Relazione 15 dicembre 2006 – allegato 1 Roberta Metafora La fase decisoria del processo commerciale di cognizione1. SOMMARIO: 1.- Premessa. 2. - La decisione delle questioni pregiudiziali e preliminari. 3.- La c.d. sentenza contestuale. 4.- La sentenza con motivazione abbreviata. 5.- L’applicabilità degli artt. 186 bis, ter e quater c.p.c. al rito societario. 1.- Premessa. Se il carattere più innovativo del nuovo processo societario consiste nella scissione in due fasi, l’una preparatoria, riservata al monopolio delle parti, l’altra, istruttoria e decisoria, caratterizzata dall’intervento del giudice, nondimeno, la fase decisoria, sulla quale l’attenzione degli interpreti è stata minore, presenta elementi di particolare interesse anche per la loro valenza sistematica. In particolare, rispetto alla fase decisionale del processo ordinario prevista dal codice di rito, tre sono le innovazioni apportate dal legislatore delegato del 2003: a)- la possibilità di decisione immediata su questioni pregiudiziali e preliminari, nel caso in cui le parti abbiano proposto istanza congiunta di fissazione dell’udienza (art. 11); b)- l’estensione alle controversie societarie del modello di sentenza a verbale di cui all’art. 281 sexies c.p.c.; c)- la possibilità per il collegio di ricorrere alla c.d. motivazione in forma abbreviata, sulla falsariga del processo amministrativo. Oggetto del presente studio sarà l’esame di ciascuna delle citate innovazioni, nonché della questione attinente alla possibilità di chiedere ed ottenere la pronuncia nell’ambito del rito societario delle ordinanze decisorie di cui agli artt. 186 bis e seguenti c.p.c., problema cui saranno dedicati brevi cenni al termine di questo lavoro. 2. - La decisione delle questioni pregiudiziali e preliminari. 2.1.- L’art. 11 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 stabilisce che le parti possono presentare istanza congiunta per ottenere la decisione di questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito (ovvero relative all’integrità del contraddittorio, alla partecipazione di terzi al processo o all’ammissibilità di prove)[1]. Nel rito societario, se il collegio ritiene non impediente la questione (i.e. non capace di definire il giudizio), pronuncia ordinanza non impugnabile, a differenza di quanto accade nel rito ordinario, ove è generalmente prevista la pronuncia di una sentenza non definitiva. La disposizione in esame pone una serie di problemi di coordinamento sia con le norme previste dal codice di procedura civile per il rito ordinario, sia con la stessa disciplina concernente il processo societario. L’esame di siffatti problemi presuppone di non considerare allo stato prospettabile la questione di legittimità costituzionale della norma, per eccesso di delega; il legislatore delegato, infatti, prevedendo l’adozione dell’ordinanza non impugnabile in luogo della sentenza non avrebbe rispettato i principi e i canoni direttivi della legge delega, la quale poneva come tertium comparationis il processo ordinario di cognizione di cui al libro II del c.p.c.[2]. Tali dubbi di legittimità, del resto, sono stati considerati infondati da autorevole dottrina, la quale ha affermato che la legge delega, «nell’affidare al legislatore delegato il compito di emanare “nuove norme” dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione dei procedimenti in determinate materie, ha sì stabilito che tali norme dovessero prevedere la “concentrazione dei procedimenti” e la “riduzione dei 1 * Testo della relazione tenuta a Napoli l’1 febbraio 2006, nell’ambito dei «Seminari sul processo societario» organizzati dall’Università degli Studi di Napoli “Federico II” – cattedra di Diritto processuale civile II – in collaborazione con l’Ufficio Referenti per la formazione decentrata della Corte d’Appello di Napoli del Consiglio Superiore della Magistratura. Il presente intervento è stato tratto dal sito http://www.judicium.it/news_file/news_glo.html termini processuali”[3], … ma non ha imposto alcun vincolo al legislatore delegato che lo astringesse allo schema e all’ideologia del codice del 1940»[4]. 2.2.- Come si è appena accennato, il legislatore prevede la forma dell’ordinanza non impugnabile, in luogo della sentenza non definitiva. Invero, il sistema dell’adozione della sentenza non definitiva per la risoluzione delle questioni di rito e preliminari di merito, se da un lato presenta il notevole pregio di consentire che il provvedimento del giudice non sia più revocabile nel corso del processo e, dunque, la questione non possa essere nuovamente decisa (con un notevole vantaggio in termini di economia processuale e di celerità del giudizio), dall’altro lato dà luogo ad alcuni inconvenienti, in quanto la sua adozione determina un frazionamento della decisione; inoltre, controversa è la stessa nozione di sentenza non definitiva, contrapponendosi sul punto la tesi così detta sostanzialistica, a tenore della quale è il mero fatto che la pronuncia venga ad esaurire l’intero rapporto giuridico processuale relativo alla domanda, indipendentemente dall’opposta qualifica impressale dal giudice, ad imporre la qualifica della medesima come sentenza definitiva, a quella formalistica, secondo cui l’attributo della definitività richiederebbe che il giudice abbia pronunciato un formale provvedimento di separazione delle cause[5]. Imponendo al collegio di decidere la questione (valutata in senso non impediente) con ordinanza si evita il frazionamento del processo; inoltre, viene sicuramente alleggerita l’attività redazionale del collegio, che non è costretto a pronunciare un provvedimento avente i caratteri di complessità tipici della sentenza. L’adozione da parte del legislatore del 2003 dell’ordinanza in luogo della sentenza per la decisione delle questioni preliminari e pregiudiziali costituisce una novità per il nostro ordinamento[6]. Si impone perciò all’interprete di esaminare funditus i caratteri di siffatto provvedimento. Esso, per effetto dei mutamenti apportati all’art. 11 a opera dell’avviso di modifica del 9 settembre 2003, è definito come non impugnabile e dunque irrevocabile. Bisogna però intendersi sulle caratteristiche di tale irrevocabilità, non essendo chiaro se il collegio che l’ha pronunciata possa ritornare sui suoi passi in sede di decisione o se, invece, l’ordinanza debba ritenersi assolutamente irrevocabile, con la conseguenza che la parte che si è vista respingere la relativa eccezione possa riproporla solo con l’appello contro la sentenza definitiva ove sia risultato soccombente anche nel merito. La dottrina, invero, non ha dedicato molta attenzione al tema: esso è stato “liquidato” in poche battute, sostenendosi che al collegio è inibito il potere di incidere sul provvedimento in precedenza pronunciato, dato che, con la pronuncia dell’ordinanza, il tribunale si spoglia del potere di decidere la questione che ne forma oggetto[7]. Quest’indirizzo si colloca nel solco dell’opinione maggioritaria che da sempre ritiene che oggetto del controllo collegiale possano essere solo le ordinanze non irrevocabili[8]; l’eventuale vizio del provvedimento potrà dunque trovare adeguata riparazione solo attraverso l’impugnazione della sentenza che chiude il processo[9]. Di certo, a sostegno di questa posizione può addursi la considerazione che, normalmente, se il legislatore sceglie di qualificare un’ordinanza come non impugnabile è perché egli intende soddisfare esigenze di certezza, ritenendole prevalenti rispetto a quelle di corretta attuazione del diritto e della giustizia; per perseguire tale scopo, occorre impedire non solo alle parti (tramite l’esperimento dei mezzi di controllo), ma anche al giudice (mediante il potere di revoca) di poter incidere su di esso[10]. Indubbiamente, ritenere che l’ordinanza che decide in senso non ostativo sulle questioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito sia assolutamente irrevocabile, permette di porre un punto fermo sulla questione; tuttavia, mi sembra che in tal modo si finisca per togliere al collegio «la libertà di valutazione complessiva e quella visione unitaria di tutte le questioni attinenti alla stessa causa, senza la quale il giudicante perde il contatto con la realtà umana e sociale della sua funzione»[11]. Peraltro, così ragionando, diviene labile il confine tra la sentenza e l’ordinanza. Come è stato autorevolmente affermato, prevedere la forma dell’ordinanza per la risoluzione delle questioni insorte all’interno del processo significa rompere il delicato equilibrio creato dall’attuale codice di rito[12]. Sarebbe stato allora preferibile imporre al collegio di provvedere con sentenza non impugnabile o, ancora meglio, ritornare al sistema delineato dal legislatore del 1940, imponendo al collegio la pronuncia di una sentenza non definitiva non immediatamente impugnabile nel caso in cui intenda decidere in senso non ostativo una questione pregiudiziale di rito[13] e l’adozione della ordinanza, revocabile e modificabile, per la risoluzione delle questioni preliminari di merito[14]. Allo stato, però, non si può che prendere atto della scelta operata dal legislatore e della necessità di offrire la soluzione interpretativa che meglio riesca ad armonizzare il dato normativo con il sistema processuale in cui esso si inserisce. Scopo dichiarato del legislatore è quello di evitare l’immediata impugnabilità del provvedimento che decide in senso non impediente le questioni insorte nel corso del processo[15]. Ora, qualificare l’ordinanza come non impugnabile non vuol dire che al collegio sia preclusa la facoltà di riesaminare la questione al momento della decisione, qualora ritenga che il provvedimento emesso in precedenza si ponga in contrasto con la valutazione definitiva. Se si precludesse al collegio la possibilità di rivedere la propria decisione, si finirebbe per negare la distinzione tra sentenza e ordinanza, in aperto contrasto con i consolidati principi che sovrintendono il funzionamento del nostro processo: costituisce infatti opinione indiscussa che, a differenza di quanto accade per le sentenze, non è mai possibile riconnettere all’ordinanza collegiale efficacia di cosa giudicata, né di preclusione[16]; ciò non solo perché essa non è idonea a incidere su situazioni sostanziali rilevanti all’esterno del processo, ma anche perché è incontestabile che la portata dell’ordinanza è limitata al processo nel cui ambito essa si esaurisce. Attribuendo all’ordinanza efficacia preclusiva, invece, si finisce per negare ogni differenza con la sentenza, con grave pregiudizio per la certezza del diritto. Dall’affermazione che l’ordinanza non produce né giudicato, né preclusione deve allora discendere la conseguenza che l’ordinanza non produce alcun vincolo per il giudice, il quale è libero di mutare in fase di decisione la sua precedente risoluzione. Tale affermazione, valida per le ordinanze revocabili, deve ritenersi operante anche per quelle ritenute dalla legge irrevocabili. È stato affermato che «l’irrevocabilità dell’ordinanza non vincola il giudice a decidere la controversia sulla base ideologica del contenuto dell’ordinanza, ma lo vincola solo a rispettarla storicamente, … come provvedimento; libero di risolvere la controversia su altre basi»[17]. Dunque, quando viene accertata l’inesistenza del presupposto su cui l’ordinanza è fondata, essa, sebbene irrevocabile, deve essere accantonata dal collegio, il quale può decidere anche in contrasto con essa[18] [19]. Tale soluzione, oltre ad essere quella più idonea ad assicurare il diritto di difesa delle parti, evita anche la tentazione di ammettere avverso l’ordinanza collegiale l’esperibilità del ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., con il conseguente spreco di tempo e di energie processuali: la revocabilità e la conseguente mancanza dell’attributo della definitività rendono infatti impossibile aprire la strada a tale rimedio[20]. In sintesi, l’eventuale contrasto tra l’ordinanza di risoluzione della questione preliminare o pregiudiziale e la successiva sentenza definitiva di merito deve ritenersi revoca implicita della prima, senza che esso possa dar vita ad un vizio della sentenza per contraddittorietà della motivazione[21]. A conforto di quanto appena osservato, può aggiungersi che da sempre l’attributo della non impugnabilità (e della conseguente irrevocabilità) è stato dal legislatore imposto non in considerazione della necessità di risolvere in maniera definitiva ed incontestabile questioni controverse, ma per permettere al giudice di controllare la legalità del procedimento e certificare l'accordo raggiunto dalle parti[22] o per consentirgli di svolgere il suo compito di direzione del procedimento, come accade per l’ipotesi di mancata comparizione delle parti ex art. 181. 2.3.- Bisogna chiedersi però se questo potere del collegio di revocare (rectius, di tenere in non cale) l’ordinanza dichiarata dalla legge non impugnabile sia subordinato ad un’apposita richiesta di riesame della questione decisa con ordinanza ad opera della parte interessata o se invece, non occorra una esplicita impugnazione della ordinanza davanti al collegio in sede di esame del merito perché imposti la decisione in contrasto con l’ordinanza stessa. Con riferimento al rito ordinario, si sostiene in dottrina che l’istanza di parte è necessaria poiché, in osservanza dei limiti imposti all’art. 112 c.p.c., l’eccezione che la parte non riproponga espressamente al collegio, se respinta dal giudice istruttore, si intende rinunciata[23]. Mi sembra che a tale opinione si possa prestare adesione, soprattutto quando si ponga mente alla struttura del rito societario in cui, ancor più che nel processo ordinario di cognizione, le parti sono libere di determinare il tema della decisione, tramite la rinuncia espressa o tacita delle proprie istanze ed eccezioni. 2.4.- Chiarito in che cosa consiste e come debba intendersi l’attributo di non impugnabilità delle ordinanze disciplinate dall’art. 11, occorre stabilire quale sia il loro ambito di operatività. Invero, la norma in discorso sembra presupporre che la decisione anticipata delle questioni preliminari e pregiudiziali possa avvenire solo su istanza concorde delle parti, così dovendosi escludere la possibilità per una sola delle parti di rimettere al collegio la decisione di una questione di rito o di merito avente carattere preliminare. Dunque, se una delle parti eccepisce l’incompetenza del giudice o la prescrizione della pretesa attorea e l’altra parte non sia d’accordo nell’avanzare istanza di fissazione dell’udienza, la parte interessata non può proporre istanza immediata, ma deve attendere che la causa sia matura per la decisione e avanzare istanza di fissazione dell’udienza ai fini della decisione dell’intera causa[24]. Sennonché, sembra assurdo costringere il convenuto che ha proposto un’eccezione di incompetenza o di prescrizione a dover attendere che la causa sia matura per la decisione[25]. Non mi pare si possa infatti escludere il diritto del convenuto, che abbia prospettato una questione idonea a definire il giudizio, di proporre istanza di fissazione dell’udienza; «se egli eccepisce la decadenza dell’attore dal termine di impugnazione di una delibera, ovvero l’incompetenza del giudice, dal suo punto di vista la causa è già matura per la decisione, senza che sia necessario attendere l’adesione della controparte»[26]. Ma, allora, come deve provvedere il giudice che intenda rigettare l’eccezione, di merito o processuale, proposta dal convenuto con l’istanza di fissazione individuale? Il collegio dovrà pronunciare sulla questione con ordinanza non impugnabile o, invece, dovrà avvalersi della forma della sentenza non definitiva? Al riguardo, sono state prospettate almeno tre diverse tesi. Per alcuni autori, l’art. 11, commi 1 e 2 implica che il giudice deve sempre pronunciare ordinanza quando decide questioni in senso non impediente, sia se l’istanza è proposta congiuntamente, sia se è formulata da una sola parte; nel processo societario non esisterebbe dunque la possibilità di pronunciare sentenze non definitive su questioni[27]. Per altri, invece, l’unico modello tramite il quale decidere su questioni pregiudiziali e preliminari sarebbe solo la sentenza, essendo inconcepibile ammettere la decisione su di esse con ordinanza[28]. Altri ancora ammettono la pronuncia di sentenze non definitive su questioni, ma limitatamente all’ipotesi in cui il collegio sia stato investito della questione a seguito di istanza unilaterale[29]. Il contrasto tra questi due orientamenti non è privo di conseguenze di carattere teorico - sistematico: è ovvio che restringere la forma dell’ordinanza alle sole ipotesi in cui il giudice decide a seguito di istanza congiunta limita la previsione della non impugnabilità dei provvedimenti che decidono sulle questioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito insorte nel corso del processo. Chi sostiene che la fissazione dell’udienza per la decisione immediata sulle questioni pregiudiziali e preliminari possa essere chiesta anche con istanza unilaterale, fa leva sulla circostanza che con l’avviso di rettifica del 9 settembre 2003, il legislatore ha stabilito al secondo comma dell’art. 11 che il tribunale provvede con ordinanza non impugnabile in ogni caso in cui, decidendo le questioni di cui al comma 1 (e quindi le questioni pregiudiziali e preliminari) non definisce il giudizio; dall’espressione “in ogni caso”, infatti, sembrerebbe desumersi che sia all’esito della rimessione a seguito di istanza congiunta, sia a seguito di rimessione per effetto dell’istanza unilaterale, il giudice è tenuto ad emettere ordinanza non impugnabile qualora decida la questione in senso non impediente. Gli autori che limitano il ricorso all’ordinanza non impugnabile nella sola ipotesi di istanza congiunta, viceversa, fanno leva sul richiamo che l’art. 16, comma 4 opera all’art. 187, 2° e 3° comma (e «di sponda» all’art. 279) [30]; dal combinato disposto di queste norme se ne dovrebbe ricavare che il collegio, esaurita la discussione, può anche pronunciare sentenza non definitiva quando nel corso della discussione è emerso che una questione (pregiudiziale di rito o preliminare di merito) ritenuta idonea a definire il giudizio risulti infondata. Mi sembra che per risolvere il rebus creato dal legislatore, più che su argomentazioni di carattere letterale, debba farsi leva su quelle di ordine logico – sistematico. Al riguardo, è a tutti noto come il meccanismo di cui agli artt. 279, 340, 361 c.p.c. con il trascorrere degli anni si sia rivelato non del tutto perfetto: se infatti ha un senso prevedere l’immediata impugnabilità dei provvedimenti che incidono su diritti soggettivi, meno ragionevole è frammentare il processo quando la decisione riguarda semplici questioni destinate ad avere una rilevanza meramente endoprocedimentale. La sempre maggiore consapevolezza dell’inadeguatezza del sistema creato dalla riforma del 1950 ha perciò spinto il legislatore a compiere una significativa inversione di rotta: da circa un decennio infatti si sta procedendo nel senso di limitare l’impugnabilità dei provvedimenti che si limitano a risolvere mere questioni inidonee ad incidere sulla posizione giuridica sostanziale delle parti. Così è per il procedimento arbitrale, avendo il novellato 3° comma dell’art. 827[31] c.p.c., distinto tra lodi parziali (i.e. su domande) immediatamente impugnabili e lodi non definitivi su questioni, impugnabili solo con la decisione che definisce il giudizio; ancora più drastico è stato il legislatore di riforma del processo tributario: l’art. 35, 3° comma del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, con riferimento alle deliberazioni del collegio giudicante delle Commissioni provinciali e regionali, ha stabilito che, seppur ad esse si applicano gli artt. 276 e seguenti del codice di procedura civile, non è tuttavia possibile la pronuncia di sentenze non definitive. Nel senso di una sostanziale limitazione del potere di impugnare le sentenze non definitive su questioni si pone anche il legislatore delle ultime riforme. In ossequio a quanto previsto all’art. 1, 3° comma della legge delega del 14 maggio 2005, n. 80[32], è stata espunta dal nostro ordinamento processuale la possibilità di proporre ricorso immediato per cassazione avverso le sentenze non definitive su questioni, limitandosi tale facoltà solo per l’impugnazione delle sentenze non definitive di merito[33]. È in questa scia che si inserisce anche il legislatore della riforma societaria. Di sicuro si può contestare la scelta del legislatore societario quando, per escludere la impugnabilità delle decisioni sulle questioni incidentali ha utilizzato lo strumento dell’ordinanza; di certo, sarebbe stato preferibile ripercorrere i passi dei precedenti (e futuri) riformatori e limitarsi a distinguere tra sentenze su domande (immediatamente impugnabili) e sentenze su questioni (impugnabili solo unitamente alla sentenza definitiva). Ma come si è già affermato, occorre fare conti con il dato normativo dell’art. 11 e renderlo il più possibile armonico con il panorama normativo di riferimento. A tal fine, mi sembra che le dichiarate intenzioni del legislatore, unitamente alla tendenza appena riportata, debbano spingere l’interprete a ritenere che la pronuncia dell’ordinanza sia ammissibile non solo in caso di istanza congiunta, ma anche nel caso (sicuramente più frequente) in cui una delle parti abbia proposto istanza unilaterale di fissazione dell’udienza. Negata cittadinanza all’interno del processo societario alle sentenze non definitive su questioni, residuerebbero come uniche ipotesi di provvedimenti non definitivi idonei ad essere immediatamente impugnati le sentenze di condanna generica e provvisionale (quali provvedimenti che accertano o negano un bene della vita e non che si limitano a decidere una questione). Questa soluzione mi pare essere la più ragionevole quando si consideri che le modalità di proposizione dell’istanza di fissazione dell’udienza non possono condizionare le tipologie dei provvedimenti da adottare (con le relative conseguenze quanto all’impugnabilità dei provvedimenti), costringendo il giudice ad adottare la forma dell’ordinanza solo nel caso di istanza congiunta[34]. Inoltre, ritenere che l’ordinanza, sebbene non impugnabile, possa essere comunque revocata dal collegio in sede di decisione finale, se non evita del tutto, quantomeno attenua il problema della tutela della parte soccombente sulla questione all’interno del processo, essendole consentito reinvestire, tramite il deposito degli scritti defensionali finali, il collegio della questione decisa in senso ad essa sfavorevole[35]. Invero, anche così interpretato, il meccanismo appena delineato non è a perfetta tenuta; difatti, non tutte le ordinanze su questioni sono qualificate come non impugnabili: non così quella sulla competenza, impugnabile con regolamento di cui all’art. 42; non così quella che decide sulla questione relativa all’ammissibilità dell’intervento sollevata con istanza unilaterale ai sensi dell’art. 14, reclamabile nelle forme dell’art. 669 terdecies. Sennonché, la prima deroga alla regola della non impugnabilità mi sembra più apparente che reale, giacché essa si giustifica per la necessità di consentire l’esperimento del regolamento di competenza necessario avverso la decisione che decide in senso non ostativo sulla competenza, oggi esperibile anche laddove tale decisione rivesta la forma dell’ordinanza[36]. Meno giustificabile è invece la seconda deroga; ma qui il discorso si fa più complesso, giacché la compatibilità di siffatta eccezione con il regime risultante dall’art. 11 dipende dalla natura e dalle caratteristiche del mezzo di controllo dell’art. 14, soprattutto in punto di competenza a decidere il reclamo. Se fosse individuato nel giudice relatore - anziché nel collegio - il giudice competente a decidere la questione di ammissibilità dell’intervento, il problema del coordinamento verrebbe meno, trattandosi di un provvedimento che in quanto emesso dal giudice relatore, al pari di quello pronunciato in tema di estinzione, può essere reclamato al collegio, la cui pronuncia, per effetto del rinvio operato all’art. 669 terdecies, è definita come non impugnabile, esattamente come non impugnabile è l’ordinanza che decide le questioni pregiudiziali o preliminari[37]. La tesi dell’attribuzione al giudice relatore della decisione in ordine all’ammissibilità dell’intervento dei terzi, tuttavia, è rimasta minoritaria[38]: la prevalente dottrina, infatti, ritiene che poiché, «fatte salve le esplicite eccezioni, i poteri decisori sono riservati al collegio», è quest’ultimo che deve ritenersi competente[39]. 2.5.- Occorre infine chiedersi cosa accade se, pronunciata ordinanza, l’attore[40] non provveda con le modalità del terzo comma dell’art. 11 a proseguire il processo. In mancanza di una esplicita presa di posizione da parte del legislatore delegato, mi sembra che debbano applicarsi i principi generali in tema di estinzione e ritenere che alla mancata riassunzione debba necessariamente seguire la chiusura del processo in rito[41]. Se si accetta tale conclusione, ne discende quale naturale corollario che l’ordinanza resa ai sensi dell’art. 11 non può conservare la sua efficacia al di fuori del processo in cui essa è stata emessa. Ciò non solo con riferimento alle decisioni sulla competenza e più in generale sulle questioni pregiudiziali di rito, ma anche per quelle di merito aventi carattere preliminare: in tal senso, infatti, milita il disposto dell’art. 310, 2° comma, c.p.c., giacché esso fa salva in caso di estinzione solo l’efficacia delle “sentenze” di merito pronunciate nel corso del processo[42]. 3.- La c.d. sentenza contestuale. 3.1.- Stando al disposto dell’art. 16, comma 5 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 il collegio (o se la causa rientra nella competenza del tribunale in composizione monocratica, il giudice unico) decide la controversia avvalendosi del modello di cui all’art. 281 sexies. Se tuttavia la causa è particolarmente complessa, l’organo decidente può, con ordinanza letta in udienza, disporre che la sentenza non sia pronunciata in udienza, ma che venga depositata in cancelleria nei trenta giorni successivi alla chiusura della discussione orale. Anche in quest’ultimo caso viene data la facoltà di motivare la sentenza in forma abbreviata, «mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi». Da quanto appena esposto, si evince che il modello normale di decisione è rappresentato da quello previsto dall’art. 281 sexies c.p.c., sino ad oggi previsto unicamente per le decisioni rese dal giudice monocratico dal contenuto c.d. semplificato[43]. La previsione della forma della c.d. sentenza contestuale obbedisce a evidenti scelte di concentrazione processuale[44], «favorite dai caratteri peculiari della fase preparatoria culminante nel decreto di fissazione del giudice relatore, la cui enucleazione dei punti nodali della controversia porta ad una positiva semplificazione del momento decisorio collegiale»[45]. Sennonché, la generalizzazione di tale forma di decisione, sino ad ora utilizzata dal legislatore per la decisione di cause semplici e la sua applicazione a controversie aventi normalmente carattere complesso impone che l’interprete si interroghi sul concetto di sentenza contestuale, onde stabilire quando questo modello decisorio sia utilizzabile nell’ambito del rito societario. Chi si è di recente occupato dell’argomento[46] ha affermato che, sebbene l’art. 281 sexies c.p.c. riecheggi in gran parte il tenore dell’art. 132 c.p.c., la conclusione di ritenere che tale norma non abbia introdotto nessuna novità nella modalità di redazione della sentenza[47] non può condividersi. Difatti, la circostanza che il legislatore del 1998 abbia imposto al giudice di pronunciare la sentenza in udienza mediante lettura delle sue parti più significative e di inserire la sentenza nel verbale di causa è sintomo dell’intenzione del legislatore di semplificare l’attività redazionale del giudice[48]. La previsione dell’obbligo per il giudice di procedere alla lettura della sentenza in udienza e all’inserimento della sentenza nel verbale di causa evoca il modello dei provvedimenti resi in udienza ed in particolare delle decisioni aventi la forma dell’ordinanza resa a verbale[49]. Il modello decisorio immaginato dal legislatore è dunque un provvedimento snello, sintetico, in cui la decisione è solo succintamente motivata. In tal modo, si evita il rischio di motivazioni superflue o ridondanti che rappresentano un ostacolo al sollecito svolgersi della fase decisoria della causa e che comportano la conseguente violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e di quello di ragionevole durata del processo. Sennonché, prevedere che il collegio debba decidere la causa con sentenza a verbale se da un lato consente di eliminare quella frattura tra il momento della decisione e il momento della motivazione che invece caratterizza l’intero processo civile[50], dall’altro, invece, determina un’incisiva limitazione della possibilità di approfondimento delle questioni da parte del giudice. L’adozione generalizzata di codesto modello decisorio, pertanto, potrebbe comprimere il potere del giudice di esaminare approfonditamente le questioni sollevate dalle parti nella fase introduttiva e in quella di discussione. A ciò si aggiunga che non è da escludere la possibilità che il collegio, alla luce del confronto diretto delle parti in udienza, ritenga, re melius perpensa, di non poter più aderire alle determinazioni assunte dal giudice relatore nel decreto di fissazione dell’udienza. Sembra allora che in questi casi debba escludersi che l’organo giudicante possa avvalersi del modello di decisione immediata di cui all’art. 281 sexies, pena la pronuncia di sentenze poco ponderate da parte del collegio[51]. Si consideri inoltre il rischio che il giudice, laddove ravvisi l’esistenza di questioni particolarmente complesse, giunga all’udienza con una sentenza già predisposta, così vanificando la possibilità per le parti di esplicare il loro diritto di difesa nella fase della decisione. Invero, è lo stesso legislatore ad ovviare a tali inconvenienti, prevedendo l’eventualità che l’organo decidente possa, «in caso di particolare complessità della controversia» adottare il modello decisorio della sentenza depositata in cancelleria nei trenta giorni successivi alla chiusura della discussione, eventualmente motivandola in forma abbreviata. È stato preconizzato che quest’ultima tipologia di sentenza sarà quella destinata ad essere maggiormente applicata nella pratica: è difficile ritenere le controversie societarie cause di semplice definizione, in quanto di natura documentale e coinvolgenti questioni di puro diritto; nella esperienza giudiziaria dei principali tribunali della Repubblica, infatti, ricorrono numerose cause nelle quali gli accertamenti di fatto sono particolarmente complessi anche per l’esame della copiosa documentazione depositata dalle parti (ciò prevalentemente per le controversie in tema di fusione, di azioni di responsabilità, di cessioni di partecipazioni)[52]. Si deve allora ritenere che, nonostante le intenzioni del legislatore del 2003, l’esito normale della udienza di discussione sia la pronuncia della sentenza a seguito di camera di consiglio secondo lo schema ordinario di cui all’art. 276 c.p.c. (eventualmente alleggerita dalla adozione della c.d. motivazione abbreviata)[53]. Sennonché, tale ricostruzione si pone in aperto contrasto con le finalità del legislatore della riforma societaria, determinando una sostanziale abrogazione della prima parte del quinto comma dell’art. 16. Occorre allora procedere ad un’interpretazione che sia il più possibile conforme allo spirito che ispira la riforma del diritto societario; a tal fine, può osservarsi che la predisposizione di una bozza di sentenza sulla falsariga del decreto di fissazione dell’udienza non implica necessariamente la lesione del diritto di difesa delle parti ogniqualvolta il collegio modifichi il documento in conseguenza della prospettazione nel corso della discussione orale di nuove argomentazioni ad opera delle parti[54]. In altri termini, la circostanza che il collegio giunga in udienza “con le idee già chiare”, non lo rende impermeabile agli eventuali aggiustamenti e correzioni che le parti possono nel corso dell’udienza di discussione apportare alle proprie difese[55]. Mi sembra perciò che il rischio di una surrettizia pre-decisione della causa sia destinato ad essere più apparente che reale. Vi è certo il rischio che il collegio si “adagi” sulle valutazioni compiute dal giudice relatore in quel “progetto di sentenza” che è il decreto di fissazione dell’udienza, senza compiere un autonomo ed approfondito esame dei singoli elementi processuali (che non coincide affatto con il «semplice vaglio di plausibilità delle conclusioni già raggiunte dal relatore»), ma questa valutazione non riguarda la bontà dello strumento processuale così come predisposto dalla legge, ma la sapiente e accorta utilizzazione dello stesso da parte degli operatori pratici del diritto. 3.2.- L’adozione del modello della sentenza a verbale in un ambiente diverso da quello in cui era stata concepita crea inoltre alcuni problemi interpretativi. Occorre infatti chiedersi chi tra i membri del collegio debba sottoscrivere la decisione, posto che, mentre il verbale di un’udienza collegiale è sottoscritto dal solo presidente, la sentenza di un giudizio collegiale deve essere sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore. Al riguardo, sembra possibile in adesione ad un orientamento di recente espresso in dottrina[56], sostenere che la sentenza ex art. 281 sexies debba «essere sottoscritta anche dal giudice estensore, pur se redatta in calce al verbale di udienza», così applicando al caso di specie la tesi affermatasi in giurisprudenza[57] secondo cui le ordinanze collegiali che hanno natura di sentenza debbono essere sottoscritte, a pena di nullità, anche dal giudice estensore. Al pari di quanto accade per il processo di cognizione innanzi al tribunale in composizione monocratica, la sentenza si ha per pubblicata con la sottoscrizione del verbale, depositato lo stesso giorno in cancelleria. Pertanto, il successivo momento del deposito in cancelleria non avrà rilievo né per l’esistenza, né per l’efficacia della sentenza: mentre nella normalità dei casi la sentenza si presenta quale documento costitutivo, in quanto il giudice manifesta la sua decisione proprio attraverso la scrittura, nel caso di decisione a seguito di trattazione orale, la documentazione acquista rilevanza meramente descrittiva e non più costitutiva, acquistando la sentenza giuridica esistenza e rilevanza quale dichiarazione orale resa direttamente dal giudice in udienza[58]. Poiché è dalla sottoscrizione del verbale e non dal suo deposito che la sentenza si intende pubblicata, ne consegue che, conformemente a quanto si afferma comunemente per la sentenza resa dal giudice monocratico del rito ordinario[59] è dalla data di sottoscrizione che inizia a decorrere il dies a quo del termine lungo per l’impugnazione, nonché quello del termine di trenta giorni per la proposizione dell’istanza di regolamento di competenza ai sensi del secondo comma dell’art. 47 c.p.c.[60], dal momento che le parti hanno legale conoscenza dell’avvenuto deposito della sentenza nella stessa udienza di discussione, senza necessità che il cancelliere provveda alla comunicazione prevista dall’art. 136[61]. Si sostiene inoltre che poiché il rinvio operato dall’art. 16 all’art. 281 sexies deve «intendersi limitato alla forma del provvedimento e non al procedimento in esso racchiuso»[62], le parti possono chiedere ma non hanno alcun diritto ad ottenere il differimento dell’udienza. Non è infine dubbio che l’adozione del modello semplificato di cui all’art. 281 sexies è ammissibile anche nel caso in cui, sottoposta all’attenzione del collegio tramite istanza congiunta una questione avente carattere preliminare o pregiudiziale, l’organo decidente la ritenga idonea a definire il giudizio. Nella diversa ipotesi in cui il collegio ritenga di decidere la questione in senso non impediente, è tenuto – come si è già osservato – a pronunciare ordinanza non impugnabile, per cui in tal caso non è sicuramente utilizzabile il richiamo operato dall’art. 16 all’art. 281 sexies[63]. 4.- La sentenza resa in forma semplificata. 4.1.- In alternativa alla pronuncia della sentenza “a verbale”, l’organo giudicante può optare, nel caso di particolare complessità della controversia, per il modello tradizionale di decisione in camera di consiglio, potendo tuttavia motivare le proprie scelte in forma abbreviata, «mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi». A differenza di quanto accade per il rito del lavoro, nell’ipotesi in esame l’intera sentenza viene depositata nei trenta giorni successivi alla discussione. Viene dunque rinviata non solo la redazione della motivazione, ma anche reso non immediatamente ostensibile il dispositivo[64]. L’introduzione nella fase decisoria dell’istituto della motivazione abbreviata costituisce un’assoluta novità nell’ambito del processo civile. Essa, come accennato in premessa, è stata mutuata dall’omologo istituto del processo amministrativo introdotto prima solo per alcuni tipi di controversie[65] e poi in forma generalizzata dalla legge 205/2000[66]. Anche in questo caso, il legislatore del 2003 non ha proceduto all’integrale recepimento di siffatto istituto, limitandosi ad “importarne” solo i caratteri essenziali; dal raffronto del 4° comma dell’art. 26 L. n. 1034/1971, così come modificato dall’art. 9 della citata L. 205/2000 con l’art. 16, infatti, si evincono numerose differenze quanto ai presupposti e all’ambito di applicazione dell’istituto della motivazione c.d. abbreviata (ad es. il legislatore del 2000, a differenza di quanto stabilisce l’art. 16, ha previsto che tale modello di decisione possa essere adottato come strumento da adoperare solo quando si tratta di dichiarare irricevibile, inammissibile o infondato il ricorso); pertanto, si sostiene in dottrina che l’esperienza maturata nell’ambito del processo amministrativo non può valere per il processo societario[67]. 4.2.- Come si è appena accennato, per la prima volta, il legislatore del processo civile non si è limitato a disporre che la motivazione fosse concisa, come sin dalla promulgazione del codice di procedura era stato previsto, ma ha stabilito che la motivazione della sentenza può consistere nel «rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa» e nella «concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi». Sennonché, per alcuni commentatori dell’art. 16, non saremmo in presenza di una vera e propria novità, in quanto da tale norma non può che desumersi che ciò si poteva già evincere dall’interpretazione dell’art. 132, 2° comma, n. 4, c.p.c., avendo il legislatore aggiunto unicamente qualche «ragionevole ed esplicito superamento di prassi tralaticie o di obblighi normativi pedantemente intesi»[68]. Non ritengo che tale interpretazione sia pienamente condivisibile, poiché se il legislatore ha fatto riferimento ad una formula ad hoc, deve ritenersi che ha inteso identificare un modello provvedimentale del giudice che non è costituito dall'ordinaria sintetica motivazione della sentenza; comunque, mi sembra che per poter risolvere la questione circa la portata (innovativa o no) dell’art. 16, comma 5 si debba innanzitutto comprendere quale sia l’effettivo contenuto della sentenza c.d. breve o con motivazione abbreviata. È opinione pacifica che alla stregua dell’art. 111 la motivazione svolge svariate funzioni: deve obbligare il giudice a spiegare le ragioni della decisione; deve consentire alla collettività il controllo sull'esercizio della giurisdizione; deve convincere il diretto destinatario circa l'obiettiva adeguatezza del percorso argomentativo seguito dal giudicante; deve consentire il controllo da parte del giudice di grado superiore dell'obiettiva sufficienza del percorso - sul piano logico e su quello delle massime di esperienza - che ha portato alla decisione oggetto di gravame[69]. Gli scopi ai quali la motivazione deve assolvere secondo il nostro diritto positivo devono allora indurre l’interprete a ritenere che l’aggettivo “abbreviata” riguardi non la motivazione in senso contenutistico e sostanziale bensì la sola forma della sua esternazione, attraverso il richiamo al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, soprattutto per il contenzioso seriale, a precedenti conformi. Pertanto, la possibilità per il giudice di decidere con motivazione abbreviata non deve indurre ad ammettere pronunzie incomplete, in cui la motivazione è talmente sintetica da non consentire alla parte di comprendere qual è stato il percorso logico – argomentativo che ha indotto il collegio a decidere in quel senso la causa. La più autorevole dottrina in tema[70] distingue fra "decisione" e "motivazione" reciprocamente condizionate sotto l'aspetto della sufficienza e dell'adeguatezza, nel senso che la sentenza è completa se contiene giustificazioni sufficienti alle scelte enunciate ed adeguate alla decisione. Affinché la motivazione sia completa non è perciò necessario che il giudice esamini espressamente tutte le argomentazioni e le tesi svolte dalle parti: non può astenersi dall'indicare le ragioni per cui ha disatteso atti o argomenti che avrebbero potuto portare ad una decisione diversa. I criteri della sufficienza e dell'adeguatezza non vanno infatti riferiti alla trattazione degli argomenti e delle tesi svolti dalle parti, ma rapportati all'obiettiva idoneità della decisione a giustificare le scelte a fronte degli atti e fatti introdotti in giudizio. Solo così la motivazione assolve al compito di esporre logicamente le ragioni reali che giustificano il processo decisorio, come indica l'art. 118 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile a chiarimento dell'art. 132, n. 4), c.p.c.[71]. Inoltre, il rispetto del principio di necessaria corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato comporta che l’organo giudicante abbia l’obbligo non solo di statuire su tutte le domande e le eccezioni rilevanti, ma anche di dover adeguatamente motivare su di esse[72]. L’evidente finalità deflattiva di tale previsione, volta, al pari di quella omologa contenuta nel novellato art. 26 legge TAR, a ridurre sensibilmente i tempi di redazione delle sentenze deve dunque essere contemperata con le essenziali garanzie connesse ai procedimenti giurisdizionali, le quali esigono in ogni caso che la decisione debba contenere, sia pure in termini stringati, una congrua ed idonea illustrazione delle argomentazioni svolte e condivise dal giudice. Solo in tal modo è possibile intendere la nozione di decisione con motivazione abbreviata, anche perché, diversamente opinando, dovrebbe escludersi l’utilizzabilità di siffatto modello per la decisione di controversie di particolare difficoltà (e, dunque, per la maggior parte delle cause in materia societaria)[73]. 4.3.- Caratteristica precipua della sentenza c.d. breve è data dalla facoltà attribuita al collegio di redigere la sentenza facendo rinvio agli elementi di fatto riportati negli atti di causa e in diritto ad eventuali precedenti conformi. Si è così introdotta in modo ufficiale la sentenza per relationem[74]. Invero, l’elemento innovativo non è rappresentato dalla possibilità di rinviare ad un atto del giudice[75], quanto dalla possibilità di richiamare un atto di parte. Com’è stato esattamente rilevato dalla dottrina più autorevole, il giudice potrà rinviare a quest’ultimo solo per ricostruire lo svolgimento del processo, mentre non potranno essere richiamate le ricostruzioni della vicenda processuale operate da una delle parti: in sostanza, il rinvio potrà essere effettuato solo ai fatti pacifici, non anche a quelli controversi sui quali il tribunale è chiamato a compiere un accertamento[76]. Per quanto riguarda la motivazione in diritto, si deve segnalare la possibilità, sino ad oggi disconosciuta, di rinviare a precedenti giurisprudenziali conformi. Il richiamo al precedente può intendersi riferito non solo alle pronunce di legittimità, ma anche a quelle di merito dello stesso ufficio a cui appartiene l’organo giudicante (senza escludere che il rinvio possa essere fatto anche ad altri precedenti di merito di altri tribunali o corti di appello[77]), purché il precedente sia citato in modo da essere facilmente reperito e sia evidenziata la perfetta sovrapponibilità della decisione richiamata alla fattispecie[78]. Inoltre, per evitare pseudo-motivazioni, è altresì necessario che la motivazione per relationem fornisca la dimostrazione che il decidente ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti alla sua decisione. È perciò indispensabile un minimum motivazionale che dimostri l'impegno del decidente nel conoscere prima e nel valutare poi l'altrui motivazione come sufficiente e pertinente al proprio provvedimento da giustificare. Infine, l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, deve essere conosciuto dall'interessato o almeno conoscibile, se non immediatamente, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed eventualmente di gravame e, conseguentemente, di controllo da parte dell'organo della valutazione o dell'impugnazione[79] [80]. La mancata osservanza di tali criteri rende sicuramente nulla la sentenza, potendosi applicare anche alla fattispecie in esame quel costante orientamento della Suprema Corte, a mente del quale la mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa, o l'estrema concisione della motivazione in diritto, determinano la nullità della sentenza laddove sia impossibile individuare il thema decidendum, nonché le ragioni che stanno a fondamento del dispositivo[81]. Si applicheranno le norme ordinarie in tema di impugnazioni; la sentenza di primo grado sarà pertanto passibile di annullamento e di contestuale decisione nel merito da parte del giudice d’appello, previa integrazione della motivazione. Il vizio di carente motivazione infatti non può assurgere a causa di rimessione del processo al giudice di primo grado, tranne (mi pare) nell’ipotesi in cui la insufficiente motivazione abbia comportato la lesione del diritto di difesa di una delle parti del processo. Le osservazioni sin qui compiute consentono anche di escludere l’ammissibilità di una motivazione per relationem ad un precedente in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità o comunque contrario: la condivisione di tesi minoritarie o in aperto contrasto con quella dominante, infatti, impone che il giudice che intenda aderirvi dia alle parti e alla collettività una motivazione ancora più «articolata ed approfondita» rispetto a quella che ordinariamente è tenuto a predisporre, al fine di permettere ai terzi di comprendere le ragioni della sua decisione[82]. 4.4.- Dimostrato che motivazione in forma abbreviata non comporta un affievolimento dell’obbligo di motivazione, può essere a questo punto esaminato un ulteriore profilo dubbio sollevato dalla dottrina con riguardo all’introduzione di questo istituto all’interno del processo societario. Secondo alcuni commentatori della riforma del processo societario, la previsione della sentenza motivata in forma abbreviata potrebbe creare problemi per la parte soccombente che intenda proporre appello e ciò soprattutto alla luce dell’art. 20, 1° co., del decreto n. 5 che richiede che l’appello debba contenere, a pena di inammissibilità, specifiche censure nei confronti della sentenza impugnata[83]. Indubbiamente vi è il rischio che la sentenza c.d. breve, la quale indubbiamente attua il principio di ragionevole durata del processo, possa però ledere quell’altro fondamentale principio del due process of law, relativo alla possibilità per le parti ad esercitare una compiuta e piena difesa[84]. L’effettiva portata dell’obbligo di motivazione può essere compresa solo coordinando l’art. 111 della Costituzione con le altre norme, del pari contenute nella medesima fonte normativa, che esprimono principi fondamentali in tema di amministrazione della giustizia. Tra queste particolare importanza rivestono le norme costituzionali in tema di diritto di difesa di cui agli artt. 111 e 24 Cost.: l’obbligo di motivazione mira a rendere effettiva questa garanzia, rendendo possibile il controllo sull’avvenuta sua operatività. La garanzia del diritto alla difesa postula il potere della parte di sottoporre al giudice le sue argomentazioni, di proporre le difese che sono nella sua disponibilità, di utilizzare mezzi di prova; «tutto ciò non avrebbe senso se il giudice non fosse poi tenuto a chiarire attraverso la motivazione su quali prove ha fondato un certo suo convincimento, quali argomentazioni gli hanno consentito di pervenire a determinate affermazioni, perché si sia eventualmente determinato ad una ricostruzione giuridica non prospettata dalle parti e, in sintesi, se egli abbia veramente giudicato iuxta alligata et probata»[85]. Sennonché, il rischio di lesione del fondamentale principio di difesa non sembra che possa verificarsi nella pratica, sempre che i giudici, nel motivare per relationem, continuino ad attenersi ai criteri appena esposti; spetta dunque alla giurisprudenza individuare il giusto punto di equilibrio tra le esigenze di celerità del processo con i diritti di difesa delle parti. Il principio di durata ragionevole del giudizio di cui all'art. 111 Cost., infatti, non può essere ampliato al punto da pregiudicare il principio di parità delle armi e di dialettica processuale tra le parti; tali garanzie debbono operare nella loro pienezza sin dal primo grado di causa, ai sensi dello stesso art. 111 Cost. e, più in generale, in applicazione dell'art. 24 Cost., pena la trasformazione del processo societario in un rito eccessivamente subordinato alle impressioni soggettive del giudice, il quale, sempre in virtù delle regole cardine dianzi citate, è invece sempre tenuto a decidere iuxta alligata et probata. Insomma, le istanze di velocizzazione emergenti dall'ordinamento non devono condurre alla «giustizia sommaria», poiché altrimenti si renderebbe un pessimo servigio alla giustizia in sé e ai soggetti che abbisognano dell'opera del giudice per sciogliere questioni quasi sempre non lineari, sciogliendo la matassa degli intrichi posti dalla legge. 4.5.- Concludendo, si può esprimere un giudizio pienamente favorevole all’adozione del modello di sentenza con motivazione semplificata: essa comporta uno stile tendenzialmente uniforme, privo di obiter dicta e realizza quella finalità di concisione da sempre voluta dal legislatore; inoltre, dovendo il giudice esplicitare con poche chiare parole la regola di diritto applicabile al caso concreto, viene anche realizzato lo scopo di garantire l’uniforme applicazione della legge e, conseguentemente, la certezza del diritto. L’introduzione della motivazione per relationem, inoltre, oltre a semplificare l’attività redazionale dei giudici, comporta anche il vantaggio di favorire «sia l’uniformità della giurisprudenza dello stesso ufficio giudiziario, sia la conformità agli arresti della Corte regolatrice»[86]. L’istituzionalizzazione del richiamo ai precedenti conformi contribuisce ad avvicinare il processo civile a quelli delle diverse esperienze giuridiche dei paesi di common law, innovazione da accogliere con favore soprattutto alla luce dell’attuale processo di armonizzazione dei vari ordinamenti di civil e di common law. Da quanto osservato nelle pagine che precedono si può infine immaginare quali possano essere le ipotesi più frequenti in cui potrà essere utilizzato l’istituto introdotto dall’art. 16 del decreto n. 5 del 2003: a)- i casi più propri di conclusione del giudizio con decisione c.d. breve potrebbero essere individuati in quelli aventi ad oggetto questioni pregiudiziali di rito o questioni risolte con precedenti consolidati; b)- ancora, una utilizzazione sicura della motivazione in forma abbreviata potrebbe essere individuata nell’ipotesi in cui a una decisione pilota, resa in forma ordinaria, seguano una serie di decisioni in forma semplificata che affrontino la stessa questione risolta dalla decisione pilota; c)- non mi sembra poi si possa escludere la possibilità di una siffatta decisione per la soluzione di casi che presentano questioni nuove, anche se per questa ipotesi è raccomandata una particolare prudenza, dovendosi evitare l’utilizzazione dello strumento in questioni che potrebbero dar luogo a contrasti di giurisprudenza e, quindi, su questioni estremamente complesse e dubbie. 5.- L’applicabilità degli artt. 186 bis, ter e quater c.p.c. al rito societario. 5.1.- Sebbene non manchino voci dissenzienti sul punto[87], la dottrina prevalente non sembra dubitare della possibilità di ottenere nel corso dell’udienza di discussione la pronuncia dei provvedimenti di cui agli artt. 186 bis e ter[88]. È stato infatti notato che la natura complessa delle controversie societarie e la alta probabilità di una lunga istruttoria potrebbe dilatare di molto i tempi della fase apud judicem, così frustrando il diritto a riscuotere somme oggetto della controversia il cui ammontare non sia controverso o sia fondato su una prova scritta[89]. Più discusso è invece se sia possibile la pronuncia dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione contemplata dall’art. 186 quater. Gran parte degli autori che si sono occupati della questione hanno escluso tale eventualità a causa della struttura del processo societario[90]. Il meccanismo di decisione contestuale delineato dall’art. 16, 5° comma, infatti, si sovrappone all’art. 186 quater: il procedimento che dà luogo a questa ordinanza è infatti molto simile a quello per l’adozione della sentenza a seguito di discussione orale, giacché la maggior parte dei giudici fissa una apposita udienza di discussione, non di rado preceduta dallo scambio di memorie e, all’esito di tali integrazioni del contraddittorio, si riserva la pronuncia dell’ordinanza, sciogliendo tale riserva più o meno negli stessi tempi che di solito occorrono per depositare una sentenza. Ne consegue che l’eventuale proposta da una delle parti di emanazione dell’ordinanza di cui all’art. 186 quater deve ritenersi assorbita dalla discussione orale della causa e dalla successiva sentenza resa ai sensi dell’art. 281 sexies[91]. Tuttavia, se queste osservazioni devono ritenersi ineccepibili, può d’altro canto notarsi come la pronuncia della c.d. sentenza contestuale è solo una dei moduli decisori previsti dall’art. 16 del decreto di riforma del processo societario; si è infatti visto che nel caso di «particolare complessità della controversia», il collegio può optare per la decisione in camera di consiglio all’esito della discussione orale della causa in udienza, così dandosi luogo ad una fattispecie analoga a quella che si verifica nel rito ordinario, dove si ha sempre una cesura tra la fase dell’istruzione della causa e quella della decisione. Più in generale, può osservarsi che il problema della sovrapposizione della norma di cui all’art. 16 con la disposizione contenuta nell’art. 186 quater si pone solo quando il tribunale provveda in un’unica udienza a discutere la causa e a deciderla con sentenza c.d. contestuale. Non può escludersi tuttavia che il tribunale, per necessità istruttorie o per l’esigenza di predisporre un supplemento di discussione (ad es. a seguito del rilievo di questioni di rito e di merito rilevabili d’ufficio) differisca ad altra udienza la discussione e la contestuale pronuncia della sentenza, poiché sussistendo l’interesse all’anticipazione della decisione di merito all’esito dell’esaurimento della discussione, va conseguentemente ammessa la possibilità di emissione dell’ordinanza. Note di chiusura [1] Esula dalla presente trattazione il problema se l’istanza congiunta possa essere utilizzata dalle parti al solo scopo di ottenere la decisioni di questioni incidentali controverse o se possa essere utilizzata in via generale anche tutte le volte in cui le parti intendano ottenere il passaggio dalla fase preparatoria a quella della trattazione e decisione della causa. Sul punto, v. amplius, Carratta, Commento all’art. 11, in Il nuovo processo societario, diretto da Chiarloni, Bologna, 2004, 320 ss.; Passanante, Commento all’art. 11, in AA. VV., Commentario breve al codice di procedura civile – Appendice di aggiornamento, a cura di Carpi e Taruffo, Padova, 2004, 100 ss.; Ventura, Commento all’art. 11, in I procedimenti in materia commerciale (Prima parte), in NNLC, 2005, 229. [2] Si tratterebbe in sostanza di uno degli esempi in cui si manifesta il c.d. vizio genetico di cui fa riferimento Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria di primo grado, in Riv. dir. proc., 2003, 391. [3] Va segnalato che il legislatore delegato ha considerato l’appena riportata espressione un refuso, così rettificandola in tempi processuali (si veda la relazione del decreto n. 5 del 2003). [4] Punzi, Lineamenti del nuovo processo in materia societaria, in Riv. trim. dir. proc., 2004, 75; Menchini, Legittimità costituzionale del rito di cognizione ordinario per le controversie societarie?, in Corr. giur., 2005, 305, secondo cui «né la lettera della legge di delega, né il complessivo contesto normativo, né le finalità ispiratrici della riforma forniscono elementi per sostenere che l’intendimento del delegante … fosse quello di consentire esclusivamente modifiche parziali della disciplina del processo ordinario, lasciando inalterato l’impianto complessivo di esso». In senso analogo Sassani, Sulla riforma del processo societario, in La riforma delle società. Il processo, a cura di Sassani, Torino, 2003, 1 ss. D’altronde, già immediatamente dopo l’entrata in vigore del decreto n. 5/2003 era stato rilevato (Vietti, No la riforma del processo è giusta ed efficace, in Italia Oggi del 11 marzo 2004) che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale la delega legislativa non fa venir meno la discrezionalità del legislatore delegato, in quanto la determinazione dei principi e criteri direttivi, a mente dell'art. 76 della Costituzione, se vale a circoscrivere il campo della delega, sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l'hanno determinata, non osta, invece, all'emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore (v. ex multis, C. Cost., 3 giugno (20 maggio) 1998, n. 198 del 1998). [5] Cass. S.U. 8 ottobre 1999, n. 711, in Corr. giur., 2000, 642 ss., con note di Montanari e Consolo ed in Giust. civ., 2000, I, 63 ss., con nota di Califano, secondo cui, nella ipotesi di cumulo di domande tra gli stessi soggetti, è da considerarsi non definitiva, agli effetti della riserva di impugnazione differita, la sentenza con la quale il giudice si pronunci su una (o più) di dette domande con prosecuzione del procedimento per le altre, senza disporre la separazione ex art. 279, c. 2, n. 5 c.p.c., e senza provvedere sulle spese in ordine alla domande (o alle domande) così decise, rinviandone la relativa liquidazione all'ulteriore corso del giudizio. [6] Invero, nel codice di procedura civile non mancano casi di ordinanze non impugnabili emesse dal collegio (si pensi ad esempio all’art. 308, c. 2, concernente la decisione a seguito di reclamo), ma non mi sembra che essi possano essere richiamati quali precedenti analoghi. Al riguardo, va segnalato che già in precedenza stata adombrata l’idea di utilizzare la forma dell’ordinanza per l’adozione di provvedimenti aventi ad oggetto la decisione di questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito, residuando la pronuncia di provvedimenti aventi la forma della sentenza solo nel caso in cui il giudice avesse definito il giudizio (v. in questo senso il disegno di legge n. 2214/S/IX concernente i provvedimenti urgenti per l’accelerazione dei tempi della giustizia civile, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 1987, in Foro it., 1987, V, 123); tuttavia, i tempi non erano probabilmente maturi per una tale scelta, non avendo la legge 353/1990 recepito tale proposta. V. amplius, sul punto, Califano, L’impugnazione della sentenza non definitiva, Napoli, 1996, 3 ss. [7] Bove, Il processo dichiarativo societario di primo grado, in www.judicium.it, § 2; Ziino, Le nuove disposizioni sul processo societario (decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5). Il giudizio di cognizione in primo grado, in www.judicium.it, § 16, a mente del quale “il tribunale, dopo avere emesso la decisione, non può tornare a riesaminare la questione e il provvedimento è irrevocabile, anche se emesso in forma di ordinanza”; nello stesso senso, Sotgiu, La trattazione e la decisione della causa, in AA. VV., Impresa e società, a cura di V. Cuffaro, Milano, 2005, 918 nonché Arieta – De Santis, Diritto processuale societario, Padova, 2004, 230, i quali rilevano che «la struttura complessiva del nuovo rito, il principio della delega che spinge nel senso della concentrazione del processo e della tendenziale riduzione dei tempi processuali … indurrebbero a ritenere la non revocabilità o modificabilità dell’ordinanza». [8] Leone, L’istruzione della causa nel nuovo processo civile, Bari, 1942, 75 ss.; Denti, Note sui provvedimenti non impugnabili nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1954, 15: «le questioni risolte dal collegio possono essere riproposte dalle parti al collegio medesimo, in sede di rimessione totale o parziale, solo in quanto siano state oggetto di provvedimento istruttorio revocabile». Similmente Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Del processo di cognizione, Napoli, 1960, 62 secondo cui le ordinanze dichiarate dalla legge come non impugnabili sono irrevocabili non solo nel senso che il collegio non può né revocarle, né modificarle, ma anche per il motivo che le questioni, in esse decise per implicito o per esplicito, non possono essere riproposte davanti al collegio, né da quest’ultimo riesaminate. [9] Denti, Note sui provvedimenti, cit., 15, per il quale la non impugnabilità dell’ordinanza comporta l’impossibilità del suo riesame nell’ambito del grado di giudizio in cui essa è stata pronunciata, ma non esclude che la parte interessata non possa ottenere il riesame della questione decisa con ordinanza in grado d’appello tramite l’impugnazione della sentenza definitiva. [10] Chizzini, Provvedimenti del giudice, in Dig. disc. priv., Sez. civ., XVI, Torino, 1997, 69 ss. [11] Circolare ministeriale, n. 2690 del 14.4.1942, citata da Andrioli, Commento, II, cit., 260. [12] Si è osservato che «sol per facilitare una maggior concisione di quella motivazione (che anche un’ordinanza dovrà pur avere), si inserisce un elemento di tumultuosità ed aleatorietà (acuito dalle diverse letture dottrinali) che non è conforme a quella parte dei principi del nostro processo che non sono affatto quel lascito ingombrante che si può tranquillamente abbandonare quando si vuole lavorare di fantasia creativa e spregiudicata»: così Consolo, Le prefigurabili inanità di alcuni nuovi riti commerciali, in Corr. giur., 2003, 1518. [13] Per il legislatore, infatti, sembrava opportuno che la questione attinente alla competenza o in genere alla regolarità del processo venisse sempre decisa con sentenza (impugnabile con la sentenza definitiva, ma non modificabile o revocabile dallo stesso collegio che l’aveva emessa). E ciò non solo per consentire l’esperimento del regolamento di competenza (avverso la sentenza che decide in senso non ostativo sulla competenza), ma più in generale perché si riteneva che la risoluzione nel corso del processo delle questioni di rito premetteva di porre un punto fermo sulla regolarità del processo e sulla esistenza delle condizioni processuali occorrenti per poter passare alla trattazione del merito, senza intralciare, essendo attinente alla procedura e non al merito, la trattazione unitaria del merito stesso. [14] Ad es. se il giudice istruttore rimetteva al collegio la decisione separata della questione preliminare attinente alla prescrizione e il collegio la riteneva inesistente, la causa doveva essere rimandata all’istruttore con semplice ordinanza, «per non pregiudicare ed intralciare, con una sentenza parziale, quella valutazione unitaria di tutta la causa che il collegio potrà fare solo alla fine dell’istruzione, quando potrà riprendere in esame tutte le varie questioni di diritto e di fatto attinenti al rapporto sostanziale e risolverle coll’unica sentenza definitiva» (Circolare ministeriale, n. 2690 del 14.4.1942, citata da Andrioli, Commento, II, cit., 260). [15] Così esplicitamente Vaccarella, La riforma del processo societario. Risposta ad un editoriale, in Corr. giur., 2003, 262, il quale chiarisce che «la forma dell’ordinanza riservata alla definizione, in senso non impediente, di questioni pregiudiziali … mira ad impedire l’impugnabilità immediata delle (attuali) sentenze non definitive». Critici Consolo, Esercizi imminenti su c.p.c.: metodi asistematici e penombre, in Corr.giur., 2002, 1543, per il quale con la previsione dell’art. 11, c. 2 si persegue indirettamente il «ritorno al divieto di impugnare le “parziali” dell’originario codice Grandi – Calamandrei» e Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria di primo grado, in Riv. dir. proc., 2003, 429, secondo cui le sentenze non definitive non hanno più cittadinanza nel processo commerciale: “con un tratto di penna e in assenza di qualsivoglia valutazione del Governo e del Parlamento, con il decreto legislativo è stata ripristinata la soluzione del 1940”. [16] V. per tutti Basilico, La revoca dei procedimenti civili contenziosi, Padova, 2001, 51. [17] Pajardi, Dei poteri del giudice istruttore, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, II, 1, Torino, 1980, sub art. 177, 511. [18] Cass. 16 aprile 1953, n. 1004, in Giur. compl. Cass. civ., 1953, V, 213, «la irrevocabilità delle ordinanze istruttorie … perché dichiarata dalla legge non può intendersi assoluta, nel senso di escluderne la revocabilità anche … per i casi in cui l’ordinanza, come atto processuale, manchi di quei requisiti indispensabili che attengono alla esistenza stessa di ogni atto giuridico». Più di recente, Cass. 24 febbraio 1982, n. 1148, secondo cui «le ordinanze istruttorie, in quanto adempiono ad una funzione essenzialmente strumentale nei riguardi della decisione definitiva, non possono avere effetti preclusivi nei confronti di questa, che può sempre revocarle o modificarle, anche per implicito, è ciò pure se trattasi di ordinanze irrevocabili ex art. 177, 3° comma, n. 1, c.p.c., le quali non sono mai suscettibili di acquistare autorità di giudicato. È ancora valida l’opinione di chi osservava che «le ordinanze, intese come atti giuridici consistenti in manifestazioni di volontà compiute secondo le norme processuali dai soggetti del processo … non si sottraggono invero al principio valevole per tutti gli atti giuridici, secondo cui, in difetto di uno degli elementi costitutivi, diventano inidonee a produrre gli effetti loro proprii»: così Brunetti, Ordinanze revocabili ed irrevocabili (in tema di intervento del terzo e di estinzione del processo), in Giur. compl. Cass. civ., 1953, V, 216. [19] D’altronde, mi sembra che di questo parere sia anche lo stesso padre della riforma societaria: v. Vaccarella, La riforma societaria: aspetti processuali, in Corr. giur., 2003, 1505, il quale rileva che la scelta dell’ordinanza non impugnabile «consente la riproposizione della questione al momento della precisazione delle conclusioni e sgrava il giudice del pesante, quanto gratuito onere di stilare una sentenza». Seguono la soluzione esposta nel testo, Consolo, Le prefigurabili inanità, cit., 1518; Tiscini, Commento all’art. 11, in La riforma delle società. Il processo, a cura di Sassani, Torino, 2003, 128; Vivaldi, Commento all’art. 16, in La riforma del diritto societario. I procedimenti (Dlgs. 17 gennaio 2003, n. 5), a cura di Lo Cascio, Milano, 2003, 182, nt. 23, secondo la quale l’ordinanza non potrà mai pregiudicare la decisione della causa ai sensi dell’art. 177 c.p.c., per cui potrà essere riesaminata nella successiva sentenza, che rimane il definitivo e tipico provvedimento decisorio (va però segnalato che entrambe le autrici hanno espresso l’opinione appena riportata prima che con l’avviso di rettifica del 9.9.2003 il legislatore qualificasse l’ordinanza ex art. 11 come non impugnabile), nonché Ventura, Commento all’art. 11, cit., 236, il quale sostiene che l’ordinanza di cui all’art. 11, in base a quanto disposto dagli artt. 177, comma 1° e 279, comma 4°, non potrà comunque pregiudicare la decisione della causa e potrà pertanto, essere riesaminata dal collegio in sede di decisione; Graziosi, Sul nuovo rito societario a cognizione piena, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 17, il quale giunge alla conclusione indicata nel testo sulla base della premessa (a mio avviso non condivisibile) di ritenere il provvedimento di cui all’art. 11 soggetto al regime delle ordinanze revocabili (sic!) dell’art. 177, commi 1° e 2°, a tenore dei quali tutte le ordinanze non possono mai pregiudicare la decisione della causa e sono sempre revocabili e modificabili dal giudice che le ha emesse. [20] Nel medesimo senso, Ventura, op. cit., 237. Favorevole alla proposizione del ricorso straordinario per cassazione è invece Dalmotto, Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino, Bologna, 2004, sub artt. 2 – 18, 2825. [21] Pret. Palermo, 10 dicembre 1991, in Temi Siciliana, 1991, 576. [22] Così è ad esempio per le ordinanze di cui agli artt. 263 e 264 c.p.c.: cfr. Cass. 10 novembre 1999, n. 12463 e Cass. SS. UU. 9 aprile 1975, n. 1289, in Foro it., 1976, I, 783. [23] Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, Il processo di cognizione, Milano, 1959/1960, 69; Basilico, La revoca dei procedimenti civili contenziosi, cit., 62. [24] In questo senso, v. Carratta, Commento all’art. 11, cit., 323; Riva Crugnola, Le attività del giudice nel nuovo processo societario di cognizione di primo grado: fissazione dell’udienza, istruzione, fase decisoria, in Società, 2003, 782 ss.; Ambrosio, L’attività del giudice nel nuovo processo societario, www.cosmag.it, § 6; Arieta – De Santis, Diritto processuale societario, cit., 224; Fabiani, La partecipazione del giudice al processo societario, in Riv. dir. proc., 2004, 172 - 173). [25] Proto Pisani, La nuova disciplina del processo societario, in Foro it., 2003, V, 10. [26] Così Scala, La fase riservata alle parti nel processo societario, in www.judicium.it, § 3. Più delicato è invece il profilo dell’ammissibilità di un’istanza individuale dell’attore, che abbia interesse a far decidere una questione idonea a definire il giudizio (sul punto, v. amplius, Scala, op. cit., § 3 nel testo e nota 27). [27] Bove, Il processo dichiarativo societario, cit., § 3, il quale, premesso che l’opzione compiuta dal legislatore a favore dell’ordinanza non impugnabile è una semplice scelta di politica del diritto, come tale più o meno condivisibile, esclude che il collegio debba, in caso di istanza congiunta, pronunciare ordinanza e, invece, nell’ipotesi di istanza unilaterale sia legittimato ad emettere sentenza non definitiva, poiché un’interpretazione siffatta causerebbe un’irragionevole disparità di trattamento. Tiscini, Commento all’art. 11, cit., 120 ss.; Terrusi, La fase davanti al giudice e il decreto di fissazione di udienza: considerazioni in margine alla tipologia dei provvedimenti giurisdizionali nel processo societario, in www.judicium.it, § 10, secondo cui milita in tal senso l’art. 11, 2 comma, nella parte in cui prevede che il tribunale decide con ordinanza in ogni caso in cui, decidendo le questioni di cui al comma 1, non definisce il giudizio; v. pure sul punto, Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria di primo grado, cit., 428; Sotgiu, La trattazione e la decisione della causa, cit., 915; Picaroni, Commento all’art. 11, in La riforma del diritto societario. I procedimenti (Dlgs. 17 gennaio 2003, n. 5), a cura di Lo Cascio, Milano, 2003, 122 ss. [28] Proto Pisani, La nuova disciplina del processo societario, cit., V, 10. Secondo l’A., poiché la soluzione di ritenere che le questioni pregiudiziali o preliminari, ove non idonee a definire il giudizio, siano decise con ordinanza modificabile e revocabile è stata da sempre scartata dal legislatore (del 1865, del 1942 e da tutti i progetti di riforma elaborati negli ultimi anni) e poiché essa si pone in contrasto con la previsione contenuta nell’art. 11 dell’immediata impugnabilità ai sensi dell’art. 42 del provvedimento sulla competenza, occorre procedere ad un’interpretazione correttiva dell’art. 11, 2° co., e ritenere che tale disposizione non si applica alla decisione delle questioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito e che ove tali questioni non siano idonee a definire il giudizio essa debbano essere decise con sentenza non definitiva. Manifesta perplessità sulla soluzione adottata dal legislatore anche Mandrioli, Diritto processuale civile, III, Torino, 2003, 300, per il quale è ben strano ammettere che la pronuncia su una questione potenzialmente idonea a definire il giudizio (quale quella su questioni pregiudiziali o preliminari) sia revocabile e modificabile (ma va precisato che la critica dell’A. perde di rilevanza a seguito dell’avviso di rettifica del 9.9.2003 che ha espressamente attribuito all’ordinanza il carattere della non impugnabilità e per tale via della irrevocabilità). [29] Fabiani, La partecipazione del giudice al processo societario, cit., 2004, 192; Trisorio Liuzzi, Il nuovo rito societario: il procedimento di primo grado davanti al tribunale, in www.judicium.it, § 10; Briguglio, Commento all’art. 16, in La riforma delle società. Il processo, a cura di Sassani, Torino, 2003, 168, per il quale solo nel caso di istanza congiunta «ha un qualche senso che le parti le quali abbiano d’accordo e congiuntamente preteso la decisione immediata di quelle questioni, debbano tenersela, senza poterla immediatamente impugnare, per tutto il grado di giudizio»; Carratta, Commento all’art. 11, cit., 335; Riva Crugnola, Le attività del giudice nel nuovo processo societario di cognizione di primo grado: fissazione dell’udienza, istruzione, fase decisoria, cit., 782 ss., secondo la quale il rimedio di cui all’art. 11 presuppone l’istanza congiunta delle parti e, dunque, «non rappresenta un meccanismo di generale anticipazione della valutazione delle questioni preliminari»; zumpano, Udienza di discussione, in Il nuovo processo societario. I decreti di correzione e il primo anno di applicazione, Milano, 2005, 74-75. Nell’indirizzo dominante si colloca anche la posizione di Scala, La fase riservata alle parti nel processo societario, cit., § 3. [30] Fabiani, La partecipazione del giudice, cit., 192; analogamente, Carratta, Commento all’art. 11, cit., 327; Ziino, Le nuove disposizioni sul processo societario, cit., § 14. [31] Cfr. l’art. 19, legge 5 gennaio 1994, n. 25. [32] All’art. 1, 3° comma, l. 14 maggio 2005, n. 80 è infatti espressamente previsto con riferimento al giudizio in Cassazione «la non ricorribilità immediata delle sentenze delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio e la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito». [33] Si v. gli attuali artt. 360, 2° comma e 361, 1° comma, c.p.c., così come novellati dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. Va segnalato che l’impossibilità per il legislatore delegato di incidere su materie non contemplate dalla legge delega ha determinato un’aporia nel nostro codice di rito: è infatti rimasto immutato l’art. 340, così continuandosi ad ammettere la possibilità per la parte soccombente di proporre riserva facoltativa di appello avverso qualsiasi sentenza non definitiva (sia su questioni che su domande). [34] Tiscini, Commento all’art. 11, cit., 123. [35] Così mi sembra possa se non superarsi, attenuarsi la gravità di quella obiezione formulata da chi osserva che la circostanza che le parti abbiano chiesto congiuntamente la decisione sulla questione non esclude affatto che la soluzione adottata con ordinanza non possa lasciare scontenta una delle parti (la quale resta però priva di alcuna possibilità di tutelare i suoi interessi): così Carratta, op. cit., 326. [36] V. Cass. 10 gennaio 2000, n. 281, secondo cui l'ordinanza con la quale il giudice, nel disporre la prosecuzione del giudizio dinanzi a sé, pronuncia sulle eccezioni di incompetenza, quali quelle di litispendenza e continenza, contiene una statuizione sulla competenza sì che, essendo equiparabile ad una sentenza, può esser impugnata con l' istanza di regolamento di competenza, a meno che non sia emessa dal giudice di pace. Possono allora condividersi le parole di chi ha affermato che «la convinzione secondo cui la decisione sulla competenza deve essere resa sempre con sentenza (avverso la quale è proponibile il regolamento), seppure sino ad ora rimasta salda nel testo delle norme, già da tempo vacilla nell’esperienza pratica. Sicché la novità dell’art. 11, comma 2 non è poi così nuova» (Tiscini, Commento all’art. 11, cit., 128) [37] A fondamento della tesi riportata nel testo c’è la considerazione – che a me pare convincente – che se la legge affida al giudice relatore il compito di decidere con ordinanza reclamabile una questione di rito idonea a definire il processo nei confronti di tutte le parti (come quella relativa all’estinzione del processo) sembrerebbe irragionevole privarlo del potere di definire (sempre con ordinanza reclamabile) il giudizio soltanto nei confronti del terzo (così Olivieri, Il processo di cognizione in primo grado: la fase riservata alle parti, in www.judicium.it, § 6). Ciò presuppone però che la questione relativa all’ammissibilità dell’intervento sia una questione di mero rito, la quale, non avendo mai ad oggetto la fondatezza o meno della domanda del terzo, ma solo la sua ammissibilità, non sia mai in grado di pregiudicare il diritto di costui. Sennonché, come non si è mancato di notare (Scala, La fase riservata alle parti, cit., § 4), vi sono ipotesi in cui non è agevolmente separabile la questione della legittimazione del terzo da quella relativa all’effettiva titolarità del diritto (è il caso del colegittimato all’impugnazione ex art. 2378 c.c., il cui intervento, se dichiarato inammissibile, preclude la possibilità per questo terzo di proporre un autonomo giudizio). Per tale ragione, appare preferibile attribuire sempre al collegio il compito di decidere sulla questione relativa all’ammissibilità dell’intervento (così Scala, op. cit., § 4). Indubbiamente tale obiezione rende molto meno persuasiva l’opinione riportata nel testo; si può forse cercare di recuperare quanto sostenuto, attribuendo in ogni caso al giudice relatore il potere di decidere la questione con ordinanza reclamabile al collegio, tuttavia qualificando la decisione del collegio resa in sede di reclamo come sentenza sostanziale tutte le volte che essa trascenda questioni di mero rito, con conseguente possibilità di proporre avverso di essa l’appello e successivamente il ricorso per cassazione (in tal senso si v. Carratta, Commento all’art. 14, in Il nuovo processo societario (Commento al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 e agli artt. 2378, 2409 e 2471 c.c.), Commentario diretto da Chiarloni, Bologna, 2004, 411 e 416). [38] Così Carratta, Commento all’art. 14, cit., 411 e 416; Olivieri, Il processo di cognizione in primo grado, cit., § 6. [39] Porcari, Commento all’art. 14, in I procedimenti in materia commerciale (Prima parte), in NNLC, 2005, 309; Arieta – De Santis, Diritto processuale societario, cit., 179; Costantino, Il nuovo processo commerciale, cit., 425. Sul punto v. amplius Scala, La fase riservata alle parti, cit., § 4. [40] La norma fa esplicito riferimento solo all’attore, ma non sembra ormai dubbio che la facoltà di procedere alla riassunzione spetti anche alle altri parti del giudizio: così per tutti Ventura, Commento all’art. 11, cit., 239. [41] Si aderisce pertanto all’opinione maggioritaria espressa in dottrina (Carratta, Commento all’art. 11, cit., 335; Arieta – De Santis, Diritto processuale societario, cit., 234; Fabiani, La partecipazione del giudice, cit., 173). È infatti rimasta isolata la tesi secondo cui la tipicità delle fattispecie estintive, unita alla mancata previsione espressa di siffatta ipotesi come causa di estinzione, comporta che in caso di mancata notificazione delle memoria ad opera delle parti, il processo resta pendente, finché non sopraggiunga ad opera di una delle parti un atto di “rivitalizzazione”, cioè di riattivazione del processo. (Tiscini, Commento all’art. 11, cit., 127). [42] V. sul punto Carratta, op. ult. cit., 335, il quale precisa che la forma delle ordinanza mette totalmente fuorigioco la disciplina contenuta nell’art. 310, 2° comma e conseguentemente anche il dilemma se nella categoria delle sentenze di merito pronunciate nel corso del processo richiamata nella comma in discorso debbano ricondursi solo le sentenze di merito parzialmente definitive (così Montesano, Questioni preliminari e sentenze parziali di merito, in Riv. dir. proc., 1969, 594; Oriani, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli, 1977, 402 ss.; Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova, 1985, 244, nt. 196) o se possano rientrarvi anche le sentenze non definitive su questioni preliminari di merito (come ritiene la dottrina dominante: v. per tutti Andrioli, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 302; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2002, 197). [43] L’art. 281 sexies, inserito nel corpo del codice di procedura dal d.lgs. n. 80 del 1998 per disciplinare la fase decisoria del procedimento innanzi al tribunale in composizione monocratica, costituisce l’evoluzione del modello decisorio già previsto dall’art. 23, 7° e 8° comma della legge 689/1981 e dell’abrogato art. 315 c.p.c. relativo al procedimento innanzi all’ormai soppresso ufficio del pretore (su tale norma, v. per tutti Dittrich, Provvedimenti urgenti per il processo civile, in NLCC, Padova, 1992, 188 – 189; Besso, Decisione a seguito di discussione orale, in Le riforme del processo civile, a cura di Chiarloni, Torino, 1992, 373 ss.). Va segnalato che tale modello decisorio è stato ormai generalizzato, essendo applicabile non solo alle controversie soggette al rito societario, ma anche ai giudizi di appello avverso le sentenze che dichiarano il fallimento, così come disposto dal 5° comma del novellato art. 18 l.fall. (cfr. art. 16 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5). [44] La scelta della decisione immediata sottende l’auspicio del legislatore che il meccanismo del decreto di fissazione dell’udienza sia tale da semplificare al massimo l’attività cognitiva del collegio in sede di discussione, potendo questo decidere sulla base delle indicazioni fornite dal giudice relatore nel decreto di cui all’art. 12, costituendo esso «una sorta di formula (ad instar di quella del praetor romano nel processo formulare» (così testualmente la Relazione allo schema di legge delega per la riforma del codice di procedura civile, successivamente trasposto nel d.d.l. 4578/C, elaborato dalla Commissione Vaccarella, sub punto 21). [45] Così Riva Crugnola, Le attività del giudice nel nuovo processo societario di cognizione di primo grado: fissazione dell’udienza, istruzione, fase decisoria, in Società, 2003, 782 ss., la quale osserva che in quest’ottica, «il decreto di fissazione dell’udienza assolve in sostanza alla funzione propria della relazione sulla causa che, ai sensi dell’ art. 275 del previgente c.p.c., doveva essere svolta oralmente dal giudice istruttore all’udienza collegiale di discussione, immediatamente precedente la decisione della causa in camera di consiglio». [46] Di Benedetto, La motivazione della sentenza e le sentenze ex art. 281 sexies nel rito ordinario e nel nuovo rito societario, Relazione all’incontro di studi sul tema “Il punto sul rito civile”, organizzato dal CSM, in www.judicium.it, 24. [47] Così per gran parte della dottrina, secondo cui nessuna indicazione di una maggiore stringatezza della motivazione rispetto al modello normale di sentenza contenuto nell’art. 132 c.p.c. può evincersi dalla lettera della norma: al pari dell’art. 132 c.p.c., l’art. 281 sexies prevede che la sentenza pronunciata dal giudice monocratico debba contenere la «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione» (Attardi, Modifiche al codice di rito nei progetti Vassalli. Giudizio di cognizione di primo grado, in Giur. it., 1989, IV, 293; Capponi, Il Senato approva la novella al codice, in Corr. giur., 1990, 503); tanto meno avrebbe importanza la circostanza che l’art. 281 sexies non contiene, a differenza dell’art. 132, alcuna specifica indicazione sullo svolgimento del processo, non essendo necessario che le indicazioni sul processo siano graficamente contenute in una sezione della sentenza distinta dalla motivazione (così Luiso, in Consolo – Luiso – Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 318, con riguardo all’abrogato art. 315 c.p.c. ). Invero, questo rilievo sembra essere ineccepibile, soprattutto alla luce della più recente giurisprudenza che ha chiarito che le indicazioni sullo svolgimento del processo necessarie e sufficienti sono solo quelle che servono ad individuare i tratti essenziali della lite e che esse possono «risultare tanto dall’esposizione del fatto che dalla parte motiva» (Cass. 5 ottobre 2000, n. 13292); tuttavia, non sembra che tale argomento da solo possa valere ad affermare che la motivazione delle sentenze c.d. contestuali abbia la stessa latitudine di quelle pronunciate a seguito di trattazione scritta. [48] Già nell’intenzione del legislatore del 1990 (la c.d. relazione Acone – Lipari, Provvedimenti urgenti per il processo civile, in Foro it., 1990, V, 422), l’introduzione (all’epoca limitata) della possibilità per il pretore di pronunciare sentenza c.d. a verbale era stata voluta per porre le basi di un vero e proprio cambiamento culturale, volendosi introdurre uno stimolo a che questa si trasformasse da strumento di realizzazione a posteriori della decisione a semplice momento di esplicitazione degli aspetti essenziali dell’iter logico e argomentativi che induce il giudice a decidere in quel modo nel momento in cui egli ha deciso. [49] Di Benedetto, La motivazione della sentenza e le sentenze ex art. 281 sexies nel rito ordinario e nel nuovo rito societario, cit., 24. [50] Occorre ad es. considerare la prassi concretamente seguita nell’ambito del processo del lavoro, ove normalmente i giudici si astengono dal pronunciare il dispositivo in udienza, ma lo depositano in cancelleria il giorno successivo all’udienza di discussione. [51] Manifestano perplessità circa la concreta applicabilità di siffatto meccanismo di semplificazione processuale, Carratta, Commento all’art. 16, in Il nuovo processo societario, cit., 478; Chizzini, Il procedimento a cognizione piena: ambito di applicazione, procedimento di competenza collegiale e monocratica, in La riforma del diritto societario, a cura di Di Cagno, Bari, 2004, 373. Peraltro, la stessa magistratura ha criticato l’applicazione al processo societario di una norma, quale quella in esame, che presuppone che il giudice relatore ed il collegio abbiano la possibilità di svolgere uno studio approfondito delle questioni rilevanti per la decisione della causa prima dell’udienza di discussione, circostanza che risulta non essere di reale verificazione pratica quando «si consideri che questa udienza deve essere fissata, ai sensi dell’art. 12, 3° comma, lett. a), a non oltre 30 gg. dalla comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza» (Parere C.S.M. sul d.lgs. 5/2003 approvato all’unanimità nella seduta del 12 dicembre 2002, § 3.1). Viceversa, favorevoli al modello decisorio di cui all’art. 281 sexies sono Arieta – De Santis, Diritto processuale societario, cit., 277 [52] Riva Crugnola, op. ult. cit.; Fabiani, Le attività del giudice nel processo commerciale di cognizione, in www.judicium.it, § 9. Similmente Costantino, Il nuovo processo commerciale: la cognizione ordinaria di primo grado, cit., 428, il quale osserva che «appare ragionevole dubitare che la impugnazione di un bilancio o un giudizio di responsabilità … siano particolarmente semplici», sicché non può escludersi la possibilità che in simili casi sia necessario fissare un’ulteriore udienza di discussione e, contestualmente, concedere alle parti termini per l’eventuale integrazione di difese scritte. Anche chi affronta la questione sotto il profilo comparativistico ritiene incongrua la scelta del legislatore (così Dondi, Complessità ed adeguatezza nella riforma del processo societario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 146, il quale riporta l’esperienza degli altri ordinamenti stranieri - ed in particolare di quello statunitense – segnalando che da tempo tali sistemi giuridici fanno rientrare le controversie societarie nell’ambito della categoria delle complex litigations). [53] Manifesta perplessità sull’effettivo funzionamento del meccanismo qui delineato, osservandosi come l’eccezione del deposito successivo della sentenza «finirà con il prevalere nella pratica» Ricci, Verso un nuovo processo civile?, in Riv. dir. proc., 2003, 219. [54] Auspica che «il rinvio in deroga all’art. 281 sexies non divenga assoluta routine», Briguglio, Commento all’art. 16, in La riforma delle società. Il processo, a cura di Sassani, Torino, 2003, 169. [55] Di Benedetto, op. cit., 30. Si consideri all’uopo Cass. 5 settembre 2000, n. 11629, che, con riferimento all’ormai abrogato art. 315, ha affermato che la circostanza che il giudice abbia già predisposto la sentenza prima della discussione orale sulla base degli atti depositati, non assume alcuna rilevanza se non si deduca che nel corso della discussione orale siano stati prospettati, senza poi ricevere delle risposte, aspetti giuridici nuovi compatibili con la domanda introduttiva e con le difese della controparte od utili approfondimenti. [56] Fabiani, Le attività del giudice nel processo commerciale di cognizione, cit., § 9. Sul punto, si v. anche le interessanti osservazioni di Carratta, Commento all’art. 16, cit., 480. [57] Si tratta di Cass. 27 agosto 2003, n. 12537, in Foro it., 2005, I, 539 ss. [58] Chizzini, Sentenza nel diritto processuale civile, in Digesto civ., XVIII, Torino, 1998, 254. Nel caso in cui il collegio, anziché pronunciare sentenza al termine della discussione, depositi la sentenza in cancelleria nei modi ordinari, mi sembra si possa sostenere che l’omissione dia luogo ad una nullità insanabile da dedurre come motivo di gravame, senza che ciò determini la rimessione della causa al primo giudice (così Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2002, 124, con riferimento alla correlativa ipotesi nell’ambito del processo innanzi al tribunale in composizione monocratica). [59] Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile. 1. Principi generali. Rito ordinario di cognizione, Padova, 2001, 1627 ss., spec. 1636; Masoni, Il moltiplicarsi dei riti decisori del processo civile dopo l’entrata in vigore della legge sulle sezioni stralcio e il d.lg. n. 51 del 1998, in Giur. merito, 2000, 1043; diversamente Auletta, in Comm. Verde Vaccarella, Aggiornamento (artt. 1 – 408), Torino, 2001, 501, il quale, sulla premessa di ritenere il cancelliere obbligato a dare alle parti notizia della avvenuta pubblicazione della sentenza mediante biglietto di cancelleria, ritiene che laddove la legge faccia decorrere il termine dalla comunicazione della sentenza - come per la proposizione del regolamento di competenza - il dies a quo sia dato dalla ricezione del biglietto di cancelleria). [60] La giurisprudenza si è di recente espressa in tal senso, tuttavia precisando che, siccome per il perfezionamento della sentenza contestuale non è sufficiente la sola sottoscrizione del verbale ad opera del giudice, ma occorre anche che venga letto in udienza il dispositivo e la motivazione, deve ritenersi che, ove tali adempimenti non siano stati osservati, la sentenza vada comunicata, con la conseguenza che il termine per la proposizione del regolamento di competenza decorre da tale momento (Cass. 2 settembre 2004, n. 17665, in Foro it., 2005, I, 2799, con nota di Di Benedetto) [61] Arieta – De Santis, Diritto processuale societario, cit., 275. [62] Fabiani, Le attività del giudice nel processo commerciale di cognizione, cit., § 9. [63] La scelta del legislatore di adottare il modello dell’ordinanza non impugnabile è però stata aspramente criticata da parte della dottrina non solo sotto il profilo della forma del provvedimento che decide in senso non ostativo la questione preliminare o pregiudiziale (su cui v. supra, § 2.4), ma anche per le modalità di pronuncia della stessa (Carratta, Commento all’art. 16, cit., 481). Secondo l’A., dal terzo comma dell’art. 11 (che prevede che l’attore deve notificare alle altre parti memoria di replica entro trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza) si dovrebbe desumere che la decisione con ordinanza della questione preliminare o pregiudiziale non potrà mai avvenire in udienza, ma sempre fuori di essa, così creandosi una notevole disarmonia, priva di ragionevolezza, tra le modalità di pronuncia della sentenza che può avvenire immediatamente al termine dell’udienza di discussione e quelle di emanazione del provvedimento concernente le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, in cui è invece obbligatoria la soluzione della riserva e della successiva pronuncia del provvedimento. Invero, non si può non convenire con chi ritiene tale interpretazione non condivisibile (Fabiani, Le attività del giudice nel processo commerciale di cognizione, cit., § 9, nt. 249), potendo, al fine di evitare tale disarmonia, ritenere applicabile la norma generale dell’art. 134 c.p.c. che prevede quale ipotesi normale la pronuncia dell’ordinanza in udienza, potendosi perciò affermare che il termine di trenta giorni per la notifica alle altre parti della memoria di replica decorre dall’udienza di discussione in cui è stato reso il provvedimento del collegio sulla questione. [64] Queste modalità decisorie non sono le uniche esistenti nel rito societario, poiché il legislatore delegato ha previsto per il giudizio abbreviato che la sentenza possa essere pronunciata a norma dell’art. 281 sexies o in alternativa (sempre in funzione della complessità della causa) con lettura del dispositivo in udienza e successivo deposito della motivazione entro 15 giorni. [65] Invero, l’introduzione di tale istituto nel processo amministrativo era stata già da tempo fortemente sostenuta dal Consiglio di Stato che, in occasione della pronuncia di due pareri dell’Adunanza generale (rispettivamente il n. 16 dell’8 febbraio 1990, e il n. 236 del 6 ottobre 1994), aveva individuato nella stesura della decisione una delle reali cause della lunga durata dei giudizi, evidenziando come l’eccessiva durata del processo attenuasse di molto la portata del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Il legislatore amministrativo fu tuttavia molto timido nell’accogliere le indicazioni del Supremo organo di giustizia amministrativa, in quanto l’istituto della decisione con motivazione in forma abbreviata fu per la prima volta previsto nel giudizio amministrativo solo per alcune specifiche controversie, aventi ad oggetto provvedimenti in materia di opere pubbliche (art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modificazioni dalla l. 23 maggio 1997, n. 135) e provvedimenti della Autorità garante per le garanzie nelle telecomunicazioni (art. 1, comma 27, l. 31 luglio 1997, n. 249). [66] Sull'argomento, ex multis, Sandulli, Le nuove misure di "snellimento" del processo amministrativo nella legge n. 205 del 2000, in Giust. Civ., 2000, 1360; Terracciano, Per le questioni chiare debutta la "sentenza breve", in Guida al diritto, 2000, 30, 76 ss; Mariuzzo, Commento all'art. 9, in AA.VV., La giustizia amministrativa. La legge 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2000, 252 ss.; Lamberti, Le decisioni in forma semplificata, in AA.VV., Verso il nuovo processo amministrativo. Commento alla legge 21 luglio 2000, n. 205, a cura di Cerulli Irelli, Torino, 2000, 337 ss.; Montefusco, Le decisioni in forma semplificata, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla legge n. 205/2000, a cura di Villata e Sassani, Torino, 2001, 259 ss.; Patroni Griffi, Istituti di semplificazione del nuovo processo amministrativo (Relazione all'incontro di studio "Giudici e amministrazione dopo la legge 205/2000", Roma, Palazzo Spada, 6 aprile 2001), in www.giustizia-amministrativa.it.; Franco, Processo amministrativo ordinario e riti particolari (dopo la legge 205/2000), in Cons. Stato, 2001, II, 95 ss.; Paolantonio, Tutela differenziata e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2001, 964 ss., spec. 993 ss.; Tuccari, La semplificazione delle decisioni contenziose, in AA.VV., Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, a cura di Caringella e Protto, Milano, 2002, 975 ss. [67] Così Carratta, Commento all’art. 16, cit., 490 e Dalmotto, Il nuovo diritto societario, cit., 2873, secondo cui l’analogia tra i due istituti va intesa cum grano salis. È però ormai pacifico che, sebbene non sia espressamente previsto, la decisione in forma semplificata è utilizzabile anche al di fuori dei casi previsti dal 4° comma dell’art. 26 L. T.A.R., e possa essere adottata anche per definire nel merito la causa (Cons. Stato, sez., V., 26 gennaio 2001, n. 268, in Cons. St., 2001, I, 1, 80; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 28 marzo 2001, n. 2886 e TAR Brescia, 13 marzo 2001, n. 105, in T.A.R., 2001, I, 2, 470 ss.; Colombati, La decisione in forma semplificata, in Codice della giustizia amministrativa, a cura di Morbidelli, Milano, 2005, 663; Tuccari, La semplificazione delle decisioni contenziose, cit., 1002): dunque, a differenza di quanto comunemente si afferma, non mi sembra che si sia in presenza di due istituti così differenti. [68] Briguglio, Commento all’art. 16, cit., 169, per il quale «si resta tuttavia sul versante delle disposizioni pressoché esornative, imposte dalla moda attuale, ma nei risultati delle quali nessuno può sperare più di tanto». [69] Sulla funzione e sui caratteri della motivazione nel processo civile, v. per tutti, Taruffo, Motivazione della sentenza (dir. proc. civ.), in Enc. giur., XX, Roma, 1990, 1 ss. [70] Taruffo, op. cit., 2 ss. [71] L'adeguatezza viene però a mancare se la motivazione non consideri gli elementi del tutto autonomi e svincolati da quello discriminante nel decidere. Se il rilievo determinante alla situazione in fatto esistente nel tempo non è giustificato dall'esegesi delle norme, il criterio di giudizio si sovverte interamente e cambia la regola del caso concreto. [72] Ciò a maggior ragione quando si consideri che con riferimento al processo amministrativo si è sostiene che il potere del giudice di decidere con sentenza semplificata non potrebbe indurre all’assorbimento dei motivi, avendo il giudice l’obbligo di esaminarli tutti, sia pure succintamente, pena l’incompletezza della decisione (Colombati, La decisione in forma semplificata, cit., 667). [73] Per Arieta – De Santis, Diritto processuale societario, cit., 278, anzi, è proprio nei casi di maggiore complessità della causa che si potrà adottare questo tipo di modello decisorio. Si consideri poi che anche nell’ambito del processo amministrativo, dove l’art. 9 della legge 205/2000 ricollega espressamente la possibilità di accadere alla decisione in forma semplificata alle controversie che nascono di chiara ed immediata comprensione (come ad es. nei casi di inammissibilità, irricevibilità del ricorso), la giurisprudenza amministrativa tende ad utilizzare le decisioni in forma semplificata con estrema elasticità ed a farne uno strumento che, fermo restando il rispetto dei presupposti e delle regole imprescindibili del contraddittorio e degli altri diritti di difesa, assume vero e proprio carattere generale (così Cons. Stato, sez. IV, 12 luglio 2002, n. 3929, in Giur. amm., 2003, 340), per cui si sostiene ormai in maniera prevalente che mediante l'istituto in esame potranno definirsi giudizi a cognizione tanto sommaria quanto piena e questioni sostanziali ad essi sottese sia semplici che complesse (v. al riguardo le osservazioni di Pasanisi, La sentenza breve in sede cautelare come modo ordinario di definizione del giudizio amministrativo, in Foro amm.T.a.r., 2002, 3521). [74] Va segnalato che il meccanismo della decisione in forma abbreviata è applicabile anche all’ipotesi in cui la decisione venga pronunciata subito, all’esito dell’udienza (zumpano, Udienza di discussione, cit., 75). [75] Già da tempo la giurisprudenza ammette la possibilità per il giudice d’appello di motivare per relationem la decisione di conferma della sentenza di primo grado (v. ad es. Cass. 4 agosto 1997, n. 7182, nonché da ultimo Cass. 14 febbraio 2003, n. 2196, secondo cui tale attività deve considerarsi legittima purché il giudice di appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima sia pur sinteticamente le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto). [76] Carratta, Commento all’art. 16, cit., 488; Ventura, op. cit., 336; Vivaldi, Commento all’art. 16, cit., 183, secondo cui il rinvio deve intendersi in senso restrittivo, «come rinvio allo svolgimento del processo, così come rievocato in un atto di parte, non come rinvio alla ricostruzione del fatto operata da un atto della parte». [77] Fabiani, Le attività del giudice nel processo commerciale di cognizione, cit., § 9. Nello stesso senso anche Arieta – De Santis, op. cit., 279, per i quali è obbligo del giudice tenere conto di eventuali decisioni difformi pronunciate dalla Corte di cassazione in epoca successiva a quella dei precedenti richiamati, «esplicitando le ragioni dell’eventuale (perdurante) dissenso rispetto alla soluzione da ultimo adottata dalla giurisprudenza di legittimità» [78] Cass. 17 gennaio 2004, n. 662, a mente della quale «la motivazione per relationem si può considerare carente o meramente apparente - e come tale censurabile in sede di legittimità- solo quando il decisum si fondi esclusivamente sul mero rinvio a precedenti o a massime giurisprudenziali richiamati in modo acritico e non ricollegati esplicitamente alla fattispecie controversa, di tal che venga impedito un controllo sul procedimento logico seguito dal giudice proprio per l'impossibilità di individuare la ratio decidendi». In senso conforme, si v. Cass. 25 settembre 2002, n. 13937; Cass. 27 maggio 2002, n. 7713; Cass. 4 marzo 2002, n. 3066; Cass. 17 dicembre 2001, n. 15949; Cass. 3 febbraio 2003, n. 1539, per la quale «la motivazione di una sentenza per relationem ad altra sentenza è legittima quando il giudice, riportando il contenuto della decisione evocata, non si limiti a richiamarla genericamente ma la faccia propria con autonoma e critica valutazione». Sulla necessità che il rinvio non abbia carattere generico si è espressa anche parte della dottrina: sul punto cfr. Di Benedetto, La motivazione della sentenza, cit., § VII, sub c), nonché Terrusi, La fase davanti al giudice, cit., § 13.1. [79] La Cassazione penale (Cass. pen., sez. Unite 21 settembre 2000, n. 17, in Dir. pen. e proc., 2001, fasc. 5, 621 ss., con nota di Filippi) con riferimento al decreto autorizzativo delle intercettazioni telefoniche, ha espresso orientamento favorevole all’ammissibilità della motivazione per relationem dei provvedimenti giurisdizionali, stabilendo però alcune condizioni imprescindibili per la sua legittimità. Infatti la Suprema Corte ha affermato che la motivazione per relationem di un qualsiasi provvedimento giudiziale è da considerare legittima solo se: a)- faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria al provvedimento di destinazione; b)- fornisca la dimostrazione che il decidente ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti alla sua decisione; c)- l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato. Tale indirizzo è stato di recente ribadito dalla stessa Cassazione penale, con la sentenza 20 gennaio - 9 aprile 2004, n. 16886 pronunciatasi sulla motivazione per relationem della sentenza resa dal giudice dell’impugnazione. Aderiscono all’orientamento appena riportato anche alcuni autori (Di Benedetto, op. loc. cit. e Terrusi, op. loc. cit.) i quali escludono la possibilità del richiamo a precedenti di altri giudici del merito inediti o non disponibili sulle più «diffuse raccolte». [80] L’esatta individuazione dei criteri cui il giudice deve fare riferimento nel momento in cui sceglie di motivare la propria decisione mediante il rinvio ad un precedente conforme permette altresì di considerare ampiamente superato quell’orientamento sfavorevole all’introduzione dell’istituto della motivazione per relationem nel nostro ordinamento processuale (in tal senso v. Evangelista, Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir., Milano, 1977, XXVII, 165 ss.), essendo tale indirizzo restrittivo basato unicamente sul presupposto - ormai superato - dell’inidoneità di siffatto tipo di motivazione a rendere ragione dell’avvenuta valutazione di ogni specifica ragione addotta dalle parti. [81] Così v. ex multis Cass. 12 marzo 2002, n. 3547, in Corr. trib., 2002, 1908, con nota di Gambogi; Cass. 3 aprile 1999, n. 3282, in Giust. civ. Mass., 1999, 756). [82] Carratta, Commento all’art. 16, cit., 489, nello stesso senso, v. anche Dalmotto, Il nuovo diritto societario, cit., 2873. [83] Trisorio Liuzzi, Il nuovo rito societario: il procedimento di primo grado davanti al tribunale, cit., § 13. [84] Esprime analoghe perplessità Carratta, op. cit., 487. [85] Evangelista, Motivazione della sentenza civile, cit., 158. [86] Fabiani, La partecipazione del giudice al processo societario, in Riv. dir., proc., 2004, 194. [87] Si dichiara apertamente contrario ad ammettere la pronuncia dei provvedimenti in questione Ziino, Le nuove disposizioni sul processo societario (decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5). Il giudizio di cognizione in primo grado, cit., § 15, per il quale «le nuove disposizioni non fanno alcun cenno alla possibilità di richiedere provvedimenti anticipatori di condanna e la loro concessione trova un rilevante ostacolo nel fatto che, nel processo ordinario di cognizione, questi provvedimenti sono emessi dal giudice istruttore, figura che non esiste nel processo societario». [88] V. ex multis Carratta, Commento all’art. 16, cit., 471; Cecchella, Il nuovo rito ordinario per le liti societarie: un’anticipazione della riforma del processo civile, in www.judicium.it, § 4; Trisorio Liuzzi, Il nuovo rito societario: il procedimento di primo grado davanti al tribunale, cit., § 13; Vivaldi, Udienza di discussione della causa, cit., 181; Briguglio, Commento all’art. 16, cit., 168, per il quale l’introduzione del procedimento sommario di cui all’art. 19 del decreto renderà meno frequente l’adozione dell’ordinanza ingiunzione di cui all’art. 186 ter, ma non potrà «escluderla de iure». In giurisprudenza si segnala Trib. Udine, 17 dicembre 2004, in www.judicium.it, che ha ritenuto che i provvedimenti anticipatori sono ammissibili all’interno del processo societario purché richiesti al più tardi con l’istanza di fissazione dell’udienza o, al più, nella nota definitiva, atteso che il termine ultimo per la loro proposizione nel giudizio ordinario è l’udienza in cui vengono precisate le conclusioni. [89] Arieta – De Santis, op. cit., 274, i quali precisano che l’ordinanza di pagamento delle somme di cui all’art. 186 bis potrà essere pronunciata solo nei confronti delle parti costituite, per cui non potrà operare per questo fine il meccanismo di ficta confessio di cui al secondo comma dell’art. 13 del decreto n. 5/2003. [90] Proto Pisani, La nuova disciplina del processo societario, cit., 17; Trisorio Liuzzi, op. ult. cit., §13. Analogamente Fabiani, Le attività del giudice, cit., § 9. [91] Viene dunque ripetuto quanto già affermato a proposito del procedimento innanzi al tribunale in composizione monocratica. Sul punto, si v. le osservazioni di Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, 1. Principi generali. Rito ordinario di cognizione, Padova, 2001, 1627 ss., spec. 1638; Liccardo, Le forme della decisione, in Nuovo processo civile e giudice unico. La giustizia civile tra crisi e riforme, Milano, 2000, 142.