PENSIERI FILOSOFICI
E SPIRITUALI
di Claudio Mancino
INDEX
Introduzione – di Pasquale Massimo Picone............................................................................. pag. 2
Praefatio: .................................................................................................................................... pag. 3
Considerazioni sulla realtà ......................................................................................................... pag. 4
Sui criteri di valutazione e sui giudizi. L’estetica...................................................................... pag. 5
Che cos’è la normalità................................................................................................................ pag. 7
Tutto è relativo: la fusione di ragione e torto............................................................................. pag. 9
Il tempo, riflessioni su di esso e sulla sua fugacità. La storia .................................................... pag. 11
Tra il sogno e la memoria .......................................................................................................... pag. 14
La perfetta convivenza di sentimento e ragione......................................................................... pag. 16
L’arte intesa come espressione profonda dell’uomo.................................................................. pag. 17
La dimensione fisico-spirituale dell’uomo in rapporto al dualismo cartesiano ......................... pag. 19
L’uomo dallo stato di natura allo stato civile............................................................................. pag. 21
Idee in campo di giusnaturalismo e politica............................................................................... pag. 23
La funzione del saggio nella società: il mito della caverna di Platone ...................................... pag. 25
L’uomo, un animale sociale? ..................................................................................................... pag. 27
Mia critica della ragion pura ...................................................................................................... pag. 30
Una bussola per la scienza ......................................................................................................... pag. 32
Sulla libertà ................................................................................................................................ pag. 33
Il decadimento morale della società odierna o l’umanità nuova................................................ pag. 35
Ottimismo e pessimismo............................................................................................................ pag. 38
Elogio della Filosofia ................................................................................................................. pag. 40
Conclusione................................................................................................................................ pag. 41
Epilogo ....................................................................................................................................... pag. 43
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INTRODUZIONE
di Pasquale Massimo Picone
La presentazione di quest’opera del carissimo amico Claudio è fatta con vero piacere non solo per la
stima che mi lega all’autore, ma anche per l’originalità con cui egli affronta argomentazioni già
trattate da molti e con angolature differenti.
Il presente lavoro è sintesi efficace della formazione culturale e filosofica di un’esperienza maturata
tra i banchi di scuola, ma sottolinea anche una vibrazione alla santità alla quale tutti siamo chiamati.
Probabilmente nel saggio si denota un tono più acuto rispetto a quanto si addice alla prudenza dei
santi, ma di certo per l’esuberanza dell’età che Claudio rappresenta in modo positivamente
diverso… La spiritualità dell’autore presenta una ricchezza e pregnanza di contenuti che sottolinea
con una propria tipicità le varie tematiche della fede cristiana, del pensiero, illuminandole di una
particolare luce.
L’autore è davvero alla sequela di Cristo: nel gemito della preghiera, nella santa osservanza dei
precetti della Chiesa sicuro nell’attesa dell’arrivo del Signore. La “normalità” di un cristiano è
tenere sempre accesa la lampada, la vita di sobrietà, di penitenza di costante unione con il Padre,
l’eccezionale umiltà nel ricordarsi che il principio della sapienza sta nel timore di Dio. Per questi
motivi si ritiene che il lavoro meriti davvero un posto di riguardo nel pensiero dell’uomo e
rappresenta un invito a ulteriori approfondimenti in una direzione sicura e certamente proficua di
sempre più efficaci risultati nella vita della comunità ecclesiale e di ogni uomo.
Pasquale Massimo Picone.
PRAEFATIO
Innanzi tutto mi sembra doveroso spiegare il perché di quest’insolita copertina. La croce splendente
sullo sfondo delle nuvole ha un significato prestabilito, che ben rispecchia il titolo dell’opera.
Fin dall’antichità il filosofo, colui che pensa, è visto dalla gente come un uomo saggio ma con la
testa per aria. L’esempio più eloquente, soprattutto per antichità, è la commedia di Aristofane “Le
Nuvole”, in cui Socrate veniva raffigurato nell’atto di pensare sollevato in alto, appunto per
dimostrare il distacco di “colui che pensa” dalla superficialità materiale e simboleggiare la sua
propensione verso l’astrattezza (anche se in quel caso era usato in senso dispregiativo per fare della
critica anti-socratica). Poi con i secoli, la filosofia si è evoluta, anche avvicinandosi ai problemi
dell’uomo, in alcuni casi sporcandosi di quel materialismo che per natura le è contrario (es. Marx, i
meccanicisti etc) o “invadendo” i campi della scienza (es. Galilei, Freud etc), e unendosi alle
religioni, è arrivata anche a superare la barriera dell’umano generando quella che è detta Metafisica,
ma il concetto che i popoli hanno sempre avuto dei “pensatori” non è variato. Tutt’oggi risulta
impossibile definire che scienza sia la filosofia, perché dandole una definizione la si limiterebbe,
mentre invece essa è applicabile a ogni campo del conosciuto e all’ignoto; l’unico significato che si
può concordarle è proprio quello letterale: “philo sophia”, dal greco “amore per il sapere”.
Personalmente però non esiterei a definirla come “scientia omnia”.
Ma la filosofia da sola è arida. Si, l’uomo è un animale razionale (anzi, precisando è proprio
l’animale razionale), ma la ragione senza una guida diviene cieca e fine a se stessa, fredda. Occorre
qualcosa che la conduca per giuste vie. Io, cattolico praticante e un giorno spero sacerdote di Santa
Romana Chiesa, aggiungo alla filosofia la fede e la spiritualità, perché la spiritualità con la filosofia
si matura, e la filosofia si perfeziona nella spiritualità. E, da buon seguace della dottrina agostiniana,
devo confessare che mi è venuto il seguente dubbio: “Ma la filosofia non sarà solo una speculazione
del pensiero? Non è forse un’inutile vanità dell’uomo?” Ma ecco, unendo la filosofia alla
spiritualità, la si pone al servizio di Dio. Ed è così che si conciliano pensiero e spirito, nuvole e
croce. E la croce della fede deve appunto splendere per illuminare l’oceano nebbioso della ragione.
Non penso di appartenere a nessuna corrente filosofica, tranne che il mio pensiero generale si può
dire ispirato a Sant’Agostino, posso però concordare di più o di meno con i singoli filosofi, e da
loro ho preso più volte spunti per le mie riflessioni personali, confrontandoli con le mie idee o
generandone di nuove in base a questi, criticandoli o apprezzandoli, o in alcuni casi
“correggendoli”, cioè trovando e adattando punti di unione tra il loro pensiero e il mio. Non credo
né pretendo di avere una grande cultura o idee perfette, so di non averne, ma credo in ciò che dico
fino a che mi sia dimostrato il contrario, sono apertissimo al dialogo, ma tutte le mie idee sono poste
all’interno della mia fede cattolica, se non fosse così le abortirei subito. La mia mentalità è
strettamente quella dei conservatori, perché questi sono brutti tempi dal punto di vista etico e
morale (ma di questo avrò occasione di parlare in seguito), e bisogna porre un limite o quantomeno
un freno all’errato progresso di questa società, prima che si cada in qualcosa di irreparabile.
Infine, la cosa importante non è imparare la storia della filosofia, che è ciò che erroneamente si
insegna a scuola, ma, come diceva il grande filosofo Immanuel Kant ai suoi allievi dell’Università
di Königsberg, imparare a pensare, a usare la propria testa, e per come la penso io, imparare a
dominare con la ragione la nostra realtà quotidiana e con le nostre idee gli eventi che ci scorrono
davanti, ma a patto che la nostra mente sia guidata da Dio. Non è cosa da tutti forse, ma se non ci si
prova non lo sapremo mai.
Non so se questo libro verrà mai pubblicato, ne dubito fortemente, ma nel caso lo sarà, spero che
possa essere di aiuto e di incoraggiamento a qualcuno perché, sotto questo stimolo, incominci a
ragionare e a filosofare da solo, alimentando con la preghiera la propria mente per fortificarla.
Claudio R. Mancino.
CONSIDERAZIONI SULLA REALTA’
Dovendo iniziare a scrivere un’opera a carattere filosofico-spirituale, preferisco partire dalla mia
personale concezione delle realtà singolari e di quella in generale.
Molti filosofi, da Descartes a Leibniz, hanno pensato che tutto ciò che esiste non fosse altro che il
meccanico movimento di particelle o sostanze, riducendo alla materialità anche il pensiero e
l’anima. Niente di più sbagliato secondo me, queste sono forme assurde di materialismo.
Io sono convinto che la realtà in se stessa sia divisa in due “piani”: materiale e spirituale (di cui io
privilegio indubbiamente il secondo). Il piano materiale o fisico è ciò che vediamo e che è dotato di
un’estensione fisica, dove avvengono i fenomeni materiali, e la trasformazione e il movimento dei
corpi. Nel piano spirituale “stanno” i pensieri, i sentimenti, tutto ciò che appartiene all’animo
umano e che è materialmente invisibile appunto “spirituale”, non materiale quindi non dotato di
estensione.
Penso anche un’altra cosa: esiste una realtà particolare per ogni persona esistente (se non per ogni
essere), perché ognuno ha un modo particolare di vivere e di vedere ciò che gli sta attorno, dissimile
da quelli altrui. In questo caso come “realtà” intendo gli eventi che lo coinvolgono, il suo ambiente,
i rapporti con l’esterno, il suo comportamento, la sua situazione in generale. E’ un po’ come nel
romanzo pirandelliano “Uno, nessuno e centomila”: ogni persona è un essere singolo e distinto
(uno), ma è visto in modo sempre diverso da tutti coloro con cui ha contatti (centomila), e
conseguentemente questi “centomila” aspetti di un unico uomo non sono nessuno, perché è come se
l’uno si dividesse nei centomila, singoli frammenti di una completa identità. La stessa cosa vale per
la realtà: non solo ogni uomo vive in modo particolare ciò di cui è circondata la sua vita,
osservandola dal suo bagaglio di esperienze e dalla sua mentalità; ma ogni altra persona lo vedrà, e
vedrà la sua realtà (lo “spicchio” di realtà che le viene mostrato, il resto è escluso perché ignoto e
insospettato, e questa ignoranza può condizionare anche la parte restante) partendo non dal punto di
vista dell’“osservato”, che è irraggiungibile da altri, ma dalla propria esperienza e dal proprio modo
di pensare, cioè dal proprio “punto di osservazione”. Cioè, in poche parole, la realtà vissuta da ogni
uomo è “una, nessuna, e centomila” sia per chi la vive, sia per gli altri che la osservano. Inizio a dire
qui, e dovrò ripeterlo spesso, che tutto è relativo.
Come realtà in genere si può anche intendere una determinata situazione che accomuna sotto uno o
diversi aspetti più persone o più popoli, o aree geografiche. E’ un esempio “le realtà del terzo
mondo”. Non so se sia un uso improprio del termine, lo è come non lo è, forse il senso inteso così è
un po’ vago.
Ma tutto ciò, realtà generale e particolari, in genere è considerato esclusivamente nel suo aspetto
terreno. Gli atei rifuggono Dio perché nella loro concezione è possibile solo ciò che giudicano
“razionale”, che vedono e che sentono, o comunque che reputano normale, non considerando che ci
può essere qualcosa di più grande della loro testa, alla quale tanta grandezza sfugge, perché abituata
solo a vedere le cose della sua stessa portata: infatti l’ateismo è più diffuso tra le persone più
indifferenti o tra le più “razionalistiche”. Perciò condanno apertamente Hegel quando vuole far
coincidere reale con razionale.
Per concludere, io considero come realtà anche tutto il mondo nella sua complessità e nelle sue
singole particolarità in una visione unitaria. La parola “reale” indica semplicemente “ciò che è”, ma
a quanto pare ci sono modi diversi di vederla, a seconda del significato con la quale la si vuole fare
intendere, e non credo sia un errore. L’unico che potrebbe visualizzarla correttamente è Dio, nella
sua onniscienza.
In questo compendio parlerò di qualunque cosa come relativa a me, alle mie idee, questa premessa
mi è obbligatoria e la completerò nell’Epilogo.
SUI CRITERI DI VALUTAZIONE E SUI GIUDIZI.
L’ESTETICA.
Da sempre la gente ha avuto un brutto vizio: quello di giudicare il suo prossimo. Nel Vangelo di
San Matteo è scritto:
“Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e
con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo
fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo
fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave?
Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello” (Mt 7,1-5).
Effettivamente l’uomo non ha le minime basi per poter giudicare, secondo me per tre motivi:
Il giudizio non compete all’uomo in quanto non perfetto, è una prerogativa di Dio (e questo è ciò
che sta scritto nel brano sopra riportato, o almeno il senso è quello).
Gli uomini non sono onniscienti, quindi questi giudizi non hanno validità.
L’uomo non ha i criteri assoluti per giudicare. Perché manca una scala assoluta di criteri che
permetta agli uomini di dare dei giudizi pieni e concreti; tutto ciò a cui si può riferire l’uomo è
relativo, l’unico punto di vista assoluto è quello di Dio. Come si fa, per esempio, a dire che una
persona è “cretina” (uso questo banalissimo termine nell’esempio perché al giorno d’oggi è il
giudizio più in voga), che criterio abbiamo per dirlo? Secondo quale scala lo misuriamo? Può essere
che “nel suo piccolo” quella persona usi il cervello molto più di un’altra definita “intelligente”. E se
provassimo a chiederci cosa ne pensa Dio di quella persona? L’umanità fa del giudizio comune la
regola generale, sicuramente a torto, e il giudizio è dettato da quella che si definisce “normalità”, di
cui tratterò in un prossimo argomento.
Il giudizio è relativo da uomo a uomo proprio a causa di quella diversità che genera il molteplice,
ma se invece che secondo gli uomini, pensassimo secondo Dio, il giudizio sarebbe unanime e
potrebbe dirsi assoluto.
Un problema connesso a questo, sul quale ci ha fatto riflettere Kant nella sua “Critica del giudizio”,
è l’estetica. Nata nel XVIII secolo con Alexander Gottlieb Baumgarten, questa scienza è molto
discussa, e pare influenzi molto la vita della società. Ma esattamente cos’è che può definirsi bello?
Secondo la mia “idea fissa” del “tutto è relativo” (non vedo l’ora di affrontarne direttamente
l’argomento, così sarò più chiaro), non esiste una bellezza assoluta, sia perché ognuno ha un’idea
diversa di bellezza, sia per la grande varietà di gusti personali, come si suol dire, “tutti i gusti sono
giusti” e “non piace ciò che è bello ma è bello ciò che piace”.
La definizione razionalista che ne da Kant, e che mi pare anche azzeccata, espone che il bello è una
percezione soggettiva di armonia delle parti che compongono la qualsiasi cosa, è ciò che piace
disinteressatamente, necessariamente, e universalmente, senza concetto, e che suscita in noi
sentimento. Una concezione analoga la si può trovare in Sant’Agostino (cfr. Confessiones, IV
13.20).
Ma per me solo Dio è universalmente bello (come può il Creatore di tante meraviglie non essere più
bello di ciò che ha creato?), e tutto il suo operato può univocamente definirsi meraviglioso.
Ogni uomo dice che una data cosa è bella o meno in base al sentimento che l’oggetto genera in lui,
però si può dire che l’idea di bellezza è strettamente legata ai sensi, perché solo tramite quelli si può
cogliere la sensazione che genera il sentimento di cui sopra. Nella “Critica del giudizio” Kant ci
pone davanti il rapporto tra “giudizio estetico”, cioè legato esclusivamente alla bellezza dell’oggetto
e al sentimento che provoca in noi, e “giudizio teleologico” (di cui spero di parlare in seguito) che
inquadra l’oggetto in un ordine delle cose come prestabilito ad un fine. Ma io sono convinto che
questi due giudizi sono indipendenti tra loro: certamente riguardano lo stesso oggetto, ma lo
espongono alla luce della mente sotto due aspetti completamente diversi ma entrambi accettabili in
quanto non competono l’uno con l’altro.
Oramai la società impone molte idee estetiche in base allo stile del momento alla gente, che crede
belli tutti i più recenti ritrovati, è la cosiddetta moda (che io odio cordialmente perché la ritengo la
cosa più insensata del mondo). Questa secondo me non è vera estetica, è semplicemente vacua
mondanità. In sostanza estetismo. Parlerò in seguito di questo, quando affronterò il tema del
decadimento dei costumi e della morale. Ma, come dice anche il giornalista e scrittore Indro
Montanelli, la gente è disposta a rinunciare a tutto tranne che ai propri errori.
Io posso dire solo questo: le cose che reputo “belle” sono quelle che generano in me sentimenti di
dolcezza e ammirazione, portando la mia mente a riflettere sulla grandezza di Dio.
Ma sostanzialmente, l’estetica deve o no avere un peso nella società? Effettivamente ce l’ha, ma io
le nego il suo ruolo, perché appunto ne ha più del dovuto. Andare alla ricerca dei beni più lussuosi e
appariscenti è una cosa che da sempre mi disgusta troppo, e certamente non guardo di buon occhio
chi spende una fortuna nel vestirsi. L’importante non è l’abito, è quello che si ha nel cuore e nel
cervello. Io svalorizzo totalmente la corporeità e mi beffo dell’estetica, sono indifferente se
qualcosa mi piace o meno, sono un anti-esteta. Ma so ammirare ugualmente un paesaggio, che mi fa
riflettere sull’infinità di Dio, come un’opera d’arte, nella quale rintraccio essenzialmente i
sentimenti dell’artista al di la delle forme, delle parole, o dei suoni.
Mi vien da piangere al pensiero che con i soldi per un completo sopravvivrebbero diverse persone
dei paesi più poveri. E, di solito, quando una persona si vanta con me di aver speso pezzi di
centomila lire per degli abiti di marca, le tolgo il saluto per un bel po’.
CHE COS’E’ LA NORMALITA’
Adesso mi soffermerò a descrivere ciò che penso di quello che la società abitualmente definisce
come “normalità”. Non nascondo che l’idea di scrivere questo libro mi è venuta mentre, in un
autobus, riflettevo sull’argomento, che è partito nella mia mente da alcune considerazioni su un
particolare personale che non esiterò a citare, per quanto appunto strettamente personale.
Premettendo che in famiglia il mio amore per la cultura e la mia austera integrità morale non sono
proprio apprezzati, è da una vita che mi sento continuamente ripetere (specialmente in questo
periodo estivo e a quasi diciott’anni d’età) che questo o quello non è normale: “Non è normale che
un ragazzo della tua età non vada al mare”; “Non è normale che un ragazzo passi tutto questo tempo
a leggere al di fuori della scuola”; “Non è normale che un ragazzo come te non esca con gli amici
ma parli di cultura con gli adulti e gli anziani” etc. In sostanza per i miei genitori tutto ciò di buono,
di saggio, e di giusto che faccio non è “normale” perché, a loro dire, non ne ho l’età (e il bello e che
se ne preoccupano anche).
Tutto questo ha fatto sorgere nella mia mente, come un fulmine a ciel sereno, il seguente quesito:
“Ma che cos’è la normalità? Si può trovare una definizione corretta e universale per questo
termine?” Da qui è nata tutta la riflessione, che trascriverò più fedelmente possibile (al momento
non potevo appuntarla per iscritto).
La gente reputa “normale” tutto ciò che è abituata a vedere o che si verifica più frequentemente.
Infatti lo stesso termine proviene visibilmente da “norma”, regola. Da qui si può dedurre a
prim’occhiata il significato più immediato. E cosa, più di ciò con cui la propria mente è sempre
venuti a contatto, può essere identificato a tal senso? A questa conclusione si può giungere anche
dal lato opposto. E’ facile notare come la parola “strano”, che è proprio l’opposto di “normale”,
derivi dal latino “extraneus, -a, -um”, da cui deriva anche “estraneo”, cioè mai visto o conosciuto
prima. “Non normale”, più semplicemente, vuol dire soltanto “non segue la norma”, e in questo
caso la norma indica le regole di cui si ha avuto esperienza conoscitiva e di apprendimento.
Quindi, basandosi su questo ragionamento, commentare che qualcosa “non è normale” o “è strana”,
non vuol dire che è assurda e che a livello universale non dovrebbe essere, ma che prima non si ha
mai avuto esperienza con essa, in poche parole, che è qualcosa di insolito per chi esprime questo
giudizio, e il termine stesso “insolito” si può decifrare come “non-solito”, il che conferma quanto
già detto. Ciò almeno a livello grammaticale. Le nuove generazioni sono arrivate a dare al vocabolo
“strano” o “non normale” un significato dispregiativo, o peggio, offensivo. Ma in realtà di offensivo
dovrebbe avere ben poco.
Verificata l’etimologia del termine, non rimane che accordarne l’universalità.
Per l’uomo occidentale sono strani i costumi degli orientali e degli africani, e la cosa e reciproca.
Per un beduino l’aurora boreale è un fenomeno molto insolito, mentre per un eschimese è una cosa
normalissima, ma un deserto sarebbe per quest’ultimo qualcosa di impensabile. Da qui si capisce
facilmente come per le genti sono normali e abituali i costumi e le caratteristiche del proprio popolo
e della propria terra, mentre sono strane e insolite le altre. A questo è spontaneo farsi venire un
dubbio: “Ma se le cose stanno così, allora che diritto ha un popolo di giudicare le abitudini e la
moralità di un altro? Come possiamo dire, per esempio, che i Polinesiani erano un popolo crudele
per i sacrifici umani e gli atti di cannibalismo che commettevano?” Effettivamente non si può
giudicare la morale di altre genti partendo dal proprio punto di vista, cioè dalle proprie abitudini e
dal proprio concetto di moralità. Mentre noi, sempre continuando nell’esempio, aborriamo la loro
antropofagia, loro certo criticheranno il nostro egoismo sociale; e, mentre secondo le loro abitudini
spolparsi il nemico vinto in battaglia è lecito e atto d’onore, guarderanno con ribrezzo tutte le truffe
legali e i giochi d’interesse della politica vigenti in Italia.
Ciò da un concetto piuttosto ampio di “normalità”, dimostrando che essa è relativa alla società, i
luoghi, le esperienze, le concezioni, di colui che osserva.
Estendendo al livello sociale quest’argomento, ci si accorge che “normale” è definita l’opinione, o il
modo di vivere, di vestire, finanche i gusti della maggior parte delle persone. Gli altri possono
persino venire esclusi. Tornando come esempio al mio caso personale, io per essere considerato
“normale” dovrei odiare la cultura, non andare in Chiesa, frequentare giovani o altre cattive
compagnie, parlare scurrilmente, andare in discoteca, ascoltare musica moderna, andare a letto con
tutte le ragazze che incontro, vestirmi alla moda, fuggire la compagnia degli anziani e delle persone
mature e intelligenti, essere un immorale insomma (niente paura, piuttosto mi faccio eremita). Non
faccio nulla di tutto questo? Allora sono anormale… almeno così la pensa la società. Questo è un
altro esempio della relatività della normalità: io la penso al contrario: posso essere considerato una
strana bestia dai modernisti e progressisti ma contemporaneamente un vecchio sacerdote
penserebbe di me che sono una persona perbene, sana, e normalissima.
Eh, come va il mondo…
TUTTO E’ RELATIVO: LA FUSIONE DI RAGIONE
E TORTO
“Tutto è relativo”: non mi stancherò mai di ripetere questa frase, perché secondo me è un elemento
basilare del pensiero umano. Saltare questa considerazione prima di riflettere sulla qualunque cosa è
segno di egocentrismo filosofico.
Come Albert Einstein con la sua teoria ha scoperto che tempo e spazio sono relativi a seconda da
dove li si guarda, così io dico che tutti gli aspetti della vita umana seguono questa regola, fondendo
in modo impensabile torto e ragione. Io posso essere bello o brutto, a seconda di chi mi guarda: tutti
e due hanno ragione, perché esprimono un concetto secondo le proprie idee. E questo è uno stupido
esempio sulla relatività dell’estetica. Un uomo può essere visto buono o cattivo, dipende se chi lo
considera ha ricevuto da lui favori o svantaggi, come dicevo in proposito dei giudizi, la valutazione
umana manca di una perfetta obiettività. Immancabilmente, quando una persona agisce, ha ragione
per se e torto per altri: chi è nel giusto? In genere diciamo che ha ragione colui che ottiene il
consenso del maggior numero di persone; è il criterio migliore che abbiamo, ma molto imperfetto.
Per esempio, io sono contro i rapporti prematrimoniali, mentre la maggior parte degli uomini ne è
d’accordo (ovviamente per convenienza), e una volta che ho affrontato l’argomento tra scouts sono
stato quasi linciato. Ho torto? Per i giovani si, ma per Dio e per la Chiesa assolutamente no.
Adesso faccio un altro esempio, che ci tocca direttamente come gravità e come vicinanza
cronologica. A Genova, durante il vertice del G8, ci sono stati violentissimi e assurdi scontri tra
giovani vandali e forze dell’ordine, e nel bel mezzo del putiferio un certo Carlo Giuliani stava
lanciando un estintore contro un carabiniere preso d’assalto nel suo camioncino. Il carabiniere, già
ferito, ha sparato uccidendo il ragazzo, e di qui è scoppiata un’inchiesta che dura ancora dopo più di
due settimane. La domanda che si pongono tutti è questa: ha fatto bene il militare a uccidere per
difendersi? Molti gli tributano il torto, perché era stato ordinato alle forze dell’ordine di non usare
armi da fuoco, ma molti altri gli danno ragione, perché se non sparava sarebbe stato certamente
ucciso lui. Ma effettivamente la discussione non si può stabilire, perché sono vere entrambe le cose.
Tornando alla filosofia, tutte le menti hanno sia torto sia ragione, perché tutto dipende dalle idee di
chi a loro si rivolge. Io certamente non condividerò il pensiero meccanicistico di Descartes, ma
Leibniz gli dava gran credito. Analizzando per esempio il pensiero aristotelico di San Tommaso
d’Aquino, da una parte è assurdo mescolare al Cristianesimo le idee di un filosofo pagano e
pre-cristiano, ma dall’altro canto, Aristotele è la più grande auctoritas del passato, e non si potrebbe
dar torto al Santo se in quel periodo di crisi spirituale ha tentato quest’unione per cercare di
rinnovare le idee cristiane e di attirare un maggior numero di persone.
Facendo un esempio un po’ diverso, molti uomini, Lorenzo il Magnifico e Quinto Orazio Flacco in
testa, invitano a passare la vita divertendosi, perché la giovinezza è fuggevole: “Chi vuol esser lieto,
sia: di doman non c’è certezza” dice il primo (Canzona di Bacco 11-12); “Dum loquimor, fugerit
invida aetas: carpe diem, quam minima credula postero” dice il secondo (“Mentre parliamo, il
tempo invidioso sarà già fuggito: cogli l’attimo fuggente, confidando il meno possibile nel futuro”
Carmina I, 11, 7-8). La Chiesa invece invita a vivere sobriamente per acquistare i beni eterni.
Entrambi hanno ragione, anche se io ho scelto radicalmente la seconda possibilità e la consiglio a
tutti, perché è molto meglio una vita di penitenza con un’eternità di beatitudine che una settantina
d’anni dissoluti seguiti da un’eternità di dannazione. Avrò occasione in seguito di parlare della
fugacità del tempo, per adesso si tratta solo di un esempio per capire come anche la questione della
scelta di vita è relativa ed opinabile e soprattutto per dare un’idea chiara di ciò che intendo. Anche
in questo caso, dicevo, non si può discernere chi abbia ragione e chi torto, eppure sono due teorie
completamente opposte. La soluzione più ovvia è questa: ognuno ha torto per l’altro.
Così, come nella relatività ristretta di Einstein un dato oggetto appare fermo oppure in moto, e il
tempo scorre più lentamente o più velocemente, a seconda della posizione di colui che guarda, ogni
atto e ogni pensiero umano può apparire vero o falso, giusto o sbagliato, buono o non buono,
dipendendo dalla forma mentis di chi è chiamato in causa a considerarlo, per cui effettivamente tutti
possiamo avere torto o ragione. Attenzione, non sto mica dicendo che Adolf Hitler fece bene a
sterminare gli ebrei, o Slobodan Milosevic a far perseguitare gli albanesi in Kosovo, sto dicendo
che per i loro seguaci essi avevano ragione, mentre per il mondo intero sono da osteggiare: tutto è
secondo le idee di chi osserva. In sostanza, la ragione e il torto sono le due facce opposte di una sola
medaglia. Tutto dipende dalle idee dell’osservatore, e per questo dico che tutto è relativo. Solo Dio
è assoluto e immutabile (se no chissà dove finiremmo).
IL TEMPO, RIFLESSIONI SU DI ESSO E SULLA
SUA FUGACITA’. LA STORIA.
Il tempo… un argomento affascinante sul quale hanno discusso centinaia di dotti… un mistero
inspiegabile che avvolge tutta l’esistenza dalla creazione all’infinita eternità…
Noi viviamo nel tempo, e ne siamo ben coscienti, infatti è in base a questo che dividiamo la nostra
vita quotidiana dal risveglio al sonno, dalla nascita alla morte. E’ secondo il tempo che dividiamo le
tappe dell’evoluzione dal big bang ai giorni nostri.
Su quest’argomento sono state elaborate le teorie più svariate: dal filosofo greco Eraclito che diceva
“panta rei” (tutto scorre), immaginando il tempo come un fiume in piena che trascina tutto sul suo
cammino (l’acqua in cui ci si immerge due volte consecutive non è la stessa) e il mondo come un
continuo divenire, a Kant che razionalizza il tempo definendolo come “forma pura della
sensibilità”, cioè attribuendogli un ruolo di strumento di misura della successione innato nell’uomo
e soggettivo, alla sorprendente relatività di Einstein che sconvolse il mondo della fisica togliendo al
tempo la prerogativa dell’universalità.
Io concordo molto con Eraclito, e penso al tempo come ad un flusso inarrestabile che scorre
all’infinito tra le vicende umane avvolgendole, e che sfocerà nell’eternità del Regno dei Cieli. Sul
mistero dell’eternità preferisco non interrogarmi: la mia mente è troppo piccola per comprenderlo, e
più ci penso più mi confondo. Ma tutto ciò che esiste passa nel tempo: ogni cosa materiale ha
un’origine e una fine. Chissà quante “entità materiali” (è un nome generico, se no non saprei come
esprimere il concetto), sono esistite: nate, morte, e il tempo ne ha cancellato il ricordo o lo
cancellerà: questo fiume è un lento distruttore che logora tutto ciò su cui passa, anche a costo di
metterci millenni ma lo logora. Generazioni e generazioni sono nascoste alle nostre menti dalla
distanza di secoli (eppur non di un solo centimetro). Anche il nostro passato, “l’io stesso di un
secondo fa” tramonta ineluttabilmente dietro questa invisibile, immateriale, ed indescrivibile
cortina.
La teoria di Kant è parecchio interessante, e devo pure darle una certa ragione, ma non posso
garantirla al 100%. Si, il tempo può anche essere preso in considerazione come strumento di misura
dell’uomo, una specie di senso (ma senza il relativo organo), che ci aiuta a ordinare gli eventi
cronologicamente, è una buona idea. Se non fosse per un piccolo particolare. Mettiamo caso, per
esempio, che una radiazione distrugga il genere umano, seguendo la teoria kantiana allora il tempo
non esisterebbe più. Eppure continuerebbe ancora ad agire sugli oggetti lasciati da noi, e un
improbabile alieno (uso una figura simbolica per rendere l’idea, ma non credo affatto negli
extraterrestri), dopo qualche secolo, troverebbe tutto diverso da come era rimasto. Anche se non ci
sarebbero più uomini cui questo strumento della sensibilità potesse servire, esso continuerebbe ad
agire, e ciò avvalora ulteriormente il concetto di Eraclito e mio. Inoltre, insieme a tutto ciò, penso al
tempo anche come ad un eterno divenire, espressione del pensiero umano, come diceva il filosofo
tedesco orge Wilhelm Friedrich Hegel. Il tempo lascia il suo indelebile segno tanto nella materia
quanto nello spirito, e ciò si vede da come porta avanti i processi di crescita, nascita, e morte. Non
può essere identificato con la decrepita disgregazione della materia perché esso apporta tante
nascite ad altrettante morti. E’ una specie di spinta formidabile che porta tutto, materia e spirito
verso il futuro in una lunga evoluzione prestabilita nel disegno di Dio? Può darsi.
Riguardo la relatività di Einstein posso solo essere d’accordo anche se sono rimasto molto sorpreso
quando ne sono venuto a conoscenza, ma d’altro canto è veritiera in quanto dimostrata; e in base a
quanto detto prima, io non posso che concordare pienamente al tempo il ruolo di quarta dimensione.
Sono rimasto molto davvero affascinato però dall’idea che il tempo possa variare a seconda della
velocità e della posizione dell’osservatore, e questa teoria apre il sogno (che io ritengo
assolutamente utopico) dei viaggi nel tempo.
Quando andavo in seconda elementare ci è stata proposta una minuscola riflessione sul tempo, e io
ho scritto: “Il tempo è un futuro che non si può toccare nel presente”, mentre, quando ci è stato
chiesto di disegnarlo, ho raffigurato una specie di carro lunghissimo e con moltissime ruote sullo
sfondo del cielo azzurro. Intanto il concetto che ne ho è quello del fiume eracliteo.
Ma i più non considerano il tempo nella sua realtà ontologica, bensì se ne preoccupano sotto
l’aspetto della materialità umana. Nell’argomento precedente ho portato come esempio il fuggire
dell’età, ma ne ho voluto parlare appunto solo come esempio. Il “carpe diem” di Orazio è qualcosa
di molto ricorrente nella vita umana e nella società; l’inseguire la bella etade è un sogno utopico
diffuso un po’ in tutti, e ultimamente si inizia a parlare di elisir della giovinezza a base di interventi
genetici. La regola del “chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza” di Lorenzo il Magnifico
sembra essere sconsideratamente adottata da un numero sempre crescente di persone, soprattutto di
giovani, ma la sfrenatezza giovanile è nemica acerrima della razionalità e di Dio. Il tempo è
fuggevole, è vero, e al suo passaggio brucia l’età e la fa sfiorire, ma non penso che per godersi
codesto tempo ci si debba comportare da idioti. Secondo me il tempo arricchisce anzi l’età, perché
fa maturare la mente e la nutre di saggezza e di esperienza. Il vero “vivere” non è correre
inseguendo effimere vanità che non daranno mai niente di positivo, ma ragionare, pregare, servire
Dio per prepararci una buona fine. Queste sono le cose che contano davvero: ragionare per
migliorarci e cercare la saggezza, pregare per stare sempre in un fervido rapporto d’amore con Dio,
ed agire rendendosi utili a Dio e al prossimo. Si, la morte sarà un pensiero lontano, ma come il
tempo ci mangia così velocemente la giovinezza, allo stesso modo ci trascina irreparabilmente verso
la fine del pellegrinaggio terreno, e mentre non ce ne accorgiamo nemmeno, siamo già sull’orlo
della fossa. Bisogna salvarsi in tempo prima che sia troppo tardi. Non si sa mai quello che accade
nella vita: come il “ricco insensato” della parabola di Gesù (cf Lc 12.16-21), un giorno ci siamo, il
giorno dopo no.
E questo tempo contemporaneamente è stato il lento osservatore delle vicende umane. E’ incredibile
immaginare come questi alberi, queste rocce, questa terra stessa, siano stati testimoni di tante cose.
Le grandi opere architettoniche e statuarie dell’uomo, di cui ora rimangono solo ruderi inscheletriti
in confronto alla loro gloria passata, ne sono i più evidenti segni. La storia è figlia del tempo. Il
primo uomo ad esaminare propriamente la storia, ed a farne una scienza, è stato il filosofo italiano
Giambattista Vico. Prima d’allora la storia era stata semplicemente annotata e giudicata secondo le
idee del secolo vigente, quindi ingiustamente criticata. Egli è il primo a comprendere come il
mondo attuale sia il risultato della storia passata, e pone come strumenti per studiarla la filologia e
la filosofia, e racchiuse il suo compendio filosofico nel libro “Scienza nuova”. Su queste idee io
concordo completamente, ma mi distacco sul punto della divisione storica. Vico divide la storia
umana in tre grandi periodi: l’età degli dei (la più antica, in cui prevale l’irrazionalità), l’età degli
eroi (periodo intermedio, in cui si sviluppano i sentimenti e la fantasia), e l’età degli uomini (in cui
ha il sopravvento la ragione). Invece io la inquadro in epoche, aree geografiche, e popolazioni, un
metodo secondo me più preciso ed efficace; senza contare che ogni singola persona ha contribuito,
anche in modo insignificante, alla storia, ma convengo che è meglio ricordare solo i nomi di coloro
che ne hanno avuto un ruolo attivo. Ogni uomo ha una storia personale, e questi minuscoli
ruscelletti confluiscono silenziosamente nel grande fiume della storia umana, senza che di loro si
abbia alcuna notizia. Non condivido nemmeno il ruolo che Vico fa adottare alla Provvidenza divina,
riconosciuta come fattore di civilizzazione: è invece l’intera storia a essere scritta fin dall’inizio dei
tempi nel “Gran Libro” di Dio. I corsi e ricorsi storici vichiani li considero non come processi di
evoluzione e de-evoluzione, ma come l’insieme della stupidità dell’ambizione che fa commettere
agli uomini sempre gli stessi errori. Si dice “historia magistra vitae est”, ma pare non sia sempre
così. Ma Hegel supera i corsi e ricorsi storici dicendo che anche i ricorsi sono utili, perché portano
l’uomo ad una nuova consapevolezza ed aiutano l’umanità a crescere secondo il disegno divino.
E’ estremamente interessante studiare questa disciplina per scoprire e analizzare le tappe della
storia, della cultura, e della civiltà umana. Lo studio che se ne fa tutt’ora mi sembra errato: io
proporrei un metodo storico in ordine cronologico e geografico che esamini tutte le civiltà nei
costumi, nella quotidianità, e nella cultura, oltre che negli avvenimenti: un incrocio tra storia,
geografia, ed etnologia.
TRA IL SOGNO E LA MEMORIA
“Tra il sogno e la memoria”, così si intitola un meraviglioso libro del mio vecchio amico Domenico
Di Fatta, in cui egli esamina la sua vita vista dai suoi sentimenti e la traduce in languida poesia. Era
inevitabile che, dopo essermi pronunciato sul tempo e sulla storia, dicessi la mia su quel misterioso
mondo che si chiama memoria.
Memoria e sogno sono le ali dorate del pensiero, quello che fanno di noi degli esseri speciali più
che delle macchine raziocinanti. Doni meravigliosi datici da Dio, che conferiscono più dolce
umanità al nostro essere.
Come può esser definita la memoria? Una “trappola del tempo” che cattura esperienze e nozioni? Io
faccio differenza tra tre tipi di memoria: quella logica, quella nozionistica e quella emotiva. La
memoria logica è quella delle abilità di base di un uomo: il linguaggio, il movimento, la
coordinazione, le forme più logiche di ragionamento (come la relazione causa-conseguenza), le
nozioni fondamentali acquisite tramite l’esperienza e che si danno per scontate (il cielo è blu, il
mare è liquido, etc), che, una volta apprese nella prima infanzia, resteranno impresse per sempre e
funzioneranno come automatismi. Memoria nozionistica è quella relativa all’apprendimento
culturale e professionale, particolarmente alla formazione scolastica. Nella memoria emotiva la
nostra mente imprime immagini, suoni, odori, sapori, sensazioni, ed emozioni accumulate nell’arco
della vita e che hanno lasciato, consciamente o inconsciamente, più segno degli altri. Il primo tipo
di memoria, di norma, dovrebbe rimanere intatto fino alla morte, salvo casi particolari; il secondo
può cadere facilmente nell’oblio vittima del tempo, della disattenzione, e del disuso; il terzo può
cedere ad opera dell’invecchiamento, dell’Alzheimer, di forti traumi, di disturbi nervosi, psichici, di
altre malattie etc.
Anche i sogni possono essere suddivisi in tre categorie: i sogni del sonno, i sogni intesi come
desideri (e in questo caso c’entrano poco), e i sogni del pensiero. Nel primo caso il sogno è una
rielaborazione della memoria: tutto ciò che essa apprende durante i giorni, lo rimescola casualmente
e lo vomita nelle notti: questa è la definizione scientifica alla quale io mi attengo, anche se qualche
romantico ha poeticamente immaginato che l’anima la vaghi come una farfalla nel sonno. Quali
siano le attività cerebrali che regolano questo meccanismo, non riguarda me, è competenza della
scienza scoprirlo, e nonostante i miei interessi culturali siano molto vari, preferisco non addentrarmi
in questi meandri. Del secondo caso posso solo dire che si tratta di una cosa soggettiva, possono
essere sogni utopici o concreti, ma che contribuiscono a formare il cuore dell’uomo. Anche se
soggettivi, il fatto di averli è comune a tutti (anche a me). I sogni del pensiero, scientificamente,
sono delle immagini e suoni messi in sequenza coscientemente dall’individuo perfettamente
sveglio, ma umanamente parlando, fanno la libertà della nostra mente, e sono qualcosa di
assolutamente prezioso e inalienabile che fanno vivere il cuore dell’uomo. Mettersi davanti a un
libro di geografia e immaginare di visitare quei maestosi luoghi era un esperienza di tranquillità
davvero indescrivibile, che da ragazzo potevo gustare spesso, specie con un buon brano di musica
classica, che per pensare è proprio l’ideale (mentre sto scrivendo queste stesse righe diletto la mia
mente con questo piacere, che miracolosamente placa il mio cervello, mi dona ispirazione, mi
rallegra e allieta il cuore; comunque, parlerò anche di questo in un’altra occasione). Questi doni Dio
li ha connaturati nell’uomo per renderlo molto più che razionale: sensibile. Da qui si vede come
memoria e sogno siano strettamente correlati: il sogno è lo sbocciare della memoria, e la memoria,
perché no, qualche volta è adornata dal sogno.
Il dolce rimembrar è un’esperienza sempre piacevole. Anche il ricordare eventi dolorosi fa provare
un certo torpore del cuore, e il pensare ai momenti felici passati da un senso di struggente nostalgia.
“Vedere” questi momenti trascorsi (racchiusi come ho detto io nella memoria emotiva) fa
comunque provare dei sentimenti, e questo è uno dei più grandi segreti della memoria. Come fa un
ammasso di cellule, come il cervello umano, a memorizzare i dati comunicategli dai sensi e le
emozioni provate da lui stesso in date circostanze, e riconvertendoli al momento giusto in dati
sensitivi visti dalla mente? I meccanismi messi in atto da Dio sono sempre meravigliosi ma spesso
incomprensibili: era appropriata la definizione che dava Aristotele a quello che chiamava “Essere”
di “motore immobile”.
E’ quindi possibile immaginare la memoria come un grande portabagagli che contiene al suo
interno la nostra vita. Essa è strettamente legata al concetto di tempo, perché dipende da esso. La
mia concezione di tempo della memoria deriva un po’ dal pensiero del filosofo francese Henri
Bergson, anche se me ne differenzio. La vita razionale dell’uomo può essere considerata un flusso
continuo di stati di coscienza: la memoria ne cattura alcuni secondo criteri a noi sconosciuti.
Misterioso è anche il motivo per cui certi sogni si dimenticano mentre altri si ricordano anche per
tutta la vita. La scienza risponde a questa domanda spiegando come tutto dipenda dal risveglio del
dormiente, e assicura che sogniamo tutte le notti, ma io penso che sia anche conseguenza di quel
meccanismo di censura dell’io che gli studiosi di psicologia conoscono bene. Intanto nel sogno non
solo “vediamo” e “sentiamo”, ma proviamo anche emozioni. Mi è capitato spesso, per quanto pochi
siano i sogni che ricordo, di svegliarmi in pianto dirotto per aver sognato grandi disgrazie, e una
volta invece mi sono ritrovato a ridere come un matto fino alle lacrime dal sonno alla veglia per un
buffissimo e bizzarro sogno che non ritengo opportuno trascrivere. E a quanto pare è così: sia la
memoria sia i sogni fanno abbondantemente leva alla nostra emotività. Essi non hanno una
fondamentale importanza sulla ragione (eccetto che la memoria è quel serbatoio di dati che ho
detto), e sotto questo aspetto contano poco. Ma l’uomo per fortuna integra la razionalità col
sentimento (se no ci troveremmo a essere come i bambini del film “Damned village”), e nel
prossimo argomento analizzerò proprio questo.
LA PERFETTA CONVIVENZA DI SENTIMENTO E
RAGIONE
Sebbene i più grandi filosofi illuministi cercarono di far prevalere la ragione nella vita mentale
dell’uomo, alla fine non riuscirono ad escludere quella misteriosa dimensione umana chiamata
sentimento. Come l’uomo è formato da due realtà, spirito (o mente) e corpo, la parte spirituale va
divisa tra emotività e razionalità. L’anima poi, è qualcosa di soprasensibile, superiore a quello che
chiamo “spirito” dell’uomo, quindi non tocca questo capitolo. La ragione infatti sarebbe imperfetta
senza il sentimento, e l’emotività rimarrebbe brutale senza la ragione (è il caso degli animali, che,
sebbene la scienza li abbia dichiarati in grado di provare sentimenti, restano in preda ai loro istinti
perché non hanno una razionalità che li aiuti a governarsi). Ragione e sentimento di norma sono
bilanciati: a volte è uno a prendere il sentimento, a volte l’altro, e questo è bene per un agire
equilibrato. Ma attenzione. La ragione non comporta la rettitudine morale, perché spesso è
ignobilmente orientata al benessere personale. Essa alle volte è quello che si può definire “sangue
freddo”, qualcosa che frena l’istinto secondo i suoi calcoli, mentre in altre occasioni è quello che
risolve genialmente i problemi della collettività nelle necessità. E il mettere a servizio la ragione o
per se stessi o per gli altri è qualcosa che dipende strettamente dai sentimenti degli uomini in
questione. Come si vede l’una parte domina l’altra: il sentimento decide come sfruttare la
razionalità, mentre essa provvede che il sentimento non ecceda nel trascinare la persona nelle sue
reazioni durante la vita sociale. La più grande qualità della razionalità è l’adattabilità. E’ grazie ad
essa che siamo usciti vincenti da lunghi millenni di storia buia e di tortuosa evoluzione. Gli studiosi
tendono a localizzarla come il terzo strato del cervello, la “corteccia”, di cui le specie “inferiori”
sono sprovviste. E’ questa che nelle più svariate situazioni elabora i dati trovando la soluzione
migliore. Interessante in proposito sarebbe leggere il libro di Daniel Defoe “Robinson Crusoe”, che,
nonostante sia un romanzo fanciullesco, lascia trasparire chiaramente come nel periodo dello
scrittore si attribuisse importanza vitale alla capacità umana di ragionare e di adattarsi. Infatti
l’epoca dei lumi è fondamentale per la rivalutazione della ragione nella filosofia, e viene
rivoluzionata la posizione umana al centro degli eventi naturali che la circondano. L’emotività
venne sminuita perché spesso ritenuta superflua. Anche Kant assegnò poco spazio al sentimento
umano nella sfera della mente, attribuendogli solo il ruolo dell’onestà e del senso del dovere. In
pratica, il sentimento doveva inchinarsi alla ragione. Per fortuna nel periodo successivo, il
Rinascimento, si stabilì definitivamente questo equilibrio. Tuttavia molti sono ancora convinti che
razionalità e sentimento siano opposti. Alcune scuole filosofiche orientali che si basano sul
sentimento diffidano dalla ragione, mentre le persone più razionale sembrano fredde. Io stesso sono
stato definito “troppo razionale, poco spontaneo” per il mio abituale contegno, mentre, chi mi
conosce abbastanza, sa benissimo che non è vero (qui è questione di indole, e io sono poco
espansivo e molto taciturno e contegnoso). Intanto, secondo me, anche gli uomini più razionali o
freddi, in fondo, provano dei sentimenti. Il soldato che uccide spietatamente il nemico sembra
cedere alla freddezza razionale degli ordini ricevuti, ma in quel momento nel suo cuore si agita una
tempesta di sentimenti contrastanti. Quando questi due elementi fondamentali della mente umana
s’incontrano, è li che nasce l’arte, e di questo parlerò successivamente. Io considero entrambi, il
sentimento e la ragione, due complementari doni di Dio. Sta a noi usarli al meglio. Ma se entrano in
conflitto? Può capitare, l’ho sperimentato sulla mia stessa pelle… è non è una cosa facile da gestire.
Nonostante sia molto restìo ad ammetterlo, confesso una volta di essermi innamorato, pur
continuando a sentire la chiamata al sacerdozio. E’ stata una sofferta guerra, tra il mio sentimento
che mi spingeva verso questa ragazza e la ragione che mi voleva riportare sulle vie di Dio, ovvero,
la ragione doveva troncare il sentimento al nascere, ero diviso in due. Nonostante la mia volontà
parteggiasse per Dio, ho scoperto quanto sia irrefrenabile e devastante la forza del sentimento.
L’ARTE INTESA COME ESPRESSIONE
PROFONDA DELL’UOMO
Nata e cresciuta insieme all’uomo, l’arte non finirà mai di stupirci e di suscitare la nostra
ammirazione. Dalle pitture rupestri paleolitiche alle indecifrabili statue del postmodernismo, l’uomo
ha sempre voluto lasciar tracce di se nell’ambiente che abita, e lo ha sempre modellato secondo il
suo piacere o le sue necessità.
L’arte, in se stessa, non è razionale, perché non ha un’utilità pratica o un fine materiale, essa è
puramente spirituale, e nasce dall’emotività umana per morire in essa. Serve infatti solo a
trasmettere emozioni, e sotto questo punto di vista essa è l’invenzione più geniale dell’uomo, perché
in nessun altro modo si è mai riusciti a trasmettere dei sentimenti. Quindi ha un’utilità puramente
spirituale.
In tutte le sue forme, dalla poesia alla pittura, dalla musica alla scultura, dalla drammatizzazione
all’architettura, l’arte ha il compito di “completare” e “perfezionare” il mondo, imitandolo o
idealizzandolo, e in ogni caso creando un mondo che può essere interpretato solo dai nostri
sentimenti. E’ qualcosa che ci aiuta a sognare e a sperare, e, come ho avuto modo di dire prima,
allieta e addolcisce, ci rende in sostanza, più umani. Il filosofo greco Platone era decisamente
avverso all’arte per questo: secondo lui il nostro mondo era una copia del “mondo delle idee”
perfetto ed immutabile, ed essendo l’arte un’imitazione del nostro mondo fatta col cuore, l’arte
finiva ad essere un’imitazione dell’imitazione, quindi una cosa peggiore del mondo stesso.
E io vedo l’arte come l’idealizzazione del mondo realizzata dai nostri sentimenti, l’espressione delle
profondità dell’animo umano. Quando un artista crea la sua opera ci mette il cuore, ci mette se
stesso e ciò che prova in quel momento, e il suo cuore si rispecchia in quell’opera.
Ho detto che l’arte non deriva dalla ragione, ma non le nego una certa razionalità. Se la ragione non
operasse in essa, infatti, non ci sarebbero ne pentagramma, ne schemi metrici, ne combinazioni di
colori etc, e l’arte sarebbe un privilegio di pochi eletti; non ci sarebbe infatti come trasmetterla da
maestro ad apprendista. E, inoltre, mettendo anche caso che l’artista si ricordasse a mente la sua
poesia o la sua musica, una volta morto, si perderebbe per sempre. Sono molti anni che suono, ma
senza le notazioni musicali non avrei saputo che farmene del pianoforte, e non saprei come
riprodurre i capolavori dei grandi musicisti del passato (anche nell’esecuzione di un brano altrui
ognuno ci mette i propri sentimenti, e infatti, ascoltando bene, ogni esecuzione è diversa dall’altra, e
questa può essere definita un’arte nell’arte).
E il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche parlava della presenza, nell’arte, di uno “spirito
dionisiaco” (irrazionalità, ebbrezza) e uno “spirito apollineo” (regolarità, equilibrio), invocando la
supremazia assoluta del primo. Io invece penso che il dionisiaco debba esserci, ma regolato
dall’apollineo.
Riguardo la scrittura, penso che sia un’arte qualunque cosa venga scritta, una poesia come un
romanzo come un trattato divulgativo, perché estrapola lo stile linguistico di chi scrive. Anche
questo libro stesso può essere considerato arte, perché contiene il mio modo personale di scrivere,
che, inconsciamente, spesso è dettato dai sentimenti. Facendo un’attenta analisi, si potrà notare
come alcune parti siano scritte in un linguaggio più vivo, altre in un linguaggio più cupo, ed altre in
uno più razionale, a seconda dei sentimenti e alle idee che si agitano nel mio cuore in quel dato
momento. Idem in un brano musicale o in una poesia.
Molte sono le cose che sorprendentemente possono dirsi arti: la cucina, il vestirsi (ma questa mi
sembra più vanità che altro), certi sport, il modo stesso di rassettare una casa (queste due ultime arti
non mi sono affatto congeniali però ☺). Ma ognuno è portato ad una cosa diversa. Io per esempio
suono egregiamente ma disegno orribilmente e canto ancora peggio. Chi mi mette in mano della
creta o argilla da modellare, in genere se ne pente. Eppure mi piacerebbe tanto saper cantare o
dipingere, ma sono doni naturali, e io ho solo quelli della musica e della letteratura. Dobbiamo
ringraziare Dio sia per i doni che possediamo, che ci ha dato gratuitamente e che dovremmo mettere
al suo servizio, sia di quelli che non abbiamo, perché essere molto dotati spesso manda in superbia.
Quando messa a servizio di Dio, infatti, l’arte si sublima. Se usata per dar sfoggio di se e per
superbia, diventa vacua, se usata per lucro come spesso accade, allora diventa male; l’arte invece
diviene perfetta quando serve a glorificare il Signore e per renderGli lode. E’ un grandissimo dono
per l’uomo, e quale scopo sarebbe migliore del rendere gloria a Dio per realizzarla pienamente?
L’arte per Dio mette la nostra anima direttamente in comunicazioni con le profondità celestiali
dell’Altissimo.
LA DIMENSIONE FISICO-SPIRITUALE
DELL’UOMO IN RAPPORTO AL DUALISMO
CARTESIANO
Ho già parlato della divisione della dimensione spirituale della realtà dell’uomo tra ragione e
sentimento, ma ora ne evidenzierò il rapporto con l’altro grande aspetto umano: la fisicità. La mente
opera tutto nella vita, elabora i dati e reagisce in base a questi, ma per interagire con l’ambiente
esterno ha disperatamente bisogno del corpo. A che serve infatti vagliare con essa tutto ciò che ci
circonda senza aver una bocca con cui esprimersi, o senza poter esplorarlo fisicamente? Bisogna
considerare anche che senza il corpo con gli organi di senso ad esso connessi, la mente sarebbe
perfettamente inutile, perché non le giungerebbe alcun dato da analizzare, come d’altro canto il
corpo sarebbe un oggetto morto se non avesse una mente a dirigerlo ed a governarlo. Si può
pertanto considerare il corpo come un estensione della mente che le permette di entrare a contatto
con ciò che sta al di fuori. Ma bisogna anche pensare che la mente, per svolgere i suoi ruoli, utilizza
le cellule cerebrali, come il computer per elaborare le sue equazioni logistiche ha bisogno dei
transistor e dei circuiti della scheda madre. Si può fare questa similitudine infatti tra computer e
uomo: la scheda madre è il cervello, le periferiche di input (tastiera, mouse, scanner, microfono)
sono gli organi di senso, le periferiche di output (schermo, stampante, casse, con le relative schede
video ed audio) sono gli organi attraverso cui si interagisce con l’esterno (bocca, braccia, gambe,
etc). Con questo esempio il concetto si chiarisce molto. Ma il pc esegue solo le operazioni per cui è
stato programmato, il cervello umano invece si trova spesso davanti alle situazioni più
imprevedibili, e deve adattarsi e reagire di conseguenza. Comunque si vede eloquentemente che,
come la scheda madre (potremmo associarle anche il software) di un computer non può far nulla di
quanto elabora senza le periferiche di output, così la mente umana non può operare niente senza il
corpo. Infatti il corpo, non dotato di volontà propria, le ubbidisce ciecamente ed esegue unicamente
le direttive che gli pervengono dal cervello (se si escludono malattie come il tetano che inibiscono
proprio il mezzo di comunicazione cervello-corpo, cioè il sistema nervoso). Ma il corpo, sebbene è
il servo della mente, ne è anche il carceriere. Anche esso ha i suoi limiti e le sue necessità, e la
mente li deve necessariamente rispettare. I bisogni fisiologici di cibo, acqua, scarto dei rifiuti, e
sonno, sono un naturale vincolo biologico che ci lega a tutti gli altri esseri viventi, e quando essi si
impongono, che sia in qualunque momento e in qualunque situazione, si può reprimerli fino a un
certo punto, poi si deve cedere ed acconsentire. Dopotutto siamo esseri umani, e tutti, dal re ai più
poveri, dobbiamo, volenti o nolenti, ubbidire alle necessità naturali dell’organismo. Ma il corpo non
è il carceriere della mente solo per queste ragioni, ce ne sono anche altre: innanzitutto il peccato.
Spesso l’anima pecca perché trascinata dal corpo (gola, lussuria, accidia). E’ dura opporre
resistenza davanti a un pasto luculliano, ad una bella ragazza consenziente (per fortuna questo non
mi è mai capitato), o ad un comodo giaciglio. E spesso, per fragilità, ci si arrende e si cade. A
questo punto è proprio il corpo a desiderare di fare una tale cosa, e la mente ne diventa schiava
acconsentendo al peccato. Questa forza del corpo si chiama “istinto”, ed è qualcosa radicata fin
dalle origini della specie. Infine rimane un altro limite che può impedire al corpo di ubbidire
pienamente alla mente: il corpo stesso. La conformazione, l’allenamento, la struttura, sono tutti
limiti postici da Dio per indirizzarci verso una determinata strada senza spingerci troppo oltre. Un
esempio eloquente: da sempre l’uomo ha desiderato volare, ma il corpo umano è inabile al volo. Si
è dovuto ricorrere a meccanismi tecnici esterni per poterlo fare. Un altro esempio sono le patologie:
io stesso che soffro di ipotiroidismo ipofisario (con tutte le malattie ad esso correlato) ed asma
bronchiale ereditaria, sono fisicamente abbastanza limitato. Basti dire che, all’ufficio di leva, non
mi hanno neppure visitato: è bastata un’occhiata alla documentazione medica per riformarmi
direttamente. Quante volte fisso montagne col desiderio di scalarle, e, una volta posto il piede sulla
prima roccia, non ho la forza di tirarmi su… ovviamente ci si può facilmente aspettare quanto sia
scarso il mio rendimento in educazione fisica (al termine del quarto anno di liceo era l’unico sei in
una pagella costellata di sette). La mente, inoltre, è libera di vagare con il pensiero per spazi
illimitati, immaginari o reali, di vivere esperienze al di fuori dell’effettiva realtà; il corpo invece è
fisicamente vincolato alla sua posizione spaziale.
Da sempre il pensiero occidentale pone una netta separazione tra mente e corpo, mentre la filosofia
orientale li immagina come una cosa sola. Essi in realtà sono uniti fisicamente, ma sono una puro
spirito, l’altro costituito di materia. La pietra miliare su questo argomento, la pose il filosofo
francese Renè Descartes, meglio conosciuto in Italia come Renato Cartesio, considerato il padre
della filosofia moderna. Egli separò nettamente il pensiero (chiamandolo “rex cogitans”), dalla
materia (che chiamò “rex extensa”), e identificò l’uomo con la propria mente, cosa che faccio
anch’io. Ho talmente apprezzato questo, che, nel mio stemma personale (fatto per autoironia
ovviamente), ho riportato su un cartoccio la frase latina tipica di Descartes “cogito ergo sum”
(letteralmente “penso dunque sono”, tradotta più liberamente “se penso allora esisto”), perché
quest’alta valutazione del “cogito” influenza molto la mia filosofia (ma preferisco affrontare
l’argomento nella conclusione). Io sono fermamente convinto quando dico che mi identifico più
nella mia mente che nel mio corpo, anzi, non errerei se dicessi che mi identifico soltanto con la mia
mente. Il corpo è frutto dell’influenza genetica dei genitori, il suo aspetto non è qualcosa di
“proprio”, bensì una miscela del codice genetico dei propri ascendenti; la mente invece no, essa è
frutto dell’unione di sentimento e ragione e delle passate esperienze (oltre che alla volontà divina),
al massimo si può parlare di predisposizione genetica per quello che riguarda gli interessi e le
attitudini personali. Certo, il corpo può essere modificato a piacimento tramite interventi estetici o
chirurgia plastica (a questa io sono contrario: se Dio ci ha fornito di un tale corpo, perché
cambiarlo? Io svaluto l’estetica fino allo zero, quindi mi pare un’assurdità enorme considerare
quella che si ritiene bellezza del corpo fino al punto di commettere tali sciocchezze), ma quando si
trasmetteranno i propri caratteri ereditari, i cambiamenti chirurgici restano dove sono e non passano
di generazione. Ciò si può notare facilmente dalla poca cura estetica che mi prendo del mio corpo:
solo l’indispensabile per essere quantomeno presentabile (è una questione di rispetto verso gli altri),
e per non essere preso in giro (è una cosa che m’irrita assai). Ma, se non ci fosse tutta questa
artificiosità sociale, uscirei tranquillamente senza pettinarmi la mattina, perché, come dico sempre,
conta solo ciò che sta dentro. Infatti, come dice la stessa Bibbia, “L’uomo guarda l’apparenza, il
Signore guarda il cuore” (1 Samuele 16,7).
C’è chi in proposito ricorda il motto latino “Mens sana in corpore sano”. In linea generale è vero,
ma non bisogna dargli necessaria credibilità. Basta guardare me: la mia mente è sanissima, ma il
mio corpo è l’antitesi della salute. Tutti gli sportivi usano questo antico detto per avere la scusa per
giustificare mesi di sforzi che servono ad ottenere solo un effetto coreografico migliore del proprio
corpo (alcuni, ultimamente anche donne, eccedono per avere una muscolatura dall’ipertonia molto
visibile e decisamente esagerata, ma personalmente considero ciò disgustoso perché un corpo simile
è contro natura). E’ meglio studiare e sviluppare in tal modo le potenzialità del cervello, perché esso
è certo più utile di un corpo piacente (ma soprattutto è importante pregare ed esercitare l’anima, è
questo che conta davvero).
L’UOMO DALLO STATO DI NATURA ALLO
STATO CIVILE
Come accennato prima, il corpo umano ha delle necessità di tipo fisiologico da rispettare, senza
contare che spesso il proprio istinto lo spingerebbe verso atteggiamenti od azioni brutali. L’uomo è
tendenzialmente portato a cercare di soddisfare i propri bisogni subito ed alla maniera più spicciola,
ma ciò potrebbe creare equivoci e mancanze di rispetto a dir poco inaudite. Come si risolverebbe la
situazione? Fin da tempi antichi sono state create delle convenzioni sociali di comportamento,
culminate nel famoso “Galateo” di Giovanni della Casa, per permettere che codesti atti non
sconfinino nel disgusto generale. Spesso purtroppo queste regole sono rimaste confinate presso le
caste sociali più ricche ed aristocratiche, escludendo i più umili: ecco ad esempio perché il termine
“villano”, che un tempo significava semplicemente “contadino”, attualmente sta in modo
dispregiativo per “maleducato”. Comportarsi civilmente non è solo un segno di distinzione, è anche
un sostanziale apporto alla propria dignità di essere razionale. Ciò però non dovrebbe voler dire
comportarsi come robot, a questo punto si perderebbe la propria umanità. Certo, specialmente nelle
classi nobili, col tempo, queste regole di comportamento sono state tanto elaborate, da creare tutto
un mondo a parte, in cui vigono soltanto queste come regole di vita, e addirittura hanno sostituito i
veri valori. Questa mentalità aristocratica è stata giustamente disprezzata e ridicolizzata a suo tempo
dalle micidiali e irripetibili satire “The rape of the lock” di Alexander Pope, e “Il Giorno” di
Giuseppe Parini, che ne hanno insuperabilmente messo in evidenza la stupidità e l’effettiva vacuità.
Anche perché, questo “comportarsi secondo l’etichetta” spingeva ad un atteggiamento di superbia
verso i miseri, praticamente presi per vastasi. Comportarsi civilmente e dignitosamente è un
irrevocabile dovere civile e morale, ma guai a farne una tabella schematica per il proprio
comportamento. Il “buon selvaggio” del filosofo francese Jean Jaques Rousseau non è certo il
modello ideale del viver comune, ma nemmeno bisogna stare dietro ai nobili di corte della stessa
epoca. Quando questi falsi ideali sono stati accompagnati dal puritanesimo, allora sì che si è toccato
il fondo. Anch’io sono un po’ puritano, non mi vergogno a dirlo, ma quella forma di religiosità era
talmente intrisa di superbia e bigottismo, da rendere chi la praticava ben peggiore delle persone che
essi disprezzavano. Il mio comportamento abituale versa soprattutto sulla austera serietà e sulla
poca loquacità, ma se per caso commetto una gaffe non me la prendo poi tanto (errare humano est).
Ma rimane un altro problema: il linguaggio. La società odierna, specialmente le ultime generazioni,
sottovaluta la questione (ne parlerò più avanti), ma non è una cosa da tenere in poco conto. In
genere io sono il primo a rimproverare qualcuno quando la sua terminologia varca la soglia della
decenza, anche se non vengo quasi mai ascoltato. Ma perché i ragazzi d’oggi inseriscono nelle loro
proposizioni tante inopportune invocazioni agli organi genitali, per giunta con un vocabolario da far
rabbrividire? E’ un problema di educazione? Lo fanno per sentirsi più liberi da quella moralità che
per loro è come una catena? Soprattutto: lo fanno intenzionalmente o no? Mistero. Fatto sta che è
una cosa che mi duole al cuore. Cito l’esempio più recente: qualche giorno fa stavo entrando in
classe dopo l’orazione quotidiana in cappella prima dell’inizio delle lezioni. Ovviamente, dopo
essere stato per tre quarti d’ora a pregare, ero ancora con “la testa in cielo” ed il morale alle stelle.
Non appena sono entrato in classe, sono stato subito accolto dalle scurrili intercalazioni delle mie
compagne che discutevano tra loro: a quel punto sono piombato in un secondo nello sconforto più
totale, ho profondamente avvertito un senso di amarezza, di dispiacere, di disgusto, con un fondo di
sorda rabbia per la mia impotenza davanti a questo calpestare il linguaggio umano, che suppongo
inventato per fini più nobili.
Io ripeto sempre che l’uomo E’ l’animale razionale, usare una certa terminologia offende questa
dignità, precipitando il turpiloquiante in un grado al di sotto di quello animale. Che cosa si ricava
dalla volgarità? Solo biasimo e disprezzo. Qual è il senso di tali parole inserite in un contesto
verbale e logico che non le riguarda neppure lontanamente? Non è forse meglio discutere come tra
persone pulite e beneducate?
IDEE IN CAMPO DI GIUSNATURALISMO E
POLITICA
Durante il percorso dell’evoluzione umana si deve segnare una tappa fondamentale: il giorno in cui
gli uomini si associarono in gruppi più o meno numerosi, i clan e le tribù all’inizio, e i villaggi in
seguito. Bisognò far fronte alle nuove necessità, ed organizzarsi di conseguenza. La regola naturale
del più forte si trovò inadeguata alla situazione, era ovvio che, una volta che ci si era uniti per
migliorare le condizioni di vita, non si potevano lasciare soccombere i più deboli. La libertà
individuale fu limitata dalla libertà altrui. La cosa fu risolta così: veniva scelto un capo tribù che
aveva potere di vita e di morte su tutti gli altri, con illimitata facoltà decisionale riguardo tutto ciò
che toccava il gruppo. E’ il prototipo della monarchia, con la differenza che qui era elettiva.
La questione della libertà umana in ambito civile, chiamata giusnaturalismo, fu analizzata da diversi
filosofi. Così ad esempio, l’inglese Thomas Hobbes proponeva un modello inaccettabile di Stato
completamente assolutistico al quale i cittadini alienavano tutti i loro diritti, mentre il più moderato
Rousseau suggeriva una forma di contratto sociale. Nella storia sono stati proposti diversi modelli
di governo, alcuni più giusti altri meno, adesso vedrò di analizzarne e commentarne i principali.
Monarchia: dal greco “monos”, governo di uno. E’ senza dubbio la più usata nella storia, ma non è
sicura. La persona al potere può essere un buon sovrano come può essere uno stolto o un egoista,
quindi la trasmissione ereditaria del potere temporale è sconsigliabile. Inoltre questa persona non
può conoscere tutte le necessità del popolo, e sicuramente vi sarà del malcontento. La forma di
monarchia costituzionale è già un po’ migliore.
Tirannia: per me è come una monarchia non ufficializzata o legalizzata, in cui il despota è
senz’altro più egocentrico di un normale sovrano.
Aristocrazia: il governo di una nazione messa in mano ai nobili è quanto di peggio ci possa
essere… primo perché questi non hanno diritto a rivendicare un bel nulla per la loro “nobiltà”
economica o “di sangue” che sia, secondo perché si sa bene che gli aristocratici badano solo agli
interessi di classe.
Teocrazia: sarebbe la migliore se fosse davvero Dio a governare… spesso la classe sacerdotale si
distrae dal proprio compito per pensare al benessere. E’ quanto è successo dalla presunta Donazione
di Costantino all’unità d’Italia del 1860.
Repubblica: anch’essa sarebbe accettabile se ci fosse la sicurezza che i rappresentanti del popolo
siano davvero onesti e agiscano per il bene nazionale… si può vedere bene che questa sicurezza non
c’è, “homo homini lupus”, l’uomo è lupo all’uomo. Chi ha orecchie intenda!
Democrazia: la migliore tra quelle già citate, un popolo che si autogoverni sarebbe quasi infallibile.
Purtroppo ci sarà sempre una minoranza scontenta, e non è giusto che cento persone soffrano le
decisioni di duecento altre.
Anarchia: la libertà totale, ma troppo pericolosa, molte persone abuserebbero di tale libertà. Tutto
sfuggirebbe al controllo di tutti, e sarebbe il caos. Un governo anarchico, se governo si può tentare
di chiamare, porterebbe ben presto alla situazione iniziale dell’umanità: la legge del più forte.
Sarebbe realizzabile se l’uomo non vivesse schiavo del suo egoismo e delle sue brame, ma questa è
un’indiscutibile utopia.
Già, se l’uomo non fosse vittima del suo stesso peccato la cosa si risolverebbe subito, ma prima di
prendere decisioni di questo genere bisogna considerare bene lo stato di meschinità interiore degli
uomini. L’idea di un governo completamente felice è soltanto un’utopia, ben più grossa di quella di
San Tommaso Moro. Ah, se il genere umano fosse più responsabile!
Ciò detto, quando si parla di forma repubblicana, il governo ha due schieramenti principali ed
opposti: la destra e la sinistra (il centro è un neutrale voltafaccia). Entrambi micidiali all’uomo se
portati all’eccesso. Darò una premessa generale: io non mi occupo di politica perché la ritengo
semplicemente uno sporco gioco d’interessi e di potere, esprimerò soltanto ciò che penso di
ciascuno di questi “lati”, ricordando che in verità io non parteggio per nessuno di essi.
La destra mira all’arricchimento industriale, concentrando sull’imprenditoria la sua attenzione, oltre
che sullo sviluppo economico in generale. Ma io sono convinto che troppo arricchimento materiale
causi un deciso impoverimento spirituale della nazione, bisogna ricordare (o anticipare) che la
vacuità morale di oggi è figlia dell’eccessivo benessere. Quando tutti penseranno solo a guadagnare
e a superare gli altri, chi penserà alla salute dell’anima?
Contrariamente, la sinistra, porterebbe alla rovina materiale della nazione. Basta ricordare gli effetti
in Russia del comunismo. Non si può pretendere di trascinare tutti in un’unica classe egualitaria,
bisogna conservare le strutture sociali: a ciascuno il suo compito. Come non può vivere il padrone
senza il servo che lo accudisce, così non può vivere il servo senza il padrone che gli da a mangiare.
Il messaggio evangelico, infatti, propone non di alterare le posizioni sociali, ma di aprirle ad una
maggiore comunicazione ed ad un maggior rispetto reciproco. Sono state promulgate diverse
encicliche per ricondurre quel partito alla ragione, prima fra tutte per cronologia e dottrina la
“Rerum novarum” di Papa Leone XIII, risalente al 1891. Ma è stato tutto inutile: i comunisti, a
causa della loro protervia, sono stati scomunicati nel 1949, e per quel che ne so, la scomunica non è
mai stata revocata.
Personalmente io non sono né capitalista né comunista: ma moralista. La forma migliore di
governare dovrebbe tenere conto dell’economia appena quanto basta per dare una sistemazione
decente al popolo, ma mirare molto allo sviluppo della persona e della coscienza dei valori morali.
Utopia, soltanto utopia, nient’altro che utopia…
LA FUNZIONE DEL SAGGIO NELLA SOCIETA’: IL
MITO DELLA CAVERNA DI PLATONE
Platone suggeriva nella sua utopia, tra l’altro, una forma di Stato retto dai filosofi. Mettere la
filosofia, cioè la sapienza stessa, al centro del potere ed a capo di questo, un’idea giusta ma che non
può trovare riscontro in mezzo ad un’umanità corrotta dall’egoismo e dalle passioni. Perciò Platone
ideò il famoso “mito della caverna”. Lo riporto qui un po’ esemplificato per riassumermelo
mentalmente e per darne una sommaria spiegazione all’eventuale (direi quasi impossibile) lettore di
questo libro che non ne sia a conoscenza. In una caverna sono incatenati sin da fanciulli dei
prigionieri, rivolti con la faccia verso il fondo della grotta; alle loro spalle, tra essi e l’imboccatura
della cava, arde un fuoco che proietta sul fondo le ombre di tutto ciò che avviene fuori dall’uscita,
in modo tale che i poveri schiavi vedano davanti a loro soltanto le ombre proiettate e non conoscano
altro. Ad un certo punto uno dei prigionieri riesce per caso a liberarsi, e raggiunge l’apertura della
caverna. Egli viene innanzi tutto abbagliato dalla luce del sole che non aveva mai visto, poi, quando
i suoi occhi si sono abituati all’intensità del chiarore, incomincia a notare bene le forme ed i colori
di cui non supponeva affatto l’esistenza. A questo punto egli si rende conto che ciò che fino ad ora
aveva visto erano solo ombre, scure e deformi proiezioni degli oggetti reali; allora ritorna giù a
comunicare agli altri schiavi come stiano realmente le cose, ma essi lo deridono e lo scherniscono
non credendogli, gli si rivoltano contro. Questa storiella è stata inizialmente usata da Platone per
esporre la sua assurda teoria del “mondo delle Idee”, ma può assumere secondo me un significato
molto più profondo. Inizialmente tutti gli uomini sono nel buio dell’ignoranza, il loro spirito è
avvinto dalla materialità di ciò che vedono, senza riflettere e domandarsi se le cose si limitino a ciò
che i loro sensi palpano. Ma qualche uomo inizia a pensare, a cogitare, a indagare, e questo
desiderio lo libera dalle catene della materialità che lo circonda. L’uomo assurge così alla radiosa
luminosità del sapere, e, dopo essere rimasto abbagliato da tanto splendore, capisce che nello stato
in cui era prima commetteva soltanto grossi errori, e adesso comincia a vedere le cose come sono.
Questa ascesa dell’uomo dalla tetraggine materiale allo splendore spirituale è possibile solo tramite
l’azione di grazia che il Signore esercita sulle menti umane; Dio chiama tutti alla radiosa
conoscenza, ma pochi sono disposti ad abbandonare l’involucro oscuro che conoscono dalla nascita
e che li coinvolge tanto, ed alzare lo sguardo verso la sapienza. Comunque sia, quando quest’uomo
vede tutto ciò, s’innamora della sua nuova condizione, e vorrebbe che tutti gli altri uomini relegati
nelle tenebre dell’ignoranza capissero e lo seguissero, e fossero anche loro partecipi del dono della
grazia e della vita spirituale; egli desidera ardentemente comunicare agli altri ciò che lui prova e far
capire anche a loro. Ma, quando scende tra essi per dirglielo, spinto da tanto fervoroso entusiasmo,
egli rimane ghiacciato e si trova paralizzato dall’incomunicabilità; trova intorno a se un ambiente
ostile e freddo, insensibile, e ha paura di parlare perché SA che non sarà mai capito e verrà solo
sbefferlato e maltrattato da chi vuol rimanere nelle sue oscurità; al massimo potrà tentare una
parziale rivelazione ad una ristretta elite di persone comprensive e dalla mentalità aperta, ma non
può mai esprimere totalmente ciò che prova, quindi seguirà due strade: o preferire il mondo al
sapere e a Dio, tornando nelle vie precedenti e continuare a vivere come se non fosse successo
nulla, e questo è un imparagonabile atto di vigliaccheria e di irresponsabilità, oppure proseguire nel
cammino della conoscenza e di Dio, a costo di isolarsi del tutto, a costo di essere disprezzato dagli
altri, scherno degli stolti e ludibrio degli empi (“Beati voi quando vi insulteranno, vi
perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi
ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.” Mt 5.11-12) magari provando di tanto
in tanto qualche misero tentativo di approccio a scopo di edificazione con gli altri ma senza
successo, e questa è la coraggiosa via che dà più onore ad un uomo. Ebbene io ho scelto
quest’ultima.
Quando lo affrontai a scuola, il mito della caverna attirò subito la mia attenzione, e lo studiai
avidamente. Ma quando, pochi mesi dopo, Nostro Signore attirò a Sé la mia mente con la grazia
della mia conversione, questo acquisì per me il significato che ho scritto sopra, infatti vi sono
riportati proprio i miei sentimenti. Quanto dolore ho provato e provo tutt’ora vedendo l’abisso di
perdizione in cui si trova il genere umano. Ma ciò che mi fece soffrire maggiormente nei primi
tempi era proprio il fatto che mi sentivo toccato direttamente dalla grazia delle rivelazioni a cui fu
aperto il mio cuore e non potevo comunicarlo. La mia anima gemeva e ululava senza che io potessi
placarla, sentivo irrinunciabile il bisogno di far sapere ciò che provavo e ciò che capivo, ma non
potevo e non posso, l’umanità dei nostri tempi sembra insensibile a certe cose, è troppo presa dalle
effimere inezie della materia, e io rimango incompreso tanto è vero che ho deciso di proseguire da
solo, magari confidando qualcosa a qualche stretto amico. Alla fine, arrendendomi all’inevitabile
situazione, la ferita si è lentamente richiusa, ma rimane la cicatrice che resterà fino alla mia morte.
E infatti è per questo vivo quasi isolato: preferisco tagliare i ponti e stare da solo piuttosto che
ritornare allo stato squallido di inconsapevolezza in cui vivevo prima.
Il mondo rifiuta chi pensa troppo, perché vuole restare nella sua vacua spensieratezza, indifferenza,
e spregiudicatezza. Così, chi per legge di natura dovrebbe essere guida e consiglio degli altri, si
ritrova isolato, solo con Dio e con i suoi pensieri (ma con Dio non si è mai soli, quindi la cosa non
conta, anzi sotto certi aspetti è meglio).
L’UOMO, UN ANIMALE SOCIALE?
Aristotele, discepolo di Platone, definiva l’uomo “un animale politico” in quanto doveva impegnarsi
attivamente nella vita civile, e, diremmo oggi, mantenere rapporti con i suoi simili. In ogni specie
del regno animale si può trovare una vita di gruppo, basata su fondamentali regole gerarchiche che
regolano i rapporti tra i singoli elementi. E innegabilmente anche l’uomo nel lungo corso della sua
storia ha vissuto da sempre insieme ai suoi simili. Di solito infatti la vita pubblica di ciascuno è
realizzata in funzione di quella altrui, in modo tale che ognuno prendesse parte a un ruolo ben
determinato che sia di comune utilità, e questo è la struttura prima del tessuto sociale. Ed è grazie a
questa spontanea ed implicita cooperazione che si sono potute sviluppare le civiltà, dai villaggi di
palafitte alle moderne metropoli. I rapporti tra esseri umani si possono dividere in due tipi: rapporti
sociali, cioè quelli obbligatori che non possono essere non sviluppati e partono da un livello di mera
formalità, ad esempio il minimo dialogo che deve esserci tra superiore ed inferiore o tra colleghi o
compagni o cooperatori etc; e i rapporti più propriamente umani, quelli cioè legati dal sentimento,
come l’amicizia e l’amore, alla cui base stanno la confidenza, la stima, l’affetto. Questi non sono
per nulla obbligatori, e nascono dalla volontà di ciascuno dettata dall’assonanza delle anime.
Esistono senza dubbio vie di mezzo, per esempio come quando un inferiore è legato da amicizia o
stima al suo superiore ma continua a mantenere quella distanza che purtroppo secondo le
convenzioni sociali deve esserci. E’ giustamente ovvio che si tende a prediligere i secondi rispetto
ai primi, nonostante questi siano i più necessari.
Ma cos’è che fa nascere un sentimento fra due persone? Me lo sono sempre chiesto, adesso tenterò
di esaminare razionalmente la domanda.
Il rispetto: questo è qualcosa che dovrebbe sempre e comunque esserci, anche tra l’uomo più
illuminato e l’empio più infimo, in quanto siamo tutti creature del Signore e davanti a Dio ci
troviamo in eguale grado di dignità. Il rispetto deve estendersi non solo all’interno della specie
umana, ma a tutto ciò che è creato da Dio (cioè appunto tutto), nessuno ha il diritto di ledere niente,
né fisicamente né spiritualmente.
La fraternità: di un gradino superiore al semplice rispetto, questa deve legare tutti gli esseri umani
perché appartenenti alla stessa specie e dotati di quella razionalità che ci separa dal resto del creato.
La benevolenza: un sentimento apparentemente senza un motivo ben determinato che mette un
essere umano in uno stato di predisposizione positiva verso un altro.
La stima: o l’ammirazione, è questo il sentimento che spinge una persona ad apprezzare per un
qualche motivo un’altra persona ed a volerne seguire l’esempio, desiderando di esserne amica.
Spesso l’ammirazione viene confusa dalle menti stravaganti delle ultime generazioni con la folle
divinizzazione di qualche persona famosa come cantanti o sportivi, ma questa è solo una
stupidissima idiozia mondana quando va oltre il semplice apprezzamento, purtroppo però spesso
sfocia in casi patologici come il tifo da stadio, la follia delle discoteche, l’acquisto immotivato di
prodotti legati a quella data persona.
L’affetto: una forma di benevolenza molto fortificata, che instaura un legame vero e proprio tra due
persone. Il tipo più elevato ed indissolubile è l’affetto materno, che unisce strettamente e quasi
senza possibilità di tradimenti una madre all’essere da lei nato. Questa meraviglia non si limita
all’uomo, ma ad un gran numero di specie animali, nell’uomo però è indubbiamente più profonda.
L’amicizia: è la ricerca della reciproca compagnia tra due esseri umani legati da affetto, che si
scambiano dialogo, idee, ed esperienze.
L’amore (senso comunemente usato): qualcosa che va oltre l’amicizia e può crescere unicamente
tra due persone di sesso opposto (l’amore gay è perversione nera) in nome del comandamento della
riproduzione che Dio ha imposto al creato; implica sì la ricerca della compagnia, ma è un’unione
che fa di due esseri quasi un essere unico diviso in due, e quest’unione si porta sia al livello
spirituale sia a quello fisico. Come negli animali, proviene dall’istinto, ma è più radicato. Negli
ultimi tempi però sta avvenendo un decadimento dell’amore, che lo sta trascinando al significato di
lussuria, turpe desiderio corporale mascherato da uno spirituale che in realtà è vacuo, poiché il vero
amore sta prima nello spirito e poi nel corpo, e mira al bene dell’altro, non alla stupida ricerca del
piacere corporale come avviene invece da un po’ a questa parte.
L’amore (senso generico): sentimento elevatissimo di unione e comunione, che può estendersi tra
un uomo e gli amici, tutti gli altri uomini, l’intero creato.
L’adorazione: il sentimento più sublime in assoluto, è quel tenerissimo legame che avvolge la
creatura e il suo Creatore, e va al di là dell’umano.
Questi sono i sentimenti positivi, ma per via della caduta dell’uomo esistono anche quelli negativi.
L’indifferenza: menefreghismo totale, reale od ostentato, verso una persona e tutto ciò che lo
riguarda.
L’antipatia: mal disposizione naturale verso qualcuno, che si limita alla non frequenza e repulsione
di costui.
Il disprezzo: egoistico rifiuto degli altri basato su una presunta propria superiorità ed inferiorità
altrui.
La rabbia: sentimento cieco che spinge all’aggressione, guidato da invidia, astio naturale,
cattiveria, o mal disposizione momentanea o duratura verso una o più persone o, nei casi peggiori,
verso il mondo intero.
L’odio: fondo dell’abisso nero del cuore delle persone malvagie, decisa avversione verso qualcuno,
cercando tutte le scuse possibili per esserne contro e per fargli del male.
Il secondo tipo di rapporti umani è costituito tutto secondo questi sentimenti, che fanno parte della
vita privata ed intima di ciascuno.
Così vive l’uomo nel sociale, nella coppia, nella famiglia, nell’ambiente di studio o di lavoro o di
vita, nel gruppo, nel mondo intero. Di solito i miei parenti e compagni, chi mi conosce poco
insomma, mi danno dell’asociale. In effetti è evidente già dai tempi dell’asilo che preferisco la
quiete della solitudine al chiasso della baldoria e delle compagnie numerose, e che sono più un
contemplativo, un uomo di riflessione, di studi, e di preghiera, che un uomo d’azione o di
compagnia. E’ una caratteristica naturale di cui sono più che altro felice, nonostante ciò dia qualche
preoccupazione ai miei genitori. Non per niente, senza diretto influsso della mia volontà, quando mi
trovo con pochi sono molto più loquace ed attivo che quando mi trovo in mezzo a molti. Se si è in
tanti, si ha il brutto vizio di fare confusione. E io francamente detesto la confusione, amo
decisamente la calma.
Voglio qui introdurre il mio concetto di individualità e pluralità. Ogni persona è uno, singolo
elemento sia separato e distinto dal resto sia messo in relazione a ciò che lo circonda. A questo uno
fanno capo le tante sue caratteristiche, e questo è il caso della molteplicità nell’unità descritta da
Hegel nella “Fenomenologia dello spirito” (attenzione, molteplicità e pluralità non sono la stessa
cosa, poi chiarirò). Questi molteplici aspetti possono a loro volta essere separati ed analizzati
singolarmente, ma fin quando verranno presi ad esame da soli non si avrà mai quell’uno, ma
soltanto una sua parte. Quindi, ricapitolando, l’uno è scomponibile nel molteplice ma è appunto
questo molteplice che dà l’uno, e, contrariamente ad Hegel, secondo me l’uno non può essere
separato dal molteplice, ma soltanto scomposto, perché il molteplice non è la negazione dell’uno,
ma l’insieme di tutte le sue caratteristiche senza le quali non si può più avere quell’uno perchè se ne
perderebbe il concetto. Facendo una breve digressione che chiudo subito, posso dire che esiste l’uno
in se che è conoscibile solo a Dio, l’uno per altro che è l’uno come lo vedono gli altri, e l’uno per se
che è l’uno nella sua esistenza individuale, come si vede lui, ma non vado oltre perché questo
argomento non è attinente al capitolo che sto trattando. Quando si crea un gruppo di gente, vengono
messi a contatto tanti uno, ed è come se si viene a creare un super-uno, la cui facoltà decisionale è
rappresentata dalla volontà collettiva (cioè le decisioni che vengono prese all’unanimità o secondo
l’odiosa regola “la maggioranza vince”), e le cui caratteristiche sono date dalla somma delle
caratteristiche dei singoli uno o della maggioranza, e questa è la pluralità. Per esempio, in un
gruppo scout (è l’esempio che purtroppo mi tocca più direttamente), le caratteristiche predominanti
sono l’insieme delle caratteristiche di ciascuno dei suoi membri ma soprattutto quelle più comuni, e,
trattandosi di solito di persone molto simili tra loro, in questo caso ne viene fuori che le
caratteristiche di quel gruppo sono l’impegno civile, la voglia di far baldoria, l’eccessiva allegria,
etc. Quando un singolo viene mandato a fare qualcosa, non viene presentato nella sua singolarità,
ma come qualcuno che rappresenta il gruppo, ed essendo note le caratteristiche di quel gruppo, è
come se agli occhi degli altri il singolo stesso le assorbisse e ne fosse portatore. Per esempio, se il
gruppo in cui ero condannato prima mi avesse mandato a fare qualcosa, al luogo dove sarei dovuto
andare non mi avrebbero indicato come “Claudio Mancino”, ma come “Claudio Mancino del
Palermo X” (non specifico il numero perché non voglio essere vittima di ritorsioni o accusato di
diffamazione), ed essendo caratteristiche del PA X la voglia di confusione, la poca serietà, la
scurrilità, quelle persone non conoscendomi ma sapendo bene o male com’è il gruppo, avrebbero
pensato che io fossi confusionario, poco serio, scurrile etc, mentre invece effettivamente sono
l’esatto opposto. Rassicuro comunque che ciò non è mai accaduto per il semplice fatto che io non
ho mai fatto nulla per conto del gruppo. Con questo banale esempio ho provato come la pluralità
distrugge l’individualità e all’uno vengono così attribuite a torto le caratteristiche del super-uno o
del gruppo, che dir si voglia.
Concludo l’argomento dicendo che, anche se l’uomo è destinato alla società (tranne ovviamente
certune persone che come me si vogliono ritirare nel silenzio, nella meditazione, e nella preghiera),
ognuno ha bisogno dei suoi momenti di solitudine, per riflettere, per riposarsi, per stare con se
stesso e con Dio, perché solo così può capire tante cose che altrimenti, in mezzo alla confusione,
non possono mai essere capite.
MIA CRITICA DELLA RAGION PURA
Nel 1781 Kant pubblicava il suo più grande capolavoro: la “Critica della Ragion Pura”, che segnò il
culmine dell’Illuminismo. Riflettendo su quest’opera, su Kant in generale, e confrontandolo ad altri
filosofi, anch’io ho voluto esaminare le mie idee sulla ragione, estendendole ad orizzonti che si
ampliano un po’ rispetto al criticismo kantiano, vanno più in generale. Nel suo trattato egli
affrontava quasi esclusivamente il problema della gnoseologia, la capacità della mente umana di
conoscere, ma nessuno si dovrà stupire se in questo capitolo io sconfinerò dalle argomentazioni
della “ragion pura” e tratterò anche o soprattutto altro, tuttavia ho voluto dedicarne il titolo a
quell’opera perché in un certo senso ne è l’ispiratrice.
Le mie cognizioni filosofiche, a quanto ho capito riflettendoci più, assumono caratteri di movimenti
diversi, tanto è vero che ho alcune idee che possono essere definite “illuministiche”, altre
“romantiche”, altre “idealistiche” etc; e le mie stesse posizioni sul contrasto tra dogmatismo ed
idealismo stazionano su una via di mezzo. Ma tenterò di procedere con ordine.
Come Kant, io sono pronto ad affermare che la ragione umana non è infinita, ma limitata. Il
tribunale cui egli la sottopone, realizza che compito umano è quello di esaminare il conoscibile e
sondarne le basi, anziché cercare di andare oltre, verso l’oceano nebbioso della metafisica (cioè di
ciò che sta al di là delle possibilità raziocinanti dell’uomo). Io completo questo aggiungendo le
seguenti ragioni: la mente umana non è perfetta. Essa è creata da Dio, si, ma ha anch’essa le sue
“Colonne d’Ercole”, si può occupare solo dei fenomeni materiali, lo spirito e Dio stesso sono
inconoscibili alla ragione perché di loro si può occupare soltanto la fede, o magari la teologia. Penso
che ateismo e razionalità camminino spesso affiancati: l’uomo troppo razionale, che fa affidamento
solo sulle sue capacità mentali, ha un cervello troppo ottuso per riconoscere Dio, chiuso com’è in
quei suoi ferrei schemi mentali che non accettano ciò che non è con essi spiegabile. E la metafisica?
E’, come dice il filosofo prussiano, un’invenzione, una menzogna, o essa ha davvero ragion
d’esistere? La metafisica è quel tipo di sapere astratto cui vorrebbero tendere molti pensatori, ma
essa è irraggiungibile alla ragione, ed è talmente astratta da essere solo teorizzabile, quindi
assolutamente incerta e fantasiosa. L’unica forma che reputo pensabile di metafisica è quel contatto
di amore tra uomo e Dio; il resto, seppure esistesse, non ci è dato di conoscere.
Ma è possibile conoscere il tanto agognato “archè” o quanto meno ipotizzarne l’esistenza? Dal
greco Talete in poi molti ne tentarono la scoperta, formulando le teorie più svariate. La più
convincente, che ben si legava con la fisica classica, era l’atomismo di Democrito, ma quando Plank
mise compimento alla sua teoria dei quanti, ciò fu capovolto e ritenuto non idoneo, poiché questo
grande fisico scoprì che la materia non è che una forma di energia, e gli atomi non hanno una vera
struttura solida e materiale. Fin qui la ragione ci è arrivata, servendosi del suo braccio, la scienza,
ma oltre? La mente umana può giungere fino alla cosa in sé, il noumeno? Può mai la ragione
palpare la vera essenza delle cose? Ebbene io lo escludo. Come già accennato prima, la mente per
conoscere ha bisogno dei sensi. A questi, che convertono i dati materiali in oggetto esplicabile al
cervello, affianca altri due strumenti: l’intelletto e la logica. Il nostro è un tipo di conoscenza
sensistico ed empirico, poiché per conoscere ci servono i sensi, e ciò che da essi deriva viene
trattenuto dalla memoria come esperienza. I dati sensibili sono analizzati singolarmente
dall’intelletto, e i risultati di questo lavoro vengono sviluppati e correlati ad altri tramite la logica.
Essa ha i suoi schemi formali, impressi nello spirito durante la crescita e l’apprendimento. Le
categorie kantiane, secondo me, non sono altro che alcuni di questi schemi logici, come anche
quelle aristoteliche. Spazio e tempo, che misurano i dati, sono convenzioni logiche esplicitate dallo
spirito, ma non bisogna assolutamente confonderli col tempo esterno, quello che scorre dall’eternità
all’eternità, e con lo spazio esterno, quello che non è momentaneamente percepito. Cioè, i nostri
sensi e la nostra ragione ci forniscono delle rappresentazioni personali dello spazio e del tempo, che
servono per conoscere. Di conseguenza, essendo i sensi ad agire per primi nel processo conoscitivo,
essi non possono ovviamente venire a contatto con la cosa in sé, che non ci è esplicata, ma con la
cosa per altro, la cosa com’è interpretata dai nostri sensi. Da qui si possono prendere due strade: o il
dogmatismo, che rapporta il soggetto conoscente in funzione dell’oggetto, o l’idealismo, che prende
in esame l’oggetto in considerazione del soggetto. Il dogmatismo è in effetti troppo limitativo ed
inesauriente, essendo il soggetto a conoscere non si può subordinarlo a ciò che viene conosciuto. Se
la conoscenza dell’oggetto dipende dai sensi di chi conosce, è indiscutibile che sia questo il vero
protagonista, ma bisogna sempre tener conto appunto di questo: che il grado di conoscenza che
acquisirà non sarà perfetto perché soggettivo e limitato alle sue possibilità, relativo insomma. Si
deduce quindi che non vi può essere, nell’uomo, una conoscenza assoluta. La cosa in sé può essere
compresa solo da Dio, perché “da Lui tutte le cose furono create e per suo volere sussistono” (cfr.
Ap 4.11).
In questo capitolo ho trattato i limiti gnoseologici della ragione, ora passerò a trattarne quelli etici.
UNA BUSSOLA PER LA SCIENZA
Negli ultimi decenni la scienza è entrata in possesso delle chiavi della vita tramite le scoperte del
mondo sub-cellulare. E, oltre ciò, è riuscita a penetrare nel cuore della materia fino a comprenderne
la vera natura. Ma in tutto ciò sono state sollevate innumerevoli questioni, è nata la cosiddetta
bioetica, ci si chiede se sia giusto che l’uomo giunga alla possibilità di conoscere ed eventualmente
manipolare le stesse strutture intime del creato. Se mi riferissi all’utopia di un’umanità responsabile
la riposta sarebbe sicuramente “e perché no?”, ma partendo dal presupposto che l’uomo sia quello
che purtroppo realmente è, meglio lasciar perdere ed evitare chissà quali catastrofi. Nella mia
Tesina per l’esame di Stato, “Tra fede e ragione”, parlo, tra le altre cose, anche di questi argomenti.
Eccone un tratto significativo che rende l’idea: “Il richiamo del sapere spinge Ulisse oltre le
Colonne d’Ercole, ed egli, uomo saggio ed assennato, si lascia trasportare come un bambino dalla
voglia di scoperta: ma non sarà questa la sua rovina, non naufragherà tragicamente e perirà nel
vano tentativo di conoscere ciò che gli era stato negato da limiti invalicabili?” [dall’Introduzione
alla Tesina di “Tra fede e ragione”]. La scienza è il frutto della ragione applicata nell’immanente, di
per sé non è buona o cattiva, questo dipende solo dall’uso che se ne fa: è l’analisi del grande
professor Antonino Zichichi, fisico nucleare che stimo molto e che condivido molte cose. Ma
quando la scienza uccide degli esseri viventi, umani e non, servendosene per i suoi esperimenti,
certo non lo fa con cattiveria, ma non è considerabile cosa giusta. Specialmente quando entra in
gioco l’embrione umano… quanti di questi esserini, uomini in potenza ma già uomini, innocenti,
sono tenuti peggio degli animali, congelati, sezionati, e infine uccisi? Un numero incalcolabile. Per
questo l’aborto e gli esperimenti sugli embrioni sono i crimini più deplorevoli che l’uomo possa
commettere. Eppure questi esperimenti, anche se crudeltà disgustose, non vengono fatti con
intenzioni malevole. La ricerca e amorale, a-morale, ma compie ugualmente le peggiori bestialità.
Ma il mondo, il quale nonostante la condotta continua a conservare in sé un minimo di eticità, come
giudica questa branca che proprio all’etica vuole sfuggire? E’ possibile che alcuni uomini
sottostiano a norme morali mentre altri agiscano al di sopra di esse sventolando, come scusa, lo
stendardo della scienza? E’ certo che no. La ragione, essenzialmente umana, non può porsi al di
sopra dell’umano (faccio rilevare che ho detto dell’umano, non dell’umanità. Questa differenza è
molto importante, perché la ragione deve essere superiore rispetto all’umanità, intesa come insieme
di gente, costumi, modi di pensare e d’agire, tutto ciò insomma che riguarda la sfera praticoesistenziale dell’uomo; ma non all’umano, che segna il limite tra il razionale-sentimentale-etico e
l’assurdo). La scienza inoltre non può e non deve mai essere usata contro Dio: se è la ragione
applicata all’immanente, non può aver nulla a che fare col trascendente, che la supera senza
paragoni.
Dunque, per agire senza danneggiare alcuno ma contribuire ad accumulare nozioni su nozioni nel
vasto deposito dello scibile umano, ha bisogno di essere guidata, ha bisogno di una bussola. E io
invece glie ne do due. La prima è l’etica universale, quei valori che sono riconosciuti da tutti
incondizionatamente (sto provando a teorizzare l’esistenza di un’etica non relativa, e penso che
possa trovare la sua radice nell’accordo comune delle etiche dei vari popoli): la ragione non ha
diritto di eludere questa sorveglianza. L’altra “bussola” sta nel tentativo di moralizzare la scienza,
fare in modo che le sue ricerche siano orientate unicamente verso il bene, quindi al servizio di Dio,
condizionando in questo modo anche la tecnica (applicazione pratica della ragione)… ma penso che
sia, come altre già scritte, soltanto una santa utopia. Tutto sta nelle mani di governanti e scienziati,
spesso mossi da passioni egoistiche miranti a potere e fama. L’idealizzata “Nuova Atlantide”
dell’inglese Francis Bacon, sogno di un luogo in cui la scienza è utilizzata soltanto per fini benefici,
rimarrà, temo, soltanto su carta.
SULLA LIBERTA’
Voglio qui esprimere largamente il mio pensiero per tutto ciò che concerne la libertà. Lo spunto per
scrivere questo capitolo mi è stato dato da un’occasione alquanto banale… un capo scout
pretendeva di impormi la partecipazione ad una recita. Io non la condivido e ho voluto rifiutarmi,
ma con grande arroganza egli non voleva concedermi possibilità di scelta. Mi è venuta ironicamente
l’idea di preparare un’agguerrita “filippica” filosofica contro tale imposizione, e ne ho realizzato a
mente lo schema. Parlandone con un compagno, ho deciso, con qualche modifica, di aggiungere
questo capitolo. E infatti questa recita, per il fatto di essere lo spunto iniziale, sarà l’esempio-tipo di
tutta il discorso. Porterò tre argomentazioni:
• Gli ideali e lo sdoppiamento della coscienza;
• La libertà;
• La volontà.
Non ne faccio tre capitoli separati proprio perché, se uniti, concorrono a formarne uno più in
generale sulla libertà. Dunque, procedo con ordine.
Ogni uomo che sia considerabile essere pensante (e faccio questa distinzione proprio perché ci sono
alcuni che, pur avendo come tutti il ben della ragione, non lo utilizzano), hanno qualcosa in cui
credono. Anche gli atei, che non hanno fede in Dio, avranno degli ideali. E, cosa che mi irrita, c’è
gente che crede agli alieni ma non a Dio ☺. Al momento non voglio parlare dei valori come
l’amicizia, l’amore, la fraternità, perché è già prevista la loro discussione in un altro contesto. Io mi
riferisco ad altro, le proprie idee, le proprie convinzioni. Sono parti essenziali dell’identità di una
persona, perché ne condizionano la vita e il modo d’agire e di pensare. La coerenza consiste proprio
nel comportarsi secondo ciò in cui si crede. Ed è giusto che sia così, guai se si venisse impediti in
questo, significherebbe la mancata espressione della personalità e allora tutti saremmo automi.
Messo punto all’importanza degli ideali, questi trovano il loro specchio nella coscienza. Ma io
riconosco l’esistenza di due coscienze, non solo di una. Esiste, e ciò è universalmente noto, la
coscienza morale, che categorizza secondo i criteri di “è giusto”e “non è giusto”, spesso questa è
intimamente legata alla religione e all’educazione. Per esempio, aiutare il prossimo è giusto, mentre
danneggiarlo non lo è. Alla coscienza morale io affianco la coscienza razionale, riscontrabile negli
uomini più maturi e riflessivi, la quale indica la razionalità o, come si suol dire nel linguaggio
ordinario, la logicità di un’azione. Prendiamo in esame l’atto di far baldoria (è l’esempio migliore):
moralmente questo non implica nulla, non è né giusto né non giusto. Ma davanti alla coscienza
razionale assume una connotazione di stupidità: in fin dei conti può avere senso fare confusione?
Serve a qualcosa? No, però in cambio abbassa la dignità di chi si diverte a farla trascinandolo al
rango di bambino o di animale. Morale dell’esempio: io non faccio baldoria. Fumare… non è
peccato (se escludiamo l’aspetto dell’uomo che lentamente uccide sé stesso, molti fumatori lo
rifiutano) ma nuoce alla salute. Che vantaggio ne ricavo? Che svantaggio? Solo svantaggi: fumare è
un azione che razionalmente va condannata. Però bisogna far attenzione: coscienza morale e
razionale devono andare di pari passo, chi utilizza solo la prima rischia la stupidità, chi usa
esclusivamente la seconda può cadere nell’egoismo. Le proprie convinzioni sono idee che hanno
passato indenni il vaglio delle due coscienze. Che succede quando c’è qualcuno che vuole
costringermi ad andare contro esse? Ritorno all’esempio della recita, riesce benissimo ad esprimere
tutto. La partecipazione qualcosa che ritengo stupida mi è sempre stata negata dalla mia coscienza
razionale perché io credo fermamente nel bisogno di razionalità nel mondo. Cioè sono
profondamente convinto che le cose stupide non vadano fatte. Semplicemente perché sono stupide,
e io stesso mi sentirei un emerito cretino se ne prendessi parte (ciò non vale per gli altri, che sono
diversi da me ed hanno altre idee). Quindi, se recitassi a quella rappresentazione, non solo
distruggerei la mia reputazione con me stesso, ma trascinerei nella polvere quel minimo di rispetto
che ho di me. Ma soprattutto, ecco la cosa grave, andrei contro i miei princìpi. E quell’uomo (il
capo) vorrebbe che io andassi contro i miei princìpi, componente integrante del mio essere, e contro
la mia coscienza. Io dovrei così annullare quello che sono per soddisfare i capricci di qualche
scoutticello. Ecco, già andare per costrizione contro i propri ideali è come annullare sé stessi,
sottomettersi a qualcosa rinunziando alla propria identità e al proprio essere. Allora qualcuno vorrà
farmi notare (è sempre così) “qui sei in un gruppo e fai quello che decide il gruppo”. Ho già
accennato qualcosa quando, nel capitolo L’uomo, un animale sociale? parlavo di singolarità e
pluralità. Io non sono il gruppo, e il gruppo non è me, ma io sono una piccola, insignificante, e
inascoltata parte del gruppo. Quindi il gruppo ha la sua facoltà decisionale indipendente dalla mia.
Ma se viene deciso qualcosa che va contro i miei ideali e contro la mia coscienza, io non posso, in
teoria, essere costretto a prenderne parte in alcun modo, e così per tutti.
Da qui passo al concetto proprio di libertà. Questa deve essere un diritto sancito indistintamente per
tutti. Ma ha una condizione: la mia libertà necessariamente termina lì dove cominciano quella altrui
e il benessere comune. Libertà non significa anarchia, bensì indipendenza e autonomia personale
nel rispetto dei reciproci diritti. Non esistono ragioni valide al mondo per limitare la libertà di
qualcuno, tranne nei casi in cui egli voglia nuocere ad altri o alla collettività, o dia cattivo esempio,
oppure qualora venga scientificamente e provatamente dimostrato che egli non sia in grado
d’intendere e di volere o non ne abbia la maturità. Al di fuori di questi, la negazione della libertà è
un atto illecito, depravato, vergognoso, indegno di esseri civili e razionali. Anche volendo fare del
bene, ad una persona sana, matura, e non malintenzionata si può solo consigliare, mai imporre. Le
persone rispondenti a tali requisiti devono poter avere le libertà di pensiero, d’opinione,
d’espressione, e d’azione, e la privazione di tali diritti è da considerarsi iniqua e dittatoriale, in una
parola, talebana.
Oggetto incaricato di esprimere la libertà è la volontà. Questa è una forza dello spirito umano, più
resistente in taluni e più debole in altri. “Io voglio” è l’espressione pratica di “io penso” che si
riduce in azione. La volontà può essere troncata (con la forza bruta dell’imposizione), abbattuta
(tramite strategie psicologiche o sofferenze tali da lasciare traccia nella psiche), ma mai annullata.
Bisognerebbe essere ridotti allo stato di “vegetale” per non aver volontà, oppure, la mancanza di
volontà ridurrebbe allo stato di “vegetale”. Cioè, la volontà può essere spezzata ma non piegata
(tranne quando si cambi idea per giusti motivi). Così, tornando all’esempio della recita, essa mi può
essere imposta violentemente e la mia volontà può venir troncata, ma io non l’accetterò mai, e se
dovrò parteciparvi, lo farò con un tale sguardo di disprezzo da far cadere le braccia e far pentire
amaramente chi me l’ha imposta. Perché il vero trionfatore non è l’irrazionale che s’impone con la
brutalità, anche se riesce ad ottenere ciò che vuole, ma colui che pensa e sa fino in fondo che il torto
non sta dalla sua parte e rimane convinto di essere (relativamente a lui) nel giusto.
IL DECADIMENTO MORALE DELLA SOCIETA’
ODIERNA O L’UMANITA’ NUOVA
Ecco finalmente l’argomento più spinoso, agognato, ed opinabile di questo mio compendio. Potrei
scrivere in proposito un’infuocata invettiva, ma quando si parla di filosofia ritengo che usare toni
aspri non sia molto costruttivo. Però voglio ugualmente dire le cose come stanno secondo le mie
considerazioni.
Questo capitolo è chiamato anche “l’umanità nuova” perché l’uomo che è uscito dal Novecento è
senza dubbio diverso da quello che vi è entrato. La specie umana ha mutato la sua vita più in
cent’anni che in millenovecento. E adesso voglio vedere quanto l’uomo nuovo, homo novus, è
cambiato. Storicamente ne sono successe di tutti i colori, due guerre mondiali, totalitarismi falliti,
stermini, terrorismo, conflitti d’ogni genere. Se il secondo millennio si è chiuso con i massacri in
Kosovo e le guerriglie tribali africane, non va certo meglio con il terzo, che è stato inaugurato dalla
strage di Novi Ligure e dagli attentati terroristici di New York. Allegria, il buongiorno si vede dal
mattino. Ma al di là di fattori storici, ci sono novità rilevanti nella vita, nel pensiero, e nell’agire
della gente.
Già a metà del diciannovesimo secolo il danese Søren Aabye Kierkegaard (che reputo il più grande
ed onesto filosofo dopo Sant’Agostino) criticava la cristianità di aver abbandonato il Cristianesimo,
mentre all’inizio del ventesimo Nietzsche, osservando lo stesso fenomeno, esclamava “Dio è
morto!” (nel senso che è stato abbandonato dall’uomo ed è come se fosse morto). Ed hanno ragione,
questo fenomeno io lo riscontro perfettamente anche nel mondo attuale. Ci sono diversi punti da
analizzare riguardo alla pessima società di questi tempi, di cui portavoce e frutto marcio sono i
giovani. Si, il frutto marcio ne sono proprio i giovani. Al momento in cui scrivo queste righe ho
diciott’anni… e sono un antigiovanilista convinto ed irriducibile. Non sembra un controsenso? Per
me no, ma arriverò a parlarne. Innanzitutto voglio qui riportare alcuni appunti personali, li ho scritti
mentre, in macchina con le mie compagne, andavamo a svolgere attività scolastiche di cineforum, e
sono riflessioni su di esse:
“Pura superficialità; il mondo esteriore, il dentro che si esterna al fuori perché il dentro è vuoto, e
il fuori si omologa a tutto, un’apparente omogeneità di esistenze. L’Io soggettivo annullato dall’Io
collettivo, sembra che l’individualità sia diventata inesistente, sostituita dalla massificazione e
collettivizzazione delle personalità. Ma la vacuità dell’interiore genera sofferenza, che si esplica in
aggressività, psicosi, esaurimento, depressione, nevrosi, e malattie psico-neurologiche. E tutto
conduce ad un insensato circolo di vuoto e sofferenza, l’umano non esiste più, è l’assurdo, il
paranoico, il rifiuto dell’umanità verso le sue peculiarità. Solo la fede potrebbe risollevare questa
situazione e salvare, ma essa è respinta perché troppo seria ed impegnativa per un simile mondo
montato sulla pura esteriorità. E’ l’inferno in terra.”
Dette così queste parole sembrano prive di senso, ma riconducono a ben precise riflessioni e
concetti preesistenti nella mia testa. L’homo novus ha perso la sua interiorità. La gente di oggi vive
in modo puramente esteriore, assorbita com’è dai mille impegni quotidiani. Non si ragiona più, si fa
tutto come per azione riflessa, automatismo, non si pensa seriamente più a nulla. Anzi, si “pensa”
ma non si cogita. Come zombie ambulanti, fantasmi, spettri di sé stessi che vivono ed agiscono
senza sapere perché è senza domandarsi alcun perché. A questo mi riferisco quando parlo di dentro
vuoto che si esterna al fuori, ovvero gli uomini d’oggi sono involucri che non contengono nulla,
tutto quello che dovrebbero avere dentro è inesistente e si riduce alla loro apparenza esteriore,
perché esiste solo l’aspetto esteriore (attenzione, come esteriore non intendo il fisico, ma gli
atteggiamenti, i modi di “pensare”, di vivere, di essere, e di fare che vengono espressi). Ma ciò che
sconvolge maggiormente è il fatto che tutte queste esteriorità si somigliano perfettamente. E’ come
se si avesse tutti la stessa personalità, l’essere funzionante è la massa, non più il singolo. L’uomo di
oggi sembra programmato in serie, creato in fabbrica. Questo mi pare il più profondo abisso nel
quale è precipitata la dignità dell’uomo. Perché è oramai innegabile che i giovani (sto
generalizzando è ovvio, ma non potrebbe essere altrimenti) fanno tutti le stesse cose, quelle poche
idee che hanno le tengono in comune, e quando sono insieme formano una cieca massa irrazionale
senza testa né coda. E’, per usare un’espressione molto azzardata, comunismo esistenziale. Dentro, i
valori sono ridotti al minimo, la serietà non la si trova più, regna il nichilismo. Ci stiamo molto
avvicinando all’Oltreuomo nietzschiano, e temo che progressivamente ci si arriverà. Quell’essere
che va oltre la morale e l’etica, vive il mondo con i suoi peggiori vizi distruggendo financo la
religione, assetato della “volontà di potenza”, che secondo Nietzsche realizzerà la libertà
dell’uomo… è più vicino di quanto non lo si creda. Personalmente, dopo attenta meditazione, sono
arrivato alla conclusione di potermi liberamente e scherzosamente definire (agli amici la racconto
come una barzelletta, ma riflettendoci è vero) come l’Anti-Oltreuomo. Perché, mentre esso è quello
che ho appena scritto, io sono un fustigatore dei costumi, un reintegratore dei più sani valori in
rigida austerità anche a costo di riprecipitare nel Medioevo, un fautore del "viver tutto per Dio ed in
funzione di Dio". Una cosa ci accomuna: siamo entrambi anticonformisti, anche se in senso
completamente opposto. L'Oltreuomo (e quindi Nietzsche il quale secondo me era egli stesso una
specie di Oltreuomo vivente) agisce in maniera decisamente amorale; io non mi conformo ai miei
simili perchè invece sono troppo moralista fino al punto di preferire l'isolamento in Dio piuttosto
che la cattiva compagnia delle persone più scostumate e superficiali di questa società.
Il punto è questo, la gente non ha più la propria spiritualità e mira solo alla soddisfazione dei sensi e
dei vizi, tutti portando avanti un’inverosimile uniformità di comportamenti. E che ruolo hanno in
questo brutto gioco i mass-media (specialmente la televisione)? Quello dei colpevoli assoluti e più
diretti responsabili. Hanno causato una globalizzazione culturale (e in questo caso come cultura non
intendo il sapere ma tutto un modo di vivere) che ha proposto una materialità sfrenata, facile e
piacevole, la quale lusinga ed attira la stragrande maggioranza degli uomini ed in particolare
proprio dei giovani che in quest’epoca ci sono nati, portando sempre meno a riflettere sulle
grandezze dello spirito. In TV uomini e donne si baciano e si scambiano piaceri sessuali come fosse
nulla? Bene, ai giovani piace, ed essi corrono dietro a questi esempi. Le vallette dei varietà sono
seminude? E perché no? E le pecore copiano tutto. Le parole più frequenti nelle pubblicità sono “la
tentazione… il piacere…” come se fossero valori da esaltare questi invece che aspetti della carne da
fustigare e crocifiggere. E quando chiedo se ciò è giusto o sbagliato, ecco le risposte che mi
arrivano: “Fregatene, siamo nel duemila”. Come se essere nel duemila volesse dire libertinaggio
assoluto e crepuscolo della moralità, come se il terzo millennio e quindi la modernità sia terreno
fertile per la depravazione. Quando provo a discutere di Dio o di cultura? “Ma sei pazzo a parlare di
queste cose?” Ecco cos’è la società di questi tempi. Un giorno regnerà l’immondizia e ciò che è
sano si troverà nelle discariche. Tutto è vuoto, la gente, quando vuole cercare un significato, lo
trova nell’aspetto più materiale possibile. Intanto sono convinto che la feroce aggressività che va
manifestandosi sempre di più sia originata da questo. E’ oramai noto che la spirale di violenza si sta
allargando come non mai nei tempi passati. E se ne sentono di tutti colori in quanto alle cause,
mucca pazza, sostanze strane negli alimenti, inquinamento dell’aria, radiazioni che mutano il
DNA… corbellerie! Tutto viene dall’eccessivo benessere. Questo causa il rialzo dei bisogni
(tendenti verso il lusso e la vanità), e ciò crea quel corrotto soddisfacimento dei vizi che costituisce
l’esteriore dell’uomo che distrugge l’interiore (l’uomo è così impegnato a soddisfare vizi e desideri
che non si rende conto della sua componente spirituale), è la morte dell’anima. E, come dicevo
prima, questo vuoto e questo continuo affaticarsi per cose che realmente sono inutili genera
sofferenza che si sfoga mediante aggressività, e derivano le crisi di nervi, depressione (procurata dal
mancato soddisfacimento materiale), e molti sintomi che sono pienamente visibili nei giovani. Tutte
vanità, perché una persona realmente cosciente sa che queste sono inezie e mira all’edificazione del
proprio spirito e della propria anima. Quello che cerco di fare io, e che mi attira addosso il disprezzo
generale (mi lascia indifferente, anche Cristo era bistrattato). La ricerca del divertimento a tutti i
costi non è che un apparente e fallito mezzo per colmare il vuoto interiore. Il divertimento a che
serve? Da qualcosa? Puro piacere momentaneo, all’istante che cessa si è più tristi di prima e si cerca
un nuovo divertimento per distrarsi dalla sofferenza. Come lo stadio estetico di Kierkegaard, è la
stessa cosa (solo che qui è personificato dal Don Giovanni). Ma mentre lo stadio estetico
kierkegaardiano viene superato da quello etico e da quello religioso, io non vedo completamente via
d’uscita. Mi evoca l’immagine di un tossicodipendente: egli fugge dal suo vuoto interiore con la
droga, si narcotizza creandosi un mondo fantastico e allontanandosi dalla realtà… ma quando
l’effetto della droga cessa si ritrova solo, disperato ed emarginato. Allora, per non avvertire la
tristezza di questa situazione, si droga di nuovo, e così continua, non sapendo che pian piano
distrugge sé stesso. Coloro che vivono del momento, trascorrendo la loro esistenza in vacui
divertimenti, sono come lui. Uccidono la vita spirituale che è in loro, quel “germe di Dio” che gli è
stato donato per conquistarsi la pace ultraterrena. Sono sicuro che ad essi il Salmista ha dedicato le
parole: “Come pecore sono avviati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio
nel sepolcro, svanirà ogni loro parvenza: gli inferi saranno la loro dimora. […] Andrà con la
generazione dei suoi padri che non vedranno mai più la luce.” (Sal 48.15, 20). Ed è per questo che
io fuggo i miei coetanei come la peste… m’innervosisco alla presenza di persone troppo
spensierate, perché la spensieratezza è sintomo di superficialità e mancanza di serietà.
L’uomo è già di per sé peccatore, gli mancava solo lo spunto per completare la propria già critica
situazione con l’abbandono della vita spirituale. L’uomo scappa da Dio perché ha paura della verità,
preferisce rifugiarsi nelle illusioni esteriori che gli consentono la vita incosciente che desidera,
piena di brame e distrazioni che lo tengono occupato quanto basta per poter non ascoltare la voce
della verità che lo chiama. E’ il fondo.
Il mondo ha bisogno di razionalità! E questa vita esteriore è pura follia. La vera vita è quella che si
conduce dentro, il resto non ha significato importante. Essere vuoti dentro e appariscenti fuori è
un’irrazionalità ed un’incoerenza che spedisce direttamente al baratro.
Ho parlato già abbastanza, mi rimane da dire solo che non vedo i benché minimi presupposti per
poter sperare in un futuro migliore.
OTTIMISMO E PESSIMISMO
Questo capitolo è da considerarsi una somma definitiva di quanto detto prima ed un continuare
concetti ancora inespressi del tutto. Posso suddividere i sommi capi del mio pensiero in due ali
estremamente opposte ma vicendevolmente complementari:
• Ottimismo esistenziale
• Pessimismo sociale.
Ottimismo indubitabile perché sono credente. Dio è tutto, ciò che conta. Dio è all’origine di tutto,
tutto da Lui deriva e in Lui finirà. Infatti mi rifiuto di immaginare che il creato venga fuori da una
casuale evoluzione, che l’universo intero sia spuntato da un “uovo cosmico” esploso… troppo
fantasioso. Se questi eventi si sono verificati, allora sotto la guida di Dio. Lo spirito mai e poi mai
può derivare dalla materia, è notevolmente superiore ad essa, ed è inconfutabile che noi uomini
siamo spirito (se come spirito vengono intese quelle funzioni di ragionare e saper agire
indipendentemente dagli stimoli ambientali, e provare sentimenti) per metà. E Dio è essenzialmente
amore. Ce l’ha rivelato coi misteri dell’Incarnazione, Passione e Risurrezione. Se un ateo mi viene a
chiedere perché credo o se sono sicuro che la mia è la religione giusta (e mi è capitato più volte), gli
rispondo che certe cose si sentono dentro. Se non si sentono non si possono capire, quindi è banale
la fede di chi scimmiotta un cristianesimo esteriore solo perché è stato educato così o perché i suoi
parenti sono soliti fare così. E comunque la religione non è un panno che si prende, si getta, e si
cambia per coprire i vuoti esistenziali dell’uomo come molti razionalisti vogliono far credere, non è
un insieme di norme etiche e civili da rispettare, ma tutto un modo di vivere, un cieco abbandono in
Dio. La fede dev’essere autentica, e le sue manifestazioni sono la Vita interiore (in questo caso
intesa come preghiera) e l’esempio che si da. Ma il peccato è inevitabile. Siamo uomini, purtroppo
contaminati dalla componente corporale, la caduta è sostanzialmente d’obbligo. E la misericordia
divina va oltre i nostri limiti, li annulla.
Basilarmente, Dio ha plasmato l’uomo, ma non l’uomo per l’uomo. L’uomo per Dio. Il creato per
l’uomo, e l’uomo per Dio. Tutto ha un fine (giudizio teleologico kantiano), ed il fine di tutto tende
inequivocabilmente a Dio. Ergo, se tutto esiste, esiste per Dio, per essere oggetto
dell’incommensurabile amore divino. Quanto è bello e dolce vivere con questi presupposti. Essi
sono fonte di quella gioia di vivere che accompagna ogni credente (a patto che questa gioia non si
manifesti con irrazionali fenomeni di esuberanza e superficialità). La ragione, il sentimento, l’arte,
il sogno, sono come arredi interni di questo nostro mondo, come la storia, il diritto, il tempo, la
scienza, ne sono gli utili accessori. Tutto quindi è finalizzato al rapporto uomo-Dio, il quale, come
dice il caro Kierkegaard, è la realizzazione più completa dell’uomo.
Ma un momento… se tutto è finalizzato per Dio, allora tutto esiste in funzione di Dio. Persino il
male è permesso perché termina con l’esaurirsi in bene. Spesso l’uomo però si nega il rapporto con
Dio. Nulla di più torbido ed oscuro… l’uomo che abbandona Dio per coltivare i suoi vizi e seguire
le sue illusioni. E l’uomo di cui ho parlato precedentemente è proprio questo. La specie umana,
grazie al libero arbitrio, si trova davanti un bivio, una scelta radicale, un “aut-aut” per dirla alla
maniera di Kierkegaard. Ci sono due vie: la via dell’anima e la via della materia. La prima, tortuosa
e sofferta, consente lo sviluppo spirituale dell’uomo e conduce al trionfo sicuro. L’altra, unta di
piaceri, facile a percorrerla, porta direttamente all’annichilimento e all’annientamento spirituale.
Qualcuno, contrastando con me, ha tentato di ipotizzare una via di mezzo (che identifico con la
cristianità odierna, ovvero vive secondo vizi ma si fregia di questo nome in tutta comodità e
tranquillità di coscienza)… la risposta la prendo dalla stessa parola di Dio: “Conosco le tue opere:
tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né
freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.” (Ap 3.15-16). Non esiste una via di mezzo, è
assimilabile a quella della materia. Bene, anzi male, sono pronto ad ammettere che almeno il 90%
degli uomini occidentali scelgono la seconda strada.
L’uomo è essenzialmente egoista. Nonostante il sacrifico dell’Agnello di Dio nulla è cambiato nella
natura umana, eccetto quel numero ristretto di persone elevate alla santità (o almeno chi ci ha
provato), non alla santità ufficiale, ma alla santità di vita. Io ci tento… e finora mi sono dimostrato
un fallimento. L’importante è partecipare, ma partecipare seriamente. La natura carnale dell’uomo,
riconducibile anche a quella degli animali, spinge verso questo egoismo. Eppure Lucifero, che era
puro spirito, ci è caduto. Infatti la radice di tutti i mali è la superbia. Questa dannata superbia che
porta alla bramosia, quindi ai dissenzi ed alle insensate guerre. Se si pensasse al benessere
dell’anima più che a quello del corpo tali problemi non si porrebbero. Ma l’umanità, cieca e ferma
alla materia non ci pensa, “è come gli animali che periscono” (Sal 48). In questa sfiducia nell’uomo
sta il mio pessimismo sociale, oramai ho imparato a confidare solo in Dio ed a essere abbastanza
disilluso, a riconoscere le utopie dalla realtà e dalla possibile realtà, spesso le possibili realtà sono
solo utopie sognanti. O almeno, saranno realmente possibili, ma conoscendo la natura dell’uomo
non saranno mai realizzabili. Che venga quanto prima la fine del mondo, almeno le cose si
risolveranno in u modo o nell’altro.
ELOGIO DELLA FILOSOFIA
Incomincio da qui a concludere il mio compendio filosofico, proprio esaltando questa somma
disciplina fonte di un vastissimo sapere.
Ho già accennato qualcosa all’inizio, e ripeto che le due laconiche definizioni di “filosofia” che
ammetto sono quella etimologica “amore per il sapere” e la mia “scientia omnia”. Ma non basta. Ho
da dire qualcosa in più.
Innanzitutto ho avuto quest'impressione: per essere filosofi non c'è bisogno della laurea (io
comunque per non peccare di presunzione mi definisco semplicemente "libero pensatore"). Fin da
subito ho intuito l'effetto nobilitante ed elevante della filosofia, anche se ne ho preso pienamente
coscienza a mano a mano che lo studio proseguiva. Secondo me la filosofia è inseparabile da una
forma di vita razionale ed autocosciente, chi dice "prima vivere e poi filosofare" di certo fatto fu a
viver come bruto, io trasformo questo detto in "filosofare per vivere", perchè la vera vita è quella
dello spirito, anima e ragione, la superiorità umana sul resto del creato è dettata dal possesso oltre
che di un'anima anche di una mente pensante, i cui frutti sono logica, scienza, tecnica, e filosofia.
Ma quest'ultima è la più nobile, perchè, mentre scienza e tecnica si limitano alla sfera
dell'immanente, e la logica è uno strumento di queste due, la filosofia aleggia con leggerezza su
immanente e trascendente. Ma a che serve di preciso?
La filosofia... serve a crearsi una propria interiorità, delle proprie idee; serve per fornirsi di una
concezione sulla vita stessa e su tutto ciò che esiste. E, per gli atei, potrebbe anche servire a
rispondere ai grandi "perchè" che assillano la mente di ogni persona che possa essere definita
razionale. Senza filosofia la vita si limita alla mera materialità, niente avrebbe un senso. Per i
cattolici come me o chiunque creda in Dio la filosofia può servire ad estendere le proprie
concezioni, ad elevare la propria mente sopra il guazzabuglio degli eventi materiali e poter guardare
contemporaneamente in alto per vedere Dio e in basso per osservare il mondo. Come in Marsilio
Ficino l'anima è "copula mundi", la metà strada tra la materia e lo spirito, secondo me la filosofia
alza l'uomo al di sopra della vita quotidiana pur tenendolo più in basso ed a rispettosa distanza da
Dio quanto basta per poterLo contemplare meglio. Faccio un esempio pratico per chiarirmi. Dalla
terra che posso vedere? Il cielo; di quello che mi sta attorno ho soltanto una visuale limitata seppur
vicina. Quando sono in volo su un aereo, invece, alzando lo sguardo attraverso il finestrino posso
ammirare la sterminata bellezza del cielo, e per giunta meglio di quando lo vedo normalmente;
abbassando gli occhi invece ho la possibilità di osservare la terra come non l’ho mai vista: mentre
dallo stesso piano noto solo ciò che mi è immediatamente più vicino, dall’alto ho la visuale
completa di miglia e miglia di territorio. Così posso paragonare la filosofia ad un aereo che mi tiene
a metà tra la terra e il cielo (il mondo e Dio) permettendomi di contemplare e capire meglio
entrambi, oppure una torre, dalla quale ottengo lo stesso risultato. Se sono a terra e scoppia un
temporale (simbolo di problemi in generale) vedo solo pioggia e nuvole (poi se c’è la nebbia…),
prendendo l’aereo della filosofia posso dire dall’alto, al di sopra del temporale stesso, la sua
effettiva estensione e pericolosità, e rassicurarmi se è il caso, o prepararmi in tempo al peggio. Ma
non posso interferire col temporale, posso solo conoscere la sua entità senza potermi poi difendere.
Per quello ci vuole la fede, la sicurezza in Dio, solo la casa fondata sulla roccia resta salda dinanzi
alla furia della tempesta (cfr. Mt 7.25).
La filosofia non implica affatto, come molti suppongono, l'ateismo, anzi arricchisce la propria fede
con concezioni puramente personali su tutto e dando largo spazio per non cadere nell'eresia.
La filosofia è il succo della vita.
Ma come ho già detto, guai ad affidarsi soltanto ad essa, perché è limitata, si deve supportare con la
spiritualità per renderla perfetta e piena. Se no è pensiero morto.
CONCLUSIONE
Argomento per me fondamentale ma ancora volutamente non chiuso è il rapporto tra fede e ragione
(ragione intesa come ragione stessa e cultura, sapere). Ho avuto il piacere di tenermelo fin qui
proprio per la sua importanza e per la grande connessione che c’è tra la mia vita e il mio pensiero su
questo punto. Tutto è esplicato in quello stemma che tempo fa mi sono fatto per autoironia (ma con
sincerità), e per esprimere meglio i miei concetti, lo riporterò qui spiegando al dettaglio tutti i
simboli. In questa Conclusione parlerò di me più di quanto abbia fatto finora, questo è il motivo
principale della sua posizione. Nell’Epilogo che la seguirà invece discuterò di me in rapporto a
questo compendio.
Ecco lo “stemma” (l’autoironia consiste nel fatto che sono disprezzato da molti per l’amore che
porto alla cultura e a Dio, ed io per autobeffarmi un po’ e fare sorridere questi anticulturali senza
inimicarmeli ho realizzato il concetto graficamente)
ed eccone chiariti i simbolismi:
• Il nome: In stile ALGERIAN (è più solenne) è riportato il mio nome completo (R. sta per
Raffaele, secondo nome ereditato dal nonno). La croce che c’è davanti non indica alcun
titolo ecclesiastico né onorifico, sta solo per “servo di Dio”.
• L’ovale azzurro: L’ovale anticamente indicava l’universo, la totalità. In questo caso indica il
mio universo personale, ciò è parzialmente riconoscibile dal color cielo. E questo colore
lascia trasparire sia il concetto di questo universo, sia l’amore verso il cielo e verso la
natura.
• Il cartoccio: Riporta la frase latina “Cogito ergo sum”, che per me ha un valore che si
distacca un po’ dal senso originale di Cartesio. Penso dunque sono. Ma il cogito non
comprende la semplice azione meditativa del pensiero. Il cogito è l’interazione tra pensare e
il sapere. A molti è parso il caso di definirmi “arca di scienza”, cosa che credo di non
meritare affatto perché lo scibile umano è qualcosa di troppo grande rispetto a quel
minimissimo che io conosco. In realtà è così: quelle conoscenze che acquisisco non le lascio
a marcire e ristagnare nella mia mente. Questo è nozionismo, non cultura. Io cerco di creare
una continua interazione tra quello che vivo, quello che penso, e quello che so. Qualunque
cosa mi capiti, in qualunque posto io sia, e qualunque cosa stia facendo, io osservo (ciò che
mi sta attorno), penso (rifletto su ciò che osservo) e confronto (attingo alla mia riserva
conoscitiva paragonando ciò che osservo e penso a ciò che già conosco facendo emergere
legami e connessioni mai prima da me scoperte, ed applicando ciò che conosco a ciò che
•
vedo e che penso), in una continua attività cerebrale. Questa, secondo me, è la vera essenza
del cogito. Questa è la cultura. Certo… i periodi di stanchezza ed apatia ci sono e per di più
frequenti, ma è inevitabile.
• Lo scudo: Deformato ai lati, e con all’interno i margini marroncini-grigi, è il nucleo dello
stemma. Le sue irregolarità danno, molto alla lontana, l’impressione dello spaccato di una
valle (riferimento a quella “valle di lacrime” che è il mondo, come è mia concezione). Lo
sfondo bianco indica un desiderio di purezza.
• Il cervello e la croce: Ecco gli elementi fondamentali, posti nello scudo. Do una doppia
interpretazione a questa immagine:
1. Un cervello sormontato da una croce: la ragione umana, il sapere e la cultura umani,
posti al servizio di Dio ed inchinati alla Sua supremazia assoluta. La ragione, in quanto
imperfetta, deve piegarsi e sottomettersi alla potenza della fede, e coadiuvare con essa
alla realizzazione totale della vita dell’uomo. L’uomo si realizza in Dio, ma il sapere e la
filosofia lo elevano e nobilitano, e se messi ai piedi di Dio raggiungono la loro
perfezione. Il tronco cerebrale sporge dallo scudo per rappresentare l’integrazione tra
ragione (e sapere) con l’universo, mentre la croce è saldamente piantata al vertice della
“valle di lacrime”.
2. Un cervello trafitto da una croce: la parte di croce che emerge sotto il cervello sembra
spuntare da una trafittura. Significa che la superbia di chi confida solo nella ragione
(come gli atei ed in particolare il filosofo Hegel) sarà ferita dalla luminosa ed eterna,
umile sapienza della croce (di Dio, di quel Dio che si è incarnato ed umiliato fino
all’incredibile per la salvezza dell’uomo).
Il motto: Il mio motto personale, coniato da me stesso e riportato anche nella primissima
pagina, quella precedente all’indice. Analizzato, è ovvio dividerlo in tre frasi:
1. Nel mio pensiero il mio braccio: esprime il mio allontanamento dalla corporeità, il mio
disprezzo per la materia. Mio braccio non è quello fisico, ma il mio pensiero. Qualunque
cosa debbo fare, do scarso affidamento alla fisicità ma la risolvo più intellettualmente
possibile, io agisco più col cervello che con il corpo (per quanto mi è possibile).
2. Nella preghiera la mia forza: anche quando agisco intellettualmente, diffido delle mie
stesse forze, fragili, scarse, e corrotte dall’umana natura. Mio nutrimento dev’essere la
preghiera, richiesta di aiuto, forza, e sapienza all’Altissimo. Che sicuramente non mi
deluderà. Tutte quelle qualità che mi sono attribuite non sono mie, ma di Colui che me le
ha donate. Questo stesso compendio non saprei nemmeno immaginarlo se non chiedessi
la luce di sapienza a Chi mi ha plasmato, e rinnovassi sempre la richiesta di aiuto. A Lui
gloria, lode ed onore sempre, i miei trionfi sono suoi, poiché suo è il merito, mia al
massimo sarà la colpa dei fallimenti dati dalla mia umana debolezza e suscettibilità al
peccato.
3. In Dio la mia rocca: qualunque cosa faccia io cerco di essere sempre con Lui e
saldamente ancorato in Lui. E finché lo sono nulla mi potrà turbare, poiché ripongo in
Dio tutta la mia sicurezza e le mie certezze, affidandomi ciecamente e fedelmente al suo
amore, certo che non potrà mai tradirmi.
Non ho voluto rinunciare a inserirlo, ad anche se esteticamente sta male, l’ho agganciato all’ovale
come commento conclusivo e sommario. Infatti riassume brevemente il senso di tutto il resto.
Questo comprende complessivamente la mia filosofia di vita.
EPILOGO
In questa parte chiarirò il mio atteggiamento espresso in tutto il compendio filosofico, poiché spesso
varia.
Come ho già espresso precedentemente, io sono in parte un relativista, e do per scontato che qui è
espresso unicamente il mio personalissimo punto di vista. Quindi… niente verità assolute. Non
voglio essere preso per presuntuoso o superbo perché, ripeto, qui si trova solo il mio modo di
pensare. Se critico qualche filosofo non dico che abbia torto definitivo, ma gli sovrappongo,
confrontandolo, il mio pensiero. E questo sarà argomento principale, se la scriverò, di una “Critica
Filosofica” nella quale voglio cercare di rapportarmi ad ognuno dei grandi filosofi (anche se
ovviamente io non lo sono), evidenziando differenze o comunanze, apprezzamenti o diverbi. Ma
ancora resta solo un’idea e forse rimarrà irrealizzata.
Sarà sicuramente notato come, mentre a volte mi accomuno al lettore (se qualcheduno ve ne sarà)
dando del “noi”, altre parlo in terza persona con un distaccato “essi”. Ma tutto è disposto come se
mi trovassi di fronte ad un interlocutore. Ciò è voluto. Perché, mentre in alcune situazioni, per poter
parlare devo trovarmi sulla stessa base degli altri (siamo pur tutti esseri umani), altrove devo
necessariamente distaccarmi e parlare come un esterno che osserva qualcosa, oppure perché in tali
situazioni assumo realmente atteggiamenti diversi. Idem quando parlo con le idee dei filosofi, le
seguo finché concordo ma mi allontano e segno la differenza quando non mi ritrovo in quelle
conclusioni.
Riguardo la critica sociale presente in alcune parti (XIII e XIX specialmente) devo per necessità
generalizzare perché sarebbe troppo dispendioso e ripetitivo dire sempre “alcuni… la maggior
parte…” etc). Ma nessuno scambi per acredine la freddezza con cui considero certe cose… non è
possibile non prendere posizioni glaciali in tal proposito.
Mi scuso per eventuali incomprensioni, equivoci, o errori d’interpretazione, e termino qui questo
mio primo grande (e forse unico grande), e tanto sudato lavoro.
Mi riservo in qualsiasi momento il diritto d’intervenire sul testo modificando, aggiungendo, ed
eliminando qualcosa. Spesso il pensiero è soggetto a variazioni col passare del tempo.
Dato a Palermo, 1 agosto 2001 – 24 febbraio 2002.
Claudio R. Mancino.