SANTUARIO D’OROPA (BI)
AVVENTO AD OROPA
INCONTRO IN PREPARAZIONE DEL NATALE
14 Dicembre 2012
Don Michele BERCHI
Buona sera a tutti. Non voglio fare una presentazione ma solo introdurre questa sera, come abbiamo
fatto tutte le volte in Avvento e in Quaresima per preparaci al Natale e alla Pasqua.
Quest’anno abbiamo chiesto, domandato, che potessero venire dei maestri qui ad Oropa ad aiutarci
ad avvicinarci al Natale. Per questo ringrazio di cuore don Julián Carrón di essere qui tra noi questa
sera perché, come gli dicevo prima (se ne è reso conto, è la prima volta che viene a Oropa): non si
passa per caso a Oropa, bisogna essere consapevoli di questo. Per questo lo ringrazio di aver deciso,
di aver trovato il tempo di essere venuto qui questa sera.
Gli chiediamo semplicemente una cosa: in questo tempo che sembra, da una parte, non voler più
sentire parlare del Natale, non voler sentire parlare di Dio, ma, dall’altra, contemporaneamente,
grida da tutte le parti il bisogno e il desiderio del Natale, gli chiedo, gli chiediamo semplicemente di
aiutarci a stare davanti a questo avvenimento con tutto noi stessi e che ci introduca a questo grande
momento per la nostra fede e per la nostra vita in questo momento della storia.
Lo faccio subito – così poi alla fine ci sarà il coro che concluderà la serata mentre chiuderemo il
sacello che è un gesto tradizionale che facciamo tutte le sere: ringrazio tutti perché per questa
serata molti si sono spesi in molti modi (da chi ha organizzato le riprese, da chi è venuto a far di
tutto: a metter le sedie ecc.), vi ringrazio perché questo è un gesto, un momento costruito con un
desiderio di avere tra noi un aiuto per la nostra vita e per la nostra fede. Grazie.
CARRÓN
Buona sera a tutti. Ringrazio don Michele per questo invito che ho accettato volentieri perché a don
Michele non posso dire di no a niente, perché gli chiedo già abbastanza! Sono io che sono grato di
poter venire e condividere con tutti questo momento.
Diceva: «che cosa ci può aiutare di più a prepararci per il Natale?». Riconoscere l’attesa che ci
costituisce, che costituisce la stoffa della nostra persona, perché niente ci può disporre di più che
questo semplice riconoscimento. La prima cosa che noi sorprendiamo nella nostra esperienza è
quello che i geni letterari hanno colto subito nell’esperienza. «Chiuso tra cose mortali, anche il cielo
2
stellato finirà, perché bramo Dio? 1» si domanda Giuseppe Ungaretti. È come uno che non dà tutto
per scontato: come mai, se noi siamo chiusi tra le cose mortali, tra le cose finite, tra le cose limitate
(ci rendiamo conto che perfino il cielo stellato finirà) perché sentiamo dentro di noi questa brama di
Dio? Bramare è un verbo scelto apposta per dire quel desiderio così intenso, appassionato di
qualcosa, un desiderio quasi irresistibile che ci costituisce e che uno dovrebbe cancellare a se stesso
in certi momenti almeno di lucidità [per] non riconoscerlo.
Ma questa attesa - come sa bene ciascuno di noi per la propria esperienza - non è un’attesa pacifica,
è un’attesa osteggiata, combattuta in tanti modi. Lo vediamo nella società e lo vediamo in noi stessi
(non è che la società lo faccia senza anche il contributo di ciascuno di noi che vi partecipiamo;
facciamo parte di questa società!). Per questo, diceva un altro genio come Rylke - insieme a questo
riconoscimento del dato (che essendo chiuso tra cose mortali riconosciamo di bramare Dio), allo
stesso tempo facciamo esperienza, anche noi ci rendiamo conto - che «tutto cospira a tacere di noi
come si tace un’onta, forse come si tace una speranza ineffabile2». Questa cospirazione a cui tante
volte collaboriamo con la nostra distrazione, con il nostro menefreghismo, con il nostro vivere,
diciamo, “fuori di noi” come staccati da noi stessi, da quello che veramente siamo, questa
cospirazione combatte costantemente quest’attesa. Ma chi ha ragione? L’attesa o la cospirazione? Il
dato che ciascuno di noi siamo e che riconosciamo – come dice Ungaretti – o questa cospirazione?
Che cosa è la verità di noi?
È quello che ha sintetizzato benissimo un altro genio letterario che è Pavese «come è grande il
pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora
perché attendiamo?» Perché ci sorprendiamo attendendo? Perché, in tante occasioni, questa attesa
rinasce in mezzo a tutta la nostra distrazione, e tutta la cospirazione del mondo non può di nuovo
(non) vedere risorgere, come tra la cenere e sotto la cenere di tutto quanto la copre, questa attesa. È
come se la struttura del nostro io fosse così tutt’uno con noi, siamo questo, cosicchè possiamo fare
quello vogliamo: tutta la cospirazione che vogliamo, essere conniventi quanto vogliamo, cercare di
distrarci in tanti modi, ma noi non possiamo cancellare «perché attendiamo?» E questo ci fa capire
fino a che punto l’attesa è strutturale al nostro io. Non è che noi siamo uomini o siamo donne e poi
attendiamo. No, il nostro essere uomini, il nostro essere donne è questa attesa. A volte diciamo che
è astratta, ma noi non possiamo quasi aprire bocca, non possiamo dire niente, non possiamo
raccontare niente di noi senza che sia presente; quando ci lamentiamo, quando ci arrabbiamo,
quando qualcosa non corrisponde a questa attesa, in mille modi diversi, riappare. È come se non la
1
G. Ungaretti, «Dannazione», da L’Allegria, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1992, p. 35.
2
R.M. Rilke, «Elegia II», w. 42-44, in Liriche, Sansoni, Firenze 1942, p. 379.
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potessimo cancellare. Perché bramo? Bramo perché la sostanza dell’io è questa attesa, questa
tensione inevitabile. E noi non ci rendiamo conto che questo attendere, che a volte ci sembra
terribile, in realtà, come dice Pavese, non è niente rispetto a una cosa più terribile ancora che è non
attendere niente. Per questo dice che aspettare è ancora una occupazione; è non aspettar niente che è
terribile. E tutti non possiamo non riconoscerlo, non dire “sì, è proprio così”. La vera tragedia è non
aspettare niente. Per questo, questa attesa che ci costituisce è così parte del nostro io che è quello
che lo definisce di più. E come appare questa attesa? Come incominciamo a riconoscerla? Noi
dobbiamo osservare nella nostra vita se c’è un momento in cui questa attesa, la natura di questa
attesa viene fuori. Viene fuori con tutta la sua potenza quando, a un certo momento della nostra
evoluzione, ci rendiamo conto che quello che ha destato tutta la nostra affezione, tutto il nostro io,
che è stato, da bambini, il volto della mamma (tanto è vero che se non ci fosse è come se prevalesse
l’aridità affettiva, tutta questa affezione ancora quasi più dentro di qualsiasi… quasi istintiva che il
bambino sente per la mamma per cui si attacca alla mamma e vede sorgere per la presenza buona
della mamma questa affezione per cui si attacca a lei in un modo unico, istintivo quasi, quasi
irresistibile, tanto è vero che si attacca alla mamma prima di pensare a sé, è quello che incomincia a
renderlo se stesso). A un certo momento il bambino crescendo si rende conto – voi lo sapete bene,
tante mamme e babbi che siete qua – che il bambino comincia una fase in cui si "arruffa", si
confonde. Ma come mai? - incomincia a crescere -ma come mai? "Sono qua come prima davanti a
lui, sono qua come prima (può dire anche il papà), niente è cambiato ma è come se questa presenza
non gli bastasse più". È quando, in un certo momento della evoluzione fisiologica, psicologica
dell’uomo, appare davanti ai nostri occhi tutta la grandezza di quel desiderio, di quella attesa che ci
costituisce. Questo momento – diceva don Giussani – è il momento dell’Altro (con la A maiuscola),
il momento del "Tu", perché non basta accorgersi del "tu", è il momento del passo a qualcosa di più
grande. E perché sappiamo che è qualcosa di più grande? Sappiamo che è qualcosa di più grande
perché la mamma e il papà non gli bastano più. E se noi non ci rendiamo conto di questo e gli
riempiamo la vita, o lui cerca di riempirla con altre cose che non rispondono al vero problema, a
quello che senza sapere come, senza saperlo spiegare, comincia a vivere come esperienza, (perché il
Mistero usa un metodo stupendo: per farci capire le cose, le fa accadere, non è che prima ci faccia la
lezione e poi ci fa l’evoluzione; no, perché non lo potremmo capire. Come spieghi a un bambino e a
un adolescente questo senza che gli succeda? sarebbe inutile spiegarglielo!) Il Mistero lo fa
accadere, gli fa sentire che niente gli basta e allora lo spalanca. Se il bambino non capisce o
l’adolescente non capisce questo, incomincia a scambiarlo per altre cose (per un’attività, mi diceva
per esempio, un liceale, un’attività frenetica che è l’unica cosa e che lo confonde di più) e dice
«come mai?», non avendo capito la natura di quell'attesa, di quel desiderio che a un certo momento
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è venuto fuori alla coscienza della persona e allora uno cerca la risposta in altri rapporti,
scambiandola per gli amici o con il moroso o con la morosa, o l’attività o per il successo… e non
basta. Se non si capisce questo, se non capisce che cosa sta succedendo, si introduce un
risentimento con l’altro, con la vita. «Come mai mi fai desiderare così e poi non trovo una risposta
adeguata?» e per questo tante persone fanno così fatica a volersi bene, ad avere un'affezione a sé
perché è come se sentissero un'ingiustizia, come se tutto quello che il Mistero stesse facendo
emergere come per allargare il cuore, la vita, per riempirla, non avendo trovato ancora quello che la
riempie…. uno si arrabbia con tutto, si risente con tutto e invece di affezione a sé, covasse un
risentimento…
Come il Mistero continua questa opera, questa educazione dell’uomo per fargli allargare
costantemente tutta la capacità di accoglienza di quello che lui vuole riempire per potergli poi
rispondere? A volte neanche noi capiamo questo. Per questo ci ha aiutato molto il Papa quando in
queste catechesi bellissime che sta dandoci lungo l’anno della fede ci ha spiegato che cosa è il
desiderio di Dio. Perché lui si pone questa domanda: «Molti nostri contemporanei potrebbero infatti
obiettare di non avvertire per nulla un tale desiderio di Dio». Anche noi stessi possiamo dire: ma io
quante volte mi sorprendo desiderando Dio? Qualcuno potrebbe dire: "è sparito!". Invece il Papa ci
accompagna e ci prende per mano e ci dice: "guardate che forse le cose non sono così semplici e
immediate". «In realtà, quello che abbiamo definito come “desiderio di Dio” non è del tutto
scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo». Ma come si affaccia?
Come si affaccia questo desiderio di Dio? «Il desiderio umano - dice – tende sempre a determinati
beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali [e dico: ma questo non ha il desiderio di Dio, questo è
il desiderio dei beni concreti! ma dice], e tuttavia [malgrado tante volte quello che desideriamo sono
i beni concreti, tutt’altro che spirituali], tuttavia si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia
davvero “il” Bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé, che l’uomo non può
costruire, ma è chiamato a riconoscere». Allora anche noi ci troviamo, attraverso la ricerca dei beni
concreti, ci troviamo alla ricerca di qualcosa d’altro, perché continuiamo a cercare, continuiamo a
sorprendere in noi un desiderio di qualcosa d’altro; un bene – come diceva Dante – un bene per cui
tutti “contendiamo”. E allora il Papa dice: «che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo?»
Allora incomincia a percorrere alcune delle esperienze umane attraverso cui il Mistero ci fa
desiderare e ci educa ad allargare di più il desiderio. Per esempio l’esperienza dell’amore umano,
che nella nostra epoca è più facilmente percepita come un momento di estasi, di uscita di sé come
un luogo in cui l’uomo avverte di essere attraversato da un desiderio che lo supera. Ma questo
desiderio che lo supera cosa dice? Desiderio che va oltre i beni concreti è il desiderio di Dio. Noi
non lo diremmo così, tante volte non lo pensiamo così, neanche ci passa per l’anticamera del
5
cervello. Ma allora che cosa è questo Altro, questo desiderio che lo supera? «Attraverso l’amore
l’uomo e la donna sperimentano in modo nuovo, l’uno grazie all’altro, la grandezza e la bellezza
della vita (…). Attraverso tale cammino – dice – potrà progressivamente approfondirsi per l’uomo
la conoscenza di quell’amore che aveva inizialmente sperimentato». E cosa succede? Che
«nemmeno la persona amata è in grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi,
tanto più autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere
l’interrogativo sulla sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che esso ha di durare per
sempre. Dunque - dice il Papa - l’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda
oltre se stessi». E se noi di nuovo non capiamo questo quando viviamo una esperienza amorosa, di
nuovo ci arrabbiamo con l’altro perché non corrisponde a questo desiderio che ha destato, perché
nessuno desta un desiderio più grande che la persona amata. Ma se uno non capisce che questo
desiderio che desta è il bene più bello che mi è successo che è la persona amata, se non capisco
questo poi mi arrabbio con la persona amata perché non è in grado di compiere e comincia – tutti lo
sappiamo bene – la violenza, una pretesa tra di loro, che invece di aiutarsi a guardare a quell’oltre a
cui l’uno e l’altro rimandano, anche loro, come gli adolescenti si arruffano, anche loro si
"incastrano", si arrabbiano. Perché non capiamo che quello che desideriamo è Altro. Lo stesso
capita con altre esperienze – dice il Papa – umanissime: l’amicizia (possiamo avere dei rapporti
bellissimi tra gli amici e star benissimo insieme e non ci basta); l’esperienza della bellezza che ci
spalanca il cuore a qualcosa d’altro; l’esperienza della conoscenza. «Ogni bene sperimentato – dice
– protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si affaccia al cuore
dell’uomo si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato». E così,
attraverso quel dinamismo generato dal desiderio delle cose concrete, costantemente riappare
sempre sull’orizzonte il desiderio fondamentale, è il desiderio di qualcosa di più grande. E così per
tutta la vita il Mistero continua a educarci ad allargare il desiderio. E se pensavamo che questo
decadesse, a un certo punto ci succede qualcosa d’altro che mette di nuovo in moto il dinamismo.
Ma l’uomo non può conoscere a che cosa lo rimanda. «L’uomo conosce bene ciò che non lo sazia,
ma non può immaginare o definire ciò che gli farebbe sperimentare quella felicità di cui porta nel
cuore la nostalgia». Tante volte abbiamo pensato di averla identificata: “ah, è questo! È quest’altro;
adesso sì, adesso ci stiamo”. Pensiamo d’aver identificato il volto di quel mistero e ci troviamo di
nuovo davanti a qualcosa che ci rimanda oltre. «Non si può conoscere Dio a partire soltanto dal
desiderio dell’uomo. Da questo punto di vista rimane il mistero: l’uomo è cercatore dell’Assoluto e
tuttavia già l’esperienza del desiderio, del “cuore inquieto” come lo chiamava Sant’Agostino, è
assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è nel profondo, un essere religioso [non nel senso pio
del termine, ma nel senso che tutta la struttura dell’uomo lo rimanda oltre, che essere uomo coincide
6
con questa sua religiosità; se noi non la riduciamo a qualcosa di pio o devoto ma a questo essere
veramente uomini] come diceva Pascal l’esperienza dell’uomo che supera infinitamente l’uomo». E
per questo, attraverso questa pedagogia del desiderio – dice il Papa – si allarga costantemente la
nostra attesa facendoci impossibile accontentarci di meno. E questo alcune volte, uno dice: «sì, ma
dopo il peccato (Originale) questo è venuto meno». Ma neanche un po’ – dice il Papa – «anche
dopo il peccato rimane nell’uomo il desiderio struggente di questo dialogo, quasi una firma
impressa con il fuoco nella sua anima e nella sua carne dal creatore stesso3», perché questo non
riguarda soltanto qualcosa di sbagliato che abbiamo fatto ma riguarda (non lo capiamo!) la nostra
struttura di uomini. Per questo i salmi che a volte cantiamo che sono fatti da uomini peccatori come
noi, da uomini che li hanno scritti dopo il peccato originale, rimane questo: «o Dio tu sei il mio Dio,
all’aurora ti cerco, di Te ha sete l’anima mia, desidera Te la mia carne come terra arida, assetata,
senza acqua4”. Questo non l’ha scritto uno prima del peccato ma dopo il peccato! Cioè, non solo la
mia anima, ma ogni fibra del mio essere è fatta per trovare la sua realizzazione in Dio. E anche
quando si rifiuta o si nega Dio non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Altrimenti se
potessimo lo cancelleremmo. Ma c’è qualcosa che nessun potere di questo mondo, neanche noi
abbiamo potere su questa nostra struttura, su questo nostro essere; ci ha fatto così bene, ci ha fatto
così aperti che neanche se noi volessimo cancellarlo, come per interrompere questa possibilità di
compimento, potremmo farlo; occorrerebbe costantemente negare, rifiutare qualsiasi possibilità, ma
la nostra struttura continuerebbe a desiderare, come se non cedesse ogni fibra del nostro essere a
questa cancellazione che tante volte desideriamo. Come se uno volesse dire «non voglio bere acqua,
non ho sete»; ma dire che non ha sete è la conferma che ce l’ha. Può negare di bere l’acqua ma è la
conferma che ce l’ha. E questo dice fino a che punto Dio ci ha voluto così bene che ci ha fatto, ci ha
impresso in ogni fibra dell’essere questa apertura a Sé, per non danneggiare fino all’ultimo tutta la
nostra vita, che è lì sempre aperta, assetata di un’altra cosa.
Per questo dice il Papa: non si tratta dunque di soffocare il desiderio, come tante volte l’uomo
pretende, ma di liberarlo; di liberare il desiderio, non di cancellarlo, liberare tutta la portata del
desiderio perché se non liberiamo la portata del desiderio non possiamo capire cosa sia il Natale,
perché sembra qualcosa che è soltanto di nuovo per i pii o per i bigotti, non per l’uomo che attende
in ogni fibra dell’essere, con questo desiderio sterminato, una risposta. E anche – come dice
sant’Agostino – «con l’attesa Dio allarga il nostro desiderio [se si fa aspettare è perché lo
desideriamo di più! perché] col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace». Non
3
Benedetto XVI, Udienza generale, 7 novembre 2012
4
Sal 63 (62), 2
7
lo possiamo cancellare fino al punto che, tante volte, a uno può assalire l’idea che questo desiderio
sia veramente una condanna.
Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della sua natura, del proprio
desiderio? Non è meglio dimenticarsi, non è meglio cancellare, non è meglio bere per non essere
così consapevoli? Non è meglio cercare in tutti i modi, tutti i tentativi umani di strapparci quello che
ogni fibra dell’essere desidera? Questo non è forse una condanna, questo anelito verso l’infinito che
egli avverte senza poterlo soddisfare totalmente? E dice il Papa «questo interrogativo ci porta
direttamente al cuore del cristianesimo». Solo l’uomo che ha questa lealtà con se stesso, questa
passione per se stesso, questo amore a se stesso, questa capacità di abbracciare se stesso, può
veramente sentire la buona novella dell’annuncio cristiano. Perché proprio perché l’uomo non può
rispondere, il Mistero nel suo disegno aveva già pensato la risposta, aveva già pensato di creare un
uomo per dare la risposta. Il primo che aveva pensato era Gesù, era Cristo: io voglio mostrare, dare
a una creatura tutta la pienezza che io vivo da tutta l’eternità in questo rapporto unico e misterioso
tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Io voglio condividere con l’uomo tutta la felicità. E per
questo che cosa potrebbe fare per poter condividere con l’uomo tutto quello che Lui è, tutta la
felicità che ha dentro? Voleva generare un uomo che avesse in ogni fibra dell’essere un desiderio
così illimitato, così infinito che quando Lui decidesse di comunicarsi all’uomo, l’uomo avesse la
possibilità di ospitare la risposta. Se noi non capiamo questo ci arrabbiamo con il nostro desiderio.
Il desiderio sembra una condanna, quando [invece] è la condizione di possibilità, di poter
partecipare a una pienezza che tutti gli altri esseri non possono neanche sognarsi, immaginare.
Ma questo è quello che è successo: l’Infinito stesso per farsi risposta che l’uomo possa sperimentare
ha assunto una forma finita. Dall’incarnazione, dal momento in cui il Verbo si è fatto carne, che è
quello che celebriamo nel Natale, è cancellata l’incolmabile distanza tra finito e infinito. «E il Dio
eterno infinito ha lasciato il suo cielo, è entrato nel tempo e si è immerso nella finitezza umana5».
E come possiamo noi sapere con certezza che questo che annuncia il cristianesimo è successo, che
non sono parole al vento, che non è un annuncio irragionevole, senza nessun fondamento? Soltanto
quando troviamo, quando l’uomo ha trovato qualcuno che non aveva, non soltanto paura del
desiderio, ma neanche paura di questa struttura umana, e ha saputo non solo riconoscere quello per
cui siamo fatti, ma esaltarlo. «Solo il divino – scrive don Giussani – può salvare l’uomo, le
dimensioni vere e essenziali della figura dell’uomo6». Solo uno che sia Dio può essere in grado di
rendersi conto, di abbracciare tutto questo desiderio. Non diamo per scontato questo.
5
Benedetto XVI, Messaggio al XXXIII Meeting per l’amicizia fra i popoli (Rimini, 19 – 25 agosto 2012), 10 agosto 2012
6
L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana. Volume secondo del PerCorso, Rizzoli, 2011, p. 104
8
L’altro ieri mi è capitato un dialogo con una ragazza universitaria che davanti al desiderio
sconfinato che ribolle dentro di lei mi diceva «ma, tutti mi consolano ma nessuno prende sul serio il
mio desiderio». Trovare uno che prenda sul serio il desiderio di un altro sembrerebbe banale,
sembrerebbe quasi la cosa più normale, ma quando succede è straordinario perché tante volte noi
stessi, non essendo in grado di stare davanti a questo desiderio, non siamo in grado di stare davanti
al desiderio degli altri - non diamolo per scontato - e per questo cerchiamo di attutire un attimo…
"la vita lo sistemerà!": ci farà diventare scettici.
Per questo il primo segnale nella storia di quell’annuncio cristiano che era vero è che c’è stato Uno
che ha cominciato a guardare il cuore dell’uomo senza avere paura di quel desiderio, potendolo
guardare al punto di mostrare tutta la passione per il singolo uomo, perché tutto il problema della
vita, tutto il problema dell’universo è la felicità del singolo uomo perché non c’è un altro problema
nella vita più importante, più decisivo, che la felicità dell’uomo. Se tutto il resto nella vita
funzionasse, e non ci fosse niente di quello che a noi ci dispiace che ci sia (ci fa dispiacere), ma
l’uomo non fosse felice, che cavolo significa vivere? Perché varrebbe la pena vivere? Per questo
tutto il problema dell’esistenza e del mondo è la felicità del singolo uomo. Se un uomo non può
raggiungerla tutto il resto è senza senso.
Allora, che uno possa guardare l’uomo senza ridurlo e possa dire tutta la stima che ha per tutto
quello che desidera fino al punto di dire «ma qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo
intero e poi perderà se stesso?7» sta dicendo questo. Ma noi questa frase, come altre, la
riconduciamo soltanto moralisticamente come se stesse chiedendoci tutto. No, è uno sguardo
sull’uomo che non riduce l’uomo, che è una passione per ciascuno di noi: ma che ti serve
guadagnare tutto il mondo se tu non sei felice? Solo uno che dice così, ama l’uomo, tutto il resto
non è all’altezza dell’uomo, non è un amore vero all’uomo. Tante persone ti danno tutto, ma
neanche un istante di questo. Per questo, sorprendere che un uomo nella semplicità del suo vivere
umano potesse trovare della gente e prendersi cura della sua umanità, del suo bisogno umano, era la
prova “provata” che il Mistero era presente in mezzo a noi.
«Mentre Gesù si avvicinava a Gerico un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo
passare la gente domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: passa Gesù, il Nazzareno. Allora
gridò dicendo “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me”. Quelli che camminavano avanti lo
rimproveravano perché tacesse, cercavano in tanti modi di farlo tacere (la cospirazione! Questi sono
quelli che gli vogliono bene!) ma egli gridava ancora più forte “Figlio di Davide abbi pietà di me”,
Gesù allora si fermò, ordinò che lo conducessero da Lui e quando fu vicino domandò “che cosa
vuoi che faccia per te?”, egli rispose “Signore, che io veda di nuovo” e Gesù gli disse “abbi di
7
Mt 16, 26
9
nuovo la vista” 8». Ma il miracolo più grande da cui i discepoli erano colpiti tutti i giorni non era
quello delle gambe raddrizzate o della pelle mondata, della vista riacquistata (come questo cieco), il
miracolo più grande era quello di uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre.
Non c’è nulla che convinca l’uomo come uno sguardo che afferri e riconosca ciò che esso è, che
scopra l’uomo a se stesso9. Come succede a quella donna: «Giunse così a una città di Samaria
chiamata Sicar vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio. Qui c’era un pozzo
di Giacobbe. Gesù dunque affaticato per il viaggio sedeva presso il pozzo, era circa mezzogiorno.
Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù “dammi da bere” [qui vediamo, in
questo dialogo, la struttura di quello che diceva il Papa, sembra che questa donna non abbia altro da
pensare che l’acqua, un bene concreto]. “Dammi da bere”, i suoi discepoli erano andati in città.
Allora la donna samaritana dice “come mai [come se non capisse] tu che sei giudeo chiedi da bere a
me che sono una donna samaritana?”. Gesù le risponde “se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui
che ti dice ‘dammi da bere’ tu avresti chiesto a lui e egli ti avrebbe dato acqua viva”. “Ma Signore
se il pozzo è profondo e non hai un secchio, da dove prendi tu questa acqua viva? Sei tu forse più
grande del nostro padre Giacobbe che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo
bestiame?” [come senza lasciarsi distrarre Gesù dal tentativo della donna di staccarlo da quello che
a lui interessa, va al cuore della questione] “Chiunque beve questa acqua – ragazza – avrà di nuovo
sete, ma chi berrà dell’acqua che io gli darò non avrà più sete. Anzi, l’acqua che io gli darò
diventerà una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” [Allora appare davanti a questo
contraccolpo di Gesù il vero desiderio, la natura di quello che lei cercava in quel bene che era
l’acqua]. “Allora Signore dammi di quest’acqua perché io non abbia sete e non continui a venire qui
ad attingere acqua” 10», cioè il desiderio è non avere più sete. Gesù diventa uomo per rispondere a
questa sete perché, come ha detto [il Papa] al Sinodo sulla nuova evangelizzazione nel suo
messaggio «non c’è uomo o donna che nella sua vita non si ritrovi come la donna Samaritana
accanto a un pozzo con un’anfora vuota nella speranza di trovare l’esaurimento del desiderio più
profondo del cuore, quello che solo può dare significato pieno alla esistenza. Molti sono oggi i
pozzi che si offrono alla sete dell’uomo, tutti sappiamo che ci sono tantissime offerte per rispondere
a questa sete [ciascuno può decidere, libertà di culti, siamo nella celebrazione dell’anniversario
dell’Editto di Milano… libertà!; il problema è quanto uno ama se stesso, quanto uno è leale con la
sete che ha, con la natura della sete perché allora ci sono tante ipotesi che offrono risposte che tutti
8
Mc 10, 46-52
9
L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 62.
10
Gv 4, 7-15
10
sappiamo quanto siano insufficienti]. Per questo occorre discernere per evitare acque inquinate.
Come Gesù al pozzo di Sicar, anche la Chiesa sente di doversi sedere accanto agli uomini e alle
donne di questo tempo per rendere presente il Signore nella loro vita così che possano incontrarlo
perché solo il Suo spirito è l’acqua che dà la vita eterna. Solo Gesù è capace di leggere nel
profondo del nostro cuore e di svelarsi nella nostra verità. Come dice la donna a un certo punto,
nella prosecuzione del dialogo, “mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia Lui il Cristo?” 11»
Perché si pone questa domanda? Perché davanti a quella presenza che ha colto tutta la sete di quella
donna, che ha avuto uno sguardo rivelatore del suo umano fino al punto di dirle tutto quanto di sé,
non può evitare [di dire] “ma una [cosa] così, che cosa significa? Che sia lui il Cristo?.
Ma questo accade oggi. Come accade oggi? Di recente una ragazza mi ha scritto questo «circa un
mese fa la mia vita ha avuto una svolta, finalmente! Dopo giorni e mesi di totale apatia ho
incontrato qualcosa di così bello e grande che non potevo più rimanere al punto in cui ero prima.
Ma prima dov’ero? Vivevo i giorni sperando che passassero in fretta, senza avere la minima
cognizione di quello che stesse capitando attorno a me, ma soprattutto dentro di me. Ma ho vissuto
settembre con ansie e angosce terrorizzata dall’arrivo in università non sapendo che mi avrebbe
atteso la scoperta più grande, la scoperta di me, la vera me che si era assopita e che avevo
dimenticato. Grazie a una compagna del liceo, a settembre sono arrivata in università e Qualcuno
(con la maiuscola), ne sono certa, ha voluto farmi un dono, il regalo inaspettato a cui sono grata e
che mi ha cambiato la vita: il fatto di avere assistito alla presentazione del mio corso di laurea fatto
da alcuni universitari il 20 settembre (mi ricordo perfino la data con certezza) e di aver conosciuto
subito dopo nell’atrio quelle persone che mi han lasciato una sensazione che ancora mi commuove.
Quelle persone mi avevano già colpito, si capiva però che c’era qualcosa di diverso in loro, che
quella familiarità tra di loro non era scontata; e son tornata a casa contenta dell’esperienza fatta e un
po’ più convinta della scelta universitaria. E poi ho seguito altri gesti che facevano, spinta dalla
curiosità, e per la prima volta ho visto cosa significa vivere qualcosa, la vita così profonda e così
vera insieme. E come mi sono sentita quando è finita? Le uniche parole che potevo pronunciare
erano queste “ma che bello! Una cosa così non l’ho mai vista e vissuta”. E a tutti quelli scettici che
incontravo dicevo “grazie per l’obiezione che mi fai perché, senza la tua obiezione a quello che mi
sta capitando, io non avrei potuto approfondire le ragioni per cui io sto con questi, non sarei andata
fino in fondo”. E questo per me, questo luogo è il segno più tangibile della presenza di Cristo».
Oggi come duemila anni fa! Tale e quale: il senso della vita si è rivelato a noi e si rivela a noi,
colpisce la nostra esistenza dentro una realtà umana fisicamente percettibile; è un pezzo di tempo e
di spazio che ci percuote con un accento inconfondibile di promessa, di speranza, di prospettiva e a
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Messaggio al popolo di Dio, XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 7 – 28 ottobre 2012
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cui mi attacco, come i discepoli si sono attaccati a Gesù. Adesso, attraverso la sua presenza storica
nel suo corpo che è la Chiesa. La fede cristiana è riconoscere non un elenco di cose da fare, non una
dottrina, non un'organizzazione, non partecipare a un club, la fede è riconoscere il Divino presente.
Come questa ragazza, come duemila anni fa Simone, o la Maddalena, o la Samaritana, o Zaccheo,
magari secondo una formalità apparentemente più fragile e tangenziale, ma come allora colpiti dal
presentimento di una presenza per una vita diversa che vediamo davanti ai nostri occhi.
È questo che noi celebriamo nel Natale perché senza una presenza così, ora, noi non possiamo
volerci bene ora, non possiamo vincere questo risentimento che tante volte abbiamo rispetto al
nostro desiderio, non possiamo guardarlo in faccia, abbracciarlo. Come diceva un padre della
Chiesa, san Giovanni Crisostomo – e finisco – «non solo con tutto questo io testimonio il mio
amore, per te sono stato coperto di sputi e percosse, mi sono spogliato della mia gloria, ho lasciato il
Padre mio e sono venuto a te. Tu che mi odiavi, mi fuggivi e non volevi nemmeno udire il mio
nome, ti ho inseguito, ho corso sulle tue tracce per impossessarmi di te, ti ho unito e ti ho legato a
me, ti ho tenuto stretto, ti ho abbracciato. Io ho me nel cielo e mi lego a te su questa terra, ma non
mi basta che io possegga nel cielo le tue primizie, questo non sazia il mio amore, sono disceso
nuovamente sulla terra non solo per mescolarmi tra quelli della tua gente ma per abbracciare stretto
proprio te12». Per questo celebriamo il Natale. La Chiesa celebra il Natale perché possiamo
riconoscere, percepire come esperienza questo abbraccio, proprio a te, alla tua umanità così come è
fatta, con tutto il desiderio con cui è fatta, per poterla compiere.
Buon Natale a tutti.
Don Michele BERCHI
Alzandoci in piedi, concludiamo partecipando al canto del coro “Incarnatus est”, mentre chiudiamo
insieme il sacello.
(Testo non rivisto dall’autore)
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San Giovanni Crisostomo, Omelie sulla prima lettera a Timoteo, 15