Materiali di diritto pubblico - Benvenuti nel regno di moloch

CLEA
DIRITTO PUBBLICO – Prof. di Plinio
MATERIALI A USO DEGLI STUDENTI FREQUENTANTI
I serie (Istituzioni)
Sommario
I.
DIRITTO E TECNICHE GIURIDICHE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
II.
FONTI DEL DIRITTO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
III.
Società e diritto
Condizioni di stabilità
Norma giuridica.
Caratteri delle norme giuridiche
Ordinamento giuridico
Soggetti di diritto
Situazioni e atti giuridici
Tecniche e dinamiche
Il concetto di diritto
I valori giuridici
I limiti del diritto
Casi.
Diritto, storia, costituzione
Diritto positivo / diritto naturale
Il diritto pubblico
Teoria delle fonti
Interpretazione / Anomie
Antinomie
Sistema delle fonti
Gerarchia
Fonti supreme e costituzionali
Costituzione formale
Leggi costituzionali
Fonti comunitarie
Fonti Speciali / Rinforzate
Legge formale ordinaria
Fonti equiparate (1)
Fonti equiparate (2)
Fonti secondarie statali
Fonti delle Autonomie
FONTI EUROPEE
16.
17.
18.
19.
20.
21.
22.
23.
24.
25.
26.
Il sistema delle fonti comunitarie.
Quadro e tipologia
Classificazioni.
Consolidamento.
I Trattati.
I principi generali del diritto
Accordi di diritto internazionale
Atti e fonti di diritto derivato
Direttive
Direttive “self executing”
Regolamenti.
27.
28.
29.
30.
IV.
LE FORME DI GOVERNO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
V.
Lo Statuto Albertino
Caratteri ed evoluzione
La finanza
La legislazione amministrativa.
La piramide del potere
I poteri locali
I sintomi della crisi
La transizione
L’età giolittiana
Il fascismo
La Repubblica
La Costituzione repubblicana
I valori fondamentali
Inattuazione della Costituzione.
La crisi fiscale
IL PARLAMENTO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
VII.
Concetti
Precisazioni
Sovranità e indirizzo politico
Potere distribuito.
Potere limitato
Classificazioni
Sistemi elettorali
Formule elettorali
Comparazione
Forma di governo britannica
Forma di governo francese
Forma di governo tedesca
Forma di governo americana
Forma di governo italiana (1)
Forma di governo italiana (2)
Forma di governo italiana (3)
EVOLUZIONE DELLO STATO ITALIANO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
VI.
Decisioni
Caratteri e procedure
Raccomandazioni
Pareri
Premessa
Requisiti per l’elettorato passivo
Bicameralismo italiano
Autonomia delle camere/1
Autonomia delle camere/2
Struttura interna
Principio di continuità
Formazione della volontà delle Camere
Funzione legislativa. Procedimento ordinario/1
Funzione legislativa. Procedimento ordinario/2
Gli altri procedimenti/1
Gli altri procedimenti/2
Funzione di indirizzo e controllo
Funzione ispettiva
Parlamento in seduta comune
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
VIII.
IL GOVERNO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
IX.
Nozione
Struttura e funzioni
Formazione
5.Fiducia
Crisi di governo
Presidente del consiglio (1)
Presidente del consiglio (2)
Presidenza del consiglio
Ministri
Consiglio dei ministri
Comitati interministeriali
Politiche governative
Strumenti
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
X.
Natura
Elezione
Scadenza del mandato
Continuità.
Controfirma
Reati presidenziali
Posizione costituzionale
Funzioni internazionali
Rapporti con il potere legislativo (1)
Rapporti con il potere legislativo (2)
Rapporti con il Potere esecutivo (1)
Rapporti con il Potere esecutivo (2)
Rapporti con il Potere giudiziario
Sovranità e apparati
Diritto amministrativo (1)
Diritto amministrativo (2)
Nozione giuridica di PA
Principi costituzionali
Struttura
I Ministeri
9 L’organizzazione periferica
Gli enti pubblici
Il pubblico impiego
Funzione amministrativa.
Procedimento amministrativo
Atto e provvedimento
Attività contrattuale
Servizi pubblici
Modernizzazione amministrativa
LE AUTONOMIE TERRITORIALI
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Fase postliberale
Il modello
La Costituzione repubblicana
Millennium Transition
Le riforme
La Regione
Il federalismo “statutario”
Il Governo regionale
Sussidiarietà e Devolution
La competenza legislativa
11.
12.
13.
14.
XI.
CORTE COSTITUZIONALE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
XII.
Premessa
Principi costituzionali (1)
Principi costituzionali (2)
Ordinamento giudiziario
Il Giudice civile
Il Giudice penale
I Giudici requirenti.
I Giudici amministrativi
Altri giudici speciali
La Corte di Cassazione
CSM (composizione)
CSM (le funzioni)
Pubblico Ministero
Il Consiglio di Stato
La Corte dei Conti
Il processo
Riforme
DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO INTERNO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
XIV.
Ragioni
Modello
Estensione
Composizione
Le funzioni
Il giudizio in via incidentale (1)
Il giudizio in via incidentale (2)
Sentenze manipolative
Il giudizio in via principale
I conflitti di attribuzione
Giudizi sulle accuse.
Ammissibilità del referendum
Ruolo e posizione costituzionale della Corte
LA MAGISTRATURA
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
XIII.
Amministrazione e finanza
Rapporti verticali
Enti locali / Modello organizzativo
Autonomia e funzioni
Norme interne e norme comunitarie
Il primato: sentenza Costa c. ENEL
Il primato: sentenza “Simmenthal”
La concezione “monista” della Corte di giustizia
Ordinamento italiano e ordinamento comunitario
Ordinamento comunitario e art. 11 della Costituzione
La concezione “dualista”: Corte costituzionale italiana
Evoluzione: la sentenza “Frontini”
I “limiti” della sentenza Frontini
L’allineamento: la sentenza “Granital”
Il Tribunale costituzionale federale tedesco
Giurisprudenza del Tribunale costituzionale tedesco
Monismo e dualismo: diversa teoria, stessi effetti
La teoria dei «controlimiti»
DIRITTI E LIBERTÀ
1.
2.
I diritti inviolabili
Il sistema dei diritti
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
Principio di eguaglianza
Libertà personale
Libertà di manifestazione del pensiero
Privacy
Libertà di circolazione
Iniziativa economica privata
Proprietà privata
I diritti sociali
Diritto alla salute
Diritto al lavoro
Libertà sindacale
Tutele transnazionali
Fonti internazionali e comunitarie.
Comunità, mercato, diritti.
Cittadinanza dell'Unione europea
I diritti e la Corte di giustizia.
Il principio di eguaglianza
DIRITTO E TECNICHE GIURIDICHE
I.
1.
Società e diritto
Il controllo degli esseri umani sull’habitat e sulle risorse naturali inizia con il passaggio dalla mera
convivenza alla cooperazione in società, di natura e forma variabili, il cui presupposto necessario è la stabilità
di lungo periodo, evitando che i conflitti tra i loro membri rendano impossibile la cooperazione.
Questa funzione di stabilizzazione è svolta dal diritto.
In ogni tempo e in ogni luogo del pianeta, ogni società umana possiede dunque il suo diritto (ubi
societas, ibi jus), inteso come sistema di regole, il cui fine generale consiste appunto nella prevenzione, nel
controllo e nella soluzione dei conflitti, mediante tecniche giuridiche adeguate.
Queste hanno natura e consistenza variabile, da forme estremamente semplificate, come l’ordalia,
alle più complesse, come le attuali procedure urbanistiche, ma hanno in comune la causa efficiente, cioè
la difesa della società dal pericolo che i conflitti finiscano per distruggere le basi di convivenza e di
cooperazione su cui essa si fonda.
2.
Condizioni di stabilità
Ai fini del corretto funzionamento nella dinamica sociale le tecniche giuridiche debbono essere
adeguate rispetto alla direttiva primaria (stabilizzare la cooperazione), e, a seconda delle circostanze,
adattarsi alle condizioni materiali (storiche, economiche e naturali) della società di riferimento.
Un primo corollario è la relatività storica dei fenomeni giuridici: il diritto non può identificarsi con sistemi
e società particolari, come ad esempio la Grecia di Atene o lo Stato liberale in Italia, ma presenta una
variabilità sincronica (spaziale) e diacronica (temporale) di forme e di modelli.
Una seconda conseguenza è che il diritto nel suo complesso (non una singola regola imposta a un
soggetto recalcitrante) non funziona solo perché imposto con la forza o con altri sistemi, quanto perché
esso riflette le esigenze materiali di ogni determinata fase della cooperazione all’interno di società
umane organizzate, e deve essere coerente con tali esigenze, altrimenti resterebbe inapplicato, o, se
imposto, porterebbe quella società all’autodistruzione.
Infine il diritto deve essere, rispetto alla società che ordina, razionale e legittimato, perché solo a queste
condizioni acquisisce effettività, cioè si poggia saldamente sulla convinzione collettiva della sua necessità.
3.
Norma giuridica.
Nell’antichità le tecniche giuridiche assumevano in genere forme concrete, cioè modellate sul caso
particolare, e attivate successivamente all’insorgere di un conflitto.
Nei moderni sistemi giuridici i conflitti sono risolti in modo astratto, perché sono disciplinati
preventivamente al loro effettivo verificarsi, mediante modelli, espressi in forma condizionale e in
termini di potere o di dovere: chi si trova in una certa condizione può (o a seconda dei casi non può, o deve, o
non deve) tenere un certo comportamento; il contesto del modello si chiama tecnicamente “fattispecie”.
Gli strumenti di comunicazione sociale delle fattispecie e delle reazioni del diritto alle violazioni
sono le norme giuridiche, i cui caratteri fondamentali nella società moderna sono l’astrattezza, la generalità (la
norma si applica a tutti i casi concreti che rientrano nella fattispecie-modello), e la sistematicità (sono
interconnesse, e spesso ulteriormente riconducibili a norme sempre più generali).
4.
Caratteri delle norme giuridiche
Nelle varie società esistono diversi sistemi di norme non giuridiche (familiari, etiche, religiose); tutti
possono essere dotati di sanzione, ma a questa l’individuo può sottrarsi, semplicemente uscendo (o
venendo espulso) dal gruppo. Alla norma giuridica, invece, nessuno può in alcun modo sottrarsi.
A differenza di tutte le regole sociali, le norme giuridiche sono coattive, in vari sensi:
a) perché sono obbligatorie, cioè necessarie (si applicano anche contro la volontà del destinatario), e
vincolanti (nessuno deve violarle);
b) perché agiscono in modo collegato (sono cioè co-attive), in quanto la violazione di una norma fa
scattare meccanismi sanzionatori, che a loro volta sono previsti da altre norme, che si rivolgono a
soggetti incaricati appositamente di applicare le sanzioni, e che sono a loro volta protette da ulteriori
sanzioni;
c) perché sono coercibili, cioè eseguibili coattivamente in forma specifica, come avviene quando si dispone
la vendita all’asta dei beni di un debitore inadempiente, e protette dall’uso esclusivo della forza, come
avviene quando chi viola la norma tenta di evitare la sanzione usando la forza. La coercibilità è resa
possibile dall’esistenza di strutture organizzative specializzate, come pubbliche amministrazioni, forze di
polizia, enti, istituzioni.
5.
Ordinamento giuridico
L’insieme delle norme giuridiche di una determinata società costituisce l’ordinamento giuridico, che ha
ovviamente gli stessi attributi peculiari della norma giuridica. I suoi elementi necessari sono la
plurisoggettività (una collettività di individui che convivono e cooperano), la normazione (un sistema più o
meno complesso di regole giuridiche), l’organizzazione (una struttura di apparati, istituzioni, centri di
potere cui è demandata la dinamica dell’ordinamento, cioè la predisposizione e l’applicazione delle
regole, la soluzione dei conflitti, la coercizione, l’uso della forza).
Nella società moderna tali elementi, insieme ai caratteri di necessarietà. coercibilità e monopolio
della forza, esistono solo negli Stati e, negli anni più recenti, anche nelle istituzioni sovranazionali
(ONU, WTO, UE etc.), che sono proiezioni degli Stati; solo a questi livelli la coattività
dell’ordinamento diventa piena, identificandosi con il concetto di sovranità.
La teoria della pluralità di ordinamenti giuridici è pertanto infondata, a meno che si alluda alla pluralità
di Stati e di entità sovranazionali; gli altri ordinamenti (la famiglia, il sindacato, la religione) non sono
propriamente ordinamenti giuridici, ma ordinamenti sociali.
6.
Soggetti di diritto
I destinatari delle norme giuridiche sono i soggetti di diritto, quali centri di imputazione di diritti e
doveri (situazioni giuridiche soggettive).
I veri soggetti del diritto sono gli individui, cioè le persone fisiche, perché solo essi sono in grado di
agire. Le persone fisiche sono dotate di capacità giuridica, cioè attitudine a essere titolari di diritti e
obblighi, che si acquista con la nascita, e capacità di agire, cioè legittimazione a disporre dei propri
diritti, che si acquista con la maggiore età, a meno di situazioni particolari (interdizione).
A volte il diritto compie una finzione, attribuendo con procedure particolari (riconoscimento), la
capacità giuridica a persone giuridiche, per varie e importanti ragioni derivanti dalla complessità sociale; ad
esempio, costruire uno schermo tra una società e i suoi soci, per limitare legittimamente la
responsabilità economica di questi. Le persone giuridiche ovviamente agiscono per mezzo di persone
fisiche (organi). Le principali forme sono le associazioni, in cui prevale l’elemento personale (ad esempio
società commerciali), e le fondazioni, in cui vi è un patrimonio destinato a uno scopo. La personalità
giuridica (pubblica) è anche tipica di alcuni pubblici poteri (enti pubblici) dello Stato nel diritto
internazionale, e di alcuni poteri sovranazionali nei diritti interni (ad esempio, la Commissione europea).
7.
Situazioni e atti giuridici
Le situazioni giuridiche soggettive sono le posizioni di potere o di dovere che le norme imputano
variamente ai soggetti di diritto. Si distinguono in attive (attribuite nell’interesse del soggetto), e passive
(cui il soggetto è tenuto nell’interesse di altri). Fanno parte delle prime la libertà giuridica, il diritto soggettivo,
l’interesse legittimo, delle seconde il dovere giuridico, l’obbligo, la soggezione. Carattere speciale possiede lo status,
che comprende un fascio di situazioni giuridiche, sia attive, che passive (status familiare, cittadinanza,
status di socio etc.)
Sebbene anche i fatti naturali producano a volte effetto giuridico, la dinamica del diritto è azionata
essenzialmente dagli atti giuridici, cioè dalle azioni dei soggetti di diritto.
Gli atti giuridici sono le tecniche fondamentali che consentono alla cooperazione fra gli individui di
svolgersi dinamicamente nella società, e ai centri di potere pubblico di produrre e applicare le norme
giuridiche.
Gli atti giuridici possono produrre effetti giuridici in ogni caso (atti in senso stretto o non negoziali),
o solo se voluti dal soggetto stesso (atti negoziali); per questi ultimi assume grande rilevanza la
dichiarazione di volontà, che non deve essere viziata da errore, violenza o dolo, pena l’invalidità
giuridica.
8.
Tecniche e dinamiche
Riassumendo, la tecnica di funzionamento della norma consiste nella previsione di un contesto
(fattispecie) in cui a un destinatario (soggetto di diritto) sono attribuite posizioni di diritto attive o passive
(situazioni giuridiche soggettive) in base alle quali può, o non può, o deve, o non deve compiere azioni (atti
giuridici)
Attraverso gli atti giuridici il diritto formale scritto nei codici (law in the books) modifica la realtà
risolvendo i conflitti che si verificano nella società. Il diritto in tal modo si materializza, presentandosi
come diritto vivente (law in action).
A volte si rileva uno scarto, anche consistente, tra la law in action e la law in the books. In molti casi, ciò
dipende dalla incompletezza della fattispecie astratta, o dalla cattiva formulazione delle norme; a volte
però la causa del divario va ricercata nel mutamento socioeconomico. L’ordinamento giuridico in
genere dispone degli strumenti di riforma che consentono di aggiornare e migliorare le proprie norme; a
volte però il mutamento materiale è talmente radicale e rivoluzionario che la società ritira il suo consenso
al diritto formale; l’ordinamento entra in crisi di razionalità e di legittimazione, viene travolto nelle sue
componenti, in particolare nei centri di potere, e sostituito integralmente da un nuovo ordinamento.
9.
Il concetto di diritto
Dobbiamo a questo punto riflettere su alcune questioni scientifiche generali. La teoria pura o formale
del diritto sostiene che il sistema normativo è autosufficiente; il diritto sarebbe una scienza di norme e il
suo studio e la sua applicazione dovrebbero basarsi solo su queste, così come sono nell’ordinamento
positivo.
Questa teoria è scientificamente incompleta, per varie ragioni. In particolare essa non spiega lo
scarto tra diritto formale e diritto vivente. I due problemi fondamentali del diritto - quello ontologico
(in che consiste) e quello teleologico (come funziona) – sono in realtà strettamente complementari.
Il diritto dipende dalla dinamica concreta delle relazioni e dei conflitti; questi a loro volta dipendono
dalle pressioni della struttura socioeconomica, in una prospettiva storicizzata.
Il diritto, dipendendo dal “fatto”, ne segue il movimento e le trasformazioni, e si trasforma quando
la struttura socioeconomica assume nuovi assetti e nuove configurazioni: il diritto rappresenta uno dei
più forti condizionamenti sociali, ma esso stesso è condizionato dalla matrice economica della società,
nel suo storico divenire.
10.
I valori giuridici
L’ordinamento giuridico contiene un sistema di valori giuridici fondamentali, che danno
giustificazione e contenuto alle regole; tali valori non possono essere irrazionali, perché, semplicemente,
non funzionerebbero; in ogni tempo, in ogni luogo essi sono formulati in armonia con le condizioni
materiali e culturali della società in quel tempo ed in quel luogo, altrimenti la stessa società o si ribella al
diritto oppure blocca irrimediabilmente il suo funzionamento e si avvia al declino.
Questo non significa affatto che tutte le norme giuridiche e che tutti i diritti sono comunque giusti o
giustificati, ma solo che esiste una tendenziale coerenza tra l’ordinamento giuridico e la società in cui esso si
applica. Sotto questo profilo l’unità di misura scientifica storicamente universale del fenomeno giuridico
non può che essere il sistema economico, cioè il modo di produzione della stessa esistenza degli uomini.
11.
I limiti del diritto
La stabilità economica costituisce un limite inviolabile per il diritto; se attraverso l legge si potesse
davvero obbligare la società verso un percorso incompatibile con le matrici intime del sistema
economico, questo sarebbe irrimediabilmente bloccato.
Ciò significa che in ogni fase storica sono razionali e legittimati solo i vincoli giuridici che rientrano
nel margine di elasticità del modello sociale e del ciclo produttivo, in relazione a un livello dato di
sviluppo.
La relazione delle forme del diritto con il modo di produzione è dialettica, fatta di reciproche
interferenze e di interconnessioni con altri grandi fattori di configurazione dei quadri storici (le
tradizioni, la cultura, la lingua, la posizione geografica, il clima, l’ambiente naturale, la scienza e la
tecnica), che a loro volta spiegano, a parità di modello produttivo, la relativa variabilità di forme
giuridiche compatibili.
12.
Casi.
Il diritto non può fare tutto: può solo disciplinare i fatti, non può crearli. I rapporti socioeconomici
non possono essere modellati con atti di forza, a meno che non ne esistano i presupposti materiali di
razionalità e legittimazione. Vediamo alcuni esempi.
a) In società semiprimitive a diritto “matrilineare” la proprietà dei beni si trasmette di madre in
figlia; secondo gli antropologi in tali società la cultura collettiva non conosce l’effetto del rapporto
sessuale sulla gravidanza, e quindi non esiste la figura del padre. così che la certezza giuridica dei legami
tra le generazioni si fonda sulla maternità. In una società di questo tipo l’eguaglianza giuridica dei sessi
non potrebbe essere imposta con la forza, senza distruggerla alla radice.
b) La schiavitù, come sistema giuridico, è possibile, cioè stabile e razionale, solo quando "due
braccia producono più di quanto una bocca mangi", cioè quando vi sia la possibilità di un
sovrapprodotto sociale; un diritto schiavistico, in sostanza, è inimmaginabile prima della rivoluzione
neolitica.
c) È convinzione comune che il monarca assoluto disponesse di un potere pressoché totale, ma
anche in questo caso l’economia poneva un limite invalicabile al suo potere giuridico: a parte le reazioni
e le rivolte, una eccessiva imposizione fiscale era materialmente impossibile senza impoverire le
dinamiche della produzione della ricchezza, e di conseguenza distruggere progressivamente la stessa
finanza del sovrano.
d) E anche la moderna legislazione ambientale deve fare i conti con la riproducibilità e l’efficienza
del ciclo produttivo: i vincoli giuridici tali da impedire alle imprese di produrre o da restringere al di
sotto di certi limiti le loro aspettative di reddito bloccherebbero le matrici economiche del sistema.
13.
Diritto, storia, costituzione
I caratteri di storicità e relatività dei fenomeni giuridici implicano che non esiste “il” diritto ma
esistono “i” diritti, intesi come sistemi giuridici storicizzati, ciascuno dei quali trae razionalità e
legittimazione da assetti storici della società e dell’economia, e si estingue con il mutare di tali
condizioni.
In termini di cultura giuridica, la spiegazione del cambiamento richiede un linguaggio più preciso.
Un nucleo di valori (core) in ogni fase storica traduce in linguaggio giuridico le regole intime della
cooperazione; esso costituisce anche il core dell’ordinamento giuridico; possiamo chiamare tale nucleo
costituzione in senso materiale (costituzione vivente) della società e dell’ordinamento giuridico che ne
disciplina l’organizzazione e il funzionamento. Il cambiamento, superficiale o profondo o addirittura
sovversivo del diritto dipende dalla intensità del mutamento della costituzione materiale.
14.
Diritto positivo / diritto naturale
L’aspetto dinamico di uno specifico ordinamento giuridico, in un determinato periodo storico e in
un determinato territorio, costituisce, per quel tempo e quel luogo, il diritto positivo (da positum, cioè
imposto, necessario).
Una corrente di pensiero afferma che gli ordinamenti positivi sono validi e vanno osservati solo se
conformi al diritto naturale, cioè un sistema di valori che sarebbero dettati direttamente dalla natura
dell’uomo e del mondo.
Ma esiste davvero il diritto naturale?
La supremazia di leggi di natura sul diritto positivo è scientificamente infondata, anche perché è
smentita dalla critica storica, basata sulla teoria della relatività e della storicità dei valori giuridici. Ma la
critica più radicale al diritto naturale è quella illuministica, che muove dalla irrazionalità scientifica della
derivazione da una proposizione descrittiva (cioè la descrizione di un fatto) di una proposizione
prescrittiva (cioè l'imposizione di un valore).
Affermare che il leone mangia la gazzella, e che ciò avviene in natura, e dunque è giusto, è
logicamente scorretto sia come ragionamento in sé, sia qualora se ne traggano generalizzazioni (la legge
del più forte, il principio meritocratico); infatti, il ragionamento manca di una premessa maggiore, cioè
che un fatto è giusto se avviene in natura, che poi significa che tutto quello che avviene in natura è
giusto. Con ciò, i valori prescrittivi perdono di significato, perché un fatto sarebbe legittimo solo perché
è avvenuto, e dunque non servirebbe più alcun diritto.
15.
Il diritto pubblico
La catalogazione e la spiegazione degli ordinamenti giuridici è l’oggetto della scienza del diritto, la
quale ha diverse partizioni (settori scientifico-disciplinari), a dire il vero dovute più a questioni
accademiche e didattiche che a reali esigenze scientifiche.
A parte alcune discipline comuni (teoria generale, diritto comparato) o di confine (filosofia del
diritto) la prima dicotomia è quella tra diritto privato e diritto pubblico; il primo studia regole e modelli dei
rapporti tra individui e gruppi in posizione simmetrica di parità; le sue partizioni interne più importanti
sono il diritto civile, il diritto del lavoro, il diritto commerciale.
Il secondo ha come oggetto l’analisi e la catalogazione dei centri di potere (autorità) e delle relazioni tra
questi e la libertà degli individui. In particolare il suo oggetto è tradizionalmente lo Stato, e si è poi
esteso ai poteri sovranazionali. La suddivisione principale è tra il diritto costituzionale (più orientato alla
struttura e alla dinamica dei centri di potere sovrano) e il diritto amministrativo, che ha per oggetto
l’organizzazione e la funzione delle pubbliche amministrazioni, quali apparati serventi dei centri di
potere. Esso comprende inoltre, tra le altre partizioni, il diritto penale, il diritto processuale, il diritto
internazionale.
II.
1.
FONTI DEL DIRITTO
Teoria delle fonti
La teoria delle fonti e l’individuazione delle singole fonti rilevanti in ciascun ordinamento giuridico ha
una cruciale importanza, perché mette ordine nel sistema giuridico e consente di individuare con
procedure razionali la norma applicabile.
Fonte di produzione del diritto è “qualsiasi atto o fatto che l’ordinamento giuridico considera idoneo a
produrre norme giuridiche valide a innovare all’ordinamento giuridico stesso”. In sostanza è
l’ordinamento stesso che sceglie le sue fonti, attraverso norme specifiche a queste dedicate, le norme sulle
fonti.
Al riguardo, un problema classico è: se le fonti di produzione traggono legittimità da norme sulle
fonti, quali sono le fonti di queste, e dove traggono la loro validità? Dire che esistono fonti di norme
sulle fonti introdurrebbe un circolo vizioso infinito. Hans Kelsen, nella sua teoria dello Stufenbau,
immagina che esista una norma-base, una Grundnorm, che per il diritto e la scienza giuridica costituisce un
dato, il cui studio non rientra nello studio del diritto. Per i seguaci della teoria istituzionalistica (Maurice
Haouriou, Santi Romano) l’ordinamento intero trova fondamento di base nelle organizzazione di
istituzioni, la cui coesione dà validità al diritto. In base a impostazioni più recenti, il fondamento di tali
norme si rinviene nella costituzione materiale.
Le fonti di cognizione sono gli strumenti legittimati a fornire l’esatta conoscenza dei testi normativi
(disposizioni) posti dalle fonti di produzione.
Si distinguono ancora le Fonti atto, controllate da un centro di potere dell’ordinamento, dalle Fonti
fatto (come la consuetudine, le convenzioni costituzionali, lo stato di necessità).
Infine, può accadere che per disciplinare situazioni particolari l’ordinamento utilizzi le fonti o le
norme di un altro ordinamento (attraverso il rinvio).
2.
Interpretazione / Anomie
Le fonti di cognizione contengono il testo linguistico delle norme, cioè le disposizioni. Data la
distinzione tra diritto formale (law in the books), e diritto vivente (law in action), la norma non coincide
necessariamente con la disposizione. Infatti, nel momento della applicazione, i soggetti del diritto
interpretano la disposizione, creando la norma.
In qualsiasi rapporto all’interno della società le fonti vengono interpretate, ma solo in alcuni casi
l’interpretazione ha un valore specifico. Si tratta dell’interpretazione autentica che è quella fornita dal
centro di potere che controlla la fonte (il legislatore) e dell’interpretazione giudiziale, che è quella operata
dal giudice nella sua funzione di soluzione delle controversie. Un forte valore orientativo ha
l’interpretazione data dalla scienza giuridica (dottrinale), mentre quella praticata dalle prassi e dagli atti
interni e circolari degli uffici pubblici (burocratica) possiede di fatto un enorme potere di indirizzo
dell’amministrazione.
La teoria dell’interpretazione ha variamente individuato una serie di tecniche interpretative.
Non ha valore univoco l’interpretazione letterale, come mostrano le scienze semiologiche, a differenza
dell’interpretazione sistematica e di quella adeguatrice, che, collegando il significato delle norme ai contesti e
valori dell’ordinamento, collegano la law in action alla costituzione materiale. A sua volta,
l’interpretazione evolutiva permette di adattare l‘ordinamento al mutamento strutturale della costituzione
materiale.
L’ordinamento non può prevedere tutto; in presenza di fattispecie concrete prive di regole è
consentito al giudice il ricorso alla interpretazione estensiva (estendendo appunto l’applicazione di una
norma), o analogica, presumendo che a un caso non disciplinato possa applicarsi la disciplina di un caso
analogo (analogia legis) o, in mancanza di questo, i principi generali del diritto analogia juris). Ovviamente
l’analogia non si applica alle norme eccezionali e a quelle penali.
3.
Antinomie
Quando una stessa fattispecie è diversamente disciplinata da due o più fonti, le relative norme
entrano in conflitto tra loro. L’applicazione dei criteri di soluzione delle antinomie presuppone una
funzione di selezione e riconoscimento della fonte prevalente. Tale funzione è svolta dal giudice,
nell’esercizio della funzione giurisdizionale
Il principio chiave è la gerarchia (v. slide 5): la fonte di grado superiore prevale su quella inferiore.
Di fronte a fonti dello stesso rango, o a norme confliggenti della stessa fonte, il criterio generale è
quello cronologico secondo il brocardo Lex posterior derogat legi priori. Il meccanismo di prevalenza è in
genere costituito dall’abrogazione, che ha l’effetto di cancellare ex nunc dall’ordinamento la norma
temporalmente precedente.
Una eccezione al criterio cronologico si ha in presenza di norme che, facendo eccezione a regole
generali, sono dotate di specialità; anche qui soccorre l’efficacia del latino (Lex specialis posterior derogat legi
priori generali). In questo caso non si parla di abrogazione ma di deroga o disapplicazione, perché non si ha
cancellazione di norme.
Una seconda eccezione si ha se l’ordinamento attribuisce alle fonti confliggenti una differente
competenza, come avviene ogni qualvolta le norme sulle fonti prevedono per una determinata materia la
riserva di legge. Un altro classico esempio si ha nella competenza concorrente tra Stato (norme di
principio) e Regioni (norme di dettaglio). In queste evenienze la eliminazione della norma che travalica
la sua competenza non è in genere automatica, ma viene dichiarata da un giudice con apposita
competenza.
4.
Sistema delle fonti
La dinamica dell’ordinamento è affidata ai giudici, i quali, oltre a selezionare la fonte e interpretare la
norma, giudicano anche sulla loro legittimità.
Infatti, il conflitto tra fonti di diverso grado è risolto dal giudice al quale è attribuita la competenza di
annullamento della norma che viola la fonte di grado superiore. L’annullamento opera in genere ex tunc
(vale anche per il passato e i rapporti ancora pendenti), salvi i rapporti e le situazioni ormai
definitivamente esauriti.
Il paradigma della gerarchia è la legge formale ordinaria del Parlamento, nella sua veste di strumento
normale di produzione del diritto; il suo rango nella scala gerarchica costituisce la forza di legge. Le fonti
dotate di forza di legge o superiore sono un numerus clausus, per i principi di tipicità e tassatività.
5.
Gerarchia
Sul gradino più alto della scala sono poste le fonti supreme e le fonti costituzionali, alle quali seguono, con
forza minore ma comunque superiore alla forza di legge o derogatorie per la loro specialità, le fonti
speciali e rinforzate.
Nel gradino successivo sono collocate le fonti primarie, cioè le leggi, e tutte le altre fonti equiparate che
condividono la forza di legge. Il giudizio sulla validità e legittimità di queste fonti e di quelle di rango
superiore è di competenza del giudice costituzionale.
Le fonti che non hanno forza di legge sono qualificate secondarie o regolamentari; il giudizio sulla
loro validità e legittimità è rimesso al giudice ordinario e/o al giudice amministrativo.
I giudici, signori delle fonti, traggono dalla disposizione (law in the books) la norma giuridica (law in action),
configurando la creazione giudiziale del diritto vivente, che è poi l’essenza della funzione giurisdizionale.
6.
Fonti supreme e costituzionali
La specie più conosciuta di fonti supreme è senza dubbio la Costituzione, che sarà esaminata in
dettaglio, insieme alle leggi costituzionali, nella slide successiva.
Secondo alcune teorie, esiste un livello superiore alla stessa Costituzione, identificabile nel potere
costituente, che sarebbe l’unico vero potere libero, e i principi sistematici da esso posti sarebbero
totalmente immodificabili in forma legittima dal potere costituito; essi potrebbero essere rovesciati solo
con atti rivoluzionari.
Se pure suggestiva, questa teoria ha uno scarso valore pratico: a sessant’anni dalla Costituente italiana,
cosa resta davvero di quel potere? Più efficace dal punto di vista scientifico è l’individuazione del nucleo
di valori supercostituzionali mediante la formula teorica che abbiamo chiamato costituzione materiale, la
quale consente una lettura storico - dialettica delle dinamiche del diritto.
Inoltre, essa offre una spiegazione plausibile della progressiva penetrazione, nel sistema statale delle
fonti, operata dagli ordinamenti sovranazionali, come l’Unione europea e l’Organizzazione mondiale del
commercio (WTO), le cui fonti e norme, a differenza di quelle del diritto internazionale classico, si
applicano non solo agli Stati, ma direttamente ai soggetti di diritto degli ordinamenti degli Stati membri, e
hanno sicuramente forza superiore a quella di legge; in particolare, il diritto UE, in base alle posizioni
delle maggiori corti costituzionali europee, possiede una specie di “forza di costituzione”.
7.
Costituzione formale
Le costituzioni formali nel corso del tempo e nelle diverse esperienze hanno conosciuto differenti
modelli. Abbiamo costituzioni scritte, ma anche, come nel caso britannico, non scritte; flessibili e rigide,
a seconda del loro grado di resistenza alle modifiche; brevi e lunghe, a seconda dei contenuti.
La costituzione italiana, scritta, rigida e lunga, è frutto del compromesso di diverse culture, in
particolare quella cattolica e quella marxista, che si sono aggiunte al modello liberal-democratico. Di
conseguenza, i valori fondamentali che essa sviluppa sono spesso generici e contrastanti, e privi di
fattibilità concreta; gran parte della Costituzione, pertanto, è rimasta inattuata.
La paralisi costituzionale è stata evitata anche grazie al ruolo della Corte costituzionale, che,
avvalendosi del proprio indiscusso prestigio e della insindacabilità delle sue sentenze, in cinquant’anni di
giurisprudenza ha letteralmente creato il diritto costituzionale italiano, confermandosi come l’artefice
principale della Costituzione vivente.
8.
Leggi costituzionali
La procedura prevista dall’art. 138 Cost. it. per la modifica o l’integrazione della Costituzione prevede
una doppia votazione di entrambe le Camere a distanza di almeno tre mesi.
Se nella seconda votazione la legge costituzionale è approvata dalla maggioranza assoluta ma inferiore
a due terzi dei componenti di ciascuna camera, essa viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Entro tre
mesi può essere richiesto il Referendum costituzionale da 500.000 elettori, 5 consigli regionali, o 1/5 dei
membri di una Camera. A differenza del referendum abrogativo, in cui è richiesta la partecipazione alla
votazione della maggioranza assoluta degli elettori, si tratta di un referendum “approvativo” per il quale
non è richiesto alcun quorum strutturale. La legge è promulgata dal Presidente della Repubblica se
confermata dalla maggioranza assoluta dei votanti (anche se questi fossero pochissimi); in caso
contrario la procedura si interromperà definitivamente.
Se nella seconda votazione la legge costituzionale è approvata dalla maggioranza dei due terzi dei
componenti di ciascuna Camera, o superiore, essa viene promulgata dal Capo dello Stato, e dopo la
pubblicazione sulla G.U. entrerà in vigore, senza che possa essere chiesto alcun referendum.
9.
Fonti comunitarie
Diversamente dai modelli classici del diritto internazionale, le relazioni tra diritto comunitario e
diritto degli stati membri hanno assunto la forma dell’integrazione, in un ordinamento giuridico unitario e
multilivello, così che le fonti del diritto comunitario sono anche fonti statali.
Esse sono in primo luogo necessarie e vincolanti, non solo per gli Stati ma anche per i cittadini e le
istituzioni interne, essendo dotate del carattere della diretta applicabilità (fatta eccezione per le direttive, che
richiedono norme interne di attuazione, a meno che non siano chiare e dettagliate), e della portata generale
(si applicano a tutti i soggetti di diritto, ad eccezione delle decisioni, che si rivolgono a soggetti o gruppi
individuati).
Inoltre, come ha sancito la Corte di giustizia in accordo con le Corti costituzionali nazionali, il diritto
comunitario prevale sulle fonti interne, le quali, in caso di contrasto, devono essere disapplicate dai cittadini,
dai pubblici poteri e dai giudici nazionali, i quali sono divenuti custodi non più solo del diritto dello
Stato, ma anche del diritto dell’Unione europea.
Anche se il Trattato costituzionale non è ancora stato ratificato da tutti gli Stati membri, esiste già
una Costituzione europea vivente, che si fonda su limitazioni di sovranità degli Stati (art. 11, Cost. it.) e
sull’integrazione delle costituzioni materiali degli Stati stessi.
10.
Fonti Speciali / Rinforzate
La dottrina ha individuato nel corso del tempo una serie di fonti che per varie ragioni resistono alla
loro modifica da parte della legge formale ordinaria; una lunga discussione si ebbe in ordine al valore
delle leggi di programmazione economica, ma fu sterile, anche perché la programmazione non ha mai
veramente funzionato.
Sicuramente rientra nella categoria il referendum abrogativo, principale istituto di democrazia popolare
diretta (art. 75, Cost. it.); malgrado la estenuante procedura e la difficoltà di raggiungere il quorum,
l’opinione prevalente è che il suo risultato, specie quando respinge la legge, vincola il legislatore.
Purtroppo questa regola non sempre è osservata dalla classe politica.
Gli interna corporis, cioè le procedure e gli atti regolamentari che disciplinano l’attività interna del
Parlamento, hanno una forza particolare, che deriva dalla necessità di garantire l’autonomia del
Parlamento da qualsiasi altro potere, compresa la Corte costituzionale. Essi pertanto sono insindacabili, e
resistono di fatto a tutte le altre fonti del diritto.
Si discute se siano fonti speciali le normazioni regolamentari delle autorità indipendenti, in particolare
Banca centrale e Garante della concorrenza; la ragione tecnica che fonda l’indipendenza dovrebbe
escludere la possibilità, per il Parlamento (e naturalmente il Governo) di violare le regole delle
authorities. Questo, ovviamente non vale per il giudice, specie penale, che può e deve perseguirne i
comportamenti illegittimi.
11.
Legge formale ordinaria
La forma di legge è data sia dalla natura del soggetto che la emana (il Parlamento) sia dalla natura del
procedimento di emanazione; l’attributo di “ordinaria” definisce la procedura-tipo.
L’iniziativa legislativa, cioè la presentazione di progetti di legge, spetta a soggetti determinati
(Governo, membri delle Camere, Regioni, cinquantamila cittadini).
L’istruttoria è svolta dalla Commissione parlamentare competente per materia (in sede referente),
mentre la decisione consta in genere di due passaggi, l’approvazione articolo per articolo, e la votazione
sul testo complessivo. Quando entrambi i passaggi si svolgono nel plenum di ciascuna camera si ha la
procedura ordinaria; quando il primo o entrambi i passaggi si svolgono in sede di Commissione, questa
viene denominata rispettivamente redigente e deliberante. In sede deliberante sono approvate le cosidette
leggine, teoricamente di contenuto meno importante.
Una volta approvata nello stesso testo da entrambe le Camere, la legge viene vistata (promulgata) dal
Capo dello Stato, che può, a garanzia della costituzionalità del testo, rinviarla alle Camere, ma deve
comunque procedere se queste la riapprovano. Infine, la legge è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e,
dopo la vacatio legis, in genere 15 giorni, entra in vigore.
12.
Fonti equiparate (1)
In virtù del principio di divisione dei poteri la funzione legislativa appartiene al Parlamento, e il
Governo non può esercitarla, se non su delega del primo, o eccezionalmente per ragioni di grave
necessità. Si tratta delle fonti equiparate, che hanno forza, ma non valore di legge.
Nel primo caso, in base all’art. 76, Cost. it., è necessaria una apposita legge di delegazione, che preveda la
materia e il tempo di delega, nonché i criteri vincolanti cui il Governo deve attenersi, pena
l’annullamento per eccesso di delega accertato dalla Corte costituzionale.
Le fasi più rilevanti della procedura di formazione del decreto legislativo (o delegato, in sigla “d.lgs.”)
sono: l’approvazione del Governo. l’emanazione mediante decreto del Presidente della Repubblica e la
pubblicazione sulla G.U.
La delegazione legislativa serve in genere a disciplinare materie complesse, o tecniche, realizzare
grandi riforme (scuola), raccogliere in Testi Unici le legislazioni settoriali
13.
Fonti equiparate (2)
Nel secondo caso (art. 77, Cost. it.) il governo può senza delega emanare decreti legge, ma solo davanti
a situazioni straordinarie di necessità ed urgenza, che non possano per ragioni di contingenza essere risolte
da un organo lento e complesso quale il Parlamento.
Il decreto legge entra in vigore non appena pubblicato sulla G.U. e va presentato il giorno stesso alle
Camere, che possono approvarlo entro sessanta giorni, anche con modificazioni, mediante una legge di
conversione.
Il decreto non convertito perde validità ed efficacia retroattivamente, fin dalla data della sua entrata
in vigore. Il Governo è responsabile in sede politica e, teoricamente, anche degli effetti economici e
giuridici del decreto; in pratica, le Camere sanano sempre, con una norma apposita, tali effetti.
14.
Fonti secondarie statali
Le fonti secondarie sono atti sostanzialmente normativi, ma formalmente hanno la natura di atti
amministrativi, e sono privi di forza di legge, per cui sono soggetti alla giurisdizione del giudice
ordinario o amministrativo, e non del giudice costituzionale.
Le principali fonti secondarie statali sono i regolamenti governativi, che hanno una procedura tipizzata:
sono deliberati dal consiglio dei ministri sentito il parere del Consiglio di Stato, controllati dalla Corte
dei conti ed emanati con decreto del Presidente della Repubblica (DPR).
La legge n. 400 del 1988, all’art. 17, prevede 5 tipi di regolamenti : a) di esecuzione delle fonti primarie;
b) di attuazione ed integrazione, in materie coperte da riserva di legge; c) indipendenti, in materie non
coperte da riserva di legge, e non disciplinate da fonti primarie; d) di organizzazione, per la disciplina delle
strutture amministrative e del rapporto di impiego pubblico; d) delegati, in materie non coperte da riserva
di legge assoluta e previa espressa autorizzazione legislativa che ne fissa i principi.
I regolamenti ministeriali, infine, non sono emanati con DPR, ma con decreto ministeriale (D.M.), e solo
quando vi sia una espressa previsione da parte di una fonte primaria.
15.
Fonti delle Autonomie
Il mutamento globale del rapporto di forze tra Stati e poteri territoriali substatali (Regioni, Enti locali,
Stati federati) a vantaggio di questi ultimi, verificatosi alla fine del novecento, sarà descritto nelle lezioni
successive. Qui notiamo che esso si presenta come rivalutazione delle fonti primarie e secondarie del
diritto locale, su cui non esiste più il controllo del governi centrali, e che possiede una compiuta disciplina
nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione italiana, nel testo introdotto dalla legge
costituzionale n. 3 del 2001.
Sia lo Statuto che la legge regionale hanno forza di legge, e dunque sono fonti primarie. In più, lo
Statuto, per la sua procedura e la resistenza alle modifiche, si presenta come fonte rinforzata, quasi una
Costituzione regionale.
La legge regionale ha diversi caratteri a seconda dell’oggetto; in alcune materie (es. la formazione
professionale) essa è esclusiva, mentre in altre, come l’istruzione, è concorrente con le leggi statali di
principio. In altre ancora, riservate alla competenza esclusiva dello Stato, come ad esempio la difesa o la
determinazione dei livelli essenziali dei diritti sociali, essa è solo attuativa.
I regolamenti regionali sono invece fonti secondarie, come pure gli Statuti e i regolamenti dei comuni
e delle province, la cui disciplina è ora coordinata nel Testo Unico degli enti locali (d.lgs. n. 267 del
2000)
III.
16.
FONTI EUROPEE
Il sistema delle fonti comunitarie.
Come tutti i moderni ordinamenti giuridici a carattere politico, quali gli ordinamenti statali fondati
sulla supremazia della legge e sulla divisione dei poteri, l’Unione europea si modella sul principio di
legalità, nel senso che l’esercizio del potere pubblico, come quello delle attività private, è organizzato e
limitato dal diritto comunitario, posto da specifiche e predeterminate fonti.
Alle fonti comunitarie va applicata la teoria generale, con gli opportuni adattamenti. Vige pertanto il
principio di gerarchia (i Trattati prevalgono sul diritto derivato, Trattati e fonti derivate prevalgono sulle
fonti di diritto interno degli Stati membri); vige il principio della successione delle fonti nel tempo (tra
fonti di pari grado prevale la successiva); vige il principio di specialità (tra fonti di pari grado prevale
quella che disciplina casi specifici su quella che disciplina casistiche generali); vige infine il principio di
competenza, in quanto espressione del principio di sussidiarietà (la fonti comunitarie non possono
invadere le competenze riservate dai Trattati al diritto interno degli Stati membri).
Gli strumenti tipici del metodo comunitario (direttive, regolamenti, decisioni ...) sono fonti del
diritto nel senso pieno del termine, in quanto incidono direttamente in forma pienamente vincolante
sugli Stati membri e sui loro ordinamenti interni, in un contesto di sovranazionalità tra Unione e Stati
membri. Diversamente, gli strumenti caratteristici della cooperazione intergovernativa (orientamenti
generali, strategie e azioni comuni, posizioni comuni, cooperazione sistematica, decisioni e le decisioni
quadro, quasi sempre adottati all'unanimità, obbligatori ma, salvo casi particolari, non pienamente
vincolanti per gli Stati Membri) sono formulati più in forma convenzionale di natura internazionalistica
che come fonti di un ordinamento sovranazionale.
17.
Quadro e tipologia
Le fonti del diritto comunitario costituiscono nel loro complesso una fitta rete di atti, principi e
regolazioni, di varia natura, portata ed efficacia formale. Sebbene la dottrina non sia concorde su varie
questioni teoriche, indichiamo qui di seguito un quadro sommario dei principali atti e procedure in
senso ampio influenti sulla formazione e applicazione del diritto comunitario, e la classificazione in base
all’effetto, rinviando alle successive slide informazioni e distinzioni di dettaglio.
1. Fonti di primo grado (o supreme)
- Trattati e altre fonti convenzionali
- Principi del diritto comunitario
- Accordi internazionali
2. Fonti derivate:
2a. Vincolanti (Direttive; Regolamenti; Decisioni)
2b. Non vincolanti (Raccomandazioni; Pareri)
18.
Classificazioni.
a) Primarie o Supreme (Es.: Trattati) e Derivate (es.: Direttive), a seconda della posizione
gerarchica
b) Basate sul metodo intergovernativo (es. Decisione quadro) o sul metodo comunitario (es.:
Direttive, Regolamenti)
c) vincolanti (es.: Trattati, Direttive, Regolamenti, Decisioni) e non vincolanti (es.:
Raccomandazioni), a seconda che il contenuto normativo sia costituito da un comando assistito da
sanzioni coattive oppure da una esortazione non direttamente sanzionabile, anche se non del tutto priva
di effetti giuridici.
d) di portata generale (es.: Trattati, Direttive, Regolamenti) e di portata individuale (es.: Decisioni,
Raccomandazioni), a seconda che si rivolgano a una collettività indeterminabile, oppure a uno o più
destinatari individuabili con precisione.
e) di diretta applicabilità (es.: Trattati, Regolamenti) e non direttamente applicabili (es.: Direttive), a
seconda che dispongano di forza propria – nel senso che non sia necessario (né consentito) alcun atto
degli Stati membri che ne ordini l’esecuzione –, oppure che ai fini dello loro efficacia nei confronti dei
cittadini e dei pubblici poteri interni agli Stati membri occorrano attività di adeguamento e attuazione da
parte di questi ultimi.
19.
Consolidamento.
Data la variazione delle fonti nel tempo è prevista la procedura del consolidamento, che consiste nel
raggruppare in testo unico, in sé privo di valore formale, sia l’atto-fonte originario (trattato o atto
normativo derivato) sia le sue successive modifiche. La Commissione può proporre di “codificare”
(aggiustamenti con revisioni leggere) o “rifondere” (coordinamento e revisione anche approfondita) il
testo consolidato; in entrambi i casi occorrerà avviare una specifica procedura legislativa, che non è
invece necessaria per la semplice predisposizione dei testi consolidati, i quali hanno soltanto un valore
documentario senza impegnare la responsabilità delle Istituzioni europee.
Una ricerca completa sulle fonti e sugli atti delle istituzioni europee, anche nelle versioni consolidate,
può essere compiuta in http://europa.eu.int/eurlex/lex/it/index.htm.
20.
I Trattati.
Le fonti supreme del diritto comunitario sono costituite in primo luogo dai Trattati (fonti di “diritto
convenzionale”), stipulati di comune accordo tra tutti gli Stati membri, e recepite negli ordinamenti
nazionali con le procedure prevista dalle disposizioni costituzionali di ciascuno Stato.
Il complesso dei Trattati esistenti costituisce un embrione di Costituzione dell’Unione. In realtà, se
sotto il profilo dell’efficacia formale, cioè della forza di legge, tutti i Trattati hanno un rango
costituzionale. sotto il profilo della forma e del contenuto il testo dei Trattati e ancor di più della
Costituzione europea presentano l’anomalia di interi settori normativi di estremo dettaglio,
discostandosi dal modello più classico delle Costituzioni europee, anche nella loro veste di Costituzioni
“lunghe”.
I Trattati possono essere sottoposti a modifiche e aggiornamenti, che in genere richiedono
procedure identiche a quelle necessarie per la loro formazione. I testi integrali dei Trattati attualmente
vigenti, nelle versioni consolidate, possono rinvenirsi in http://europa.eu.int/eurlex/lex/it/treaties/index.htm.
21.
I principi generali del diritto
Sebbene l’unico richiamo positivo ai principi generali del diritto sia contenuto nell’art. 288 TCE per
definire le modalità della responsabilità giuridica della Comunità nei confronti dei terzi, la Corte di
giustizia, estendendone la portata, ha elaborato un diritto comunitario non scritto, proprio facendo leva
sui principi generali, che sono così divenuti parte integrante del diritto comunitario.
In realtà, il significato, la natura e la portata di tali principi sono di dominio esclusivo della Corte di
giustizia, che dunque, attraverso la sua giurisprudenza (v lezione 8) è divenuta essa stessa una fonte
suprema del diritto europeo.
Una elencazione minima di tali principi comprende: le regole fondamentali del diritto internazionale
(ad esempio: pacta sunt servanda”) e comunitarie (solidarietà, sussidiarietà, primato e diretta
applicabilità del diritto comunitario, mutuo riconoscimento delle legislazioni ...), nonché i principi
comuni agli Stati membri (certezza del diritto, ragionevolezza, proporzionalità, buona fede e
affidamento del cittadino, ...).
22.
Accordi di diritto internazionale
Anche gli accordi conclusi in base al diritto internazionale (con soggetti di diritto internazionale o tra
gli Stati membri) sono fonti primarie del diritto UE.
a) Accordi tra gli Stati membri
Gli accordi tra gli Stati membri sono conclusi per risolvere problemi in ordine ai quali non vi è
competenza diretta delle Istituzioni dell’Unione (ad esempio l'accordo in materia di brevetto
comunitario). Si tratta di atti sempre vincolanti, diversamente da quanto avviene in caso di accordi
conclusi nell'ambito del secondo e del terzo pilastro, che vincolano le Istituzioni ma non sempre gli
Stati membri.
b) Accordi internazionali
Gli accordi con paesi terzi o con organizzazioni internazionali possono essere conclusi dalla sola
Comunità oppure insieme con gli Stati membri (accordi misti), e sono vincolanti per la Comunità e per
gli Stati membri. Essi sono di tre tipi: a) accordi di associazione (si tratta di una forma di cooperazione
economica molto rafforzata, con notevole impegno finanziario della Comunità a favore dei contraenti,
come nei casi di accordi con i Paesi e territori d'oltremare; b) accordi di cooperazione (l’impegno
finanziario dell’Unione è minimo e l’obiettivo è una cooperazione economica anche molto forte; un
esempio del tipo è l’accordo con i Paesi del Magreb); accordi commerciali generali (specie in materia di
commercio e liberalizzazione degli scambi; l’accordo WTO è l’esempio più rilevante).
23.
Atti e fonti di diritto derivato
Nel contesto delle materie del primo Pilastro il diritto dei Trattati europei viene attuato mediante
fonti gerarchicamente subordinate ai Trattati stessi, il cui complesso è noto come diritto comunitario
derivato, individuate principalmente dall’articolo 249 TCE. Caratteri essenziali sono l’efficacia diretta e
la supremazia sui diritti statali; possono contenere disposizioni giuridiche generali ed astratte (direttive,
regolamenti), oppure provvedimenti concreti e puntuali (decisioni).
Anche senza essere dotati di forza cogente hanno rilievo, talora notevole, nella costruzione del diritto
comunitario, gli atti non formalmente vincolanti, come le raccomandazioni, i pareri e le risoluzioni. A
tali atti vanno aggiunti altre fonti atipiche di diritto derivato, di efficacia e forza variabile, come ad
esempio i regolamenti interni, gli accordi interistituzionali, le intese, i programmi di azione comunitaria.
24.
Direttive
In linea di principio, le direttive comunitarie sono atti normativi generali destinati essenzialmente al
ravvicinamento delle legislazioni e alla costruzione di sistemi giuridici uniformi, con efficacia vincolante,
secondo la lettera formale del Trattato, solo nei confronti degli Stati, ai quali pongono un obbligo di
risultato, che gli Stati debbono comunque conseguire, anche se hanno facoltà di utilizzare i mezzi e le
tecniche giuridiche più adeguate e opportune nel loro specifico contesto nazionale.
In caso di violazione degli obblighi che una direttiva pone allo Stato membro, questo risponde su
iniziativa della Commissione, mediante una speciale procedura sanzionatoria (detta di infrazione) che, in
base all’art. 226 TCE, può culminare in un ricorso davanti alla Corte di giustizia, e, in casi particolari,
espone lo Stato inadempiente a ricorsi dei cittadini per il risarcimento dei danni subiti a causa
dell’inattuazione della direttiva.
25.
Direttive “self executing”
La nozione di direttiva è stata integrata dalla Corte di giustizia (v. anche lez. 8), che ne ha
riconosciuto in alcuni casi la diretta applicabilità all’interno degli ordinamenti nazionali, aggirando così
l’inadempimento da parte degli Stati e realizzando gli obiettivi di uniformizzazione del diritto interno
senza la collaborazione degli Stati stessi.
Affinché una direttiva sia self executing occorre che essa:
- sia inattuata e scaduta, cioè siano trascorsi i termini fissati per l’attuazione da parte dello Stato;
- contenga disposizioni incondizionate, dettagliate, chiare e precise. L’effetto diretto della direttiva è
solo “verticale”, cioè si produce solo nei confronti del diritto nazionale e dello Stato (che è responsabile
del mancato adempimento); in nessun caso essa può far sorgere nuovi obblighi in capo ai singoli
cittadini (essa, cioè, non può avere un effetto “orizzontale”).
26.
Regolamenti.
Come le direttive, i regolamenti hanno portata generale, ma a differenza di quelle, che sono in via di
principio obbligatorie solo per gli Stati e solo per il perseguimento del risultato indicato, il trattato
prevede che i regolamenti sono obbligatori “in tutti i loro elementi”, ed hanno efficacia immediata e
diretta anche all’interno degli ordinamenti nazionali, cioè nei confronti dei cittadini, delle imprese, delle
pubbliche amministrazioni. In questo senso le direttive self executing sono assimilabili ai regolamenti.
Si tratta in genere di fonti molto tecniche e puntuali, che si occupano direttamente delle forme e di
tutti gli aspetti della produzione e della distribuzione delle merci, della prestazione di servizi e in genere
del ciclo produttivo complessivamente considerato, anche in riferimento ai suoi rapporti con la società
e le istituzioni in genere (e dunque anche delle politiche strutturali e di incentivazione, della attuazione
di programmi di intervento, della predisposizione di risorse finanziarie e così via).
27.
Decisioni
Come i regolamenti, le decisioni sono atti obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente
applicabili, ma, a differenza dei regolamenti e delle direttive, non hanno portata generale, essendo
vincolanti soltanto per i destinatari specificamente individuati (imprese, organismi, cittadini e gli stessi
Stati).
Pertanto, indipendentemente dalla denominazione di un atto come decisione, bisognerà caso per
caso accertare se vi siano uno o più destinatari determinati. In caso affermativo, si è in presenza di una
decisione in senso tecnico, che come tale è assimilabile ad un provvedimento amministrativo ricettizio,
che inizia cioè a produrre effetti quando giunge a conoscenza del destinatario.
Come i regolamenti e le direttive self executing, le decisioni possono e debbono essere direttamente
applicate dai giudici (e dalle amministrazioni) nazionali; ne consegue che i pubblici poteri interni, in
sede legislativa, amministrativa e giurisdizionale, debbono disapplicare le fonti normative nazionali
quando esse contrastino con il contenuto chiaro, preciso ed incondizionato di fonti comunitarie
direttamente applicabili.
28.
Caratteri e procedure
L’avvio della procedura per l’emanazione di atti comunitari vincolanti è sempre dato dalla proposta
della Commissione; si tratta di un potere esclusivo, e molto importante, che in parte condiziona anche il
contenuto finale dell’atto, la cui adozione formale, in genere, spetta al Consiglio e al Parlamento
europeo.
Sia la proposta che l’atto definitivo debbono essere motivati, mentre solo per i regolamenti è
obbligatoria la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (GUUE), in quanto direttive
e decisioni debbono essere obbligatoriamente notificate ai destinatari; tuttavia è prevalsa la prassi della
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale anche delle direttive e delle decisioni più rilevanti.
Da tempo gli atti normativi europei sono sottoposti a procedure di semplificazione, codificazione,
drafting e controlli della qualità e dell’impatto regolatorio.
29.
Raccomandazioni
Si tratta di atti comunitari non direttamente vincolanti che rivolgono, indicazioni e indirizzi a
destinatari individuati o individuabili, in forma individuale e/o collettiva.
In realtà esse non sono del tutto prive di effetti giuridici: le amministrazioni degli Stati debbono tener
conto delle raccomandazioni, e non possono assumere decisioni difformi senza una adeguata e
razionale motivazione. Inoltre, l’interpretazione di una raccomandazione può dar adito a rinvio
pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia, la cui pronuncia può risultare rilevante per la soluzione di
controversie pendenti dinanzi ad un giudice nazionale (Corte di giustizia, sent. del 15 giugno 1976,
causa 113/75).
Spesso le raccomandazioni si inseriscono in un contesto più ampio e complesso (fondi strutturali,
riconoscimento di titoli e qualificazioni ...), che ne rafforza l’efficacia; ad esempio, programmi nazionali
o regionali gravemente difformi dai contenuti delle raccomandazioni potrebbero essere esclusi dal
finanziamento comunitario.
30.
Pareri
A differenza delle raccomandazioni, che possono essere emanate solo da Parlamento, Consiglio e
Commissione, i pareri possono essere emanati anche dagli organismi consultivi (Comitato delle Regioni
e Comitato economico e sociale) e soprattutto dalla Corte di giustizia, relativamente alla conclusione di
Accordi internazionali. Solo in quest’ultimo caso, previsto dall’art. 300 paragrafo 6 TCE, il parere
negativo della Corte ha alcuni effetti giuridici, perché impedisce all’accordo di entrare in vigore a meno
che non sia ratificato da tutti gli Stati membri. In tutti gli altri casi, i pareri non sono formalmente
vincolanti.
In linea generale, i pareri si distinguono dalle raccomandazioni perché queste ultime forniscono
indirizzi di comportamento ai destinatari, mentre i pareri, in genere, esprimono il punto di vista
dell’organo che li emana.
IV.
1.
LE FORME DI GOVERNO
Concetti
La parola “governo” significa in primo luogo “potere esecutivo” in senso ampio (esclusivo degli
organi legislativi e giurisdizionali). Più frequentemente si intende per governo il vertice dell’esecutivo
che concorre alla formazione dell’indirizzo politico (cioè il governo in senso stretto, ad esempio in Italia
l’organo complesso formato da consiglio dei ministri, presidente del consiglio e singoli ministri).
In senso oggettivato la formula si intende come funzione, attività o azione di governo, che presuppone
l’esercizio di frazioni di sovranità, e si sostanzia in una attività di indirizzo politico, intesa come il
complesso degli strumenti e decisioni che incidono globalmente sulle politiche pubbliche.
Tuttavia, lo stesso termine è usato talora per indicare la configurazione dell’organizzazione statale
complessiva e dei rapporti tra i vari poteri sovrani. Si tratta in pratica di una formula abbreviata del
concetto di “forma di governo” (governo assoluto, costituzionale, presidenziale, parlamentare), di cui ci
occuperemo in questa Lezione.
2.
Precisazioni
La configurazione generale dei rapporti tra gli organi che esercitano le potestà sovrane è studiata
dalla teoria delle forme di governo. Questa non va confusa con la dottrina delle forme di stato (Lez. 4, 5), che
ha per oggetto l’estrema sintesi del modello costituzionale, cioè la configurazione del potere nel
rapporto che si instaura fra i poteri sovrani e il popolo in quanto elementi costitutivi dello stato; a volte
sono comprese nel concetto di forma di stato anche i modelli di relazioni tra i differenti livelli territoriali
di governo (stato unitario, federale, regionale, Lez. 12); in questo caso sembrerebbe più corretto, specie
in relazione alle forme storiche di intervento nell’economia, parlare di tipi di stato, ma il linguaggio è
ormai entrato nell’uso comune.
Ciascuna delle forme di governo è in teoria compatibile le varie forme storiche di stato. Ad
esempio Francia, Italia e Germania, Gran Bretagna sono inquadrabili, con sfumature solo di dettaglio,
nella categoria dello stato democratico sociale, ma in Inghilterra e in Italia vige la forma di governo
parlamentare, in due versioni radicalmente differenti, in Francia vi è una forma di governo
semipresidenziale temperata da un regime parlamentare misto, e in Germania un sistema parlamentare
razionalizzato.
3.
Sovranità e indirizzo politico
Nelle costituzioni democratiche è in genere distinguibile la titolarità della sovranità, che appartiene al
popolo, dal suo esercizio, che appartiene a organi costituzionali.
Espressione centrale dell’esercizio della sovranità è l’attività di indirizzo politico; le funzioni
essenziali che la compongono sono: politica estera e relazioni ultrastatali; poteri di emergenza ed extraordinem; difesa; relazioni infrastatali; bilancio e finanza (governo dell’economia); organizzazione dello
stato
La crisi postliberale della osmosi sociopolitica tra Parlamento e borghesia ha sconvolto il principio
di separazione dei poteri, a vantaggio di una configurazione interattiva delle funzioni, che sono distribuite più
che divise tra una pluralità di pubblici poteri, alcuni dei quali non sono espressione della democrazia
rappresentativa (ad esempio le Corti costituzionali, le Banche centrali, le istituzioni sovranazionali).
Si tratta di una funzione libera nel fine, e, a seconda delle forme di governo, variamente configurata, ma
oggi il suo nucleo centrale risiede generalmente nei Governi e non più nei Parlamenti, come invece
avveniva nello Stato liberale classico.
4.
Potere distribuito.
In alcune forme di governo, la disseminazione dei poteri ha aperto la strada alla separazione sempre
più incontrollabile tra il decisions making e il decisions taking, tra la titolarità effettiva e quella apparente
degli atti pubblici.
Di fatto, si è avuta una dissociazione tra potere e responsabilità, cioè il presupposto della dottrina della
limitazione del potere, dando origine a gravi violazioni, non solo in riferimento al principio teorico della
sovranità popolare, ma anche dei dogmi fondamentali del costituzionalismo.
Come l’esempio italiano mostra con evidenza, il potere è gestito su due piani integrati, uno ufficiale,
gli organi costituzionali, e l’altro extragiuridico, il sistema dei partiti; quest’ultimo, installandosi negli
organi costituzionali, controlla in forma organica e da posizioni occulte la frazione di indirizzo politico
appartenente a ciascuno di essi.
I dogmi del potere limitato e della separazione dei poteri sono in tal modo violati dalla mediazione e
centralizzazione di fatto del potere nelle segreterie dei partiti, lasciandone la responsabilità alle istituzioni.
5.
Potere limitato
Alla luce del principio del potere limitato, i caratteri necessari della forma di governo dovrebbero
invece, e razionalmente, essere:
− divisione il più possibile netta dei poteri sovrani
− investitura popolare diretta (non di secondo grado) degli organi che esercitano il potere politico
effettivo (democrazia immediata);
− assoluta autonomia e indipendenza degli organi di garanzia e di soluzione legale (non politica) dei
conflitti (Magistratura, Corti costituzionali, Autorità indipendenti ...)
− limitazione dei “poteri di fatto” di influire sulle funzioni pubbliche da parte di apparati non
istituzionalizzati e non responsabili giuridicamente, come partiti, soggetti privati ...,;
− efficaci controlli reciproci e bilanciamento tra i poteri titolari di funzioni sovrane.
− separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione amministrativa, affidando la
seconda ad apparati specializzati (dirigenze amministrative, enti pubblici, ma anche soggetti privati ....)
6.
Classificazioni
Tra le più usuali classificazioni delle forme di governo ricordiamo:
- quella tra forme moniste, in cui la sovranità è formalmente unisoggettiva (come il monarca nel regime
assolutistico o il Parlamento nel regime parlamentare/assembleare) e forme dualiste, in cui la sovranità è
ripartita tra Sovrano e Parlamento (monarchia costituzionale), o tra Governo e Parlamento (repubblica
presidenziale). Di fatto le forme moniste non esistono più, data la scomparsa dell’assolutismo, e il
dinamismo effettivo del Governo anche nel regime parlamentare.
- quella basata sulla esistenza o meno di un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, cioè sulla
responsabilità politica del primo nei confronti del secondo
- quella fondata sulla derivazione (ereditaria o elettiva) e sui poteri (minimi o massimi) del Capo
dello Stato.
In base alle varie combinazioni dei suddetti criteri i modelli di forme di governo sono: Monarchia
costituzionale / Governo parlamentare / Governo presidenziale / Forme intermedie (Governo
direttoriale, semi-presidenziale, parlamentare razionalizzato ....).
Nelle prossime conversazioni descriveremo le forme di governo concrete attraverso cui i modelli
principali si sono materializzati negli Stati contemporanei.
7.
Sistemi elettorali
La struttura del Sistema elettorale ha rilievo nella configurazione della forma di governo, e in genere
coinvolge problemi di classificazione del tipo di democrazia.
Si tratta di una nozione complessa che comprende; a) formula elettorale, (meccanismo di traduzione
dei voti in seggi); b) disegno territoriale delle circoscrizioni; modalità del voto (esistenza o meno di
preferenze); c) modalità di presentazione delle liste e vincoli per la loro formazione (primarie); d) le
regole di propaganda elettorale (par condicio etc.); e) le regole sulla campagna elettorale; f) la regole del
finanziamento dei partiti e della campagna elettorale dei candidati
I sistemi elettorali sono raramente costituzionalizzati; la dottrina non è finora riuscita a codificare
con certezza le dinamiche e le conseguenze dei sistemi elettorali.
I problemi fondamentali dei sistemi elettorali sono tre. Il primo riguarda l’effetto sull’elettorato:
(fotografia o manipolazione delle scelte degli elettori?); il secondo l’effetto sui partiti (incidenza sul
numero dei partiti e sulla fedeltà del risultato elettorale rispetto al rapporto di forze effettivo nella
società); il terzo l’effetto sulle istituzioni (incidenza sui valori di stabilità, efficienza, governabilità).
8.
Formule elettorali
Un grande rilievo hanno, al riguardo, le formule elettorali, che si ripartiscono tra due grandi famiglie
di formule: maggioritaria (che a sua volta si divide in majority e plurality) e proporzionale.
La majority (maggioritario assoluto; vince chi prende la maggioranza di voti) viene usata in Australia,
con il correttivo (senza il quale non potrebbe funzionare) del voto alternativo (l’elettore vota una
scheda che comprende tutti i candidati e assegna a ciascuno un punteggio: 1 a quello che preferisce di
più, 2 al secondo e così via)
La plurality (maggioritario relativo a turno unico: vince chi prende più voti) è il tipico modello
anglosassone (Gran Bretagna, Canada, e viene usato per i Comuni italiani con meno di 15000 abitanti);
esistono inoltre formule maggioritarie a doppio turno (Francia, Province e Comuni italiani con più di
15000 abitanti)
La proporzionale, nelle sue varianti (d’Hondt, Saint-Leaugue, Hare, resti più alti) è stata adoperata
un po’ dappertutto.
Va ricordato che uno studio (Rae) condotto su 107 sistemi elettorali ha verificato una convergenza
pressoché totale tra plurality e bipartitismo perfetto; va menzionata inoltre la celebre “Legge di Maurice
Duverger”: il maggioritario a un solo turno tende al dualismo dei partiti, il proporzionale a un sistema di
partiti multipli, rigidi e indipendenti.
9.
Comparazione
Rispetto al grado di rappresentatività degli organismi elettivi, il sistema maggioritario diminuisce
l’incidenza degli estremismi politici obbliga gli estremisti o a convergere al centro o ad astenersi e
secondo alcuni per questo è meno pericoloso per il sistema democratico; al proporzionale si addebita il
“paradosso di Weimar” (rendendo la democrazia rappresentativa fino all’estremo, se ne diminuisce la
forza e la possibilità di sopravvivenza).
Rispetto agli effetti in termini di ruolo della politica, è stato osservato che il maggioritario sminuisce
la funzione gestionale e aumenta la funzione di indirizzo del Governo, e tende a staccare la politica
dagli interessi personalizzati. Il proporzionale, come mostra ancora l’esempio della Repubblica di
Weimar (e la prima repubblica italiana) corre il rischio di drammatici effetti sull’intreccio fra partiti e
gruppi di interessi e soffre di eccessiva commistione tra affari e politica.
Rispetto alla governabilità il maggioritario dovrebbe assicurare stabilità governativa, nonché
trasparenza ed efficacia materiale delle decisioni politiche data la maggiore definizione della
responsabilità politica. Nel proporzionale i governi di coalizione rischiano maggiore instabilità sia
strutturale (prepotere di piccoli partiti) che dal punto di vista della realizzazione dei programmi.
10.
Forma di governo britannica
Il sistema elettorale maggioritario a turno unico ha da tempo creato un bipartitismo perfetto (Tory /
Labour) estremamente stabile, malgrado la presenza di altri partiti.
Si tratta di un regime parlamentare, a prevalenza del Governo. La formula elettorale fa sì che la
nomina a Prime Minister del Premier del partito vittorioso da parte della Regina sia sostanzialmente
obbligata, e la fiducia del Parlamento del tutto scontata. Il Premier, oltre ad avere molto potere sui
Ministri, possiede anche un forte controllo sui parlamentari del suo partito.
Il Parlamento è composto dalla Camera dei Lords, non elettiva, priva di vere funzioni legislative, e
con alcune funzioni di alta giurisdizione, e dalla Camera dei Comuni, cui compete la funzione legislativa
e il controllo politico sul Governo.
Un forte rilievo di opinione pubblica ha la prassi costituzionale secondo cui l’opposizione organizza
un Governo-ombra, che elabora programmi e decisioni alternative a quelle del Governo, rendendo così
più trasparente la diversità di politiche, e predisponendo il terreno per una alternanza di governo.
11.
Forma di governo francese
Il sistema maggioritario a doppio turno per l’Assemblea nazionale e anche per il Capo dello Stato, si
collega a un pluripartitismo contenuto, che comunque necessita in genere di governi di coalizione.
In virtù dell’investitura popolare diretta, il Presidente è un elemento centrale della forma di governo
francese (che configura il modello misto del cd “semi-presidenzialismo”). Ha una forte autonomia nella
scelta del Primo ministro e dei membri del Governo, il quale tuttavia è responsabile davanti
all’Assemblea nazionale e deve dimettersi in caso di sfiducia.
Anche la Francia presenta un bicameralismo asimmetrico, sia come derivazione che nelle funzioni.
Infatti, mentre l’Assemblea nazionale è eletta a suffragio universale diretto, i membri del Senato sono
eletti in secondo grado, da un corpo elettorale formato dalla Assemblea nazionale stessa, dai consiglieri
dei Dipartimenti e dai Sindaci. Le funzioni sono le stesse, tuttavia, in caso di contrasto, prevale la
decisione dell’Assemblea nazionale.
12.
Forma di governo tedesca
La formula elettorale tedesca della Camera (Bundestag) è mista: 50% maggioritaria uninominale;
50% proporzionale di lista; ma la ripartizione è fatta in base si risultati di quest’ultima; i seggi in più che
un partito conquisti con la prima sono conservati, e fanno aumentare il numero dei componenti della
Camera. A ciò vanno aggiunti due correttivi: la clausola di sbarramento (5% minimo) e l’esclusione dei
partiti estremisti. Ne risulta un sistema bipolare, di pochi (tre) partiti.
Il Capo dello Stato è eletto dal Bundestag integrato con un egual numero di rappresentanti dei
Länder.
Il Capo del Governo (Cancelliere) è eletto dal Bundestag su proposta del Capo dello stato, e si
sceglie i ministri. Si tratta dunque di una figura molto forte, anche perché non può essere sfiduciato
senza che la Camera ne indichi allo stesso tempo il sostituto (sfiducia costruttiva).
Il bicameralismo tedesco è asimmetrico, tipico di uno stato federale: il Senato (Bundesrat) è infatti
eletto dai Parlamenti degli Stati membri (Länder) e partecipa solo alla funzione di revisione
costituzionale.
13.
Forma di governo americana
Sistema maggioritario e bipartitismo perfetto si collegano negli USA al prototipo del dualismo
democratico, il presidenzialismo puro, con la doppia condizione di derivazione popolare diretta del
Capo dello Stato (Presidente) e Camera dei deputati (Congresso), e di coniugazione di tutti i poteri del
Capo del Governo nella figura del Presidente (eletto mediante un sistema di “primarie”).
In pratica, la separazione dei poteri e delle responsabilità è totale; l’indirizzo politico è totalmente in
mano al Presidente, che nomina e revoca i Ministri (che sono dunque suoi “Segretari di Stato”. Data
l’elezione popolare diretta di un organo così potente, la democrazia americana è “immediata”.
Esiste un profondo equilibrio costituzionale nei controlli (checks & balances) tra i poteri dello Stato
(impeachment, potere di budget, veto presidenziale, ruolo delle Corti), cui corrisponde una altrettanto
chiara divisione delle responsabilità.
Il Senato, com’è logico dato il tipo federale di Stato, rappresenta i Parlamenti degli Stati della
federazione.
14.
Forma di governo italiana (1)
Ovviamente sarà dettagliata nei vari aspetti nelle lezioni seguenti; qui diamo un quadro
ultrasintetico del modello costituzionale formale. Nella prossima slide, sarà altrettanto sinteticamente
presentato il sistema previsto nella riforma costituzionale approvata nel dicembre 2005 e in attesa di
referendum.
La Costituzione del 1948 non indica il sistema elettorale, ma l’esistenza, fino al 1994, di formule di
fatto proporzionali (malgrado differenze formali tra Camera e Senato) ha generato un pluripartitismo
esasperato, con la presenza di forti partiti estremi, e governi di coalizione dei partiti moderati,
caratterizzati da elevata instabilità.
La Costituzione del 1948 disegna una forma di governo monista a centralità del Parlamento, priva di
sistemi di razionalizzazione (ad esempio della sfiducia costruttiva) caratterizzata dalla elezione
parlamentare del Capo dello Stato e da un organico rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento,
votata per appello nominale, nonché da una posizione di garanzia del Presidente della Repubblica,
titolare dei poteri di nomina dei membri del Governo e di scioglimento delle Camere.
Il Parlamento è strutturato su un bicameralismo perfetto; funzione legislativa e funzione di indirizzo
e controllo sono esercitate in forma duplicata. La composizione politica, dato il sistema elettorale,
risulta omogenea tra Camera e Senato.
15.
Forma di governo italiana (2)
Le riforme elettorali introdotte con le leggi 276 e 277 del 1993 hanno generato un modello
maggioritario misto, che ha formalizzato il dinamismo del Governo sul Parlamento (di fatto da tempo
esistente) e un sistema politico, se pur ancora frammentato, di tipo bipolare; in dottrina, a parte alcune
forzature e variazioni sulla formazione di un "semipresidenzialismo di fatto" o "strisciante", si sostiene
ragionevolmente che il modello che ne risulta può essere definito regime parlamentare maggioritario.
Peraltro, il mutamento della formula elettorale ha coinciso con l’avvio di intensi processi di riforma
costituzionale, sia sul versante delle relazioni tra Stato e poteri infrastatali, sui cui sono già in vigore due
leggi costituzionali di riforma del Titolo V della Parte II Cost. (v. Lez. 14), sia sul versante della forma
di governo, giunta in dirittura d’arrivo con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 269/2005 di una
legge costituzionale di riforma dell’intera Parte seconda della Costituzione, attualmente in standby, in
attesa di richiesta di referendum. In mancanza di referendum o se approvata, entrerà a regime nel 2016.
16.
Forma di governo italiana (3)
In estrema sintesi, la citata legge costituzionale taglia di netto con la forma parlamentare pura e
modifica la posizione costituzionale del Capo del Governo, introducendo un modello di “Premierato”,
attraverso l’elezione diretta del Primo ministro e la conseguente abolizione della fiducia preventiva (ma
non della mozione di sfiducia). Il premier, che possiede una supremazia formalizzata su Ministri e
Consiglio dei ministri, può chiedere al Presidente della Repubblica di sciogliere la Camera dei deputati, e
indire nuove elezioni, ma la Camera può reagire con una sorta di “sfiducia costruttiva” indicando un
nuovo Primo ministro e votandogli la fiducia.
Il bicameralismo diviene asimmetrico: solo la Camera avrà competenza legislativa generale. I
senatori saranno eletti in ciascuna regione contestualmente ai rispettivi consigli. Il Senato assume una
connotazione “federale”, con competenze speciali; in caso di contrasto prevale il voto della Camera dei
deputati, salvo che per alcune materie (ad esempio la determinazione dei livelli minimi delle prestazioni
sociali), per le quali, in caso di contrasto, si forma una commissione mista che formula una proposta
congiunta.
V.
EVOLUZIONE DELLO STATO ITALIANO
1.
Lo Statuto Albertino
2.
Caratteri ed evoluzione
3.
La finanza
La formazione dello Stato italiano, al di là dei ritardi e delle specificità mediante le quali avviene il
processo di unificazione nazionale, segue le grandi correnti della stabilizzazione della forma di Stato
liberale in Europa, che abbiamo già esaminato (), passando per le storiche fasi del processo di unità
nazionale.
Lo Statuto albertino, promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel 1848, divenne con l’Unificazione la
prima Costituzione della nazione italiana, e rimase in vigore per cento anni, fino alla entrata in vigore
della attuale Costituzione repubblicana.
Lo Statuto costruiva una forma di stato liberale e di diritto, introducendo il principio di divisione dei
poteri (tra il Parlamento, con la funzione legislativa, il Governo, con la funzione esecutiva e la
magistratura, con la funzione giudiziaria).
Tuttavia, a differenza di altri ordinamenti in cui fu introdotta la forma di governo costituzionale puro
(come quello britannico al tempo degli Orange), il Sovrano conservava poteri di ingerenza in tutte le
funzioni pubbliche (nomina dei membri del Senato e potere di sanzione sulle leggi, che poteva dunque
bloccare; nomina e revoca dei ministri, che dunque dipendevano direttamente dal Re; nomina dei
giudici delle varie magistrature.
Lo Statuto fu una costituzione octroyée cioè “concessa” e non conquistata e imposta dal popolo; era
inoltre una costituzione breve, tipicamente liberale (cioè senza un apparato normativo di ingerenza
sull’economia), e flessibile, cioè priva di garanzie di resistenza a successive violazioni operate dalle leggi
ordinarie o da atti del monarca e del suo governo.
Questo spiega le ragioni delle numerose violazioni con legge ordinaria dei diritti fondamentali (sia
con le leggi di polizia dello stesso stato liberale, sia con il colpo di stato operato nel 1922 dal fascismo e
le successive legislazioni autoritarie).
Vi fu inoltre un processo evolutivo della costituzione materiale, che introdusse modificazioni tacite, cioè di
fatto, nell’impianto della forma di governo, mediante uno shifting della sovranità a vantaggio del
Parlamento, al quale i Governi iniziarono a chiedere la fiducia preventiva.
Ciò provocò il distacco del Governo dall’influenza politica del Re, che era costretto a nominare
ministri graditi al Parlamento, e introdusse il principio della responsabilità politica del Governo rispetto al
Parlamento.
Si era formato così l’embrione di quella che sarebbe divenuta, a parte la parentesi fascista, la forma
di governo tipica dello Stato italiano: la forma di governo parlamentare.
Nello Statuto Albertino la Costituzione finanziaria liberale era appena abbozzata (art. 30).
Con l'istituzione della Corte dei conti del Regno d'Italia nel 1862 la Camera dei deputati si dotò di
una longa manus, per controllare la conformità dell'attività del Governo alle scelte di bilancio autorizzate
dal parlamento.
La legge n. 526/1869, (nota come legge Cambray-Digny) introdusse ulteriori meccanismi di
garanzia,
- separando la contabilità dall'amministrazione
- affidando alle ragionerie interne dei ministeri e alla ragioneria generale dello stato funzioni di freno
rispetto alla dilatazione delle spese pubbliche
- istituendo un controllo interno sulla legittimità degli impegni di spesa, al fine di prevenire gli abusi
delle amministrazioni nella gestione del denaro pubblico.
4.
La legislazione amministrativa.
5.
La piramide del potere
6.
I poteri locali
7.
I sintomi della crisi
Una serie di provvedimenti normativi ordinari, emanati sia prima che dopo la proclamazione del
Regno d’Italia, avvenuta con la legge 4761/1861, disegnarono strutture e procedimenti dei pubblici
poteri e costituirono il vero nucleo normativo nella formazione dello Stato amministrativo italiano.
In particolare, la legge Cavour n. 1483/1853 disegnò il modello per ministeri, con le fondamentali
partizioni organizzative interne, le direzioni generali, a livello centrale, e le prefetture, a livello periferico. Si
trattava di vere stanze dei bottoni, leve centrali del comando di tutta la macchina amministrativa;
controllare il governo e i ministri, e tramite questi, le direzioni generali e i prefetti, dunque significava
controllare tutto lo stato-amministrazione.
Essa previde un numero limitato di ministeri (otto), tra cui distribuire tutte le funzioni pubbliche,
modellate intorno al principio liberale di non ingerenza, così da costituire una struttura di garanzia di
certezza e tutela nei confronti del mercato e della produzione economica.
Tutti gli organi e gli uffici pubblici furono strutturati tra loro in catene piramidali di gerarchia che
conducono sempre, risalendo verso l'alto, al ministro, così che tutte le amministrazioni vennero
avviluppate in un geometrico sistema di controllo.
L’attività amministrativa, a qualsiasi livello, deve dunque essere conforme alla legge e alle direttive
(circolari) del ministero; il ministro può, in qualsiasi momento, mediante un potere generale di
autotutela, annullare qualsiasi atto amministrativo, a qualunque livello. Governo e ministeri, inoltre,
dispongono del controllo totale sulla gestione del bilancio e delle spese pubbliche.
Questo Stato amministrativo accentrato rimarrà una costante fondamentale in tutto l’evolversi della
successiva storia politica italiana, fino a quando, a partire dagli anni novanta del ventesimo secolo,
inizierà il suo declino e la sua crisi di legittimazione sia verso l’alto, a vantaggio delle istituzioni europee,
sia verso il basso, per effetto delle varie ondate di federalismo amministrativo, fiscale e costituzionale.
La costruzione dell’Unità italiana è avvenuta intorno all’accentramento e all’azzeramento delle autonomie
comunali preesistenti; la riconduzione del pouvoir municipal all’interno del controllo centrale era vitale in
un patchwork di Stati come era l’Italia unita, che non aveva conosciuto, a differenza della Francia, un
governo assoluto installato su una dimensione nazionale.
Condizionata dal principio di supremazia della legge romana, dalla tutela prefettizia e dal controllo
finanziario, l’autonomia locale fu soppressa, e il Comune ridotto a “organo dello Stato”, una specie di
sportello decentrato del Governo.
Questa storica soluzione ha poi condizionato il modello organizzativo, disegnato nella legge
comunale e provinciale del 20 marzo 1865, e confermato nelle successive riforme e nei Testi Unici (dal
1889 al 1934).
Un ruolo centrale in questo processo ebbero le Province, costruite “a tavolino” come snodo del
comando governativo sui Comuni, affiancando un Consiglio più o meno rappresentativo ad un organo
statale, il Prefetto.
La crisi strutturale del modello liberale iniziò a manifestarsi già negli ultimi decenni del secolo; da
un lato le avventure coloniali, dall’altro una tendenza a spesa pubblica di sostegno e disavanzo,
ferocemente avversata dai veementi richiami di Quintino Sella e della destra liberale al “pareggio del
bilancio”.
L'amministrazione si piegò alle necessità della politica, la Corte dei conti fu “captata” dal Governo,
e divenne più tenera nel giudicare i bilanci e la gestione della spesa.
Con l'istituzione del ministero del tesoro, introdotto dalla riforma Depretis del 1877, si aprì la via
alla dissociazione fra il controllo dell'entrata (ministero delle finanze) e la gestione della spesa.
La tendenza dei Governi alla dilatazione della spesa (sia sulla base delle pressioni interne, sia per
obiettive esigenze legate alle spese militari), in un contesto internazionale che si andava lentamente
chiudendo, evidenziava l'intrinseca debolezza dell'economia liberale e delle sue istituzioni.
8.
La transizione
Una serie di eventi spianò la strada a un periodo di riforme, noto come età “giolittiana”.
Nel 1982, dopo il disastro coloniale e la caduta di Crispi, il nuovo governo Rudinì, anche sulla
spinta di due clamorosi eventi sociali quasi coevi (la nascita del Partito socialista e la pubblicazione delle
Encicliche sociali di Leone XIII) avviò alcune riforme sociali (INAIL).
Ma di fronte alla rivolta del pane (1897) lo Stato borghese tornò a mostrare il suo vero volto: il
Governo proclamò lo stato d’assedio a Napoli, Firenze e Milano, dove nel maggio del 1898, l’artiglieria
del generale Bava Beccaris, uccise più di cento manifestanti.
Di fronte alle proteste il nuovo governo Pelloux tentò di far passare nuove leggi liberticide, col solo
effetto di far nascere la tecnica dell’ostruzionismo parlamentare.
Nel 1903 Antonio Giolitti salì alla guida del Governo, inaugurando, o meglio proseguendo, un
periodo di intense riforme
9.
L’età giolittiana
La consapevolezza della crisi industriale e della necessità di un nuovo ruolo dello stato si
coniugarono in primo luogo con alcuni interventi strutturali, come la creazione dell’Istituto Nazionale
delle Assicurazioni, il primo ente pubblico economico italiano, un progetto di intervento nel
Mezzogiorno, la nazionalizzazione delle ferrovie, le municipalizzazioni.
Con la riforma elettorale del 1912, e il suffragio universale maschile (gli analfabeti solo dopo il
trentesimo anno di età) l’apertura al quarto stato divenne visibile: lo Stato iniziava a divenire pluriclasse.
L’élite economica aveva di che preoccuparsi. Lo stesso Giolitti avviò un progetto di tassazione
mediante imposta progressiva sul reddito. Intanto, grazie alla nuova definitiva estensione del suffragio,
le elezioni del 1919 portarono un Parlamento a maggioranza popolare e socialista. Nel settembre 1920 il
movimento operaio lanciava un massiccio attacco al sistema, con l’occupazione delle fabbriche, in un
contesto europeo in piena fibrillazione, con un governo bolscevico già installato in Russia.
Fu allora che la borghesia “liberale” tolse il guinzaglio alle squadre di Mussolini.
10.
Il fascismo
La trasformazione dello stato liberale italiano in stato sociale interventista, iniziata in fondo con le
stesse riforme giolittiane, prosegue senza soluzione di continuità anche durante gli anni del fascismo.
Come il Nazismo, dal punto di vista dell’interventismo pubblico il Fascismo è solo una vernice
esterna, al di sotto della quale il processo di costruzione della nuova costituzione economica, che
abbiamo già descritto, procede senza sosta; lo stesso concetto di Stato sociale nasce nelle sottoculture
nazi-fasciste; nel 1926 e nel 1936 lo Stato assoggetta il sistema bancario a uno stretto controllo; nel 1933
nasce l’IRI e con esso il sistema delle partecipazioni statali; nel 1939 in un convegno, Salvatore Pugliatti
elabora la tesi della “funzione sociale delle proprietà”; le amministrazioni pubbliche crescono di numero
e dimensione; fra il 1933 e il 1942 sono varate grandi riforme dei codici; l’intervento dello Stato
nell’economia cresce senza sosta. Tutti questi caratteri transiteranno senza problemi (a parte qualche
esperimento di epurazione) nella prima repubblica.
Contemporaneamente, lo Stato fascista manifesta la sua forma autoritaria, devitalizzando il
Parlamento, abolendo pluralismo e opposizione, centralizzando il potere politico nella élite di governo,
controllando i poteri di garanzia e la stampa, violando i diritti di libertà, cancellando costituzionalismo e
Stato di diritto.
11.
La Repubblica
12.
La Costituzione repubblicana
13.
I valori fondamentali
Dopo la caduta del Fascismo, il Re tentò di restare a galla affidando a un militare (Badoglio) un
Governo di tipo autoritario, fondato sullo Statuto albertino.
L’operazione fu interrotta dall’Armistizio (8 settembre 1943), e definitivamente seppellita dal popolo
italiano nel 1946 con il referendum istituzionale, e la contemporanea elezione di una assemblea costituente
composta in estrema maggioranza dalle forze politiche della Resistenza al Fascismo, che diedero subito
vita a un governo provvisorio, cui partecipava anche il Partito comunista.
La nuova Costituzione repubblicana, approvata il 22 dicembre 1947 con una schiacciante
maggioranza, entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Il 18 aprile 1948 le prime e discutibili elezioni politiche diedero la maggioranza assoluta dei voti alla
Democrazia Cristiana.
Il primo incarico governativo fu affidato ad Alcide De Gasperi, che estromise subito i comunisti
dall’area del potere e costituì un governo monocolore democristiano.
Era nata la “Prima” Repubblica.
È una costituzione democratico-sociale ad elevato interventismo pubblico, lunga, rigida, con un
elevato numero di norme solo programmatiche, e spesso contrastanti, a causa della convergenza, nella
elaborazione del testo di “culture” spiccatamente differenti. Il modello di fondo, di derivazione
weimariana, tenta la coniugazione tra mercato, Stato, e socialità, riassumibile nella formula «stato sociale
di diritto» (sozialer Rechtsstaat).
La prima tra le due culture dei Costituenti è costituita dalla dottrina sociale della Chiesa, che ha
contribuito alla creazione della teoria dello Stato sociale nell'accezione personalistica, solidaristica e
corporativistica del termine.
Vi è poi la componente di ispirazione comunista, la quale pur accettando i presupposti essenziali
della democrazia interventista che si riassumono nella «regola del gioco» dell'economia mista, aveva, e in
larga misura ha ancora, una visione dello Stato sociale come «società di transizione» (pacifica e
democratica) verso una forma più evoluta di società (la «terza via»), ma attraverso un ruolo forte e
direzionale dei pubblici poteri (statalismo).
Spesso si afferma che, nella Costituzione formale italiana, vi è un nucleo di principi fondamentali,
riassumibili nei seguenti.
Principio personalista, comune alla civiltà giuridica europea: la persona è il centro del diritto, e non è in
funzione dello Stato; è lo stato ad essere in funzione della persona umana (art. 2, 13 ss.).
Principio pluralista, come riconoscimento della diversità in tutte le applicazioni (pensiero, stampa,
scienza, istruzione, politica, sindacato ...), indefettibile per la protezione della persona e la fondazione
della democrazia, anche attraverso la valorizzazione delle formazioni sociali (art. 2, 33, 39 ...) del sistema
delle autonomie (art. 5).
Principio lavorista: la fondazione della Repubblica sul lavoro (art. 1, 4, 35 ss.), significa rimozione di
ogni differenza economica (art. 3, comma 2) che non trovi legittimazione nel lavoro stesso.
Principio democratico: non significa solo sovranità popolare (art. 1) ma anche limitazione del potere. La
maggioranza da il diritto di gestire potere e indirizzo politico, ma deve tenere contemporaneamente
garantire diritti e legittimazione alle minoranze.
Malgrado la forza ideale di tali valori e delle culture che li ispirarono, il mondo immaginato dai
Costituenti non è riuscito a realizzarsi. Forse il progetto era troppo ambizioso, o utopistico, oppure era
solo ipocrita. Di fatto, forma di potere, interventismo pubblico e ordinamento giuridico “vivente”
hanno preso tutt’altra direzione.
14.
Inattuazione della Costituzione.
15.
La crisi fiscale
Il modello formale di regime parlamentare, monista, a prevalenza del legislativo (v. Lez. 7), fu
completamente disatteso nella Costituzione materiale, che si sviluppò intorno a quello che volgarmente
si denota come “stato dei partiti”, o partitocrazia, corretto dal monolitismo politico della centralità di
un partito, la Democrazia Cristiana, e dalla regola non scritta ma tenacemente applicata della
“conventio ad excludendum”, in base alla quale il maggior partito di opposizione, il PCI, fu tenuto per
trent’anni (fino a quando non cambiò nome e valori) rigorosamente al di fuori dell’area di governo.
Il principio di centralità del Parlamento fu completamente stravolto a vantaggio del Governo; il
controllo su entrambi da parte delle segreterie dei partiti rendeva tra l’altro più semplice spostare la
gestione dell’indirizzo politico nell’Esecutivo, al riparo dell’opposizione, presente solo in Parlamento.
E dal Governo il potere di fatto fu diffuso in una costellazione di enti, aziende, sedi dalla natura a
volte incerta, configurando un efficientissimo e articolato sistema di gestione della spesa pubblica e del
disavanzo, che andavano crescendo a dismisura, ponendo le premesse per quella che, a partire dagli
anni ottanta, fu la più straordinaria esibizione di crisi fiscale dello Stato sociale interventista in Europa.
Intanto, la costruzione dell’edificio costituzionale veniva dilazionata e dimenticata: la Corte
costituzionale fu attuata solo nel 1956, le Regioni solo nel 1972, lo Stato amministrativo liberale,
passato indenne e senza soluzione di continuità attraverso Fascismo e Resistenza, non solo non fu
corretto, ma si espanse con sempre maggior vigore e pervasività.
A partire dagli anni sessanta l’integrità della costituzione economica italiana inizia a essere violata. Il
disavanzo cresce oltre ogni limite, mentre la spesa pubblica, malgrado programmazioni e interventi
straordinari, si spande “a pioggia” e, se pure ha effetti virtuali di sostegno della domanda, non genera
rientro in termini di crescita economica e di PIL. La divaricazione di bilancio è coperta con debito
pubblico ed emissione di moneta, generando livelli strutturali e insostenibili di inflazione.
Sebbene la legge n. 468/1978 introduceva la possibilità di un controllo globale sulle spese, mediante
la legge finanziaria, e sebbene nello stesso periodo la Banca d'Italia “divorziò” dal Tesoro, instaurando
la regola della separazione tra politica di bilancio e politica monetaria, e una storica sentenza della Corte
costituzionale affermò l'esistenza di un equilibrio finanziario complessivo come valore costituzionale, i
governi (e le opposizioni) fingevano di non sentire: mentre in Inghilterra già da tempo la “Lady di
Ferro” (Margaret Thatcher) avesse attivato riforme effettive di bilancio e privatizzazioni, la classe
politica italiana continuò a disseminare assistenzialismo, finché globalizzazione, crisi fiscale, diritto
comunitario e magistratura penale, alla svolta dei ’90, iniziano a tagliare con l’ascia i nodi che la forma di
governo italiana non riusciva non solo a sciogliere, ma neppure a vedere. Le riforme allora divengono
obbligate, quasi, verrebbe da dire, si fanno da sole.
VI.
1.
IL PARLAMENTO
Premessa
Il Parlamento è un organo elettivo e rappresentativo, attraverso il quale si esprime più direttamente
la c.d. volontà popolare. È costituito da due Camere: quella dei deputati e il Senato della Repubblica.
La Costituzione (art. 56 e 58) stabilisce diversi limiti per l’elettorato attivo e passivo delle Camere:
infatti, la Camera dei deputati è eletta da tutti gli elettori che abbiano compiuto il diciottesimo anno di
età ed è composta da cittadini che abbiano compiuto almeno il venticinquesimo anno; sono invece
elettori del Senato solo i cittadini che abbiano almeno 25 anni e possono essere eletti solo quelli che
abbiano raggiunto i quaranta anni. Va peraltro precisato come non tutti i senatori, a differenza dei
deputati, siano elettivi; infatti, la Costituzione (art. 59) stabilisce che chi è stato Presidente della
Repubblica è senatore di diritto a vita e che il Capo dello Stato può nominare senatore a vita cinque
cittadini che abbiano illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico o
letterario.
Altra differenza di rilievo tra le 2 Camere concerne la composizione numerica dato che i deputati
sono 630 mentre i senatori sono 315, più quelli di diritto e a vita.
2.
Requisiti per l’elettorato passivo
Oltre al requisito dell’età visto in precedenza, per essere eletti membri del Parlamento ne
necessitano altri; sono infatti stabiliti casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o
di senatore.
Va preliminarmente precisato come per ineleggibilità si intenda il difetto dei requisiti occorrenti per
l’elettorato passivo, mentre l’incompatibilità fa riferimento alla situazione che si verifica quando un
soggetto diviene titolare di funzioni inconciliabili con l’esercizio del mandato parlamentare;
l’incompatibilità (che può essere originaria o sopravvenuta) comporta l’obbligo per l’eletto di optare per
la carica che intende conservare, rinunciando di conseguenza all’altra.
Il principio che ispira le cause di ineleggibilità è di evitare che siano eletti coloro che per gli uffici
che ricoprono possono esercitare una indebita influenza sugli elettori e coloro i quali, legati allo Stato da
determinati rapporti economici, possono essere influenzati nell’esercizio del mandato parlamentare;
così, sono ad esempio ineleggibili i sindaci dei Comuni con più di 20.000 abitanti, numerosi alti
funzionari, i magistrati, i diplomatici.
Sono invece incompatibili la carica di deputato con quella di senatore e viceversa, la carica di
parlamentare con quella di Presidente della Repubblica, di membro del CSM, di membro di un
Consiglio regionale, di giudice della Corte costituzionale.
3.
Bicameralismo italiano
Nonostante le differenze evidenziate in precedenza, il bicameralismo italiano viene definito perfetto
in quanto le due Camere hanno composizione omogenea e identici poteri.
La motivazione storica del bicameralismo perfetto risiede nella circostanza che un tale sistema
impedirebbe gli eccessi di potere di una sola Camera, comportando una più meditata elaborazione delle
leggi. Infatti, secondo certa dottrina, il duplice esame dei testi legislativi consente di verificare l’esistenza
di una costante volontà politica che sostenga la legge, di migliorarne il contenuto e la redazione; altra
dottrina ribatte che un siffatto sistema rallenta il procedimento e quindi allunga i tempi di approvazione
delle leggi e, sostanzialmente, comporta maggiori costi per lo Stato.
Va peraltro ricordato che composizione, durata e potere del Senato sono stati oggetto di numerose
proposte di riforma, principalmente dirette a ridurne i poteri, o a farne una Camera di effettiva
rappresentanza delle Regioni, o un organo di garanzia e controllo.
4.
Autonomia delle camere/1
Al fine di assicurarne la necessaria autonomia nell’espletamento delle relative funzioni, alle Camere è
riconosciuta la potestà regolamentare che consente a ciascuna di esse, nell’ambito della Costituzione ma in
piena indipendenza dall’ordinamento generale dello Stato nonché dall’altra assemblea, di determinare
con atti propri – i regolamenti parlamentari – la propria organizzazione interna, le regole di
funzionamento e l’ambito di alcuni privilegi.
Un altro istituto con cui si manifesta l’autonomia della Camere consiste nella c.d. verifica dei poteri,
ossia nel diritto loro spettante di giudicare esse stesse della validità dei titoli dei loro membri a farne
parte.
Le Camere godono di autonomia finanziaria, potendo ciascuna approvare il proprio bilancio
preventivo e consuntivo e quindi gestire i fondi occorrenti per il relativo funzionamento. Esse, altresì,
sono indipendenti nell’assunzione, determinazione delle mansioni e carriera giuridica del personale che
costituisce la loro struttura burocratica e, ancora, ad esse spetta la cognizione delle controversie tra i
dipendenti e le Camere stesse (c.d. autodichia).
Inoltre, spettano alle Camere, che li esercitano per mezzo del Presidente, i poteri necessari per il
mantenimento dell’ordine nelle stesse; la forza pubblica non può entrare nell’aula se non per ordine del
Presidente e dopo che sia stata sospesa o tolta la seduta.
5.
Autonomia delle camere/2
L’indipendenza e il prestigio delle Camere sono tutelati anche dalla legge penale, che punisce
chiunque comprometta il libero esercizio delle relative funzioni.
Sempre al fine di tutelare indirettamente l’autonomia del Parlamento, il 1° comma dell’art. 68 Cost.
stabilisce che i suoi membri «non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei
voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Questo privilegio della irresponsabilità comporta che il
parlamentare, in via permanente e quindi anche dopo la cessazione del suo mandato, non sia
perseguibile in via civile, penale o amministrativa per i fatti indicati dalla norma. Trattasi, ovviamente, di
irresponsabilità giuridica e non politica: quest’ultima esiste e può avere come sanzione la non rielezione
del parlamentare al termine della legislatura. Un altro privilegio – previsto dallo stesso articolo – è
quello della inviolabilità che copre il parlamentare finché dura la sua carica: esso è diretto a garantire la
libertà personale dei parlamentari contro le limitazioni derivanti da provvedimenti dell’autorità
giudiziaria che l’assemblea cui esso appartiene ritenga ispirati da un intento persecutorio.
L’art. 67 Cost. stabilisce che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato»; la norma da un lato vieta che possa mai essere attribuito agli
elettori che hanno eletto un parlamentare il diritto di revocarlo, mentre, dall’altro, esclude che abbiano
rilievo giuridico i vincoli che i parlamentari possono assumere verso i partiti cui appartengono.
La Costituzione, infine, stabilisce che i parlamentari ricevono una indennità stabilità dalla legge.
6.
Struttura interna
Le funzioni dei Presidenti delle Camere sono stabilite direttamente dalla Costituzione, o dai
regolamenti parlamentari. Tra le prime rientra: il potere di convocare direttamente l’assemblea; quello di
essere consultati dal Capo dello Stato prima dello scioglimento delle Camere; quello del Presidente della
Camera di convocare e presiedere il Parlamento in seduta comune; quello del presidente del Senato di
sostituire il Capo dello Stato quando questi sia impedito nell’esercizio delle sue funzioni. Le seconde,
invece, possono riassumersi nella funzione di rappresentanza dell’assemblea, di esternazione della sua
volontà, di direzione dei lavori e di controllo dell’attività parlamentare.
I gruppi parlamentari riuniscono i membri del Parlamento di tendenze politiche affini. Attraverso di
essi si attua la disciplina di gruppo che, nei limiti in cui lo consente il divieto di mandato imperativo,
vincola gli appartenenti al gruppo alle sue deliberazioni; essi influiscono in modo determinante sulla
formazione del programma e del calendario dei lavori.
Le commissioni parlamentari sono organi collegiali che possono essere permanenti o temporanei,
monocamerali o bicamerali. La loro costituzione deve avvenire in modo da rispecchiare la proporzione
dei vari gruppi parlamentari. Le commissioni temporanee assolvono compiti specifici e durano in carica
il tempo stabilito per l’adempimento della loro funzione. Quelle permanenti, invece, sono organi stabili
e necessari di ciascuna Camera, titolari di importanti poteri nell’ambito del procedimento legislativo. Le
commissioni bicamerali sono formate in parte eguale da rappresentanti delle due Camere.
7.
Principio di continuità
Il Parlamento è soggetto al principio di continuità. Le Camere, una volta elette, rimangono infatti in
funzione fino al loro scioglimento che avviene al termine costituzionale della legislatura, cioè dopo
cinque anni dalla prima riunione, o anticipatamente per decisione del Capo dello Stato. Il principio di
continuità risulta chiaro dall’art. 61 Cost. per il quale, in caso di scioglimento, «fino a quando non siano
riunite le nuove Camere, sono prorogati i poteri delle precedenti».
Questo istituto, detto prorogatio, va distinto dalla proroga di cui all’art. 60, comma 2, che dispone che
la durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e in caso di guerra. Se in
quest’ultima ipotesi, infatti, viene prorogata la durata dell’organo che continua a funzionare nella
pienezza dei suoi poteri sino al termine stabilito dalla legge di proroga, nel caso di prorogatio, invece, il
termine rimane quello fissato in Costituzione, la quale esige che la Camera sciolta sia rinnovata entro 60
giorni dallo scioglimento e che si riunisca non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni.
Le Camere si riuniscono di diritto, indipendentemente da un apposito atto di convocazione, il
primo giorno non festivo di febbraio e ottobre; ciascuna Camera può inoltre essere convocata, in via
straordinaria, per iniziativa del suo Presidente, o del Presidente della Repubblica, o di un terzo dei suoi
componenti; inoltre, la Costituzione dispone che, quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è
convocata di diritto anche l’altra.
8.
Formazione della volontà delle Camere
Secondo l’art. 64 Cost., le decisioni di ciascuna Camera non sono valide se non è presente la
maggioranza dei loro componenti (c.d. numero legale) e se non sono adottate a maggioranza dei
presenti (c.d. maggioranza semplice), salvo che la Costituzione non prescriva una maggioranza speciale
(ad esempio, per approvare le leggi costituzionali occorre, nella seconda votazione, secondo i vari casi
previsti dall’art. 138 Cost., la maggioranza assoluta o la maggioranza dei due terzi dei componenti di
ciascuna Camera).
Riguardo al computo degli astenuti, le disposizioni regolamentari a riguardo sono diverse alla
Camera e al Senato: infatti, mentre alla Camera sono considerati presenti solo coloro che esprimono
voto favorevole o contrario – e pertanto i presenti che si astengano dal voto non sono computati per
determinare la maggioranza –, in Senato vige il principio contrario e si considerano partecipanti alla
votazione anche i presenti che si astengano dal voto.
Di norma, le deliberazioni delle Camere e quelle del Parlamento in seduta comune sono pubbliche,
salvo che essi deliberino di riunirsi in seduta segreta.
9.
Funzione legislativa. Procedimento ordinario/1
Secondo la Costituzione, la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
Il procedimento legislativo ordinario prevede diverse fasi. La prima fase è quella dell’iniziativa che
consiste nel potere di presentare un progetto di legge alla presidenza di una delle due Camere affinché
su di esso il Parlamento deliberi. La Costituzione attribuisce questo potere, in via principale, al
Governo, a ciascun parlamentare, al popolo (nella persona di almeno cinquantamila elettori), ai consigli
regionali, al CNEL.
Tra le forme di iniziativa ha importanza preponderante quella governativa in quanto i disegni di
legge del Governo sono in gran parte strumento di attuazione del programma presentato alle Camere
all’atto di chiedere loro la fiducia.
Peraltro, vi sono disegni di legge che solo il Governo può presentare (c.d. leggi riservate); sono tali
quelli aventi ad oggetto i bilanci, i rendiconti consuntivi, la ratifica dei trattati internazionali e, per loro
stessa natura, i disegni di legge finanziaria e quelli di conversione dei decreti legge.
Successivamente alla presentazione di un progetto di legge, se manca una volontà politica sufficiente
a portarlo avanti, non si procede oltre ed esso decade alla fine della legislatura: è il fenomeno c.d.
dell’insabbiamento.
10.
Funzione legislativa. Procedimento ordinario/2
La seconda fase del procedimento legislativo ordinario è quella istruttoria che è di specifica
competenza delle commissioni, in genere di quelle permanenti, ed ha carattere obbligatorio. La
commissione competente, esaminato il progetto, presenta all’assemblea una relazione in cui propone di
accoglierlo o di respingerlo, oppure può presentare emendamenti al testo presentato o formulare essa
stessa un nuovo testo (commissione in sede referente).
La terza fase è quella deliberante. Essa si svolge in assemblea e comprende la discussione generale,
la discussione articolo per articolo e la discussione finale. Dopo la discussione generale, che ha il fine di
accertare se esiste una maggioranza favorevole al progetto in assemblea, quest’ultima discute e delibera
sulla legge articolo per articolo, eventualmente apportando degli emendamenti. Infine, si ha
l’approvazione finale, necessaria perché la legge potrebbe uscire, dopo la discussione articolo per
articolo, modificata rispetto al testo presentato all’assemblea.
È necessario che entrambe le Camere votino lo stesso identico testo affinché esso sia positivamente
licenziato dal Parlamento; perciò, se una Camera apporta degli emendamenti al testo che gli arriva
dall’altra, allora il progetto deve tornare alla prima perché essa deliberi sul punto se intende accettare o
meno gli emendamenti proposti dalla seconda, essendo possibili in questa sede solo emendamenti
conseguenti a quelli apportati dall’altra Camera. Se li accetta, il consenso si forma; altrimenti, il progetto
torna a fare la “navetta” fra le due Camere sino all’approvazione.
11.
Gli altri procedimenti/1
L’art. 72, secondo comma, della Costituzione, prevede che si possa ricorrere ad un procedimento
legislativo abbreviato per i disegni di legge di cui è dichiarata l’urgenza; effetto della dichiarazione
d’urgenza è la riduzione, come disciplinata dai regolamenti, dei termini del procedimento ordinario.
Nel procedimento decentrato le commissioni si sostituiscono all’assemblea nella discussione e
nell’approvazione delle leggi (commissioni in sede deliberante o legislativa), purché composte in modo
tale da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Sono peraltro esclusi i disegni di legge in
materia costituzionale ed elettorale, di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati
internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi.
Il procedimento legislativo delle commissioni in sede redigente consiste nell’affidare alle
commissioni la redazione, cioè la definitiva formulazione degli articoli del disegno di legge,
riservandone l’approvazione all’assemblea.
Il procedimento di approvazione della legge di bilancio e delle leggi connesse presenta aspetti
particolari. Innanzitutto ad esso partecipano tutte le commissioni permanenti; poi, una serie di
disposizioni regolamentari mira ad impedire che, da un lato, i caratteri della manovra di finanza
pubblica predisposta dal Governo vengano alterati nella sostanza e, dall’altro, a far sì che l’approvazione
avvenga prima del 31 dicembre in modo da evitare l’esercizio provvisorio.
12.
Gli altri procedimenti/2
Il procedimento di conversione dei decreti legge prevede, quale aspetto tipico, un esame preventivo
del decreto sulla sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza di cui all’art. 77 della Costituzione. La
conversione è comunque rimessa all’assemblea.
L’amnistia e l’indulto (che sono due distinti atti di clemenza relativi ad una generalità di
comportamenti penalmente sanzionati: la prima estingue il reato, il secondo condona in tutto o in parte
la pena), a seguito della legge cost. 1/1992, sono oggi concessi con legge deliberata da ciascuna Camera
a maggioranza dei due terzi dei propri componenti, sia nelle votazioni relative ad ogni articolo della
legge, sia nella votazione finale.
L’art. 138 della Costituzione prevede, per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi
costituzionali, la doppia deliberazione, a distanza non inferiore di tre mesi l’una dall’altra, di ciascuna
Camera; la maggioranza assoluta nella seconda votazione; l’eventualità di un referendum popolare se,
entro tre mesi dalla pubblicazione, ne facciano richiesta un quinto dei membri di ciascuna Camera, o
cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non si fa luogo a referendum se nella seconda
votazione la legge sia stata approvata a maggioranza di due terzi dei componenti da ciascuna delle due
Camere.
13.
Funzione di indirizzo e controllo
Oltre alla funzione legislativa, le Camere esercitano anche altre funzioni, in particolare quella di
indirizzo politico e di controllo.
La funzione di indirizzo politico consiste nella direzione della politica dello Stato; vi sono cioè leggi,
appunto di indirizzo politico, in cui la funzione direttiva prevale su quella normativa. La prima di tali
leggi sono quelle di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali con cui il Parlamento approva le
direttive di politica internazionale del Governo e lo autorizza ad assumere impegni internazionali; in
secondo luogo sono di indirizzo politico le leggi di approvazione del bilancio preventivo con cui il
Parlamento rende esecutivo il piano finanziario del Governo e approva le direttive di politica finanziaria
che il piano contiene. Ancora, atti di indirizzo politico sono, da un lato, la dichiarazione di guerra e,
dall’altro, le mozioni: tra queste, in particolare, quelle di fiducia e di sfiducia con le quali si costituisce, si
conferma o si rompe il rapporto politico tra Parlamento e Governo che caratterizza il sistema
parlamentare.
La funzione di controllo si sostanzia nel controllo sull’operato del Governo e della pubblica
amministrazione; gli atti attraverso i quali essa viene attuata sono l’approvazione del rendiconto
generale dello Stato e l’esame della relazione della Corte dei conti sulla gestione degli enti sovvenzionati
dallo Stato.
14.
Funzione ispettiva
Le Camere esercitano, inoltre, una attività ispettiva attraverso interrogazioni, interpellanze e
inchieste.
L’interrogazione consiste in una domanda scritta che ciascun parlamentare può rivolgere al
Governo per sapere (secondo la lettera dei regolamenti di Camera e Senato) «se un fatto sia vero, se
alcuna informazione sia giunta al Governo, se il Governo intende comunicare alla Camera documenti o
notizie o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato». Il Governo è tenuto a
rispondere, a meno che dichiari – indicandone i motivi – di non poterlo fare, e l’interrogante può
dichiararsi soddisfatto o meno. Esistono anche interrogazioni a risposta immediata alle quali è dedicato
un apposito spazio di tempo nei lavori parlamentari (question time).
L’interpellanza consiste, invece, in una domanda scritta «circa i motivi e gli intendimenti della
condotta del Governo in questioni che riguardino determinati aspetti della sua politica»; in essa pertanto
prevale l’aspetto politico.
Le indagini delle commissioni d’inchiesta hanno fondamento costituzionale; ogni Camera può
infatti disporre inchieste su materie di pubblico interesse, nominando a tal fine una commissione che
rispecchi la proporzione tra i vari gruppi; la Commissione procede alle indagini con gli stessi poteri e le
stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria.
15.
Parlamento in seduta comune
Il Parlamento in seduta comune è presieduto dal Presidente della Camera; le relative funzioni,
tassativamente indicate dalla Costituzione, sono elettive ed accusatoria.
Riguardo alle prime, il Parlamento in seduta comune, innanzitutto, elegge il Presidente della
Repubblica; l’elezione deve avvenire a maggioranza dei due terzi dei membri dell’assemblea fino al terzo
scrutinio e a maggioranza assoluta successivamente. La sua composizione è integrata da tre delegati per
Regione (la Valle d’Aosta ne ha uno solo) scelti dai Consigli regionali in modo da rappresentare le
minoranze. Ancora, il Parlamento in seduta comune elegge, con la maggioranza di 2/3 dei membri fino
al terzo scrutinio e dei 3/5 nei successivi, cinque giudici della Corte costituzionale e, con le stesse
maggioranze, otto componenti del CSM.
La funzione accusatoria del Parlamento in seduta comune concerne la messa in stato di accusa del
Presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla Costituzione, che deve essere deliberata
a maggioranza assoluta dei componenti.
VII.
1.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Natura
Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato italiano: le fonti della sua disciplina sono
contenute negli art. 83-91 Cost.
È organo costituzionale monocratico, necessario, stabile, cioè inamovibile a tutti gli effetti (salvo
condanna per il reato di alto tradimento o attentato alla Costituzione), neutrale rispetto alle forze
politiche e super partes rispetto ai vari poteri dello Stato; rappresenta l’unità nazionale ed è custode della
Costituzione, ruolo che condivide, con diversi poteri, con la Corte costituzionale.
Tra le sue principali potestà di garanzia costituzionale sono comprese quella di attivare la
formazione del Governo e risolverne le crisi, nominando il Presidente del Consiglio e i Ministri, e quella
di scioglimento anticipato delle Camere, nei casi previsti dalla Costituzione.
L’art 84 specifica l’elettorato passivo, cioè i requisiti di eleggibilità, che si sostanziano nella
cittadinanza italiana, nel compimento del cinquantesimo anno di età e nel godimento dei diritti civili e
politici.
La legge stabilisce l’assegno e le altre dotazioni dell’ufficio di Presidente, che è incompatibile in via
assoluta con qualsiasi altra carica.
2.
Elezione
Elettorato attivo e procedure di elezione sono già stati considerati nella precedente lezione. In
questa sede, ricordando che l’elezione ha luogo a scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dei
componenti nei primi tre scrutini ed assoluta dal quarto in poi, possiamo aggiungere che tale quorum
elevato dovrebbe garantire la convergenza nella figura del Presidente di un largo consenso delle forze
politiche sia di maggioranza che di opposizione; il voto a scrutinio segreto, in realtà, favorisce questo
esito.
Il Presidente dura in carica sette anni, periodo più lungo di quello dei parlamentari (normalmente
cinque anni), superato solo dai giudici della Corte Costituzionale che durano in carica nove anni.
3.
Scadenza del mandato
Trenta giorni prima che scada il termine del mandato il Presidente della Camera dei Deputati
convoca il Parlamento in seduta comune e i delegati regionali per eleggere il nuovo Presidente
Se le Camere sono sciolte o mancano meno di tre mesi dalla cessazione, l’elezione ha luogo entro 15
giorni dalla riunione delle nuove Camere. Nel frattempo il Presidente uscente conserva i poteri
limitatamente ai compiti di ordinaria amministrazione (Prorogatio)
Nell’ultimo semestre del suo mandato (il cd semestre bianco) il Presidente della Repubblica perde il
potere di scioglimento delle Camere (art. 88 Cost.); in tal modo la Costituzione vuole evitare tentativi
autoritari del Presidente di influire sul Parlamento e sulla sua composizione al fine di essere rieletto.
Il divieto, tuttavia, non opera se c’è coincidenza parziale o totale con gli ultimi 6 mesi di legislatura;
tale coincidenza, che può generare delicate questioni politico costituzionali, è detta, in linguaggio
giornalistico ma efficace, “ingorgo istituzionale”.
4.
Continuità.
Data la delicatezza della figura, e come per gli altri organi costituzionali, vige il principio di
continuità, che impone, considerata anche la natura monocratica dell’organo, necessarie misure per
escludere qualsiasi interruzione della funzione per qualunque causa o impedimento. In via generale, la
supplenza è assunta, con pieni poteri (come ritiene la migliore dottrina) dal Presidente del Senato (art.
86, Cost., c. 1).
L’impedimento può essere permanente (cioè irreversibile), per morte o per gravi ragioni di salute, o
temporaneo quando è oggettivo e reversibile (ad esempio sospensione da parte della Corte
costituzionale). Non causa necessariamente impedimento il viaggio all’estero del Presidente.
L’impedimento permanente può essere dichiarato dallo stesso Presidente, ed equivale a dimissioni,
o conseguire a sentenza di condanna da parte della Corte costituzionale, che ha l’effetto di destituzione;
negli altri casi va accertato istituzionalmente, mediante deliberazione del Parlamento in seduta comune.
L’art. 86 Cost dispone che in caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del
Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati indice la elezione del nuovo
Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono
sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione.
5.
Controfirma
In base all’art. 89 Cost. nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato
dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli
altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
La spiegazione di una norma di questo tipo non può essere fondata su una nozione di controfirma
come controllo di costituzionalità dell’atto presidenziale; si rovescerebbero le parti: avremmo un organo
politico che controlla proprio l’organo di suprema garanzia, il custode della Costituzione!
Si tratta invece di un vero e proprio controllo politico, che trasferisce il reale potere dalle mani del
Presidente a quelle del Governo, anzi dei Ministri, che correttamente debbono assumersene la
responsabilità davanti al Parlamento e davanti al diritto.
Ma se ciò è vero, allora la figura del Presidente risulta depotenziata sul piano giuridico
costituzionale, e dunque anche la funzione di garanzia che gli compete appare sbiadita, composta di
deboli interventi di stimolo, freno e impulso, ma priva di reale incidenza nel ricondurre Governo e
Parlamento dentro i paletti fissati dalla Costituzione.
6.
Reati presidenziali
Data l’assunzione da parte dei Ministri mediante la controfirma della responsabilità politica e
giuridica di tutti gli atti del Presidente della Repubblica, il Capo dello Stato è politicamente e
giuridicamente irresponsabile, salvo due casi: per i reati comuni: ma in tal caso, l’azione giudiziaria è
sospesa fino alla fine del mandato, e per i cd “reati presidenziali”.
Infatti, in base all’art. 91 Cost., appena eletto egli presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di
garanzia della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune.
Simmetricamente, la Costituzione prevede che il Presidente è perseguibile se infrange tale
giuramento, per il reato di alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.).
La procedura, analoga a quella dell’impeachment del Presidente americano, è avviata mediante una
formale messa in stato d’accusa, deliberata dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei
componenti, mentre il processo è di competenza della Corte costituzionale (che può in via cautelare
disporre la sospensione dalle funzioni) integrata con sedici membri di nomina parlamentare (art. 135
Cost.).
7.
Posizione costituzionale
Come già detto, il Presidente dev’essere super partes e neutrale; non deve prendere posizione a favore
dell’una o dell’altra scelta politica, ma dovrebbe garantire che tutte siano assunte nell’ambito dei principi
e dei limiti che scaturiscono dalla sua visione degli equilibri e dei valori costituzionali.
Ma, come abbiamo anche visto, la controfirma ministeriale è anche il segno tangibile che alla
particolare posizione di garanzia costituzionale del Presidente non corrispondono poteri effettivi.
Il Presidente è titolare di una funzione composita di garanzia e di indirizzo politico costituzionale,
che appartiene anche alla Corte costituzionale, e che, come vedremo, si spalma sulla dinamica di tutti
gli altri poteri dello Stato.
A differenza della Corte, tuttavia, non dispone di poteri giuridicamente vincolanti nei confronti
degli atti pubblici in cui si materializzano le funzioni legislativa ed esecutiva, e dunque non è un potere
realmente forte del sistema costituzionale; non è un caso, ma un effetto voluto: in Assemblea
costituente le posizioni presidenzialiste, pur autorevolmente sostenute, non furono seguite, per il
ricordo del tutto vivo delle conseguenze dell’accentramento monocratico dei poteri nel periodo fascista.
8.
Funzioni internazionali
In qualità di Capo dello Stato, il Presidente rappresenta lo Stato nei rapporti internazionali; accredita
e riceve i rappresentanti diplomatici stranieri; ratifica i Trattati previa, ove prevista, autorizzazione delle
Camere; dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere.
Si tratta di funzioni, sempre controfirmate, e di mera vernice esterna, prive di reale incidenza. La
ratifica dei Trattati è un atto solenne ma praticamente dovuto, specie quando è prevista l’autorizzazione
delle Camere; lo stesso dicasi per l’accreditamento dei diplomatici, che avviene a cose fatte, quando i
Governi hanno già completamente definito e deciso le scelte delle persone e dei dettagli, per non
parlare della dichiarazione di guerra, che nella prassi alla quale ormai siamo abituati sfugge anche al
controllo effettivo dello stesso Parlamento.
9.
Rapporti con il potere legislativo (1)
Tra le funzioni più rilevanti di garanzia dell’equilibrio costituzionale il Presidente ha il potere di
sciogliere una o entrambe le Camere (art. 88, c. 1, Cost.). Si tratta di un atto a partecipazione complessa,
perché richiede il parere obbligatorio, anche se non vincolante, dei Presidenti delle Camere; non può
essere esercitato nel semestre bianco; richiede comunque la controfirma ed è soggetto a limiti di
contenuto, cioè l’effettiva presenza di una paralisi di una o entrambe le Camere.
Altre funzioni hanno rilievo procedurale, come nel caso della potestà di indire le elezioni politiche e,
successivamente ad esse, convocare la prima riunione per l’insediamento del nuovo Parlamento (art. 87,
c. 3); in altre vi è un maggiore dinamismo presidenziale, come nel caso della nomina dei cinque senatori
a vita (art. 59, c. 2) o della convocazione straordinaria di una o entrambe le Camere (art. 62, c.2)
10.
Rapporti con il potere legislativo (2)
Un carattere particolare ha assunto, in occasione di alcune presidenze “dinamiche” (Pertini,
Cossiga), il potere generale di messaggio alle Camere (art. 87, c. 2), mediante il quale il Presidente può
influire sulle forze politiche attraverso l’impatto mediatico della comunicazione nei confronti della
stampa e del pubblico, anche perché l’unico rimedio che avrebbe il Parlamento contro messaggi
“eccessivi” sarebbe l’impeachment, anch’esso, e in maggior misura, eccessivo e sproporzionato.
Del tutto procedurali sono il potere di indizione del referendum abrogativo o costituzionale (art. 87,
c. 6, 75, 138), e quello di promulgazione delle leggi (87, c. 5), al quale si connette una potestà più
sostanziale, consistente nel “veto” sospensivo, cioè nel rinvio del testo alle Camere per un
ripensamento e riesame, motivato da ragioni di costituzionalità (art. 74); ma se le Camere riapprovano la
legge nello stesso testo, il Presidente sarà obbligato a promulgare, altrimenti violerà il giuramento di
osservanza della Costituzione.
11.
Rapporti con il Potere esecutivo (1)
Come sappiamo, il compito più delicato e rilevante nel contesto della stabilità costituzionale
consiste nella formazione del Governo, sia in seguito a elezioni che in caso di crisi (art. 92, c. 2); in
particolare la fase delle consultazioni è un momento in cui il Presidente dialoga direttamente con le
forze politiche, per individuarne gli equilibri, e dunque assume una posizione centrale, che scompare,
tuttavia, subito dopo il conferimento ufficiale dell’incarico.
Rilievo ancora procedurale hanno le funzioni di emanazione delle fonti di diritto governative (art.
87, c. 5) e l’autorizzazione al Governo alla presentazione di un disegno di legge alle Camere (art. 87, c.
4), mentre del tutto formali sono il comando delle Forze Armate e la Presidenza del Consiglio
Supremo di Difesa (art. 87, c. 9).
12.
Rapporti con il Potere esecutivo (2)
Altre potestà riguardano più da vicino la funzione strettamente esecutiva del Governo. In
particolare, in relazione ai controlli di legittimità sugli organi dei Poteri substatali (v. Lez. 14), spetta al
Presidente firmare il decreto di scioglimento dei Consigli regionali e di rimozione del Presidente della
Regione (art. 126, c. 1), e quello di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali e rimozione
rispettivamente del Sindaco e del Presidente della Provincia
Il Presidente, come sancito dall’art. 87, c.7, firma anche i decreti di nomina alle più alte cariche dello
Stato (Presidente e Consiglieri della Corte dei Conti e Presidente del Consiglio di Stato, alte dirigenze
...), nonché i decreti di annullamento straordinario di atti amministrativi illegittimi, e quelli con cui si
chiude il procedimento di ricorso amministrativo straordinario al Presidente della Repubblica, previsti
dalla legislazione amministrativa ancora vigente.
13.
Rapporti con il Potere giudiziario
Il Capo dello Stato possiede alcune attribuzioni che interessano anche la Magistratura; non si tratta
tanto di poteri di influenza sulla funzione giurisdizionale, del tutto sovrana nel suo ambito, quanto di
funzioni che riequilibrano la garanzia di indipendenza della Magistratura (è il caso della Presidenza del
Consiglio superiore della Magistratura, prevista dall’art. 87, c. 10), o riequilibrano il rapporto tra peso
dei giudici di nomina parlamentare e peso dei giudici eletti dalle Magistrature all’interno di un organo
straordinariamente centrale, come la Corte costituzionale, di cui il Presidente nomina cinque membri su
quindici (art. 135, c. 1).
Il potere di grazia individuale e commutazione delle pene (art. 87, c. 11), se pure derivato dall’antico
e indiscutibile potere dei Re di usare la clemenza invece della violenza per conquistare i sudditi, non
possiede neppure l’ombra della sua antica forza. Anzi, la cronaca costituzionale recente ha evidenziato
come esso sia un caso di scuola della prevalenza del semplice potere di controfirma di un Ministro sulla
volontà, pur sostenuta da stampa e forze politiche, del Presidente.
VIII.
IL GOVERNO
1.
Nozione
2.
Struttura e funzioni
3.
Formazione
4.
5.Fiducia
In questa lezione ci occuperemo del Governo italiano nell’accezione soggettiva di “organo
costituzionale”, come vertice dell’esecutivo che detiene in via principale la funzione di indirizzo politico
di maggioranza. In quanto tale esso è insopprimibile, titolare di sovranità, e configura un potere dello
Stato.
Si tratta di un organo complesso, formato cioè da vari organi costituzionali, alcuni necessari
(Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio e singoli ministri, che formano il Governo in senso stretto),
altri eventuali (Consiglio di gabinetto, vice Presidente, Comitati interministeriali, Sottosegretari, ministri
senza portafoglio, che formano il Governo in senso ampio).
Non è tecnicamente corretto identificare il Governo nella leadership politica, e nemmeno
comprendervi l’apparato amministrativo strumentale (i ministeri); è ovvio che la prima ha una influenza
determinante sulle decisioni, ma anche l’amministrazione ha sempre avuto una influenza indiretta e
talora anche diretta sui comportamenti degli organi politici di vertice.
Il Governo è disciplinato in via generale dagli art. 92-96 della Costituzione.
Le funzioni di indirizzo politico del Governo consistono principalmente nel governo dell’economia
(finanza e bilancio), nell’emanazione di decreti legge e decreti legislativi, oltre alla funzione propositiva
delle leggi ordinarie del Parlamento, nella emanazione di fonti secondarie (regolamenti), nell’indirizzo e
nel controllo dell’amministrazione, compresa l’emanazione di atti di alta amministrazione.
Le principali fonti subcostituzionali che disciplinano la struttura e le funzioni del Governo sono la
legge n. 400 del 1988 e i decreti legislativi n. 300 del 1999 e 303 del 1999. In esse si è provveduto alla
razionalizzazione procedurale dello svolgimento delle suddette funzioni, e a un riordino organizzativo,
attraverso la disciplina del numero e della struttura dei ministeri, la modernizzazione amministrativa, la
creazione di nuovi apparati (le Agenzie), la razionalizzazione e la definizione dei compiti dell’apparato i
supporto del Capo del governo, cioè gli uffici della Presidenza del Consiglio dei ministri.
La scarna formulazione dell’art. 92, Cost. (il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del
Consiglio dei ministri, e su proposta di questo, in ministri), è stata integrata da una procedura introdotta
dalla consuetudine costituzionale.
L’iniziativa è del Capo dello Stato, che conferisce a chi vuole, ma dopo aver “tastato” il terreno
mediante le consultazioni, l’incarico di formare il Governo. Il Presidente del consiglio incaricato in
genera accetta con riserva e, dopo ulteriori consultazioni, scioglie la medesima, formula un elenco di
possibili ministri, e lo presenta al Presidente della Repubblica il quale, con decreti controfirmati dallo
stesso Presidente del consiglio incaricato, nomina quest’ultimo e, su sua proposta, i singoli ministri.
Il Governo così formato presta giuramento nelle mani del Capo dello Stato, e da questo momento
entra in carica, ma non può ancora, di fatto, esercitare le sue funzioni. Esso deve predisporre un
programma di governo, che presenterà entro dieci giorni dalla nomina, insieme al Governo stesso, alle
Camere per ottenerne la fiducia.
Il rapporto di fiducia nasce con la votazione con cui ciascuna delle Camere manifesta il proprio
gradimento sulle persone che compongono il Governo e sul suo programma. Essa deve permanere per
tutta la durata del Governo, perché il suo venir meno ne determina la crisi, e impegna lo stesso
all’attuazione del programma, espresso davanti a ciascuna Camera attraverso le dichiarazioni
programmatiche del Presidente del consiglio.
La votazione della fiducia, da parte di ciascuna Camera, va preceduta da una mozione di fiducia,
presentata da parte dei gruppi parlamentari di maggioranza. La Costituzione prescrive che tale mozione
debba essere motivata, e votata per appello nominale (in questa fase, dunque, non hanno spazio i c.d.
“franchi tiratori”: ciascun parlamentare si assume la responsabilità del suo voto davanti ai partiti e ai
cittadini).
Il rapporto di fiducia si instaura solo se la mozione di fiducia è approvata a maggioranza semplice
dei presenti, in entrambi i rami del Parlamento. Dopo questa fase il Governo entra nella pienezza
effettiva dei suoi poteri.
Si noti che nel corso della legislatura una “questione di fiducia” può essere (e viene frequentemente)
posta dallo stesso Governo, quando vuole obbligare il Parlamento a determinate decisioni.
5.
Crisi di governo
6.
Presidente del consiglio (1)
7.
Presidente del consiglio (2)
Il Governo cessa le sue funzioni con le dimissioni, che il Presidente del Consiglio rimette al Capo
dello Stato che riavvia il procedimento di formazione, e che rappresentano l’epilogo di una crisi di
governo.
Si tratta di un esito che può essere prodotto da diversi eventi di carattere politico (crisi
extraparlamentari, cpme la morte del Premier, gravi contrasti fra i partiti, grave contrasto tra Presidente
del Consiglio e Capo dello Stato, disordini e tensioni sociali ...).
Tuttavia, la causa normale della crisi dovrebbe essere il venir meno della fiducia del Parlamento (crisi
parlamentare), formalizzata da una simmetrica mozione di sfiducia approvata, per appello nominale, dai
membri anche di una sola Camera; solo in questo caso le dimissioni del Governo sono necessarie e
obbligatorie, dato che l'art. 94 comma Cost. dispone che il voto contrario di una o di entrambe le
Camere su una proposta del Governo non importa l'obbligo di dimissioni. In senso tecnico, in Italia
l’ipotesi di crisi riconducibile al tipo parlamentare si è verificata una sola volta (Governo Prodi, 1998).
Non configura una crisi di governo il rimpasto (cambiano solo alcuni ministri) e neppure la “sfiducia”
individuale espressa dal Parlamento ad un singolo Ministro (caso Mancuso, Corte cost., sent. 7/1996).
In base al primo comma dell’art. 95 il Presidente del consiglio dei ministri dirige la politica generale
del Governo e ne è responsabile; mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo
e coordinando l'attività dei ministri.
Il Presidente del consiglio ha dunque una supremazia politica ma senza alcun potere gerarchico, né
potere di revoca, sui ministri, i quali, in base all’art. 95 Cost., sono individualmente responsabili degli
atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni.
L’evoluzione recente della forma di governo, in parte formalizzata nel citato d.lgs. n. 303/1999, ha
portato a un maggiore dinamismo del Premier come organo di direzione politica e di coordinamento
dell’azione del Governo e dei singoli ministri, nei confronti dei quali ha un potere di direttiva, sia in
attuazione di decisioni del Consiglio dei ministri, sia nei casi in cui ritiene coinvolta la propria
responsabilità politica nei confronti del Parlamento.
Spetta inoltre al Presidente adottare le direttive per assicurare l’imparzialità e il buon andamento di
tutti gli uffici statali e la coerenza dell’azione degli Enti e Aziende statali rispetto agli obiettivi del
programma e degli indirizzi politico-amministrativi del Governo
Oltre alla responsabilità politica generale dell’azione del Governo verso le Camere, il Presidente
risponde, come qualunque cittadino, per gli illeciti civile e penali commessi; tuttavia, quando l’illecito
penale si presume commesso nell’esercizio della sua funzione di organo dello Stato (reati propri), l’art.
96 Cost. ne consente la persecuzione solo previa autorizzazione della Camera o del Senato.
Tuttavia una recente e discussa normativa (art. 1, legge 140/2003, cd “lodo Schifano”) ha bloccato
la prosecuzione o l’avvio di processi penali contro le più alte cariche dello Stato (Capo dello Stato, salvo
che per i reati presidenziali, i Presidenti della Camera e del Senato e il Capo del Governo, salva
l’autorizzazione del Parlamento, e il Presidente della Corte costituzionale) per tutto il periodo del loro
mandato. La Corte costituzionale ha però dichiarato l’incostituzionalità di tale norma (sent. 24/2004).
Un’altra delicata questione riguarda il cd “conflitto di interessi”, disciplinato in molti ordinamenti
imponendo con diverse tecniche giuridiche la separazione tra titolarità e gestione del patrimonio del
Premier. In Italia vige attualmente la legge n. 215/2004 che attribuisce importanti funzioni di
regolazione e vigilanza all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
8.
Presidenza del consiglio
9.
Ministri
10.
Consiglio dei ministri
L’introduzione (con la legge 400/1988) e poi il rafforzamento (D.lgd 303/1999) di una struttura
organizzativa efficiente di cui dotare il Premier, ha contribuito a accelerare il processo di crescita del
ruolo del medesimo.
La Presidenza del consiglio dei ministri si incentra sulla figura del Segretariato generale, che lo
stesso Premier può modificare e adattare con propri decreti alle esigenze della politica governativa.
All’ufficio in questione è preposto un Segretario generale, cui è affidato un delicato e determinante
ruolo nella progettazione dell’azione direzionale della politica generale del Governo, che compete al
Presidente del consiglio.
Resta da accennare alla figura del vice-Presidente del consiglio, non necessaria costituzionalmente,
ma dettata da esigenze di dosaggio politico e di rilievo dell’immagine di figure di primo piano di partiti
coalizzati con il partito del Premier; il vice-Presidente è nominato, su proposta del Presidente, dal
Consiglio dei ministri, e a lui sono attribuite funzioni specifiche di supplenza del Premier.
Ciascun Ministro, la cui funzione può essere ricoperta da qualsiasi cittadino anche non
parlamentare, costituisce un distinto organo costituzionale, con funzioni e responsabilità sia politiche
che amministrative.
In particolare, ha potere di iniziativa legislativa, di controfirma degli atti del Presidente della
Repubblica; costituisce il vertice nella gerarchia amministrativa del proprio dicastero, cui imprime
l’indirizzo politico. Alcuni ministri, pur facendo a tutti gli effetti parte del Governo, non hanno la
responsabilità e la direzione di un ministero: si tratta dei cd ministri senza portafoglio.
Già potente in precedenza, il Ministro del Tesoro, dopo l’accorpamento con altri ministeri (Finanze,
Bilancio, Partecipazioni statali) è divenuto Ministro dell’Economia, e svolge un ruolo dominante nella
compagine governativa, accentuando una tendenza iniziata da tempo, e sempre più connessa con le
esigenze di freno e controllo della spesa pubblica.
I ministri sono responsabili oltre che degli atti propri, compiuti individualmente, degli atti del
Consiglio dei ministri che hanno contribuito a firmare e degli atti del Capo dello Stato che hanno
controfirmato. La responsabilità può essere politica e giuridica (civile e penale) e segue la stessa
configurazione della responsabilità del Premier.
Figure particolari sono i Sottosegretari di Stato, che cooperano con i ministri: la loro esistenza
soddisfa l’esigenza di dosaggio tra le varie correnti dei partiti di governo nell’esercizio del potere
politico.
Si tratta di un ulteriore organo costituzionale a carattere collegiale, che, insieme al Presidente e ai ministri
compone l’organo complesso Governo. Le funzioni di segretario del collegio sono svolte dal Segretario
generale della Presidenza del consiglio.
Il Consiglio dei ministri determina la politica generale del Governo e l’indirizzo generale dell’attività
amministrativa statale; ad esso, quindi, spetta la decisione definitiva su ogni questione attinente
all’attuazione dell’indirizzo politico stabilito dal programma e cristallizzato nel rapporto di fiducia con il
Parlamento.
Di conseguenza, spetta al Consiglio deliberare sui disegni di legge del Governo, sull’emanazione delle
fonti equiparate (decreti legge e decreti legislativi, sui rapporti tra Governo e Regioni, sulla soluzione delle
controversie e dei conflitti di attribuzione tra i Ministri, sull’annullamento straordinario degli atti amministrativi
illegittimi (art. 138 D.lgs. 287/2000), sulle nomine alle più alte cariche della dirigenza statale.
11.
Comitati interministeriali
12.
Politiche governative
13.
Strumenti
Si tratta di organi non necessari, istituiti con legge o decreti governativi e composti da ministri, con
funzioni di direzione politica, ma a volte anche esecutive, in settori determinati; questi organismi
collegiali, sempre presieduti dal Premier o suo delegato, hanno assunto in alcuni casi un rilievo vitale
nella determinazione dell’indirizzo politico, sovrapponendosi di fatto allo stesso Consiglio dei ministri.
La figura, tipica dell’esperienza costituzionale inglese, fu utilizzata in Italia già durante il Fascismo
(particolarmente rilevante il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio, CICR, istituito
negli anni trenta in occasione della riforma bancaria e ancora in funzione), ed ebbe un notevole
sviluppo negli anni del dopoguerra.
Vanno inoltre menzionati il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica)
con la funzione di snodo centrale della decisione governativa in materia di ripartizione della spesa
pubblica per lo sviluppo economico, e il CIIS (Comitato Interministeriale per le Informazioni e la
Sicurezza) che dirige le funzioni di intelligence del Governo, mediante rilevanti strutture tecniche,
consultive e di raccordo, cioè il CESIS, (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e di
Sicurezza, presieduto dal Premier ma composto di alti funzionari), e la sua Segreteria Generale, nonché
le strutture operative: SISMI, presieduto dal Ministro della difesa, e SISDE, presieduto dal Ministro
dell’interno.
Non è un comitato di ministri ma un organo collegiale di coordinamento e consulenza per le
determinazioni della politica militare è il Consiglio Supremo di Difesa (art. 87, Cost.) presieduto dal
Presidente della Repubblica (o dal Premier) e composto da ministri e dal Capo di Stato Maggiore della
Difesa.
Tra i principali settori dell’indirizzo politico vanno ricordati i seguenti.
La finanza pubblica, in cui lo snodo centrale di direzione e controllo è nel Ministro dell’economia,
comprendente le politiche fiscali e di spesa – svolte principalmente attraverso l’elaborazione del DPEF
(Documento di programmazione economico-finanziaria) e la predisposizione del bilancio dello Stato,
approvato dal Parlamento unitamente alla legge finanziaria, anch’essa di iniziativa governativa.
La politica estera (che si sostanzia principalmente nello svolgimento delle relazioni internazionali e
nella stipulazione dei Trattati) e la politica comunitaria (attraverso la partecipazione diretta del Governo
alle Istituzioni comunitarie)
La politica militare, secondo il disegno costituzionale (art. 78 e 87) dovrebbe vedere un ruolo
centrale del Parlamento nella decisione degli interventi, mentre, nella prassi, anche a causa della natura
del settore, è il Governo ad assumere l’iniziativa, sentito il Consiglio supremo di Difesa, in genere con
decreti legge, e il Parlamento interviene spesso a ratificare, a cose fatte, l’operato del Governo.
Per attuare l’indirizzo politico il Governo dispone di un’ampia serie di strumenti, descritti in altre
Lezioni e qui sinteticamente richiamati.
Vi è in primo luogo la direzione dell’amministrazione statale e dei ministeri, anche mediante atti
politici, insuscettibili cioè di impugnazione davanti a un giudice, i quali, per evidenti ragioni di garanzia,
sono da considerarsi a numero chiuso.
Occorre poi richiamare i poteri normativi diretti (atti aventi forza di legge e regolamenti), ed i poteri
di influenza sulla funzione legislativa del Parlamento, in particolare mediante condizionamenti alla
programmazione dei lavori parlamentari e l’intervento in varie fasi del procedimento legislativo
(iniziativa legislativa, posizione della questione di fiducia).
Le ultime legislature hanno visto intensificarsi notevolmente il ruolo del Governo nel controllo delle
norme e delle fonti dell’ordinamento giuridico (“Governo legislatore”), specie attraverso la prassi della
reiterazione continua di decreti legge, che la Corte costituzionale ha dovuto arginare e vietare (sent.
360/1996). Ciò malgrado, la tendenza non si è arrestata ma si è trasferita nella proliferazione dei decreti
legislativi e nel sempre più frequente ricorso alla fiducia, per condizionare senza alternative le decisioni
del Parlamento.
IX.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
1.
Sovranità e apparati
2.
Diritto amministrativo (1)
3.
Diritto amministrativo (2)
4.
Nozione giuridica di PA
Il funzionamento in concreto di sovranità e indirizzo politico può essere compreso se si considera che
ogni effetto giuridico dell’azione dei pubblici poteri è prodotto tramite apparati strumentali; le società del
novecento pullulano di strutture del tipo, che dispongono di forme giuridiche puntuali di potere (atti
amministrativi): comandi, divieti, permessi, regolazioni, atti di gestione finanziaria.
L’insieme degli apparati strumentali costituisce la Pubblica Amministrazione in senso soggettivo (PA); a
volte si utilizza lo stesso nome per designare il complesso delle attività svolte da tali strutture, si parla,
cioè di Pubblica Amministrazione in senso oggettivo, nel senso, cioè, di funzione o attività amministrativa.
Nello Stato liberale, il nucleo della PA risiedeva nei Ministeri; più recentemente, data la
frammentazione del potere in direzione di entità giuridiche diverse dallo Stato, si parla, al plurale, di
Pubbliche Amministrazioni. In ogni caso, si tratta di apparati serventi rispetto agli Enti che ne dispongono, e
dei quali debbono attuare la volontà, espressa tramite le fonti del diritto: ciò significa che le PA non
possono disporre dei fini della propria attività esecutiva, che sono rigidamente predeterminati
dall’ordinamento giuridico.
È costituito dall’insieme coordinato e scientificamente sistemato delle norme sulle Pubbliche
Amministrazioni, sui rapporti tra esse, e con i soggetti privati. Inizialmente era un diritto di derivazione
esclusivamente statale: oggi esso trae le sue fonti da una pluralità di livelli (statale, regionale, locale e
sovrastatale, in particolare comunitario); si tratta inoltre di un diritto speciale, derivante da una fitta
legislazione settoriale che si è sovrapposta alle codificazioni, le cui regole fanno eccezione ai principi del
diritto comune ai soggetti privati.
La specialità è garantita anche dal fatto che i conflitti inerenti le PA sono devoluti a una
giurisdizione speciale, inizialmente di derivazione governativa, cioè il giudice amministrativo (Consiglio
di Stato e TAR), diverso dal giudice ordinario (Tribunali, Corti di Appello, Corte di Cassazione) al quale
sono devolute in via di principio le cause tra privati.
Tuttavia, nei tempi recenti la specialità si è attenuata, venendo a crescere sempre più l’area dei casi in
cui alle PA si applica lo stesso diritto comune al quale sono sottoposti i soggetti privati, e venendo
sempre più parimenti a crescere la competenza del giudice ordinario in materia amministrativa, da un
lato, e gli strumenti giudiziali di tipo ordinario a disposizione del giudice amministrativo, dall’altro.
Si tratta di un punto di arrivo che può essere compreso ricordando che gli ordinamenti statali si
sono storicamente evoluti in due diverse direzioni: il sistema di civil law, o a diritto amministrativo, di
derivazione europea continentale, e il sistema di common law, di derivazione anglosassone, e che in tempi
più recenti hanno subito una ulteriore evoluzione, nel senso della circolazione dei modelli e della
convergenza dei sistemi, specie a causa della crescente influenza del diritto comunitario e
sovranazionale.
Anche una azienda privata, ad esempio la FIAT, dispone di una amministrazione, ma è ovvio che
essa non è pubblica.
In molti casi, come ad esempio una società mista tra un Comune e imprese, la qualificazione della
struttura come pubblica o privata è meno ovvia. Nel diritto interno, ad un criterio nominalistico (sono
pubbliche solo le amministrazioni dichiarate tali dalla legge), si sono aggiunte correzioni da parte della
giurisprudenza che, indipendentemente dalla qualificazione esplicita, hanno individuato diversi criteri
della “pubblicità” (esercizio di pubblici poteri; tutela di interessi generali; bilancio finanziato con risorse
pubbliche).
La questione ha avuto particolare rilievo nel diritto comunitario, ed è stata affrontata mediante
analoghi criteri teleologico/sostanziali dalla Corte di giustizia, costruendo per i casi dubbi la nozione di
“Organismo di diritto pubblico”, che deve avere i seguenti caratteri: personalità giuridica; fini di
interesse generale, esclusa ogni finalità industriale o commerciale; collegamento e subordinazione, sotto
il profilo organizzativo, funzionale o finanziario, con lo Stato, gli enti territoriali o altri organismi di
diritto pubblico.
5.
Principi costituzionali
6.
Struttura
7.
I Ministeri
Il disegno costituzionale formale della PA contiene alcuni principi di derivazione liberaldemocratica.
Vi è in primo luogo il principio di legalità e riserva di legge: le PA hanno poteri imperativi e
dispongono di risorse della collettività; la loro stessa esistenza e il loro comportamento deve essere in
ogni caso riconducibile a fonti del diritto (art. 97, 117 Cost.).
Le PA sono apparati serventi dello Stato o delle Autonomie locali (art. 95 Cost.), che debbono
seguire le regole del buon andamento e imparzialità (art. 97, c. 1, Cost.); conseguentemente la scelta delle
persone fisiche che le compongono (accesso al pubblico impiego) non può essere arbitraria, ma va
effettuata mediante pubblico concorso (art. 97, c. 3, Cost.), e i funzionari pubblici sono al servizio
esclusivo della Nazione (art. 98, Cost.)
A questi principi l’evoluzione della Costituzione materiale, nel quadro del contesto europeo e
sovranazionale ne ha aggiunto altri, in particolare una maggiore valorizzazione del principio
autonomistico e la subordinazione al diritto comunitario che impone i principi di ragionevolezza,
trasparenza, proporzionalità e la tutela dell’affidamento del cittadino. E, infine, la nuova Costituzione
finanziaria richiede il rispetto del principio di produttività, che si aggiunge a quelli di efficienza, efficacia,
economicità e di separazione tra amministrazione e politica.
All’articolazione originaria per Ministeri (amministrazione diretta) si è aggiunta nel corso del tempo
una quantità di figure e modelli organizzativi, in particolare mediante enti pubblici, che configurano
l’amministrazione indiretta, che significa in sostanza che lo Stato si avvale di un centro di imputazione
giuridica autonomo (Ente pubblico = persona giuridica pubblica) e separato dallo Stato.
Nel primo caso i rapporti interni tra i vari uffici e i vari livelli (amministrazione centrale / periferica)
sono prevalentemente organizzati sul modello della gerarchia, con competenza generale e poteri
imperativi ordinatori del superiore rispetto all’inferiore gerarchico; nel secondo caso si instaura un
rapporto di nomina, direzione, coordinamento e controllo, privo di poteri ordinatori, tra lo Stato (o un
suo organo, il Ministro) e l’Ente.
La modellistica statale si è in un certo senso replicata, in formato minore, nella strutturazione
organizzativa di Regioni ed Enti locali.
L’evoluzione più recente di alcuni settori (moneta, mercato, telecomunicazioni, tutela del
risparmio...), che per la loro natura richiedono decisioni tecniche e neutrali, più che politiche, ha portato
alla creazione di nuovi modelli, le Autorità indipendenti, la cui struttura e funzione amministrativa sono
staccate completamente dagli organi di vertice dell’amministrazione statale. che pertanto non hanno, nei
confronti delle prime né poteri di nomina, né poteri di ingerenza.
Richiamando quanto detto in lezioni precedenti, va qui specificato che le fonti organizzative dei
Ministeri sono individuate dalla l. 59/97, a scala, a) nella legge ordinaria (numero dei ministeri e principi
di organizzazione), b) nei regolamenti governativi di delegificazione (uffici dirigenziali generali, piante
organiche), c) nei decreti ministeriali (uffici dirigenziali non generali), d) in atti di organizzazione interna
(assunti dalla Dirigenza con i poteri del privato datore di lavoro).
La legge 300/1999 ha individuato due modelli organizzativi: a) per Dipartimenti; b) per Direzioni
generali.
Altre strutture sono le Aziende autonome (decentramento tecnico funzionale) con autonomia
organizzativa e di bilancio, e le Agenzie pubbliche, ad alta specializzazione tecnica.
I Ministeri sono fondati sulla separazione tra politica e amministrazione: l’esercizio di tutti i compiti
e le funzioni amministrative compete ai Dirigenti, la direzione politica al Ministro, che la esercita
attraverso direttive generali annuali in cui sono stabiliti gli obiettivi, le priorità e i budget dei singoli
apparati, in attuazione dei documenti di finanza pubblica e del bilancio dello Stato .
8.
9 L’organizzazione periferica
9.
Gli enti pubblici
10.
Il pubblico impiego
Storicamente, il perno dell’a. p. dello Stato è il Prefetto (di cui abbiamo detto anche in altre lezioni);
si tratta di organo a competenza generale,che oggi, nei capoluoghi regionali, sostituisce la soppressa
figura del Commissario del Governo nello svolgimento delle funzioni di rappresentante dello Stato per i
rapporti con il sistema delle autonomie.
In Italia, a differenza del modello francese in cui l’organo racchiude tutte le funzioni decentrate,
accanto alle Prefetture (divenute Uffici Territoriali del Governo, UTC) si sono avute parecchie strutture
specializzate, come ad esempio le Soprintendenze, e, nel settore scolastico, i Provveditorati, ora
soppressi e divenuti strutture integranti delle Direzioni regionali della Pubblica Istruzione.
Una più marcata devolution potrebbe condurre, come in parte è avvenuto in alcuni casi (agricoltura,
urbanistica ...), ad una più o meno completa regionalizzazione delle strutture periferiche specializzate
statali; per ragioni evidenti, il processo non riguarda le Prefetture.
Per alcuni rilevanti compiti, anche il Sindaco svolge il ruolo di organo decentrato (Ufficiale di
Governo); solo ed esclusivamente per tali funzioni (che attengono allo stato civile dei cittadini e alla
pubblica sicurezza) il Sindaco dipende gerarchicamente dal Prefetto e, attraverso questi, dal Governo.
Una critica ricorrente all’organizzazione dello Stato sociale è stata quella di aver fatto slittare la
gestione della spesa pubblica dai centri della democrazia rappresentativa verso una miriade di corpi
separati, tendenzialmente autonomi, individuabili nella fenomenologia giuridica degli enti pubblici
strumentali, i quali, attraverso la tecnica della personalità giuridica, interpongono uno schermo (che
diviene doppio nelle disciolte partecipazioni statali), tra Stato e mercato, che consente un’elevata
manovrabilità e autonomia di spesa.
Si tratta di un sistema tipicamente italiano, accusato variamente di sprechi, finanziamenti occulti e
collusione coi partiti; a parte questo, il sistema di amministrazione per enti ha costituito una forma
tipica con cui in Italia, fin dai tempi di Giolitti, si è gestito il krisismanagement per il salvataggio
dell’economia capitalistica.
Sebbene da tempo sia ricorrente la teoria della soppressione degli enti inutili, ed anche quella della
vendita di quelli “utili” per risanare la finanza pubblica, un processo effettivo di riordino e
privatizzazione è iniziato solo negli anni ’90, e procede estremamente a rilento (d.lgs. 415/1999).
Il sistema normativo che parte dal d.lgs. 29/93 e giunge al TU sul lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni (d.lgs. 165/2001) costituisce una riforma organica del pubblico impiego,
ispirata alla privatizzazione del rapporto, mediante l’applicazione anche ai pubblici dipendenti delle stesse
regole che valgono per i rapporti di lavoro privati.
Coerentemente, le controversie relative al pubblico impiego sono ora devolute alla giurisdizione
ordinaria del lavoro, mentre in passato appartenevano alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
Inoltre, viene superata la disciplina unilaterale da parte dell’amministrazione, in favore di un
rapporto contrattuale, e della contrattazione collettiva, tra i sindacati e l’Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni, ARAN. È sottratta alla privatizzazione, e rimane affidata alla legge
e ai regolamenti, ovvero agli atti organizzativi interni, tutta la disciplina dell’organizzazione degli uffici,
che resta attratta nell’orbita del diritto amministrativo.
Un altro elemento centrale riguarda la definizione dei compiti e delle responsabilità della dirigenza
amministrativa, articolata in due figure: i dirigenti generali, direttamente responsabili nei confronti del
Governo, soggetti al cd spoil system (art. 19, d.lgs. 165/2001), e i dirigenti, che accedono al posto per
concorso.
Il meccanismo giuridico di attivazione delle PA parte dalla legge, che individua un apparato cioè una
struttura amministrativa, incardina su di essa un interesse pubblico, e le affida una funzione
amministrativa, che legittima lo svolgimento da parte della PA di una attività amministrativa.
Il criterio di distribuzione delle funzioni tra le varie amministrazioni è quello della competenza
amministrativa, che si suddivide a) per materia (istruzione ... con possibili sub-ambiti: assistenza
scolastica, edilizia scolastica ... ); b) per territorio (Comuni, Prefetture ...); c) per grado di gerarchia (il
superiore gerarchico possiede tutte le competenze amministrative dei suoi subordinati).
11.
Funzione amministrativa.
12.
Procedimento amministrativo
13.
Atto e provvedimento
L’attività amministrativa si estrinseca mediante atti amministrativi o forme contrattuali, ed ha
carattere concreto (a differenza della creazione del diritto, che ha natura di astrazione e generalità), con fini
obbligati (mentre l’attività politica è libera nel fine); può essere vincolata, se la legge predetermina
dettagliatamente fini e mezzi, oppure discrezionale, se la PA deve scegliere, tra tutti i mezzi consentiti
dalla legge per conseguire il pubblico interesse, quello più ragionevole, efficace e proporzionato.
Discrezionalità amministrativa è tutt’altro che arbitrio, e incontra vari limiti, derivanti dalla
necessaria ponderazione tra l’interesse pubblico di cui la PA è portatrice con altri interessi (generali, di
altre amministrazioni, di privati); di conseguenza la soluzione perseguita nella decisione amministrativa
realizzerà un interesse pubblico concreto che deriva dall’equilibrio degli interessi coinvolti. La ponderazione,
che deve essere guidata dai principi di logica, imparzialità, proporzionalità e ragionevolezza, è una
componente essenziale del procedimento amministrativo.
Come per tutte le funzioni pubbliche, la procedimentalizzazione è una garanzia di limitazione,
condivisione, razionalità, legittimazione e controllo del potere che nella specie si esprime mediante
l’emanazione di un atto amministrativo.
Lo schema procedimentale si sviluppa in fasi, ciascuna corrispondente a uno stadio di garanzia.
L’iniziativa, che dà avvio al procedimento, è in particolare soggetta a obbligo di comunicazione ai
soggetti interessati, mentre nell’istruttoria la PA raccoglie ogni elemento utile a valutare e ponderare i
diversi interessi in gioco. La fase costitutiva (o di decisione) è quella in cui il titolare della funzione
amministrativa formula una volontà definitiva e stabilisce il contenuto dell’atto amministrativo. Vi è poi
una fase di integrazione dell’efficacia (composta da eventuali controlli e dalla necessaria comunicazione
dell’atto agli interessati) senza la quale l’attività amministrativa, se pure validamente posta in essere, non
produce effetti giuridici sui destinatari.
Il procedimento, nelle ultime versioni della l. 241/90, è costellato di regole di trasparenza e modelli
di coordinamento e semplificazione; la PA ha una serie di obblighi: individuare un responsabile del
procedimento, procedere e concludere entro un termine fissato, ponderare gli interessi attraverso
appositi strumenti (conferenze di servizi), motivare le decisioni anche in rapporto all’istruttoria svolta;
esistono inoltre vari diritti e facoltà degli interessati (intervento in ogni fase, accesso agli atti,
conclusione di accordi sostitutivi del provvedimento).
Vanno in primo luogo distinti gli atti meramente strumentali al procedimento con rilevanza solo
interna (pareri, certificazioni ...) dagli atti decisionali, dotati di efficacia esterna, cioè i provvedimenti
amministrativi, con i quali la PA modifica autoritativamente, dilatandole o restringendole, le situazioni
giuridiche soggettive dei privati o di altre amministrazioni.
Requisito fondamentale del provvedimento è quello della sua legittimità, senza il quale esso può
essere dichiarato nullo o inesistente, o essere annullato dal giudice amministrativo (GA) oppure
disapplicato dall’autorità giurisdizionale ordinaria (AGO). In tutti i casi l’amministrazione è responsabile
per ogni danno arrecato ai diritti e agli interessi dei destinatari dell’atto illegittimo.
In particolare, il provvedimento è nullo quando manca di un elemento essenziale (ad esempio
quando è viziato da incompetenza assoluta, ad esempio un atto di competenza ministeriale emanato
dalla Regione), mentre è annullabile se, pur completo, è affetto da vizi di legittimità: si tratta
dell’incompetenza relativa (ad esempio un atto di competenza dirigenziale emanato dal Sindaco), della
violazione di legge (ad esempio il mancato rispetto di procedure essenziali) e dell’eccesso di potere
(quando è viziata la discrezionalità amministrativa).
14.
Attività contrattuale
15.
Servizi pubblici
16.
Modernizzazione amministrativa
Il provvedimento amministrativo, sebbene come il contratto di diritto privato sia un meccanismo di
regolamentazione di interessi, se ne distingue per la sua unilateralità e la sua imperatività (autoritatività),
mentre il contratto implica la parità giuridica formale tra le parti; l’evoluzione del diritto amministrativo
ha portato le due figure a divenire forme fungibili di attuazione dell’interesse pubblico; come statuisce
ora il nuovo testo della l. 241/90 (mod. dalla l. 15/2005) la PA ha capacità contrattuale “generale”, e
può curare gli interessi pubblici tanto con strumenti di diritto pubblico quanto con strumenti di diritto
privato, salvo diversa disposizione di legge.
Ovviamente, la scelta dello strumento privatistico, che deve comunque essere preceduta da una
determinazione amministrativa che autorizza la PA a contrattare, deve comunque rispondere ai generali
criteri di buon andamento, imparzialità, ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa, e
soprattutto, quando si tratta di appalti pubblici rilevanti per il diritto comunitario, applicarne le regole di
evidenza pubblica (gara d’appalto aperta a tutti i cittadini UE e procedure trasparenti).
I servizi pubblici sono attività materiali, e non esercizio di funzioni pubbliche autoritative, mediante
le quali la PA eroga prestazioni di varia natura ai cittadini; per capire meglio si pensi alla differenza che
passa tra una sanzione amministrativa elevata da un vigile urbano, e l’assistenza domiciliare agli anziani
svolta dal Comune.
In passato la maggioranza dei servizi pubblici era svolta in posizione di monopolio statale o
municipale, e costituiva la forma tipica di svolgimento delle funzioni di welfare e di interventismo
pubblico dello Stato sociale. Crisi della finanza pubblica, globalizzazione e diritto comunitario hanno da
tempo aperto i servizi pubblici al mercato, mediante forme di completa dismissione statale
(privatizzazione) e liberalizzazione oppure mediante sistemi misti pubblico/privato, anch’essi soggetti
alle regole europee.
In particolare nel caso di servizi a rilevanza industriale, cioè imprenditoriale (servizio idrico,
trasporti pubblici ...) la regola generale è l’affidamento in concessione a imprese private mediante gara
europea; per le altre categorie di servizi (ad esempio, a carattere sociale o culturale) le PA (in genere gli
Enti locali) possono affidare in via diretta (in house) il servizio a società miste a prevalente partecipazione
pubblica, o ad aziende municipalizzate, oppure creare appositi Enti pubblici (istituzioni)
Le pubbliche amministrazioni del terzo millennio sono soggette a un incessante cambiamento,
dovuto al mutamento della Costituzione economica materiale (v.).
Lo Stato amministrativo del periodo interventista aveva moltiplicato all’infinito la sua struttura e le
sue regolazioni, creando un vero regulatory burden per le imprese, i cui costi di transazione erano però
compensati da sistemi di incentivo e sovvenzioni a pioggia.
La crisi fiscale, invece, collegando la finanza pubblica alla ricchezza del territorio (PIL), impone la
produttività delle imprese e regole severe per le PA, eliminazione degli sprechi, riduzione dei costi,
privatizzazioni o soppressione di intere amministrazioni.
Ciò provoca un immenso processo di deregulation, semplificazione accelerazione delle procedure,
eliminazione di procedimenti di assenso, sostituiti da dichiarazioni di inizio di attività e così via.
Ma è la stessa amministrazione che deve oggi essere produttiva, altrimenti il suo costo per la
collettività non sarà compensato da un positivo effetto dell’amministrazione sulla crescita economica.
Questo spiega la ragione di federalismo e riforme, e del passaggio da una amministrazione per atti ad
una amministrazione per servizi e risultati. Servizi, ovviamente, di qualità, che non basta dichiarare per
averla davvero: non a caso da qualche tempo diverse PA hanno iniziato a certificarsi, da sole o, nei casi
virtuosi, ricorrendo ai sistemi di enti internazionali di normalizzazione, come ISO (International
Organization for Standardization) o la stessa Unione Europea.
LE AUTONOMIE TERRITORIALI
X.
1.
Fase postliberale
2.
Il modello
3.
La Costituzione repubblicana
Con il declino dello Stato liberale e la transizione verso lo Stato interventista, il Comune e la
Provincia si avviano a un nuovo rapporto con la società e con l’economia. L’età giolittiana, in due
passaggi tra il 1903 e il 1915, porta il sistema elettorale dei Comuni ad un suffragio (maschile)
praticamente universale; allo stesso tempo, si introduce la possibilità di municipalizzazione, cioè di
gestione comunale, di alcuni servizi essenziali, e dall’altro si allarga la sfera di bilancio del Comune, fino
ad allora rigorosamente dettato dalla legge, aggiungendo alle spese obbligatorie quelle “facoltative”. Il
Comune diventa così un terminale ulteriore dell’esigenza di colmare la crisi strutturale che attanaglia
l’economia liberale.
Ciò malgrado, la piramide del potere non cambia di una virgola, la tutela prefettizia rimane costante,
il controllo del “centro” sulle “periferie” dello Stato amministrativo resta sempre monolitico e totale.
Si tratta di un modello fortemente accentrato, di cui ancora oggi le Autonomie del terzo millennio
subiscono alcuni esiti. Costruito intorno all’esigenza assoluta di uniformità amministrativa, l’ordinamento
dei poteri locali presenta una caratteristica generale di indifferenziazione e tipizzazione.
Il principio di legalità, la supremazia della legge del Parlamento, funziona nel senso di costruire una
scatola, un figurino. Organi (Sindaco, Giunta, Consiglio), un bilancio, un apparato amministrativo, un
complesso tipizzato di funzioni, non proprie, ma “concesse” dalla legge (competenze di attribuzione); si
tratta di un vestito sempre uguale, chiunque ne sia l’indossatore: un Comune industriale di centomila
abitanti, o un micro “Comune polvere” di poche centinaia di anime; un ricco Comune rivierasco, o un
centro di alta montagna in condizioni drammatiche.
La tipizzazione serve al controllo, anzi è essa stessa una sottile ed efficientissima arma di controllo,
che si somma al potere della borsa, alla riduzione a briciole delle imposte dei Comuni la cui finanza è
totalmente “derivata” dai trasferimenti, sempre vincolati, del Governo centrale.
Al Fascismo fu sufficiente qualche ritocco della legislazione preesistente, che fu integralmente
recepita nel T.U. della legge comunale e provinciale del 1934: fu abolito il sistema elettivo per la
formazione degli organi comunali e le funzioni furono riunificate in un organo monocratico di nomina
governativa, il podestà
Solo in apparenza la Costituzione del 1948 sembra compiere un svolta, affermando nell’art. 5 i
principi di pluralismo, autonomia e decentramento.
Ma è solo una illusione. Già nella stessa norma fa capolino il principio che la Repubblica è “una e
indivisibile”; inoltre, in tutta la Costituzione i Comuni sono citati pochissime volte, e solo per vedersi
coprire di limiti e controlli (art. 128/130), mentre compare un nuovo idolo, la Regione (art. 117 e ss.),
che fa incetta di competenze e poteri, compreso quello che i Comuni non avevano mai osato neppure
sperare, cioè il potere legislativo, ancorché “concorrente”, cioè di tono minore e in fondo anch’esso
subordinato alla legge dello Stato.
Se poi a questo si aggiunge che le Regioni stesse resteranno un miraggio fino al 1972, e zombi
viventi e gigantografie dei Comuni fino agli anni novanta, sommando il proprio esasperato controllo a
quello statale sui Comuni e Province, si può tranquillamente concludere che il “figurino” liberale di
autonomia locale ha imperato sovrano per più di cento anni, senza soluzione di continuità
4.
Millennium Transition
Solo quando la crisi dello Stato interventista ne corrode anche le geometriche strutture di controllo,
parallelamente agli effetti di globalizzazione e sovranazionalità, il modello liberale inizia ad andare in
frantumi.
Il condizionamento della finanza pubblica come effetto delle regole di Maastricht e del patto di
stabilità, mette in moto processi di devitalizzazione del controllo statale.
Gli Enti locali e le Regioni sono chiamati sempre più a nuove responsabilità, rischi e sfide.
La Pubblica amministrazione deve diventare produttiva, e ridurre i costi mediante la pianificazione
di bilancio; la deregulation genera competizione sempre maggiore tra i territori, le cui diversità
divengono sempre più visibili, e richiede il miglioramento della qualità dei servizi e la semplificazione
amministrativa, per ridurre le tensioni sulle economie locali.
Una nuova costituzione materiale dei Poteri Infrastatali avvia, sul finire del millennio, un intenso
processo federalista, dapprima politico, poi amministrativo e fiscale, e infine costituzionale, con riforma
del Titolo V e devolution.
5.
Le riforme
6.
La Regione
7.
Il federalismo “statutario”
I primi tentativi furono più ideologici che effettivi, come la stagione di decentramento degli anni ’70
(l. 382/1975 e DPR 616/1977); la teorizzazione in dottrina di un inesistente Stato sociale delle Autonomie,
con il principio di generalizzazione delle funzioni amministrative locali, fu smentito nei fatti dal
successivo “centralismo di ritorno” realizzato negli anni ottanta a colpi di leggi finanziarie e sentenze
della Corte costituzionale.
È solo nei ’90, in coincidenza con la stagione di “Mani pulite” e di Maastricht che il destino dei
Poteri locali viene lentamente cambiato con una raffica di leggi, le quali disegnano nuove strutture del
governo locale e iniziano a separare la politica dalla amministrazione (142/90; 81/93; 415/93), un
nuovo procedimento amministrativo (241/90), un sistema contabile per programmi e risultati (d.lgs.
77/95).
Mentre le leggi “Bassanini” (59/97 e successive) introducono federalismo amministrativo e
deregulation, il sistema del controllo soffocante declina e appaiono nuovi controlli orientati al risultato,
alla gestione, alla funzionalità (d.lgs 286/99), un Testo unico (d.lgs 267/2000) taglia definitivamente con
il passato, abrogando esplicitamente il TU del 1934, e due leggi costituzionali (1/99 e 3/2001)
espiantano il modello liberale dalla Costituzione repubblicana.
Nelle successive slides sarà sinteticamente configurato il sistema che scaturisce da queste riforme,
partendo dalle Regioni.
Fino ai ’90 forma di governo assembleare e sistema elettorale proporzionale avevano caratterizzato
le Regioni con una serie di connotazioni deboli, quali la mancanza di un centro unico di responsabilità
politica e una forte confusione di ruoli (Giunta-Consiglio e maggioranza-opposizione).
Ne usciva l’immagine di un “non governo” regionale, di una Regione “amministrativa” dipendente
da Roma e dai partiti nazionali, con un modello organizzativo spartitorio che lasciava ampi spazi per
sottogoverno e corruzione.
Un primo cambiamento si ebbe con la l. 43/1995 (cd “Tatarellum”) che introdusse
- una formula elettorale mista con indicazione del Presidente nella scheda (democrazia “immediata”)
e premio di maggioranza mediante il cosiddetto “listino” (sono eletti automaticamente “tutti gli uomini
del Presidente”);
- un meccanismo di stabilità: in caso di sfiducia consiliare al Presidente si scioglie anche il Consiglio
e si torna alle urne
- una garanzia per la minoranza, il cui candidato Presidente diventa automaticamente Consigliere.
La riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione completa il modello introducendo un
Federalismo statutario: lo Statuto non è più approvato dallo Stato, la Regione si appropria del potere di
decidere la propria forma politica, elettorale e di governo, la propria organizzazione interna, le forme di
partecipazione, i procedimenti normativi.
La sua approvazione richiede una procedura aggravata (maggioranza assoluta dei componenti per
due deliberazioni a distanza di due mesi), il Governo non ha alcun controllo sullo Statuto, ma può solo
impugnarlo davanti alla Corte costituzionale.
È inoltre previsto un referendum sospensivo, su richiesta di almeno un cinquantesimo degli elettori
o di un quinto dei componenti il Consiglio regionale. In tal caso lo Statuto non é promulgato se non é
approvato dalla maggioranza dei voti validi.
La l. c. 1/99 specifica inoltre che fino all’approvazione dei nuovi statuti permane il regime del
“Tatarellum”. Le Regioni potranno scegliere un diverso sistema elettorale, ma solo nel nuovo statuto, e
coerentemente alla forma di governo ivi prevista.
8.
Il Governo regionale
9.
Sussidiarietà e Devolution
10.
La competenza legislativa
La nuova Costituzione prevede un modello generale di espansione del ruolo del Presidente nella
determinazione dell’indirizzo politico, giustificata dalla derivazione popolare (tanto che nel linguaggio
comune si usa spesso il termine “Governatore”), attraverso la direzione della Giunta e la responsabilità
politica relativa, e i poteri di nomina e revoca dei componenti (che possono anche essere esterni, cioè
non consiglieri).
Aumenta la stabilità del governo regionale, essendo previsto un meccanismo di sfiducia “distruttiva”
anti-ribaltoni: con l’approvazione di una mozione «motivata» di sfiducia presentata da almeno un quinto
dei consiglieri si hanno automaticamente dimissioni della Giunta e scioglimento del Consiglio, e si torna
al voto.
Il Presidente può essere rimosso solo, in casi gravissimi, e con il parere della Commissione
bicamerale, mediante un motivato decreto del Capo dello Stato.
Cambia anche la configurazione dei poteri del Consiglio, che ha funzioni legislative e di indirizzo e
controllo politico, ma non ha più funzioni amministrative; in tal modo, diventa più netta la divisione dei
poteri e delle responsabilità tra Presidente e Consiglio, tra maggioranza e opposizione.
Le regole suddette sono solo suggerite dalla Costituzione, perché le Regioni potranno scegliere una
diversa forma di governo nel nuovo Statuto.
Fino alla l.c. 3/2001 l’ancien régime del sistema costituzionale di ripartizione delle funzioni era
rigorosamente centralista, mediante il principio della supremazia della legge statale e il criterio della
“residualità”: le competenze regionali sono enumerate tassativamente, tutto il resto è competenza
esclusiva statale.
Nel nuovo Titolo V compare il principio della sussidiarietà, che impone che tutte le funzioni
pubbliche siano esercitate al livello più vicino ai cittadini, e, solo quando questo non è possibile per
ragioni di unitarietà, dal livello superiore.
Di conseguenza la residualità è invertita: sono enumerate le competenze legislative esclusive dello
Stato, e quelle ripartite tra Stato e Regione; tutte le altre appartengono in via di principio alle Regioni.
Ancora più marcata è l’innovazione nella ripartizione delle funzioni amministrative, devolute in via
generale ai Comuni. Lo Stato amministrativo liberale scompare definitivamente dalla Costituzione.
Il testo della legge costituzionale di riforma della Parte II della Costituzione e la cd devolution,
definitivamente approvata nel dicembre 2005 e attualmente in stasi in attesa della richiesta di
referendum, se approvata introdurrà alcuni ritocchi in senso federalista e trasferirà alle Regioni nuovi
poteri esclusivi in materia di polizia locale, sanità e pubblica istruzione (organizzazione, e quota di
programmazione didattica).
In base al nuovo art. 117 Cost., Lo Stato mantiene comunque la sovranità (che in gran parte deve
condividere con Unione europea e poteri sovranazionali) e dunque la competenza esclusiva in tutte le
aree nevralgiche dell’indirizzo politico (estero, sicurezza e difesa, mercato, moneta, finanza, ambiente ...
), gran parte delle quali hanno valenza trasversale (come ad esempio il principio non scritto ma
legittimato dalla Corte costituzionale di “unità economica della Repubblica), andando così di fatto a
limitare anche le competenze “esclusive” della Regione, mentre dovrebbero essere di stretta
interpretazione.
Nelle materie di competenza concorrente (esageratamente numerose, tra cui: rapporti internazionali
e con l'Unione europea delle Regioni; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle
istituzioni scolastiche professioni; ricerca scientifica; tutela della salute ...) la legge regionale incontra il
limite dei principi generali posti dalla legge statale.
Riesce pertanto arduo selezionare le materie residuali, che competono in esclusiva alle Regioni (tra
queste sicuramente: ordinamento e organizzazione regionale, formazione professionale, acque minerali
e termali, agricoltura, artigianato, assistenza scolastica, politiche regionali dell'occupazione ...).
È invece prevista una potestà regolamentare regionale a carattere generale, salvo nelle materie di
competenza esclusiva dello Stato, che tuttavia può delegarla alle Regioni.
Occorre infine ricordare che il controllo governativo sulla legge regionale è ora sostituito dalla
potestà del Governo di impugnare la medesima davanti alla Corte costituzionale.
11.
Amministrazione e finanza
12.
Rapporti verticali
Data, in virtù del principio di sussidiarietà, la competenza generale dei Comuni e l’abolizione dei
controlli preventivi di legittimità sui medesimi, la Regione può tentare ritagli a suo favore con leggi
specifiche, soggette ovviamente al controllo di costituzionalità, solo quando il livello regionale o
provinciale sia più adeguato ed efficace.
Inoltre la Regione (ma anche lo Stato) dispongono di poteri sostitutivi in caso di grave inerzia
dell’ente locale nell’esercizio delle funzioni amministrative.
Sono cambiate anche le regole della finanza regionale e locale a vantaggio dell’autonomia
finanziaria, che il nuovo art. 119 attribuisce a tutti i Poteri substatali. Attraverso la finanza ordinaria, che
deve comunque essere gestita in armonia con la Costituzione e con i principi generali della finanza
pubblica, tali Poteri dispongono di autonomia di spesa e di entrata, che comprende tributi ed entrate
propri.
Inoltre, viene affermato il principio di territorialità dell’imposta, che legittima il federalismo fiscale; è
tuttavia previsto un fondo perequativo, di compensazione di squilibri regionale, e a vantaggio delle
regioni con minore capacità fiscale per abitante.
Infine, sempre per ragioni di riequilibrio della coesione socioeconomica, lo Stato, attraverso la
finanza straordinaria, può attribuire a zone determinate risorse aggiuntive, specie al fine di elevare ai
minimi di legge gli standard delle prestazioni e dei diritti sociali.
Cambia anche la rete dei rapporti tra i diversi livelli territoriali.
Lo Stato perde la funzione esclusiva di indirizzo e coordinamento di Regioni ed enti locali, la quale
va ora esercitata mediante organi misti (le Conferenze permanenti). È consolidata la Commissione
bicamerale per le questioni regionali, cui possono partecipare anche rappresentanti dei Poteri locali
interessati, mentre il Commissario del governo, non esistendo più il controllo sugli atti, è sostituito dal
Prefetto del Capoluogo regionale, che assume la funzione di Rappresentante dello Stato per i rapporti
con le autonomie.
Analogamente, cambia il rapporto con gli Enti locali, perché le politiche regionali incidenti su essi
debbono ora passare per un Consiglio delle autonomie, istituito presso le Regioni.
Infine, viene ampliato il ruolo regionale e locale nei confronti del diritto e delle politiche europee,
che esplicitamente la Costituzione riconosce ora come limiti di tutte le funzioni pubbliche, anche
attraverso rapporti diretti con Bruxelles (fase ascendente) e applicazione diretta del diritto comunitario
(fase discendente). Viene inoltre riconosciuto un limitato potere estero delle regioni, relativo sia alla
esecuzione di obblighi internazionali, sia alla possibilità di stipulare accordi con Stati e poteri substatali
esteri.
13.
Enti locali / Modello organizzativo
14.
Autonomia e funzioni
Va premesso che, oltre a Comuni e Province, cui ci si riferisce in questa sede, sono Enti locali le
Comunità montane, le Unioni di Comuni, le Città metropolitane, le Comunità isolane.
L’indirizzo generale e il controllo politico appartengono al Consiglio, organo elettivo (formula
maggioritaria) cui competono la funzione statutaria e quella regolamentare, che hanno ora come limite
solo la legislazione statale di principio.
Il coordinamento e la direzione politica dell’Ente competono al Presidente della Provincia (e,
rispettivamente, al Sindaco) di derivazione popolare diretta, che hanno anche i poteri generali di nomina
(Assessori, Dirigenti amministrativi, rappresentanti presso vari organi ed enti).
La Giunta è composta da Assessori, nominati e revocati dal Presidente (o dal Sindaco) e svolge
funzioni di governo collegiale e di alta amministrazione.
La separazione tra politica e amministrazione è realizzata mediante una struttura amministrativa
complessa (provinciale / comunale), ai cui vertici sono posti i Dirigenti, coordinati negli enti di
maggiori dimensioni da un Dirigente generale (o City Manager), cui è affidata la direzione
amministrativa, nonché l’emanazione di provvedimenti amministrativi e la gestione, che esercitano
avvalendosi di uffici e servizi.
Dal confronto tra Testo unico degli enti locali (d.lgs. 267/2000) e nuova Costituzione emerge un
nuovo modello di Ente locale fondato sull’autonomia e sulla autoregolazione, cioè su un diritto locale,
configurato attraverso le fonti (Statuto, Regolamenti), assistito da un relativo potere di bilancio
(autonomia finanziaria), ed esercitato mediante una azione amministrativa soggetta solo al controllo
interno di funzionalità e a quello giurisdizionale, e non più ai soffocanti controlli del modello
precedente.
In questo contesto, alla Provincia, cui competono funzioni esclusive in materia di ordinamento
interno e personale, sono in genere attribuite funzioni di snodo nella programmazione (specie in
materie quali Difesa del suolo, Ambiente, Prevenzione, Energia, Trasporti, Pianificazione urbanistica,
valorizzazione dei Beni culturali) e di erogazione di servizi (sociosanitari, scolastici, informativi e
statistici).
Ai Comuni, come si è visto, è attribuita la competenza generale in tutte le funzioni amministrative
(cd municipalismo di esecuzione), così che qualsiasi attribuzione di funzioni amministrative ai livelli più alti
deve considerarsi come una eccezione, cha va seriamente motivata..
XI.
1.
CORTE COSTITUZIONALE
Ragioni
Nell’Italia liberale l’idea di un sindacato costituzionale delle leggi si scontrò con il principio di
flessibilità dello Statuto albertino: se la costituzione è flessibile, se le leggi possono cambiarla, come può
immaginarsi un contrasto? e a chi spetterebbe comunque il controllo? In realtà solo l’esistenza di
contropoteri può porre limiti alle decisioni degli organi di indirizzo politico-legislativo. Sotto questo
profilo, l’idea del Re come “custode della costituzione” si mostrò ridicola, mentre gli unici possibili
contropoteri, i giudici, hanno in genere preferito giocare più sull’interpretazione della legge, che sul
sindacato di legittimità costituzionale.
La transizione dalle costituzioni liberali a quelle democratico-sociali ha accentuato e razionalizzato la
gerarchia delle fonti incardinando in procedure e organi autonomi il controllo sulla legge e la difesa
delle regole del gioco volute dalla Costituzione, nel quadro dell’affermazione del principio di rigidità,
intesa come supremazia giuridica e politica delle regole costituzionali rispetto a tutte le altre fonti del
diritto. Una situazione del genere implica un transfert della sovranità dal Potere legislativo verso l’organo
di controllo, che dev’essere indipendente e dotato di strumenti efficaci, attraverso i quali imporre al
Potere legislativo le sue decisioni.
I meccanismi di controllo della costituzionalità nell’esperienza comparatistica sono molteplici: il
controllo può essere interno, cioè realizzato nell’ambito delle stesse strutture di indirizzo politico attivo,
oppure esterno, affidato a poteri diversi e separati dagli organi politici. Nell’ambito di questa seconda
categoria si può distinguere il sistema accentrato, in cui è istituito un organo apposito al quale è affidato il
controllo, dal sistema diffuso, tipico dell’ordinamento americano, nel quale il sindacato di costituzionalità
della legge (judicial review) è esercitato dal giudice comune, caso per caso, mediante disapplicazione delle
leggi ritenute costituzionalmente illegittime.
2.
Modello
I modelli europei continentali sono in genere passati da formule di autocontrollo delle stesse
assemblee legislative al controllo esterno, con varietà di soluzioni; tuttavia, viene generalmente rifiutata
la giurisdizione diffusa di costituzionalità (fatta eccezione per il caso, isolato, irlandese) motivando con la
necessità di non concentrare in un unico organo sia la funzione di controllo sulla legge che quella di
applicazione giudiziale della legge.
Di fatto, nei sistemi europei la comparsa delle magistrature costituzionali ha contribuito a
depotenziare il ruolo dei parlamenti.
La Costituzione italiana del 1948 scelse il sistema di controllo esterno accentrato, con l’istituzione di
una Corte costituzionale separata dagli altri organi politici la cui indipendenza è garantita dalla sua
composizione articolata, dalla particolare professionalità dei membri, da immunità, inamovibilità e non
rieleggibilità dei giudici, dalla inimpugnabilità delle decisioni della Corte.
La struttura e la funzione della Corte costituzionale italiana sono descritte negli articoli 134 e
seguenti della costituzione, ai quali debbono aggiungersi le leggi costituzionali e ordinarie e i
regolamenti adottati dalla Corte stessa, che ne hanno dato progressiva attuazione.
3.
Estensione
Il controllo della Corte si estende sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge dello stato e delle
regioni, escluse dunque le fonti secondarie e regolamentari e comprese le leggi costituzionali e di
revisione della costituzione: malgrado quest’ultima affermazione sembri essere una contraddizione in
termini (come può violare la costituzione una categoria di leggi, alla quale la costituzione stessa
attribuisce nell’articolo 138 la forza di modificare le sue norme), il valore della questione diviene chiaro
se si accetta la distinzione tra fonti costituzionali e fonti supreme (v. Lez. 2).
Sono escluse dalla competenza della Corte, per sua esplicita statuizione, le fonti del diritto
comunitario; solo nel caso in cui gli eventuali contrasti tra queste e il nucleo di principi di struttura della
Costituzione italiana non riuscissero in futuro a trovare soluzione nelle garanzie dello stesso
ordinamento comunitario, mediante l’intervento della Corte di giustizia della Comunità europea; la
Corte costituzionale si riserva di intervenire. Ma la prospettiva è, allo stato attuale, solo teorica.
4.
Composizione
Nella sua forma ordinaria la Corte si compone di 15 giudici, nominati per un terzo dal Presidente
della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per il restante terzo dalle supreme
magistrature ordinarie e amministrative (art. 135 Cost.). I giudici, a maggioranza assoluta, eleggono un
Presidente, con importanti funzioni di impulso e coordinamento.
La durata in carica dei giudici ordinari della Corte è di 9 anni a decorrere dal giuramento; essi non
possono essere rinominati.
In composizione ordinaria la Corte funziona con un quorum strutturale (numero minimo dei
presenti per la validità della riunione) di almeno undici giudici; il quorum funzionale (cioè il criterio di
votazione) è quello della maggioranza dei votanti, prevalendo in caso di parità il voto del Presidente. Le
procedure interne non sono rese note, a differenza di altri ordinamenti che prevedono la
pubblicizzazione del dissent, cioè delle opinioni minoritarie dissenzienti rispetto alla decisione.
Nella composizione allargata, prevista per i giudizi sulle accuse al Capo dello Stato di cui si è già
detto, i componenti sono trentuno, in quanto la composizione ordinaria viene integrata con l’aggiunta
di sedici giudici aggregati, eletti dal Parlamento. in tal caso il quorum strutturale è di almeno ventuno
giudici, tra i quali comunque i giudici aggregati devono essere la maggioranza. Il criterio di voto è
costituito sempre dalla maggioranza dei votanti ma questa volta in caso di parità di voti prevale
l’opinione più favorevole all’accusato.
5.
Le funzioni
La Corte è un giudice e pertanto i suoi atti (sentenze e ordinanze) hanno natura tipicamente
giurisdizionale, con un carattere peculiare: non sono appellabili, né riformabili da parte di nessun, né
comunque soggette a controllo di altri poteri o altri giudici, compresa la Corte di Cassazione.
Come avviene in genere per ogni giudice, la Corte non ha una diretta iniziativa rispetto alle sue
competenze, nel senso che il suo intervento può essere attivato solo da altri soggetti (ad esempio un
altro giudice, un organo dello stato, una regione); essa, tuttavia, nel corso di un giudizio di
costituzionalità su una norma, può sollevare davanti a sé stessa, in quanto giudice, un ulteriore giudizio
incidentale (v. infra). Inoltre essa non può decidere su questioni diverse e ulteriori da quelle che le sono
state sottoposte, cioè vi deve essere la c.d. corrispondenza tra chiesto e pronunciato; tuttavia la
inappellabilità impedisce controlli sulla corretta applicazione di questo limite.
Le funzioni della Corte costituzionale sono di quattro tipi;
a) giudizi sulla costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni,
mediante ricorso incidentale oppure ricorso diretto;
b) giudizi sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni;
c) giudizi sulle accuse promosse dal Parlamento contro il Presidente della Repubblica per alto
tradimento o attentato alla Costituzione;
d) giudizi sulla ammissibilità del referendum abrogativo.
6.
Il giudizio in via incidentale (1)
La scelta del sistema accentrato di costituzionalità non si addice all’accesso diretto alla Corte da
parte di tutti i cittadini. Occorre, per evitare ingorghi e depotenziamento dell’organo, un filtro. Pertanto,
la regola generale è che alla Corte pervengono solo le questioni di costituzionalità poste da un giudice
sulle leggi che questo deve applicare nel corso di un giudizio (questione incidentale).
Per questa ragione si parla di giudice (e giudizio) “a quo” (formula latina che significa “dal quale” è
sollevata la questione).
Nel corso del giudizio a quo, la questione è sollevata dalle parti, o dallo stesso giudice, il quale,
tuttavia, prima di attivare il procedimento davanti alla Corte, deve esprimersi sulla rilevanza (cioè della
effettiva utilità della questione per la decisione del processo), e sulla non manifesta infondatezza (cioè sulla
esistenza di un ragionevole dubbio di costituzionalità della legge impugnata). Se tali requisiti esistono, il
giudice a quo può, con ordinanza e non con sentenza, respingere l’eccezione e continuare il processo,
oppure accoglierla, sospendere il giudizio e rinviare gli atti alla Corte costituzionale.
7.
Il giudizio in via incidentale (2)
L’ordinanza del giudice a quo apre il processo, completamente autonomo dal giudizio a quo, davanti
alla Corte costituzionale. Le parti (sia quelle del giudizio a quo, sia il Governo) possono costituirsi o
meno: il giudizio costituzionale procede in ogni caso.
Sulla questione la Corte decide in via definitiva con sentenza; può anche decidere con ordinanza, nei
casi di manifesta inammissibilità del ricorso, di manifesta infondatezza, o quando restituisce gli atti al
giudice a quo per un riesame.
In base all’art. 136 Cost. le sentenze possono essere di accoglimento e di rigetto. Nel primo caso la
Corte dichiara l’incostituzionalità della legge, che perde con effetto retroattivo sul processo a quo e su
tutti gli altri giudizi non ancora passati in giudicato (v. Lez. 11) dopo la pubblicazione della sentenza
sulla Gazzetta Ufficiale. Nel secondo caso, la Corte dichiara l’irrilevanza o la manifesta infondatezza
della questione, e rimette gli atti al giudice a quo, che deve applicare la legge impugnata, senza poter
sollevare nuovamente la questione nel corso del medesimo processo. La stessa questione, tuttavia, può
legittimamente essere sollevata, anche con altre motivazioni, da qualsiasi altro giudice
8.
Sentenze manipolative
Nella prassi, la Corte ha esteso e raffinato i suoi strumenti processuali, creando una vasta tipologia
di decisioni (cd “sentenze manipolative”), che consentono maggiore equilibrio ed effettività del suo
giudizio. Si tratta delle sentenze interpretative (di rigetto o accoglimento), di accoglimento parziale,
additive, sostitutive.
In particolare, mediante le sentenze interpretative la Corte non accoglie l’interpretazione data dal
giudice a quo della norma in contrasto con il dettato costituzionale, bensì ne da una diversa e si
pronuncia prendendo a riferimento questa propria nuova interpretazione e non quella originariamente
proposta.
Nelle sentenze di accoglimento parziale la Corte scinde la disposizione legislativa in vari significati,
dichiarandone incostituzionali solo alcuni; mentre le sentenze additive sono quelle con le quali viene
dichiarata incostituzionale una determinata norma nella parte in cui non contiene determinati elementi
o non prevede certe conseguenze.
In altri casi, pur non giungendo a una dichiarazione di incostituzionalità, la Corte, mediante la
motivazione, invita il Legislatore a intervenire sulla legge, presagendo, in caso contrario, un futuro
giudizio di incostituzionalità (cd “sentenze-monito”). In altri casi ancora, la Corte dettaglia al legislatore
gli elementi che dovrà inserire nella nuova disciplina della materia (cd “sentenze-delega”).
9.
Il giudizio in via principale
Un’altra via per attivare il giudizio della Corte sulle leggi è il ricorso in via diretta o principale, in cui
lo Stato, attraverso il Presidente del Consiglio e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, impugna
una legge di una Regione, o una Regione impugna una legge statale o una legge di un’altra Regione,
mediante ricorso diretto, cioè senza il filtro del processo a quo.
La recente riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione (l. c. 3/2001) ha introdotto alcune
variazioni al precedente regime: ora il ricorso può essere solo successivo, cioè proposto solo dopo
l’entrata in vigore della legge impugnata, e non oltre il termine sia sessanta giorni a partire dalla data di
pubblicazione della medesima, mentre in passato il Governo poteva impugnare le leggi regionali in
itinere, durante la procedura di controllo ora abolita.
Inoltre i motivi del ricorso sono delimitati ai vizi di incompetenza della legge impugnata, quando,
cioè, Stato o Regioni eccedono i limiti costituzionali alle loro rispettive sfere di competenza legislativa
(v. Lez. 14)
10.
I conflitti di attribuzione
A volte l’invasione reciproca di competenze tra Stato e Regioni, o tra Regioni, o tra Poteri dello
Stato, oppure l’illegittima reciproca interferenza, non avviene mediante una legge o un atto avente forza
di legge, ma attraverso fonti secondarie o altri atti pubblici.
La soluzione delle controversie generate da tali eventi è raggiunta mediante il giudizio sui conflitti di
attribuzione (art. 134 Cost.), i cui prerequisiti necessari sono i soggetti menzionati e l’oggetto della
controversia che deve consistere in competenze e attribuzioni stabilite dalla Costituzione o comunque
riconducibili a questa.
Il giudizio per conflitto di attribuzioni culmina in ogni caso in una sentenza, con la quale la Corte
dichiara a chi spetta la competenza contestata e la illegittimità delle invasioni o delle interferenze. Nella
stessa sentenza la Corte può annullare l’atto che ha dato origine al conflitto.
Un problema specifico è la nozione di Potere dello Stato, di cui al citato art. 134, sulla quale la Corte
stessa ha chiarito che essa comprende tutti gli organi che esercitano in forma autonoma e indipendente
attribuzioni costituzionalmente riconosciute (quindi, in via esemplificativa, oltre agli organi
costituzionali sovrani, il CSM, la Corte dei Conti, ciascun giudice ...)
11.
Giudizi sulle accuse.
La terza funzione di cui è investita la Corte costituzionale è quella di giudicare il Presidente della
Repubblica, messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, per il reato di alto tradimento o
di attentato alla Costituzione in composizione allargata a sedici giudici aggregati, estratti a sorte da un
elenco di persone elette ogni 9 anni dal Parlamento in seduta comune fra i cittadini aventi i requisiti per
l’eleggibilità a senatore.
Dell’istituto abbiamo in parte trattato in altre sedi, per cui qui è sufficiente porre l’attenzione su
alcuni ulteriori e importanti dettagli. Il giudizio in questione ha infatti i caratteri di un vero e proprio
processo penale e di questo segue le relative e complesse regole, e , come per ogni giudizio penale
anche in questo caso il processo si concluderà con una sentenza di assoluzione o di condanna; a questa
consegue la destituzione di diritto dalla carica di Presidente della Repubblica.
12.
Ammissibilità del referendum
Altra funzione spettante alla Corte è quella di giudicare sull’ammissibilità o meno dei referendum
abrogativi. L’art. 75 della Costituzione, infatti esclude che siano sottoposte a referendum le leggi
tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Ovviamente, dato anche il carattere caotico della legislazione italiana, non sempre è facile
l’identificazione di queste categorie, per cui la funzione di controllo della Corte al riguardo appare
opportuna, anzi indispensabile. La Corte, in sostanza, valuta la legittimità costituzionale del referendum,
e non la sua regolarità formale, che viene controllata dalla Corte di cassazione. La sentenza di
ammissibilità attiva la potestà del Presidente della Repubblica di indire il referendum secondo le
modalità previste dalla legge; quella di inammissibilità blocca definitivamente l’intero procedimento.
Con la sentenza 16/1978, la Corte, chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità di otto referendum, ne
rigettò ben quatto non sulla base del contrasto formale con l’art. 75 della Costituzione ma in quanto
contrari a valori fondamentali desumibili dallo spirito della Costituzione. Da allora essa ha
continuamente e di fatto esteso la propria sfera decisionale in merito, con la conseguenza di
depotenziare la forza di questo rilevante istituto di democrazia diretta.
13.
Ruolo e posizione costituzionale della Corte
La posizione di spiccata prevalenza della Corte nel quadro costituzionale appare ampiamente
consolidata; l Corte si configura come un potere sovrano di garanzia degli equilibri fondamentali,
svolgendo una funzione di giudizio di ultima istanza politico-istituzionale nei conflitti tra i poteri e nella
tutela del sistema dei valori e principi della Costituzione. Si tratta di un ruolo di natura politica, che la
Corte svolge con estrema attenzione sia alla necessità di conservazione dei valori sia alle esigenze di
modernizzazione del diritto pubblico espresse dai processi di trasformazione della società e
dell’economia.
Nel corso del tempo, non sono mancate posizioni critiche, alcune delle quali espresse peraltro già in
sede di Assemblea costituente dall’estrema sinistra, che contestava il potere sul Parlamento, ritenuto
eccessivo, di un organo non direttamente derivato dal popolo. Le critiche, tuttavia, non hanno avuto
esiti in riforme, fatta eccezione per la legge costituzionale di modifica della Parte II della Costituzione,
approvata a novembre e in attesa di richiesta di referendum, che ne adegua la struttura (dei quindici
giudici, quattro sono nominati dal Presidente della Repubblica; quattro dalle supreme magistrature; tre
dalla Camera dei deputati e quattro dal Senato federale della Repubblica, integrato dai Presidenti delle
Regioni).
XII.
1.
LA MAGISTRATURA
Premessa
Abbiamo già visto come la funzione giurisdizionale sia una componente essenziale dell’ordinamento
giuridico e la sua indipendenza costituisca un elemento indefettibile della configurazione dello Stato
costituzionale di diritto.
Essa è attribuita a particolari organi dello Stato (Corti, composte di giudici) in posizione di terzietà e
imparzialità, che costituiscono nel loro complesso la Magistratura o Potere giudiziario; questo, a
differenza degli altri poteri dello Stato, non possiede un organo sovrano di vertice, essendo la sovranità
necessariamente diffusa in ciascuna Corte nell’esercizio delle sue funzioni, che altrimenti sarebbe priva
di indipendenza.
La giurisdizione risolve le controversie sull’applicazione del diritto, sorte o per la incertezza delle
norme regolanti una data situazione o per il rifiuto di un soggetto di osservare tali norme. La
controversia può sorgere tra soggetti privati o fra privati e Pubblica Amministrazione, oppure fra diritto
di difesa dell’individuo e diritto punitivo dello Stato.
Alla Magistratura è dedicato l’intero Titolo IV della Parte Seconda della Costituzione dall’art. 101
all’art. 113, di cui esporremo nella prossima slide i principi fondamentali.
2.
Principi costituzionali (1)
Imparzialità del giudice – Trae fondamento dal principio di eguaglianza formale (art. 3, c. 1, Cost.) e
traduce in pratica, cioè nell’applicazione del diritto alla soluzione dei conflitti concreti, il principio del
“diritto eguale” che caratterizza lo Stato di diritto.
Diritto alla tutela giurisdizionale - L’art. 24 al primo comma afferma che “tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Tale tutela è accordata anche contro gli atti della pubblica
amministrazione. Il diritto di agire in giudizio è riconosciuto a tutti coloro che si trovano nel territorio
dello Stato e quindi anche ai non cittadini.
Giudice naturale - L’art. 25 stabilisce che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”
e si ricollega al principio stabilito all’art. 102, c. 2 in base al quale “non possono essere istituiti giudici
straordinari o giudici speciali”. Si tratta di due divieti rivolti al legislatore che mirano ad assicurare
l’imparzialità del giudice e la certezza del diritto. Con il primo si garantisce la previa costituzione del
giudice competente a decidere sulla controversia, con il secondo si vieta la costituzione di organi
giudicanti costituiti successivamente al verificarsi dei fatti oggetto del giudizio.
3.
Principi costituzionali (2)
Subordinazione alla legge – L’art. 101 c. 2 afferma che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Tale
principio rende il giudice autonomo e indipendente, due valori strumentali alla salvaguardia della libertà
di giudizio e della necessaria terzietà rispetto alle parti.
L’indipendenza dei giudici è sia “esterna” da qualsiasi altro potere (ed infatti la Costituzione prevede
che ogni provvedimento sui magistrati deve essere assunto da un’autorità di speciale garanzia, il
Consiglio Superiore della Magistratura, CSM), sia “interna”, cioè sono esclusi vincoli gerarchici tra i
magistrati (art. 107 c. 3 “i magistrati si dividono tra loro solo per diversità di funzioni”).
Inamovibilità – E’ un principio che si collega all’indipendenza interna, ed impone il divieto di
procedere alla dispensa o alla sospensione dal servizio o alla destinazione ad altra sede o funzione, se
non in seguito ad una decisione del CSM, “adottata per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite
dall’ordinamento giudiziario”.
Obbligo di motivazione – Come tutti gli atti pubblici che si dirigono a persone individuate, i
provvedimenti giurisdizionali necessitano di motivazione (art. 111 c. 6), mediante la quale la parte può
controllare la fondatezza delle pronunce ed eventualmente presentare impugnativa dinanzi ai giudici di
grado superiore. Attraverso la motivazione inoltre si rendono pubbliche le tendenze dell’interpretazione
giudiziale (la “giurisprudenza”) e le loro ragioni.
Giusto processo – Contenuto nel nuovo art. 111 così come modificato dalla legge costituzionale n.2
del 99, riassume i principi precedenti e punta ad assicurare l’effettiva parità delle parti nel processo, il
rigoroso rispetto del diritto alla difesa, l’effettiva terzietà degli organi giudicanti.
4.
Ordinamento giudiziario
Il sistema giudiziario italiano è composto da più Magistrature (o Giurisdizioni) con differenti
competenze giurisdizionali, una a carattere generale, la Giurisdizione ordinaria, altre, con competenze
specifiche; si tratta della Magistratura amministrativa, della Magistratura contabile, del Giudice
Tributario, della Magistratura militare.
I giudici ordinari hanno una competenza generale in materia civile e in materia penale; i giudici
speciali hanno competenza in materie specifiche (ad esempio i conflitti che riguardano la Pubblica
amministrazione nella sua posizione di supremazia verso i privati sono devoluti al Giudice
amministrativo) oppure hanno competenze eccezionali in materia penale e civile nei casi previsti dalle
leggi e ammessi dalla Costituzione.
La giurisdizione penale è competente per l’applicazione di quelle norme (penali) la cui violazione
comporta una sanzione penale (reclusione, multa).
La giurisdizione civile si occupa dei conflitti tra soggetti privati e della tutela dei diritti e si svolge su
iniziativa dei privati stessi.
In relazione alle funzioni i giudici ordinari si distinguono in organi giudicanti (che appunto
decidono in ordine alla soluzione delle controversie), e organi requirenti (che hanno la funzione di
stimolare il giudizio).
5.
Il Giudice civile
Le differenti competenze dei giudici sono attribuite dalla legge attraverso il criterio delle materie
oggetto di giudizio, oppure il criterio dell’ambito territoriale entro il quale il giudice è chiamato a
svolgere la sua funzione, oppure il grado di giudizio.
Come schema generale, il primo grado di giudizio è davanti al Giudice di pace (giudice individuale)
o al Tribunale (individuale o, nelle ipotesi di legge, in forma collegiale). Le decisioni del Giudice di pace
sono impugnabili davanti al Tribunale e quelle adottate dal Tribunale in primo grado, sono appellabili
davanti alla Corte d’Appello (giudice collegiale).
Il terzo grado di giudizio si svolge davanti alla Corte di cassazione (v. infra).
6.
Il Giudice penale
In materia penale sono giudici di primo grado il giudice di pace, il Tribunale e la Corte d’Assise
(giudice collegiale, che comprende giudici togati e una giuria composta di cittadini). Quest’ultima è
competente per i reati più gravi.
In secondo grado, troviamo la Corte d’Appello per le impugnazioni delle sentenze dei Tribunali e la
Corte d’Assise d’Appello, per le impugnazioni delle sentenze della Corte d’Assise.
Tra i giudici ordinari con competenze penali rientrano anche il Tribunale della libertà e il Tribunale per i
minorenni, che hanno particolari requisiti e competenze specifiche per determinate materie. Il primo,
istituito presso ogni capoluogo di provincia, è chiamato a riesaminare anche nel merito i provvedimenti
restrittivi della libertà, ed entro 3 giorni (prorogabili a 6), deve confermare o revocare il provvedimento.
Al secondo sono devolute la cause riguardanti i minori.
7.
I Giudici requirenti.
Sono quei giudici ai quali non spetta la decisione della controversia, bensì l’esercizio delle funzioni
di Pubblico Ministero, che sono di stimolo e preparatorie rispetto alla decisione, nell’interesse generale
alla giustizia o per la tutela di posizioni soggettive altrimenti indifese. Tali organi requirenti sono
rappresentati dalle Procure della Repubblica presso i Tribunali, dalla Procura generale presso le Corti
d’appello e dalla Procura generale presso la Cassazione.
Il PM è obbligato a promuovere l’azione penale non appena viene a conoscenza di una notizia di
reato, di fatto avviando il processo penale, di cui diviene parte accusatoria.
Oltre a queste competenze in materia penale, il PM ha alcune attribuzioni anche in campo civile e
amministrativo; ad esempio deve promuovere l’azione per l’annullamento e sospensione delle delibere
assembleari di società, l’azione per la dichiarazione di morte presunta ecc. Anche in questi casi, pur in
assenza di una specifica previsione legislativa, si ritiene che esista per il PM un obbligo di agire.
8.
I Giudici amministrativi
I giudici amministrativi sono giudici speciali competenti sulle controversie tra Pubbliche
Amministrazioni o tra P.A. e privati, relative a rapporti di diritto amministrativo.
La regola di massima per la ripartizione della competenza prevede l’attribuzione ai giudici ordinari
dei conflitti derivanti dalla lesione di diritti soggettivi a causa dell’attività amministrativa, mentre i
giudici amministrativi giudicano sugli interessi legittimi. In casi di intreccio tra diritti e interessi la
materia viene talora attribuita interamente al giudice amministrativo (giurisdizione esclusiva).
La tradizionale distinzione, fondata sugli art. 24 c. 1, 103 c. 1, 113 c. 1, Cost., tra diritto soggettivo
(situazione soggettiva riconosciuta al singolo in quanto tale) e interesse legittimo (situazione soggettiva
riconosciuta al singolo non solo nel suo interesse ma anche nell’interesse pubblico) è venuta ad
attenuarsi con la storica sentenza n. 500/1999 della Cassazione, che ha ammesso la risarcibilità anche
degli interessi legittimi.
Organi della giurisdizione amministrativa sono i Tribunali amministrativi regionali e il Consiglio di
Stato. come giudice di appello. Entrambi hanno la giurisdizione generale di legittimità sugli atti
amministrativi, e il potere di annullarli. Qualora la pubblica amministrazione non si conformi al
giudicato, è possibile un giudizio di ottemperanza attraverso il quale il giudice amministrativo esercita un
potere sostitutivo nei confronti della Pubblica Amministrazione.
9.
Altri giudici speciali
Giudice esclusivo in materia contabile è la Corte dei conti (v. infra).
Le Commissioni tributarie si distinguono in Commissioni provinciali e regionali. Contro le decisioni
delle Commissioni provinciali è ammesso appello alle Commissioni regionali. Contro le decisioni delle
Commissioni regionali può essere proposto ricorso per Cassazione. A tutela dell’autonomia e
indipendenza dei giudici tributari è prevista l’istituzione di un Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
I tribunali militari giudicano dei reati compiuti da appartenenti alle Forze Armate sia in tempo di
guerra che in tempo di pace (art. 103.3 Cost.). Competente a giudicare in appello è la Corte militare
d’appello. E’ inoltre prevista la possibilità di ricorrere in Cassazione contro i provvedimenti dei giudici
militari. Presso la Cassazione è istituito l’ufficio del Pubblico Ministero militare, ricoperto da magistrati
militari.
10.
La Corte di Cassazione
Come massimo organo del sistema giudiziario opera la Corte di Cassazione, che giudica sui ricorsi
contro le sentenze di appello, nonché sui conflitti di competenza fra giudici ordinari, di giurisdizione tra
giudici ordinari e speciali e di attribuzione tra giudici e P.A.
Il ricorso per cassazione può riguardare solo le eventuali violazioni di legge compiute dagli organi
giudicanti e non il merito delle singole questioni decise. Pertanto la Cassazione è definita giudice della
legittimità nel senso che non va a riesaminare i fatti ma, su ricorso delle parti, si limita ad esaminare se
nel precedente processo il diritto è stato correttamente interpretato e applicato.
La Cassazione può annullare le sentenze ritenute illegittime senza alcun rinvio, oppure, se il
contenuto della sua decisione necessita di un nuovo giudizio, può annullarle con rinvio ad un nuovo
giudice di merito che riesaminerà la causa, attenendosi alle prescrizioni in punto di diritto indicate dalla
Cassazione.
Quale organo di chiusura del sistema giudiziario la Cassazione ha l’importante funzione di assicurare
l’uniformità dell’interpretazione delle norme di legge da parte dei giudici, attraverso la definizione, con
le sue sentenze, delle linee interpretative cui i giudici dovranno attenersi (funzione “nomofilattica”)
A seconda delle materia di volta in volta trattata sono competenti le Sezioni civili, quelle penali o
quelle del lavoro di cui si compone la Corte di Cassazione.
11.
CSM (composizione)
Il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) è l’organo di autogoverno della Magistratura e di
garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, prevista dalla Costituzione agli art. 101 per
l’autonomia funzionale e all’art. 104 per l’autonomia organizzatoria; ha potere deliberativo esclusivo in
tutte le questioni riguardanti il rapporto d’impiego dei magistrati.
La sua composizione prevista dall’art.104 Cost. è mista, con membri elettivi (che durano in carica 4
anni) e membri di diritto. I primi sono in parte di derivazione politica (eletti dal Parlamento) e in parte
eletti dai giudici. I secondi sono il Presidente della Repubblica, che lo presiede, il Primo Presidente della
Corte di Cassazione e il Procuratore generale presso la medesima.
Sebbene la maggioranza dei membri sia eletta dalla magistratura, la carica di vice presidente è
affidata ad un membro designato dal Parlamento.
Un problema delicato riguarda i rapporti tra CSM e Ministro della Giustizia, a causa di ambiguità
nella legislazione vigente, che lasciano aperti possibilità di conflitti e dubbi di legittimità costituzionale.
In ogni caso, l’art. 110 Cost. stabilisce che spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il
funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, ferme restando le competenze del CSM sulle carriere e
lo status dei magistrati.
12.
CSM (le funzioni)
In dettaglio tali competenze riguardano le assunzioni, le assegnazioni, le nomine e le revoche dei
magistrati onorari, le nomine a magistrato di Cassazione, le concessioni di sussidi ai magistrati e alle
loro famiglie.
Quanto al potere disciplinare, esso attiene alla comminazione di specifiche sanzioni (dalla censura
fino alla rimozione dall’incarico) qualora il magistrato tenga una condotta, in ufficio o fuori, tale da
renderlo immeritevole della fiducia di cui deve godere, comprometta il prestigio della categoria o
trasgredisca all’obbligo di residenza. L’azione disciplinare può essere promossa solo dal Ministro della
Giustizia o dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, nella veste di procuratore generale
presso la sezione disciplinare del CSM. Contro i provvedimenti del CSM in materia di stato dei
magistrati è ammesso ricorso davanti al giudice amministrativo, mentre contro i provvedimenti della
sezione disciplinare è ammesso ricorso in Cassazione.
Oltre a queste funzioni il CSM rilascia pareri al Ministro della Giustizia, se richiesti, su disegni di
legge riguardanti l’ordinamento giudiziario e l’amministrazione della giustizia.
13.
Pubblico Ministero
Tale figura, nata inizialmente come collegamento tra potere esecutivo e potere giurisdizionale, si è
andata sempre più liberando dalla dipendenza gerarchica dal Ministro della Giustizia.
Gli organi requirenti, nel nostro sistema giudiziario, non si differenziano da quelli giudicanti, né
sotto il profilo dei criteri di selezione, né sotto il profilo del loro status professionale. Anch’essi sono
pertanto organi la cui indipendenza è garantita dalla sottoposizione al CSM e dalla conseguente
eliminazione del vincolo che li legava al potere esecutivo.
La Costituzione all’art. 112, impone al Pubblico Ministero l’obbligo di esercitare l’azione penale.
Pertanto le garanzie di indipendenza del PM sono ricondotte direttamente all’obbligatorietà dell’azione
penale mentre per il giudice sono ricondotte alla tutela della funzione giudicante.
L’obbligo previsto dall’art. 112 Cost., si ricollega al principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost. che
rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, e all’art. 3 Cost. che sancisce
l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
14.
Il Consiglio di Stato
L’art. 103.1 Cost. afferma che “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa
hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e,
in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”. L’art. 100.3 Cost. sancisce
l’indipendenza del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti di fronte al Governo, a garanzia della quale
è istituito un organo di autogoverno della magistratura amministrativa: il Consiglio di presidenza della
giustizia amministrativa.
Il Consiglio di Stato ha competenze sia consultive che di tutela della giustizia nell’amministrazione, e
in ordine a queste è anche giudice di appello rispetto alle sentenze adottate dai Tribunali amministrativi
regionali (TAR).
Relativamente alle funzioni consultive, il Consiglio di Stato può essere incaricato dal Governo ad
esprimere il suo parere su proposte di legge e addirittura a redigere progetti di legge e di regolamento.
Questi pareri possono essere facoltativi, e in tali casi l’amministrazione pubblica può disattendere il
parere senza dare alcuna motivazione, possono essere obbligatori per legge, e quindi l’amministrazione
dovrà motivare l’eventuale decisione difforme oppure, in casi molto rari, possono anche essere
vincolanti.
15.
La Corte dei Conti
La Corte dei Conti ha molteplici funzioni disciplinate direttamente dalla Costituzione (art. 100.2:
“esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello
Stato…riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro avvenuto” e art. 103.2: “ha giurisdizione nelle
materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”). Essa è stata istituita come longa manus
attraverso il quale il Parlamento esercita il controllo contabile sull’operato del Governo e della P.A.
E’ un composta da circa 600 magistrati, e, oltre ad alcune funzioni giurisdizionali in vari settori dove
è in gioco l’interesse finanziario dello Stato, esercita anche funzioni amministrative di controllo esterno
sulla P.A. statale e in parte anche su quella regionale e locale.
Si articola in Sezioni regionali (sia di controllo che giurisdizionali) e Sezioni centrali (3 di controllo e
3 giurisdizionali), le quali hanno funzione di giudice di secondo grado nei confronti delle sentenze delle
Sezioni regionali.
La giurisdizione contabile riguarda i funzionari delle Pubbliche amministrazioni, ha carattere
inquisitorio ed è promossa dai Procuratori regionali e dal Procuratore generale della Corte dei Conti. La
Corte giudica infine anche sulle controversie in materia di pensioni relative al rapporto di pubblico
impiego.
16.
Il processo
Il processo rientra nella figura generale del procedimento pubblico. ma si caratterizza per la
minuziosità e complessità delle regole poste a tutela della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche
soggettive.
La sentenza passata in giudicato (per cui cioè sono esauriti gli strumenti di impugnazione o sono scaduti
i termini per impugnare) costituisce il diritto vivente del caso concreto. Per tale ragione il processo è
minuziosamente regolato e articolato in fasi, con formalità predeteminate e inderogabili.
Elementi indefettibili del processo sono le parti (“attore” e “convenuto”) e il giudice. L’attore avvia
il processo presentando un ricorso; il giudice non può agire di sua iniziativa, ma è sempre attivato
dall’iniziativa della parte interessata.
Il convenuto è colui contro il quale l’attore ha chiesto l’intervento del giudice e che viene chiamato
in giudizio. Esso prende il nome di imputato nel processo penale e di resistente nel processo
amministrativo.
17.
Riforme
Lo scontro tra posizioni marcatamente diverse sul ruolo della Magistratura ha generato vari tentativi
di riforma, spesso tendenti alla separazione netta delle carriere tra magistratura requirente e magistratura
giudicante e alla riduzione dell’autonomia e della discrezionalità del giudice nell’interpretazione del
diritto.
La legge n. 150/2005 ha introdotto una separazione funzionale tra i ruoli e nuove possibilità di
intervento disciplinare nei confronti dei giudici, nei casi di adozione di provvedimenti con motivazioni
contraddittorie, o di attività di interpretazione di norme di diritto non in conformità ai criteri
dell’interpretazione letterale, o di adozione di atti e provvedimenti che costituiscono esercizio di una
potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali.
XIII.
1.
DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO INTERNO
Norme interne e norme comunitarie
Il diritto comunitario è destinato in massima parte (con l’eccezione delle norme attinenti
l’organizzazione interna della Comunità) a spiegare i suoi effetti all’interno degli Stati membri, accanto
ai diritti interni di questi ultimi, ed è quindi suscettibile di entrare in conflitto con gli stessi.
Tali potenziali conflitti sono stati risolti sulla base della affermazione – ormai pacificamente
condivisa sia a livello della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee (in seguito:
CG) che dei giudici nazionali – del primato del diritto comunitario sul diritto interno, sia anteriore che
posteriore. In verità, a questa conclusione si è giunti (come si vedrà) dopo un aspro dibattito
giurisprudenziale che, nello specifico, ha visto come protagonisti da un lato la CG e dall’altro le Corti
costituzionali italiana e tedesca.
Le due diverse impostazioni teoriche (quella comunitaria e quella delle Corti nazionali) sulla base
delle quali viene risolto il potenziale conflitto tra norme interne e comunitarie si richiamano alla
risalente disputa tra monisti e dualisti.
In ogni caso, nonostante il differente punto di partenza – e pur operando le citate Corti nazionali dei
distinguo – tali diverse impostazioni finiscono sul piano pratico con il raggiungere il medesimo
risultato, ossia quello della primazia del diritto comunitario.
2.
Il primato: sentenza Costa c. ENEL
Il primato del diritto comunitario è stato per la prima volta affermato dalla CG nella nota sentenza
Costa c. ENEL del 1964 (sentenza emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale), nella quale essa ha
affermato il primato della norma comunitaria su quella interna, anche posteriore.
La Corte, nella citata sentenza, ha statuito che, nelle materie oggetto dei Trattati, gli Stati membri
non possono emanare norme con l’intento di farle prevalere sull’ordinamento comunitario (da essi
accettato sulla base della reciprocità), sancendo pertanto che tali norme sono prive di efficacia in quanto
incompatibili con il diritto comunitario; di qui il rango superiore di quest’ultimo e la sua prevalenza nei
confronti del diritto interno, a prescindere da qualsiasi considerazione sulla successione temporale delle
leggi.
In altre sentenze successive, la CG, partendo dalla premessa che il diritto comunitario è esso stesso
di rango costituzionale, ha affermato il suo primato anche sulle norme costituzionali degli Stati membri.
3.
Il primato: sentenza “Simmenthal”
Alcuni anni più tardi, la CG riassunse e mise a punto la sua posizione in materia nella sentenza sul
caso Simmenthal (1978).
Lo spunto fu fornito da un rinvio pregiudiziale con il quale si domandava alla CG se fosse conforme
al Trattato istitutivo la pratica allora seguita dalla Corte costituzionale italiana di riservarsi il giudizio in
merito alla prevalenza delle norme comunitarie su quelle interne.
La CG espose per la prima volta in modo organico la sua concezione dell’ordinamento comunitario,
come ordinamento autonomo, di nuovo genere, avente come destinatari sia gli Stati membri che i
singoli e destinato ad integrarsi negli ordinamento nazionali. Dall’affermazione del primato del diritto
comunitario sul diritto interno, la CG fece poi discendere l’inapplicabilità ipso iure, a partire dall’entrata
in vigore del Trattati, di ogni norma interna esistente a tale data, incompatibile con norme comunitarie
direttamente applicabili, nonché l’impossibilità di valida formazione di norme interne successive,
incompatibile con quelle comunitarie.
Ne discendeva, secondo la Corte, l’obbligo per gli organi nazionali competenti di applicare
integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che esso attribuiva ai singoli, «disapplicando
all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale,
anche posteriore, senza doverne chiederne o attenderne la previa rimozione in via legislativa o mediante
qualsiasi altro procedimento costituzionale». La pratica suddetta della nostra CC fu pertanto dichiarata
illegittima.
4.
La concezione “monista” della Corte di giustizia
Nelle sue sentenze, quindi, la CG mostra di avere una concezione monista del rapporto tra diritto
comunitario e diritto interno, i quali vengono concepiti come un unicum, con automatica ed assoluta
prevalenza del primo sul secondo, fino al punto da dichiarare ipso iure inapplicabili (anche se non nulle,
ma la differenza non ha rilevanza pratica) le norme interne contrastanti.
La prospettiva monista della CG, e quindi la sua concezione unitaria circa i rapporti tra diritto
comunitario e diritto interno, deriva essenzialmente dalla circostanza che essa considera il diritto
comunitario come un ordinamento di nuovo genere, di tipo pre-federale, con caratteri peculiari rispetto
al diritto internazionale classico quale, in particolare, quello di avere anche i singoli come destinatari.
Inoltre, considerando che l’ambito delle competenze comunitarie è più ristretto rispetto di quelle
nazionali e, anzi, consiste di materie che gli Stati stessi hanno deciso di sottrarre al loro potere
legislativo per trasferirle a quello della Comunità, nell’ottica della CG una stretta subordinazione del
diritto interno a quello comunitario appare coerente con questa rinuncia da parte degli Stati membri.
D’altro canto, le affermazioni della CG sul primato del diritto comunitario sfidarono le Corti
costituzionali nazionali, nella loro veste (e nel loro monopolio) di garanti dei diritti fondamentali, le cui
risposte non si fecero attendere.
5.
Ordinamento italiano e ordinamento comunitario
I trattati internazionali sono generalmente immessi nel nostro ordinamento tramite un ordine di
esecuzione che può assumere la forma della legge costituzionale, della legge ordinaria o della
disposizione regolamentare, a seconda di come la materia oggetto del trattato debba essere regolata nel
nostro ordinamento.
Una volta che il trattato è stato così immesso nel nostro ordinamento, i suoi rapporti con le altre
norme interne sono regolati dai principi sulla gerarchia delle fonti (criterio gerarchico), sulla prevalenza
della norma posteriore sulla anteriore (criterio cronologico) e sulla prevalenza della norma speciale su
quella generale (criterio della specialità, nonché il criterio della competenza).
Riguardo all’adattamento del nostro ordinamento ai trattati comunitari, l’Italia vi ha provveduto
emanando un ordine di esecuzione contenuto in una legge ordinaria e identica strada è stata seguita per
tutti gli accordi modificativi di trattati comunitari. L’aver operato questa scelta ha causato una serie di
problemi ai nostri giudici che si sarebbero potuti evitare se il legislatore italiano avesse compreso
pienamente e tempestivamente la dimensione del fenomeno comunitario ed avesse provveduto in
occasione della ratifica dei trattati comunitari a modificare la Costituzione introducendovi le norme per
accogliere adeguatamente il diritto comunitario (o a emanare l’ordine di esecuzione attraverso una legge
costituzionale) come del resto avveniva in altri Stati membri, in modo da riconoscere rango
costituzionale al diritto comunitario.
6.
Ordinamento comunitario e art. 11 della Costituzione
L’esecuzione dei trattati comunitari attraverso una legge ordinaria ha avuto due conseguenze: da una
parte, le norme dei trattati non avrebbero potuto avere efficacia se contrastanti con la costituzione;
dall’altra, una legge ordinaria successiva ai trattati e modificativa degli stessi sarebbe stata pienamente
efficace. Entrambe queste conseguenze si ponevano in contrasto con l’illustrato orientamento assunto
dalla CG in tema di primato del diritto comunitario.
La dottrina suggerì diverse soluzioni, tutte di ripiego, volte ad evitare le conseguenze di cui sopra,
dato che l’incompatibilità di tali conseguenze con il sistema comunitario poneva l’Italia in una
situazione imbarazzante; la tesi che ebbe successo prevedeva il ricorso alle «limitazioni di sovranità» di
cui all’art. 11 Cost., nonostante questa norme fosse stata inserita in Costituzione per preparare l’entrata
dell’Italia nell’ONU e quindi nonostante la sovranità cui fa riferimento tale articolo, nelle intenzioni dei
redattori, è quella classica di sovranità di uno Stato nei suoi rapporti internazionali con gli altri Stati. Si
ritenne che l’ambito di applicazione del suddetto articolo potesse essere esteso a un diverso tipo di
sovranità (al di là della sua ratio legis) e che esso avrebbe potuto consentire di limitare legittimamente
anche la sovranità (intesa in senso ampio) a favore delle Comunità europee.
Si trattava di un uso quanto meno improprio del termine «limitazioni di sovranità», la cui
interpretazione veniva forzata oltre le intenzioni del legislatore costituzionale; la tesi ebbe tuttavia
successo perché consentiva di uscire dall’impasse in cui l’Italia si trovava, anche se oggi in dottrina sono
in molti a ritenere che l’art. 11 Cost. abbia abbondantemente esaurito la sua “funzione comunitaria”.
7.
La concezione “dualista”: Corte costituzionale italiana
Venendo alla giurisprudenza costituzionale, la Corte costituzionale (in seguito: CC) ebbe ad
occuparsi per la prima volta del rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie con la sentenza n. 14 del
1964 (Costa c. ENEL), trovandosi a statuire sul medesimo caso della CG ma prima di quest’ultima e
senza quindi conoscerne l’orientamento; in essa, in sostanza la Corte costituzionale stabilì che il fatto
che l’art. 11 consentisse delle limitazioni di sovranità non significava che le leggi, eventualmente
ordinarie, di esecuzione dei trattati avessero un rango costituzionale. Di conseguenza, essendo stato
data esecuzione al Trattato istitutivo con legge ordinaria, una legge ordinaria successiva poteva derogare
al Trattato in ossequio al principio della successione temporale delle leggi. La CC dava per scontata la
possibilità che una legge potesse essere in contrasto con il Trattato CE e conservare, al tempo stesso, la
sua efficacia.
Questa sentenza della CC non fece che ribadire la classica concezione dualista dei rapporti tra diritto
interno e diritto internazionale, che in Italia aveva attecchito più che in altri paesi. La sentenza fu
pesantemente criticata, specie dopo l’orientamento diametralmente opposto, di lì a qualche mese della
CG, che però non faceva altro che portare alle estreme conseguenze un vizio di origine.
8.
Evoluzione: la sentenza “Frontini”
Un primo sostanziale passo in avanti nella direzione dell’attenuazione del contrasto con la CG fu
fatto dalla CC con la sentenza “Frontini” del 1973 (n. 183).
Con questa sentenza, infatti, la CC abbandona la logica formale, ma insostenibile sul piano dei
rapporti dell’Italia con la Comunità e con gli altri Stati membri, della precedente sentenza del 1964,
adottando una delle soluzioni che, in assenza di un intervento legislativo, la dottrina proponeva, e cioè
quella dell’interpretazione estensiva delle «limitazioni di sovranità» di cui all’art. 11 Cost.
In particolare, essa sostenne che la norma comunitaria viene immessa nel nostro ordinamento non
in base al semplice ordine di esecuzione, ma in base all’art. 11 Cost.; di conseguenza, da una parte la
norma comunitaria in quanto promanante da una fonte estranea alle fonti tipiche del nostro
ordinamento non poteva essere sottoposta a sindacato di legittimità costituzionale (che può riguardare
solo le norme italiane); dall’altra la norma comunitaria assumeva rango costituzionale e qualsiasi norma
interna in contrasto con essa diveniva incostituzionale.
9.
I “limiti” della sentenza Frontini
Nonostante un deciso passo avanti della CC nel senso della prospettiva della CG riguardo ai rapporti
tra diritto interno e diritto comunitario, la sentenza Frontini presentava ancora delle incongruenze
rispetto alla visione monista del giudice comunitario.
1)La CC, infatti, nella succitata sentenza innanzitutto stabilì che l’incostituzionalità di una norma
interna contraria alla norma comunitaria doveva essere dichiarata dalla CC stessa e quindi sarebbe
rimasta in vigore fin tanto che qualcuno non ne avesse eccepito l’incostituzionalità e non ci fosse stata
la relativa pronuncia; questa prospettiva era inaccettabile per la CG secondo cui avrebbe minato il
primato del diritto comunitario affermato con enfasi nella sent. Costa-ENEL e che aveva ribadito nella
sent. Simmenthal, ove aveva criticando l’orientamento espresso dalla CC nella Frontini.
2)In secondo luogo, la sent. Frontini, nel sancire l’ingresso del diritto comunitario nel nostro
ordinamento a livello costituzionale, faceva salve quelle norme della Costituzione che riguardavano i
principi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana, rispetto ai quali la CC si riservava il
controllo di costituzionalità relativamente a norme comunitarie contrastanti con le norme costituzionali
che ne assicurano il rispetto; cioè, già in questa sentenza si rinviene un primo riferimento alla c.d. teoria
dei «controlimiti» (v. infra). I giudici costituzionali precisarono subito però che il problema a loro avviso
era solo teorico, ma la CG non poteva accettare che le norme comunitarie prevalessero solo su alcune,
e non su tutte, quelle della nostra Costituzione.
10.
L’allineamento: la sentenza “Granital”
Dovettero passare circa 10 anni perché la CC si allineasse, almeno negli effetti pratici se non sul
piano dell’impostazione teorica, con le posizioni espresse dalla CG.
Con la sentenza Granital del 1984 (n. 170), la CC riconobbe il diritto del giudice nazionale di
disapplicare la norma interna contraria a quella comunitaria, senza attendere la pronuncia di
incostituzionalità della CC stessa. Il giudice interno, secondo la CC, per convincersi del contrasto tra
norma comunitaria e norma interna, e quindi della “incostituzionalità” di quest’ultima, non è nemmeno
obbligato ad attendere una specifica sentenza della CG ex 234 CE, ma può rilevare egli stesso tale
contrasto o basarsi sulla giurisprudenza della CG su casi simili.
In definitiva, con la sent. Granital si sanò il ventennale contrasto tra CC e CG anche se permaneva
una differenza di impostazione teorica.
11.
Il Tribunale costituzionale federale tedesco
Un approccio dualista simile a quello della CC italiana è stato seguito dal Tribunale costituzionale
federale tedesco, che storicamente ha opposto una analoga risposta alla giurisprudenza della CG,
stabilendo che i due sistemi delle fonti del diritto, quello nazionale e quello comunitario, restano
separati; gli atti comunitari sono atti esterni all’ordinamento nazionale e, come tali, non possono
invalidare gli atti normativi nazionali (che possono, però, essere disapplicati dal giudice nazionale).
La Corte tedesca ha accettato il primato del diritto comunitario su quello nazionale, anche con
riferimento alle norme costituzionali, con l’eccezione di quelle norme contenenti gli elementi
qualificanti lo Stato tedesco (es. la struttura federale).
12.
Giurisprudenza del Tribunale costituzionale tedesco
In materia di rapporti tra fonti interne e fonti comunitarie si segnalano due pronunce del Tribunale
costituzionale federale tedesco.
Nella prima (1974, sentenza “Solange I”) il Tribunale ribadisce il principio dualistico, con il primato
del diritto comunitario. Afferma, però, l’esistenza di un “nocciolo” duro, che non può essere intaccato:
il Tribunale costituzionale può sindacare l’atto comunitario contrastante con le norme fondamentali
dello Stato. Fintantoché (“Solange”) la Comunità non predisporrà un catalogo di diritti fondamentali
adeguato a quello tedesco, si disse, il Tribunale costituzionale tedesco potrà legittimamente pronunciarsi
sulla conformità dell’atto comunitario con il diritto interno.
Nella seconda (1986, sentenza “Solange II”) il Tribunale costituzionale rovescia il proprio
orientamento, o meglio sospende espressamente la propria riserva. Le premesse teoriche della
precedente pronuncia vengono sostanzialmente confermate, ma nel frattempo si assiste ad un notevole
progresso del processo di integrazione europea: nell’ambito di questo sviluppo, emersero principi
fondamentali, equivalenti a quelli degli Stati membri (essendo forgiati sui principi tradizionalmente
riconosciuti nei Paesi europei), elaborati ed applicati dalla CG. La clausola di chiusura di tale
impostazione teorica è che il Tribunale costituzionale tedesco non può più legittimamente sindacare la
legittimità degli atti comunitari («fintantoché la Corte di Giustizia garantisce una tutela analoga a quella
del [Tribunale stesso] nei confronti di atti delle Comunità»). Potrà tornare a farlo, affermò all’epoca il
Tribunale, solo qualora la Comunità, in un ipotetico futuro, non si rivelerà in grado di tutelare i diritti
fondamentali.
13.
Monismo e dualismo: diversa teoria, stessi effetti
Le due diverse impostazioni, quella italio/tedesca e quella comunitaria si richiamano alla disputa tra
monisti e dualisti. Nonostante il differente punto di partenza, esse finiscono però sul piano pratico con
il raggiungere sempre gli stessi risultati.
E infatti, se da un lato la CG – sulla base della sua concezione monista del primato del diritto
comunitario – riteneva che tale diritto si integrasse nell’ordinamento interno e prevalesse su questo per
forza sua propria, impedendo la valida formazione di norme interne incompatibili con quelle
comunitarie (v. sent. Simmenthal), dall’altro la CC italiana, invece, preferiva vedere nell’ordinamento
comunitario un ordinamento autonomo e distinto (concezione dualista) da quello interno, ancorché
coordinato con quest’ultimo sulla base di una ripartizione di competenze cui il nostro Stato ha
volontariamente acconsentito. Di conseguenza, il diritto comunitario verrebbe ad applicarsi in una sfera
in cui la sovranità statale si è autolimitata, consentendo, in corrispondenza, al diritto comunitario di
spiegare la sua efficacia. Secondo la CC, le norme comunitarie rimangono estranee al sistema delle fonti
interne ed il giudice italiano nell’applicarle agisce come giudice comunitario attribuendo alle stesse il
valore che esse hanno nell’ordinamento di provenienza, non potendo valutare le norme comunitarie alla
stregua dei principi del nostro ordinamento. La conseguenza è che la norma comunitaria non abroga la
norma interna incompatibile, ma semplicemente impedisce che essa venga in rilievo ai fini della
soluzione della controversia pendente dinanzi al giudice italiano.
14.
La teoria dei «controlimiti»
Nonostante quanto detto in precedenza, riguardo al rapporto tra fonti interne e fonti comunitarie a
tutt’oggi resta ancora un punto di discrasia tra la visione del giudice comunitario e quella del giudice
costituzionale italiano e concerne i c.d. «controlimiti».
In sostanza, la CC italiana ha ammesso solo in via teorica il sindacato di costituzionalità di norme
comunitarie contrarie ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o dei diritti
inalienabili della persona umana, e in ciò si sostanziano i c.d. «controlimiti» (il riferimento ai
«controlimiti» si rinviene nella sent. Granital del 1984 ma anche nella precedente sent. Frontini del
1973); in altri termini, alla prevalenza dell’ordinamento comunitario sancita dalla CG nella sentenza
Simmenthal del 1978 – con la quale essa nella sostanza impone dei «limiti» alla sovranità statale, cioè
limitazioni di sovranità accettate in forza dell’art. 11 Cost. – la CC ha risposto imponendo a sua volta
dei «controlimiti» all’ordinamento comunitario (e quindi a queste limitazioni di sovranità) e all’ingresso
e alla prevalenza delle norme comunitarie quando, seppure la circostanza possa ritenersi solo teorica,
esse violino i principi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana.
In definitiva, se per la CC la volontaria autolimitazione dell’ordinamento italiano a favore di quello
comunitario può essere soggetta a limiti o condizionamenti, essi risultano essere invece inammissibili
avendo a riguardo la giurisprudenza della CG.
XIV.
DIRITTI E LIBERTÀ
1.
I diritti inviolabili
2.
Il sistema dei diritti
3.
Principio di eguaglianza
L’art. 2 Cost. esordisce affermando che “La repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo”. L’inviolabilità pone il sistema dei diritti all’interno delle fonti supreme, cioè nel nucleo di valori
non modificabili né dal legislatore ordinario né dal legislatore costituzionale.
Tale riconoscimento e garanzia si estende anche alle formazioni sociali ove si svolge la personalità
del singolo individuo, quali la famiglia, le associazioni, i partiti, i sindacati, la scuola ....
Tutti i diritti inviolabili sono diritti assoluti (in quanto esercitabili nei confronti di chiunque) e, salvo
le libertà economiche,
- sono inalienabili, irrinunciabili e indisponibili (il soggetto titolare non può rinunciarvi, né può
cederli ad altri),
- il loro mancato esercizio, anche per lungo tempo, non ne comporta la prescrizione, ossia la
perdita.
In dottrina l’art. 2 viene considerata una “clausola aperta”, nel senso che in esso si riassumono sia i
diritti espressamente tutelati nelle altre norme costituzionali, sia quei valori di libertà che, pur non
avendo un riconoscimento formale, emergono nella costituzione materiale.
I diritti di libertà vengono generalmente classificati in diritti di libertà negativi e positivi.
Nella prima categoria rientrano i diritti civili e politici e le libertà economiche, qualificati “negativi”
in quanto il loro esercizio nega ogni intervento limitativo dello Stato e di chiunque. Essi vengono intesi
nel senso di “assenza di limiti e divieti” e vengono tutelati proprio quando lo Stato si astiene dal
vincolarne l’esercizio; essi si affermano, come sappiamo, nello Stato liberale. Tra i più rilevanti: libertà
personale, libertà di circolazione, libertà di manifestazione del pensiero, libertà di associazione, libertà
religiosa, libertà d’impresa, libertà sindacale.
Nella seconda categoria si fanno rientrare i diritti sociali, ossia quelli che possono essere garantiti
soltanto attraverso l’intervento diretto dei pubblici poteri. Si tratta dei cd diritti della seconda
generazione che si affermano con l’avvento dello Stato sociale interventista. Tra i più rilevanti: il diritto
alla salute, il diritto all’istruzione, il diritto alla sicurezza sociale, il diritto al lavoro.
Esiste inoltre una serie di situazioni, indicate talora come diritti della terza generazione, la cui
emergenza è un prodotto della modernizzazione, quali diritto all’ambiente, libertà di preferenza
sessuale, diritto alla pace, diritto allo sviluppo, inquadrabili variamente nelle due categorie, ma spesso
inseriti in una dimensione transnazionale.
Il primo comma dell’ art. 3, Cost., pone il principio di eguaglianza formale: “Tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Il principio, di cui conosciamo le implicazioni nella teoria dello Stato e delle fonti
(legalità/generalità/astrattezza), ha un valore assoluto nella tutela delle libertà e significa che il
legislatore deve trattare in maniera eguale le situazioni che l’ordinamento riconosce eguali, e in maniera
egualmente diversa le situazioni che l’ordinamento riconosce diverse. Per stabilire quando una legge è
discriminatoria, la Corte costituzionale ha elaborato il principio di ragionevolezza, in base al quale
occorre stabilire se esiste una “ragione” costituzionalmente rilevante che giustifichi il diverso
trattamento, altrimenti la discriminazione è incostituzionale.
La Costituzione europea, inoltre, impone che il principio di non discriminazione sia esteso in via
generale a tutti i cittadini “europei”, in particolare per quanto riguarda l’esercizio delle libertà
fondamentali e delle libertà economiche all’interno di ogni Stato membro
Il secondo comma dell’art. 3 pone il principio di eguaglianza sostanziale, che obbliga i pubblici
poteri di intervenire nell’economia per rimuovere le disuguaglianze materiali che impediscono il pieno
godimento dei diritti di libertà. Il principio si collega all’avvento dello Stato sociale interventista e
costituisce il fondamento della teoria dei diritti sociali.
4.
Libertà personale
5.
Libertà di manifestazione del pensiero
6.
Privacy
7.
Libertà di circolazione
Tutelata nell’art. 13 Cost. essa va intesa in senso fisico e morale: consiste nel diritto di non essere
fermati, perquisiti, arrestati e di non subire costrizioni psicologiche e di nessun tipo, salvo quando
ricorrono due condizioni: una riserva di legge e una riserva di giurisdizione
In primo luogo, essa può essere limitata solo dalla legge, in casi tassativi, e nel rispetto dei valori
fondamentali dello Stato di diritto e dei principi costituzionali. La responsabilità penale è infatti
personale, e si configura solo per comportamenti dolosi o colposi che violano altri valori protetti dalla
Costituzione. Le costrizioni e le sanzioni, che devono mirare alla rieducazione del condannato, non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e comunque è esclusa la pena di morte.
Inoltre, la riserva di giurisdizione impone che qualsiasi limitazione concreta alla libertà personale di
un individuo debba sempre essere decisa da un giudice, e non da altri pubblici poteri. Il fermo di polizia
deve essere comunicato entro 48 ore all’autorità giudiziaria, che può convalidare l’arresto entro le
successive 48 ore, e disporre la custodia cautelare solo per evitare che l’imputato fugga, che inquini le
prove o che ripeta il reato, e solo per un periodo massimo tassativamente fissato dalla legge.
In base all’art. 21 Cost., “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Gli unici limiti dovrebbero essere costituiti dalla tutela della riservatezza delle altre persone e dal
buon costume, ma la giurisprudenza ha giustificato legislazioni più restrittive con la necessità di
reprimere i reati di ingiuria, diffamazione, calunnia, istigazione a delinquere, vilipendio al Capo dello
Stato, legittimando una categoria di reati di opinione difficilmente conciliabile con i valori dello Stato di
diritto.
Un problema formidabile è la disciplina dell’uso e della proprietà dei mezzi di comunicazione di
massa, che costituiscono il vero limite all’estensione e all’esercizio effettivo di questa fondamentale
libertà.
Importanti applicazioni della libertà di pensiero si hanno nell’art. 33 Cost. che tutela le libertà di
arte, scienza e insegnamento.
Gli art. 14 (“Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o
sequestri se non nei casi e modi stabiliti dalla legge.) e 15 (“La libertà e la segretezza della
corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”) Cost. danno fondamento a un
complesso di libertà che si è venuto a configurare come un diritto di terza generazione, il diritto alla
riservatezza.
Il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196: "Codice in materia di protezione dei dati personali“,
garantisce, affidandone il controllo ad una apposita Autorità indipendente, che il trattamento dei dati
sensibili delle persone si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità
dell'interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all'identità personale e al diritto alla
protezione dei dati personali.
Le limitazioni ai diritti alla riservatezza e al domicilio, come per la libertà personale, sono sottoposti
a riserva di legge e di giurisdizione.
L’art. 16 Cost. che formalmente riferisce tale diritto ai “cittadini”, va integrato con il principio
europeo di estensione delle libertà di circolazione senza distinzione di nazionalità, sia per quanto
concerne gli elementi strutturali della Costituzione europea del mercato (libertà di circolazione delle
merci e dei capitali e libertà di stabilimento delle imprese) ma anche in relazione alla libertà di
circolazione dei servizi, dei lavoratori e dei cittadini di ogni Stato membro.
La conclusione degli accordi di Schengen (entrati in vigore nel 1995) ha costituito il passo più
importante verso l'istituzione del mercato interno senza ostacoli alla libertà di circolazione per le
persone, vale a dire abolizione dei controlli alle frontiere interne di tutti i paesi firmatari. Questo
significa che i cittadini di uno Stato hanno ora una immensa estensione dello spazio in cui esercitare la
loro libertà.
Come per l’ordinamento interno, anche in Europa i diritti connessi alla libera circolazione delle
persone sono soggetti a restrizioni giustificate da motivi di sicurezza pubblica, ordine o sanità (articoli
39, 46, 55 del Trattato CE). Tali eccezioni sono di stretta interpretazione e riservate alla legge, secondo i
principi generali di non discriminazione, proporzionalità e tutela dei diritti di libertà,
8.
Iniziativa economica privata
9.
Proprietà privata
10.
I diritti sociali
Ai sensi dell’art. 41 della Costituzione, l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Si tratta dei cd limiti “negativi” alla libertà di impresa.
Nello stesso tempo, il terzo comma dell’art. 41 dispone che la legge può determinare i controlli e i
programmi opportuni perché l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata a fini
sociali.
Tali disposizioni, coordinate con gli articoli 42 e 43 (specie con riferimento alla possibilità che lo
stato svolga direttamente talune attività economiche) disegnano un modello di costituzione economica
formale in cui lo stato, attraverso limiti “positivi”, ha la possibilità di modellare la libertà d’impresa in
modo da indirizzarne la funzione verso finalità sociali.
Analoghe configurazioni derivano dal diritto comunitario, che ha inoltre introdotto nella
Costituzione materiale il principio di non discriminazione tra imprese nazionali e imprese di altri Stati
membri, e il principio di concorrenza, che costituisce un limite a qualsiasi intervento pubblico
suscettibile di restringere la competizione sul mercato interno, comprese le programmazioni
economiche e gli aiuti di Stato alle imprese nazionali mediante risorse finanziarie pubbliche, che sono
ora vietati sotto qualsiasi forma.
L’art. 42 Cost. stabilisce che la proprietà può essere pubblica o privata. Quest’ultima è riconosciuta e
garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto e di godimento, e i limiti, per garantirne la
funzione sociale e renderla accessibile a tutti.
La funzione sociale dipende dal valore sociale dei beni, e il legislatore può conformare l’utilizzazione
delle diverse categorie di beni in modo da realizzare un loro impiego favorevole all’interesse generale,
purché lo stesso diritto di proprietà non ne risulti eccessivamente compresso o snaturato.
Inoltre, la proprietà privata può essere oggetto di esproprio da parte dello stato quando occorre
perseguire obiettivi di interesse generale. Al proprietario espropriato dei suoi beni va riconosciuto un
“indennizzo”. (è controversa la questione dell’entità di tale indennizzo, dal momento che il costituente
non ha ritenuto necessario indicare al riguardo alcun criterio)
I diritti sociali tutelano l’interesse e la pretesa del cittadino a ottenere determinate prestazioni
dall’amministrazione diretta o indiretta dello Stato.
I più rilevanti sono il Diritto alla salute e il Diritto al lavoro (per i quali si rinvia alle successive
slides), il Diritto all’istruzione (v. Lez. 16).
Qui tratteremo brevemente del Diritto alla sicurezza sociale, che si scompone nel diritto
all’assistenza sociale per tutti i cittadini che si trovino in stato di bisogno (in particolare, gli inabili e i
minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale, gli anziani hanno diritto a forme
adeguate di assistenza anche domiciliare, etc), e nel Diritto alla previdenza sociale dei lavoratori a che
siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia,
invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
I diritti sociali sono diritti “positivi”, ossia prevedono un ruolo attivo dello Stato sociale – Welfare
State, che deve intervenire apprestando servizi ed erogando prestazioni per assicurare, in termini
generali, la liberazione dal bisogno di tutti i cittadini.
Tuttavia, il condizionamento finanziario derivante dagli equilibri necessari nella nuova Costituzione
economica ha avviato un processo di riduzione di tali garanzie e di traslazione dei relativi compiti dallo
Stato alle Regioni. Resta allo Stato, in ogni caso la funzione di predisporre gli standard minimi dei livelli
dei servizi sociali e sanitari.
11.
Diritto alla salute
12.
Diritto al lavoro
13.
Libertà sindacale
In base al disposto dell’art. 32 Cost. “La Repubblica riconosce la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività. Lo Stato garantisce cure gratuite agli indigenti. Il diritto alla
salute rappresenta uno dei più importanti diritti sociali e condiziona fortemente il godimento di tutti gli
altri diritti; tuttavia, esso non richiede necessariamente un servizio sanitario nazionale generalizzato, sia
perché le cure gratuite spettano solo agli indigenti, sia per la ricordata esigenza di equilibrio del bilancio
dello Stato, sia perché in molti ordinamenti esso viene efficientemente soddisfatto dai privati e dal
mercato, e lo Stato interviene mediante trasferimenti in denaro ai più indigenti (modello nordico, molto
meno soggetto agli immensi sprechi e agli scandali che sono all’ordine del giorno nel nostro Paese).
La inviolabilità del diritto sotto l’aspetto “negativo” implica che nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, che non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana. La questione è delicata, coinvolgendo l’evoluzione
raggiunta dalle tecnologie di monitoraggio e di intervento biomedico. Inoltre sul diritto alla salute sono
spesso fondate sia le tesi che spingono per la liberalizzazione e lo sviluppo della ricerca medica sul
genoma e sull’embrione, sia la teorizzazione di un diritto all’ambiente (salubre) garantito
costituzionalmente.
L’art. 4 Cost., dopo aver dichiarato il diritto e il dovere dei cittadini al lavoro, afferma che la
Repubblica promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto. Tuttavia controllo del mercato
del lavoro e legislazione di incentivo assistenziale si sono dimostrati strumenti inefficaci; pertanto si è
avviata una liberalizzazione del mercato del lavoro (leggi Biagi) e una politica di riduzione dei costi, di
qualità e di competitività, finalizzata alla crescita occupazionale
In base agli art. 35 ss. Cost., la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro, e
in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Il lavoratore
ha diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite.
Il legislatore tutela il lavoro femminile garantendo gli stessi diritti e, a parità di lavoro, la stessa
retribuzione. Con speciali norme tutela il lavoro dei minori e degli inabili. In applicazione del criterio di
ragionevolezza e del principio di eguaglianza sostanziale, l’UE e gli Stati hanno avviato una politica di
interventi di riequilibrio, che va sotto il nome di politica delle pari opportunità.
L’art. 39 disciplina i sindacati, attribuendo ad essi una specifica libertà sindacale di organizzazione e
di azione, e prevedendo la possibilità di un obbligo di registrazione, in base al quale i contratti collettivi
stipulati dai sindacati registrati avrebbero efficacia di legge (erga omnes); la mancata attuazione di questa
parte della norma è stata giustificata con la possibilità che la registrazione attivasse spazi per un
controllo dello Stato sulla stessa libertà sindacale.
In ogni caso l’inesistenza di una procedura di certificazione ha impedito una razionalizzazione del
problema della rappresentatività sindacale, specie in rapporto alla partecipazione degli stessi sindacati a
varie funzioni pubbliche o procedure di concertazione.
L’art. 40 proclama il diritto di sciopero, che può essere esercitato, però, nell’ambito delle leggi che lo
regolano, specie in riferimento alle forme (non violente) e ai settori (servizi pubblici essenziali).
Sul piano legislativo libertà del lavoratore e libertà sindacale sono generalmente tutelati attraverso
legislazioni di favor, giustificate dalle Corti costituzionali per il fine di riequilibrare la posizione dei
lavoratori in quanto contraenti deboli del rapporto di lavoro. In questo senso sono stati riconosciuti
costituzionalmente legittimi divieti di licenziamenti ingiustificati, tutele sul posto di lavoro (Statuto dei
lavoratori), efficacia giuridica generalizzata dei contratti collettivi, partecipazione dei sindacati alla
elaborazione delle leggi e dei programmi dello Stato e delle Regioni.
14.
Tutele transnazionali
Richiamando in questa sede le lezioni istituzionali di diritto pubblico ricordiamo che i diritti di libertà
civili, politici, sociali e il principio di eguaglianza sono una componente primaria e ineliminabile del
nucleo costituzionale degli ordinamenti moderni; la loro protezione avviene in primo luogo all’interno
degli Stati, attraverso le Costituzioni, il ruolo dei pubblici poteri e soprattutto delle Magistrature, in
particolare le Corti costituzionali.
Il diritti dell’uomo sono oggetto di tutela anche in numerose fonti in ambito internazionale. Anche
se l’obiettivo primario di tali tutele è la realizzazione di una civiltà giuridica mondiale più avanzata
possibile, una delle componenti dell’esigenza di tutela transnazionale uniforme dei diritti, specie in
ambito europeo, è la necessità di creare un ordinamento giuridico comune delle libertà nei mercati
globali, per evitare che le differenze tra gli Stati nella tutela dei diritti, aumentando la competitività delle
imprese di Paesi dove questi sono meno tutelati, falsino la concorrenza e ostacolino la realizzazione di
un mercato unico.
15.
Fonti internazionali e comunitarie.
Tra le principali fonti internazionali di tutela ricordiamo la Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo (ONU, 1948), che però manca di una tutela giurisdizionale sovrastatale, e la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che dispone di una Corte
europea dei diritti umani (CEDU), di grande prestigio, le cui sentenze tuttavia non hanno carattere
sovranazionale, vincolando gli Stati, ma non entrando direttamente negli ordinamenti interni.
La Corte di giustizia della Comunità europea, invece, dispone di questo effetto sovranazionale; anche
se la sua missione è stata finora fondata più sulle esigenze del mercato unico, da tempo ha iniziato
anch’essa ad applicare non solo le disposizioni della Convenzione europea, ma anche i principi
costituzionali comuni degli Stati membri.
Si tratta di un sistema giuridico, come vedremo, effettivamente operante, oggi integrato con la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) firmata nel 2000 dai paesi che partecipano
all’Unione europea e ora confluita nel Trattato di Lisbona.
16.
Comunità, mercato, diritti.
Una critica particolarmente intensa rivolta spesso alla Comunità europea è infatti di essere sbilanciata
sul versante dei diritti, di occuparsi solo di economia, di privilegiare esclusivamente la costruzione di
una “Europa dei mercanti”, dimenticando la tutela e lo sviluppo della persona umana e dei suoi diritti
fondamentali.
La critica non è corretta. Da un lato, infatti, la tutela dei diritti, negli ordinamenti interni spetta agli
Stati, che non sempre ne sono all’altezza; dall’altro sin dalle origini il diritto comunitario è caratterizzato
da un sistema di libertà, non solo economiche. Si tratta di diritti che pur nascendo dal libero mercato,
presuppongono l’apertura delle frontiere, la caduta delle barriere tra gli Stati, le libertà comunitarie di
circolazione e stabilimento (delle persone, delle merci, dei capitali), l’eguaglianza senza distinzione di
nazionalità.
In particolare, il Trattato CE sancisce il principio di non discriminazione per ragioni legate alla
nazionalità. Il trattato di Amsterdam ha aggiunto la possibilità, per il Consiglio, di adottare misure volte
a "combattere qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, sulla razza o sull'origine etnica, sulla religione
o sulle convinzioni personali, sugli handicap, sull'età o sulle tendenze sessuali" (articoli 12 e 13 del
trattato CE).
17.
Cittadinanza dell'Unione europea
La cittadinanza europea, che si somma a quella nazionale senza sostituirla, appartiene a chiunque
abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Essa comporta la titolarità di tutti i diritti garantiti e tutelati
direttamente dalle istituzioni europee, sia quelli tradizionali del Trattato CE (libertà economiche di
circolazione, tutela del consumatore e della sanità pubblica, eguaglianza di opportunità e di trattamento,
accesso all'occupazione, sicurezza sociale) che le estensioni realizzate con i nuovi Trattati: la libertà di
circolazione e di soggiorno su tutto il territorio dell'Unione; l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni
comunali e in quelle del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza; la tutela diplomatica e
consolare da parte di qualsiasi Stato membro dell’Unione; il diritto di petizione al Parlamento europeo e
di ricorso al mediatore europeo.
Sul piano concreto, resta ancora molta strada da fare, specie sotto il profilo della libertà di
circolazione indipendentemente dallo svolgimento di attività economiche: molti Paesi, infatti, non
hanno pienamente aderito agli accordi di Schengen (v. slide seguente) e continueranno ad esercitare
alcuni controlli alle frontiere fin quando lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia non sarà
pienamente realizzato.
18.
I diritti e la Corte di giustizia.
A tutto questo vanno aggiunte le raffinate elaborazioni della Corte di giustizia in materia di principi
generali comuni delle Costituzioni nazionali (proporzionalità, tutela dell'affidamento, ragionevolezza,
certezza del diritto, pari trattamento), e delle loro concrete applicazioni in materia di diritti
fondamentali. E, come si è visto in precedenza, le Corti costituzionali nazionali hanno riconosciuto alla
Corte di giustizia la piena legittimità a garantire la tutela dei diritti nell’ambito dell’ordinamento
comunitario.
In sostanza la Corte di giustizia ha affermato che i diritti fondamentali fanno parte dei principi
generali che essa deve salvaguardare, come la dignità umana (sent. Casagrande, 1974); la libertà di
religione (Prais, 1976); la protezione della vita privata (National Panasonic, 1980); il rispetto della vita
familiare (Commissione c. Germania, 1989); la libertà di associazione (Confédération syndicale, 1974);
l'inviolabilità del domicilio (Hoechst AG c. Commissione, 1989); la libertà di pensiero e di stampa
(VBVB, 1984); il segreto professionale dei medici (Commissione c. Germania, 1992); il diritto di
proprietà e la libertà professionale (Hauer, 1979); la libertà di commercio (Intern. Handelsgesellschaft,
1970); la libertà economica (Usinor, 1984); la libertà di concorrenza (France, 1985); il diritto ad una
giustizia efficiente (Johnston, 1986) e al giusto processo (Pecastaing, 1980).
19.
Il principio di eguaglianza
In particolare la Corte, partendo dal funzionalismo, dal mercato e della concorrenza, ha
generalizzato come principio fondamentale del diritto comunitario il principio di uguaglianza, di cui il
divieto di discriminazione in base alla cittadinanza è solo un'espressione specifica; lo ha poi
ulteriormente dilatato affermando che esso «vieta non solo le discriminazioni palesi a motivo della
cittadinanza ... ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri
criteri distintivi, abbia in pratica le stesse conseguenze» (sent. Seco e Desquenne, 1982).
Per la Corte il principio di parità di trattamento implica che le regole del gioco siano conosciute da
tutti i potenziali interessati e si applichino a tutti nello stesso modo: la “pari opportunità” dipende dal
ruolo giocato da chi detiene il potere e dalle regole che esso pone. Per questo la Corte è passata dalla
semplice tutela formale di diritti alla soluzione dei problemi “pratici” del loro esercizio, in condizioni di
eguaglianza, attraverso la conformazione dell’assetto istituzionale e organizzativo dei pubblici poteri.
In definitiva, non solo la Corte ha sempre presupposto l’esistenza di una tutela comunitaria dei
diritti, ma ne ha sempre fatto concreta applicazione, specificandone la portata e la natura, e garantendoli
sul piano formale e su quello sostanziale.