, al quale basta, per le sue finalità,
riconoscere ed identificare i principali, più importanti e diffusi minerali, e rilevare la
presenza di quelli più complessi, i quali dovranno essere inviati presso appositi laboratori
di mineralogia e di analisi geopedologica.
49
Il terreno
Tab. 9 – Saggi da effettuare sui minerali che non sono passati in soluzione in acqua distillata e
corrispondente risposta ai trattamenti effettuati.
Solubilità del
Minerali da
Trattamento
minerale
distinguere
o osservazione
HCl 10%
Calcite e
Bollitura del minerale
Incolore
Aragonite
in Co(NO3)2 al 5-10%.
Colorazione violetta
Calcite,
Soluzione di allume.
Solubile
Dolomite e
Insolubile
Silicati
Insolubile
Magnetite e
Debole calamita.
Attrazione
Pirrotina
Forte calamita.
Attrazione
Vivianite
soluzione.
Colorazione nera
HCl concentrato Carbonati diversi
H2SO4
concentr.
HF
Risposta
Ricerca di Ca, Fe e Mg.
Olivina,
Osservare la forma dei
Serpentino e
cristalli, la durezza, il
Glauconite
colore.
Biotite
Esame dei cristalli.
Colore rosso-bruno o
nero
Zircone
Esame dei cristalli.
Colore giallo o
rossiccio
Caolino
KOH o NaOH.
Solubile
Ortoclasio
Ricerca del potassio.
Positiva
Albite
Ricerca del sodio.
Positiva
Opale
NaOH bollente
Solubile
Quarzo
Calcedonio
Riconoscimento pratico della provenienza del substrato pedologico
Per avere un orientamento, circa l’individuazione della provenienza del substrato
costituente un terreno agrario è necessario individuarne la posizione ed osservare i detriti
più grossolani che vanno sotto il nome di scheletro.
POSIZIONE DEL TERRENO
E’ un importante parametro per riconoscere l’origine di un terreno. Pertanto, la
prima cosa da fare è osservarne attentamente la posizione. Così un terreno posto in cima
ad una montagna, nella sua parte piana, sarà certamente un terreno autoctono, o
parautoctono, non potendo aver ricevuto il materiale detritico da nessuna altra parte. Se si
guardano le pendici dello stesso rilievo, si può osservare lungo di esse presenza di terra
Fiume Francesco
che sarà classificata di tipo alloctono-colluviale essendosi formata esclusivamente per
caduta del detrito. Se il terreno si trova alla base della montagna, lungo la pianura che
normalmente si estende alle falde, si può pensare ad un terreno alloctono alluvionale,
trasportato dalle acque correnti e che ruscellano lungo i pendii (figura 1).
Fig. 1 – Esempio di individuazione orientativa dell’origine cinetica del terreno in rapporto
alla sua posizione.
Saranno citati altri esempi in cui l’esame della posizione del terreno consente,
orientativamente, di stabilirne l’origine. Qualora il terreno, di cui si vuol conoscere
l’origine, si trova in pianura, in prossimità del letto di un fiume, il terreno è d’origine
alluvionale, mentre se lo stesso terreno si trova in prossimità di un vulcano esso può
definirsi un terreno vulcanico rimaneggiato, poiché costituito da detriti alluvionali,
apportati dal corso d’acqua, e da materiale piroclastico proveniente dall’attività eruttiva.
Un esempio tipico di terreno vulcanico rimaneggiato si riscontra nella pianura del Sarno
in Campania, in cui si ritrovano detriti alluvionali apportati dal fiume Sarno e materiali
piroclastici originari del Vesuvio. Nel caso in cui il terreno si trova in zona dove c’era un
bacino a vegetazione lacustre esso potrebbe essere un terreno torboso, autoctono
d’accumulazione.
SCHELETRO DEL TERRENO
Con gran difficoltà un agricoltore potrà essere in grado di identificare con sicurezza
le rocce che costituiscono lo scheletro del proprio terreno, sempre che egli non si rivolga
ad un laboratorio di petrografia. Tuttavia egli potrà consultare le carte geologiche
regionali, in scala 1:100.000, e rilevare il periodo geologico delle rocce affioranti e
l’indicazione della composizione mineralogica. Sempre dall’esame delle carte
geologiche, l’agricoltore potrà facilmente stabilire se il terreno riposa su rocce di origine
eruttiva, oppure su complessi sedimentari o su altri tipi come, per esempio, scisti
cristalline. Se si tratta di rocce eruttive è possibile conoscere la loro qualità perché di
solito è specificata; graniti, basalti trachiti sono distinguibili dal differente colore e da
apposite sigle. Se invece si tratta di rocce sedimentarie è possibile apprendere la loro
natura e capire se il materiale affiorante è rappresentato da calcari o dolomie, se ci si
trova di fronte a rocce argillose o arenacee o arenacee-marnose.
Nel caso in cui il terreno non è adagiato su affioramenti rocciosi indicati nelle carte
geologiche perché, per esempio, fa parte di un complesso alluvionale di trasporto o di
masse d’accumulo glaciale, le carte geologiche possono ancora fornire un valido aiuto
nel riconoscimento dello scheletro del terreno. Basta rintracciare il bacino
50
51
Il terreno
d’alimentazione del corso d’acqua, che ha depositato l’alluvione, o quello del ghiacciaio
generatore, per venire a conoscenza delle caratteristiche delle rocce affioranti e della loro
distribuzione.
Le carte geoagronomiche, le quali sono purtroppo ancora poche, possono essere
utilizzate per avere una maggiore quantità di informazioni.
L’esame dello scheletro, vale a dire della parte dalle dimensioni più grossolane,
consente di ottenere importanti informazioni sull’origine del terreno. Così un terreno
formato da parti con una superficie arrotondata e levigata è d’origine alluvionale, mentre
se lo scheletro è a spigoli vivi e bene evidenti il terreno è di tipo autoctono-colluviale. Un
terreno d’origine morenica ha uno scheletro con parti con una sola superficie piana, non
levigata bensì striata, come conseguenza dello strofinio con la roccia sottostante durante
il movimento del ghiacciaio. Un terreno d’origine marina possiede detriti di forma piatta
e con spigoli arrotondati, in rapporto al moto ondoso. I terreni piroclastici hanno uno
scheletro formato da cenere e lapilli ma senza particolari caratteristiche formative.
Stratificazione e Stratigrafia del terreno
Un’altra caratteristica statica di un terreno agrario è la sua disposizione in strati
omogenei, sovrapposti gli uni agli altri. Tale sovrapposizione si evidenzia facendo una
sezione verticale del terreno attraverso cui è possibile mettere in luce il profilo. Lo studio
del profilo del terreno e del terreno agrario ha evidenziato una diversità di opinioni tra i
pedologi e gli agronomi, d’altra parte giustificata dalla diversa formazione colturale e
dalle differenti finalità che si pongono le due professioni.
Da un punto di vista strettamente pedologico, il profilo del terreno evidenzia, a
partire dall’alto verso il basso, diversi strati, detti orizzonti, in quanto i loro confini sono
spesso, ma non sempre, ad andamento orizzontale. Questi possono presentare
un’ulteriore differenziazione in sottorizzonti. La nomenclatura che n’è derivata, tuttavia,
si è andata nel tempo evolvendosi, ma anche complicandosi ed ha subìto numerose
modificazioni. Nel trattare quest’argomento, per facilitarne la comprensione, si cercherà
di indicare sia la vecchia nomenclatura, sia quella più recente, proposta, quest’ultima, per
un’adozione ad uso internazionale.
I classici studi relativi al profilo del terreno hanno consentito di mettere in evidenza
cinque differenti strati i cui nomi derivano fondamentalmente dalla loro posizione lungo
la verticale e dalla loro origine e genesi. Tali strati sono l'orizzonte umifero superficiale,
l'orizzonte eluviale, l'orizzonte illuviale, l'orizzonte di transizione e la roccia madre.
O RIZZONTE
UMIFERO SUPERFICIALE
L'orizzonte umifero superficiale si ritrova in zone ricoperte da intensa vegetazione
spontanea, anche di tipo forestale. E’ indicato anche come orizzonte A0 o strato organico.
E’ possibile distinguere tre sottorizzonti, ognuno dei quali rappresenta uno stadio
successivo di decomposizione della materia organica. Essi sono indicati con lettere
alfabetiche, provviste di apici e pedici:
1) Sottorizzonte A00 o A’0, contrassegnato, più recentemente come O a è quello più
superficiale, costituito da materiale vegetale di recente caduta, il cui riconoscimento
(foglie, rami, frutti) è ancora possibile ad occhio nudo, perché le diverse parti
anatomiche delle piante hanno ancora conservato la loro forma.
Fiume Francesco
2) Sottorizzonte A0 o A’’0, chiamato più di recente O2, è costituito da residui organici in
avanzato stadio di decomposizione attuata da una fauna costituita principalmente da
insetti, raramente anellidi che trovano in tale strato un ambiente non favorevole a
causa dei valori di pH nettamente in campo acido o subacido, e da microrganismi di
tipo fungino. Le spoglie delle piante sono quasi scomparse, permanendo soltanto
quelle più resistenti che hanno in ogni modo perso la coesione e si frantumano a
seguito di piccole pressioni.
3) Sottorizzonte A’’’0, da alcuni considerato come parte integrante del precedente
orizzonte, è il terzo orizzonte organico, costituito da detriti non più riconoscibili,
perché ormai di consistenza terrosa, di colore nerastro o bruno scuro per la presenza
di sostanza organica completamente umificata.
ORIZZONTE ELUVIALE
L'orizzonte eluviale è situato al disotto di quello organico superficiale ed è
attraversato dalle acque meteoriche. E’ indicato come orizzonte A nel quale si
distinguono due sottorizzonti:
1) Sottorizzonte A1, prevalentemente inorganico è commisto ad una certa quantità di
materia organica, infiltratosi dall’alto per opera dell’acqua di drenaggio, la quale
conferisce un colore che va dal grigio al nerastro, in relazione alla quantità di
composti umiferi.
2) Sottorizzonte A2, caratterizzato da povertà di sostanza organica e carenza di
sesquiossidi ferroalluminici colloidali asportati dall’acqua meteorica che attraversa
questi orizzonti, è di un colore chiaro che va dal biancastro fino al niveo, in rapporto ai
livelli d’asportazione.
ORIZZONTE ILLUVIALE
L'orizzonte illuviale è indicato come orizzonte B e può essere considerato uno
strato di accumulazione in quanto contiene una parte delle sostanze asportate dagli strati
sovrastanti. Tali sostanze si arrestano proprio in questo orizzonte per alcune cause
principali: per esaurimento delle acque di infiltrazione; per ritenuta meccanica da parte
delle particelle più fini, dovuta alla diminuita permeabilità e porosità di questo spessore
di terreno; per precipitazione chimico-colloidale dovuto alla flocculazione e
pectizzazione delle sostanze in soluzione, causata dalle cariche elettriche dei cationi che
sono qui presenti ad elevata concentrazione. Si possono riconoscere diversi sottorizzonti,
caratterizzati da specifiche gradazioni di colore, che sono indicati dalla lettera B, con un
pedice numerico progressivo, a partire da 1, o letterale. Così, i diversi sottorizzonti
possono essere indicati come B1, B2, B3 ed oltre, per indicare progressive variazioni delle
caratteristiche pedologiche osservabili nello spessore dell’orizzonte illuviale, ma è
possibile anche indicarli come Bh , Bs per riferirsi ad un sottorizzonte arricchito,
rispettivamente, di sostanze organiche umificate, di colore nero, o di sesquiossidi di ferro
e di alluminio, di colore rosso ruggine.
ORIZZONTE DI TRANSIZIONE
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Il terreno
L'orizzonte di transizione si riscontra nel caso in cui la linea di separazione fra un
orizzonte e l’altro non sia netta, ma graduale o compenetrata, tanto da dar luogo a forme
miste non scindibili. Vari sono i criteri per contrassegnare questi orizzonti. Si indica con
A3 quel sottorizzonte transiente tra A e B, i cui caratteri sono più vicini ad A; si
contrassegna con AB quello nella cui parte superiore prevalgono le caratteristiche di A ed
in quella inferiore le caratteristiche di B, senza che sia possibile una netta separazione;
quello strato che avrebbe potuto qualificarsi con A2 e che racchiude parti con caratteri di
B nella misura inferiore al 50% si denomina “A e B” e “B ed A” nel caso contrario.
ROCCIA MADRE
La roccia madre rappresenta l’orizzonte più profondo ed è costituita da quella parte
ancora inalterata del substrato, indicata con la lettera C. Anche qui è possibile distinguere
diversi sottorizzonti, i quali vengono di seguito indicati:
1) Sottorizzonti C1, rappresenta il passaggio fra la parte ancora in fase di disfacimento e
quella ancora inalterata del substrato.
2) Sottorizzonte C2, viene a sussistere soltanto in presenza del precedente sottorizzonte
perché, in tal caso verrebbe a rappresentare la parte inalterata del substrato.
3) Sottorizzonte D, per indicare uno strato diverso da quello dell’autentica roccia madre
del terreno, la cui presenza indica un suo ruolo sul processo di pedogenesi.
4) Sottorizzonte G, che si riferisce ad uno strato di ossidoriduzione, frequente in terreni
umidi o palustri, dove l’eccessivo ristagno idrico ha causato mancanza di aerazione,
fenomeni di riduzione, colorito bluastro impartito da composti ferrosi.
Va anche ricordato che spesso si adottano lettere minuscole, come pedice di
maiuscole, per indicare particolarità chimiche dell’orizzonte (presenza di calcare, gesso,
sali, sesquiossidi ferroalluminici).
La classificazione degli orizzonti testé citata ha riportato alcune modifiche e
variazioni. Secondo questa più recente proposta, assurta a nomenclatura internazionale,
nel profilo stratigrafico del terreno si distinguono gli orizzonti principali, orizzonti di
transizione e sottorizzonti.
Gli orizzonti principali sono indicati con le maiuscole O, A, E, B, C, G, R.
Vengono di seguito sintetizzate le principali caratteristiche di tali orizzonti:
O: orizzonte superiore del terreno costituito da sostanza organica fresca o parzialmente
decomposta in buone condizioni d’aerazione, non inferiore al 30%, qualora la
frazione inorganica del terreno abbia oltre il 50% d’argilla, o al 20% se quel terreno è
privo d’argilla. Per contenuti d’argilla inferiori al 50%, la corrispondente quantità di
sostanza organica va calcolata proporzionalmente a quella dell’argilla presente.
A: orizzonte prossimo alla superficie del suolo costituito da un accumulo di sostanza
organica umificata intimamente frammista con la frazione inorganica del suolo. La
quantità di materia organica deve essere inferiore al 30% se quell’inorganica ha un
contenuto in argilla superiore al 50%, oppure inferiore al 20% se l’argilla è assente.
Per quantità d’argilla inferiori al 50% deve corrispondere una percentuale di materia
organica proporzionale.
E: orizzonte seguente quello precedente con contenuti di sostanza organica, argilla e
sesquiossidi minori di quelli dello strato successivo, con apparente arricchimento in
quarzo e altri minerali poco decomponibili, riconoscibile per un colore più sbiadito.
Fiume Francesco
B: orizzonte contenente, singolarmente o frammisti, argilla, sesquiossidi e sostanza
organica, ivi giunti dagli strati sovrastanti, per illuviazione, con le acque di drenaggio,
oppure costituenti un accumulo residuale. In rapporto all’illuviazione, presenta un
arricchimento in carbonati di calcio e magnesio, in solfati ed altri sali più solubili.
C: orizzonte formato da materiale non consolidato con accumuli di carbonati, solfati e
sali più solubili.
G: orizzonte con caratteri particolari per avvenuti processi di riduzione avvenuti in
ambiente anaerobiotico quale quello sommerso da acque. Il colore è bluastro,
verdiccio o grigiastro per l’assenza di materiali ossidati.
R: orizzonte costituito dalla solida roccia madre.
Confrontando quest’ultima classificazione con la precedente, gli strati O ed A
potrebbero, grossolanamente, coincidere con l’orizzonte organico A0, lo strato E con
quello eluviale A, l’orizzonte B e C con quello illuviale ed indicato con la stessa lettera,
l’orizzonte G con il sottorizzonte G, l’orizzonte C con quello R perché ambedue
costituenti la roccia madre.
Gli orizzonti di transizione sono considerati e classificati alla stessa stregua della
precedente classificazione e pertanto non si ritiene di soffermarsi ulteriormente.
I sottorizzonti emergono con tutta la loro importanza quando l’orizzonte principale
presenta delle peculiarità e specializzazioni che vanno evidenziate. Si indicano con la
lettera maiuscola dell’orizzonte principale seguita da un numero ed eventualmente una
lettera minuscola. Il numero può ad esempio indicare differenti gradazioni di colore dello
stesso orizzonte, mentre la lettera si riferisce ad un arricchimento in un particolare
materiale. In quest’ultimo caso è necessario rifarsi alla nomenclatura internazionale che
indica la lettera a (riferita all’orizzonte A, quando la materia organica è ben decomposta e
si trova accumulata in un ambiente idroforo), b (è usata per orizzonti sepolti), ca, cs, cn
(indicano arricchimenti di carbonato e solfato di calcio e di sesquiossidi), f (sostanza
organica parzialmente scomposta nell’orizzonte O), fe (accumulo illuviale di ferro
nell’orizzonte B), g (chiazze dovute a condizioni di riduzione ed ossidazione causate da
periodiche saturazioni con acqua), h (presenza di sostanza organica ben decomposta negli
orizzonti O e A, non disturbati, e nell’orizzonte B per arricchimenti illuviali di materia
organica o torba), l (presenza di materia organica d’origine animale nell’orizzonte O), m
(per un orizzonte fortemente cementificato o indurito), na, sa (per accumulo di sodio e di
sali più solubili del gesso nel complesso di scambio, rispettivamente, nell’orizzonte B), o
(sostanza organica poco decomposta, come le torbe, accumulatasi in ambiente
idromorfo), ox (accumulo di sesquiossidi nell’orizzonte B), p (per l’orizzonte A
disturbato a seguito di aratura), r (presenza di strati di ghiaino), t (arricchimento illuviale
di argilla nell’orizzonte B), v (arricchimento residuale, cioè in posto, di argilla), x
(frangipan).
Sono state date indicazioni sulla stratigrafia del terreno, caratteristica abbastanza
statica di un terreno agrario, almeno per quanto concerne gli strati posti al disotto di
quelli disturbati dall’esercizio di attività agricole. La trattazione è stata effettuata,
principalmente, sotto un’ottica di pedologia che tende a porre su di un piano secondario,
rispetto all’agronomia, la coltivazione delle piante e l’influenza che ha il terreno su di
essa. In altri termini, per un agronomo, può poco interessare l’esistenza di un
sottorizzonte G quando questo si trova a profondità tale da non interessare le radici delle
piante e non o poco influire sulla cinetica dell’acqua. Tale strato, però, potrebbe diventare
importante qualora si trovasse più in superficie tanto da poter interessare lo sviluppo
delle radici ed i movimenti dell’acqua utili per le piante; anzi l’orizzonte G, preso ad
esempio, potrebbe divenire sede di lavorazioni agricole (ripuntature, arature), di cui si
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55
Il terreno
tratterà più avanti, con perdita delle caratteristiche peculiari, strettamente legate a
processi di riduzione, nel caso specifico, ed acquisizione di nuove, completamente
opposte.
Da un punto di vista agronomico, la stratigrafia del terreno riduce quest’ultimo,
semplicemente, a due livelli: il suolo, la parte più superficiale dove avviene lo sviluppo
delle radici delle piante agrarie ed il sottosuolo, la porzione sottostante, poggiante sulla
roccia madre, non interessata all’accoglimento ed all’accrescimento dell’apparato
radicale. Il suolo è stato poi distinto in strato attivo e strato inerte. Possono poi esistere,
come si vedrà, i cosiddetti stati di inibizione. Tutti questi strati ora elencati saranno
singolarmente descritti, facendo altresì riferimento alla loro evoluzione che hanno subìto
nel tempo.
SUOLO
E’ quella parte più superficiale del profilo della crosta terrestre, a contatto con
l’atmosfera, che fa da supporto alla vegetazione e, pertanto, sede di sviluppo delle radici
delle piante.
Il suolo è un corpo dinamico naturale, che costituisce quella parte della superficie
della terra, derivante dall’azione integrata, nel tempo, del clima, della morfologia, della
roccia madre e degli organismi viventi.
Esso viene generalmente considerato come sinonimo di terreno, anche se sulla
distinzione tra i due termini e sulla loro accezione si possono registrare disparità di
vedute. Tuttavia, gli argomenti portati a favore dell’una o dell’altra tendenza sono spesso
inconsistenti e poco dovrebbe importare se il geologo, l’ingegnere, il microbiologo e
finanche il giurista ed il legislatore ed altre categorie di tecnici usano i termini in senso
traslato, una volta assodato che alla stessa parola si dà un significato, senza possibilità di
equivoci, come quello indicato in questa sede.
Il suolo è da ritenere una risorsa naturale rinnovabile molto fragile perché se sono
necessari millenni per la sua formazione, fatti ambientali ed antropici possono provocare
dissesti idraulico-forestali e la conseguente distruzione in un tempo dell’ordine di
grandezza di anni e addirittura di ore. Pertanto, la conoscenza del suolo e gli interventi di
difesa (sistemazioni idraulico-agrarie ed idraulico-forestali) sono di importanza vitale per
un territorio e per l’economia di un paese, essendo il suolo il luogo ed il supporto per la
produzione primaria (derrate alimentari, materie prime per l’industria, risorse
energetiche).
Ora saranno presi in esame quegli aspetti del suolo che permettono di
approfondirne la conoscenza. Ciò è di grande importanza per allestire e mettere in atto un
complesso di opere per la gestione della difesa del suolo. Per esempio le sistemazioni del
terreno possono evitare o limitare danni al territorio (erosione idrometeorica, eolica e
marina; alluvionamento e frane; subsidenza, cioè abbassamento del livello del suolo), alle
cose ed alle persone; l’adeguata gestione del territorio può evitare la perdita di terreni
fertili per uso improprio (insediamenti industriali e di infrastrutture inutili) ed evitare
l’inquinamento del suolo da parte di rifiuti industriali ed urbani, nonché erbicidi, pesticidi
e fertilizzanti usati indiscriminatamente in agricoltura. Gravi conseguenze ambientali,
rappresentate da una pesante diminuzione della fertilità ed un grave isterilimento del
terreno, possono essere evitate se viene attuata una razionale conservazione del suolo ed
un'opportuna gestione territoriale.
Il suolo va studiato considerandone la natura e lo spessore, quest’ultimo
Fiume Francesco
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denominato anche potenza.
Circa la natura del suolo va detto che i terreni autoctoni sono di natura molto
uniforme, non differente, in modo sostanziale, da quella del sottosuolo, poiché il suolo è
il risultato della disgregazione e decomposizione degli elementi grossolani del sottosuolo.
Soltanto i suoli di terreni autoctoni, che hanno subito processi di lisciviazione o fenomeni
carsici (terre rosse), possono essere di natura differente da quella del sottosuolo. I terreni
alloctoni e parautoctoni hanno suolo e sottosuolo di natura diversa, in rapporto al
processo di pedogenesi.
Con riguardo alla potenza del suolo, va subito specificato che il terreno ha uno
spessore molto variabile che va da pochi centimetri ad oltre 40 m come nei loess. In
relazione allo spessore del suolo i terreni si distinguono in:
a) terreni a roccia nuda o affiorante se il sottosuolo roccioso emerge in maniera più o
meno discontinua nei vari punti di una superficie. Sono in genere terreni poveri, dove
le lavorazioni sono difficili per il pericolo di rovinare gli attrezzi, che tendono, spesso,
a degradarsi ulteriormente sotto l’azione del vento e dell’acqua;
b) terreni superficiali sono quei terreni di limitato spessore, di origine autoctona
residuale o parautoctona che si ritrovano nelle parti piane di rilievi e montagne;
c) terreni mediamente profondi sono quelli la cui potenza varia tra 40 e 50 cm. Sono
questi i terreni parautoctoni di pianura che con il tempo, a seguito di fenomeni di
accumulo e sedimentazione, possono ulteriormente incrementare il loro spessore;
d) terreni profondi e profondissimi sono quelli alloctoni alluvionali ed eolici (loess) che
possono raggiungere anche i 40 m di potenza.
In quest’ultimo caso, le piante coltivate, in relazione alla specie, possono non riuscire ad
utilizzare ed occupare tutto il grande spessore di terreno disponibile.
Va ancora detto che le lavorazioni del terreno e tutti gli altri interventi antropici che
derivano dalla pratica agricola, possono interessare soltanto alcune decine di centimetri. Di
conseguenza si viene a costituire, tra lo strato di terreno interessato dalla coltivazione e
quello sottostante, non disturbato dagli interventi agricoli ed anche se occupato dalle radici
che qui possono approfondirsi, una differenziazione più o meno netta in strato attivo, detto
anche strato arabile perché interessato dalle lavorazioni più profonde (arature), e strato
inerte.
Strato attivo
E’ la parte più superficiale del terreno che riceve le lavorazioni, le concimazioni, le
irrigazioni, gli ammendamenti e le correzioni e tutte quelle operazioni che sono attuate
nella pratica agricola. Pertanto esso si presenta più soffice, arieggiato e permeabile
all’acqua.
Lo strato attivo è quello più ricco in materia organica, sia perché accoglie i residui
delle piante coltivate e gli escrementi degli animali allevati allo stato brado (pascoli), sia
perché contiene la più elevata massa di radici, che qui trovano le migliori condizioni
d’abitabilità a causa degli interventi agricoli, sia perché riceve le concimazioni organiche
(letame, sovescio). Per tale motivo esso presenta una tinta più o meno scura. Tuttavia si
possono verificare condizioni in cui tale strato diventa più povero di materia organica,
proprio a causa della maggiore esposizione all’ambiente atmosferico. Così, per esempio,
nei climi caldi e aridi, l’elevata temperatura e la scarsità d’acqua causano un’eccessiva e
rapida mineralizzazione, fino all’incenerimento (eremacausi), della sostanza organica,
con conseguente impoverimento del terreno. Infatti, terreni originariamente ricchi di
materia organica (praterie, paludi, torbiere) e successivamente messi a coltura, a causa di
particolari condizioni climatiche ed antropiche, possono aver mineralizzato gran parte
57
Il terreno
della sostanza organica soltanto in corrispondenza dello strato attivo superficiale, mentre
quello sottostante ha dato luogo ad un processo di decomposizione che è stato molto
limitato (cernozem e podsoli). In questo caso anche il colore tende a cambiare assumendo
una tinta chiara, grigia o bianca.
Lo strato attivo, rispetto agli altri orizzonti, è quello che contiene i più elevati
quantitativi di azoto organico e minerale. Ciò perché è lo strato più ricco in materia
organica ed è lo strato che è sottoposto alla migliore aerazione, proprio perché occupa la
posizione più superficiale. Conseguentemente, è lo strato che manifesta la più elevata
attività microbiologica, particolarmente quella che determina la trasformazione
dell’azoto organico in azoto minerale e quella legata all’opera dei batteri azotofissatori.
Tuttavia, l’acqua meteorica, ma anche quella d’irrigazione, in quantità eccessiva, tale da
attraversare tutto lo spessore dello strato attivo, può indurre ingenti perdite d’azoto,
soprattutto quello in forma nitrica, che va ad accumularsi negli strati più profondi e
finanche nella falda.
Lo strato attivo presenta i più elevati quantitativi di fosforo scambiabile, perché è
proprio in tale orizzonte che si realizzano gli apporti di materia organica e di
concimazione fosfatica. Le piante contribuiscono all’arricchimento in fosforo di questo
strato di terreno; infatti, a seguito della crescita ed approfondimento dell’apparato
radicale, esse raggiungono lo strato inerte sottostante e sottraggono fosforo scambiabile
che è poi portato più in superficie. Bisogna anche ricordare che il potere assorbente del
terreno è in grado di trattenere il fosforo scambiabile, apportato con le concimazioni,
impedendone la mobilizzazione ed il trasporto nello strato sottostante, per opera delle
acque di drenaggio.
Lo strato attivo possiede, rispetto agli altri strati, i più elevati contenuti di potassio
scambiabile, per gli stessi motivi indicati a proposito del fosforo.
Nei nostri climi, lo strato attivo presenta, sempre rispetto agli altri orizzonti del
suolo, i più bassi contenuti in calcio, espresso come calcare. Infatti, quest’elemento tende
ad accumularsi nello strato inerte sottostante in relazione al fatto che il carbonato di
calcio può essere facilmente mobilizzato dalle acque meteoriche o d’irrigazione,
particolarmente quando presentano elevati tenori d’anidride carbonica.
Lo strato attivo, in terreni compatti ed a ridotta permeabilità, assoggettati al ristagno
idrico, può altresì presentare le minori quantità di composti di ferro, manganese, solfo,
soprattutto sali in cui questi elementi sono al minimo di ossidazione, i quali vanno ad
accumularsi nello strato sottostante.
Lo strato attivo, quando ricco di scheletro, può evidenziare anche i più bassi
quantitativi di materiale argilliforme, che è trasportato con le acque meteoriche e di
irrigazione nello strato inerte.
Strato inerte
E’ chiamato anche strato vergine e rappresenta lo strato sottostante a quello attivo
che non riceve direttamente le lavorazioni e tutte le altre pratiche agricole.
Esso è normalmente dotato di una minore quantità di materia organica, di fosforo e
di potassio scambiabile, mentre è più ricco in calcio, allo stato di carbonato. Per
quest’ultimo fatto esso è di colore più chiaro.
Lo strato inerte è più ricco di quello attivo di tutti quegli elementi che sono poco
trattenuti dal potere assorbente del terreno e che qui tendono ad accumularsi (azoto in
forma nitrica, sali ferrosi e manganosi).
Lo strato inerte è più povero d’ossigeno e si presenta più compatto perché più ricco
Fiume Francesco
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di elementi colloidali argilliformi e perchè non interessato dalle lavorazioni del terreno.
Per tali motivi, la carica microbiologica in generale e quella aerobica in particolare
assumono valori relativamente bassi. Lo strato inerte, per i motivi accennati, è poco
adatto alla vita delle piante coltivate e quando grossi movimenti di terra o arature troppo
profonde lo portano in superficie, si possono causare gravi riduzioni delle rese
produttive.
Lo strato inerte esercita la sua influenza sulle colture in vario modo. Quando non
presenta condizioni di estrema inospitalità, esso ospita le radici di quelle piante che
hanno un apparato radicale profondo (ad esempio le leguminose); permette alle radici di
approfondirsi di più, sfruttando un maggior volume di terra; funziona da riserva d’acqua
e di sostanze nutritive che potranno essere utilizzate dalle piante nei momenti di
fabbisogno; dà la possibilità di aumentare lo spessore dello strato attivo, sia
approfondendo le arature e favorendo un mescolamento con lo strato attivo, sia
utilizzando attrezzi (ripuntatore) in grado di intaccarlo solamente, senza mescolare i due
strati.
Pertanto, lo strato inerte svolge un ruolo importante nel determinare lo sviluppo in
profondità dell’apparato radicale delle piante coltivate, i movimenti idrici di percolazione
dell’acqua meteorica e d’irrigazione e quelli ascensionali legati alla presenza della falda
freatica, i rapporti termoidrici con lo strato attivo.
I valori percentuali di alcuni composti fondamentali, rilevati in differenti terreni,
sono riportati nella tabella 10, allo scopo di evidenziare alcune principali differenze tra lo
strato attivo e quello inerte.
Tab. 10 – Quote orientative di humus, di azoto nell’humus, di anidride fosforica, di potassa e di
calcare, a diverse profondità (espresse in centimetri), determinate nello strato attivo e
strato inerte, in diversi terreni.
Orizzonti
Profondità
% di
humus
30
Strato attivo 1,21
Strato inerte
-
% di azoto % di
nell’humus P2O5
150
30
150
-
5,30
-
0,74
-
-
% di K2O
0-10
10-20
0,145 0,6-9,2 0,3-5,8
2,16 0,090
-
-
% di calcare
20-30
30-40
-
-
40-50 0-40 41-80 81-140
-
0,3-3,4 0,2-0,9 0,2-0,7
10,0
-
-
-
11,2
17,5
Le differenze tra strato attivo ed inerte non sono evidenti nella maggior parte dei
terreni autoctoni a causa della loro scarsa potenza, vale a dire del ridotto spessore. Terreni
molto argillosi, che a poca profondità hanno sviluppato un orizzonte impenetrabile alle
radici, non presentano lo strato inerte.
In linea generale, si può affermare che, procedendo dai climi freddo-umidi a quelli
caldo-aridi, le differenze tra strato attivo e quello inerte divengono sempre meno
accentuate, poiché negli ambienti caldi la materia organica si decompone massicciamente
e molto rapidamente e l’acqua che cade sul suolo e che riesce a percolare attraverso di
esso è alquanto modesta.
Orbene, proprio alla sostanza organica ed alla sua decomposizione ed alla presenza
dell’acqua, insieme con la sua capacità di mobilizzazione e trasporto, si devono le
principali caratteristiche differenziali, quelle più evidenti, dello strato attivo e di quello
inerte.
59
Il terreno
SOTTOSUOLO
Il sottosuolo è quella parte del profilo stratigrafico di un terreno agrario disposto, in
profondità, al disotto dello strato inerte e pertanto non è interessato dalle lavorazioni,
dalla rizosfera delle piante e dai fattori della pedogenesi.
La sua posizione, lungo la verticale, determina la potenza del suolo. Esso, pertanto,
può affiorare alla superficie del terreno (terreni a roccia affiorante) o trovarsi alla
profondità di pochi centimetri (terreni superficiali), fino a molti metri come nel caso di
terreni alluvionali o eolici (loess).
Il sottosuolo può essere costituito da rocce o da detriti di misura sempre più piccola
a partire da ciottoli, ghiaia, sabbia, fino a materiali argilliformi.
Un sottosuolo molto profondo, lontano dalla superficie, sul quale insiste un suolo
di buona potenza, manifesta poca influenza sulla coltivazione delle piante e potrà agire
soltanto su alcune condizioni proprie del suolo. Così, un sottosuolo costituito da elementi
grossolani (ciottoli e ghiaia) può interferire sulla velocità di smaltimento delle acque di
drenaggio, sull’asportazione di alcuni elementi nutritivi, sulla maggiore ossidazione delle
sostanze in quella parte più profonda dello strato inerte.
Al contrario un sottosuolo poco profondo, vicino allo strato attivo laddove è pure
assente quello inerte, influenza attivamente le coltivazioni ed è di grande ostacolo allo
sviluppo delle radici. Inoltre, qualora esso sia costituito da rocce impermeabili o poco
permeabili, può impedire la dispersione dei materiali solubili del suolo trascinati versi il
basso dalle acque. Lo stesso sottosuolo permeabile, tuttavia, non può evitare le
dispersioni laterali, soprattutto se i terreni sono dotati di pendenza nei quali, in aggiunta,
si potrà avere lo slittamento della massa detritica sovrastante.
In generale, da un punto di vista agronomico, un sottosuolo impermeabile e
compatto, ad esempio di tipo granitico o lavico o molto argilloso, può esercitare azioni
negative, in particolare, quando il suolo è altrettanto impermeabile, e provocare ristagno
idrico e asfissia dell’apparato radicale delle piante. Al contrario, lo stesso tipo di
sottosuolo (impermeabile e compatto) evidenzia effetti positivi, soprattutto quando il
suolo è permeabile, poiché impedisce la perdita d’acqua, quando questa non si disperde
lateralmente, e favorisce la costituzione di un'adeguata riserva idrica, laddove non ci sono
radici molto profonde che potrebbero esserne danneggiate. Tale riserva idrica, che così si
costituisce, potrà essere utilizzata, in caso di siccità, per risalita capillare.
Un sottosuolo permeabile, con scheletro grosso, può essere dannoso nel caso in cui
il suolo è altrettanto permeabile.
Questa situazione, infatti, accentua i difetti di un terreno siccitoso, dove è
oltremodo difficile poter accumulare una riserva idrica. La stessa condizione può riuscire
utile per un suolo che, al contrario, dispone di molta acqua meteorica, tende ad avere
difficoltà nel suo smaltimento e ne trattiene una quantità eccessiva; in questo caso, suolo
e sottosuolo permeabili favoriscono il drenaggio idrico.
In sintesi, da un punto di vista della permeabilità all’acqua, suolo e sottosuolo, per
esercitare una reciproca azione favorevole sulle colture, debbono avere caratteristiche
opposte.
La distinzione agronomica del profilo del terreno in suolo, con lo strato attivo e
quello inerte, e sottosuolo non sempre è così netto, anche per l’esistenza d’ulteriori strati
che, per la loro natura e per la profondità alla quale si trovano, possono essere d’ostacolo
grave allo sviluppo delle radici e, quindi, alla produttività agricola di un terreno.
Fiume Francesco
Questi strati si chiamano strati di inibizione e possono essere, rispetto alla capacità
che hanno di lasciarsi attraversare dall’acqua, impermeabili o impermeabilizzati e
permeabili.
STRATI D’INIBIZIONE
Gli strati d'inibizione sono orizzonti di terreno che, in relazione alla loro genesi,
possono essere ad andamento regolare o irregolare, continuo o discontinuo, orizzontale o
inclinato, con varia angolazione rispetto all'orizzonte.
Gli strati d’inibizione sono così chiamati perché possono impedire lo sviluppo e
l’approfondimento delle radici o perché possono ostacolare del tutto, o parzialmente, il
drenaggio dell’acqua. In molti casi essi rendono impossibili le lavorazioni del terreno e
possono determinare per le piante, limitatamente allo spazio occupato, condizioni di
abitabilità e di nutrizione assolutamente inidonee alla loro vita.
Gli strati di inibizione che impediscono il drenaggio dell’acqua sono orizzonti di
consistenza che vanno dal tenero e friabile fino al duro e lapideo e sono gli strati
impermeabili o impermeabilizzati.
Gli strati di inibizione che non impediscono la percolazione dell’acqua nel terreno
sono detti strati permeabili e possono determinare condizioni di asfissia radicale per
l’eccessiva quantità d’acqua occupante la totalità dei pori del terreno (falda freatica),
possono causare un grave stress nelle piante per appassimento o addirittura la loro morte
per avvizzimento i relazione a mancanza d’acqua (strato arido), possono causare la
plasmolisi e la morte delle radici per eccessiva salinità e per anomalia nel valore del pH
e, infine, possono causare avvelenamento della pianta e gravi fenomeni di fitotossicità
(strati tossici). Ognuno di questi orizzonti inibitori la crescita e la vita delle piante sarà
preso singolarmente in considerazione, anche per avere l'occasione di indicare eventuali
rimedi da porre in essere per limitare i danni che essi possono arrecare.
Strati impermeabili o impermeabilizzati
Sono strati che impediscono oppure ostacolano lo sviluppo e l’approfondimento
delle radici delle piante coltivate ed impediscono il drenaggio delle acque meteoriche,
con conseguente danneggiamento delle stesse per asfissia. Gli effetti negativi di tali strati
sono tanto più accentuati quando minore è la profondità alla quale gli orizzonti sono
posizionati e maggiore è la loro compattezza che rende difficile il compito delle radici
d’intaccarli ed arduo l’eventuale lavoro dell’uomo per rimuoverli. Numerosi sono i tipi di
strati d’inibizione impermeabili o impermeabilizzati, i più importanti dei quali, in base
alla loro natura, sono la crosta o crostone, il conglomerato, il caranto, il ferretto, il
cappellaccio, la pozzolana.
CROSTA O CROSTONE
E’ un orizzonte illuviale di natura calcarea, gessosa, ferruginosa in dipendenza
della composizione della roccia madre o del substrato sovrastante. La compattezza,
durezza e friabilità sono variabili ed il più delle volte resistenza opposta alla
frantumazione è enorme. E' tipico dei terreni delle regioni caldo-aride dove il carbonato o
il solfato di calcio o composti del ferro possono passare nella soluzione del suolo e
ridepositarsi a profondità diverse, per precipitazione, in rapporto al movimento
discendente o ascensionale dell'acqua.
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Il terreno
Il crostone si ottiene per risalita capillare dell'acqua con i soluti, dagli orizzonti più
profondi, in seguito ad una rapida evaporazione superficiale, durante un periodo di aridità
e con temperature che superano i 20 °C, in presenza di un sottosuolo e di una roccia
madre con un certo grado di porosità e di fratture in grado di assicurare presenza di acqua
in circolazione. Il crostone si origina soltanto in presenza di acqua sotterranea, anche
nella stagione secca e, pertanto, non può formarsi in regioni assolutamente desertiche.
Infatti lo si ritrova nei climi steppici e predesertici. Una genesi avvenuta secondo questo
schema può interpretarsi per i crostoni calcarei che si ritrovano in Palestina (detti nari), in
Siria, Cirenaica, Marocco, Tunisia i quali hanno una potenza di svariati metri.
Tuttavia, il crostone può essersi originato non soltanto per aspirazione capillare
dell'acqua dagli strati sottostanti del terreno, ma anche per l'azione di soluzioni
discendenti che nel percorso verso il basso si arricchiscono sempre più di sali minerali i
quali si depositano per precipitazione, dovuta alle perdite d’acqua e successive
saturazioni, e si accumulano ad una profondità che va da pochi centimetri a qualche
metro. Tali sono le croste calcaree dell'Africa settentrionale e quelle che si ritrovano in
Puglia dove ricoprono le alluvioni del Quaternario medio di San Severo, Barletta, Foggia,
Ortanova, estendendosi finanche sulle sabbie e sulle marne del Pliocene, mentre mai si
presentano in corrispondenza di più recenti alluvioni come quelle del Fortore, Cervaro,
Carapelle, Ofanto e delle pianure litoranee. Tali crostoni, rappresentati da un prodotto
pedologico di accumulo, hanno una potenza mai eccessiva, che va da pochi centimetri
fino a qualche metro. A Foggia, per esempio il profilo del terreno presenta, dall'alto verso
il basso, 0-40 cm di terreno vegetale grigio, 10-20 cm di crosta calcarea lamellare con
superficie superiore assai netta, 150 cm di ciottoli e sabbie calcaree, 20-50 cm di crosta
calcarea con superficie superiore assai netta che tende ad infiltrarsi tra un deposito di
ciottoli, spesso oltre 1 m.
La possibilità di utilizzare per le attività agricole terreni provvisti di crostoni è
molto legata alla profondità alla quale lo stesso crostone è posto ed al tipo di coltura.
Così, terreni con crostoni prossimi alla superficie oppure piante con apparati radicali che
raggiungono o superano la profondità del crostone sono naturalmente inadatti
all'agricoltura. Il crostone può essere intaccato e frantumato con mine o mezzi meccanici,
ma spesso questi lavori sono poco utili perché l'orizzonte calcareo può ricostituirsi con il
permanere delle condizioni che l'hanno determinato.
CONGLOMERATO
Con tale termine sono indicate rocce sedimentarie elastiche, formate da detriti
grossolani, di dimensioni che vanno da un millimetro fino a vari centimetri che hanno
subito un processo di diagenesi cioè di cementazione e di costipazione. Il composto che
cementa e costipa è rappresentato normalmente e principalmente da carbonato di calcio
che va a depositarsi su ciottoli e ghiaia ed infiltrarsi negli interspazi creando uno strato
non drenabile dall’acqua. Pertanto un conglomerato può costituire uno strato d’inibizione
impermeabile in grado di impedire la percolazione ed il drenaggio dell'acqua e, se in
posizione superficiale, bloccare lo sviluppo delle radici.
I terreni agrari che originano su un conglomerato sono ricchi di scheletro e, in
relazione agli elementi di cui sono caratterizzati, possono essere poveri o ricchi di
materiali argillosi e sabbiosi e, pertanto, sciolti o compatti e più o meno validi da un
punto di vista agronomico. In generale, tali terreni possono essere ben provvisti di
carbonato di calcio, offrire una giusta proporzione tra argilla e sabbia, ma presentare
difficoltà alla lavorazione per l'eccessiva quantità di frammenti grossolani.
Tra i conglomerati si distinguono le brecce se i frammenti sono angolosi e
Fiume Francesco
puddinghe se sono arrotondati. Ambedue si classificano in monogeniche (pietra grigna,
formata da calcare cementato da carbonato di calcio, dell'Appennino centrale, e mischio,
con frammenti di calcare saccaroide costipati da cemento violaceo o verde scuro) e
poligeniche (verde antico formato da frammenti di serpentino e calcare, in località delle
Alpi Apuane, gonfolite, con cemento arenaceo calcare, marnoso, ferrifero o siliceo, in
Lombardia, tassello, così chiamato nell'Italia centrale, formato da ciottoli di calcare,
arenarie, ftaniti, rocce eruttive cementati da carbonato di calcio, ceppo che si trova
nell'alta pianura lombarda) a seconda che i frammenti originino da un'unica roccia o da
rocce di diversa natura.
I terreni agrari dell'Umbria, della Toscana e delle Marche, formati su conglomerati
del Pliocene e del Quaternario inferiore, offrono all'olivo un ambiente pedologico assai
favorevole, anche in rapporto alla mitezza del clima.
CARANTO
Il nome sta ad indicare uno strato concrezionato compatto, costituito da calcare e
limonite, con una struttura di tipo pisolitica, di colore grigio-giallastro, che si trova in
posizione superficiale quasi mai a profondità che non supera il metro, al di sotto
dell'orizzonte vegetale di alcuni terreni alluvionale della Pianura padana. Il caranto si
origina dalla dissoluzione del carbonato di calcio dell'orizzonte soprastante che poi si
rideposita, a seguito della precipitazione dello stesso sale (causata dall’aumento di
concentrazione delle soluzioni discendenti e dalla variazione del grado di concentrazione
degli ioni idrogeno) insieme a materiale di varia natura, principalmente argilloso, per
formare un impasto compatto e serrato. Il caranto, rappresenta uno strato di inibizione
che ostacola le lavorazioni profonde e non permette lo sviluppo delle radici verso gli
strati profondi.
FERRETTO
Con il termine di ferretto s'intende un terreno di colore rosso o rosso-ruggine, a
reazione acida, costituito da sedimenti conglomerati scarsamente cementati, di differente
età geologica, ed arenarie d’elevata permeabilità, la cui pedogenesi è strettamente legata
alla permeabilità del substrato.
La genesi del ferretto è caratterizzata da un'intensa argillificazione e
decalcificazione che produce un terreno superficiale acido (per assenza di calce ed altre
basi), di colore rosso (per ossidazione dei composti ferrosi), ulteriormente lisciviabile per
trascinamento degli idrosoli di sesquiossido d’alluminio e di ferro, per opera dell'acqua di
percolazione, dagli orizzonti superficiali a quelli inferiori, dove precipitano. Si forma
così una zona di precipitazione di ossidi ed idrossidi ferrico, alluminico, manganico
(massimamente ossidati, quindi), compreso il carbonato di calcio, corrispondente ad un
orizzonte illuviale, formato di noduli o strati costituenti un vero e proprio neolite, così
compatto ed impermeabile, da rappresentare un vero e proprio strato di inibizione.
Pertanto col termine di ferretto s'intende il terreno più o meno coltivabile, privo di calce e
di altre basi, quindi fortemente acido, ma anche quel particolare strato d'inibizione, legato
alla genesi del ferretto o di terreni ferrettizzati, ricco di sesquiossidi e di idrati ferrici
precipitati, che si forma in climi temperato-umidi o in climi aridi con alcune stagioni
molto piovose.
I ferretti sono terreni molto poveri e ridotti allo stato di lande o brughiere, che si
lasciano ridurre a coltura soltanto attraverso una serie d’interventi (ammendamenti e
correzioni) difficili e costosi. In Italia essi sono diffusi in Piemonte ai piedi meridionali
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Il terreno
delle Alpi, in Lombardia sull'altopiano varesino, nell'alta pianura friulana ed in altre
regioni allo stato più o meno ferrettizzato.
I ferretti sono simili alle cosiddette terre rosse dell'Europa meridionale, avendo in
comune il fenomeno della decalcificazione, il colore rosso derivato dalla presenza di
sesquiossidi di ferro liberi e la povertà della vegetazione, conseguenza, quest'ultima,
dell'acidità del terreno nel primo caso e delle caratteristiche climatiche (scarsa umidità e
caldo che ostacolano la vegetazione e provocano anche rapida ossidazione dei residui
organici) nel secondo.
CAPPELLACCIO
E’ il nome che si dà per indicare uno strato d’inibizione che si ritrova in molte
regioni italiane, costituito da materiale roccioso affiorante o posto a piccola profondità,
abbastanza friabile (perché privo di carbonato di calcio e ricco di sesquiossidi ed ossidi
ferrici) da essere rimosso con un ripuntatore portato da un trattore relativamente potente.
E' diffuso nella campagna romana dove si estendono i tufi vulcanici, cosiddetti granulari,
poco coerenti, cui si assegna il nome di "cappellacci teneri", per distinguerli dai tufi
litoidi ed omogenei che offrono maggiore resistenza alla rimozione. Le superfici a
cappellaccio possono essere utilizzate per il pascolo di ovini oppure, bonificate e
dissodate, possono essere impiegate per un'agricoltura più ricca. Così, il cappellaccio
della campagna romana, portato alla superficie, subisce un processo di disfacimento, con
la formazione di un buon terreno agrario, privo di calcare, a reazione compresa tra il
neutro ed il subacido, ricco in potassio, più o meno fornito di fosforo e variamente dotato
di azoto, in relazione all'arricchimento che si consegue qualora, dopo lo scasso,
s’impianta un prato di erba medica.
POZZOLANA
Roccia di origine vulcanica costituita da lapilli e ceneri vulcaniche cementatisi per
l'azione degli agenti atmosferici, che hanno attaccato i silicati loro componenti dando
luogo ad un prodotto di natura acida ricco in silice (SiO2) in forma reattiva, capace cioè
di reagire con l'ossido di calcio per dar luogo a silicati amorfi.
L'Italia è ricca di depositi di questo materiale in Campania, Lazio, Sicilia, Puglia.
La pozzolana viene utilizzata in edilizia per la preparazione di malte idrauliche, in quanto
la silice e l'allumina contenute nel materiale piroclastico acquistano proprietà cementizie
quando vengono a contatto con l'idrossido di calcio.
Il terreno agrario può presentare strati di inibizione di questo tipo, compatti e
impermeabili, di colore rosso bruno ma anche grigio più o meno chiaro. Tali orizzonti
sono di intralcio al drenaggio delle acque, allo sviluppo delle radici ed alle lavorazioni
(qualora lo strato è posizionato superficialmente).
Sono questi i principali strati di inibizione impermeabili anche se se ne conoscono
molti altri con nomi diversi, a volte in omonimia, ma anche in sinonimia. Ricordiamo
così il calcarello che è un crostone costituito da noduli più o meno grossi di calcare
abbastanza distanti l’uno dall’altro, il maltone che è uno strato formato da un impasto
cementificato tra calcare e sabbia, il costolone che è un crostone calcareo allungato e
stretto che si è formato in un terreno inclinato ed in cui la stessa roccia madre ha una
certa inclinazione, il tasso che e uno strato di natura ferruginosa, di enorme consistenza,
quasi lapidea, anche se dotato di una certa friabilità. Infine si ricordano il crostone di
lavorazione ed il crostone d’irrigazione la cui genesi è legata all’attività dell’uomo
nell’esercizio dell’agricoltura. Il primo è in relazione alla compressione esercitata dalla
Fiume Francesco
suola dell’aratro che lavora, su quel terreno, sempre alla stessa profondità. Il secondo si
forma per l’accumulo di materiali terrosi più sottili che, trasportati dall’acqua
d’irrigazione somministrata sempre in uguale volume, vanno ad infiltrarsi nei pori degli
strati sottostanti provocando intasamenti ed impedimenti nel drenaggio dell’acqua,
sempre alla stessa profondità.
Allo scopo di aumentare lo spessore dello strato attivo per accrescere il volume di
terreno disponibile per le radici o per favorire lo sgrondo dell’eccesso idrico, bisogna
ricorrere alla frantumazione di questi strati impermeabili, con operazioni di dissodamento
in profondità. Si tratta di effettuare operazioni di scasso del terreno, agendo con
ripuntatori portati da trattrici d’elevata potenza ed, eventualmente, ricorrendo
all’esplosivo. Con gli attuali mezzi tecnici disponibili si ottengono sicuri risultati positivi
anche se, per contro, bisogna considerare che i costi per la rimozione di tali strati
compatti sono sovente sono molto alti e la possibilità che, col tempo, essi possano
ricostituirsi, qualora non si rimuovono le cause che le hanno generate.
Strati permeabili
Tra gli strati d’inibizione permeabili all’acqua e non opponenti resistenza al
passaggio delle radici ma che possono avere un’influenza negativa su di esse, si
ricordano la falda freatica, lo strato arido e lo strato tossico.
FALDA FREATICA
L’acqua meteorica che s’infiltra nel terreno e lo attraversa, qualora non si esaurisce
in orizzonti più asciutti, può trovare strati compatti ed impermeabili che ne rallentano il
deflusso o la fermano. In tal caso riempie tutti gli spazi vuoti del terreno cacciando l’aria
presente ed andando a costituire l’acqua di fondo o acqua freatica o acqua di livello
(falda freatica autoctona). Nella parte superiore dà luogo ad una superficie pianeggiante
detta superficie di livello o superficie idrostatica. Tuttavia, in rapporto alla circolazione
delle acque inbibenti il profondo sottosuolo (ad esempio dei terreni ghiaiosi delle alte
pianure della regione veneto-padana), l’acqua di falda può essere di più lontana
provenienza (derivante, per esempio, dalle infiltrazioni laterali di corsi d’acqua) ed essere
connessa a cause idrogeologiche di più vasta portata.
Le acque di fondo sono in genere povere di ossigeno, consumato in gran parte
nell’attraversare il terreno, e contengono sali solubili (nitrati, cloruri, solfati, carbonati),
sostanze colloidali e, specialmente quelle non autoctone, sostanze diverse da quelle
contenute negli strati sovrastanti di terreno e finanche inquinanti come erbicidi, metalli
pesanti.
Orbene, quando la falda freatica è molto superficiale può crearsi uno strato di
inibizione, soggetto a ristagno idrico, che causa asfissia radicale e quindi una vegetazione
molto stentata e la morte delle piante coltivate.
In generale, la temperatura dell’acqua di falda è piuttosto bassa o, meglio, può
subire una notevole variazione che è tanto più ampia quanto più la falda è superficiale e
quanto più ci si avvicina alla regione di alimentazione della falda (per infiltrazione di
fiumi o delle acque di pioggia). L’escursione termica, cui questi terreni sono sottoposti
per la presenza della falda freatica, si riflette negativamente sullo sviluppo delle piante
coltivate.
Infine, quando la falda si trova a profondità ottimale, la risalita capillare dell’acqua,
sempre utile in climi con precipitazioni irregolari, può trasportare sostanze inquinanti le
quali possono danneggiare le piante coltivate e lasciare residui nei prodotti agricoli.
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Il terreno
Il ricorso a lavorazioni più profonde per permeabilizzare od abbassare lo strato su
cui poggia la falda freatica superficiale e la costituzione di un’adeguata baulatura, per
aumentare il franco di coltivazione e di una buona canalizzazione, per favorire lo
smaltimento delle acque sono operazioni agronomiche consigliabili per eliminare o
attenuare gli effetti negativi della falda freatica superficiale.
STRATO ARIDO
E’ costituto da materiale grossolano, come ciottoli, ghiaia, sabbia grossa, che non è
in grado di trattenere l’acqua meteorica che l’attraversa. La grande permeabilità di un tale
orizzonte e l'incapacità di trattenere l'acqua di drenaggio rende molto difficile la
creazione di una dotazione idrica sufficiente ed indispensabile che possa rappresentare
un'adeguata riserva idrica per la coltivazione delle piante. Gli strati aridi sono frequenti
nei climi sub-desertici o siccitosi dove le scarse precipitazioni inumidiscono il terreno
soltanto negli strati superficiali, mentre quelli sottostanti rimangono assolutamente
asciutti. Strati aridi possono trovarsi nei terreni alluvionali dei climi secchi dove la poca
acqua meteorica cade sul terreno, penetra ed attraversa totalmente lo spessore alluvionale
a scheletro grosso (ghiaia o ciottoli), di cui tali terreni sono provvisti, senza essere da
questi trattenuta. Questi strati non permettono lo sviluppo delle radici le quali muoiono,
inducendo appassimento ed avvizzimento delle piante, quando l’attraversano.
STRATO TOSSICO
Lo strato tossico può trovarsi a varia profondità e se si trova posizionato
superficialmente rende impossibile la vita delle piante. La tossicità dello strato può essere
attribuita a salinità, reazione troppo acida o alcalina per la presenza di acidi o di alcali,
presenza di solfuri ed altre sostanze inquinanti come i metalli pesanti ed i pesticidi.
Per quanto riguarda la salinità ci limiteremo a dire, a proposito degli strati tossici,
che i complessi assorbenti (tutti i materiali primari e secondari ad eccezione del quarzo e
delle formazioni di silice secondaria) del terreno o di alcuni strati possono essere saturi di
basi e risultano provvisti di sali solubili quali carbonati alcalini di sodio e di potassio. Ciò
si riscontra in ambienti continentali dove le precipitazioni scarseggiano e dove le
evaporazioni superano le precipitazioni e, pertanto, vengono a mancare quasi del tutto i
processi di dilavamento. Ben diversa è la salsedine di quegli strati di terreni dei litorali
marini nei quali riescono ad infiltrarsi ed insediarsi le acque salmastre. Mentre nel primo
caso la salsedine assume il significato di carattere costitutivo in quanto è un portato della
pedogenesi, nel secondo caso essa deriva da cause estranee ed è costituita di cloruri in
massima parte e di solfati, bromuri e ioduri di sodio, in primo luogo, e quindi di calcio,
magnesio, potassio.
Un altro tipo di salsedine, che si riscontra in alcuni strati di terreno, è quella legata
alla discarica di materiali di rifiuto caratterizzati da eccessiva salinità. Gli strati salsi sono
bonificati mediante processi di scavo che portano alla luce il materiale salso ed
espongono le superfici a contatto con l’aria che allenta la forza di tutti i tipi di legame in
modo che gli ioni siano più facilmente lisciviati e possa aumentare la forza ionica della
soluzione del terreno.
La reazione del terreno è legata alla presenza di vari cationi che vanno a saturare il
complesso assorbente. Questo complesso, se possiede ioni idrogeno avrà reazione acida,
se è provvisto di cationi alcalino-terrosi avrà reazione neutra o leggermente alcalina, se
presenta cationi alcalini avrà reazione alcalina. Naturalmente la reazione del materiale
terroso non può essere senza influenza sulla reazione della soluzione circolante.
Fiume Francesco
La salsedine, sia di tipo continentale che litoraneo, può agire negativamente sulla
reazione del terreno o di alcuni strati, come pure lo scarico della maggior parte dei
materiali di rifiuto aventi un’acidità pronunciata. Così la pirite a contatto con l’aria e
l’umidità si ossida producendo, tra l’altro, acido solforico che viene rilasciato nella
soluzione circolante abbassando il pH fino a 2, con conseguenze mortali per le piante.
Materiali di scarto di miniere di carbone o di minerali preziosi, dopo varie vicissitudini
dei valori di pH, divengono acidi e conservano questa acidità a lungo, irreversibilmente,
così da impedire un’opportuna copertura vegetale.
La riduzione dell’acidità si ottiene con correttivi a base di calce, oppure bruciando
il materiale inducente acidità ed isolandolo con uno strato inerte. L’eccessiva alcalinità di
un materiale può essere corretta con acido solforico, solfo, solfato di calcio fino a 150200 q/ha anche se questo procedimento, pur migliorando la reazione del terreno, può
portare alla formazione di croste superficiali che impediscono la penetrazione delle
radici.
La tossicità di uno strato di terreno può essere legata alla presenza di metalli
pesanti che rappresentano la maggiore pericolosità dei materiali di scarico perché,
essendo non biodegradabili, possono persistere ed accumularsi nel terreno. Tale
inquinamento deriva principalmente da attività minerarie, come l’estrazione dell’oro e
dell’argento (che comportano l’impiego di mercurio e cianuri), l’estrazione dell’uranio
(che lascia nei terreni residui radioattivi aventi la tendenza ad essere dilavati e ad
inquinare anche le acque di falda), l’estrazione di zinco e rame (che hanno portato ad
accumuli tali da impedire la crescita di ogni tipo di pianta), l’estrazione di altri metalli
che hanno portato a vere tragedie ecologiche, come quella da inquinamento da cadmio in
Giappone che ha causato la malattia “Itai-Itai”.
Fig. 2 – Destino di in pesticida somministrato al terreno o alle coltivazioni.
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Il terreno
Per superare le difficoltà legate alla presenza nel terreno di strati tossici di questo
tipo, le soluzioni consistono nell'adozione di varie strategie. Una soluzione consiste
nell’immobilizzare i metalli pesanti con l’impiego di fanghi provenienti da fognature
urbane e compost, aventi la proprietà di fissare i metalli tossici e diminuire la loro
disponibilità per le piante.
Un'altra soluzione è data all'utilizzazione di piante tolleranti verso tali metalli, la
cui efficacia dipende in larga misura dalla capacità che i vegetali hanno nel migliorare le
condizioni di fertilità del terreno. Infine, l'uso di fertilizzanti chimici (da 400 a 700 kg/ha)
serve per sopperire alle perdite per lisciviazione degli ioni nutritivi ed alla loro
trasformazione in composti insolubili.
I pesticidi possono creare tossicità nel terreno o in alcuni suoi strati. Somministrati
sulle piante o sul terreno, per interventi di disinfestione e diserbo, possono rimanere nel
terreno da poche ore a molti anni, anche se la pericolosità di un pesticida non è
misurabile soltanto con la persistenza ma anche con la sua tossicità. Così il
chlorfenvinphos è un insetticida organofosforato moderatamente tossico che può
persistere nel terreno per un anno, mentre il dicloropropano-dicloropropilene (DD)
persiste, per la sua volatilità, solo poche settimane ma è talmente tossico che può
deprimere la popolazione di molte specie anche per due o tre anni.
I pesticidi possono interferire con la fase liquida e gassosa del terreno, con le
particelle argillose ed organiche e con gli organismi viventi. Le interazioni di un pesticida
con le fasi fluide del terreno o di uno strato di esso, sono controllate dall’equilibrio
assorbimento-desorbimento che ha effetto sulla disponibilità, azione biologica e
movimento del pesticida stesso (figura 2).
I pesticidi possono interagire con le particelle argillose stabilendo vari tipi di
legami – come quelli creati dalle forze di Van der Waals-London (isocil), i legami
idrofobici (DDT), i legami a ponte d’idrogeno (2,4 D), quelli che sono in relazione con lo
scambio del legante (atrazina) o con lo scambio ionico (diquat), quelli connessi con le
interazioni ione-dipolo e dipolo-dipolo – ed innescando sulla loro superficie reazioni di
catalisi e di inattivazione, in grado di proteggerli dall’attacco microbico.
Le interazioni dei pesticidi con la sostanza organica sono analoghe a quelle ora
viste per i minerali argillosi, anche se occorre sottolineare che, sia la superficie, sia la
capacità di scambio cationico (in rapporto alle minori dimensioni delle particelle umiche)
sono maggiori. In queste interazioni notevole influenza assumono le caratteristiche
chimiche dei pesticidi che possono così classificarsi:
a) Pesticidi cationici: appartengono a questo gruppo gli erbicidi come il diquat ed il
paraquat. Hanno elevata solubilità in acqua dove si dissociano facilmente. In un
terreno agrario danno luogo a legami forti con le particelle argillose, mentre con la
sostanza organica formano legami più deboli. I terreni argillosi e con materia organica,
escluso i terreni sabbiosi che sono poco attivi nel determinare legami fisico-chimici (in
relazione alle maggiori dimensioni delle particelle), esplicano una notevole forza
d’assorbimento nei confronti di questi pesticidi, con la conseguenza che la loro
degradazione microbica è molto ridotta.
b) Pesticidi basici: appartengono a questo gruppo le triazine ed i triazoli che si
comportano come basi deboli in soluzione acquosa, possono in altre parole acquistare
un protone ed assumere, quindi, carica positiva. Ciò può avvenire prima che il
pesticida sia assorbito, oppure durante l’assorbimento (in tal caso è la sostanza
organica del terreno che cede un protone) o dopo che l’assorbimento è avvenuto (il
protone proviene da una molecola d’acqua). Nell’assorbimento delle triazine
Fiume Francesco
intervengono legami a ponte idrogeno, legami formati per scambio del legante e
legami idrofobici. Nell’assorbimento di questo tipo di pesticidi, la sostanza organica
svolge effetti rilevanti come si riscontra nel caso del prometone che a pH 4,28 viene
assorbito dalla sostanza organica 80 volte più che dalla montmorillonite.
c) Pesticidi acidi: vengono assorbiti con minore intensità e quantità rispetto ai pesticidi
cationici e basici in quanto le particelle colloidali dell’argilla e della sostanza organica
sono, in rapporto al pH cariche negativamente. L’aumento della quantità di sostanza
organica nel terreno causa un incremento della persistenza e della tossicità residua di
tali pesticidi e ciò presuppone lo stabilirsi di legami a ponte idrogeno, o mediati da
cationi inorganici (metalli).
d) Pesticidi non ionici: gli idrocarburi clorurati (DDT, lindano), i pesticidi
organofosforati, gli erbicidi ureici appartengono a questo gruppo. Essi sono fortemente
assorbiti sulle parti idrofobiche della sostanza organica del terreno e competono per i
siti di assorbimento con le molecole d’acqua della soluzione circolante, formando
legami di natura fisica. Questi pesticidi interagiscono con la sostanza organica e ciò
dipende dalla solubilità, polarità e grandezza delle loro molecole.
Infine, i pesticidi interagiscono con gli organismi viventi del terreno poiché creano
un ambiente tossico non soltanto per le piante ma anche per i microrganismi, funghi,
attinomiceti, collemboli, acari, lombrichi, miriapodi che svolgono un ruolo importante
nel determinare le condizioni di fertilità del suolo. Gli erbicidi, insetticidi ed
anticrittogamici possono gravemente danneggiare le popolazioni microbiche del terreno o
di alcuni strati, soprattutto quando sono impiegati in dosi eccessive, in termini di quantità
per intervento e di frequenza. Quando sono somministrati alle dosi prescritte essi sono
presenti nel terreno ad una concentrazione di circa due milligrammi per chilogrammo di
terreno, supposto che essi si distribuiscono uniformemente nei primi 15 cm di suolo.
Tuttavia, quando sono applicati per via fogliare, la distribuzione sul terreno, a
seguito del gocciolamento del prodotto o del dilavamento, non è più omogenea e possono
trovarsi punti con concentrazioni finanche 50 volte superiori.
In conseguenza, possono aversi gravi alterazioni dell’equilibrio biologico e
possono passare degli anni, prima che si ristabiliscano condizioni naturali. Infatti,
fungicidi e fumiganti operano delle selezioni in popolazioni di funghi saprofiti come
Trichoderma, Aspergillus, Penicillium che possono diventare dominanti per lunghi
periodi, in rapporto alla resistenza acquisita, alla velocità di crescita ed alla distruzione di
specie antagoniste.
Inoltre, la distruzione di lombrichi ed altri invertebrati, causata, ad esempio, da
pesticidi cuprici, ha come conseguenza il deterioramento della struttura del suolo e
l’incremento di popolazioni patogene per il mancato attacco ai residui delle piante. Poi,
dato che gli invertebrati assorbono i pesticidi del terreno, quando essi sono predati da
vertebrati trasferiscono a questi ultimi il prodotto tossico, con insorgenza di fenomeni
legati a tossicità acuta e cronica.
I pesticidi possono indurre danni anche alle piante coltivate per un problema di
residui (ortaggi e frutta). Per questo, prima di impiantare la coltura successiva a quella
che ha ricevuto il trattamento, o in consociazione con essa, bisogna lasciare il tempo
necessario affinché il prodotto chimico possa essere degradato, lisciviato ed allontanato
dalla zona delle radici.
L’accumulo dei pesticidi nel terreno o in strati di esso è legato, almeno in parte, al
periodo di semitrasformazione, cioè il tempo necessario affinché la concentrazione del
pesticida si riduca alla metà. Nel caso di pesticidi a lungo periodo di semitrasformazione,
l’effetto di una dose massiccia, ai fini dell’accumulo, è maggiore di quello di dosi tali che
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Il terreno
la loro somma sia uguale a quella della dose massiccia.
Il movimento dei pesticidi nei terreni, un altro aspetto inquietante che diffonde
l’inquinamento ed amplia lo strato tossico, è legato al movimento dell’acqua, alla
diffusione, al trasporto di massa ed alla volatilizzazione:
a) Movimento dei pesticidi attraverso l’acqua: la soluzione circolante del terreno è in
grado di operare il movimento dei pesticidi così come la corrente di un fiume
trasporta il materiale che trova lungo il percorso. Per questo, se l’acqua si muove
lungo il profilo del terreno con una corrente discendente (acqua di percolazione) od
ascendente (acqua di evaporazione, acqua capillare) il pesticida subirà lo stesso
percorso.
b) Diffusione dei pesticidi: dipende dal coefficiente di diffusione, dalla composizione
mineralogica del suolo e dalla densità del terreno ed avviene per distribuzione
uniforme delle molecole del pesticida che si spostano da zone di alta concentrazione
a zone con concentrazione più bassa. La diffusione avviene nella fase liquida ed in
quella gassosa. La quantità d’acqua nel terreno è il principale fattore da cui dipende
il contributo della fase gassosa e liquida alla diffusione. In terreni molto secchi, con
acqua in quantità inferiore all’1%, il coefficiente di diffusione totale (somma di
quello nella fase gassosa, di quello nella fase liquida e di quello alle interfacce
suolo-soluzione e soluzione-aria), è praticamente irrilevante, ma cresce rapidamente
all’aumentare dell’umidità. Con ulteriore aumento della quantità d’acqua, il
coefficiente di diffusione nella fase liquida assume un peso preponderante nei
confronti di quello nella fase gassosa. Ciò è stato accertato per il lindano, il
dimetoato, l’atrazina, la propazina e la simazina. Per trifluralin l’effetto dell’umidità
sulla diffusione nella fase gassosa è trascurabile. Per disulfoton, il valore della
diffusione totale è costante, indipendentemente dal contenuto in acqua, per la
contemporanea riduzione della diffusione nella fase gassosa ed incremento di quella
nella fase liquida, con bilanciamento dei due effetti. La propazina, la prometrina,
l’atrazina ed il 2,4 D diffondono poco perché sono molto assorbiti dal terreno,
mentre la dieldrina, particolarmente in terreni molto secchi ed a larga superficie di
esposizione all’aria, diffonde molto perché poco assorbita dal terreno anche se
questo è dotato di elevato potere assorbente come quello argilloso. La densità del
terreno, inversamente proporzionale agli spazi occupati dall’aria e dall’acqua,
agisce sulla diffusione di un pesticida in modo opposto, nel senso che se essa
aumenta, diminuisce l’aria e l’acqua del terreno e quindi diminuisce anche la
diffusibilità del prodotto chimico. Pertanto, la diffusione assicura la distribuzione
del pesticida nei pori e negli aggregati di piccole dimensioni del terreno, perciò
pesticidi quasi insolubili in acqua (DDT, dieldrin) e poco volatili possono liberarsi
nell’atmosfera in forma gassosa, proprio perché il rapporto aria/acqua controlla la
diffusione nella fase gassosa e perché la solubilità di un composto determina la sua
quantità nella fase liquida.
c) Trasporto di massa dei pesticidi: avviene a causa del movimento delle particelle del
terreno sulle quali il pesticida è stato assorbito (simazina, linuron, paraquat).
Considerando non preponderante la caduta di particelle (ad esempio
montmorillonite), ricche di pesticida assorbito, in crepe profonde del terreno, il
trasporto di massa e quindi la distribuzione di un pesticida lungo il profilo di terreno
è legato al movimento dell’acqua (picloram, lindano, fenuron, diuron, neburon,
atrazina ed altri): pesticidi molto assorbiti rimangono in superficie mentre quelli
scarsamente assorbiti si distribuiscono uniformemente lungo il profilo di terreno
(figura 3A); il punto di massima concentrazione di un pesticida, lungo il profilo di
Fiume Francesco
un terreno è indipendente dalla sua quantità impiegata (figura 3B); la velocità con
cui si raggiunge l’equilibrio tra assorbimento e desorbimento di un pesticida nel
terreno condiziona la dispersione di quest’ultimo per cui più lento è il
raggiungimento dell’equilibrio più il pesticida si disperde lungo il profilo, maggiore
è la velocità con cui si raggiunge l’equilibrio maggiore è la sua concentrazione in un
certo punto del profilo (figura 3C). La capacità d’assorbimento, da parte delle
particelle meno mobili del terreno (come quelle della sostanza organica che non si
lasciano facilmente trasportare dall’acqua), induce un rallentamento del trasporto
del pesticida.
Fig. 3 – Effetto dell’assorbimento di un pesticida sulla distribuzione lungo il profilo di
un terreno (A); effetto della concentrazione del pesticida sulla sua
distribuzione in profondità (B); effetto della velocità di raggiungimento
dell’equilibrio assorbimento/desorbimento del pesticida sulla sua
distribuzione verticale nel terreno. La distribuzione di un pesticida lungo il
profilo del terreno dipende dalla sua capacità di essere assorbito (K), non è
influenzata dalla concentrazione (C), è funzione della velocità (α) di
raggiungimento dell’equilibrio assorbimento/desorbimento (da Cervelli,
1979).
d) Volatilizzazione dei pesticidi: è il passaggio nell’atmosfera di una certa quantità di
pesticida che può raggiungere anche il 50%. La volatilizzazione dipende dalla
natura del pesticida, dalla formulazione, dalle condizioni atmosferiche e dalle
modalità di somministrazione. Il processo di volatilizzazione è sostenuto
dall’equilibrio tra la quantità di pesticida assorbito e quella che passa in soluzione,
tra la concentrazione del pesticida nella soluzione circolante (influenzata dalla
concentrazione di sali di quest’ultima) e quella nell’aria del suolo (influenzata dalla
differenza di concentrazione tra la fase liquida e l’interfaccia soluzione-aria e dalla
70
71
Il terreno
tendenza del pesticida a passare nella fase di vapore), tra la concentrazione del
pesticida nell’aria del suolo e quella nell’atmosfera (tale equilibrio è spostato tutto
verso l’atmosfera in quanto in questa la concentrazione del pesticida è quasi nulla).
La quantità d’acqua presente nel suolo ha grande rilevanza sulla volatilizzazione,
tanto che, nella somministrazione di un pesticida, per ridurre le perdite, il terreno
dovrebbe essere secco cosi che l’assorbimento sul complesso di scambio è massimo
e la diffusione nella fase di vapore minima. Bisogna però tener presente che la
secchezza del terreno impedisce il movimento dell’insetticida che, pertanto, non può
avere effetto, mentre irrigando il terreno l’effetto può manifestarsi.
E’ possibile rimuovere un pesticida che induce tossicità nel terreno o determina uno
strato tossico con il ricorso alla pratica agronomica dell’irrigazione agendo sulla quantità
d’acqua e sul tipo d’irrigazione.
Se la quantità d’acqua è superiore a quella trattenuta dal terreno (saturazione) non
si avranno effetti sul trasporto dei pesticidi lungo il profilo del terreno; se la quantità
d’acqua è minore (terreno non saturo), agendo sulla quantità, diventa possibile la
rimozione del prodotto chimico.
Piccole dosi potranno operare il trasporto del pesticida verso un profilo più
profondo non interessato dalle radici.
Circa il tipo d’irrigazione, quella a solchi determina un movimento verticale ma
anche orizzontale per cui si ha una distribuzione superficiale del pesticida rimosso,
mentre l’irrigazione a pioggia causa un movimento prevalentemente verticale e lo
spostamento del pesticida avviene verso il basso (figura 4).
Fig. 4 – Influenza del tipo d’irrigazione sulla distribuzione di un
pesticida lungo il profilo del terreno. Si determina una
distribuzione superficiale quando l’irrigazione è a solchi
ed una distribuzione più in profondità nel caso
dell’irrigazione a pioggia con elevati volumi d’acqua (da
Cervelli, 1979).
Fiume Francesco
Le lavorazioni (arature più o meno profonde), che hanno l’effetto di portare alla
superficie gli strati tossici d’inibizione, di arieggiare il terreno e di aumentare al massimo
la superficie esposta ai raggi solari (che inducono la fotodegradazione dei pesticidi) ed
all’aria (volatilizzazione e degradazione per ossidazione), possono fornire buoni risultati
(dieldrin).
Giacitura
La giacitura indica la posizione di un terreno nello spazio (piano, colle, monte) in
rapporto ai punti cardinali (esposizione), ai fenomeni fisici in generale, all'influenza
diretta o indiretta dei terreni circostanti (giacitura valliva, di fondovalle, di mezzacosta,
esposta, calda, fredda).
La giacitura, in rapporto ai terreni circostanti ed all’inclinazione, é, più
semplicemente, la posizione del terreno rispetto all’orizzonte. A tal proposito va detto che
il calore ricevuto da una certa superficie da parte dei raggi solari è tanto maggiore quanto
più la superficie è perpendicolare ai raggi stessi.
Questo perché la quantità di calore distribuita da due raggi equidistanti si ripartisce
su una superficie sempre più ampia quanto più il loro angolo d’incidenza sul terreno si
allontana da 90°.
Quando i raggi sono paralleli alla superficie del terreno non si ha riscaldamento per
irraggiamento ma solo per convezione.
Pertanto, terreni piani ricevono la massima quantità di calore quando il sole è allo
zenit, mentre terreni inclinati avranno la massima quantità di calore diretto in tempi
intermedi tra il sorgere del sole e la sua posizione zenitale e tra questa ed il tramonto
(figura 5).
Fig. 5 – Relazione tra inclinazione del terreno e suo riscaldamento da parte della
radiazione solare incidente (1: riscaldamento ottimale; 2: mediocre; 3: scarso).
72
73
Il terreno
Il microclima che si viene a creare in un fondovalle è sempre legato alla giacitura
del terreno. Infatti, in un avvallamento, avviene lo scivolamento dell'aria fredda –
formatasi a causa della perdita di calore per irraggiamento da parte della superficie del
terreno al sopraggiungere della notte – lungo i pendii, che si accumula nel fondo valle
dove ristagna.
Alle diverse quote dell'avvallamento si verifica una stratificazione dell'aria in
relazione alla sua temperatura: è fredda in corrispondenza del suolo, raffreddatosi per
perdita di calore per irraggiamento, ma è man mano sempre più calda verso l'alto, per
convezione (aria calda, meno densa che s'innalza), per poi di nuovo raffreddarsi
(gradiente termico).
Questo effetto è detto inversione termica del suolo.
Il rischio di gelate è minore nelle parti più alte delle pendici, moderato nelle valli
ampie e nelle conche, molto elevato nelle valli strette e nelle depressioni nel cui fondo
l’aria fredda ristagna (figura 6).
Da quanto detto, si può rilevare la grande importanza che assume la giacitura di un
terreno sulle condizioni d’abitabilità per le piante, sullo sviluppo di queste ultime e,
quindi, sulla resa produttiva. Pertanto bisogna scegliere opportunamente gli
appezzamenti di terreno nel rispetto della vocazione colturale della zona.
Fig. 6 – Inversione di temperatura al suolo e stratificazione dell’aria a seguito del
raffreddamento notturno in un fondovalle.
Fiume Francesco
Non s'impiantano colture sensibili in terreni freddi di un fondovalle, tenendo
sempre presente che differenze anche di pochi metri di altezza lungo una pendice, in
relazione alla sommità dello strato di inversione, possono determinare livelli di danno
molto diversi o anche nessun danno (figura 7).
Fig. 7 – Danni da freddo ad una carciofaia impiantata sulle pendici di un fondovalle.
Il concetto geometrico di posizione trova applicazioni di studio nella valutazione
delle condizioni riassuntive della fertilità naturale dei terreni, che l'uomo può modificare
(difetti di giacitura) entro limiti assai ristretti con interventi vari di bonifica e colturali.
L'esame delle caratteristiche fisiche di giacitura costituisce una fonte importante di
valutazione agronomica dei terreni in relazione ai microclimi ed alle vocazioni colturali.
Considerazioni sulla giacitura dei terreni hanno interesse ai fini delle sistemazioni
collinari e montane, sia in linea strettamente agronomica, sia idrogeologica per il
consolidamento delle pendici, la scelta delle opere più idonee e delle specie meglio
rispondenti ai fini dell'inerbimento e della copertura verde in generale.
In relazione alle caratteristiche morfologiche i terreni sono denominati:
Terreni piani sono quelli a superficie uniformemente orizzontale. In rapporto alla
loro altezza rispetto al livello del mare, i terreni piani si distinguono in altopiani se sono
in posizione elevata e bassopiani se posti alla stessa altezza od in prossimità.
Terreni pianeggianti sono quelli più o meno piani.
Terreni inclinati sono quelli che hanno una superficie uniformemente pendente, in
un solo senso, che forma con il piano orizzontale un angolo il cui valore, espresso in
gradi, fornisce l’intensità dell’inclinazione. Quest’ultima può anche essere indicata come
pendenza fra due punti la quale esprime il rapporto percentuale tra il dislivello dei due
punti e la loro distanza orizzontale. Pertanto, un terreno piano ha una pendenza dello 0%
mentre una superficie inclinata di 45° ha una pendenza del 100%. La pendenza, in
pratica, si può rilevare come il dislivello che si rileva ogni 100 m orizzontali, perciò se il
dislivello fra due punti posti ad una distanza di 100 m (misurata orizzontalmente) è di 2
74
75
Il terreno
m la pendenza è del 2%.
Terreni ondulati sono quelli con una superficie mediamente orizzontale ma con
rilievi dolci e graduati.
Terreni accidentati sono quelli che presentano una superficie con rilievi e
depressioni più o meno accentuati, bruschi e stretti ed a dislivelli più o meno forti.
Terreni sconvolti o tormentati quando le irregolarità della superficie sono molto
accentuate.
L’inclinazione della superficie di terreno, insieme con quella del sottosuolo ha una
grande importanza sui movimenti dell’acqua e soprattutto su quella che si chiama acqua
di ruscellamento. Questa è quella quota d’acqua meteorica o d’irrigazione che, giunta
sulla superficie, non trova la possibilità d’infiltrarsi nel terreno, si raccoglie e poi tende a
scorrere lungo linee di pendenza più o meno accentuate.
L’importanza del ruscellamento è influenzata da condizioni primarie come le
precipitazioni, in particolare la loro uniformità, intensità ed azione battente (è tanto
maggiore quando più le piogge sono concentrate in determinate periodi, quanto più
intenso è l’evento meteorico e più elevata è la velocità di caduta dell’acqua) e da
importanti cause secondarie come la capacità del terreno di lasciarsi penetrare ed
attraversare dall’acqua (capacità di percolazione) e velocità di scorrimento superficiali
tanto più elevate quanto più marcate sono le pendenze. La pendenza del terreno è il
parametro fondamentale nel determinare l’entità del ruscellamento, pertanto, tanto più
ripido è il terreno tanto minore è il tempo di contatto tra ogni goccia ed un’area unitaria
di superficie, in quanto l’energia gravitazionale propria della goccia si scompone in due
vettori, di cui uno parallelo alla superficie del terreno con un’intensità tanto più elevata
quanto maggiore è la pendenza del terreno (vettori CB e C’B’ della figura 8). Quindi,
all’aumentare della pendenza diminuisce la probabilità d’infiltrazione ed aumenta quella
di ruscellamento. La quantità d’acqua ruscellante diviene sempre più pericolosa al
crescere della lunghezza dei percorsi con elevata pendenza. In tal caso bisogna
intervenire con la realizzazione di solchi trasversali o di sbarramenti di varia natura che
interrompano la continuità delle pendici.
Fig. 8 – L’energia gravitazionale dell’acqua meteorica è maggiore nel terreno più inclinato
→
→
(CB > C’B’).
Fiume Francesco
Un terreno con eccessiva pendenza dà luogo, pertanto, ad ingenti perdite d’acqua
che non s'infiltrano e, soprattutto, non vanno a costituire un’adeguata riserva idrica.
Pertanto i terreni molto inclinati vanno incontro frequentemente a siccità anche in
relazione all’incidenza dei raggi solari che, in rapporto all’inclinazione ed
all’esposizione, possono colpire mediamente la superficie con un angolo retto per un
tempo piuttosto lungo.
L’inclinazione del terreno può essere un fattore limitante nella realizzazione delle
lavorazioni. Infatti, se la pendenza non supera il 5% i lavori possono essere eseguiti
facilmente in tutte le direzioni e le acque possono essere regimentate con le sistemazioni
adottate per la pianura. Se la pendenza supera il 5% le lavorazioni debbono essere fatte
soltanto nel senso di direttrici che permettono alle macchine agricole di procedere senza
che insorgano problemi di stabilità e di trazione; spesso, in tali casi, le lavorazioni
devono essere eseguite secondo le linee di massima pendenza, tenendo presente che i
limiti posti all’impiego di mietitrebbiatrici sono pendenze del 15-20%, per
mietitrebbiatrici autolivellanti del 25-30%, per macchine per la falciatura e fienagione del
35-40%. Se la pendenza supera il 45% è sconsigliabile qualsiasi lavorazione e la
destinazione del terreno potrebbe essere quella silvo-pastorale o meglio, allo scopo di
ottenere la massima protezione contro il ruscellamento, diventa necessario costituire
densi mantelli forestali ricchi di specie arboree, arbustive ed erbacee di sottobosco.
Pertanto, per terreni dotati di forti pendenze, molto attenta deve essere la scelta delle
colture da attuare, tenendo presente che quelle arative annuali, e soprattutto le sarchiate,
offrono scarse garanzie di protezione, sia perché ricoprono il terreno per un periodo
dell’anno relativamente breve, sia perché, anche quando si trovano nel periodo di
massimo sviluppo della loro parte epigea, lasciano sempre porzioni di terreno esposte
all’azione battente delle piogge. Una differente azione è invece svolta dalle cotiche
erbose continue, basilari nelle colture di foraggere poliennali, che possono ottimamente
difendere il terreno dall’acqua di ruscellamento (l’erba medica ha un apparato radicale
che può raggiungere anche i 15 m di profondità).
La pendenza del sottosuolo svolge un ruolo importante nella stabilità di un terreno,
insieme alle caratteristiche fisico-chimiche. I terreni con una certa pendenza ed in grado
di contenere grandi quantità d’acqua (terreni argillosi) possono dar luogo a smottamenti e
frane, spesso con disastrose conseguenze a causa dello scivolamento degli strati
superficiali sopra un sottostante orizzonte o sottosuolo impermeabile. Tuttavia, un
movimento franoso può verificarsi per frantumazione e diminuita coesione della parte
superiore di terreno che scivola a valle, mentre la parte profonda rimane in sito, senza che
si venga necessariamente a creare una superficie di scorrimento.
Un ruscellamento, quindi, non sufficientemente controllato in terreni con superficie
dotata di una certa pendenza è il primo responsabile dell’erosione del terreno.
I vari tipi ed i differenti gradi del processo di erosione di un terreno sono in larga
misura correlati con la morfologia dei terreni, di pianura e di collina, la continuità nel
tempo degli eventi piovosi, la loro intensità, l’assenza di colture protettive o l’inadeguata
disposizione dei filari di piante, con riferimento al decorso ed al gioco delle pendenze.
L’erosione che si determina è laminare, imponente, oppure intermedia. E' di tipo
laminare quando riguarda tutta la superficie di terreno la quale si distacca dal sottosuolo
sotto forma di strati più o meno coerenti (sheet erosion); questo tipo di erosione agisce
subdolamente poiché è poco appariscente.
Oppure l'erosione è imponente quando causa la formazione di burroni (gully
erosion) che si manifestano da principio come piccoli sprofondamenti che s’incuneano e
76
77
Il terreno
si allargano nel corso di ogni precipitazione.
Oppure l'erosione assume caratteri intermedi, con formazione di piccoli solchi,
alvei e canali (rill erosion).
Questi processi negativi, distruttivi del terreno agrario, sono sicuramente da mettere
in relazione con gli interventi antropici di scarsa oculata gestione dell’esercizio
dell’agricoltura.
L’azione della giacitura ed in particolare della pendenza del terreno si evidenzia al
massimo nel caso della cosiddetta catena dei suoli, che consiste nella formazione di
differenti tipi pedologici che si originano sullo stesso substrato ma in condizioni
morfologiche differenti lungo una pendice collinare. Classico è il caso della “catena”
della collina siciliana costituita da suoli con differenti profili (figura 9).
Fig. 9 – Caratteristica catena di suoli della collina argillosa siciliana. 1: regosuoli; 2: suoli
bruni, a volta vertici; 3: suoli alluvionali vertici o vertisuoli.
In conclusione alcuni dati pratici, vale a dire che un’erosione apprezzabile
comincia già con inclinazioni di 5-10° e che velocità dell’acqua ed erosione sono tra loro
in rapporto geometrico, cioè un raddoppiamento della velocità dell’acqua aumenta di 4
volte l’erosione stessa. Di notevole importanza, anche ai fini dell’esecuzione di una
sistemazione di collina e nella delimitazione delle dimensioni dei campi, è la lunghezza
del piano inclinato, per cui, con una pendenza del 9%, raddoppiando la lunghezza del
pendio il ruscellamento aumenta di 1,8 volte e l’erosione di 3 volte.
Esposizione
L’esposizione è un’altra caratteristica statica del terreno perché non modificabile
dall’uomo. Essa indica verso quale punto cardinale è esposto un determinato terreno.
Fiume Francesco
Essa è correlata alla giacitura, cioè a parametri di morfologia terrestre e quindi si esprime
soltanto per terreni posizionati su pendici, essendo quelli di pianura esposti a tutti i punti
cardinali.
Con la denominazione di punto cardinale si indicano i punti d'incontro
dell'orizzonte col meridiano (cerchio massimo passante per i poli e lo zenit) e col primo
verticale (cerchio massimo passante per lo zenit e perpendicolare al meridiano). Essi
pertanto sono punti convenzionali posti a 90° l'uno dall'altro e sono Nord (N) quello
corrispondente alla direzione della Stella Polare e gli altri, presi successivamente nel
senso orario, est (E), sud (S), ovest (W od O). I punti cardinali sono importanti per
l'orientamento e per indicare l'esposizione.
Secondo l’esposizione dei versanti aumenta o diminuisce la durata delle
insolazioni, con riflessi sulle proprietà termiche dei suoli, sulla natura ed intensità della
vegetazione, sul microclima, sulla forza e direzione dei venti, sulla durata delle piogge,
sulla formazione di nebbie e così via.
Ad est o levante, dove il sole sorge o si leva all'alba, i terreni e l’aria, investiti per
primi dai raggi solari, si riscaldano rapidamente ma si raffreddano con altrettanta rapidità
perché cessano di ricevere la luce ed il calore prima del tramonto. Pertanto, in
corrispondenza di questo punto cardinale si hanno forti variazioni di temperatura del
terreno ed una temperatura media diurna piuttosto bassa, il che rende frequenti le gelate
ed il processo gelo-disgelo. Pertanto in terreni esposti ad est si possono coltivare piante
che sopportano bene gli sbalzi di temperatura (pero, melo) e non quelle che hanno
bisogno di un clima mite come peschi, albicocchi, piante da orto, leguminose da granella.
A sud o mezzogiorno il riscaldamento è graduale, la temperatura media diurna è la
più alta e l’umidità relativa è bassa. Le gelate sono molto rare e l’eventuale disgelo è
abbastanza lento perché l’escursione termica è ridotta. Sui terreni rivolti a questa
esposizione si coltivano piante che hanno bisogno di calore come gli agrumi, peschi,
albicocchi, piante orticole, patate, fagioli e tutte quelle piante dalle quali si vuole ottenere
una produzione precoce.
Ad ovest o ponente, dove il sole tramonta di sera, la temperatura aumenta
gradualmente mentre l’insolazione, anche se ritarda al mattino, in compenso si protrae
fino al tramonto. La perdita di calore è lenta e la temperatura media giornaliera è di poco
inferiore a quella dell’esposizione sud ma il passaggio dalla temperatura diurna a quella
notturna è meno dannoso di quello inverso che si ha, di mattina, a levante. Per i terreni
esposti a questo punto cardinale, o a quello intermedio sud-ovest, sono previste colture
che hanno bisogno di caldo o che devono fornire una produzione fuori stagione.
A nord o tramontana l’insolazione diretta è praticamente nulla ed il calore arriva
solo per convezione. La temperatura perciò si mantiene costantemente bassa e di
conseguenza gli sbalzi termici sono molto ridotti, mentre l’umidità relativa è alta. I
cambiamenti dal giorno alla notte sono lenti e meno sensibili che negli altri versanti. I
terreni esposti a nord possono, pertanto, ricevere coltivazioni che resistono al freddo ed
all’umidità, che hanno bisogno d’intensità luminose non eccessivamente elevate.
Pertanto, i terreni esposti a mezzogiorno o a ponente sono i più caldi e quindi sono
quelli che meglio si prestano ad essere messi a coltura nei climi caldi e temperato-caldi;
tali terreni hanno qualità meno favorevoli alla maggior parte delle colture nei climi caldi
e temperato-caldi.
Per verificare l’importanza dell’esposizione di un terreno sulle coltivazioni basta
portarsi a condizioni estreme. Sul monte Adamello, il limite del pascolo e delle malghe
(una malga può ospitare 100-200 capi bovini) giunge ad oltre 2800 m nel versante
esposto a sud ed a 2570 m in quello con esposizione nord. Nelle regioni dove l’olivo
78
79
Il terreno
soffre per le gelate, queste sono più dannose alle piante coltivate su terreni esposti ad est
o sud (terreni soggetti a forte escursione termica) che non alle piante coltivate su terreni
esposti ad ovest o nord.
Nei terreni piani è importante l’orientamento delle piante che deve essere tale che
si possano utilizzare al massimo le disponibilità di calore ed evitare nello stesso tempo le
escursioni termiche tra il giorno e la notte. Così, per creare condizioni più favorevoli alle
piante e per ottenere una maggiore precocità delle produzioni in colture da orto
(pomodoro), è preferibile assolcare il terreno in direzione est-ovest e porre le piantine sul
lato del solco rivolto a sud.
L’esposizione di un terreno determina la possibilità di coltivare piante lontane dalla
loro area di coltura. Così diventa possibile coltivare l’olivo nella collina veronese, molto
più settentrionale del limite normale di coltura di questa pianta, ma volta a mezzogiorno
ed è possibile coltivare fiori sulle pendici rivolte verso il mare delle colline liguri.
Come già detto l’esposizione di un terreno è strettamente collegata all’esposizione
e più l’angolo d’incidenza dei raggi solari si avvicina a 90° più alto è l’assorbimento
d’energia da parte del terreno. Nel nostro emisfero, fatta uguale a 100 la quantità di
calore ricevuta da una superficie orizzontale, una superficie inclinata di 30° riceve, a
media latitudine, differenti quantità di calore a seconda dell’esposizione e precisamente a
sud 129, ad est 92, ad ovest 90 ed a nord 50. L’esposizione nord di una pendice con una
pendenza di appena il 5% riduce la temperatura media del terreno, rispetto ad una
superficie orizzontale, quanto uno spostamento verso il polo di 450 km.
Costituzione
Per costituzione meccanica del terreno s’intende la sua composizione
granulometrica. Determinare la costituzione meccanica di un terreno significa
individuare le dimensioni delle particelle che ne costituiscono la massa.
Dallo studio della disgregazione e della decomposizione delle rocce si è visto che il
terreno è un sistema formato di elementi meccanici e fisici di forma e grandezza tra le più
varie e le più diverse e che normalmente, in ogni terreno, i costituenti rocciosi si
rinvengono in tutta la gamma delle loro dimensioni, partendo da blocchi, ciottoli, ghiaia,
sabbia e via via fino a giungere ai costituenti di dimensioni colloidali. In ogni caso si
tratta di una serie continua nella quale difficilmente è dato riscontrare degli sbalzi o dei
vuoti.
Dove i differenti terreni si distinguono, da un punto di vista meccanico e quindi
della costituzione, non è dunque nelle dimensioni delle particelle, bensì nelle proporzioni
secondo cui le particelle delle varie dimensioni sono rappresentate nel terreno. Dunque,
determinare la costituzione di un terreno significa individuare le quantità secondo cui le
diverse particelle rientrano nella costituzione del suolo medesimo. Ma, determinare le
particelle di tutte le grandezze sarebbe un lavoro molto lungo e non del tutto necessario,
per cui, allo scopo di rendere più semplice il lavoro di analisi e d’individuazione della
costituzione di un terreno, i diversi costituenti meccanici sono stati raggruppati in classi
opportunamente definite che consentono di procedere e stabilire, speditamente, la
quantità delle particelle di ciascuna classe.
Numerosissime sono le classi proposte ed adottate, ma il sistema di classificazione
che ha incontrato maggiore favore e che quindi risulta attualmente il più diffuso è quello
adottato dalla Commissione internazionale della scienza del suolo per proposta di
Fiume Francesco
80
Atterberg (1912). Secondo tale classificazione, come del resto per qualsiasi altra, bisogna
distinguere nel terreno la frazione di costituenti grossolani detta scheletro, con particelle
superiori a 2 mm di diametro, ed una frazione di costituenti minuti detta terra fina di
diametro inferiore a 2 mm. Nello scheletro vanno distinte due classi di costituenti e cioè i
ciottoli e la ghiaia. Nella terra fina vanno distinti costituenti di quattro classi diverse e
cioè la sabbia grossa, la sabbia fina, il limo e l’argilla che rappresenta, quest’ultima, la
frazione colloidale. Questa classificazione internazionale non è ovunque ancora
ufficialmente seguita e perciò si ritiene utile riportare le classificazioni delle frazioni
separate nell’analisi fisico-meccanica del terreno agrario a norma dei sistemi vigenti in
differenti paesi (tabella 11).
Tab. 11 – Classificazioni delle composizioni granulometriche del terreno agrario a norma dei
sistemi vigenti in differenti paesi e secondo il metodo internazionale proposto dalla
Commissione internazionale della scienza del suolo.
Stati Uniti
Inghilterra
Frazione
∅
(mm)
Frazione
∅
(mm)
Scheletro
3-1
Scheletro
3-1
Italia
Frazione
Scheletro
Terra fine:
Terra fine:
Terra fine:
- sabbia:
- sabbia:
- sabbia
grossa
1-0,5
grossa
Germania
∅
(mm)
>1
1-0,2 - ghiaia
1-0,2
finissima 0,1-0,05 - limo
- limo
- argilla:
- sabbione
fine 0,2-0,4
0,04-0,01 - limo
> 10
- ciottoli
> 20
2-10
- ghiaia
20-2
2-0,25 Terra fine:
- sabbia:
grossa 2-0,2
0,2-0,02
fine 0,2-0,02
- limo
- argilla:
<0,02
∅
(mm)
>2
- sabbia fine 0,25-0,02
< 0,005
< 0,002 - argilla
Frazione
Scheletro:
Terra fine:
0,05- - limo fine 0,01-0,002
0,005
colloide < 0,002 - argilla
∅
(mm)
Scheletro:
- pietrisco
media 0,5-0,25
fine 0,25-0,1
Frazione
Internazionale
0,020,002
0,02-0,001
colloide < 0,001 - argilla
< 0,02
La costituzione di un terreno agrario è un’entità abbastanza fissa e costante per
ogni terreno studiato anche se, particolarmente in un suolo naturale non disturbato dalla
pratica della coltivazione agricola e quindi naturalmente esposto agli agenti di
disgregazione e decomposizione, si osserva sempre uno stato d’accentuata e continua
trasformazione.
Infatti, vi sono particelle che passano allo stato di progressiva soluzione e
disgregazione diminuendo di volume ed assottigliandosi fino a scomparire ed altre che
invece aumentano di volume per apposizione di materiali diversi o variano soltanto di
massa per infiltrazione di sostanze già solute.
Vi sono poi particelle che migrano nel terreno trasportate dalle soluzioni circolanti
o a seguito di fenomeni legati alle caratteristiche della materia colloidale. Infine vi è
l’apporto della materia organica e la sua trasformazione, sia naturalmente per lo svolgersi
dei cicli biologici degli organismi macro e microscopici, sia artificialmente per l’attività
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Il terreno
agricola dell’uomo (concimazioni organiche).
Tuttavia, questi processi dinamici avvengono in un tempo relativamente lungo,
essendo la loro entità in pratica di poco rilievo e trascurabile in un ristretto periodo.
Come già detto, per individuare la costituzione di un terreno bisogna determinare la
sua composizione granulometrica. Per far ciò bisogna effettuare l’analisi del terreno che
prevede una serie di operazioni rappresentate dal prelevamento del campione, dalla
separazione dello scheletro, dalla separazione della terra fine.
PRELEVAMENTO DEL CAMPIONE
Se il terreno si presenta molto omogeneo è sufficiente prelevare un unico
campionamento nella parte centrale dell’appezzamento, a due differenti profondità, così
da ottenere un campione di terreno rappresentativo dei primi 40 cm ed un altro che
rappresenta uno spessore di terreno compreso tra i 40 e gli 80 cm.
Qualora l’aspetto del campo si presenta variabile, è necessario effettuare diversi
campionamenti, ad esempio, lungo le diagonali dell’appezzamento e ad una distanza che
dipende dall’eterogeneità dello stesso terreno.
In ognuno di questi punti prefissati si elimina lo straterello superficiale e si scava
una buca profonda circa 40 cm dalla cui parete si preleva, con una vanga, una fetta di
terreno. Poi si approfondisce la buca fino ad 80 cm e dalla parete, compresa
nell’intervallo tra 40 e 80 cm, si preleva un’altra fetta di terreno.
Ognuna delle fette di terreno è accuratamente omogeneizzata per poi prelevarne 1
kg che è portato in laboratorio. Naturalmente le misure indicate sono orientative poiché
se il terreno è di scarsa potenza la profondità di prelievo dei due campioni può ridursi.
Un’altra tecnica di campionamento che prevede l’indagine senza tener conto della
profondità consiste nella scelta di appezzamenti uniformi da cui si preleva una vangata di
terra ogni 50 m circa in direzione della lunghezza del campo, avendo cura di togliere
ogni volta un sottile strato della cotica superficiale.
Giunti al termine dell'appezzamento, si ripete l'operazione in senso inverso,
tenendosi a distanza di circa 50 m dal primo percorso, e così di seguito. I campioni
vengono messi in un sacco, poi rimescolati ben bene così da formare un grande campione
omogeneo, dopo di che si procede, con il sistema della quadrettatura, sino ad ottenere un
campione di circa 3-5 kg per la spedizione al laboratorio.
E' da notare che, trattandosi di appezzamenti piccoli, la campionatura va praticata a
distanze minori di quelle sopra riportate e che, in generale, conviene sempre prendere un
numero piuttosto rilevante di campioni.
SEPARAZIONE DELLO SCHELETRO
Il campione di terreno viene asciugato all’aria, posto su uno staccio con fori di 2
mm di diametro e, sotto un filetto continuo d’acqua, viene praticata la separazione dei
vari costituenti lo scheletro.
L’acqua torbida passa attraverso i fori dello staccio e, su quest’ultimo, resterà una
parte cospicua di materiale più grossolano che non sarà possibile suddividere
ulteriormente.
La parte rimasta sullo staccio costituisce lo scheletro del terreno, quella passata
Fiume Francesco
oltre costituisce la terra fina. Lo scheletro rimasto sullo staccio si lascia asciugare in stufa
a temperature non superiori ai 105 °C, si pesa e si riferisce a cento o mille parti di
terreno.
I terreni che hanno una quota di scheletro superiore al 40% vengono detti a
scheletro prevalente.
Tuttavia bisogna tener presente che la presenza di un solo ciottolo, per esempio,
può ingrandire fuori misura il valore percentuale, facendo classificare ciottoloso un
terreno che non lo è, come pure vi possono essere terreni che hanno una rada
distribuzione di ghiaia che il campione di terreno prelevato potrebbe non comprenderla.
Ciò dimostra la necessità di prelevare con raziocinio il campione e di integrare il risultato
dell’analisi granulometrica con un opportuno commento.
La quota di terreno che spetta allo scheletro assume grande rilevanza agronomica
circa i riflessi sul bilancio idrico degli elementi nutritivi dosati nella terra fine,
sull’economia dei fertilizzanti, dell’acqua di pioggia o d’irrigazione, sui movimenti idrici
di natura capillare legati all’eventuale esistenza di falde freatiche più o meno superficiali,
sul trasferimento in profondità delle particelle più piccole, sull’impiego di macchine ed
attrezzi agricoli da usarsi nei lavorazioni del terreno, sull’economia delle raccolte
manuali o meccaniche.
L’esame dello scheletro assume notevole importanza perché fornisce utili notizie
sulla natura litologica della matrice del terreno e su altre caratteristiche.
Lo scheletro può essere costituito da una parte inorganica e da una porzione
organica. La prima può presentare frammenti di rocce o altri materiali come grossi
cristalli o parti di essi, mentre la seconda può essere costituita da fossili, come conchiglie
di molluschi marini ed altri organismi, che possono far pensare alla passata presenza del
mare che può aver impartito caratteristiche salmastre a quel terreno. Inoltre
l’osservazione di questa frazione grossolana del terreno consente di ricavare utili
informazioni circa l’origine dinamica del substrato: elementi con spigoli vivi e ben
evidenti indicano un’origine autoctona colluviale, arrotondati ed a superficie levigata
presuppongono un’origine alluvionale, con una sola faccia piana ma non levigata
evidenziano un’origine morenica, piatti ed a spigoli arrotondati fanno pensare ad
un’origine marina, elementi porosi e lapilliformi sono caratteristici di un terreno
piroclastico. L’esame dei residui organici può fornire informazioni sui vegetali di quei
terreni ed utili notizie sulla natura della materia organica e sulle caratteristiche
pedologiche, connesse con l’estensione dei vegetali (terreni torbosi).
In definitiva, l’analisi dello scheletro, anche microscopica, effettuata allo scopo di
individuare le rocce ed i minerali dai quali hanno preso origine un determinato terreno, è
un fatto di grande importanza perché, se si mette da parte lo scheletro e si pensa di poter
condurre osservazioni finalizzate a tale obiettivo sulla terra fina, ci si accorgerà che il
giudizio sui costituenti litologici e mineralogici diventa veramente difficoltoso.
SEPARAZIONE DELLA TERRA FINE
La suddivisione dello scheletro è cosa abbastanza facile, mentre ben più difficile,
ed a volte non possibile, è la separazione dei costituenti della terra fine.
Man mano che le particelle diventano più piccole, tanto più si fanno sentire i loro
caratteri fisico-chimici che influenzano lo stato di grande suddivisione della materia. Le
particelle si attraggono e si addossano le une alle altre, in modo da formare unità fisiche
più grandi che possono frantumarsi soltanto col cessare o mutare della causa che ha
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83
Il terreno
determinato l’aggregazione.
Per conoscere la composizione meccanica della terra fine, bisogna portare tutti i
costituenti allo stato disperso eliminando i fattori che determinano l’unione delle
particelle e poi saturare l’attivo complesso assorbente con ioni ad alto potere disperdente,
in modo da impedire o ridurre al minimo ulteriori possibilità di nuove agglomerazioni.
Non sempre è semplice raggiungere questo risultato poiché le forze di aggregazione, di
agglomerazione, di flocculazione sono molto forti e spesso sono fornite dalla stessa
composizione chimica o mineralogica delle particelle costituenti il terreno. Per escludere
tali forze bisognerebbe eliminare unità fisiche primarie, veri costituenti del suolo, con
l’effetto paradossale di distruggere il terreno per poterne individuare la sua
composizione.
Le cause che provocano la formazione di vari aggregati di particelle del terreno
sono legate alla carica elettrica di queste ultime, alla sostanza organica ed agli ossidi ed
idrati di ferro ed alluminici.
Con riferimento alla carica elettrica delle particelle va detto che i colloidi del
terreno in sospensione acquosa, come gli ioni, hanno carica elettrica e, se sottoposti
all’influsso di una corrente continua, migrano verso l’anodo se la loro carica è negativa o
verso il catodo se la loro carica è positiva.
La velocità di migrazione è tanto più alta quanto più elevato è il loro potenziale,
vale a dire la quantità di carica elettrica.
Tale potenziale è il responsabile della stabilità di una dispersione colloidale perché
più esso è alto più elevata è la forza con la quale le particelle di uguale carica si
respingono e, viceversa, se esso diminuisce la forza di repulsione si attenua fino al punto
che le particelle cadono l’una sull’altra, per la forza di attrazione delle masse, con
formazione di flocculi.
Le particelle colloidali del terreno, infatti, che risultano disperse in un liquido,
come tutti i colloidi, sono assoggettate al cosiddetto movimento browniano (provocato
dall’urto delle molecole del liquido disperdente sulle stesse particelle le quali si muovono
tanto di più quanto più esse sono piccole) a seguito del quale vengono fra loro a
collisione e poi respinte per effetto della carica elettrica.
Ma se una causa qualunque riesce ad annullare tale carica elettrica, prevalgono le
forze di coesione, dovute all’attrazione di massa.
Tali forze causano l’aggregazione delle particelle e la formazione di flocculi.
Questi, da un lato aumentano la loro forza di attrazione (non legata alle cariche ma alla
massa) verso altre particelle più piccole e danno luogo ad aggregati sempre più
voluminosi, dall’altra soggiacciono alla forza di gravità e si depositano sul fondo.
Pertanto, la flocculazione dei colloidi del terreno in sospensione può avvenire sia
per reciproca attrazione di colloidi a carica opposta, sia per la presenza di ioni di un
elettrolito, di carica opposta a quella degli stessi colloidi, con conseguente
neutralizzazione per adsorbimento.
Gli anioni neutralizzano i colloidi positivi, i cationi quelli negativi, provocandone
la flocculazione (figura 10).
L’aggregazione dei colloidi del terreno è incrementata con l’aumento della valenza
degli ioni e del loro peso atomico e con la diminuzione della loro idratazione.
Sulla forza di coagulazione indotta dagli ioni influisce la valenza degli stessi (il
numero delle cariche elettriche), la loro idratazione, il peso atomico, la quantità e
l’intensità con cui vengono adsorbiti.
Fiume Francesco
Fig. 10 – Neutralizzazione di un colloide del terreno per opera di cationi
monovalenti di un elettrolita.
Gli ioni idrogeno, tra quelli monovalenti, sono quelli che hanno maggiore capacità
di coagulazione, per questo l’aumento dell’acidità del mezzo favorisce l’aggregazione.
Come già accennato, la neutralizzazione delle cariche elettriche dei colloidi non avviene
soltanto con l’adsorbimento di ioni di segno opposto, ma anche in seguito a reciproca
attrazione di colloidi a carica opposta. In tal caso, la completa flocculazione si ottiene
solo se la somma algebrica delle cariche è nulla, mentre, se vi è una moderata eccedenza
di una carica su un’altra si una flocculazione incompleta; un eccesso di una carica
sull’altra provoca l’inversione della carica del colloide presente in minore quantità e
quindi assenza di flocculazione. Quindi, sull’aggregazione di due colloidi a carica
contraria gioca un ruolo fondamentale non tanto il loro rapporto stechiometrico bensì il
rapporto tra le cariche opposte.
La quantità minima di elettrolita necessaria per provocare flocculazione dipende
dalle caratteristiche dei colloidi, da quelle dell’elettrolito impiegato e dallo stato
d’omogeneità delle particelle in sospensione. Vi sono colloidi - detti liofili o idrofili, con
acqua di condensazione sulla loro superficie a formare una pellicola di copertura che
induce resistenza alla coagulazione da parte degli elettroliti - che precipitano formando
coaguli voluminosi e gelatinosi, con tendenza a ritornare allo stato disperso. Si dice allora
che i colloidi passano dallo stato di sol a quello di gel e viceversa. Vi sono poi colloidi,
detti liofobi o idrofobi, che assorbono poca acqua, pertanto non sono isolati da alcuna
pellicola acquosa, sono molto sensibili agli elettroliti i quali ultimi possono indurre
facilmente flocculazione (con flocculi poveri d’acqua, granulosi e compatti) anche in
piccole quantità.
Lo stato di idratazione degli ioni dell’elettrolita è influenzato dall’attrazione
esercitata sulle molecole d’acqua la quale è direttamente proporzionale alla carica degli
ioni ed inversamente al loro diametro. Pertanto, più uno ione è idratato, tanto meno può
avvicinarsi alla superficie della particella colloidale ed indurre aggregazione per
neutralizzazione delle cariche.
Circa le caratteristiche dell’elettrolito, cioè del sale impiegato per la flocculazione
dei colloidi, per l’argilla del terreno, ad esempio, colloide a carica negativa, il catione
induce flocculazione perché viene attratto e determina neutralizzazione; l’anione, di
carica uguale al colloide argilloso, fa aumentare la stabilità e non induce flocculazione. Il
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Il terreno
suo effetto, tuttavia, è inferiore a quello del catione, poiché l’anione, di carica uguale a
quella della particella argillosa, viene respinto e viene a trovarsi in posizione più distante
rispetto al catione, perdendo di molto la sua efficacia. Il catione, di carica opposta a
quella del colloide, viene da questo attratto, portandosi nelle immediate vicinanze o a
contatto, neutralizza la carica e provoca, come effetto finale, la precipitazione del
colloide. Non tutti i sali hanno la stessa forza coagulante su cui influisce la caratteristica
dell’anione sull’effetto dello stesso catione e viceversa. Ad esempio, i cationi ammonio e
potassio vengono assorbiti di più soltanto se si trovano allo stato di solfato che non di
cloruro.
Circa l’omogeneità della grandezza delle particelle che si trovano nella sospensione
acquosa, la flocculazione è più facile in soluzioni eterogenee e tanto più le particelle sono
grosse tanto più alte sono le probabilità che essa avvenga, fungendo le stesse particelle di
diametro maggiore da nucleo di condensazione.
Da quanto detto, è facile dedurre come la quantità minima d’elettrolito, necessaria
per indurre flocculazione di una soluzione colloidale, sia molto variabile ed è
strettamente in relazione col tipo di colloidi e dell’elettrolito e con le caratteristiche
granulometriche della dispersione colloidale.
La sostanza organica è un'altra delle cause che svolgono sullo stato d’aggregazione
delle particelle di terreno un ruolo molto importante, sia attraverso i componenti più
grossolani, sia mediante i composti umici che si formano a seguito della sua
decomposizione. In particolare, le soluzioni umifere hanno la tendenza a costituire
pellicole di rivestimento che avvolgono le sottili particelle di terreno formando unità
fisiche più complesse e di maggiori dimensioni. La temperatura (gelo e calore) favorisce
l’effetto di cementazione, tanto più forte quanto più piccole sono le particelle,
aumentando la persistenza e la resistenza dell’aggregato. Inoltre la sostanza organica
aggrega le particelle, in relazione alla propria carica negativa, venendo a contatto con
colloidi di carica positiva, come ad esempio quelli del ferro e dell’alluminio, con
conseguente neutralizzazione reciproca delle cariche e reciproca flocculazione.
Fenomeno analogo può avvenire fra colloidi argillosi e colloidi umici per una reazione di
alcuni gruppi a carica opposta come, ad esempio, i fra i gruppi –SiOH ed =NH2, fra
gruppi =AlOH e gruppi ossalici e di ossidrili fenolici. Infine, vi sono materiali organici di
essere viventi che possono formare aggregati, come radici capillari delle piante, miceli
fungini e colonie batteriche che rinsaldano in unità maggiori piccoli aggregati di terreno.
I microrganismi possono intervenire sia con il loro complesso fisico, sia con prodotti
della loro attività biologica con formazione di polisaccaridi e poliuronidi che, in forma
filamentosa, avvolgono particelle inorganiche di terreno. La stabilità di questi aggregati
non è di lunga durata perché la decomposizione delle sostanze organiche provoca la
disaggregazione delle particelle terrose.
Gli ossidi e gli idrati di ferro ed alluminio hanno anch’essi un ruolo importante
nella formazione di aggregati e nella costituzione di unità strutturali. La loro efficacia è
più sentita in ambienti acidi, poiché le loro cariche positive diminuiscono coll’aumentare
del pH, ed in ambienti poveri di sostanza organica che con la propria carica elettrica
negativa neutralizza la positività di tali colloidi.
Da quanto si è esposto appare chiaro che le particelle di terreno possono trovarsi
allo stato di aggregati, formatisi a seguito di flocculazione elettrolitica, i quali sono labili
e quindi più facili a disperdersi.
Vi sono poi aggregati, anch’essi capaci di disperdersi con relativa facilità, creatisi
per azioni meccaniche, dovute a compressioni fisiche di attrezzi e radici, per la debole
azione cementante di soluzioni colloidali inorganiche ed organiche.
Fiume Francesco
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Infine, vi sono aggregati molto stabili, sorti per cementazione di origine colloidale
(per effetto del calore e del secco), di origine chimica (concrezioni calcare o ferruginose)
e di grande ampiezza (conglomerati, banconi che hanno trasformato il terreno in roccia);
in quest’ultimo caso essi non possono essere presi in esame nell’analisi granulometrica
del terreno.
La dispersione preliminare del terreno è diretta verso gli aggregati indotti da
cariche elettriche e dovuti alle azioni meccaniche. Tale dispersione deve rispettare le altre
forme di aggregati (concrezioni ferruginose, noduli di caranto, pezzetti di arenarie che
poi si trasformano in sabbia) perché fanno parte integrante delle frazioni grossolane di
terreno e, sebbene geneticamente diversi, si comportano come gli altri frammenti rocciosi
del terreno che non vanno frantumati.
Dopo quest’ampia premessa, che permette di comprendere come funzionano i
componenti colloidali del terreno e la natura delle forze che causano la loro
aggregazione, sarà più semplice capire le successive operazioni di separazione delle
frazioni costituenti la terra fine.
E’ necessario frantumare gli aggregati instabili e ricondurre i costituenti nello stato
d’originaria dispersione. Il terreno, pertanto, se secco, va inumidito, allo scopo di
ripristinare il normale stato di idratazione, e poi, dopo dispersione in una certa quantità
d’acqua, si sottopone ad una prolungata agitazione.
La disgregazione dei grumi richiede l’asportazione di sostanze organiche e
sesquiossidi ferroalluminici cementanti le particelle. La rimozione delle prime si ottiene
per mezzo di ossidazione, facendo bollire il terreno in una soluzione al 6% di acqua
ossigenata, oppure usando una soluzione 0,004-0,01 N nei casi più comuni o più
concentrata fino a 2-3 N, qualora i terreni siano decisamente umiferi. L’asportazione dei
secondi si ottiene con una soluzione 0,1-0,2 N di HCl, o con solfuro di ossalato sodico
che riduce il ferro allo stato ferroso e porta in soluzione gli ossidi di ferro e di alluminio.
La sostituzione di ioni adsorbiti, ad azione flocculante (Ca2+, Mg2+), con altri ad
effetto disperdente (Li+, Na+) si effettua trattando prima con acidi, in modo che gli ioni
idrogeno vanno a sostituire gli ioni calcio e magnesio, e poi, dopo l’allontanamento di
questi ultimi, per filtrazione ed eliminazione del liquido che contiene gli ioni spostati, si
effettua un trattamento alcalino con ioni litio o sodio.
Gli ioni calcio e magnesio adsorbiti possono anche essere eliminati mediante
precipitazione con carbonato o ossalato o esametafosfato sodico che formano i
corrispondenti sali. Si ricorre a quest’ultima via nel caso di terreni calcarei o ricchi in
calcio scambiabile; l’esametafosfato di sodio, che oggi è il più usato, alla soluzione di
102 g/l (s’impiega a 10 cc per 500 cc di liquido), annulla l’effetto coagulante degli ioni
calcio e consente la dispersione del terreno anche in loro presenza.
Allo scopo di lasciare il terreno il più possibile integro, è stata proposta la seguente
procedura:
a) si tratta la terra fina con una soluzione normale di NaCl il quale, come sale neutro, non ha
effetti dannosi sulla massa terrosa, mentre il sodio è in grado di saturare il complesso
colloidale del terreno;
b) dopo un’ora, si filtra e si elimina il liquido filtrato contenente gli ioni calcio e magnesio
spostati;
c) si aggiunge ancora una quantità di 100 cc della stessa soluzione di NaCl, lasciando a
contatto per un’ora ed agitando ogni tanto;
d) si decanta sul filtro usato precedentemente e si lava ripetutamente con acqua distillata fin
quando il filtrato diventa lievemente torbido o non passa più;
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Il terreno
e) si lava con acqua distillata contenente fenolftaleina e qualche goccia di soluzione
decinormale di NaOH (fino a colorazione rosa, cioè reazione leggermente alcalina, allo
scopo di tenere la concentrazione della soluzione d’idrossido di sodio entro limiti
modestissimi e non provocare apprezzabili reazioni chimiche sulla massa terrosa, con
possibili effetti contrari flocculanti e solventi) allo scopo di impedire che gli ioni
idrogeno vadano a sostituirsi agli ioni sodio adsorbiti dai colloidi, di mantenere, per
azione di massa, i colloidi stessi saturi di sodio e di conservare il loro stato di alta
dispersione;
f) si toglie il terreno dal filtro (con una spruzzetta), si mette in beuta con circa 300 cc di
acqua distillata alcalinizzata con NaOH, in presenza di fenolftaleina, e si tiene in
agitazione per un’ora;
g) si versa tutto nell’apparecchio di levigazione.
Una delle determinazioni più importanti nell’analisi meccanica dei terreni è la
separazione della terra fina nei suoi costituenti meccanici, vale a dire in parti di diversa
grossezza. Dal grado di finezza dipendono le principali proprietà fisiche di un suolo quali
il potere assorbente, la capacità idrica, la permeabilità, la conducibilità per il calore.
Quest’analisi può essere effettuata o tenendo il liquido immobile, in modo che le
particelle sospese sedimentino sotto l’azione della gravità o facendo circolare il liquido
dal basso verso l’alto in modo che la corrente, ad una data velocità, trascini soltanto le
particelle di una certa dimensione. Per far ciò, bisogna poter disporre di apparecchi detti
levigatori, dal nome levigazione che indica il processo che separa le particelle di terreno
sospese in un liquido.
Nel primo caso s’impiegano i levigatori a sedimentazione o a velocità di caduta,
propriamente detti sedimetatori che permettono alle particelle in movimento discendente
di depositarsi in ragione del peso specifico, della forma e del volume e, pertanto, le
diverse frazioni possono essere separate raccogliendo il liquido torbido in tempi diversi.
Nel secondo caso si usano i levigatori a circolazione (veri e propri levigatori),
basati sull’azione di trasporto dell’acqua corrente. Questi levigatori, determinando un
movimento ascendente dell’acqua che urta contro le particelle, sollevandole in ragione
del peso specifico, della forma e del volume, danno luogo alla divisione dei granelli in
una serie di frazioni di varia grandezza. Ognuna delle frazioni sarà trasportata da correnti
idriche di velocità differenti.
Sono stati realizzati numerosi apparecchi che, con semplice manualità, consentono
una buona selezione granulometrica delle particelle del terreno e tutti rispondono
abbastanza bene allo scopo.
Tra i levigatori a sedimentazione ricordiamo la pipetta di Andresen e gli apparecchi
di Appiani e di Atterberg.
Tra i levigatori a circolazione gli apparecchi di Schöne-Kopecki.
Con la separazione dello scheletro sono state rimosse, mediante stacci, le particelle
di diametro superiore a 2 mm. Inoltre, sempre mediante stacci, con fori e maglie di
differenti dimensioni, è possibile separare particelle di diametro comprese tra 0,2 e 2 mm
(sabbia grossa), tra 0,02 e 0,2 (sabbia fina). Ma per la separazione delle particelle con
diametro inferiore a 0,02 mm, corrispondenti alle frazioni del limo e dell’argilla, bisogna
ricorrere alla levigazione.
I diversi metodi messi a punto per realizzare la levigazione per sedimentazione di
un terreno si fondano sulla legge di Stockes, che esprime la velocità di caduta di una
particella in seno ad un liquido, secondo le dimensioni della particella e la densità e
viscosità del liquido. La legge di Stockes è data dalla seguente relazione:
Fiume Francesco
2 g r2 (P – d)
v = –––––––––––––
9η
dove v
g
r
P
d
η
è la velocità uniforme di caduta in cm/sec;
l’accelerazione di gravità pari a 981 m/s2;
il raggio della particella;
il peso specifico delle particelle;
il peso specifico dell’acqua;
coefficiente di viscosità dell’acqua espresso in g sec/cm2.
Per l’esatta applicazione di questa legge si richiedono le seguenti condizioni:
particelle sferiche, assenza di moti vorticosi in seno al liquido, nell’adesione tra le
particelle sospese ed il liquido le molecole del liquido si muovono soltanto le une rispetto
alle altre, piccole dimensioni delle molecole del liquido rispetto a quelle solide, perfetta
rigidità delle particelle solide, infinita grandezza della massa del liquido rispetto alla
quantità delle particelle sospese.
Nella pratica è difficile che avvengano tutte queste condizioni, specialmente per
quanto riguarda la sfericità delle particelle.
Inoltre, i risultati delle levigazioni fondate sulla libera caduta delle particelle in
seno ad una colonna d’acqua non danno la quantità di particelle del terreno, il cui
diametro è compreso entro determinati limiti, ma soltanto la quantità di particelle
considerate come sferiche, che produrrebbero lo stesso fenomeno con una velocità di
sedimentazione corrispondente a quella in realtà osservata. Il diametro di queste
particelle è detto diametro equivalente e su questo si basa la classificazione delle
particelle del suolo.
Se si pone g = 981, p = 2,65 (peso specifico medio dei minerali costituenti il
terreno), d = 1 (densità dell’acqua) e η = 0,01, la formula di Stockes diventa:
2 · 981 · r2 (2,65 – 1)
v = –––––––––––––––––––
9η
da cui
v = 35970 · r2
Quest’ultima espressione fornisce una relazione assai semplice tra la velocità di
sedimentazione ed il diametro equivalente delle particelle di terreno. La velocità, nel
moto uniforme è data dal rapporto tra lo spazio percorso (altezza di caduta h) ed il tempo
impiegato (v = h/t).
Sostituendo:
h
––– = 35970 · r2
t
88
89
Il terreno
In quest’ultima relazione t è il tempo impiegato dalle particelle di diametro 2r per
percorrere, con velocità uniforme, l’altezza h in seno al liquido. Ricavando t si ottiene:
h
t = –––––––––
35970 · r2
Pertanto, se si calcola il tempo t di sedimentazione per un’altezza di 10 cm, altezza
normalmente prescelta nella comune analisi meccanica, diventa possibile calcolare la
massa di particelle con un preciso diametro 2r (tabella 12).
Tab. 12 – Velocità di caduta e tempi di sedimentazione delle particelle costituenti la terra
fina.
Diametro delle
particelle mm
Velocità di caduta
cm/s
Tempo di sedimentazione per h = 10 cm
ore
minuti
secondi
< 0,002
0,00036
7
43
0
0,02 – 0,02
0,03600
0
4
38
0,02 – 0,20
2,03000
0
0
5
Va ancora detto che la formula di Stockes, da cui è stata ricavata l’ultima
relazione, può applicarsi con precisione solo per particelle molto fini che non superano il
diametro di 0,1 mm.
Per particelle di maggiore diametro va applicata la formula di Oseen le cui lettere
hanno gli stessi significati che nella formula di Stockes:
3η
9η2
– —— ±
– —— + 3d (P – d)· g · r
r
r2
v =         —————————
9
—— d
4
La levigazione basata sull’azione di trasporto dell’acqua corrente è funzione della
velocità di movimento di quest’ultima ed è capace di trasportare granuli di diversa
grandezza, sempre che abbiano naturalmente lo stesso peso specifico. Piccole velocità
trasportano particelle piccole, velocità via via crescenti trasportano particelle sempre più
grosse.
Nella maggior parte di levigatori a circolazione, la separazione è effettuata con una
corrente d’acqua ascendente e verticale in un contenitore cilindrico o in caso contrario
almeno in parte di forma cilindrica.
Una certa velocità dell’acqua dal basso verso l’alto si contrappone alla velocità di
Fiume Francesco
caduta di quelle particelle che vengono a trovarsi in riposo nel sistema e cioè immobili
nel recipiente.
Il diametro di queste particelle segna il limite alle frazioni che si separano perché
le più grosse cadono verso il fondo dove permangono, mentre le più fini sono trasportate
dall’acqua al di fuori del recipiente; pertanto, per una determinata velocità dell’acqua, si
hanno particelle immobili, particelle che sedimentano e particelle che rimangono
levigate.
Questi tre stati delle particelle di terreno sono determinati dalla velocità dell’acqua
e dalla velocità di caduta e se s’indica con Va la prima e con Vp la seconda, la velocità di
una qualunque particella, indicata con V, sarà data dalla seguente relazione:
V = Va – Vp
per cui, se
Va – Vp = 0
e quindi
Va = Vp
la particella è immobile;
se
Va – Vp < 0
e quindi
Va< Vp
la particella sedimenta sul fondo. Se
Va – Vp
e quindi
Va > Vp
la particella viene levigata, fuoriuscendo dal contenitore.
Per la condotta della levigazione, due sono i punti che vanno opportunamente definiti:
1) quale deve essere la velocità da imprimere all’acqua perché si addivenga alla
separazione delle varie classi di particelle;
2) quali sono i tempi richiesti per ciascuna delle separazioni da effettuare.
La questione della velocità da imprimere all’acqua non presenta difficoltà poiché
per allontanare dal levigatore le particelle di una certa grandezza e quindi di una certa
classe, occorre far scorrere in esso l’acqua ad una velocità lievemente superiore a quella
corrispondente alla loro velocità di caduta.
Le velocità di caduta per le tre frazioni (argilla, limo e sabbia fina) sono quelle già
utilizzate per la determinazione dei tempi di sedimentazione (tabella 12) e quelle stesse
velocità, impresse dall’acqua, portano a realizzare la separazione delle stesse tre frazioni
per mezzo della levigazione.
90
91
Il terreno
Più complessa è la questione relativa alla determinazione dei tempi di levigazione. Il
caso che si presenta praticamente è quello della separazione delle particelle di raggio r
dalle particelle di raggio r1, essendo:
r1 = r – dr
Evidentemente, in tale circostanza, la velocità da imprimere all’acqua è pari alla
velocità di caduta delle particelle di raggio r, indicata come Vr; d’altra parte la velocità
con cui si muovono le particelle di raggio r1 è:
V = Vr – Vr1
e quindi la durata di levigazione è condizionata dall’espressione
h
t = —————
Vr – Vr1
Ma dalla legge di Stockes è noto che
v = 35970 · r2
Sostituendo nelle relazioni precedenti avremo:
h
t = ——————————
35970 · r2 – 35970 · r12
e raccogliendo
h
t = ———————
35970 (r2 - r12)
Da quest’ultima espressione si evince chiaramente come la durata della levigazione
dipenda dalla differenza dei raggi delle particelle.
Il valore ottenuto è molto variabile e dimostra come il tempo di levigazione non sia
destinato ad assumere un valore fisso e determinato.
Tale condizione assume un rilievo importantissimo perchè se, al limite, la
differenza tra i raggi delle particelle è uguale a zero (r = r1), la durata della levigazione
diventa illimitata.
Continuando lo stesso esempio considerato nel caso della sedimentazione (tabella
12), eccezion fatta per l’ampiezza del percorso (questa volta h = 36 cm), tutti gli altri
dati (peso specifico delle particelle, densità e viscosità dell’acqua) sono gli stessi
considerati a proposito della sedimentazione (tabella 13).
Fiume Francesco
92
Tab. 13 – Tempi di levigazione di particelle costituenti la terra fina e valori di velocità
dell’acqua (Va).
Diametro delle
particelle
(mm)
< 0,002
Valori di Va
(cm/s)
0,00036
Tempi di levigazione
per r1 = 0,9 r
per r1 = 0,99 r
ore
minuti
ore
minuti
14
37
134
0
0,002 – 0,02
0,036
1
25
14
0
0,020 – 0,20
2,03
0
3
0
30
Nelle operazioni di levigazione bisogna pertanto fissare il grado d’approssimazione
desiderato, affinché riesca possibile valutare il tempo minimo richiesto. Di sotto a tale
periodo, l’operazione può essere ancora incompleta, mentre andando oltre, ciò potrebbe
essere senza alcuna convenienza, poiché si verrebbero ad ingrossare inutilmente le
quantità di liquido da manipolare.
I levigatori che ora si andranno ad esaminare si distinguono in levigatori a
sedimentazione e levigatori a circolazione.
Levigatori a sedimentazione
L’analisi per sedimentazione, basata sulla velocità di precipitazione in seno ad un
liquido non in movimento, si esegue determinando la concentrazione media delle
particelle che si sono dislocate spontaneamente e gradualmente ad un dato livello della
sospensione, in un determinato intervallo di tempo.
Le variazioni della concentrazione delle particelle, ad un dato livello del liquido,
possono essere misurate con differenti metodiche che hanno dato origine a molteplici
strumenti.
Così si può misurare la densità della sospensione in un certo punto (con speciali
densimetri) e poi risalire alla concentrazione delle particelle in quel punto; oppure
determinare la differenza di concentrazione delle particelle (mediante il manometro
differenziale di Wiegner) tra due differenti strati della sospensione; oppure prelevare un
campione della sospensione in un certo punto, evaporare l’acqua e pesare direttamente le
particelle ottenendo la loro quantità in quel dato volume di sospensione (concentrazione).
Tra i levigatori che forniscono valori legati alla sedimentazione delle particelle si
ricordano la pipetta di Andreasen, il levigatore Appiani e l’apparecchio di Atterberg.
PIPETTA DI ANDREASEN
La pipetta di Andreasen (figura 11A) è, fra gli apparecchi sedimentatori, quello più
conosciuto, basato sul metodo per pesata.
Consta di un cilindro graduato di 500 cc contenente un capillare di vetro che si
approfondisce per circa 20 cm.
Un rubinetto a due vie consente il prelievo dei campioni della sospensione ad
intervalli di tempo prestabiliti e secondo volumi misurati dall’apposita pipetta, collegata
93
Il terreno
direttamente al rubinetto, che viene svuotata in una capsula di nichel per pesare le
particelle di terreno dopo evaporazione dell’acqua.
La metodica consiste nel pesare le particelle da analizzare, cioè la frazione di
terreno, separata con stacci dallo scheletro, in modo che essa rappresenti circa l’1% in
volume.
Per cui, se s’intende riempire 400 cc del cilindro graduato, si usano circa 4 g del
campione.
Si umetta con cura la polvere con il liquido, si versa il tutto nel cilindro graduato e
si porta a volume con altro liquido fino al livello calcolato (nell’esempio fino a 400 cc).
Si chiude il levigatore con l’apposito tappo smerigliato attraversato dal capillare
che pesca nella sospensione ed è collegato, mediante il rubinetto, alla pipetta graduata.
Si agita energicamente e, dopo 1, 2, 3, 4, 8, 15, 30, 50, 120 minuti, man mano che
le particelle sedimentano sul fondo, si prelevano campioni di sospensione per la pesata
delle particelle in essa contenute, dopo evaporazione del liquido.
Fig. 11 – Levigatori a sedimentazione: pipetta di Andreasen (A),
levigatori di Appiani (B), apparecchio di Atterberg (C).
LEVIGATORE DI APPIANI
Il levigatore di Appiani (figura 11B) fraziona la polvere, in base alle dimensioni
delle particelle, sifonando la sospensione. Offre il vantaggio, rispetto ad altri apparecchi,
di travasare una minima quantità di liquido e di procedere ad una filtrazione rapida. E’
formato da un cilindro di vetro del diametro interno di 5 cm e della lunghezza di 40 cm,
Fiume Francesco
94
con l’apertura provvista di tappo a smeriglio. Inferiormente c’è un piccolo sifone che
pesca all’interno con la bocca a 3 cm dal fondo del cilindro, mentre all’esterno ha un
rubinetto che consente il prelievo. La tecnica è analoga a quella vista per la pipetta di
Andreasen, solo che il prelievo della sospensione con la pipetta è sostituito dal sifone.
Si prelevano 10 g di materiale, si agita con forza nella quantità prestabilita di
acqua, si lascia decantare e si conta il tempo di levigazione. Dopo un intervallo di tempo
prestabilito, si apre il rubinetto del sifone e si lascia defluire la sospensione sul filtro per
poi pesarla una volta asciugata. Le graduazioni del cilindro permettono di operare con
diversi carichi d’acqua e velocità di caduta. La durata di levigazione varia secondo
quanto riportato nella tabella 14.
Tab. 14 – Velocità di caduta e durata della levigazione con differenti carichi d’acqua per
ottenere le frazioni granulometriche della terra fina a seguito dell’impiego del
levigatore di Appiani.
Velocità
di caduta
(mm/s)
Durata della levigazione con carico d’acqua di
20 cm
ore
25 cm
30 cm
35 cm
minuti secondi minuti secondi minuti secondi minuti secondi
0,005
12
-
-
-
-
-
-
-
-
0,01
6
-
-
-
-
-
-
-
-
0,05
1
-
-
-
-
-
-
-
-
0,2
-
16
40
20
50
25
-
30
-
2
-
1
40
2
5
2
30
3
-
7
-
-
29
-
36
-
43
-
52
25
-
-
8
-
10
-
12
-
15
Dalla velocità di levigazione si può risalire alle dimensioni delle particelle (tabella
15). Pertanto, considerando il tempo di levigazione, per una certa classe di dimensione
delle particelle, diventa possibile venire a conoscere la quantità di elementi di dimensioni
date, contenute in un certo campione di terreno.
Tab. 15 – Dimensioni delle particelle in relazione alla loro velocità di caduta.
Velocità di caduta delle
particelle
mm/s
Dimensioni delle particelle
mm
Nomenclatura
< 0,005
< 0,002
0,005-0,05
0,002-0,05
0,05-0,2
0,05-0,1
Sabbia finissima
0,2-7
0,1-0,25
Sabbia fine
7-25
0,25-1
Frazione argillosa
Limo
Sabbia grossa
95
Il terreno
Il levigatore di Appiani serve per velocità che non superano i 25 mm/s, quindi
adatto per piccole velocità per le quali altri metodi possono presentare qualche difetto.
A P PA R E C C H IO
DI
AT T E R B E R G
L’apparecchio di Atterberg (figura 11C) consiste in un cilindro di vetro alto 20 cm,
con un diametro interno di 5-6 cm e munito inferiormente di un tubo laterale, che
permette la decantazione del liquido.
Il cilindro, che può essere superiormente chiuso con un tappo di vetro, possiede due
scale, di cui quella a sinistra presenta divisioni di 5 cm in 5 cm, con lo zero al fondo del
cilindro, mentre quella di destra possiede cifre che indicano il tempo necessario affinché
la colonna del liquido raggiungente il livello corrispondente contenga unicamente
particelle argillose, essendosi già sedimentate le altre particelle più grossolane.
L’analisi si effettua prelevando 20 g di terra fine che si pone in sospensione in 150
cc di acqua distillata. Si agita per circa tre ore in agitatore e poi si versa nel cilindro
dell’apparecchio.
Per la determinazione delle particelle argillose con diametro inferiore a 0,002 mm,
la sospensione si fa arrivare fino ad un tratto qualsiasi della graduazione della scala di
sinistra. Quindi si agita accuratamente e si lascia depositare per il tempo indicato sul
corrispondente tratto della scala di destra. Si sifona il liquido e l’operazione viene
ripetuta fin quando il liquido diventa perfettamente limpido alla fine del tempo di
sedimentazione indicato. Tutte le particelle sospese nel liquido così decantato
costituiscono la frazione argillosa del terreno.
Le particelle che si sono sedimentate sul fondo del cilindro costituiscono il limo e
la sabbia. Per separare il limo, costituito da particelle di diametro compreso tra 0,02 e
0,05, al residuo depositatosi sul fondo del cilindro si aggiunge acqua distillata fin quando
la colonna raggiunge l’altezza di 10 cm. Si rimescola e si decanta dopo 7 minuti,
ripetendo l’operazione fino a che il liquido decantato appare perfettamente limpido. Tutte
le porzioni di liquido ottenute si fanno evaporare ed il residuo solido rappresenta la
quantità di limo contenuta nel terreno.
Per determinare la quantità di sabbia fine e finissima, costituita da particelle con
diametro di 0,05-0,25 mm, al residuo rimasto dopo la separazione del limo, si aggiunge
acqua fino a che la colonna del liquido raggiunge l’altezza di 20 cm. Si agita e si decanta
dopo 10 secondi, ripetendo l’operazione fino ad ottenere un liquido limpido. I liquidi
decantati sono evaporati e si pesa il residuo solido.
Le particelle che rimangono sul fondo del cilindro corrispondono alla sabbia media
e grossolana, con diametro di 0,25-1,0 mm.
Variando in maniera appropriata la durata della sedimentazione si può ottenere la
separazione di un maggior numero di classi di particelle.
Levigatori a circolazione
Come già accennato, il loro funzionamento si basa sull’impiego di una corrente di
acqua a velocità variabile la quale, per ciascuna velocità, è in grado di trascinare le
particelle aventi un diametro inferiore ad un certo valore.
E’ preferibile usare questo tipo di levigatori per la separazione di categorie di
Fiume Francesco
particelle di maggiori dimensioni, mentre quelli a sedimentazione forniscono risultati più
precisi nella determinazione di frazioni più minute.
I levigatori a circolazione che sono descritti sono il levigatore di Schöne e il
levigatore di Schöne-Kopecki.
L EV I G ATO R E
DI
SCHÖNE
Il levigatore di Schöne (figura 12A): la separazione della sabbia dall’argilla è
ottenuta mediante una corrente d’acqua che trasporta il materiale argilloso più piccolo.
Il levigatore di Schöne è costituito da un’allunga, conica nella parte inferiore e
cilindrica in quella superiore.
Nella parte cilindrica, detta camera di levigazione, s’innesta un tubo (detto tubo
piezometrico) ripiegato due volte ad angolo di 45°. Esso porta nella ripiegatura un foro
circolare di 1,5 mm ed il tubo stesso è graduato, nella parte verticale, in millimetri prima
ed in mezzi centimetri poi.
La parte inferiore dell’allunga è ripiegata ad U e viene collegata, mediante un tubo
di gomma, con una presa d’acqua a livello costante.
La quantità d’acqua che si fa circolare nell’apparecchio viene regolata mediante un
morsetto a vite applicato sul tubo di gomma.
Per eseguire le determinazioni la terra deve essere privata del calcare. A tale scopo,
si trattano 10 g di terra con HCl all’1%, a freddo, si filtra e la parte insolubile, lavata, si
fa cadere, con un getto d’acqua distillata, in una capsula di porcellana. Si fa bollire per
un’ora, aggiungendo acqua man mano che evapora. L’ebollizione ha lo scopo di
distaccare l’argilla dalla sabbia. Si lascia raffreddare e si versa il tutto nel levigatore in
modo da riempirlo non oltre la metà dell’altezza.
S’innesta il tubo piezometrico ed aprendo la pinzetta del tubo di gomma si fa
entrare una certa quantità d’acqua, allo scopo di scacciare ogni bolla d’aria, arrestando
l’erogazione dell’acqua prima che l’allunga sia completamente riempita. Si lascia
l’apparecchio a riposo per un’ora, quindi si apre la pinzetta per far entrare l’acqua che
inizia la levigazione.
L’acqua, che trasporta le particelle argilliformi (quelle più piccole), esce per il foro
mentre s’innalza nel tubo piezometrico fino ad un’altezza che è costante per ogni
determinata velocità dell’acqua.
La velocità del flusso è data dall’altezza che raggiunge il liquido nel tubo
piezometrico.
Per un’altezza piezometrica di 1 cm, nella camera di levigazione la velocità di
flusso è di 0,2 mm/s; per un’altezza piezometrica di 7 cm, nella camera di levigazione la
velocità del flusso è di 2 mm/s.
Si deve regolare, con la morsetta, l’accesso dell’acqua in modo che l’altezza nel
tubo piezometrico non superi i 12 mm. In tal modo, l’argilla esce con l’acqua per il foro,
mentre la sabbia, più pesante, rimane nell’apparecchio.
Quando nella camera di levigazione l’acqua è diventata limpida (dopo 8-10 ore), se
ne aumenta la velocità per pochi istanti (agendo sempre sulla morsetta), allo scopo di
rimuovere la sabbia e liberarla dalle particelle argillose che potrebbe ancora,
eventualmente, trattenere.
Si sospende l’erogazione dell’acqua quando questa si mantiene definitivamente
96
97
Il terreno
limpida nella camera di levigazione.
Tab. 16 – Confronto delle frazioni separate, a differenti velocità di levigazione, per il
sedimentatore Appiani ed il levigatore Schöne.
Velocità di levigazione
m/s
Levigatori messi a confronto
Appiani (%)
Schöne (%)
0,2
15,10
15,04
2,0
38,62
38,58
7,0
29,76
29,70
25,0
14,54
14,52
2,26
2,38
Residuo
La sabbia rimasta nell’apparecchio si fa cadere in un largo bicchiere, si lascia in
riposo, si decanta il liquido limpido sovrastante e si raccoglie sopra un filtro.
Si essicca, si calcina in crogiolo precedentemente tarato e si pesa.
Il peso della sabbia, moltiplicato per 10, dà la percentuale di materiale sabbioso
(siliceo e silicato) nella terra fine.
Alcuni saggi di confronto tra il sedimentatore di Appiani ed il levigatore di Schöne
hanno dato, con terra fine (sotto 0,3 mm), i risultati riportati nella tabella 16, dall’esame
dei quali non emergono differenze apprezzabili fra loro.
Apparecchi fondati su principi differenti forniscono risultati pressoché identici.
Tuttavia, è preferibile ricorrere all’impiego del levigatore di Schöne, anziché quello
d’Appiani, nel caso in cui le velocità di sedimentazione superano i 25 mm/s e quindi si
debbano separare frazioni le cui particelle hanno dimensioni più grossolane.
L EV I G ATO R E
DI
S C H Ö N E -K O P E C K I
Il levigatore di Schöne-Kopecki (figura 12B) è costituito da un certo numero di
elementi ciascuno dei quali è un levigatore Schöne, ciascuno collegato al successivo
tramite il tubo piezometrico che s’innesta nel tubo di gomma privato della pinza. Inoltre,
l’allunga di ogni elemento è di diametro crescente, in modo che la corrente dapprima
entra nell’allunga con diametro minore e poi in quelle più larghe, permettendo all’acqua
di ridurre via via la propria velocità, mentre la quantità di acqua che passa, nell’unità di
tempo e attraverso le singole allunghe, è la stessa.
Il flusso dell’acqua viene regolato agendo sul morsetto del tubo in gomma del
primo elemento che è quello, come già visto, che possiede l’allunga più stretta.
La procedura d’analisi consiste nell’introdurre 10 g di terra fine nella prima allunga
e facendo passare attraverso l’apparecchio una corrente d’acqua, regolandone la velocità.
Le particelle, la cui velocità di caduta è superiore od uguale a 7 mm/s, rimangono nella
prima allunga, mentre le altre sono trascinate nelle allunghe successive. Le particelle, la
cui velocità di caduta è compresa tra 7 e 2 mm/s, si portano nella seconda allunga e
quelle con velocità di caduta di 2-0,2 mm/s arrivano alla terza allunga.
Fiume Francesco
Fig. 12 – Levigatori a circolazione: levigatore di Schöne (A) e levigatore di SchöneKopecki (B).
Le particelle aventi una velocità di caduta inferiore a 0,2 mm/s sono trascinate fuori
dell’apparecchio.
Le frazioni rimaste in ciascuna delle allunghe sono raccolte in capsule tarate,
essiccate e pesate, mentre il peso complessivo delle particelle più minute, trascinate fuori
dell’apparecchio, viene calcolato per differenza, sottraendo cioè da 10 g il peso
corrispondente alla somma dei tre residui.
Le particelle, che rimangono nella prima allunga, costituiscono la sabbia grossa e
media; quelle della seconda allunga la sabbia fine e finissima e le altre della terza allunga
il limo; le particelle trascinate fuori dell’apparecchio corrispondono alla frazione
argillosa.
Prima di concludere questa parte, è il caso di evidenziare alcune considerazioni che
possono dare un’idea circa le difficoltà che si possono incontrare durante un’analisi
granulometrica.
Difficoltà che si fanno ancora più sentite quando si presentano terreni particolari
(calcarei, dolomitici, siderolitici, gessosi, umiferi, salini) che richiedono speciali
attenzioni e che esigono l’applicazione di specifiche tecniche, di cui è stato già accennato
a proposito della rimozione dal campione da sottoporre ad analisi granulometrica, della
sostanza organica e dei sesquiossidi ferroalluminici o del calcare.
Inoltre, la separazione delle varie frazioni si fonda sul tempo col quale le particelle
98
99
Il terreno
di vario peso raggiungono il fondo del recipiente.
Orbene, quest’ultimo valore è fortemente influenzato dalla temperatura alla quale
l’operazione è effettuata.
Così, alla temperatura di 20 °C e 25 °C, le particelle di 0,002 mm di diametro, che
rappresentano il limite massimo per i componenti argillosi, e quelle di 0,02 mm di
diametro, che rappresentano il limite superiore del limo, percorrono un’altezza di 10 cm
in tempi, rispettivamente, differenti (tabella 17).
Queste velocità di caduta (Comel, 1972) sono state calcolate per particelle di forma
sferica, di peso specifico circa 2,6 e per un percorso di caduta rettilineo nel senso
verticale, presupposti questi che possono realizzarsi solo teoricamente. Infatti, le
particelle quasi mai sono perfettamente sferiche, bensì poliedriche, con vario predominio
degli assi e la posizione di questi ultimi nello spazio, durante la caduta, influenza la
resistenza incontrata nel mezzo liquido e quindi la velocità e, infine, a parità di volume, il
peso specifico gioca un ruolo fondamentale, nel senso che più esso è elevato tanto più
rapidamente la particella si deposita sul fondo.
Tab. 17 – Tempi di percorrenza di un’altezza di 10 cm di particelle di differente diametro a due
diverse temperature.
Diametro Temperatura di 10 °C
mm
Temperatura di 15 °C
Temperatura di 20 °C
Temperatura di 25 °C
ore minuti secondi ore minuti secondi
ore minuti secondi
ore
minuti secondi
0,002
10
25
20
9
5
16
8
-
-
7
6
14
0,02
-
6
15
-
5
27
-
4
48
-
4
15
Nelle levigazioni a tempi brevi, il liquido non si mette subito a riposo dopo
l’agitazione per cui le particelle sospese non cadono in linea perfettamente verticale, ma
a spirale, compiendo, perciò, un percorso più lungo e trovandosi in posizione più
arretrata rispetto a quella che avrebbero se fossero cadute in un mezzo non disturbato.
Anche la densità della sospensione, alla stessa stregua della temperatura, come si è visto,
influenza le misure di sedimentazione.
A tale scopo è consigliabile impiegare, per l’analisi, quantità di terreno non
superiore a 20 g per i terreni comuni ed a 5 g per quelli argillosi.
Bisogna però annotare che l’entità di questi errori si riduce drasticamente quando si
considera la frazione colloidale, sia perché il tempo di sedimentazione di quest’ultima è
piuttosto lungo, sia perché le particelle, quando sono molto piccole, tendono a rivestirsi
d’acqua capillare (il cui spessore è, relativamente, tanto maggiore quanto più piccole
sono le particelle).
Per questo l’influenza del loro peso specifico (che, per la sostanza minerale secca,
tende ad aumentare con l’incremento della finezza) sulla velocità di caduta diventa
assolutamente ininfluente.
Infine è da considerare un’ulteriore possibilità d’errore che riguarda la precisa
valutazione del momento in cui bisogna sospendere la levigazione per la definitiva
avvenuta separazione delle particelle di un dato ordine di grandezza. Molte volte, infatti,
allo scadere del tempo prescritto di decantazione, il liquido è perfettamente limpido, la
qual cosa influisce sull’esattezza dell’analisi.
Fiume Francesco
Tuttavia, se l’analisi è eseguita con tutti gli accorgimenti del caso, il risultato che si
ottiene è abbastanza soddisfacente e tale da corrispondere comunemente agli scopi pratici
per i quali essa è effettuata.
Prima di giungere alla conclusione di questo capitolo sulla costituzione del terreno
agrario è il caso di enunciare alcune considerazioni sulla classificazione dei terreni, in
base alla loro composizione granulometrica elementare. Una volta ottenuti i risultati
dell’analisi fisico-meccanica di un terreno, bisogna definirlo e classificarlo, così da
poterlo ben individuare e collocare. Un terreno equilibrato nella granulometria
elementare, teoricamente, dovrebbe contenere tutti i vari ordini di grandezza delle
particelle che lo costituiscono nella misura del 25% per ciascun gruppo (sabbia grossa,
sabbia fine, limo e argilla). Un terreno, da un punto di vista pedologico, viene
denominato in base al componente prevalente in percentuale: un terreno che contiene la
percentuale più alta in ciottoli (75%) si chiama ciottoloso, più alta in sabbia (75%)
sabbioso e così via. Tuttavia, un terreno agrario mal si presta ad essere così individuato
perché i vari gruppi di particelle sono in grado di impartire differenti valori agronomici.
In pratica contano poco le percentuali aritmetiche con cui le diverse particelle sono
rappresentate in un terreno agrario, mentre molto più importanti sono gli effetti che si
collegano con le proprietà fisico-chimiche delle particelle di varia grandezza. In altre
parole, la denominazione dei terreni agrari, classificati rispetto alla composizione
granulometrica elementare, non può essere concepita nel senso che la frazione
predominante debba dare il suo nome al terreno. Questa prerogativa spetta a quella
frazione che infonde al terreno la sua più specifica caratteristica effettiva.
Pertanto, la caratterizzazione di un terreno agrario deve essere derivata dal
confronto di valori ottenuti sperimentalmente da terreni che manifestano con evidenza le
peculiarità di una certa frazione granulometrica; di qui la necessità di ottenere dall’analisi
fisico-meccanica elementare risultati il più possibile esatti, perché altrimenti può essere
compromessa tutta la classificazione che su di essa si basa.
In linea di massima, un terreno agrario è denominato così come indicato nella
tabella 18, in relazione alle sole caratteristiche dimensionali delle particelle
indipendentemente dalla loro qualità, ossia natura chimica, mineralogica o litologica.
Tab. 18 – Denominazione di un terreno agrario in relazione ai valori minimi percentuali di
particelle di un dato ordine di grandezza.
Denominazione del terreno
Quota minima di particelle riscontrata all’analisi
a scheletro prevalente
40% di scheletro
pietroso o ciottoloso
40% di pietre o ciottoli
ghiaioso
40% di ghiaia
sabbioso o a grana grossa
70-80% di sabbia fine e grossa
limoso
80% di limo
argilloso
40% di argilla
di medio impasto
35-55% di sabbia, 25-45% di limo, 10-25% di colloidi
minerali e organici
organico o umifero (1)
10% di sostanza organica o materiale colloidale organico
1) la materia organica e l’humus vanno determinati con criteri differenti da quelli
dell’analisi fisico-meccanica del terreno.
100
101
Il terreno
Come si può vedere, esaminando la tabella 18, sono le particelle allo stato
d’estrema suddivisione ad avere un effetto prevalente sulle caratteristiche fisicomeccaniche del terreno.
Certe peculiarità si attribuiscono principalmente all’intima costituzione delle
particelle e non tanto alle loro dimensioni.
In rapporto alla composizione granulometrica, è possibile riconoscere un terreno a
scheletro prevalente, un terreno sabbioso, limoso, argilloso ed, infine, terreni con
caratteri intermedi. Di ognuno di questi sono di seguito descritte le principali
caratteristiche pedogenetiche, fisiche ed agronomiche, con i loro pregi ed i loro difetti.
T ERRENO
A SCHELETRO PREVALENTE
Il terreno a scheletro prevalente è incoerente, è scarsamente capace di trattenere
l’acqua ed è quindi dotato di buona permeabilità, presenta forte aerazione e quindi è
caratterizzato da accentuati processi ossidativi, è modestamente dotato di componenti
umiferi, offre scarse possibilità di lavorazione ed è pertanto di difficile meccanizzazione,
richiede frequenti interventi irrigui ed abbondanti concimazioni.
Spesse volte il terreno a scheletro prevalente è poco idoneo per la coltivazione delle
piante perché ostacola lo sviluppo delle radici delle piante.
Lo scheletro di questi terreni è costituito da materiale grossolano, derivato dalla
prima disgregazione meccanica delle rocce ed ha scarsa importanza da un punto di vista
della fertilità del terreno perché non influenza la capacità di trattenimento dell’acqua da
parte del suolo e non partecipa ai fenomeni di adsorbimento e di desorbimento degli
elementi nutritivi.
I terreni a scheletro prevalente sono diffusi tra i terreni autoctoni degli ambienti
collinari e montani, ma possono essere anche alloctoni di origine morenica, colluviale e,
soprattutto, alluvionale. Si ritrovano in notevole quantità nella fascia pedemontana
dell’arco alpino, particolarmente nella media pianura friulana, in Emilia, Umbria,
Tavoliere delle Puglie e Basilicata.
Questi terreni hanno una produttività che dipende molto dalla percentuale di
scheletro e dal tipo di terra fine che essi contengono.
La scelta appropriata delle coltivazioni e della tecnica colturale può consentire di
migliorare naturalmente le rese e, spesso, di portarle a livelli molto soddisfacenti. Infatti,
nei ferretti friulani accanto alla vite si coltivano cereali e foraggere, così pure in molte
zone collinari la vite riesce a produrre discretamente da un punto di vista quantitativo e si
vede esaltare le caratteristiche qualitative.
T ERRENO
SABBIOSO
I terreni sabbiosi sono sciolti, leggeri, permeabili, dotati di elevata macroporosità,
sono molto soffici ed arieggiati, perciò mineralizzano rapidamente la sostanza organica,
sono poveri di elementi nutritivi. I terreni sabbiosi sono poveri di azoto perché, tal
elemento, non essendo trattenuto dal potere di scambio, che è particolarmente debole in
Fiume Francesco
questi terreni, è trasportato in profondità dalle acque di percolazione.
La sabbia di questi terreni è costituita da piccoli frammenti di roccia, da singoli
minerali di difficile alterazione, da calcari cristallini e pezzetti di materiali fossili. Le
particelle di sabbia sono incoerenti e, anche se bagnate, non aderiscono agli attrezzi di
lavoro.
Questi terreni, nel caso presentino prevalenza di sabbia grossa, possono andare
incontro ad aridità e sterilità, mentre se la sabbia è fina ed è mescolata in maniera
equilibrata con materiali limosi ed argillosi danno luogo ad un terreno di medio impasto
o terreno mezzano o terra franca o a tessitura equilibrata con caratteristiche
agronomiche molto favorevoli poiché le diverse frazioni non prevalgono l’una sull’altra
ma si completano vicendevolmente, così che la tenacità e la compattezza dell’argilla e la
natura polverulenta del limo sono compensate dall’incoerenza della sabbia, dando luogo
ad un substrato ottimale per la coltivazione delle piante.
In Italia s’incontrano terreni sabbiosi sparsi ovunque i quali sono di origine
arenacea, granitica, alluvionale, di sedimentazione marina ed eolica. Essendo essi
costituiti principalmente da particelle di diametro che si discosta da quello colloidale, essi
possono indurre nelle piante manifestazioni di carenza idrica ed alimentare cui è
possibile sopperire con le lavorazioni, irrigazioni e concimazioni e quindi si prestano ad
un’agricoltura dinamica, con colture che richiedono notevole assistenza (trattamenti
antiparassitari, raccolte scalari nel tempo), con rapide successioni (anche due o più
coltivazioni nell’anno) tipiche delle aziende orticole. Pertanto un terreno sabbioso può
fornire produzioni di elevato reddito purché s’intervenga correttamente con le dovute
pratiche agronomiche.
T ERRENO
LIMOSO
Il terreno limoso, detto anche terreno a grana fine, è un terreno mal strutturato
perché le particelle di limo non hanno la tendenza a riunirsi in aggregati, sono
generalmente poveri di elementi nutritivi e di non facile coltivazione.
I terreni limosi tendono a formare la crosta superficiale e, se lavorati in eccesso o
difetto idrico, danno luogo a zolle durissime, compatte, di difficile rottura specialmente
con i normali attrezzi di lavorazione occorrenti per la preparazione del letto di semina. Il
ristagno idrico superficiale è frequente e l’irrigazione non sempre è facile a causa della
modesta permeabilità che richiede piccoli ma frequenti interventi.
I terreni limosi si riscaldano con difficoltà per questo la vegetazione parte, in
primavera, con un certo ritardo. Tuttavia, avendo caratteristiche intermedie tra il terreno
argilloso e quello sabbioso, i suoli limosi sono, in linea generale, favorevoli alla
coltivazione delle piante le quali difficilmente soffrono la siccità, soprattutto quando
l’attività agricola è condotta in modo appropriato, fondato sulla necessità di mantenere un
sufficiente stato di aggregazione delle particelle costitutive, anche ricorrendo a laute
somministrazioni di materia organica.
Il limo, di cui il terreno è prevalentemente costituito, è formato da silicati di basi
diverse che derivano dall’alterazione chimica della roccia madre, da calcare precipitato
dalle acque che lo tenevano in soluzione, da frammenti minutissimi di sostanza organica
e da residui della disgregazione meccanica delle rocce.
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Il terreno
T ERRENO
ARGILLOSO
Il terreno argilloso è normalmente compatto, pesante, colloidale, tenace, forte,
impermeabile, di difficile lavorabilità.
Esso offre elevata resistenza alla penetrazione degli attrezzi, è capace di trattenere
grandi quantità di acqua, aumentando di volume e poi, un volta asciugato, fessurarsi e
screpolarsi.
Presenta forte coesione tra le particelle allo stato secco e notevole plasticità allo
stato umido, con possibilità di trattenere grandi quantitativi di acqua ma non facilmente
cedibile per questo facilmente diventa asfittico e poco adatto alla vita delle piante
coltivate.
Inoltre, essendo costituito di materiali colloidali minerali è in grado di ben
trattenere anioni e cationi e, quindi, può ritenersi ben dotato di sostanze nutritive per le
piante.
Risulta di difficile coltivazione soprattutto perché le lavorazioni debbono essere
effettuate in momenti appropriati, cioè quando la quantità di acqua contenuta conferisce
un’idonea struttura.
I terreni argillosi se ben trattati sono capaci di fornire ottime produzioni come
avviene, per esempio, per il frumento, la bietola e le colture orticole per il mercato fresco
e per l’industria.
I terreni argillosi sono crepacciabili, proprio perchè ricchi di colloidi minerali
argillosi. Infatti, in seguito ad essiccamento, la contrazione di volume, conseguente alla
perdita di acqua, provoca la fessurazione in più punti della massa di terreno, con
formazione di un reticolato poligonale e irregolare di crepe larghe da pochi millimetri a
10 cm, profonde anche 1 m, lunghe da 20 a 80 cm circa.
Il fenomeno è molto evidente in un terreno nudo, esposto ad insolazione diretta,
mentre sotto la vegetazione si manifesta con minore intensità, anche se nei seminativi
arati annualmente (mais, bietole) assume una consistenza maggiore che negli
appezzamenti a prato.
La crepacciabilità di un terreno è limitata dall’ombreggiamento indotto dalle
piante, da un’uniforme distribuzione dell’umidità del profilo del suolo, dalla presenza
delle radici delle piante, dalla sostanza organica depositata in superficie (azione
pacciamante) od incorporata nel terreno, da una buona struttura.
La crepacciabilità di un terreno esplica effetti negativi, i quali sono rappresentati
dalla dispersione in profondità dell’acqua irrigua e piovana, dalla perdita di acqua per
evaporazione, dal danneggiamento degli apparati radicali delle piante.
La crepacciabilità di un terreno argilloso evidenzia anche alcuni effetti positivi
come la rottura e la disgregazione delle zolle, la facile penetrazione dell’acqua in
profondità, la richiesta di un minore sforzo per le lavorazioni, l’arieggiamento del
terreno.
La frazione argillosa di cui questi terreni sono costituiti comprende i silicati idrati
di alluminio (argilla vera e propria, cioè caolinite, illite, montmorillonite) ed altri
materiali molto diversi come silice, idrati di ferro e di manganese e l’humus, quest’ultimo
derivato dalla materia organica ridotta allo stato di colloide.
Come già visto, le piccolissime dimensioni delle particelle argillose e la proprietà
di liberare ioni idrogeno evidenziando cariche elettriche negative, conferisce a questo
Fiume Francesco
materiale caratteristiche differenziali molto nette nei confronti del limo e della sabbia.
L’argilla è pertanto un tipico colloide micellare, capace di circondarsi di un alone di
molecole d’acqua, di rimanere sospeso nel mezzo liquido fino a che non sono
neutralizzate le cariche elettriche e, al contrario, di coagulare o flocculare quando tali
cariche sono neutralizzate da cationi o da colloidi di segno opposto (basoidi come gli
idrati di ferro e di alluminio).
In Italia, la dorsale appenninica è ricca di rocce argillose che hanno contribuito
ampiamente alla formazione dei terreni coltivati a valle i quali possono fornire ottime
rese produttive con il ricorso a tecniche agronomiche appropriate.
TERRENI
C O N C A R AT T E R I I N T E R M E D I
Vi sono terreni con caratteri intermedi come i terreni sabbioso-limosi, limoargillosi, argillo-sabbiosi.
Una tra le più diffuse classificazioni dei terreni, in base alle percentuali di sabbia,
limo e argilla, è riportata nel triangolo della tessitura secondo la Commissione
Internazionale della Scienza del Suolo e secondo il metodo del Soil Survey americano
(figura 13) da cui è possibile individuare diverse classi di tessitura.
La figura 13 mostra il triangolo della tessitura dei suoli secondo la scala
granulometrica internazionale ed il triangolo della tessitura secondo il Soil Survey
americano. La stessa figura permette di effettuare gli opportuni confronti ed evidenzia, in
particolare, anche in rapporto alla differente variabilità territoriale dei suoli, la distinzione
in 9 gruppi granulometrici nel primo triangolo ed in 11 gruppi nel secondo.
Fig. 13 – A sinistra: triangolo della tessitura secondo la scala granulometrica
internazionale (sabbia > 0,02 mm; limo = 0,02-0,002 mm; argilla < 0,002
mm. A = argilloso; L = limoso; S = sabbioso). A destra: triangolo della
tessitura secondo il Soil Survey americano (A = argilloso; L = limoso; S =
sabbioso; M = medio impasto o franco).
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Il terreno
In conclusione, la costituzione o tessitura del terreno è una proprietà fisica
praticamente stabile ed immodificabile dall’agricoltore.
Soltanto interventi straordinari possono modificare la costituzione di un suolo. Tali
sono, ad esempio, specifiche arature molto profonde che rimescolano strati di differente
natura fisico-meccanica o particolari pratiche di ammendamento, da realizzare con grandi
colmate.
Ciò significa mettere in opera degli apporti massicci di sabbia su piccoli
appezzamenti, il cui costo può essere forse ripagato soltanto se essi sono poi coltivati con
piante ad alto reddito, in grado di ripagare gli elevati costi di investimento sostenuti.
La tecnica agronomica, nel prendere atto della tessitura del terreno, è in grado di
mettere in pratica quegli accorgimenti più idonei e precise metodiche, aventi per
obiettivo il miglioramento delle condizioni fisiche e di abitabilità di ogni ambiente
pedologico.