n. 73 gennaio - aprile - rivista segni e comprensione

Segni e comprensione International
Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Università del Salento, con la collaborazione del “Centro
Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello.
Questa rivista si pubblica anche con contributi del M.I.U.R., per il Prin “Fenomenologia,
riflessione etico-politica ed estetica dal Novecento in poi: testi e temi della filosofia dei
paesi del Mediterraneo”, attraverso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento.
General Editor/Direttore responsabile
Giovanni Invitto ([email protected])
Steering Comittee/Comitato direttivo
Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore responsabile)
Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno, Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio Delogu, Università di Sassari; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni, Università di Messina.
Editorial board/Comitato editoriale
Jean-Robert Armogathe, École Normale Supérieure de Paris (F); Renaud Barbaras, Paris I – Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di Roma 3 (I); Bruno Callieri, Università di Roma 1 (I); Mauro Carbone, Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Giovanni Cera,
Università di Bari (I); Claudio Ciancio, Università del Piemonte Orientale (I); Françoise
Collin, fondatrice di «Les Cahiers du Grif» (F); Umberto Curi, Università di Padova (I);
Roger Dadoun, Université de Paris VII-Jussieu (F); Franco Ferrarotti, Università di Roma 1 (I); Renate Holub, University of California – Berkeley (Usa); Roberto Maragliano,
Università Roma Tre (I); William McBride, Purdue University, West Lafayette, Indiana
(Usa); Augusto Ponzio, Università di Bari (I); Pierre Tamianiaux, Georgetown University
(Usa); Christiane Veauvy, Cnrs (F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de Valparaiso
(RCH); Chiara Zamboni, Università di Verona (I)
Team/staff di redazione
Siegrid Agostini; Daniela De Leo (responsabile); Tiziana Dell’Anna, Maria Teresa Giampaolo.
Sede
Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce – tel.
0832.294627; fax 0832.294626.
E-mail: [email protected].
Amministrazione e pubblicità
Piero Manni s.r.l., Via Umberto I, 51 73016 San Cesario di Lecce – Tel. 0832.205577. Periodico iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce.
Stampato presso
Piero Manni s.r.l. – San Cesario di Lecce
nell’aprile 2011
RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXV
NUOVA SERIE - N. 73 - GENNAIO-APRILE 2011
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Giovanni Invitto
“Segni e comprensione” mutatur non tollitur
11
Charles Renouvier
La beatitudine come morte (1844)
Questa rivista è sui siti: http: //www.segniecomprensione.it
e http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione; e ha dei rimandi al Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali e al Siba con i link:
dipfil.unile.it/seo-start/page/home.rivista_online/seo-stop/index.php?
e siba-ese.unisalento.it/index.php/segnicompr
17
Henry Bergson
La filosofia del XIX secolo. Appunti inediti di E. Cotton delle lezioni del giovane
Bergson (1887-1888)
31
Malwida von Meysenburg
Friedric Nietzsche (1901)
48
Charles Péguy
I segni dell’arte (1900-1914)
59
Rosa Luxemburg
Chiesa e socialismo (inedito, 1905)
82
Edmund Husserl
Genesi del mondo circostante – Storicità (inedito, 1928)
NOTE PER GLI AUTORI
I contributi scientifici possono essere scritti in una delle seguenti lingue: italiano, francese, inglese e saranno pubblicati nella lingua in cui perverranno. L’articolo deve riportare,
prima del testo, il titolo, Autore e il relativo istituto di appartenenza, indirizzo per la corrispondenza, e un abstract (di max 900 battute, scritto in italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto secondo le norme redazionali riportate sul sito.
Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle di 30.000 battute,
spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le “Note” non si dovranno superare
le 10.000 battute, spazi e note inclusi, con le medesime caratteristiche dei Saggi.
I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail: [email protected].
I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees, esterni al Comitato Direttivo, e competenti nelle diverse tematiche trattate dai contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l’utilità, segnando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche, o evidenziando gli
aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione.
86
Aldo Capitini
Individuo, valore, persona. Inediti filosofici (1938-1943)
94
Georg Misch
L’origine della filosofia (1939-1949)
112
Tran-Duc-Thao
La “Fenomenologia dello spirito” e il suo contenuto reale (1948)
137
Maurice Merleau-Ponty
Il problema della parola (1953-1954)
141
Jean-Paul Sartre
Una vita per la filosofia (1975)
159
María Zambrano
Antonio Machado, hombre pensativo (1975)
175
Italo Mancini
Cristianesimi spuri e il «non ancora» del cristianesimo (1978)
187
Emmanuel Lévinas
Péguy e la cultura occidentale (1989)
189
Teresia Margareta Drügemüller
Edith Stein nella vita del Carmelo (1989)
202
Paul Ricoeur
Filosofia e liberazione (1991)
210
Sergio Quinzio
In lotta con l’angelo (1991)
GIOVANNI INVITTO
“SEGNI E COMPRENSIONE”
MUTATUR NON TOLLITUR
Sia permesso parafrasare un testo del rito cattolico per dare il senso di
un passaggio nella storia di una rivista di filosofia. “Segni e comprensione”
è giunta al suo venticinquesimo anno di pubblicazione e si è trovata dinnanzi ad un bivio: continuare a vivere con molta difficoltà nella versione
cartacea o fare la scelta di continuare ad esistere attraverso la modalità informatica. I drastici tagli subiti dai finanziamenti destinati alla cultura e alle
Università italiane negli ultimi anni hanno convinto per l’ipotesi della prosecuzione online con la quale la rivista sarà fruibile, utilizzabile, riproducibile
da un maggior numero di lettori anche al di là dei confini nazionali. Per di
più è già insediato un Comitato Scientifico internazionale per garantire la
qualità dei prodotti pubblicati e, quindi, la loro spendibilità scientifica su tutti i piani. Quel Comitato, i cui nomi appaiono già in questa pubblicazione,
sarà anche garante, con il sistema dei “referee”, di una nuova collana editoriale, cartacea, che, sempre con le edizioni Manni, avvieremo subito. Il titolo della collana sarà I quaderni di “Segni e comprensione”.
La scelta è, quindi, quella di voler comunque continuare un discorso
che, in questo quarto di secolo, speriamo e pensiamo sia stato coerente e
significativo intorno ad alcuni nuclei tematici e metodologici come la fenomenologia, l’ermeneutica, le filosofie dell’esistenza, il pensiero femminile
e/o “della differenza”, il rapporto filosofia-arte. E così via.
Per la rivista, cominciammo nel 1987 con un Comitato Scientifico composto da Angela Ales Bello (il cui “Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche” risultava, insieme al Dipartimento leccese di Filosofia, promotore
della rivista), Antonio Delogu, Aniello Montano, Antonio Ponsetto, Mario Signore e chi scrive qui, che ne era e ne è anche il Direttore responsabile.
Successivamente si è aggiunto Angelo Bruno. Sono stati sempre preziosi
i contributi scientifici e i consigli di altri filosofi che operavano nell’Università di Lecce, oggi Università del Salento. Ci si riferisce soprattutto a Giuseppe A. Roggerone, Angelo Prontera e Antonio Verri. Nel primo decennio di
vita, editore fu Lorenzo Capone, dal 1997 sono state le edizioni di Manni,
Piero ne è il capostipite, che hanno prodotto e che seguiranno la rivista anche nella edizione online (sarà reperibile al seguente indirizzo:
http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione). In questo ultimo
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decennio soggetto importante nella cura formale della rivista è stata la collega Daniela De Leo.
Ricordiamo che la rivista è stata scelta anche come sede di pubblicazione di convegni internazionali. Pensiamo a Le rivoluzioni di Simone Weil
(n. 11, 1990) a c. di G. Invitto; Filosofia e liberazione (n. 15, 1992), a c. di
G. Cantillo e D. Jervolino; Linguaggio e cognizione (n. 32, 1997), a c. di E.
N. Serre Alegre e del Departament de Teoria dels Llenguatges dell’Universidad de Valencia; Il maschile a due voci. Il padre, il figlio, l’amico, lo sposo, il prete (n. 36, 1999) a c. di G. P. Di Nicola e A. Danese e ad altri convegni.
I riscontri avuti in questi anni sono significativi e ci permettiamo di ricordarli. Quando nel novembre 2003, promosso dall’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici e dalla Sezione Lombarda della S. F. I., si svolse a Milano
un incontro sul tema “I problemi della filosofia nella riflessione delle riviste
filosofiche italiane”, organizzato e coordinato da Davide Bigalli, furono invitate “aut aut”, “Giornale critico della filosofia italiana”, “Paradigmi”, “Paradosso”, “Rivista di filosofia”, “Rivista di filosofia neoscolastica”, “Rivista di
storia della filosofia” e “Segni e comprensione”. Così pure, ma è provincialismo?, riteniamo importante essere sempre inseriti tra le riviste italiane significative di cui dà informazioni preziose e puntuali “L’agenda della filosofia” edita da Bompiani.
Abbiamo preferito chiudere questa stagione “cartacea” della rivista
pubblicando testi di estremo valore, pubblicati per la prima volta in assoluto o per la prima volta in Italia da “Segni e comprensione”. Gli autori sono
tutti filosofi di notorietà e importanza che travalicano ogni confine. Ci si è
orientati verso autori non più viventi perché, con un criterio diverso, sarebbe stata impossibile una scelta ponderata, serena e comunque esente da
possibili rilievi. Ma non possiamo non ricordare, tra gli autori che hanno
scritto sulla rivista in questi ventiquattro anni, anche Renaud Barbaras,
Sandro Briosi, Bruno Callieri, Mauro Carbone, Girolamo Cotroneo, Roger
Dadoun, André A. Devaux, Enrique Dussel, Franco Ferrarotti, William Kluback, Giuseppe Martano, William L. McBride, Sergio Moravia, Guido Morpurgo Tagliabue, Antimo Negri, Karl-Otto Apel, Fulvio Papi, Augusto Ponzio, Pietro Prini, Renzo Raggiunti, Aurelio Rizzacasa, Tom Rockmore, Carlo Sini, Pierre Taminiaux, Xavier Tilliette, Gianni Vattimo, Donald Phillip Verene, Sergio Vuskovic Rojo, Bernhard Waldenfels, Frédéric Worms. E tanti, tanti altri studiosi di forte prestigio.
Parimenti, non può mancare, in una nota introduttiva di questo tipo, la
segnalazione del ruolo che “Segni e comprensione” ha avuto nella presentazione del pensiero femminile, in generale, e di quello “della differenza”,
in particolare. Ecco un breve elenco di alcune delle filosofe e donne di cultura che hanno scritto sul nostro quadrimestrale: Francesca Brezzi, Liliana
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Cavani, Françoise Collin, Giulia Paola Di Nicola, Margarete Durst, Marisa
Forcina, Luce Irigaray, Luisa Muraro, Paola Ricci Sindoni, Elisabeth Young
Bruehl, Chiara Zamboni…
Non sono liste che chiudono un discorso: anzi ne aprono un altro in piena continuità di interessi e di stile. Piace riprendere quello che scriveva Angela Ales Bello introducendo la ventesima annata (2006) della rivista: “Rileggo, con quel velo di nostalgia che danno sempre i ricordi, ciò che ho
scritto nel primo numero del 1997, che inaugurava il secondo decennio di
‘Segni e comprensione’. Riscriverei le stesse parole di apprezzamento e di
soddisfazione per il cammino compiuto in questi ultimi anni; pertanto, credo che l’auspicio, con il quale concludevo il mio intervento, si sia realizzato; dicevo, infatti, che sarebbe stato opportuno che la rivista non abbandonasse il cammino intrapreso e aggiungevo: ‘se vorrà aprire nuove piste,
continui a seguire sempre con un atteggiamento di ascolto, di partecipazione, ma anche di attenzione critica, ciò che si viene elaborando nel mondo
filosofico contemporaneo, pronta ad intervenire con prese di posizione meditate e autonome’ […]. La ragione dell’esistenza di una rivista si misura
non solo dal suo valore oggettivo, ma anche dall’interesse che suscita […];
mi rendo conto dell’opportunità, anzi della necessità di proseguire questo
lavoro”.
Impegno che noi vogliamo rispettare insieme a tutti coloro che sinora
sono stati autori e lettori di questa piccola impresa culturale e filosofica.
Gennaio 2011
9
CHARLES RENOUVIER
LA BEATITUDINE COME MORTE (1844)
a cura di Marisa Forcina
L’essere di Dio e quello di una creatura, per esempio dell'uomo, si oppongono costantemente l'uno all'altro, in qualunque modo siano ottenute,
d'altronde, le idee che li rappresentano. In essi si oppongono, da una parte, il necessario e il perfetto, in cui l’esistenza incondizionata rinchiude una
potenza, una estensione, una durata d'essere senza limiti, e, dall'altra parte, il contingente e l'imperfetto di cui l’esistenza condizionata implica delle
facoltà mutuate, finite, passeggere.
Il fine di ogni dottrina teologica è di produrre una idea della divinità conforme, per quanto possibile, alla natura divina stessa; poi di svelare i legami dell'essere deperibile e dell'essere eterno; infine, mettendo così l'uomo
nella prospettiva del nulla di sé e della contemplazione di un ideale impersonale, la cui santità gli compete, di farlo rinunziare alle soddisfazioni illusorie della sua vita e di ricondurlo alla salvezza al di là della vita, al di là
delle vite.
Così, più un sistema religioso esalterà l'ideale divino, più sarà dominato dai principi del panteismo, fino a che non perviene a dichiarare che la
creatura non è niente se non è in Dio; che in lui solo sono la sua origine e
la sua fine, e la stessa sua vera natura, al tal punto che essa non ha che
da innalzarsi verso il suo signore e rinunziare al tentativo puerile e condannabile del distinguersi da lui.
Ma questo scorcio di sistemi religiosi non è completo. Occorre aggiungere che una religione che si appoggi sempre su qualche rivelazione divina, dando all'uomo alcune leggi da seguire, alcune regole di condotta di
questa vita transuente, che riconosca infine come piena necessità il potere umano di meritare e di demeritare, di avvicinarsi a Dio o di allontanarsene, che riconosca, infine, di conseguenza l'uso della libertà morale e,
quindi, questa stessa libertà, che una religione, diciamo, deve sempre consacrare in qualche maniera il principio della personalità divina e della personalità umana e respingere così la seconda proposizione caratteristica
del panteismo [negazione della pluralità delle creature e della "persona"
umana].
Noi deduciamo da questa semplice analisi, agevolmente confermata
dai fatti più conosciuti della storia religiosa, che il panteismo, accettato dal11
la teologia in ciò che ha di affermativo, vi si trova respinto in ciò che ha di
negativo, e che i princìpi opposti dell'essere totale [tout être] di Dio e dell'essere distinto dalla creatura vi sono egualmente "riconosciuti. Noi non
crediamo che ci sia bisogno di riflessioni più profonde per essere condotti
a vedere in questo mistero, perché occorre certo dargli questo nome, il fondamento essenziale di ogni religione.
Risalendo dal conosciuto al non conosciuto, o dal recente all'antico, indicheremo la breve rassegna storica da fare per verificare ciò che abbiamo poco fa proposto. Il panteismo, in ciò che ha di positivo, si trova espressamente formulato da quasi tutti i dottori cristiani, e dai migliori. Si conosce
questa affermazione di San Paolo citata dappertutto: In Deo vivimus, movemur et sumus. I libri ascetici sono pieni del nulla della creatura in sé e
dell'essere totale di Dio. È sufficiente leggere un padre della Chiesa o il primo che capiti dei libri di Bossuet, di Fénelon, per riscontrare alcuni passi
che Spinoza avrebbe sottoscritto. Pascal ci sbigottisce quando paragona
l'uomo a Dio; Malebranche, infine, appoggiandosi a Sant'Agostino, ci prova che le nostre idee sono le idee di Dio, che possono essere partecipate
da noi; che senza Dio, fuori di Dio, la nostra intelligenza, vale a dire tutta
la realtà del nostro essere, deve morire e che non troviamo neanche in noi
la conoscenza della nostra anima, che coincide con noi stessi.
Se Malebranche fosse stato un pensatore ostinato che avesse preferito, come Spinoza, la scienza eterna alle religioni positive, è permesso pensare che la volontà sarebbe stata, come il pensiero, da lui sacrificata all'essere totale, a colui che ci ha creati, che ci conserva, e senza il quale ricadremmo senza scampo nel nulla. Ma il cristianesimo vuole che l'uomo sia
libero, che agisca e Malebranche era cristiano. In una parola, gli stessi
Dottori ci insegnano che dio è essenzialmente l'essere unico, il solo potente, il solo intelligente, il solo amore; insegnano che l'uomo ha ricevuto da
lui un essere proprio, fino al potere della rivolta e al potere di costituirsi un
regno nel regno.
Gli Ebrei hanno scritto nei loro libri santi la grandezza di Dio in lettere
sfolgoranti, ma questi stessi libri sono pieni di esempi della rivolta della
creatura, in conseguenza della sua individualità, della sua — per così dire
— distintività. Eva e Adamo nei tempi mitici, un gran numero di re e tutta
intera la nazione eletta nei tempi storici, si staccano da Dio; Dio stesso, per
quanto sia grande, è raffigurato con tratti umani, e si può dire che presso
questa nazione eminentemente terrena e legislatrice, ma molto poco portata alla scienza e alla teologia, il panteismo gioca il minor ruolo possibile.
Il panteismo apparve con fragore al tempo della Kabala sotto l'influenza dei
maghi, dei filosofi, dei cristiani, e anche allora l'esser persona [personnalité] dell'uomo e quello di Dio vogliono essere rispettali. Ma nelle antiche
idee della Giudea, [il panteismo] è rappresentato solo attraverso la poten12
za totale [toute-puissance] di Dio che, attraverso un atto totale della volontà, può restituire l'uomo alla polvere e al nulla.
La Grecia, come la Giudea, lascia molto all'uomo e crediamo di scorgere in questa tendenza, che distingue queste due nazioni da tutte quelle
dell'Oriente, una delle grandi cause della fortuna ottenuta dalle loro idee e
dell'influenza profonda e prolungata che non hanno cessato ambedue di
esercitare sullo sviluppo del pensiero e delle società dei moderni. Il Dio dei
Giudei e alla portata dell'uomo, è il suo legislatore, il suo custode, il suo signore nel senso stretto della parola; gli Dei dei Greci sono padri degli eroi,
gli eroi sono padri degli uomini, e tutto ciò che v'è di esseri superiori esercita una continua azione sul destino degli uomini.
Al di sopra di questi dei antropomorfi, c'è certo una fatalità che li lega;
essi hanno avuto le loro vicissitudini e qualche cosa al di sopra di essi li,
avvolge, li circonda e li trascina. Il principio del panteismo governa, così,
ma da molto in alto, la religione popolare: quale che sia la sua origine, s'insegna apparentemente nei misteri; viene portato alla grande luce nei sistemi filosofici. Nondimeno, la persistenza della religione popolare o del politeismo lo prova, mai il panteismo si estende a tal punto da distinguere la
credenza nelle persone divine: in quella del Dio sovrano e in quella degli
uomini, che, anche nei tempi più antichi, sotto la forma di ombre quasi vane, sono visti come immortali. La vita eterna dell'uomo, anche prima che
l'immortalità dell'anima sia elencata tra i misteri, è conosciuta meglio in
Grecia che in Giudea, ma presso le due nazioni la persona umana è grande e rispettata; né la natura, né la teocrazia, né la schiavitù giungono a piegare la potente libertà di questi popoli.
Gli Egiziani, i maghi e gli Indù ci offrono, nei tempi della più alta antichità, dei sistemi religiosi il cui studio è facile, perlomeno per gli scorci sommari che noi cerchiamo. Sotto un governo teocratico, con dei corpi sacerdotali potentissimi, a dispetto dei miti numerosi che testimoniano il culto
della madre-natura e del sole fecondante, è certo che gli Egiziani avevano
consacralo l'immortalità dell'anima, e organizzato un sistema ultratemporale di pene e di ricompense adatte ai meriti della vita. È probabile che una
sorta di politeismo, sviluppo simbolico di un domma panteistico sovrano,
avesse precisamente per risultato in teoria di soddisfare alla distinzione
delle persone nel senso dell'universo, e per risultato pratico di condurre alla fondazione di uno stato civile e religioso nella società.
Il politeismo ci sembra, del resto, aver tenuto lo stesso ruolo eccellente, lo si vede, e che può essere benedetto, nelle altre dottrine orientali e,
in particolar modo, in quella dell’India, dove i Greci hanno dovuto in parte
attingere. La teologia dei maghi, al di sopra di questi due grandi principi del
bene e del male, immaginò, come si sa, una moltitudine di ordini di creature angeliche che gli Ebrei e i cristiani loro chiesero in prestito. L’angelo13
logia, per così dire, rappresentò dunque e fondò, grazie alla personificazione di Ormutz e di Arman, la distinzione necessaria delle creature in Dio e
nel mondo; è così che gli angeli e i santi costituiscono anche più tardi una
sorta di politeismo prezioso nel seno stesso del cristianesimo. Ma quali
siano state la realtà, l’universalità di queste credenze politeistiche così utili, così consolanti in ogni sistema religioso, è chiaro che, indipendentemente da questa fede, fatta per la folla o piuttosto da essa, il panteismo non
smise di dominare le grandi teologie dell’Oriente.
Esso, secondo che si fosse esteso più o meno nella immaginazione dei
solitari e degli asceti, attraverso la speculazione dei filosofi che interpretavano i libri sacri, arrivò a distruggere o a compromettere la libertà, diciamo
meglio: resistenza dell’uomo e di Dio. Un meraviglioso sistema che si è
spesso ridicolizzalo o calunniato, perché non lo si è saputo comprendere,
uno di quei sistemi che rinnovati, trasformati nella scienza umana, non sono che la verità stessa quando si può affrancarli dalle loro forme passeggere e caduche, il sistema delle metempsicosi, cioè, stabiliva così nella
teologia dell’India il principio della distinzione delle creature; e, attribuendo
loro un essere proprio, tentava di spiegare le loro modificazioni troppo visibili.
È dunque a questo sistema che il panteismo doveva agganciarsi quando diveniva molto forte per dispiegare liberamente la sua virtù negativa.
L’asceta indù si propose per fine supremo di evitare la metempsicosi e di
superare la vita delle rinascite e delle prove: la salvezza così ottenuta non
differiva dall’annullamento, così come vedremo più tardi, quando torneremo
sulla questione della beatitudine. E, in effetti, certo è il nulla che la filosofia
sanckia, una delle più famose dell’India, fece scorgere come il summum
della speculazione, mentre la vedanta, perfettamente ortodossa, pose la liberazione nella identificazione con Dio. Infine, il buddismo, potente religione uscita dall’India, e che unisce ancora oggi tanti milioni di credenti, insegnò ai suoi fedeli a guadagnare, attraverso la santità della vita, la grazia di
elevarsi al di sopra del mondo dei mutamenti, di sfuggire alla migrazione
delle anime, e di tuffarsi per sempre nell’estasi e nell’apatia. Là è il trionfo
del panteismo come religione. Ma si può credere che le masse popolari, per
quanto sfortunate che fossero sotto il regime delle caste e per quanto sottomesse dal braccio del conquistatore, non hanno mai compreso una devozione così raffinata, né sospirato per il nulla di una vita così divina.
***
[…] La prova antica e famosa dell’esistenza di Dio, data attraverso l’ordine del mondo, conserva ai nostri occhi tutto il suo valore e crediamo che
tra le confutazioni che né sono state date, quella che consiste nell’ideali14
smo assoluto e nel ridurre tutto al nostro intelletto, anche il mondo oggettivo, è la sola che abbia vera portata; ma a questa dottrina ripugna la credenza. Non potremmo, è vero, respingerla, ma anche non potremmo crederci. Sottolineiamo ancora per di più che questa prova, presa dall’ordine
del mondo, è la sola, se escludiamo tutte le prove metafisiche, che faccia
conoscere dio come Verbo, come una intelligenza, come il creatore e il
conservatore dell'universo. Sola essa ci permette di concepirlo come una
persona che pensa e che agisce per il bene del nostro intelletto e della nostra vita; essa ci ispira l'idea di indirizzarci a lui attraverso la preghiera.
Senza dubbio, la provvidenza non agisce che attraverso vie generali; le
leggi che essa ha creato sono gli strumenti della sua volontà e delle sue
operazioni. Ma chi ci dice che queste leggi non ammettano, tra gli innumerevoli casi particolari che esse rinchiudono, gli slanci del nostro amore e le
rassicuranti simpatie della volontà suprema che discende sino ad esso?
Non abbiamo visto che Dio era in noi come una delle monadi suscitate nel
suo infinito? Ma, diversamente da noi, come la monade assoluta nel cui
seno è nato l'universo, ancora diversamente da noi, come la monade centrale che conosce e governa tutte le cose, occorre che, grazie alle divisioni reali di questa indissolubile trinità, egli realizzi nello stesso tempo la volontà, i desideri,la felicità di ciascuno dei suoi figli.
Si ricordi la meravigliosa concezione con cui Malebranche dà conto della Grazia, rapportando ciascuno dei suoi effetti a qualcuno dei movimenti
di desiderio o di affetto dell’uomo-Dio, considerato come uomo. Ugualmente non possiamo comprendere che, nel seno di colui che è la legge viva
dell’universo, ogni movimento d'amore, vera e santa preghiera d'una creatura, sia invariabilmente legato al movimento della volontà che, secondo la
legge, esaudisce questa preghiera nelle altre creature? La potenza degli
esseri che formano una scala infinita dall'uomo a Dio, come ce n'è un'altra
dall'ultima delle monadi all'uomo, di questi esseri che la teologia chiama
angeli, può trovarsi naturalmente chiamata a realizzare la preghiera, eseguendo la legge; e la preghiera può anche indirizzarsi a questi esseri stessi che tutte le religioni hanno lanciato nell’intervallo infinito tra la creatura e
il creatore.
La preghiera, sia che si indirizzi alla provvidenza o agli angeli, deve avere per fine di elevare la creatura e di modificare le sue relazioni o lo stato
della sua intelligenza. Ma insensato è quell’essere finito che, non comprendendo che i limiti sono le condizioni della vita, e che il male è necessario al
bene, osi sognare una sua identificazione con l'assoluto, osi tendere a realizzarla attraverso una contemplazione senza oggetto e chiederla a Dio attraverso la preghiera. Ogni essere deve chiedere di essere felice e di esserlo nella misura che si può o che Dio permette, con le altre creature che popolano il mondo; ma chi chiede la beatitudine chiede la morte.
15
Se la monade è eterna, se essa pensa sempre, se d'altronde la sola
esperienza ci insegna che noi dobbiamo morire, e se la morte non è per
noi che un fatto probabile, mentre il pensiero, eterno per natura sua, è la
nostra essenza stessa, occorre credere che altre vite ci sono destinate, dopo quella che noi conduciamo sulla terra, che altre relazioni ci sono preparate dalla legge universale che regola i movimenti e l’ordine delle monadi
nel tempo e nello spazio.
Se l'ordine si applica al mondo, questo deve essere soprattutto per regolare l'evoluzione degli esseri, in modo che ciascuno cambi seguendo una
legge determinata e, mentre rimane lo stesso essere durante tutte le sue vite, come noi rimaniamo identici a noi stessi attraverso tutti i cambiamenti di
questa vita, ciascuno possa ritrovare il ricordo delle diverse epoche, immergendo la vista fin nelle pieghe più nascoste, più lontane del suo pensiero,
dove il mondo intero e rappresentato nei suoi stati passati, presenti e futuri. Il ciclo è abbastanza vasto perché una vita infinita vi si possa distendere,
la varietà della natura è abbastanza grande perché nuove conoscenze e
nuovi piaceri ci siano riservati nell'infinita durata, Dio è abbastanza lontano
da noi, infine, e la perfezione è scandita da gradi sufficienti perché ci possiamo elevare durante tutte l'eternità senza raggiungerla.
La beatitudine, seguendo il senso che la chiesa cristiana ha consacrato con altre chiese dell'Oriente, non è che l'annullamento e la morte. Essa
si definisce negativamente attraverso la negazione di tutte le relazioni che
compongono la vita terrena, sulla sola analogia della quale noi potremmo
immaginare la vita umana. La beatitudine vuole condurci diritti a Dio, mentre la vita consiste nell'allontanarcene, a diversificarsi da lui, per non far altro che tendere verso di lui.
Se mai l'uomo, se mai il mondo, pervenissero ad assorbirsi in questa
ideale unità, ogni distinzione sarebbe abolita, il principio mortale del panteismo trionferebbe; ma il pensatore, che non rinunzia mai ad una verità
evidente, anche quando la nega, sarebbe obbligato a concepire, sull'esempio di Eraclito, di Empedocle, degli stoici e dei partigiani dell'emanazione, un nuovo innalzarsi della natura divina, il ristabilimento dei limiti e il
ritorno della vita.
da “Segni e comprensione” n. 3, anno II, gennaio-aprile 1988
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HENRY BERGSON
LA FILOSOFIA DEL XIX SECOLO
Appunti inediti di E. Cotton delle lezioni
del giovane Bergson (1887-1888)
a cura di Santo Arcoleo1
Abbiamo fatto costantemente allusione, nel corso dogmatico, alle teorie dei filosofi francesi, inglesi e tedeschi del XIX secolo. Adesso esponiamo brevemente queste teorie, cominciando con la filosofia francese.
I - LA FILOSOFIA FRANCESE
La filosofia francese del XVIII secolo era stata soprattutto sensista.
Condillac ne è il principale esponente. Questo filosofo vedeva, in ogni stato di coscienza – idea o sentimento – una sensazione trasformata o un
composto di sensazioni. Ha così spinto alle estreme conseguenze la dottrina di Locke, che sviluppa, pertanto, con un rigore ed una precisione tutta cartesiana. Giunge così ad una specie di meccanismo psicologico, dal
momento che la sensazione è l’elemento ultimo con il quale ricostruisce gli
stati interni.
Una reazione, talvolta violenta, si pronunciò, all’inizio del XIX secolo,
contro il sensismo di Condillac, e anche contro il materialismo che vi si collegava (a torto tuttavia). La scuola detta teologica pretese di fondare la filosofia su una rivelazione più o meno mascherata. Citiamo De Bonald,
Lammenais, Joseph de Maistre. L’influenza di questa scuola non è stata
considerevole. Avvenne diversamente per lo spiritualismo, che fece la sua
apparizione con Maine de Biran. Maine de Biran è un metafisico. Contro
Condillac, che riduceva tutta la realtà a fenomeno, egli sostiene che percepiamo l’anima come sostanza e che ne abbiamo conoscenza in questo
fenomeno sui generis che chiamiamo l’effort [lo sforzo]. Lo sforzo, quello
muscolare in particolare, ci rivela l’io nell’opposizione al non-io. Questa
teoria è valida soprattutto per le osservazioni psicologiche che l’accompagnano. Quanto al principio, è stato confutato dagli studi originali d’un pensatore americano del nostro tempo, William James, che ha dimostrato che
non abbiamo affatto la coscienza immediata di uno spiegamento di forza
nel senimento di sforzo muscolare, ma che invece percepiamo una contrazione dei nostri muscoli: si tratta di una sensazione, ossia di un fenomeno
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come gli altri. Royer-Collard ha introdotto in Francia le teorie della filosofia
scozzese; attraverso questa ha esercitato un’influenza considerevole, benché sia stato un oratore piuttosto che un filosofo. Ma i due principali rappresentanti dello spiritualismo francese, sono stati, indubbiamente, Jouffroy e Victor Cousin. Jouffroy è il più grande fra i due. Le sue riflessioni sulla facoltà dell’anima, sulla distinzione del principio vitale e del principio
pensante, sull’estetica e la morale, appartengono ad un pensatore profondo. Tuttavia è stato ecclissato da V. Cousin, oratore brillante, filosofo erudito anzicché profondo, creatore dell’eclettismo.
Cos’è l’eclettismo? Victor Cousin ha creduto di sottolineare che i sistemi filosofici sono condannati: 1) a contraddirsi gli uni e gli altri; 2) a riprodursi periodicamente in un ordine regolare. Questi sistemi, secondo lui, sono quattro. Si comincia con il sensualismo (che Cousin confonde con il materialismo); al sensualismo si oppone ben presto l’idealismo. Comincia allora una discussione fra i sensualisti, che lasciano ampio spazio alla materia, e gli idealisti, che tengono per lo spirito. Questa discussione termina
nello scetticismo, terzo sistema, in cui il pensiero, inquieto, non può indugiare a lungo: ha bisogno di credere e poiché gli è stato insegnato a diffidare di se stesso, non gli resta altro che il misticismo. Così sensualismo,
idealismo, scetticismo e misticismo, ecco il cerchio in cui la filosofia è costretta a girare. D’altro canto, bisogna che ognuno di questi sistemi contenga una parte di verità; se no non si spiegherebbe affatto il ritorno periodico. Da questo V. Cousin conclude sulla necessità dell’eclettismo, ossia
d’una scelta intelligente fra le opinioni professate dai (sistemi) più opposti.
Quale sarà la regola di questa scelta? Il senso comune, perché si sceglierà nei sistemi quello che essi hanno di più ragionevole. V. Cousin praticò
questo metodo: credette di piazzarsi ad eguale distanza fra realismo ed
idealismo, tra l’empirismo ed il razionalismo, per mezzo della sua dottrina
delle percezioni e di concezioni: noi percepiamo i fenomeni, dice, d’altra
parte noi concepiamo le cose e le verità assolute che sorpassano infinitamente i fenomeni, ossia l’anima, la sostanza, lo spazio, l’infinito, il vero, il
bello, il bene. Dottrina molto oscura, perché infine, che s’intende qui per
“concezione”? Non è né l’intuizione sensibile, né la preformazione nel senso leibnitziano: è come una rivelazione interiore.
Il principio stesso dell’eclettismo è contestabile. I sistemi filosofici sono
opere d’arte; sarebbe tanto chimerico voler costruire una dottrina metafisica con i frammenti ricavati dai più grandi filosofi come pretendere di fare
una statua con un corpo, una testa, delle braccia e delle gambe differenti
ricavate da opere di sculture differenti, anche se di primo ordine. In che
modo il senso comune sarà giudice, del resto? Quale la sua competenza
in materia scientifica? Nessun fisico, nessun astronomo si rimetterebbe alla pretesa intuizione del senso comune: come sarebbe più competente nel18
le materie che esigono una conoscenza più approfondita e sintetica di tutte le scienze? E tuttavia l’eclettismo francese non è una filosofia priva di
valore: noi gli dobbiamo la rinascita della storia della filosofia ed anche del
metodo psicologico d’osservazione interna che Cousin raccomandò costantemente, anche se non sempre lo praticava.
Accanto allo spiritualismo, così brillantemente rappresentato da Maine
de Biran, Royer-Collard, Jouffroy, Cousin ed i loro discepoli, nasceva e si
sviluppava una filosofia chiamata ad avere un grande ruolo nella seconda
metà del secolo. Auguste Comte, matematico e filosofo, è il fondatore del
positivismo ed il vero ispiratore di Stuart Mill e soprattutto di Herbert Spencer, sebbene questi filosofi non abbiano mai voluto riconoscere l’influenza
francese. A. Comte muove da quest’idea che l’umanità abbia attraversato
tre fasi o tre periodi: 1) il periodo teologico, durante il quale si spiegano le
cose con l’intervento di forze sovrannaturali; 2) il periodo metafisico, durante il quale si scelgono come principio di spiegazione delle entità, ossia
astrazioni che vengono considerate realtà, come le Idee di Platone, le Forme di Aristotele, il Pensiero e l’Estensione di Descartes, le monadi di Leibnitz; 3) il periodo positivo, nel quale entriamo con le scoperte scientifiche
dei nostri giorni. È venuto il momento di proclamare che tutta la realtà risiede nel fatto di esperienza, nel fatto constatato. Si tratta di osservare i
fatti, di elevarsi con l’induzione alle leggi: si bandirà la metafisica come
scienza vuota, che agisce sulle parole, o che, quando si occupa delle cose, le sceglie inconoscibili. Quale sarà dunque il ruolo della filosofia? Sarà
quello di raggruppare i risultati generali ottenuti con le scienze positive, ma
impedendosi di formulare alcuna ipotesi. A. Comte non s’è preoccupato di
tracciare il piano di quest’opera; l’ha costruita: il suo Corso di filosofia positiva è un’opera considerevole, che contiene una classificazione originale
delle scienze (di questo parlo nel corso di metafisica), e tutti i risultati delle scienze matematiche, fisico-chimiche, biologiche e sociologiche, vi sono
condensati e criticati con una rara profondità. A. Comte ha creato il termine “sociologia” e, fino ad un certo punto, la cosa stessa. La distinzione fra
l’egoismo e l’altruismo, la pretesa di ricondurre l’altruismo (all’egoismo) si
trovano già in A. Comte, al quale H. Spencer ha improntato le sue idee. Noi
abbiamo criticato il positivismo. Dobbiamo anche aggiungere che le dottrine di A. Comte hanno una generalità squisitamente metafisica e che A.
Comte è un metafisico veramente inconsapevole. La tendenza al misticismo, che si manifesta in alcuni passi dei suoi scritti, diventa manifesta a
mano a mano che il filosofo avanza negli anni. Egli creò una vera religione, che si confuse con il saint-simonismo.
Siamo anche spinti a parlare delle dottrine socialiste dell’inizio di questo
secolo, parenti prossimi del positivismo. Il socialismo francese ha origine all’interno della reazione contro l’ottimismo classico degli economisti inglesi.
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A. Smith ed i suoi successori, in Francia ed in Inghilterra, s’erano sforzati di
mostrare l’accordo dell’interesse particolare e dell’interesse generale; pretendevano che, lasciando libero gioco alle forze sociali, si sarebbe arrivati
al massimo della ricchezza e della felicità, che tutto andava per il meglio e
che lo stato doveva guardarsi dall’intervenire. L’essenza del socialismo è
questa idea che le forze individuali, lasciate libere a se stesse, giungevano
ad una mostruosa diseguaglianza, all’oppressione del forte sul debole; occorre che intervenga una forza intelligente per far regnare la giustizia e rendere proporzionato il benessere allo sforzo. Questa idea Saint-Simon e
Fourier la sviluppano in due modi differenti: il primo in un senso autoritario,
il secondo nel senso liberale. Saint-Simon vuole uno Stato onnipotente, in
cui i cittadini siano raggruppati in ordine gerarchico: sapienti, artisti, industriali ed operai e, come nella Repubblica di Platone, l’inferiore obbedisce
qui al superiore – ogni libertà è abolita; ma, per contro, ognuno è remunerato in proporzione alle sue capacità, in proporzione alle sue opere. L’opinione di Saint-Simon è varia: ha lasciato uno spazio sempre più esteso agli
industriali; la sua filosofia è diventata una vera religione.
Fourier si affida maggiormente alle affinità naturali. Ha scoperto una
grande legge, che deve avere, nella società, lo stesso ruolo della legge
d’attrazione nell’universo naturale, ossia che ognuno, nonostante le apparenze, è disposto a lavorare. La ripugnanza di ognuno per il lavoro deriva
dal fatto che non si consultano i propri gusti. Supponete che la società sia
costituita in modo tale che ognuno lavora secondo la propria inclinazione,
il lavoro diventerà un piacere, e la società produrrà il più gran numero di
ricchezze; non resterà che distribuire questa ricchezza (fra i lavoratori), in
modo proporzionale al loro merito ed al loro lavoro. Questa teoria sarà applicata nel “falansterio”, società composta da un piccolissimo numero di
membri, e nella quale la giustizia regnerà per questo solo motivo: ciascuno avrà seguito la propria inclinazione naturale. Abbiamo criticato questa
dottrina nel corso di economia politica.
II - LA FILOSOFIA INGLESE
Nel XVIII secolo l’empirismo di Locke era stato rinnovato da David Hume. Questo filosofo, che è il vero creatore dell’associazionismo, distingue
due specie di fatti psicologici: a) Le percezioni, o impressioni presenti; b)
le idee, che sono impressioni più deboli lasciate dalle percezioni anteriori.
Lo spirito si abitua ad associare queste percezioni e queste idee; quando
una associazione è frequentemente ripetuta, i due termini associati ci sembrano necessariamente uniti: da qui i principi generali della conoscenza. È
soprattutto al principio di causalità che D. Hume applica questa critica.
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Stuart Mill e Alexandre Bain rappresentano, nel XIX secolo, la stessa
tendenza filosofica. St. Mill è innanzitutto un logico; ha ripreso i punti principali della dottrina di Hume e li ha sviluppati, con una superiore precisione, in diverse opere, come L’Esame della filosofia di Hamilton, Il Sistema
di logica deduttiva ed induttiva. Alex Bain è più psicologo; soprattutto egli
ha aggiunto l’osservazione fisiologica all’osservazione psicologica propriamente detta. Citiamo la sua opera fondamentale: Il senso e l’intelligenza.
L’associazionismo inglese potrebbe definirsi: un empirismo idealista,
una combinazione delle dottrine di Locke e di D. Hume. Sono filosofi che
lasciano da parte i problemi metafisici; non si preoccupano di sapere se c’è
qualche cosa dietro i fenomeni; con questo si collegano al positivismo di A.
Comte. Ma, come Locke, si sono costantemente proposti di ricostituire le
idee con elementi semplici. Questi elementi semplici sono delle sensazioni. L’associazionista muove dalla sensazione, e, combinando le sensazioni fra di loro, pretende di ricomporre tutte le nostre conoscenze. Questa
dottrina è pertanto: I, positivista, poiché lascia da parte il problema di conoscere quale sia la causa oggettiva dei nostri stati di coscienza; II, empirista, perché nega l’innatismo e riconduce ogni fatto di coscienza alla sensazione; III, sensualista, per questa medesima ragione; IV, idealista perché, occupandosi dei nostri stati di coscienza, è molto versata ad elevare
questi stati di coscienza in una unica ed assoluta realtà.
Indichiamo adesso le grandi linee di questa dottrina. Noi proviamo delle
sensazioni, e, fra le sensazioni provate, alcune formano dei gruppi stabili;
noi rendiamo solidi questi gruppi, per così dire, sotto il nome di corpo. Il corpo esterno può dunque definirsi un gruppo di sensazioni presenti o possibili. Quanto allo spazio in cui collochiamo questi corpi, noi ne ricaviamo l’idea
combinando fra loro le sensazioni di movimento. L’Io è un aggregato: con
questo nome indichiamo la totalità dei nostri stati di coscienza (cfr. il corso).
Le altre operazioni intellettuali si riconducono ad associazioni di sensazioni
ed idee. Abbiamo indicato la classificazione di Bain. St. Mill semplifica questa classificazione; ogni associazione si fa, secondo lui: a) per somiglianza;
b) per contiguità. L’immaginazione è la facoltà di associare delle immagini.
Il giudizio è la facoltà di associare due idee: quella del soggetto e quella dell’attributo. Il ragionamento è ancora una associazione; ogni ragionamento si
riduce ad una induzione, anche se è presente una forma deduttiva (cfr. la
critica al sillogismo) e, per quanto concerne l’induzione, si tratta di un caso
particolare dell’attesa in cui ci troviamo, di un certo fenomeno, quando abbiamo percepito qualche altro fenomeno al quale era abitualmente collegato. Ci si richiama, in effetti, a come St. Mill dia per fondamento all’induzione
un principio che è stato ottenuto grazie alla stessa induzione. Siamo così
portati alla teoria associazionistica dei principi razionali: si tratta di sensazioni diventate inseparabili (cfr. il corso). Infine è ancora attraverso le asso21
ciazioni, l’associazione dell’idea dell’interesse personale a quella di interesse generale, che St. Mill spiega la morale e l’obbligazione.
Non ripeteremo qui le obbiezioni formulate contro questa dottrina a proposito di queste diverse questioni che abbiamo enumerato. Il torto dell’associazionismo è stato di misconoscere costantemente l’attività dello spirito. Esso spiega la materia delle nostre conoscenze, ma lascia da parte la
forma. Indubbiamente, decomponendo l’idea di corpo, non si troveranno
che sensazioni: l’idea di corpo è altra cosa, poiché implica l’esteriorità.
Senza dubbio, analizzando l’Io, si troveranno gli stati di coscienza: l’Io è
un’altra cosa, essendo capace di fare la sintesi di questi stati e di conservarne il ricordo. St. Mill ha riconosciuto lui stesso che non arrivava a spiegare la memoria; e si potrebbero lanciare contro tutte le teorie associazionistiche obbiezioni analoghe.
L’associazionismo doveva fondersi nell’evoluzionismo, dottrina più ardita ed originale, che s’ispira talvolta al positivismo di Comte, al panteismo
di Hegel, infine, e soprattutto, alle ipotesi più recenti della storia naturale.
Il capo di questa scuola è Hebert Spencer, che concepì l’idea di una evoluzione generale alla stessa [epoca] in cui Darwin formulava le leggi, più
specifiche, della lotta per l’esistenza e della selezione naturale. Nella sua
opera fondamentale, I Primi Principi, H. Spencer ha esposto le idee direttrici del suo sistema; le ha sviluppate successivamente, non cambiando
quasi nulla, nei Principi della Psicologia, nei Principi della biologia, nella
Sociologia, nella Introduzione alla Morale Evoluzionistica. La dottrina di
Spencer non è puramente psicologica come quella degli associazionisti. È
una cosmogonia, ossia una vasta sintesi della totalità dei fenomeni fisici,
biologici, psicologici e sociologici. Spencer comincia col tracciare una linea
di demarcazione nettissima tra il conoscibile e l’inconoscibile. Lascerà da
parte l’inconoscibile, ossia l’Assoluto, oggetto comune alla Metafisica ed
alla Religione. Solo i fenomeni ed i loro rapporti sono conoscibili; il ruolo
della filosofia non consiste nell’accanirsi nella ricerca dell’assoluto, ma di
elevarsi, per mezzo dell’induzione, alle leggi generalissime, che regolano i
rapporti fra i fenomeni. Così l’oggetto della filosofia evoluzionista è analogo a quello di Eraclito e dei primi Ionici. È certamente una cosmogonia, ma
con questa differenza che Spencer non ha più la pretesa di giungere all’assoluta realtà. Le leggi che deve formulare si applicano all’universo come ci
appare, ma non traducono forse l’essenza delle cose, che è e resta inconoscibile. È in quest’ultimo punto che Spencer si collega ad A. Comte, ma
supera infinitamente questo filosofo per l’audacia della sua dottrina. In effetti A. Comte aveva formulato i principi generali delle matematiche, della
fisica, della biologia, senza tentare una sintesi, che considerava ancora
prematura; per questo la sua opera è salda; ma Spencer, che sarebbe stato un metafisico se fosse nato mezzo secolo prima, pretende di formulare
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le leggi applicabili alla totalità delle cose: è stato – con molta profondità in
meno, è vero – l’Aristotele del XIX secolo.
Il principio da cui s’è mosso Spencer è il principio della conservazione
della forza. La stessa quantità d’energia si conserva: ecco la legge fondamentale dell’universo; tutte le altre si deducono da essa. Allora se ne può
trarre questa conseguenza: le forze si trasformano continuamente le une
nelle altre. Così il movimento diventa calore, ed il calore ridiventa movimento Luce, elettricità, forza motrice: ecco altrettante trasformazioni apparenti di una sola, stessa realtà fondamentale, che si chiama movimento
molecolare. Spencer va molto più oltre: la forza psichica, la coscienza sono aspetti di questo movimento. La forza motrice è capace di diventare coscienza, e inversamente. Così, dal principio fondamentale, deriva questa
prima conseguenza che tutte le forze della natura sono capaci di trasformarsi le une nelle altre, senza che nulla si crei o si distrugga mai.
Se la stessa quantità di forza si conserva, e se, d’altra parte, le forze
si trasformano le une nelle altre, il ruolo della filosofia è, secondo Spencer, quello di determinare il significato di questa trasformazione. Secondo
lui, questa trasformazione consiste essenzialmente in un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo; in altri termini, a mano a mano che l’universo
evolve, le sue parti si differenziano molto le une rispetto alle altre. Il motivo è che tutto ciò che è omogeneo è instabile. Guardate una foglia d’albero nei primi giorni della primavera: la superficie è omogenea; in autunno ci saranno dei fori fatti dai bruchi, ci saranno parti ancora verdi, altre
saranno gialle, altre secche. La superficie d’un campo recentemente arato è omogenea; dopo qualche settimana, o anche dopo qualche giorno
spuntano diverse erbe su punti differenti: l’omogeneo sarà passato all’eterogeneo. In una società primitiva tutti i ruoli sono confusi; nel giro di qualche generazione, caste o classi si saranno formate. I germi delle piante
sono pressappoco identici; a mano a mano che le piante crescono, essi
si differenziano. In breve, questa legge che vuole che l’omogeneo ceda il
posto all’eterogeneo si verifica in geologia, in botanica, in zoologia, in sociologia ecc. Qual è la sua causa? È che ogni realtà omogenea è sottoposta ad influenze, e queste influenze si esercitano meccanicamente,
senza alcun piano, senza alcuna idea (direttrice) né si dividono allo stesso modo sui diversi punti della realtà omogenea. Tutti i punti di una foglia
d’albero, tutti quelli di un campo non sono esposti allo stesso modo, non
subiscono le stesse influenze – la caduta della grandine, il passaggio di
un soffio di vento…; da questo deriva che l’omogeneo è instabile e che
l’eterogeneo va sempre crescendo.
Su alcuni di questi principi Spencer edifica una specie di cosmogonia.
Suppone, all’origine, una materia infinitamente tenue che riempie lo spazio; questa materia omogenea, di cui tutti i punti erano in movimento, ha
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dovuto differenziarsi nelle sue parti in virtù della grande legge dell’instabilità dell’omogeneo. Dapprima si producono, per le differenze di densità,
delle masse distinte: da qui i sistemi planetari, il nostro sistema sole-pianeti-satelliti. Consideriamo specialmente il nostro pianeta: all’inizio gassoso, poi liquido, era una massa omogenea; a mano a mano che diventava
solido, la differenza delle influenze subite dalle differenti parti della sua
crosta esterna determinava la formazione delle montagne o delle pianure, dei mari o dei continenti, e questa eterogeneità si propagava all’interno. La vita apparve grazie all’incontro felice di elementi appropriati. All’inizio l’essere vivente era una massa omogenea: il protoplasma; si sono
prodotte in seguito delle differenziazioni: gli organi, che sono appropriati
all’ambiente, perché la lotta per l’esistenza elimina gli esseri i cui rapporti interni non corrispondono alle relazioni esterne (l’evoluzionismo di
Spencer ingloba qui il darwinismo). Quanto alla coscienza, si tratta dell’aspetto soggettivo di un fenomeno cerebrale. L’essere vivente, giunto ad
una fase di eterogeneità sufficientemente avanzata, prova delle sensazioni, che non sono altro che traduzione psichica di fenomeni esterni: riflettono fedelmente quanto accade all’esterno; si seguono nello stesso ordine in cui si succedono i fenomeni esterni, in modo che quando due fenomeni hanno l’abitudine di associarsi nella natura, le sensazioni che essi risvegliano in noi si associano anche. Così nei secoli si sono accumulate le
associazioni di idee che hanno finito per radicarsi nel cervello, di cui oggi
fanno parte importante: sono i principi razionali, che Descartes chiamava
“innati” ma che sono in realtà acquisiti attraverso lo spazio e trasmessi,
ereditariamente, a tutti gli individui. Desta meraviglia che questi principi si
applicano alle cose? Assolutamente no, perché rappresentano l’esperienza condensata delle generazioni anteriori, dal giorno in cui una particella
di sostanza nervosa ha provato delle sensazioni. Per questo l’attività razionale è stata definita da Spencer come la vita stessa: un adattamento
di relazioni interne a delle relazioni esterne; in altri termini il nostro pensiero non è che un riflesso delle cose. Le società si sono formate, come
gli organismi, per l’evoluzione graduale e la differenziazione progressiva
d’una massa omogenea alle origini: come il protoplasma, sostanza omogenea, risulta dal concorso fortuito di elementi non organizzati, così il concorso fortuito di esseri intelligenti diede origine alle società primitive nella
quali non esistevano funzioni determinate, nelle quali tutto era confuso.
La diversità delle influenze subite creò caste e professioni diverse, il lavoro venne diviso a poco a poco, ognuno ebbe la sua specializzazione. Da
dove deriva il fatto che la società si conserva? Dal fatto che l’altruismo
esiste accanto all’egoismo; è come una forza d’attrazione – ma incessantemente combattuta dall’egoismo. Nello stato attuale delle cose, l’altruismo non ha ancora trionfato; ma l’educazione ha certamente per oggetto
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d’associare l’idea dell’interesse generale a quella dell’interesse particolare, in modo da mostrare o far credere che l’altruismo è un egoismo meglio compreso. Questa associazione, fortificata dall’eredità, si presenta
oggi sotto la forma di un istinto ereditario, l’istinto morale: il sentimento
dell’obbligazione non è che la coscienza che noi prendiamo di questa
specie d’impulso, istintivo peraltro. Quest’istinto non ha ancora acquisito
una forza sufficiente; ma verrà il giorno in cui, quando la società avrà completamente realizzato l’accordo dell’interesse di ognuno con l’interesse di
tutti, l’altruismo non sarà più combattuto dall’egoismo: allora lo stato
d’equilibrio sarà realizzato per la società e alla lotta degli interessi succederà l’accordo delle volontà. Ma ogni equilibrio è instabile: la tendenza fatale dall’omogeneo all’eterogeneo produrrà la dissoluzione della società
così perfezionata, come la stessa legge applicata agli organismi, ai pianeti, agli astri, li condurrà al loro stato primitivo o ad uno stato analogo. Le
cose sono dunque sottomesse ad un movimento ritmico; evoluzione e dissoluzione, ecco le due fasi necessarie: noi torniamo ad Eraclito.
Cosa pensare di questo sistema, la cui influenza è stata considerevole
e si fa sentire ancor oggi nelle scienze, nelle arti, o anche nella legislazione? Si tratta di un’ipotesi sviluppata ad arte, che si presenta accompagnata da un numero incalcolabile di fatti; ma, per la maggior parte del tempo,
le difficoltà sono eluse e l’abilità dell’esposizione maschera l’insufficienza
delle prove. Il passaggio dal disorganizzato all’organizzato, dall’organizzazione alla coscienza, dalla sensazione al giudizio, dal giudizio ai principi
necessari, dal sentimento o dall’interesse ad una legge obbligatoria, tutto
questo resta inesplicato. Se ne viene fuori per mezzo di una ipotesi ed intercalando degli intermediari; i problemi restano, tuttavia: si tratta di problemi fondamentali della filosofia che Spencer finge di trattare con indifferenza. Le leggi generali che Spencer formula sul passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo sono contestabili o almeno non sono generalmente applicabili che ad una parte dei fatti; Spencer dimentica tutti i fatti che gli darebbero torto, e, fra quelli che cita, molti sono contestati da uomini colti. Resterà
dell’opera di Spencer il tentativo lodevole di stabilire degli intermediari tra
fatti di natura differente, e di collegare le diverse scienze le une alle altre:
scienze fisiche, scienze psicologiche e morali, scienze sociologiche.
III - LA FILOSOFIA TEDESCA
Si possono distinguere, fra i successori di Kant, 1) i panteisti; 2) i materialisti; 3) gli psicologi della scuola fisiologica sperimentale.
1- I panteisti. Kant aveva vietato alla ragione la conoscenza delle cose
in sé, affermandone qualche cosa; attribuiva al principio di causalità un va25
lore trascendente. Così la sua “critica”, destinata a cancellare ogni metafisica futura, non tardò a generare una nuova metafisica.
Era naturale, effettivamente, chiedersi qual è l’origine delle forme a
priori della sensibilità e delle categorie dell’intelletto. Kant le considerava
come date; ma non se ne potrebbe cercare la genesi? Si supporrà, allora,
che queste forme si siano disegnate a poco a poco, che “la cosa in sé” è
lo spirito, il quale, obbligato a pensare degli oggetti, s’è imposto le leggi di
tempo e di spazio, di causalità ecc. Da qui un panteismo, che è idealistico
in Fichte e Schelling, realistico in Hegel. Ciò che Schelling chiama Assoluto, Fichte lo chiama Io ed Hegel Idea. Non entriamo nei dettagli di questi
sistemi. Diciamo soltanto che il panteismo tedesco del XIX secolo differisce dal panteismo spinozista perché ammette l’idea di evoluzione o di progresso. Schelling pensa che l’Assoluto prende di più in più coscienza di se
stesso nella scienza, nell’arte e nella religione. Hegel ci mostra l’Ideale che
si realizza di più in più sempre più chiaramente, in virtù di una spinta interna verso l’esistenza. Il merito di questo filosofo è di avere colto e formulato il principio esenziale di ogni panteismo: l’identità dei contrari nell’assoluto. Secondo Hegel la legge di non contraddizione non è che una legge del
nostro pensiero; non si applica alla realtà considerata in sé. La realtà è
contraddittoria; è la nostra logica semplice che esige la non contraddizione. Kant aveva avuto la pretesa di mostrare che non cogliamo la realtà assoluta perché, dal momento che ragioniamo su di lei, giungiamo alle antinomie. Ebbene, per Hegel questa contraddizione è segno che noi cogliamo la realtà assoluta: idea profonda, che illumina di un giorno del tutto nuovo la filosofia. Abbiamo mostrato che il movimento, la materia, la libertà,
sollevano contraddizioni insolubili (cfr. i sofismi eleatici, le antinomie di
Kant, gli argomenti del determinismo), e tuttavia il movimento, la materia,
il libero arbitrio sono delle realtà. Il tratto di genio è stato di stabilire una distinzione fra la logica del nostro spirito, sottoposta alla legge di non-contraddizione, e quello che si potrebbe chiamare la “logica” dell’Assoluto, che
non è affatto retta da questa legge.
Colleghiamo alle dottrine di questi filosofi la dottrina di Schopenhauer e
quella di Hartmann, benché Schopenhauer abbia vivamente attaccato Hegel
e pretenda di collegarsi unicamente a Kant. Ciò che Fichte chiama “l’Io”, Hegel “l’Assoluto”, Schopenhauer lo chiama “la Volontà”, Hartmann “l’Incosciente”. L’originalità di questi due filosofi è stata di constatare che l’evoluzione non si faceva nel senso del progresso, ma, al contrario, l’Essere diventa
di più in più miserabile a mano a mano che prende coscienza di se stesso.
2- I materialisti. Dall’hegelismo è venuto il materialismo. Buchner, Moleschott, Carl Vogt ecc., riprendendo argomenti degli antichi, fanno del pensiero una proprietà della materia. Essi si fondano soprattutto sui rapporti del fisico con il morale, sotto l’influenza delle sostanze tossiche, su certi risultati,
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molto contestabili, delle scienze fisiologiche ecc. Ma il materialismo, come
ogni metafisica, doveva cedere il posto alla filosofia positiva. Noi constatiamo, in effetti, l’abbandono simultaneo delle ricerche metafisiche in Germania
ed in Inghilterra; la filosofia si riduca ad una psicologia sperimentale.
3- La psicofisica e la psicologia fisiologica. Alcuni fisiologi, che sono anche psicologi, si chiedono se non bisognerebbe sostituire, all’antico metodo psicologico dell’osservazione interna, i procedimenti della sperimentazione e di misura delle scienze fisiche e fisiologiche. Citiamo Lotze ed Helmoltz. Fin qui questa scuola s’è data molta pena per giungere ad un assai
mediocre risultato. Ciò che c’è di meglio nell’opera di Wundt è un’analisi
delle sensazioni in cui egli si vede costretto a dare altrettanto spazio alla
sensazione interna che alla sperimentazione fisiologica. Abbiamo citato i
lavori di Lotze e di Helmoltz relativi alla nozione di spazio; essi hanno costruito una teoria empiristica (teoria dei segnali locali).
Più originale è il tentativo degli psicofisici. Weber è il primo che abbia
pensato di stabilire una relazione tra la sensazione e l’eccitazione. È stato
seguito da Fechner, che credette un istante, per la sua pretesa legge psicofisica, di aver trasformato il problema dei rapporti fra il fisico e il morale.
È stato necessario contestarlo: questa “legge” è contestata da tre punti di
vista: lo sperimentale, il matematico, il filosofico.
Ho già esposto in sintesi2 alcuni temi ed orientamenti del giovane Bergson, risalenti al periodo del suo insegnamento al Liceo di Clermont conclusosi nell’anno scolastico 1887-1888, che ci sono stati trasmessi tramite il
quaderno di filosofia del giovane Emile Cotton. Si tratta di appunti presi durante le lezioni al liceo di Clermont, che come ci ricorda J. Guitton3, erano
preparate solo dieci minuti prima che cominciasse il corso, al contrario di
quanto accadeva per quelle fatte al liceo Henri IV o alla Scuola Normale a
Parigi, che richiedevano una accurata preparazione perché “Parigi non vi
perdona nulla”4. A Clermont, Bergson si sentiva realmente “chez soi”: poteva dare ascolto alla sua natura più intima, dedicandosi agli studi fin dal primo mattino, alternandoli con lunghe passeggiate, esercitandosi talvolta anche alla scherma. Durante le ore di lezione, nelle quali amava passeggiare5,
parlava lentamente, con una voce grave, composta, limpida, scorrevole,
senza esitare; questo consentiva agli alunni di poter scrivere con comodo le
sue argomentazioni. M. Conche6 ha rilevato che nelle lezioni al liceo Bergson
non lasciava trasparire l’impegno di grande studioso e cercava di tenere nascosta la sua alta professionalità e gli ambiti della sua ricerca. L’insegnamento liceale lo viveva come impegno teso a preparare, nel miglior modo possibile, gli allievi ad affrontare le difficili prove del baccalaureato. Al liceo di Clermont ebbe come allievi, fra i molti, i due fratelli Cotton: Aimé, il maggiore, di
cui restano alcune dissertazioni corrette di suo pugno, e Emile, che ci ha trasmesso integralmente il corso di filosofia del 1887-88, completo nelle quat27
tro sezioni previste dal programma: psicologia, logica, morale, metafisica, cui
vanno aggiunte le lezioni di storia della filosofia sollecitatata dalle ultime disposizioni ministeriali7. Bergson apprezzava il ruolo della storia della filosofia, indispensabile ad ogni ricerca filosofica che non si limitasse all’esposizione di conoscenze soggettive. La storia della filosofia non enuncia affatto una
serie di contraddizioni o di contrapposizioni fra i sistemi o i filosofi, ma esplicita l’evoluzione continua del pensiero. Ogni sistema può assimilarsi a quanti lo hanno preceduto, ma di solito tende anche ad un punto di vista superiore. Proprio come la metafisica, scienza perennemente incompiuta, lo spirito
umano va oltre ogni realtà oggettuale e vive nel rapporto continuo e nello
scambio ininterrotto fra il pensiero e le cose.
Bergson mostra un grande interesse per gli scritti di storia della filosofia.
Si dice che tenesse nel suo scrittoio gli appunti di filosofia presi nel corso di
B. Aubè, filosofo di ascendenze cousainiane, suo insegnante al liceo Condorcet; e li richiama nei suoi corsi al liceo di Angers, per contrastare e contestare l’inadempienza della psicologia nella filosofia. I manuali, a cui fa ricorso sono: P. JANET, Traité élémentaire de philosophie, Delagrave, Paris 1880; E. RABIER, Leçons de philosophie, Hachette, Paris 1884; P. JANET et G. SÈAILLES, Histoire de la philosophie. Les problèmes et les écoles, Delagrave, Paris 1887.
“Legge queste opere come Montaigne leggeva Diogene Laerzio. È debitore,
nei loro confronti, di indicazioni, di suggestioni, ma è avaro dell’attezione che
attribuisce loro. Anche Kant faceva uso dei manuali, e si trattava di Kant!”8
Il problema teoretico del significato della “storia della filosofia” non è stato alla base delle preoccupazioni filosofiche di Bergson. Tutto quanto è legato o condizionato dal problema della storia potrebbe sembrare assolutamente estraneo ai suoi interessi, anche se il mondo della storia e la realtà
storica non erano poi del tutto distanti dalle sue meditazioni. Bergson è stato il filosofo della “durata”, considerata nel suo svilupparsi dell’individuale e
messa al centro del divenire sia delle specie animali che delle società umane, nell’ambito di una filosofia che potremmo considerare evoluzionista.
Bergson impiega poche volte il termine “storia” nelle sue opere e con un significato non sempre preciso ed univoco. Si vedano, ad esempio, le pagine
significative dell’Essai sur les données immédiates de la conscience, in cui
la storia è concepita come l’insieme degli eventi che compongono una vita
umana9, oppure si consideri il concetto di vita e di organismo nell’Evolution
créatrice10 e soprattutto nella conferenza del 1911, La conscience et la vie,
in cui il concetto di storia è adoperato in funzione della successione di avvenimenti. Il concetto di “scienza storica” si precisa in La Pensée et le mouvant e, anteriormente, in Les Deux sources de la morale et de la religion11.
A questo proposito scrive R. Aron12 che se, in qualche modo, si cerca di
caratterizzare come “storico” il pensiero di Bergson, “si prova anche una certa difficoltà a comprendere ciò che in esso corrisponde alla filosofia della sto28
ria, nel senso che questo termine assume nella tradizione che da S. Agostino va fino ad Hegel. La difficoltà nasce innanzitutto dal rifiuto di porre una
frattura fra la vita e lo spirito o fra le specie e l’uomo […]. Le filosofie classiche della storia, di cui Hegel è il rappresentante più grande e più incisivo,
mettono l’umanità a parte della vita, collegano la storia all’essenza umana e
danno un significato a questa storia perché in essa e per mezzo di essa si
compirebbe la vocazione dell’umanità. L’uomo avrebbe una storia non per
accidente, ma in relazione alla sua storicità. La successione degli imperi e
delle civiltà, delle società prospere e delle catastrofi costituirebbe una unità,
perché si orienterebbe verso un termine finale, che non avrebbe potuto essere raggiunto senza questo lungo e tragico cammino. In Bergson manca la
filosofia della storia, nel senso in cui c’è una filosofia hegeliana della storia,
ma i temi bergsoniani – durata, evoluzione creatrice – soffrono se vengono
trasposti nella realtà della storia umana e della conoscenza storica”.
Ridurre la storia all’adagio positivista ancorato alla restituzione del passato wie es geschehen ist è del tutto distante dal pensiero e dalla formazione intellettuale di Bergson che, fondando la filosofia sulla dimensione
della temporalità, non intende ripristinare una concezione evoluzionistica
della storia, ma le contrappone una concezione “creazionistica”, riproponendo come fondamento dell’intero conoscere ed agire “la libertà”, ancorata al concetto di “effort”, che caratterizza “l’evoluzione creatrice”.
Le opere di Bergson nascono da un confronto costante ed ininterrotto
con le filosofie del passato e del presente. I temi del disagio “teoretico”, il
nulla, il disordine, le aporie, i falsi ragionamenti e le contraddizioni linguistiche si confrontano se con le sue prospettive innovatrici che, muovendo
dalla scienza, si articolano sulla logica, l’etica, la metafisica; di quest’ultima
il tempo e la durata sono le vie maestre per una radicale revisione e per la
confutazione di ogni dottrina delle Idee.
Considerare la filosofia nella dimensione della temporalità ci può condurre a scoprire i momenti della maturazione e della creatività dello spirito
filosofico. “Materia o spirito, la realtà non è che un perenne divenire. Si fa
o si disfa, ma non è mai qualche cosa di fatto”13. La filosofia, nel suo farsi,
e quindi nella sua realtà storica, getta il suo sguardo sulla sua storia. La
storia della filosofia, pertanto, si giustifica come consapevolezza della realtà del movimento per la compiutezza della filosofia tout-court.
da “Segni e comprensione” n. 58, anno XX, maggio-agosto 2006
29
MALWIDA VON MEYSENBURG
Riproduco, nella mia traduzione italiana, il testo dedicato alla Storia della filosofia
del quaderno Cotton.
2 S. ARCOLEO, H. Bergson e la Metafisica. Note in margine al corso inedito al liceo di
Clermont, a.s.1887-1888, in Ethos e cultura. Studi in onore di E. Riondato, a cura di E. Berti, F. Chiereghin, V. Milanesi, E. Poppi, Antenore, Padova 1991, vol. I, pp. 617-633. Ho pubblicato i testi dedicati al problema del materialismo, dello spiritualismo, dell’analisi del problema dell’esistenza di Dio, nell’articolo: Il pensiero di Bergson nelle pagine inedite del quaderno di Emile Cotton, in “Rivista di storia della filosofia”, a. LIV, n. s., 3, 1999, pp. 497-521.
3 J. GUITTON, La vocation de Bergson, Gallimard, Paris 1960, p. 67.
4 J. CHEVALIER, Entretiens avec Bergson, Plon, Paris 1959, p. 195.
5 Sul “dinamismo deambulatorio” di Bergson si leggano le testimonianze di J. Guitton e J. Chevalier. Quest’ultimo scrive che “Bergson ha sentito sempre vivo il bisogno di
camminare, di muoversi, mentre elabora il suo pensiero, ed una delle sue sofferenze alla Scuola Normale ed al Collège e France fu il divieto di camminare insegnando” (J. CHEVALIER, op. cit., p. 63).
6 M. Conche è il solo studioso che abbia avuto accesso al quaderno Cotton, che l’ha
studiato e che ne ha preparato una edizione, limitata alle sole pagine dedicate alla psicologia ed alla Metafisica. Se negli studi precedenti ed in questo studio ho potuto tracciare alcuni aspetti del pensiero di Bergson, lo debbo alla generosità di M. Conche che,
fin dalla conclusione della sua opera, ha messo a mia disposizione il suo manoscritto definitivo, pronto per la pubblicazione. Purtroppo – per motivi burocratici o di assoluta fedeltà al testamento di Bergson – il volume del Conche non ha potuto essere inserito fra
le opere di Bergson: lo sarebbe stato, a pieno titolo, fra le opere su Bergson. Nessuno
può negare la radice linguistica, argomentativa, scientifica prettamente bergsoniana del
testo e resta assolutamente indubitabile che, pur non essendo scritto dalla mano di Bergson, il testo si presenta, in spirito ed in verbis, assolutamente bergsoniano. La data della compilazione e gli argomenti trattati si inseriscono nel momento cardine della ricerca
bergsoniana, culminata successivamente nello scritto Les données immédiates de la
conscience. Per un’analisi più dettagliata del problema cfr. G. MAIRE, Les années de Bergson à Clermont-Ferrand avant les Données immédiates de la conscience, in “Actes du
X.me Congrès international de Philosophie”, vol. I, Amsterdam 1949, pp. 1208 e ss. Prezioso il riferimento nella lettera a T. Ribot, del 10-VII-1905: “Mon Essai sur les données
immédiates a été élaboré et écrits de 1883 à 1887 ”.
7 H. MARION, Le nouveau programme de Philosophie, in “Revue Philosophique”, t. X,
juillet-décembre 1880, p. 418.
8 M. CONCHE, Bergson à Clermont, testo inedito d’introduzione al volume manoscritto, anch’esso inedito, H. BERGSON, Psychologie et Métaphysique, p. 8.
9 H. BERGSON, Essai sur les données immédiates de la conscience, in Œuvres, P.U.F.,
Paris 1959, p. 139.
10 H. BERGSON, L’Evolution créatrice, in Œuvres, cit., pp. 9, 32, 141, 266.
11 H. BERGSON, La Pensée et le mouvant, in Œuvres, cit., p. 22; Les deux sources de
la morale et de la religion, ivi, p. 318.
12 R. ARON, Note sur Bergson et l’histoire, “Les Etudes Bergsonniennes”, IV, 1956,
pp. 43-51.
13 H. Bergson, L’évolution créatrice, P.U.F., Paris 1959, p. 272.
FRIEDRIC NIETZSCHE (1901)
1
30
Mi ero proposta di non parlare più di Nietzsche, perché il miglior tributo alla passata amicizia è il rispettoso silenzio sulla sua tomba; ma, richieste
espresse da più parti, aggiungendosi per di più a quanto io stessa da tempo
provavo, mi hanno indotta a soddisfare questi desideri e a porre una definitiva lapide commemorativa su quella tomba lontana che in questa vita non posso più visitare. Non credo che Nietzsche, come molti ritengono, sia stato un
così gigantesco rivoluzionario dello spirito e della morale, una tale «figura di
gigante che getta la sua ombra sui secoli», una tale «tempesta del focolare o
punto di partenza di grossi flutti», come lo ha definito il signor Olà Hanssen.
Credo anche, che il significato proprio di Nietzsche e la vera novità, ciò che
lui aveva da trasmettere, non è quello che induce i più ad interessarsi di lui.
Non era un profeta d’un nuovo tempo, ancora mai esistito in tali forme;
era anzi il più straordinario rappresentante di un periodo di transizione nella storia della cultura della lotta tra due concezioni del mondo, che stavano
come nemiche una di fronte all’altra; così pure la sua stessa vita, purtroppo
presto spezzata, si trovava in un periodo di transizione non ancora pervenuta a conclusione. Questo è il mio punto di vista sul famoso uomo, con cui
una vera amicizia mi univa da diversi anni, che ebbi occasione di osservare e di conoscere nei diversi momenti del suo sviluppo spirituale, sia personalmente che attraverso corrispondenza. A lui, così duramente provato dal
destino, così profondamente dotato e afflitto, così cortese e buono nel rapporto personale, così spietatamente biasimato nella sua ultima concezione
della vita, desidero offrire una riflessione, in cui mi riesca di delineare in tratti veri la sua immagine, lontana da errate idee come da ingiuste lodi.
Nell’anno 1872, vivendo a Firenze, la mia attenzione fu richiamata dalla
signora Cosima Wagner su uno scritto, apparso poco prima e su un giovane professore proveniente da Basilea, e che era legato da profonda amicizia con la famiglia Wagner, che viveva sul lago di Lucerna. Lo scritto portava il titolo La nascita della tragedia dallo spirito della musica, l’autore si chiamava Friedrich Nietzsche. Proprio allora mi attorniavo d’un piccolo circolo
di uomini importanti. Assieme leggemmo questo scritto e tutti ne fummo
ugualmente entusiasti. La trattazione dei due elementi fondamentali della
vita greca, che l’autore indicava con il nome: dionisiaco e apollineo, schiu31
deva una quantità di arguti pensieri, quali l’essere il mondo «in sé» il dionisiaco, la cui lingua originale è la musica, produce dall’apparizione apollinea
l’opera d’arte della tragedia. Venivamo a sapere nello stesso tempo che
Nietzsche, un eruditissimo filologo, era stato raccomandato come professore ordinario all’università di Basilea, già quand’era un giovane uomo, dal famoso professore Ritschi che lo stimava moltissimo. Ciò che noi tutti attraeva del profondo conoscitore del mondo antico, più della erudizione, era la
ricchezza spirituale e poetica della sua capacità di comprensione, l’occhio
da indovino dell’uomo poeta, che afferra l’interna varità della cosa con
sguardo profetico, là, dove l’erudito pedante coglie solo l’aspetto esteriore,
che ritiene essenziale. Con vera gioia riempiva il pensiero il sapere che una
così meravigliosa, allo stesso tempo scientificamente e creativamente dotatissima personalità, fosse vicina all’opera che si stava preparando a Bayreulh, dove dopo la fine della guerra si era trasferito Richard Wagner. Io andavo là, a Bayreuth, al tempo della posa della prima pietra del teatro. L’esecuzione della nona sinfonia di Beethoven con una scelta orchestra di artisti,
diretta da Wagner (una esecuzione che nella sua perfezione non sarà facile ascoltare nuovamente), riuniva già nelle prove gli straordinari ospiti di
Wagner, nel grande palco nobiliare del vecchio e grazioso teatro rococò di
Bayreuth. In una pausa della prova generale, mi si avvicinò la signora Cosima Wagner con un giovane uomo e disse che voleva presentarmi il signor
Nietzsche – «Come, Nietzsche?» esclamai piena di gioia. I due sorrisero e
la signora Wagner disse: «Sì, Nietzsche». E allora si unì a quella illustre
schiera di spiriti la presenza d’una giovanilmente bella e gentile personalità, con la quale nacque rapidamente una cordiale affinità.
Poco dopo il mio soggiorno a Bayreuth, che si era prolungato di alcune
settimane, incontrai di nuovo Nietzsche a Monaco, dove insieme assistemmo alle rappresentazioni di «Tristano e Isotta» e il legame di amicizia, che
era iniziato a Bayreuth, si rafforzò ancor di più. Ricordo come Nietzsche
durante una tale rappresentazione disse: «Questo dramma di morte non
mi rende affatto triste, al contrario, mi sento felice e liberato». Reminiscenza della definizione della tragedia nel suo scritto: «[…] consolazione metafisica, con la quale ogni vera tragedia ci libera, consistente nel fatto che la
vita è, in sostanza, indistruttibilmente potente e piena di desiderio nonostante ogni mutamento delle apparenze». Dopo questo incontro iniziò fra
noi un fervido scambio epistolare, nel quale si trattava, oltre ai problemi
personali, quelli di interesse generale e dell’opera di Bayreuth, il cui accrescimento ci stava ugualmente a cuore.
Poi, a luglio dello stesso anno, ricevetti una sua lettera dove mi comunicava il suo lavoro in relazione alla sua attività per Bayreuth e nello stesso tempo scriveva: «Mi sono dedicato al primo progetto d’un nuovo scritto;
lo stato delle prime concezioni ha qualcosa che mi rende felice e solitario.
32
Ma nonostante ciò, sono convinto dell’insuccesso del mio precedente libro
presso qualche amico, in ciò non accade dunque nulla di “dionisiaco”: ma
si tratta di tantissimo odio, avversità e invidia – ciò non sta bene – poiché
è così la maggior parte dei lettori, essi si costruiscono l’autore secondo un
libro e guai se egli non corrisponde, nel successivo libro, alla loro costruzione!». Un po’ più tardi mi spedì un saggio di un suo amico, del filologo
prof. Rohde, in difesa della Nascita della tragedia, scritto contro una critica filologica, e disse inoltre: «risulto essere attraverso questo scritto, il più
indecente filologo del giorno, per il quale può verificarsi un vero miracolo
di audacia, poiché è tutto stabilito per rompermi il bastone addosso. A prescindere dalla polemica, non desidero importunarLa, lo scritto di Rohde
contiene molto di buono sui fondamenti filosofici del mio libro e troverà così presso di Lei interesse. Se io solo non dovessi temere che il suo generoso scritto possa portare Rohde in un vero nido di invidia e cattiveria. Ora
siamo noi due messi all’indice! C’è una confusione di fondo: io ho scritto
per i filologi anche se questi – se solo potessero – sarebbero in grado di
imparare varie cose di carattere esclusivamente filologico dai miei scritti.
Ora essi si rivolgono a me amareggiati e pensano che abbia commesso un
delitto, poiché non ho pensato a loro e alla loro capacità di comprensione.
Anche l’azione di Rohde rimarrà senza successo, poiché nulla può superare lo spaventoso abisso. Ma io proseguo tranquillo per la mia strada e
mi guardo dal provare disgusto, per il quale, altrimenti, si avrebbe sempre
una motivazione. Ma essi hanno avuto molte esperienze tristi, certo analoghe, e chi sa fino a che punto la mia vita diventerà simile alla loro, poiché
fino ad ora io ho appena iniziato, proprio adesso, ad esprimere qualcosa.
Ho bisogno dunque di molto coraggio e della forte devozione di un amico,
prima di tutto di buoni e nobili esempi per non sprecare il fiato in chiacchiere. E allora penso a Lei e mi felicito di cuore, con Lei, per averla incontrata nel ruolo d’una lottatrice solitaria per il giusto».
Nell’autunno del 1872, di passaggio per Basilea, lo incontrai nuovamente e conobbi sua sorella che era con lui e che lo accudiva premurosamente. Verso la fine dell’anno mi scrisse dell’«incontro» con Wagner e sua
moglie, che gli era stato annunciato da diverso tempo, e disse: «II nostro
incontro ha avuto luogo nel modo più felice, però non qui a Basilea, ma a
Strasburgo, dove mi recai un giorno festivo e dove trascorremmo insieme
due giorni e mezzo, raccontando, passeggiando e facendo progetti e godendo, senza altra occupazione, della vivissima affinità». Io gli avevo sottoposto una domanda, che spesso era stata oggetto di mie riflessioni sulla educazione, se cioè sia prudente, dato l’attuale costume, fare apprendere più lingue ai bambini ancora in tenera età.
Avevo cambiato opinione perché mi sembrava che l’approfondimento
dello spirito sarebbe stato ostacolato, se la caratteristica parola della lin33
gua madre non fosse cresciuta nel pensiero del bambino, assieme al concetto, perché la facilità dei bambini di imparare lingue straniere, è per lo più
la prontezza del pappagallo, mentre l’uomo maturo trova un profondo godimento nello studio delle lingue straniere, con il quale è come se si togliesse un velo dalla vita intellettuale di altri popoli.
In proposito Nietzsche mi rispose: «La scelta non mi pare in generale qui
certamente possibile. Molto dipende dalla lingua madre. Purtroppo mi manca molto l’esperienza, dovrei pensare che sarebbe una vera fortuna per un
bambino tedesco, essere educato dapprima in una vera e propria rigorosa
lingua di grande tradizione culturale, francese oppure latino; con ciò si svilupperebbe un forte senso dello stile [qui si evidenzia l’infinita importanza
ch’egli dava alla bellezza dello stile], questo dopo, tornerebbe a profitto anche, per così dire, della barbara lingua madre studiata successivamente. Il
contrario avveniva presso i greci ed è invero inutile, presso i francesi, lo studiare per lo più una seconda lingua. Tali popoli, che possiedono così alto
grado un proprio senso dello stile, si possono accontentare della loro lingua.
Tutti gli altri devono studiare. (Parlo qui naturalmente non del valore che ha
l’apprendimento di una lingua straniera per la conoscenza delle letterature
straniere e delle scienze, ma solo del senso della lingua e del senso dello
stile). Perché allora Schopenhauer scrive in modo così eccellente? Perché
egli per molti anni, nella sua giovinezza, ha parlato quasi soltanto francese
oppure inglese o spagnolo. Poi ha, come lui stesso afferma, studiato e imitato, per questo scopo, in modo eccezionale Seneca. Ma non comprendo,
come un tedesco debba arrivare ad uno stile attraverso letture tedesche, io,
addirittura, attraverso divertimenti e vita di società tedeschi. L’insicuro si deve educare bene, ma in Germania, nel Paese dell’eccessiva attività libraria
e giornalistica (solo nell’anno 1872, 12.000 libri tedeschi!), dovrebbe allora
uno imparare lo stile attraverso il parlare e lo scrivere? Io non credo, ma sono pronto ad imparare volentieri, perché come detto, non so nulla, non ho
appreso nulla, né sono un esperto».
Era anche in questo giudizio, come tutto in lui, l’elemento artistico che definiva e che conferiva il più alto valore ai suoi punti di vista e al sapere specialistico. Che questo senso artistico del bello si estrinsecasse in lui in uno
degli aspetti superficiali della vita, come per esempio nel vestire, come osserva un critico, è vero, ma aveva origine nel bisogno di un essere profondamente estetico, per il quale la bellezza, come la bontà, sono elementi innati della sua natura. Della sua bontà ebbi di nuovo una prova attraverso il
profondo dispiacere, che egli espresse, per avere vacanze troppo brevi, che
non gli consentivano di farmi visita a Firenze, dove mi sapeva sofferente fisicamente e psichicamente, dopo il forte dolore causato da una separazione: «Se anche non l’avessi potuta aiutare e consolare, avrei però trovato il
modo, di quando in quando, per distrarla e sviare le sue riflessioni». Invece
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andò in vacanza a Bayreuth per due giorni e scrisse: «Domani alle 16,30 mi
trovo nella casa di viale Damm (una volta era l’abitazione di Wagner, prima
che la sua fosse pronta) e sono molto felice. A Bayreuth spero di nuovo di
prendermi coraggio e allegria e di rafforzarmi completamente. Questa notte
sognai di pervenire all’ascesa del Parnaso; questa simbologia libresca è però comprensibile, anche se del tutto insulsa. Di tanto in tanto dobbiamo accettare, in certo qual modo di nuovo, rapporti con uomini buoni e forti, altrimenti impoveriamo e cadiamo in pezzi senza coraggio. E che la nostra vita
debba essere un ascendere al Parnaso è anche una verità che si deve dire
più d’una volta. Il mio Parnaso del futuro è, se mi sforzo molto ed ho un po’
di fortuna, come pure molto tempo, di diventare forse un modesto scrittore,
ma soprattutto sempre più sobrio nello scrivere. Di tanto in tanto ho una infantile avversione per la carta stampata, che per me vale solo come carta
macchiata. E mi posso immaginare un tempo in cui probabilmente si preferisca leggere poco, ancora di meno scrivere, ma molto pensare e ancor di
più fare. Per il fatto che tocca all’uomo attivo, che libera se stesso e gli altri
da secolari e vecchie abitudini, mostrare il meglio per dare un buon esempio
da imitare». Che qui si esprimeva il pensatore radicale è certo, ma lo era in
altro modo e in un diverso rapporto umano rispetto a quello che apparirà più
tardi. Egli mi inviò la seconda parte delle sue Considerazioni inattuali: «Sull’utililtà e il danno della storia per la vita», e di lato mi scrisse: «Ora Lei mi augurerà ancora forza per le rimanenti undici Considerazioni inattuali. Voglio,
almeno una volta, dire fino in fondo tutto ciò che ci angustia; dopo questa
confessione generale forse ci si sentirà più liberati».
Ancora più avanti egli fu a riguardo più esplicito, quando nell’autunno del
1874 mi spedì la terza delle Considerazioni: «Schopenhauer come educatore». «Nel contenuto del mio ultimo scritto non Le sarà difficile indovinare ciò
che nel frattempo è stata la mia esperienza spirituale. Ma in me c’è stato talvolta, nel corso dell’anno, molto di peggio e di più esitante di quello che si
può leggere nel libro. Ma in summa, si va avanti, si procede! Dovrei dire che
non si potrebbe andare meglio di come va, perché è certamente una grossa
fortuna avanzare passo passo con i propri impegni, e ora ho pronte tre delle tredici Considerazioni e la quarta in testa. Quale coraggio mi occorrerà se
evidenzio solo tutto il negativo e il ribelle che è in me e nonostante ciò posso sperare, in quasi cinque anni, di essere vicino a questa splendida meta!
Già ora provo un vero sentimento di gratitudine per quanto imparo nel vedere con sempre maggiore chiarezza e acume – spiritualmente (purtroppo non
fisicamente!) e per la maggiore precisione e chiarezza con cui riesco ad
esprimermi. Se nel mio percorso non sono indotto ad errare, o venir meno,
da tutto ciò deve uscir fuori qualcosa. Si immagini solo una fila di cinquanta
di tali scritti, come fino ad ora i miei tre, portati tutti alla luce dall’esperienza
interiore – con ciò si otterrebbe l’effetto di sciogliere la lingua a molti uomini
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e di arricchire abbastanza il linguaggio, tutto ciò, che ora non appare affatto
presente, i miei simili non potrebbero dimenticare celermente e nuovamente. E che cosa dovrebbe disturbarmi nel mio cammino? Le stesse reazioni
ostili diventano motivo per me di utilità e di fortuna, perché esse spesso mi
illuminano più rapidamente dei gentili contributi; io non desidero più nulla che
l’iniricalissimo sistema di antagonismi, di cui consiste il “mondo moderno”, divenire illuminato. Fortunatamente mi manca ogni ambizione sociale e politica, così che da questo lato non devo temere nessun pericolo, nessuna distrazione, nessuna coercizione ai compromessi e al rispetto delle situazioni;
in breve posso dire ciò che penso e voglio provare per una volta, fino a che
punto i nostri superbi simili sopportino il libero pensiero; perciò noi tutti riceveremo, nei prossimi anni, qualcosa che ci consenta di vivere e per cui tutti:
antenati e posteri, hanno di che invidiarci.
Pur senza merito, sono stato ugualmente premiato con amici eccezionali; ora mi auguro, detto in confidenza, di trovare molto presto una buona
moglie e così ritengo esauditi i miei desideri esistenziali. Tutto il resto è poi
in me». «P.S. Di recente ho compiuto trent’anni».
Chi potrebbe leggere la lettera appena citata senza commozione? Chi
avrebbe potuto, dopo aver letto la sua opera, guardare a questo lottatore
coraggioso se non con gioiosa speranza? Lui nella piena forza della giovantù, nutrito con le splendide armi dello spirito, con un sapere colossale,
senza pedanteria, con sensibilità artistica, perfino musicista e poeta, con
la libertà e l’audacia del pensiero metteva il piede nell’arena per dichiarare guerra – egli stesso un perfetto idealista – al piatto razionalismo, alla formazione filistea, che prende per cultura la sua limitata realtà, e ritiene per
liquidati coloro che indagano lo spirito, i grandi antenati dello spirito tedesco. Ma egli dichiarava questa guerra in nome dell’idealità di tutti i tempi,
in nome di quella «potente comunanza» che viene tenuta insieme, non attraverso forme esteriori e leggi, ma attraverso un’idea fondamentale. Ciò è
l’idea fondamentale della cultura, purché sappia porre ad ognuno di noi un
compito: «La creazione del filosofo, dell’artista e del santo in noi e al di fuori di noi per aiutare la natura e così lavorare al suo perfezionamento». Affilata ed energica era la spada che agitava questo giovane audace lottatore; ma questa lotta a quale elevato concetto di cultura si riferisce? Così egli
mi scriveva proprio all’inizio dell’anno 1875, nuovamente pieno di entusiasmo, di essere, come sperava, verso la metà dell’anno, alle prove delle prime rappresentazioni a Bayreuth programmate per l’anno successivo. Ma
terminava questa lettera con le parole: «Ieri, come all’inizio dell’anno, vedevo il futuro con vero tremore. È terribile e pericoloso vivere – invidio
chiunque muoia in modo onesto. Del resto sono deciso a diventare vecchio, perché altrimenti non si può riuscire in nulla. Ma io non voglio invecchiare per godermi la vita. Lei capirà questa decisione». Io capivo bene
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questa risolutezza. Era la decisione dell’uomo in fase di maturazione, nel
cui cuore il destino aveva scritto la conoscenza di un immane compito e
che era pronto a compierlo; ma egli nello stesso tempo aveva preso coscienza del profondo dolore, che raramente appartiene ai grandi lottatori,
ciò che il mondo chiama fortuna, perché per essi è scritto sulla bandiera
sotto la quale lottano: «Devi rinunciare, devi rinunciare».
Frattanto, il nostro scambio epistolare trattava anche qualcuna di quelle
grandi questioni vitali, lontane dalle usuali, ma tuttavia importanti per la lingua, attraverso cui si manifestava nello stesso tempo la sua indole gentile e
benevola. Per esempio gli avevo chiesto una volta il suo punto di vista sul
carattere di Edoardo nelle «Affinità elettive», che erano state già oggetto di
conversazione tra me e Wagner e dalla cui opinione dissentivo. Nietzsche
scrisse di aver letto il romanzo molto tempo prima e che non aveva approfondito il personaggio di Edoardo, ma aggiunse: «Lei si vuole accontentare
di qualcosa di totalmente immaturo, così indicherei la mia opinione su questo argomento: Edoardo appare solo nel raggio di luce di Ottilia, come egli
descrive tutti: simili a lui oppure uguali e alla maniera in cui egli dipinge se
stesso; essi sono come Goethe amava essere, secondo le sue proprie idee:
comportarsi sempre in modo troppo semplice, vestire alquanto modestamente, scegliere parole molto semplici. Edoardo, simile a lui, ha dovuto pagare questo dilettantismo di Goethe. Ma come detto, l’autore di Ottilia ci mostra anzitutto, o ci lascia indovinare, chi egli sia. Goethe ha inventato che Ottilia amasse Edoardo, per l’esaltazione di quelle nature che sono più profonde di quanto appaiono e la cui profondità scandaglia solo lo sguardo profetico dell’amore affine. Un nobile di questo luogo mi ha fatto un importante regalo con un autentico foglio di Dürer; raramente una rappresentazione figurativa mi dà piacere, ma questo quadro, “Cavaliere, morte e diavolo” è in
stretto rapporto con me, e io posso dire perché. Nella Nascita della tragedia
ho paragonato Schopenhauer a questo cavaliere e per questo ricevetti il
quadro. Così mi è capitato di vivere questa fortuna. Desidererei, potrei fare
ogni giorno un po’ di bene agli altri. Quest’autunno mi proponevo di iniziare
la mattinata con la seguente domanda: non c’è qualcuno a cui potresti recare qualcosa di utile? Talvolta si riesce a trovare qualcosa. Con i miei scritti do
fastidio a molti, cosicché dovrei tentare di rimediarvi in qualche modo». Non
è questa una commovente testimonianza dell’originaria bontà della sua natura, per la quale più tardi egli fu calunniato? Qualche tempo dopo mi giunse di nuovo una lettera nella quale giustificava il suo silenzio più lungo del
solito e scriveva: «Non so nulla di meglio che pensare come certamente negli ultimi anni l’amore mi abbia sempre di più arricchito e così mi viene in
mente sempre per primo il Suo nome e il Suo animo devoto e profondo. Se
ora mi manca la possibilità di dare gioia a quelli che mi amano, sì perfino la
fede in questo, mi sento più povero e privato che mai, come era così la mia
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condizione. Per la mia salute mi sentivo senza speranza, tanto da credere di
dovermi curare, e come in una caldissima e opprimente giornata di dover
procedere proprio quatto quatto sotto l’afa e il peso, e sempre venivo colto
dolorosamente dal pensiero: da te i tuoi amici aspettano di più, essi vedono
svanire le loro speranze e non hanno nessuna ricompensa per la loro fedeltà. Conosce Lei questa condizione? Ora ne sono fuori, ma per quanto? Non
appena rimango anche per una volta solo nulla mi è più gradito che fare progetti su progetti e trovare un nesso logico per la mia vita. Questo per la mia
salute è un barometro formale. Uno come noi, penso a Lei ed a me, non soffre mai solo fisicamente, “come del tutto vero!”, ma tutto è profondamente
frammisto a crisi spirituali, cosicché non ho affatto idea come io possa nuovamente ritornare sano attraverso farmacie e cucine. Il segreto d’ogni guarigione è per noi conseguire una certa durezza della pelle, a causa della grande vulnerabilità interiore. Poiché nulla tormenta di più il ricevere il battesimo
del fuoco da ambo le parti; dall’interno e dall’esterno. Ora la casa arredata
della mia buona sorella deve diventare per me una forte e dura pelle, mi rende felice pensarmi nel guscio della chiocciola».
Nella primavera del 1876 ricevetti nuovamente una così affettuosa lettera che mi toccò e che mi mostrò la nobile natura dell’amico. Essa, accanto a un fondato orgoglio, rimaneva però affabile e tendente verso un perfezionamento interiore. Scrisse il Venerdì Santo: «Circa quaranta giorni fa
trascorsi da solo una domenica presso il lago Genfer e d’intorno dalla mattina alla sera risplendente di luna; lessi con i sensi ristabiliti il Suo libro fino alla fine e mi dissi continuamente che vi avevo trascorso una domenica più solenne. Lo stato d’animo della purezza e dell’amore non mi lasciò
e in quel giorno la natura era nient’altro che l’immagine riflessa di questa
disposizione di spirito. La purezza e l’amore erano davanti a me come
qualcosa di superiore, di molto superiore, capace però tanto di incoraggiare che di far vergognare; così Lei si librava nella mia immaginazione ed io,
prendendoLa come modello, misuravo la mia vita e mi chiedevo del molto
che mi manca. La ringrazio molto di più che per un libro. Ero ammalato e
dubitavo delle mie forze e mete; dopo Natale credevo di dover abbandonare tutto e più d’ogni altra cosa temevo la lunghezza della vita che opprime come un enorme peso quando si rinuncia a mete superiori. Ora sono
più sano e più libero e i doveri da compiere stanno di nuovo davanti a me
senza tormentarmi. Spesso l’ho desiderata vicino a me per domandarle
molte cose su cui una superiore moralità e sostanza, che io possiedo, può
dare risposta. Dal Suo libro desumo ora risposte a determinate domande
che mi riguardano; credo di poter essere contento della mia condotta solo
se ha la Sua approvazione. Il Suo libro è per me un giudice più severo di
quello che Lei forse sarebbe. Che cosa deve fare un uomo per non accusarsi di mancanza di virilità quando si confronta con il quadro della di Lei
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vita? Me lo chiedo spesso. Egli deve fare tutto quello che Lei fa e assolutamente nulla di più! Ma molto probabilmente non sarà all’altezza del compito, perché gli mancherà l’istinto del sicuro dominio, dell’amore soccorrevole. Uno dei grandissimi motivi che ho presentito attraverso di Lei è l’amore materno senza il legame madre-figlio; esso è una delle più splendide
manifestazioni della Carità».
I dolori fisici del giovane uomo, sempre ricorrenti, preoccupavano molto i
suoi amici, ma la sua elastica e in fondo forte natura lasciava sperare che
questa sofferenza, soprattutto alla testa e agli occhi, potesse essere rimossa. Così guardavamo con lieto coraggio all’incontro di Bayreuth, nell’estate
del 1876, per la prima rappresentazione dell’Anello del Nibelungo. Poco prima però Nietzsche mi comunicava che una signora gli aveva scritto che era
su una falsa strada e aggiunse: «Sì, come poco la conosco la mia strada! La
percorro perché altrimenti non potrei continuare a vivere e così non ho alcun
motivo di crearmi in proposito dubbi e scrupoli. A me, in summa, da quando
mi trovo su questa strada, va molto meglio di quanto vada a tutti i miei simili, su essa due soli Wagner a Schopenauer brillano e si estende un ciclo tutto greco». Questo felice stato d’animo aveva creato di nuovo uno splendido
prodotto, la quarta delle Considerazioni inattuali: «Wagner a Bayreuth».
Purtroppo, ancora una volta, la sua salute non resse e dovette lasciare
Bayreuth prima della fine del Festival e ritirarsi nella solitudine della montagna per rimettersi. Quale dolore doveva riempire l’anima del giovane lottatore che, di nuovo, a causa del dolore fisico, si sentiva mancare la forza per
essere all’altezza del suo alto impegno! Mossa a compassione dalle sue sofferenze, gli proposi di trascorrere insieme il successivo inverno nel sud d’Italia, poiché né la madre, né la sorella potevano accompagnarlo. L’università
di Basilea, che lo stimava enormemente, generosamente gli concesse un
congedo per riposare, di cui aveva assolutamente bisogno. Io, allora, non
avevo un luogo stabile di residenza e potevo disporre liberamente del mio
tempo. Lo stato di salute del poveretto era molto peggiorato dopo il suo rientro a Basilea; il dolore lo tormentava quasi ogni otto giorni, per trenta ore circa, e il sud divenne quindi la sua unica speranza e consolazione. Egli scrisse: «Noi vogliamo quindi strappare là la salute» e mi annunciò nello stesso
tempo che un amico e un giovane allievo avevano l’intenzione di venire con
noi. Prendemmo in considerazione il golfo di Napoli ed effettivamente ci incontrammo là, a metà ottobre del 1876, scegliando Sorrento come soggiorno, dove trovammo sistemazione in una villa al mare. Cominciò allora per la
nostra piccola colonia un’ottima convivenza; durante il giorno ciascuno era libero di occuparsi come desiderava; ci riunivamo solo all’ora dei pasti e alla
sera e, qualche volta, passeggiavamo insieme. Le sere venivano riempite
nel modo migliore leggendo insieme. Ci sprofondavamo completamente nel
mondo greco antico e la lettura diventava, attraverso i commenti che Nietz39
sche aggiungeva oralmente, un piacere incomparabile. Dapprima erano le
lezioni sulla cultura greca tenuta da Jacob Burckardt a Basilea; esse erano
state trascritte da uno studente di Nietzsche e a lui erano state date in manoscritto. Poi, seguivano Tucidite ed altri e nell’armonia della splendida natura che ci circondava trascorrevamo, con le argute considerazioni sul massimo splendore dell’umanità, una rara armoniosa vita, solo a volte offuscata
dagli eccessi della sofferenza di Nietzsche. In questa convivenza, si palesava in me sempre più completamente il senso della sua spiritualità e imparai
anche a valutare la sua gentile indole, come pure la sua rinuncia con cui egli,
così duramente provato, affrontava la sua forte sofferenza. Nell’ultimo giorno dell’anno 1876 andai con lui di mattina a passeggiare. Era una giornata
splendida e in un luogo, dove una sporgenza della roccia si affacciava sul
mare, ci sedemmo vicino, sotto di noi il mare azzurro e il ciclo dello stesso
colore sopra di noi, il golfo di Napoli con il Vesuvio davanti a noi e tutto intorno verde come fosse primavera e non l’ultimo giorno dell’anno che finiva.
Nelle nostre anime si rifletteva lo splendore della terra nella più pura disposizione di spirito e nel parlare Nietzsche notò che l’uomo giusto deve tendere alla conoscenza, anche con le sofferenze che egli benediceva; attraverso
di esse, era l’ultimo anno pieno di pene per la sua vita. Io gli ricordavo che a
quelli che amano Dio, come è scritto nella Bibbia, ogni cosa deve servire al
meglio e dissi, come anche io piena di profonda pace, ripercorressi con la
memoria il mio passato, spesso sottoposto a così dure prove. Questo era lo
stato d’animo con cui chiudevamo l’anno. E questa disposizione d’animo era
quella più prevalente in lui, perché a dire il vero anche la nostra convivenza,
così spiritualmente vissuta, dava scarso motivo di polemica. Nasceva l’idea
di guadagnare giovani forze contro il vecchio e il male, e tentavamo di preparare tali forze per l’ideale di una nuova nobile cultura. Pensavamo seriamente, nello splendido angolo di terra in cui ci trovavamo, di fondare un istituto per giovani di ambo i sessi. Questo sarebbe dovuto diventare un vivaio
con l’esempio e l’insegnamento, da cui sarebbe uscito l’apostolo d’una più
pura e superiore visione della vita rispetto a quella del mondo moderno, irrigidita in forme convenzionali. La prima condizione del piano era che Nietzsche, nel mite clima, avesse trovato il terreno di una nobile attività, adeguata al suo stato sofferente, e così sarabbe riuscito a rendere la sua attività più
lieta e non tanto dolorosa come l’attuale. Purtroppo esso fallì, così come il
tanto bene che ne sarebbe derivato, soprattutto per ragioni materiali.
Nei sette mesi di questa convivenza mi si confermò l’alta opinione che mi
ero fatta del valore spirituale di Nietzsche e della sua buona e amorosa indole, fin da quando lo conobbi, non potei però fare a meno di notare che diversi influssi esercitavano su di lui la loro forte azione e che evidentemente condizionavano massimamente il suo modo di pensare e di esprimersi. Mi riferisco in primo luogo al metodo scientifico del Dott. Rèe, che stava noiosamen40
te a Sorrento e che a Nietzsche dedicava una toccante e disinteressata amicizia, sebbene le loro tendenze intellettuali divergessero ampiamente. Il Dott.
Rèe era un ammiratore dei moralisti francesi e portava costantemente con sé
i libri. Attraverso di lui, questi, diventarono estremamente importanti anche per
Nietzsche e destarono la sua predilizione per gli aforismi, che prima di allora
non si era mai manifestata nei suoi scritti e che al contrario si distingueva atttraverso il chiaro sviluppo del tema; questo sgorgava lì nella più bella perfezione dello stile, come un ruscello limpido in delicati rivoli. Solo del nostro soggiorno, quando gli altri due componenti la nostra piccola colonia furono partiti, ed io rimasi sola ancora per qualche tempo con Nietzsche, mi lesse un
grande numero di aforismi che aveva annotato durante le passeggiate, soprattutto sotto un albero che egli mi indicò; nel frattempo scherzando disse:
«Qui scende nella mia mente sempre un pensiero». Molti di questi aforismi
erano arguti e indovinati, ma altri non mi piacquero, non si mostravano degni
di Nietzsche e notai con apprensione gli inizi di inazione nelle sue idee, però
sperai che il mutamento delle sue potesse essere passeggero. Lo pregai
quindi insistentemente di attendere più a lungo per la pubblicazione di quegli
aforismi. Mi pareva e mi pare ancora che per dire delle verità universalmente
giuste in così pregnanti brevità, fosse necessaria una lunga osservazione di
anni dell’uomo e delle sue condizioni, proprio come nelle scienze esatte solo
una quantità di esperimenti con lo stesso risultato, permette di stabilire una
legge chimica o fisica. I moralisti francesi sono perciò così eccellenti nel loro
genere, perché essi conoscevano profondamente la società del loro tempo,
si muovevano in mezzo a casa, cosicché potevano porre all’interno di quei
confini dei principi generali. Ma a Nietzsche mancava molto la conoscenza
dell’uomo e delle sue relazioni. Era ancora troppo giovane, si era messo in un
ambiente troppo ristretto per procedere in modo così generale. Il poeta può
costruire da sé il mondo e le sue creature, perché porta nella sua anima tipi
universali e però ha bisogno di conoscere la realtà sotto la regola d’una osservazione valida in generale.
Purtroppo Nietzsche lasciò Sorrento senza vedere esaudita la sua speranza di guarigione e nell’ultima sua lettera, che ancora ricevetti lì, mi descrisse l’incanto che lo aveva colpito nel rivedere le montagne svizzere,
tanto che solo fra esse sperava di recuperare la salute. Piena di melanconia, lessi di questa nuova speranza perché dovevo temere che essa fosse
un’illusione, come lo era stato il sud.
Siamo ora all’inizio della trasformazione delle idee di Nietzsche, che
dapprima i suoi più intimi amici notavano con stupore, fino a ce essi, a poco a poco, quasi tutti si allontanarono da lui, più o meno con compassione, ma molti, e cioè i più importanti, con indignazione, sì quasi con disprezzo. Io gli rimasi fedele perché ero fermamente convinta che la trasformazione che si compiva in lui, fosse solo una fase del suo sviluppo, dalla qua41
le il suo vero e spirituale io sarebbe cresciuto e rafforzato. Il primo potentissimo impulso verso questa trasformazione era il gigantesco istinto della
sua originaria personalità, di separarsi dai fortissimi influssi che avevano
dominato la sua gioventù, per seguire la propria strada.
Già nell’anno 1878 mi scriveva: «La crisi della vita è arrivata; se non
avessi la sensazione dell’enorme fecondità della mia nuova filosofia, potrei
sentirmi orribilmente solo. Ma sono in unione con me stesso».
Questa era la fine della prima fase nella vita del gentil uomo, buono, di
sentimento delicato, la fine della natura artistica secondo la quale idealità
rendeva insopportabile tutto il marcio, il falso e l’abbrutimento e si sentiva abbastanza forte per lottare contro tutto questo. La volontà del destino, esterna ed interna, seguiva una dopo l’altra ed era la causa della seconda fase.
Iniziava un inasprimento che gettava scure ombre su tutto, su tutto ciò che
per lui era stato una volta di più caro, frantumava spietatamente i suoi ideali durati fino allora, lo ingarbugliava in contraddizioni e perdeva nell’esposizione dei suoi pensieri quella bella chiarezza dei suoi primi lavori. In primo
luogo i dolori fisici quasi incessanti, che lo rendevano pressoché incapace di
vivere, nel 1879 lo costrinsero a congedarsi dall’università di Basilea, che a
lui, a un professore ancora così giovane, mostrò la sua alta considerazione
lasciandogli come pensione l’intero stipendio. Da allora condusse una vita
nomade, soggiornava in inverno nel sud, per lo più a Nizza e a Genova, in
estate sulle montagne svizzere e anche in patria, a Naumburg, presso sua
madre… Da 11 ricevetti all’inizio dell’anno 1880 una lettera che mi scosse
dolorosamente; scriveva: «Sebbene per me lo scrivere appartenga al più
proibito dei frutti» (poiché la sua principale sofferenza consisteva, come ho
già detto, negli spaventosi dolori alla testa e agli occhi), «così Lei, che amo
ed onoro come una sorella più grande, deve ancora dame una lettera – sarà però l’ultima! Poiché lo spaventoso e quasi incessante martirio della mia
vita mi induce a volere la fine ed ho sufficiente speranza nel liberatore colpo
apoplettico, di cui ho avuto alcuni sintomi. La vita dei miei ultimi anni, per
quel che concerne tormento e rinuncia, può misurarsi con quella degli asceti d’ogni tempo, sebbene io in questi anni abbia molto guadagnato nell’affinare e levigare l’animo, non ho bisogno, né di religione, né di arte per questo – (Lei noterà che sono fiero di ciò; in realtà il completo abbandono mi ha
fatto trovare solo le mie proprie risorse) – Io credo d’aver svolto l’opera di tutta la mia vita, come la poteva svolgere chi non avesse per nulla tempo a disposizione. Ma so d’aver versato una goccia di buon olio per molti e di aver
offerto a molti uno spunto per l’autoesaltazione, per la tranquillità d’animo e
per l’uso ingiusto dei sensi. Questo che Le scrivo dovrebbe essere pronunciato come perfezionamento della mia “umanità”. Nessun dolore mi ha indotto e deve indurirti e a una falsa testimonianza sulla vita e a sedurre. A chi
posso dire tutto questo se non a Lei? Credo – ma è presuntuoso dirlo – che
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i nostri caratteri siano molto simili, per esempio ambedue siamo coraggiosi
e né il bisogno, né la disistima ci fanno deviare dal sentiero che riconosciamo giusto. Noi due abbiamo anche vissuto in noi e davanti a noi parecchie
cose, le cui luci, pochi dei contemporanei hanno visto; speriamo per l’umanità e offriamo noi stessi come modesto sacrificio, non è vero? Ha notizie dei
Wagner? Da tre anni non so nulla di loro; anch’essi mi hanno abbandonato
e sapere da tanto tempo che Wagner, fin dal momento in cui avesse capito
la profonda differenza dei nostri sforzi, non sarebbe più stato dalla mia parte. Lo ricordo con un durevole sentimento di gratitudine, perché gli debbo alcuni dei più forti incitamenti all’indipendenza spirituale. La signora Wagner,
Lei sa, è la più simpatica donna che abbia incontrato nella vita. Ma è troppo
tardi per riallacciare i rapporti. A Lei, mia onorata amica, il saluto d’un giovane vecchio, che non è adirato con la vita, anche se ne vuole la fine».
Dopo questa lettera, malgrado tutta la compassione, gli si poteva appena augurare un prolungamento delle sue sofferenze e forse se il destino lo
avesse richiamato, gli avrebbe fatto allora un favore. Poi, finalmente, arrivò
di nuovo una lettera, che mi dette per lui una nuova speranza. Egli scriveva: «Veramente ci siamo già dati entrambi un ultimo congedo e tali ultime
parole erano così piene d’un mio profondo rispetto che sono rimaste in me
l’energia vitale e ogni tipo di forza e così vivo una seconda esistenza e sento con entusiasmo che Lei non ha mai perduto la fiducia in me per una tale
seconda vita. La prego oggi di vivere molto a lungo, perché possa essere
per Lei ancora motivo di gioia; la curva, nella quale la mia stessa, ugualmente a fondo ed energicamente. Devo essere giovane ancora a lungo,
sebbene mi avvicini di già ai 40. Che ora tutto il mondo mi lascia solo, non
mi lamento; anzi trovo questo utile e naturale. Così è ed è sempre stato».
Ci rivedemmo molto brevemente in Svizzera più volte e più tardi mi venne a trovare a Roma da Genova, da dove egli svernava. Nel rapporto personale era, fino allora, vivace, gentile e spirituale come prima. Nel dialogo non
si notavano affatto l’asprezza e l’amarezza dei suoi ultimi scritti. Una profonda melanconia spesso si tradiva per la sua crescente solitudine e per la separazione da tutti quelli che gli erano stati vicino. Ma oltre la sua debole salute, esperienze di diverso tipo spingevano la sua condotta e concezione di
vita all’estremo. Ciò che lo allontanava da Bayreuth, era l’idea che là avesse luogo un ritorno dell’ortodossia cristiana, perciò non andò più neanche alle prime rappresentazioni del «Parsifal». Un’altra esperienza che lo fece soffrire profondamente, fu motivo delle sue seguenti affermazioni epistolari in
cui, nel contempo, asseriva il distacco dall’etica schopenhaureana: «Ci si deve fidare meglio dei propri istinti, anche degli istinti di rifiuto. Ma la partecipazione nella sofferenza di Schopenhauer ha sempre causato nella mia vita, finora, le scemenze principali, per cui ho tutte le ragioni per approvare morali
di questo genere, che annoverano ancora altre spinte verso la moralità e non
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vogliono ridurre tutta la nostra umana capacità alla compassione. Questo
cioè non solo una mollezza su cui avrà pensato ogni benintenzionato greco,
ma un serio e reale pericolo. L’uomo deve imporre il suo ideale di umanità,
e per il suo ideale deve costringere e sopraffare i suoi simili come avrebbe
fatto con se stesso, e in tal modo agire creativamente! Ma nello stesso tempo egli riesce a frenare per bene la sua compassione e trattare anche come
nemico tutto ciò che va contro il nostro ideale. Lei ora conosce come io rappresenti la morale; però mi è costato quasi la vita pervenire ad una tale morale». Molto dolorosamente egli sentiva le piaghe che furono provocate al
suo personale sentimento, alla sua inclinazione per il genere umano, così
come le delusioni che in parte erano il risultato dei suoi rapporti con gli altri,
e se il suo fiero orgoglio sembrava avergli fatto superare tutto ciò e lo induceva a espressioni di indifferenza, nei rapporti più intimi invece gli sfuggivano spesso parole che tradivano il profondo dolore del suo essere solo.
Una volta mi scrisse da Nizza: «Lei indovinerà certamente che non mi
è rimasto quasi nulla di umano (sebbene non sia vecchio – oppure sì?). Gli
anni passano e non si sente più una parola che giunga al cuore». E di nuovo, in un’altra lettera, pervenne, alla fine del racconto sui ripetuti attacchi
del suo forte dolore fisico, alla dolorosa toccante esclamazione: «Non c’è
dunque nessun essere umano che mi vuol bene?». Poi, in una lettera da
Genova: «Sopporto solo di vivere al mare; l’aria dell’interno aggrava lo stato dei miei nervi e dei miei occhi nel modo più evidente e causa in me, in
breve tempo, malinconia e sfiducia, odiosa erbaccia, contro la quale ho lottato nella vita di più che contro serpenti ed altri sconosciuti mostri. Il nostro
più pericoloso nemico è nella miseria quotidiana; il grande dolore migliora.
Ma ora nuovamente sono solo e la verità da dire è che non sono stato mai
così solo. Tutte le esperienze degli ultimi anni mi hanno sempre insegnato
questa unica cosa: non c’è nessuno che abbia la volontà di percorrere con
me questo mio sentiero – nessuno vede davvero questo sentiero. Questo
è un grosso dolore e davvero sento che ha la forza di rendere migliori». E
in un’altra lettera: «Da anni sono del tutto solo e Lei mi concederà che ho
fatto buon viso a ciò – anche fare buon viso è una delle condizioni della
mia ascesi. Se ancora adesso ho amici, li ho malgrado ciò che sono o che
desidererei diventare. Lei è rimasta ben disposta verso di me e desidero
con tutto il cuore ringraziarLa, porgerLe ancora un frutto colto dal mio giardino, che sia di suo gusto». Tuttavia, fino a quel momento gli ero rimasta
amica, malgrado giudicassi con crescente antipatia i suoi più recenti scritti e le sue più recenti lettere, perché, come ho già detto, consideravo tutta
la seconda fase del suo sviluppo come un periodo di esercizio; dalle cui
dure conclusioni, divaganti in eccessi spiacevoli e falsi, speravo che il nobile spirito di Nietzsche, come egli si era mostrato ai suoi inizi, ne uscisse
fuori e più che mai portasse a maturità la sua concezione filosofica, nella
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chiara forma d’un nuovo e sublime ideale. Ma, accanto a tale speranza,
appariva nello stesso tempo una sempre crescente e poco rassicurante inquietudine, vieppiù notavo questo sempre patologico elemento, tanto nei
suoi scritti pubblicati in così rapida successione, quanto nelle sue lettere;
questo elemento, accanto a numerosi pensieri arguti e stimolanti osservazioni, tradiva troppo spesso un offuscamento del suo giudizio e un inquietante distacco dalla sua propria opera che non si poteva percepire senza
un triste presagio. Se mi scriveva cose come queste: «Voglio spingere
l’umanità alle risoluzioni che decidono di tutto il futuro umano, e può così
accadere che per una volta tutti i millenni facciano i loro massimi voti sul
mio nome» — oppure: «Ho dato all’umanità il libro più profondo che essa
possiede, un libro in confronto al quale gli altri sono considerati solo letteratura. Come si dovrebbe espiare questo! L’individuo capace di tanto, sta
fuori da ogni rapporto umano, vive in una insopportabile tensione e vulnerabilità, diventa come un animale che continuamente viene ferito. La piaga
è: nessuna risposta; nessun suono di risposta da sentire, e il peso da tenere da solo in modo spaventoso sulle proprie spalle, il peso che si sarebbe desiderato dividere e lasciare (per che cosa si sarebbe dovuto scrivere
altrimenti?). Si può morire di ciò per essere immortali» – se egli mi scriveva, come ho detto, tali cose, con assai doloroso spavento dovevo constatare che l’ottenebramento minacciava questo alto intelletto, nel sopravvalutare il significato dei suoi lavori riformatori e nel porli ad una altezza, come fossero la seconda creazione del mondo. Ed ora si evidenziava troppo
questa tragica svolta del suo destino.
Dopo i forti dolori, durati anni, alla testa e agli occhi, dopo la completa
solitudine (egli, il cui cuore palpitava per un focolare!), dopo le privazioni
spirituali d’ogni genere, particolarmente per il divieto del medico di leggere e scrivere, dopo il soffrire del suo cuore che bramava affetto e partecipazione, ciò che cercava inutilmente di celare con la fierezza del suo sentimento di indipendenza, infine dopo il colossale e incessante lavoro intellettuale che produceva libri su libri – come sarebbe potuto andare diversamente? Il suo destino aveva il suo triste preludio in quello d’uno spirito simile al suo, in Holderlin, che, come lui penetrato dallo spirito della grecità,
andò in rovina per i contrasti della sua epoca.
Tuttavia, mi staccai da lui solo quando apparve lo scritto Il caso Wagner; nonostante ciò sperando sempre che la situazione potesse svolgere
al meglio, e facendogli pervenire la mia protesta con tutto il tatto possibile.
Ma le lettere che ricevetti in risposta a ciò, non mi lasciarono più alcun dubbio dei nostri rapporti e decisi così di concludere questo legame della mia
vita e lo piansi, come si piange un morto.
Spero in qualche modo d’aver contribuito a delineare un fedele ritratto
della personalità di Nietzsche. Il mio fermo punto di vista sulla trasforma45
zione del suo orientamento spirituale è che esso non avesse trovato ancora alcuna conclusione, ma che, disturbato da violente azioni, fosse diventato periodo di impeto e impulso, una fase cioè di passaggio dalla quale, se il destino lo avesse voluto, il suo spirito sarebbe uscito in rinnovata
bellezza, libero dalle scorie che gli avevano causato amarezza, ribellione
ed odio. Sarebbe giunto allora alla chiara espressione d’una nobile filosofia che si lasciava presagire all’inizio, come quella con cui aveva indicalo
i libri della sua seconda fase. I molti volumi pieni di aforismi mi appaiono
come la più viva prova del fatto che tutto era prodotto dall’inquietudine e
dalla lotta dello spirito in ricerca, che non aveva trovato ancora il suo baricentro, il centro solare attorno cui girano le stelle di luminosi pensieri in
orbite ben ordinate. Certamente non sarebbe stato il principio fondamentale di questa filosofia, né quello della morale dell’uomo superiore, né
quello della morale da schiavi. Questi opposti non sono affatto nuovi; essi sono vecchi come lo è la società umana. Da sempre l’uomo nobile, libero e privilegiato, si è distinto dalle nature servili e spesso ha esercitato
inconsapevolmente una azione, una forza, alla quale si assoggettava il
debole, il limitato e di fronte alla quale il male stava da nemico. Ma la volontà di potenza non è il principio d’una più alta concezione della vita.
Rappresenta il più basso livello di natura, è semplicemente il diritto del più
forte, mentre il livello di natura superiore è lo scoglio su cui naufraga ogni
vero potere, come tra l’altro mostra l’esempio di Napoleone I. Un principio
superiore è l’indisturbato diritto al libero sviluppo, non lo è invece l’illimitata libertà dell’agire. Le condizioni della nostra propria natura, i doveri verso la collettività in cui viviamo (poiché alla fine è poi la stessa cosa, possiamo ora chiamarli Stato, società, comunità, oppure in altro modo; negli
antri di Zarathustra la persona civile non resiste), benevolenza, amore,
tutti legami che ci stringono agli altri, sono limitazioni della libertà individuale. Libero è solo colui che riconosce i legami necessari, così da non
venire disturbato in tutto ciò che c’è di nobile nella prima fase, che io qui
ripeto: «L’idea fondamentale della cultura, purché essa sappia porre a ciascuno di noi solo un compito, è la produzione del filosofo, dell’artista e del
santo in noi e fuori di noi, per favorire e quindi per lavorare per il perfezionamento della natura». Queste poche parole comprendono il massimo
compito che può esser dato all’umanità. Euripide mandò in rovina la grande tragedia greca e quindi morì disperando del proprio talento, questo è
stato il sentimento di Nietzsche per la propria vita. Dopo che in lui la vera
tragedia pervasa dalla furia dionisiaca e trascinata dallo spirito della musica era parsa nascere, egli si volse come Euripide all’elemento socratico
e, allora, gli si sprofondarono il mondo del mito e la liberatrice virtù magica della tragedia.
Se avesse ancora una volta potuto ritornare alla luce della ragione ed
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iniziare la sua terza fase, avrebbe ripetuto, credo certamente, le parole di
Eschilo, dell’ateniese con il grande occhio: «sì, la gioia di vivere è splendida, e deve appartenere a tutti coloro che la meritano; la vita deve diventare bella – ma dobbiamo anche ponderare sul molto che gli uomini dovettero soffrire perché possa diventare così bella. Lasciateci sacrificare ai due
dei: a Dionysos e al dio della luce trasfigurante, Apollo».
Ventitré anni dopo quell’inverno trascorso con lui a Sorrento, mi trovai
nuovamente in questo delizioso luogo per il soggiorno estivo. I ricordi mi
sopraffacevano in ogni momento con tale intensità che mi sembrava di
nuovo con un divertito sorriso passeggiare qui intorno, negli stretti sentieri circondati dai muri oltre i quali gli alti alberi di arancio piegavano i loro
rami con i frutti d’oro e la vite rigogliosa e selvaggia tendeva sulla strada
i suoi rami come archi di festa. Lo risentivo, alla sera comodamente seduto nel nostro piccolo cerchio, fare bellissimi commenti alle lezioni di Jacob
Burckhardt sulla cultura greca e percepivo il suo allegro sorriso per le buffe idee del nostro giovane compagno Brenner, oppure per il racconto di
comici avvenimenti che si svolgevano nella località le cui condizioni erano allora ancora molto primitive (essa si è rispetto ad allora enormemente modernizzata). Il ricordo crebbe con tale chiarezza che sentii l’esigenza di descrivere qui la figura dell’amico, dall’inizio del nostro rapporto, fino alla sua conclusione in Sorrento, allorché – il 26 di agosto arrivò il giornale con un telegramma da Weimar del 25 agosto, ed esclamai: grazie a
Dio il cupo sogno è finito! Per questo rimase davanti ai miei occhi per tutto il tempo e intensamente l’immagine del primo Nietzsche; la dura lotta è
finita; l’eroico uomo indulgente, lo stanco combattente può ora riposare e
il primo Nietzsche vive per sempre, nella sua originaria armonia, con l’ultima parola di ogni vera filosofia sulle labbra: «Tutto ciò che passa è solo
una parabola».
(traduzione di Giovanni Praticò)
da “Segni e comprensione” n. 19, anno VII, maggio-agosto 1993
* Individualitaten, Berlin und Leipzig, 1901, pp. 1-44. Su Malwida von Meysenbug
(1818-1903) e sulla sua «amicizia solare» con F. Nietzsche, la nostra rivista ha pubblicato il saggio di G. PRATICÒ, Una donna nella vita di Nietzsche. M. v. M., «Segni e Comprensione», a. IV, n. 10, maggio-agosto 1990, pp. 39-48, a cui rinviamo.
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CHARLES PÉGUY
I SEGNI DELL’ARTE (1900-1914)
a cura di Marisa Forcina, Angelo Prontera, Julie Sabiani
L’ANTICA TRIREME
Meraviglia dell’esattezza, nata in un popolo di esatti e in un popolo di
navigatori, capolavoro del taglio preciso e dell’incurvatura giusta, la galera
antica è naufragata.
Naufragate le linee perfette, le invenzioni esatte, le invenzioni di un popolo di geometri, del primo popolo di geometri. Naufragate le attrezzature
perfettamente disegnate, le precise incurvature dei legni, gli incurvamenti,
gli allungamenti, gli alleggerimenti, i timoni, le ingegnose, le sottili ma sempre uguali, e ben regolate incurvature di fianchi. Che fossero i fianchi del
vaso o i fianchi della trireme, questo vaso nautico, stessa perfezione, stessa assoluta precisione, stessa giustezza, stessa uniformità dritta curva delle incurvature nautiche. Rettitudine, perfetta rettitudine delle linee rette,
stessa perfetta rettitudine, per così dire, ed anche, sì, veramente, stessa
rettitudine, stessa perfetta rettitudine delle stesse curve, anche (perfetta)
onestà delle curve; onestà onesta, nondimeno sottile, quasi troppo ingegnosa, industriosa, creativa, anch’essa.
Precisione delle curve nautiche, mio caro Mille, e non solo questo; arriverò persino a dire delle curve aeronautiche.
Non solo infatti meraviglie della navigazione, ma arriverò perfino a dire,
già venti secoli e più prima, venticinque secoli ancora prima, fino a ventotto e molto più di trenta secoli di distanza, già meraviglie dell’aviazione. Non
solo popolo di esatti di geometri e già di aviatori. Per l’intenzione diretta e
tagliente della linea, penetrante, continua, perforante, affondante, per la diretta incurvazione della prua, che va diritta, affondando all’orizzonte, dritta
alla lontananza dell’orizzonte, per quella sorta di intenzione, di destinazione puntuale della proposizione della prua. Per quella dirittezza della direzione. Per quella rettitudine, per quella dirittura. Per quella destinazione lineare puntuale. Per quella intenzione puntata all’infinito. Per quella proposizione calma incessantemente tenuta di mira. Per quella mira calma perpetuamente sostenuta, perpetuamente, perfettamente, puntualmente,
esattamente equilibrata, del ventre, dei fianchi curvi, delle ali. Lo sperone,
la prua come un becco. E come il più acuminato dei becchi, come il più ta48
gliente, come il più trafiggente, come il più perforante anch’esso, come una
punta, come un punto di trivello, come una punta di trapano, come il più
appuntito, come una punta di compasso, come il più duro, come il più secco, un becco di legno, e un legno duro e secco; come il più appuntito, come il più pungente, il più acutangolo, il più becco acuto, il più navigatore, il
più sezionatore, il più divisore, il più nettamente lacerante. Per nulla quella stupida testa di pesce, quella stupida testa molle, mollemente triangolare, smussata, ottusa, molle, flaccida, contundente, male acutangola, così
poco o per nulla acutangola, per niente acutangola, al contrario ottusangola, mal tagliente, smussata, (proprio) alla punta, la carne molle degli animali dell’acqua, con occhi da bestia, con occhi senza tono, con occhi ciechi, senza destinazione, senza mira, senza intenzione, senza comando.
La carne molle degli animali del mare. Nessuna destinazione, nessuna
mira, nessuna intenzione, nessuna autorità di comando. Ma quello al contrario il vaso nautico, il bel vaso nautico, la galera antica, la trireme vaso
nautico; ma al contrario uno sperone, una prua come un becco. Come un
becco ben tagliente. Come un bel becco, acuto, come un bello e buon becco di testa d’uccello, di testa fine, aguzza di uccello dell’aria. Leggermente lanuginosa, leggermente adornata, leggermente più fornita di piume e di
lanugine, che avanza, che annunzia, che inizia le ali, che anticipa, che
sconta, che tende le ali senza nessun cedimento di posizione e di giustificazione del sistema, che tende le ali base (laterale) del sistema, la larghezza delle ali, la lunghezza delle ali, già come munita, come premunita di vele e di antenne, di un principio di vele.
***
Non è già un’idea moderna, un’idea barbara, quell’idea di dire sempre
troppo, di aggiungere sempre un po’ quando non c’è bisogno, come per
rassicurarsi sempre un po’ quando non ce n’è bisogno, per farci coraggio,
per darci la conferma, l’assicurazione, una rassicurazione un po’ espletiva.
E come si vede bene, a tali debolezze, a tali sembianze di forze, a tali falsi sembianti, a tali imitazioni, a tali contraffazioni, a tali finte di forza, come
è a tali menzogne, a tali barbarie che si vede come, nati in questi tempi,
qualunque cosa facciamo, qualunque cosa abbiamo, siamo nostro malgrado infiltrati, contaminati, (di barbarie) moderna e di modernismo. Come se
fosse (un’idea di aggiungere qualcosa) all’esattezza. Come se con raggiungere perfetta ad esattezza, si aggiungesse, si potesse aggiungere
qualcosa, mettervi qualche pregio in più, apportare un non so quale accrescimento. Come se ciò non fosse tutto lo stesso, l’uno nell’altro, l’uno dentro l’altro. Ed anche quell’idea di superogazione, di aggiungere perfetta ad
esattezza, di dire un’esattezza imperfetta, come se potesse esserci qual49
che esattezza imperfetta, come siamo barbari, e allo stesso tempo, tutti come siamo moderni. Ma è proprio l’idea dei moderni, la loro idea principale
di riduzione, la loro idea di dietro la testa, che c’è in effetti, che può esserci e che c’è un’esattezza imperfetta, possibilità, latitudine (i) di esattezza
(e) imperfetta (e), margini lasciati che insomma ciò è la stessa cosa, solamente che è più comodo, soprattutto che si parlasse di altra cosa. Infine è
molto comodo. In breve, c’è anche un’esattezza inesatta. Ma poiché ci
hanno ripresi seguiremo ormai un’esatta disciplina e diremo puramente e
semplicemente e non parleremo più se non con esattezza.
Esattezza delle giunture, delle giunzioni, dei tagli, delle sezioni, di tutte
le riduzioni; esattezza delle riduzioni astronomiche; delle misure degli astri
e delle volte, delle vie celesti, esattezza delle rotte nautiche, delle misure
itinerarie e delle vie nautiche, esattezza del movimento del remo in un popolo di esatti e di calcolatori, in un popolo di geometri, esattezza delle costruzioni nautiche, dei tagli architettonici; esattezza delle rette e delle curve; ingegnosa, industriosa, astuta esattezza delle curve; severa esattezza
delle rette, non meno rigorosa esattezza delle curve; (come se fosse necessario, ahimè, mettere un epiteto all’esattezza); esattezza di tutte le fessure, delle giunte di pietra e delle giunte di legno, delle assi (ben) combaciate, ben congiunte, nel tempo antico, in quel tempo in cui la materia era
la materia antica, la pietra e il legno; esattezza delle vie celesti, esattezza
delle vie terrestri, esattezza degli astri, esattezza delle isole, esattezza delle vie nautiche celesti, esattezza delle vie nautiche terrestri, marine, marittime, esattezza di tutte le intersezioni, esattezza delle sottili linee, delle attrezzature, dei piani, delle misurazioni; esattezza della via seguita; esattezza della volta celeste, delle volte celesti, (così perfettamente concentriche
inferiormente, concentricamente sovrapposte), (così perfettamente ritmate, ritmiche, euritmiche); esattezza anche delle vie seguite nella e sulla volta celeste, le une rispondenti alle altre, le vie terrestri alle vie celesti, e il
cielo alla terra; esattezza della corrispondenza stessa, della terra al cielo e
del cielo alla terra; esattezza degli alberi della nave e degli arredi, non c’era
una scatola che non fosse giusta, non un punto di congiungimento che non
fosse uniforme, non uno sprone che non fosse saldo, non un (taglio) (non
una taglia) che non fosse (ben) tagliato; non una congiunzione che non
fosse la più rigorosa; non una congiunzione che non fosse perfetta; non un
pezzo d’attacco che non fosse esatto; esattezza degli incurvamenti delle
vele; esattezza delle scansioni, del ritmo della manovra (ben) scandita;
ben cantata, esattezza delle attrezzature e degli attrezzi, esattezza delle
sovrastrutture; esattezza di tutte le strutture, delle architetture nautiche,
delle infra, delle intrastrutture, esattezza di tutte le strutture, delle strutture
più segrete, non solo esattezza delle vie seguite, ma esattezza anche delle vie sognate; esattezza delle strutture dello stesso sogno; esattezza sa50
piente esattezza delle incurvazioni, delle incurvature, degli incurvamenti
dei fianchi del vaso, dei fianchi (ben) smussati; ben giunti, ben congiunti,
delle tavole ben tagliate, esattezza del canto e del colpo dei remi, esattezza delle onde stesse del mare; esattezza infinita dell’esattezza stessa; (e
oggi al contrario noi moderni diciamo: inesattezza stessa).
Davvero, mio caro Mille, una così grande trireme è naufragata senza ritorno.
***
In acqua tranquilla, nella tranquillità dei mari occidentali, nell’acqua dolce o nell’acqua salata, in qualche lago Ficino o Fucino o in quel mar Tirreno non si sa in quale profondità da quando l’antica puntualità si è insabbiata da quando l’antica esattezza è affondata senza ritorno da quando l’acribeia ha fatto naufragio, da quando la sottile esattezza ellenica da quando
l’esatta esattezza antica è affondata, un vascello fantasma, un terzo vascello fantasma qualche volta riappare. Per tutto il tempo anch’essa ritornava a noi, ci veniva restituita con l’ellenismo e con l’umanesimo, l’esattezza antica non era per niente, non costituiva affatto un vascello fantasma.
Era (proprio) davvero lei, era (proprio) viva. Per un miracolo, per una specie di miracolo di sopravvivenza o piuttosto per quella specie di miracolo
proprio storico, proprio di rinascimento, per così dire organico che fu, che
fece il grande Rinascimento delle antiche civiltà, finché durò, per tutto il
tempo che durarono l’ellenismo, l’umanesimo, gli studi umanistici, per una
sorta di miracolo, per quella sorta di miracolo la trireme riuscì o in definitiva si riuscì, l’umanità riuscì a far sì che le trireme ritornata non avesse
l’aspetto di un qualcosa che ritorna. Una seconda morte, un secondo naufragio sta per distruggere tutto. E sarà definitivo, tutto consente di temerlo.
[da L’Esprit de système. Pierre Mille, Paris, 1953, pp. 274-276 e 285-288]
CLASSICISMO E FINEZZA
Un paesaggio fine. Finezza di piani; finezza di linee; finezza di toni; finezza dell’aria; vigorosa finezza della terra; finezza della luce; finezza dello stesso clima. Non anche delle sfumature, come diciamo noi barbari, noi
moderni, ma più fine delle sfumature (e tuttavia restando nel colore), non
delle sfumature stesse, cosa che sarebbe già un po’ grossolana, cosa che
sarebbe già un inizio di grossolanità: finezze. Non solo finezze; naturalmente non finezze (particolari) nel senso che noi moderni e professori, diamo oggi disgraziatamente a questa parola; finezza di stile, finezza di scuo51
la; finezza di educazione, di apprendistato; non finezza di retorica e grossolane finezze di romanticismo; non leggerezze nel nostro senso di pesantezza, non finezze nel nostro senso rozzo di grossezza; non finezze; ma
come una (grande) nobiltà così una finezza, una grande finezza d’insieme,
che non si lascia proprio esprimere, una grande finezza tutta spontanea,
tutta naturale, tutta originale, tutta originaria, tutta di nuova origine, tutta
d’origine e di razza, di buona lega, che non consente interpretazioni, e che
essa stessa comincia col non (voler) lasciarsi interpretare (da se stessa).
Un paesaggio fine.
Senza esclamazioni, senza punti esclamativi, senza paroloni. E che ha
dimostrato cento volte che potrebbe riscoprire tutto ciò che vi è di (più)
grande nella grandezza, tutto ciò che vi è di (più) profondo nella profondità della natura umana.
[…] a qual […] punto questo paesaggio è perfettamente classico, dato
che è perfettamente nobile; questo doppio paesaggio; paesaggio di questa
pianura dai (numerosi) piani, dagli orizzonti perfetti; paesaggio, secondo
paesaggio, dolci vallate che lo solcano (di sotto). E che a loro volta si solcano, s’incavano, si ritirano. Tutti e due, insieme, ugualmente, congiuntamente, armoniosamente classici; classici insieme. Basta essere passati un
giorno semplicemente sulla strada, su quell’argine, sulla diga, sulla gettata, sulla carreggiala dello stagno di Saclay, e aver solamente lasciato un
po’ aperti gli occhi che sapevano.
(IV degli Essais cours in L’Esprit de système, cit., pp. 323-324).
IL CLASSICISMO: NOBILTÀ E SEMPLICITÀ
Classicità e nobiltà che non solo vanno insieme, sono inseparabili, non
solo sono inseparabilmente, indissolubilmente legate, attaccate, reciprocamente apparentati l’una all’altra, ma che sono anche la stessa cosa, neanche due facce, due aspetti della stessa cosa, ma la stessa faccia, un solo
ed identico aspetto, anche lo stesso aspetto, una sola e stessa faccia, un
solo e lo stesso aspetto identico. Ed inoltre, ed allo stesso modo, ed egualmente insieme sontuosità, maestà, vera grandezza. Prestanza della vera
grandezza. Semplicità della vera grandezza.
Nobiltà che è il cuore stesso ed il midollo del classico. Accompagnata,
rinforzata, raddoppiata, apparentata dal rispetto (interno, anche esterno,
poiché l’esterno simbolizza, rappresenta l’interno), dalla probità, dall’onestà. Soprattutto dalla rettitudine. Ah! Ci sarebbe una bella tesi da fare alla
Sorbona, una bella tesi, su ciò che è (nel fondo, nel senso proprio, nel cuore) il classico. Forse una tesi latina: Quid sit… et quo modo… Utrum…
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an… Rassicuratevi, brava gente, non siamo ancora oggi impegnati ad elaborare questa tesi, e a discuterla alla Sorbona. E non è affatto per questa
tesi che in questo stesso momento, nel momento nel quale scrivo, le ondate di tutti questi manifestanti battono come flutti le coste dei muri di queste case immobiliari.
Siamo noi (altri) poveri democratici, poveri moderni, lamentevoli moderni, sempre (in)tasati, segnati sempre, sempre impregnati, con impresso
qualche romanticismo, (sempre marchiati, tinti noi stessi di qualche cosa di
rifritto) da qualche marchio, da qualche macchia, da qualche tara romantica, infiltrati, attraversati da qualche penetrazione, da qualche infiltrazione
romantica, insomma siamo noi sempre miserabili moderni che crediamo,
che immaginiamo, che vogliamo credere ed immaginarci che nobiltà non
potrebbe essere semplicità, che anzi sarebbe il contrario della semplicità,
che ci sarebbe una specie di contrarietà tra la nobiltà e la semplicità.
Era in modo particolare una delle innumerevoli idee false dell’uomo di
cui stiamo parlando; una delle più evidentemente false; di conseguenza
una di quelle alle quali ci teneva di più, forse sinceramente, certamente
sinceramente, una di quelle su cui egli ha di più (pesantemente), costantemente, arbitrariamente insistito.
Naturalmente.
Ma realmente io non dico (neanche) guardate; io dico soltanto vedete,
lasciatevi vedere soltanto questo paesaggio; passando lungo la strada dello stagno di Saclay; dove vi è quella piccola casetta; a destra andando a
Versailles; di fronte a quella specie di piccolo contrafforte a sinistra; con
delle scale; di fronte l’uno all’altro; nel mezzo della lunghezza dell’argine;
che guarda proprio lo stagno; o l’argine. Ed ora ditemi soltanto se avete capito, se avete conosciuto, se sapete che cosa è la nobiltà.
E se non è (la) semplicità stessa.
La prova, è che questa misera casetta di pietra o di melma squadrata
che veglia, che guarda nel mezzo della lunghezza dell’argine dello stagno
è grande quanto Versailles. Essa è dello stesso paese; dello stesso paesaggio; dello stesso clima; della stessa aria; dello stesso cielo; della stessa illuminazione; della stessa luminosità; della stessa luce bionda; delle
stesse linee pure, nette, squadrate, classiche; così tagliate, così lapidarie,
così pietra, così operazione come la materia antica, della vecchia materia,
della prima materia originaria, così operazione di ritaglio, così (rispettosamente) rintagliate; così solenni, così oneste, così probe; così dirette; letteralmente così sontuose; così semplici dunque; dello stesso tempo, della
stessa età, dello stesso (grande) secolo; della stessa antichità rispettabile;
dello stesso stile; della stessa famiglia, dello stesso tipo, della stessa razza. E se voi accusate Versailles di essere pomposa (quando è invece,
mentre è la più grande semplicità) abbiate il coraggio, di accusare anche
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questa sorella (non cadetta; niente affatto orleanista; niente affatto degli
Orléans), questa seconda sorella, questo secondo, questo secondo esemplare, questa non umile casetta squadrata; ma modesta.
Superba (in realtà), tanto superba quanto il palazzo; così altamente rispettabile, così capace di farsi rispettare; parlando, sapendo parlare il linguaggio che è necessario per tutto ciò.
Non piccola casetta; (ma) grande. Grande come Versailles; come il palazzo, come il castello, come il parco. Con il suo stagno; con il suo paese;
con la sua linea d’orizzonte. Poiché essa è della stessa famiglia (reale).
Essa ha come la grande sorella la stessa autorità, lo stesso dominio
(reale) sullo stesso paese; la stessa regalità dello stesso reame, sul regno
dello stesso paese.
La stessa autorità di comando, la stessa aria di testa, la stessa legittimità, la stessa grandezza, la stessa semplicità, la stessa semplice grandezza.
Così grande; così semplice, così nobile. Così classico.
Per niente affatto quindi una piccola casetta (da niente); ma una grande casa, reale, una grande dimora, poiché è anche essa, essa per prima,
la casa del classico stesso.
[da Deuxième Elegie XXX, Paris, 1955, pp. 126-128]
ARCHITETTURE PARALLELE: SONETTI E CASTELLI
DEL RINASCIMENTO FRANCESE
Fiori, foglie, merletti, vesti e strisce di pietra; fiori, foglie, merletti, vesti
e strisce di parole.
Perfetto allineamento dei monumenti architettonici; perfetta architettura, perfetta orizzontalità, perfetta verticalità dei monumenti prosodici. Proporzioni egualmente conservate negli uni e negli altri, egualmente perfette, egualmente sagge, egualmente armoniose.
Fiume che canta eternamente il poema della solitudine e della tranquillità infinita, il solo comunque che abbia una corte, il solo che per una meravigliosa contraddizione interna viva in effetti nella solitudine più eterna,
nella quiete e nella tranquillità più infinite, nella pace del cuore e nel solo
nobile e nel solo degno silenzio, e che nello stesso tempo e comunque, per
una ammirevole intima contrarietà, è anche il solo che si sia fatto più che
un corteo, più che una corte: il solo che abbia potuto farsi tutto un popolo
di castelli.
Architetture ammirevolmente ordinate di pietra e di mattone, dove il
mattone dà il pieno della materia, matrimonio perfetto dove il rosso del
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mattone dà il pieno, il sangue della materia, dove la bianchezza eclatante,
poi invecchiata, passata, ingiallita come una pergamena, crema, cremosa,
avorio, bionda quasi come le stesse spiagge, dorata quasi quanto le spiagge sinuosissime, dove la bianchezza una volta eclatante, oggi eclatante
passata, dove la vecchia bianchezza eclatante, patinata dalla sapiente e
perfetta e perfettamente rettangolare pietra da taglio apporta, dà la linea,
fa l’informazione, dà quella nobiltà fissala, la decisione, la deliberazione
della forma, segna il tratto, sottolinea il gesto, fa il limite, arresta e limita la
materia, dà la verticale, dà l’orizzontale, dà la finestra, dà la porta, dà la
barra e l’altezza d’appoggio, dà la curva viva e pazientemente ascensionale della scala, dà la rampa, impone l’imposta, prepara la stessa grondaia
(scemo chi disprezzasse la grondaia; la cattedrale, non era affatto scema,
non la disprezzava affatto, né la nascondeva, anzi la mostrava, certo se ne
compiaceva, con una specie di ostentazione; scemo chi l’abbia disprezzata sotto il nome di canale gocciolatoio; scemo anche chi la disprezzasse
sotto il nome più modesto, più allungato, anche più lineare, sotto la forma
più modesta, lineare, di querciolo; quando tutta questa Loira, che cosa è in
fondo in fondo se non l’immensa e centrale grondaia di tante grondaie secondarie di tutte le piogge di tutto questo castello di terreni, di questo grande castello di terreni che è il suo bacino fluviale?).
Disegna l’angolo, interrompe la finestra e la porta, richiama eternamente alla materia, al pieno rosso ardente e vivente della materia di mattone,
ed anche al piano blu luccicante inclinato così stranamente vibrante per lamine, marezzato, cangiante, splendente qualche volta di rosa ed in lamine
imbevute, quasi di rosso, dell’ardesia, dove il vecchio bianco passato dalla nobile pietra di taglio richiama a tutta questa materia, per quanto nobile
essa stessa sia, ai pieni ed ai piani di tutta questa materia, che vi è una forma, che vi è un limite, che vi è una linea; e che per lo stesso colore non vi
è solo il rosso del sangue delle arterie ed il blu del cielo, che non vi è solo
della pelle del mattone ed il blu del cielo ridipinto in lamine lucenti più marcate ma tendenti all’inclinazione acuta più immediatamente vicina ai tetti,
ma che vi è anche il bianco, il nobile bianco, la luce pura, la linea pura, il
bianco puro, il bianco limite, al di là del quale non si può andare; materia
esso stesso; ma materia di che forme, materia ellenica del marmo della
scultura; particolarmente incaricata di ricordare a tutta questa materia che
nel mondo vi è una forma, che nella creazione vi è una linea; pietra da taglio fondamentale, eterna come la geometria stessa, di cui è un’espressione, una concretizzata rappresentazione ma perfettamente esatta e pura,
particolarmente incaricata di ricordare a tutta questa materia della creazione, – essendo il mattone essenzialmente molecolare, elementare, atomistico, equivalenziale, – particolarmente incaricata di ricordare a tutto questo mattone materiale, a tutto questo contenuto, con un tono calmo e cor55
tese, ma deciso, in un linguaggio retto e posato, ma deciso, e da cui essa
non si allontana mai, – perché essa se ne nutre, – che l’elemento non è
tutto, che vi è l’insieme; che la cellula non è tutto, che vi è il tessuto; che il
membro non è tutto, che vi è il corpo; che vi è un’armatura ed un’ossatura; che il contenuto non è tutto, che vi è una forma forma, che vi è una geometria, che vi è una retta, una orizzontale, una verticale, che non si tratta
di debordare, sconsideratamente, d’avere dei ventri e dei vuoti, ma che vi
è la linea retta, la limitazione perfetta, la periferia ed il perimetro, il giro, la
deviazione ed il circuito; il contorno; e titolo proprio della materia pietra da
taglio il compito particolare di ricordare ai colori materiali che vi è anche
una materia eminente, una luce pura, il bianco del marmo della scultura; in
modo particolare incaricata di ricordare alla nostra signora l’architettura, in
un linguaggio cortese ma deciso, in un linguaggio per definizione misurato, che vi è la nostra signora la scultura.
Che vi è la scultura statuaria; o piuttosto che di questi stessi castelli e
di questi palazzi, di queste costruzioni veramente organiche, di questi monumenti veramente corporei, corpi essi stessi, fa altrettante statue, ammirevoli, viventi, perfette statue, che di tutte queste stesse architetture fa altrettante sculture ed altrettante statue; che infine in questi castelli, ed in
questi palazzi, e sempre come materia a titolo di materia, fa la sola materia di tanti ammirevoli dettagli, fini spinti, non sovraccarichi, d’una giustezza cortese, che non bisogna chiamare ornamenti, ma che non bisogna indicare affatto, perché sono le arterie stesse del corpo, per la forma, le vene che corrono, saltano, si arrampicano a fior di pelle, i fili dei nervi, il nastro, il tratto stesso e la sottolineatura, a cui insomma non bisogna dare alcun nome generale o generico di ornamenti, e di cui dovrete dirmi il nome
particolare, il nome di dettaglio, i nomi tecnici, i nomi propri, o Fritel, per
cento e sette ore, e le origini, e le cause, e le sorgenti, tutte le modanature e le nervature, foglie e fiori di pietra, fioritura, sbocciatura, fronde, radici
e tessuti di pietra da taglio di cui instancabilmente mi farete il disegno più
scrupoloso.
Poemi che parlate come la pietra, così dura sotto l’unghia, così decisa,
così cortese, così architettura e statuaria; pietra, castelli e palazzi che parlale proprio il linguaggio di Ronsard.
[da De la situation faite au parti intellectuel dans le monde moderne devant
les accidents de la glorie temporelle, in Oeuvres en prose (1898-1908),
Paris, 1959, pp. 1210-1213]
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UN ATLETA SCOLPITO DA FIDIA
È avvenuto che un uomo mortale ha ricevuto dagli dei un segreto capace di far vivere eternamente ciò che era nato mortale.
In vene di marmo che non moriranno, Fidia, di Atene, ha fatto scorrere
un sangue di marmo che non finirà mai di scorrere. È proprio lo stesso sangue, o Socrate, sono proprio le stesse vene reticolate, è proprio lo stesso
ammirevole corpo perfetto. È proprio lo stesso e comunque è altro. Questo sangue è proprio lo stesso sangue, e comunque è altro. Queste vene
sono proprio le stesse vene, e comunque sono altre. Questo corpo è proprio lo stesso corpo e comunque è altro. Perché questo sangue di marmo
che scorre proprio, acribòs come il sangue di quell’atleta inimitabile non finirà di scorrere eternamente; e queste vene, che battono proprio come le
vene di quell’atleta, eternamente non finiranno di battere con un ritmo perfetto la carica del tamburo di quella vita; e questo corpo di marmo, vivo
quanto l’altro, non finirà di vivere e per così lungo tempo finché gli uomini
vivranno su questa terra temporale, o Socrate, essi non cesseranno, anche essi, essi non finiranno di contemplare questi corpi dalle pulsazioni di
marmo. Perché Fidia l’ateniese li ha colati nel marmo ellenico per sempre,
o Socrate, per una eternità temporale.
[da La Thèse. Paris, 1955, pp. 209-210]
A PROPOSITO DELLE NINFEE DI MONET
Dato che questo grande pittore ha dipinto venticinque e trentasette
volte le sue celebri ninfee, ha delineato anche (e con ciò stesso) un grande problema, un ammasso di grande problema, un problema limite, un
problema singolare di massimo e di minimo. Dato che ha dipinto venticinque e trentasette ninfee, date d’altra parte uguali tutte le altre condizioni, quale sarà la migliore, la meglio dipinta; quale volta sarà, la migliore? La prima tendenza, la tendenza del buon senso, la tendenza logica,
ed in un certo senso la tendenza meccanica è di dire: l’ultima, perché
dall’uno all’altro fino all’ultimo prende sempre, guadagna sempre, acquisisce sempre, (e conserva sempre ciò che acquisisce) (condizione necessaria e sine qua non), sale sempre. Movimento illusorio. È la teoria
stessa del progresso. Teoria di abuso e di disillusione. È l’idea, è la teoria del progresso temporale indefinito per l’uomo e per l’umanità. Abbiamo già dimostrato che questa teoria, essenzialmente moderna, è essenzialmente, essendo nel moderno, una teoria di risparmio e da cassa di risparmio, di fecula e di riserva, una teoria di (la) capitalizzazione e pro57
pria dell’età della capitalizzazione. Ed io vi dico: la creazione d’arte,
l’operazione non è affatto un’operazione di capitalizzazione borghese.
Nello stesso tempo in cui prende ad ogni volta, nello stesso tempo nel
quale guadagna, egli prende anche invecchiamento; nello stesso tempo
nel quale prende mestiere, e dell’abitudine (questo guadagno), egli prende anche, egli prende ogni volta dell’invecchiare, egli prende dell’abitudine (questa perdita), egli guadagna in invecchiare, acquisisce dell’invecchiare, egli guadagna del perdere. Egli perde la freschezza, egli perde
l’innocenza primaria, questo bene unico, non rinnovabile. Ed io vi dico: al
contrario sarà la migliore la prima volta, perché essa è la meno abituata;
la prima ninfea sarà la migliore, perché essa è la stessa nascita; e l’alba
della opera; perché questo quadro comporta il massimo di ignoranza, il
massimo di innocenza e di freschezza; d’altra parte date tutte per eguali le altre condizioni, la prima ninfea è il quadro migliore, perché sa di meno, perché non sa affatto. No, niente affatto l’ultimo, perché esso sa di
più. Infinitamente no, se sa tutto. L’abitudine, questa (grande) forza; questa grande debolezza.
Tutto il problema del genio è proprio qui. L’ultimo quadro di ninfea sarebbe il migliore, parlando il linguaggio logico, se la realtà consentisse a
parlare il linguaggio logico. Ma essa non ci sta, la scostumata. L’ultimo
quadro di ninfea sarebbe il migliore, secondo la teoria, la logica della capitalizzazione capitalista moderna, se la realtà acconsentisse a prendere
questo libretto di cassa di risparmio, ma non vi acconsente, la spendacciona; la natura non vi acconsente affatto, la tutta miserabile e tutta ricca, mai
povera, mai brava ragazza, tutta piena e tutta orgogliosa della sua fecondità di creazione.
Ve lo dico dunque: il primo sarà il migliore perché non sa, perché è proprio esso che è tutto pieno di meraviglia, data d’altra parte la costanza delle altre condizioni, tutto pieno di thaumàzein e di novità. Tutto un problema
di genio, quasi tutto il suo problema temporale è forse qui: guadagnare, se
è possibile (e ciò non è essenziale), ma senza perdere; guadagnare, acquisire mestiere, mio Dio sì, ma soprattutto, ma essenzialmente non perdere in meraviglia ed in novità, non perdere questo fiore, se è possibile non
perdere un atomo di meraviglia. È il primo che conta. È la meraviglia che
conta, principio sicuro di scienza, come disse quel famoso antico, ma non
tanto principio di scienza quanto veramente e realmente ed infinitamente
più uno dei più profondi principi dell’adorazione.
[da Dialogue de l’historie et de l’ame charnelle, in Oeuvres en prose (1909-1914),
Paris, 1961, pp. 312-313]
da “Segni e comprensione” n. 4, anno II, maggio-agosto 1988
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ROSA LUXEMBURG
CHIESA E SOCIALISMO (inedito, 1905)
Da quando in tutto il Paese, e anche in Russia, il proletariato ha assunto una lotta senza quartiere contro il governo zarista e i defraudatori capitalistici, nelle prediche dei sacerdoti si osserva un sempre più frequente atteggiamento ostile verso il proletariato in lotta.
Il nostro clero si scaglia con austerità contro i socialisti e si adopera con
tutte le sue forze a screditarli dinanzi al proletariato.
Accade con sempre maggiore frequenza che i credenti, i quali si recano in Chiesa per la messa domenicale o festiva ad ascoltare la predica e
per trovare conforto religioso, invece debbano sorbire una severa, qualche
volta impetuosa, oratoria politica o socialista.
Piuttosto che incoraggiare i credenti, che a causa della loro precaria
condizione di vita sono affranti, i sacerdoti per un verso inveiscono contro
gli scioperanti o contro i capi del proletariato in lotta e consigliano di sopportare le pene e la sottomissione con pazienza e remissione, per l’altro
rendono Chiesa e pulpito luogo di propaganda politica.
Ogni lavoratore deve ammettere per esperienza propria, che questo atteggiamento ostile del clero contro i socialdemocratici, da questi ultimi non
è stato incoraggiato. I socialdemocratici non hanno mai perseguito la lotta
con la Chiesa o il clero.
I socialdemocratici cercano di mobilitare e organizzare il proletariato alla lotta contro il capitale (cioè la lotta contro lo sfruttamento perpetrato dagli imprenditori, che prosciugano loro il sangue nelle vene) e alla lotta contro il governo zarista, che in ogni momento serra la gola al popolo, ma in
nessun caso incoraggiano il proletariato alla lotta contro il clero e mai potrebbero togliere loro la confessione religiosa. Al contrario! Qui i socialdemocratici, e allo stesso modo in tutto il mondo, si attengono a un principio
di fondo: “La coscienza e le convinzioni dell’uomo sono sacre e inviolabili.
Ciascuno è libero di attenersi alla confessione e alla convinzione che lo
rendono felice. Nessuno ha il diritto di perseguitare od offendere le convinzioni religiose degli uomini”. Ecco ciò che affermano i socialdemocratici.
Da ciò deriva, tra l’altro, l’appello a tutto il popolo di opporsi al governo zarista, che violenta la coscienza degli uomini e perseguita protestanti, cattolici, ebrei, eretici e aconfessionali.
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Perciò, sono proprio i socialdemocratici che con impeto difendono la libertà di coscienza e la confessione di ciascun essere umano. Ma non finisce qui. Se riflettiamo su ciò verso cui la socialdemocrazia tende e quali insegnamenti trasmette al proletariato, allora diventa sempre meno comprensibile l’odio del clero rivolto ad essi.
I socialdemocratici aspirano a sbarazzarsi del potere dei ricchi sfruttatori e vessatori del povero popolo di lavoratori.
Per cui bisognerebbe pensare che i servitori della Chiesa cristiana, per
primi, dovrebbero appoggiare e tendere le mani ai socialdemocratici, poiché l’insegnamento di Cristo, del quale i sacerdoti sono i servitori, dice che
“è molto più probabile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago
piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli”.
I socialdemocratici intendono introdurre in tutti i Paesi un ordinamento
sociale, che si basa sull’uguaglianza, la libertà e la fratellanza di tutti gli uomini e anche in questo gli ecclesiastici dovrebbero accogliere con benevolenza l’agitazione dei socialdemocratici, sempre che si dimostri integrità
d’azione nell’impiego incondizionato del precetto di Cristo: “Ama il tuo
prossimo come te stesso”.
I socialdemocratici si sforzano implacabilmente di istruire e organizzare il proletariato, affinché possa riemergere dalla sottomissione e dall’indigenza, assicurando a se stesso e ai suoi figli un futuro migliore.
Ciascuno di noi deve ammettere che anche per questo i sacerdoti dovrebbero solo lodare i socialdemocratici, considerando che Cristo, del quale i sacerdoti sono servitori, ha affermato: “Ciò che arrecate ai poveri è come se fosse rivolto a me”.
Invece, osserviamo che il clero scomunica e perseguita la socialdemocrazia, cerca di persuadere i lavoratori a sopportare pazientemente la loro
sorte, cioè lasciarsi pazientemente sfruttare dai ricchi (i capitalisti).
Il clero inveisce contro i socialdemocratici e cerca di persuadere il proletariato a non sollevarsi contro il potere centrale (governo). Da ciò ne consegue che bisogna sopportare con pazienza la sottomissione, che uccide
uomini indifesi, che manda migliaia di uomini in guerra, in un orripilante bagno di sangue, che perseguita cattolici, protestanti, seguaci di antiche credenze per la loro fede e confessione religiosa.
Difendendo i ricchi, lo sfruttamento e la sottomissione, il clero si pone
in netta contrapposizione all’insegnamento cristiano. Vescovi e sacerdoti
non appaiono quali detentori degli insegnamenti di Cristo, bensì di un
agnello d’oro e di una sferza che flagella poveri e esseri indifesi.
Ciascuno sa inoltre per esperienza diretta che gli stessi preti tormentano il povero popolo lavoratore, sottraendo al lavoratore per matrimoni, battesimi e funerali l’ultimo centesimo. E spesso è successo anche che il prete, chiamato a celebrare un funerale, affermasse di non muoversi di casa,
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se prima non gli avessero poggiato una determinata somma di rubli sul tavolo e il lavoratore sconsolato si accingesse così in tutta fretta a vendere
o impegnare l’ultimo mobile del salotto, pur di aggiudicarsi il conforto religioso per il suo caro.
Tuttavia, esistono anche altri ecclesiastici. Ci sono anche alcuni che
con grande generosità e compassione non badano al guadagno e sono disposti ad aiutare ove si presenti l’urgenza.
Ma tutti ammettono che si tratta di eccezioni, di mosche bianche. La
pluralità dei sacerdoti riserva ai ricchi e ai potenti visi sorridenti e genuflessioni da suddito e perdona loro in silenzio ogni sopruso e dissolutezza. Il
più delle volte, il clero riserva ai lavoratori solo inesorabili vessazioni e severe prediche per la loro pretensione a volersi difendere contro lo sfruttamento sfacciato dei capitalisti.
Questa esplicita contraddizione tra la condotta del clero e i precetti cristiani deve necessariamente stupire il lavoratore pensante, così che istintivamente chiede: per quale motivo la classe dei lavoratori nella sua aspirazione alla libertà non trova amici nei servitori della Chiesa, bensì nemici? Per quale motivo, oggi, la Chiesa non è rifugio per gli sfruttati e i sottomessi, ma fortezza e protezione della ricchezza e del sanguinoso sopruso?
Per comprendere questo sorprendente fenomeno, è necessario conoscere, almeno per sommi capi, la storia della Chiesa e osservare che cosa ha rappresentato e che cosa è diventata nel corso del tempo.
La diffusione del “comunismo” nelle prime comunità crisitane
Uno dei più aspri rimproveri che il clero rivolge ai socialdemocratici è il
voler introdurre il “comunismo”, cioè la comunione di tutte le risorse e i beni terreni. È interessante rilevare qui che gli odierni preti, quando inveiscono contro il “comunismo”, in realtà prendono di mira i primi apostoli della
cristianità, visto che sono stati proprio loro ad essere i più entusiasti comunisti.
La religione cristiana fu fondata notoriamente nella vecchia Roma nel
periodo del suo più grande declino. Questo regno, un tempo ricco e imponente, comprendeva tutta l’odierna Italia, Spagna, una parte della Francia,
una parte della Turchia, Palestina e molti altri Paesi.
Le condizioni che vigevano a Roma ai tempi della nascita di Cristo erano molto simili a quelle dell’odierna Russia: da un lato, una manciata di ricchi che godevano dell’ozio, di un lusso sfrenato e di un’abbondanza senza limite; dall’altro, una gigantesca popolazione che si inabissava in una
spaventosa miseria e, al di sopra di tutto, un governo di despoti che, retti
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sulla violenza e sulla depravazione morale, attuavano una indicibile pressione, tanto da spremere fino all’ultimo la popolazione.
In tutto il regno, il dissesto: nemici esterni che minacciavano lo Stato da
più parti; una soldatesca selvaggia e spavalda che maltrattava la povera
popolazione; villaggi desolati e spopolati con terreni sempre più improduttivi; invece, la città, la capitale Roma, stracolma di gente smunta, senza
pane, rifugio, speranza e via d’uscita dalla miseria.
Solo per un aspetto sussiste tra la Roma in decadenza e l’odierno Regno degli Zar una grande differenza.
A quell’epoca, a Roma non esisteva il capitalismo, cioè non esistevano
industrie che per mezzo del lavoro di operai salariali producevano prodotti destinati alla vendita.
A Roma regnava la schiavitù e le famiglie benestanti soddisfacevano,
tanto quanto i ricchi e i contabili, tutte le loro necessità per mezzo del lavoro degli schiavi, questi ultimi strappati dalle loro terre in seguito a delle
guerre e condotti in terra straniera.
Questi ricchi arraffarono gradualmente tutto il territorio italiano sottraendolo ai contadini romani e, visto che veniva raccolto gratuitamente grano
quale tributo, essi stessi trasformarono le proprietà conquistate in enormi
piantagioni, vigneti, pascoli, parchi, coltivati da un grande esercito di schiavi spronati dal bastone dei guardiani.
Privati della terra e del pane, la popolazione rurale affluì da tutta la provincia verso la capitale Roma, però qui non trovò alcun guadagno, poiché
per ogni mestiere venivano impiegati schiavi. Così si raccolse gradualmente a Roma un’enorme massa di popolo priva di qualsiasi possesso, un proletariato che però non poteva neanche vendere la sua forza lavoro, visto
che nessuno ne aveva bisogno.
Questo proletariato che proveniva dalla campagna non venne assorbito dal tessuto industriale, bensì decadde ad una condizione di estrema povertà, tanto da doversi adattare a fare i mendicanti. Poiché questa massa
di popolo dei sobborghi, occupante strade e piazze di Roma, rappresentava un costante pericolo per il governo e per i regnanti, il governo dovette
in qualche modo lenire le loro pene: di tanto in tanto da depositi del governo furono prelevati e distribuiti al proletariato grano o addirittura generi alimentari, per acquietare, per un certo arco di tempo, il minaccioso brontolio; furono anche organizzati giochi gratuiti al circo, per tenere occupata la
mente e i sentimenti del popolo irrequieto.
Quindi, l’intero gigantesco proletariato di Roma viveva di elemosina, a dispetto dell’odierno proletariato che con il suo lavoro sostiene tutta la società.
A quei tempi, a Roma, tutto il lavoro a favore della società era sulle
spalle dell’infelice schiavo maltrattato come un animale da lavoro e in questo mare di pene e di sottomissione umana, una piccola cerchia di magna62
ti romani festeggiava selvagge orge di eccessi e dissolutezza. Una via di
uscita da questi mostruosi rapporti sociali non esisteva.
Di tanto in tanto, il proletariato si lamentava e minacciava un’insurrezione, ma la classe dei mendicanti, che non lavorava e viveva solo delle ossa che venivano gettate loro dalle tavolate dei ricchi e dello Stato non poteva dare vita ad un nuovo ordinamento sociale.
I ceti bassi che mantenevano con il loro lavoro tutta la società, da schiavi estremamente umiliati, ridotti a frantumi, si trovarono troppo emarginati
dalla società, tanto quanto gli animali da lavoro dall’uomo, affinché potessero realizzare una riforma di tutta la società.
Qualche volta, gli schiavi si sollevavano contro i loro padroni, per liberarsi dal giogo con fuoco e spada, ma l’esercito romano soffocava sempre
le loro rivolte e migliaia furono martoriati sulla croce o trucidati.
A queste raccapriccianti condizioni di declino della società, ove non si
vedeva nessuna via di scampo per l’enorme massa di gente, nessuna speranza per una sorte migliore sulla terra, gli infelici iniziarono a cercare speranze rivolgendosi al cielo. La religione cristiana apparve ai diseredati e
miseri un’ancora di salvezza, conforto, lenimento e divenne sin dal primo
momento la religione dei proletari romani.
Conseguentemente, alla condizione materiale di questo ceto sociale, i
primi cristiani iniziarono ad avanzare la pretesa di una proprietà comune (il
comunismo).
Naturalmente, il popolo non aveva mezzi di sostentamento, colava a
picco per l’indigenza, perciò la religione, che difendeva questo popolo, invogliava i ricchi a dividere con i poveri, al fine di realizzare una comunione
di ricchezze e l’uguaglianza fra gli uomini.
Queste pretese si discostano da quelle poste dai socialdemocratici, cioè
che gli utensili e in generale i mezzi di produzione debbano appartenere a
tutti, visto che tutti devono lavorare insieme e vivere dal loro lavoro.
I proletari di allora vivevano, come abbiamo potuto constatare, non dal
loro lavoro, bensì dalle elemosine provenienti dal governo.
Derivava da ciò la richiesta dei cristiani di proprietà comune, senza riferimento ai mezzi di produzione, ma ai viveri. Ciò significa che non si riferivano a una comunione di proprietà terriera, officine o comunque arnesi
da lavoro, ma a una condivisione di abitazioni, vestiario, alimenti e oggetti
d’uso comune.
Da dove dovessero provenire queste ricchezze non era quesito che i
comunisti cristiani cercavano di risolvere.
Il lavoro rimase affare degli schiavi. Il popolo dei cristiani pretendeva
soltanto che coloro i quali possedevano ricchezze, nel convertirsi alla religione cristiana, le cedessero alla comunità e che tutti fraternamente e con
eguaglianza ne potessero disporre.
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In questo modo furono fondate le prime comunità cristiane.
“Per questa gente”, così descrivevano alcuni contemporanei, “la ricchezza non ha significato, perciò lodano la proprietà comune e non vi è tra
di loro persona che può essere più ricco dell’altro. Sono fedeli alla legge,
per cui chi vuole aderire al loro ordine deve cedere tutti i suoi averi, ecco
perché non è possibile osservare tra di loro miseria o eccessi, tutti condividono fraternamente…”.
Essi non vivono emarginati in una qualsiasi città, bensì hanno le loro
particolari sistemazioni in ogni città e se giungono persone, appartenenti
alla loro stessa comunità, dall’estero, vi è una condivisione reciproca dei
beni in loro possesso. Questa gente è ospite l’una dell’altra, nonostante la
loro perfetta estraneità, e in questo modo si frequentano come se si conoscessero da una vita. Quando attraversano un paese non portano con sé
nulla, tranne le armi per proteggersi da possibili assalitori. In ogni città hanno un loro referente che distribuisce vestiario e generi alimentari ai nuovi
arrivati…
Tra di loro non concludono affari, anzi vi può sussistere solo un baratto e, nel caso in cui una delle parti non ha nulla per contraccambiare, allora egli può richiedere liberamente a chiunque quello di cui abbisogna”.
Nella storia degli apostoli (IV, 32. 34. 35) si può leggere una simile descrizione delle prime comunità cristiane di Gerusalemme: “Nessuno affermava dei propri beni che gli appartenessero, ma tutto era in comunione
con tutti. E tra di loro non vi era alcuno che vivesse nella penuria, perché
molti di loro possedevano terreni o case, che vendevano e il cui ricavato
veniva destinato all’apostolo bisognoso. Così a ciascuno era dato ciò di cui
necessitava”.
Allo stesso modo scrive un certo storico Vogle nel 1780 riguardo ai primi cristiani: “Ciascun cristiano aveva diritto, sulla base del legame fraterno, di fruire dei beni di tutti i partecipanti all’intera comunità e in caso di necessità poteva esigere che gli associati gli concedessero dei propri averi
tanto quanto lo richiedeva il suo fabbisogno. Ogni cristiano poteva usufruire dei beni dei suoi fratelli e i cristiani che possedevano qualcosa non potevano negare l’uso e il giovamento degli stessi.
Un cristiano, per esempio, che non aveva casa, poteva chiedere ad altro cristiano, possidente di due o tre case, di cedergli una di esse pur mantenendo la proprietà di esse. In seguito alla consuetudine della comunione, però, una di queste case doveva essere concessa all’altro come abitazione.
Beni mobili e denaro venivano raccolti in una cassa comune e un particolare funzionario, prescelto dalla confraternita cristiana, distribuiva i beni comuni fra tutti. Ma non è tutto. La comunità dei consumatori si protese
così tanto in avanti da rendere usuale, nelle prime comunità cristiane, l’as64
sunzione del pasto quotidiano a tavolate comuni, secondo quanto descritto nelle storie degli apostoli.
In questo modo la vita nel ristretto nucleo familiare dei primi cristiani, in
realtà, andava in frantumi e tutte le singole famiglie cristiane di una città vivevano insieme come una grande famiglia. Infine, è da aggiungere che,
quanto alcuni sacerdoti, nella loro ignoranza o cattiveria, cercano di affibbiare ai socialdemocratici (ci si riferisce al desiderio di introdurre una comunità di donne, assurdità che non verrebbe in mente ai socialdemocratici nemmeno per sogno, visto che la considerano un’impostazione abietta
e animalesca dell’onesto relazionarsi) era in parte davvero praticato dai
primi cristiani.
L’idea della proprietà comune, del comunismo, così scandalosa e ripugnante per gli odierni ecclesiastici, era invece talmente cara ai primi cristiani, che alcune sette (come, ad esempio, gli gnostici, meglio conosciuti con
il nome di Adamiti) nel II secolo d.C. affermavano che tutti gli uomini e le
donne dovessero avere rapporti intimi in maniera libera, senza distinzioni,
e vivere secondo questo insegnamento.
La condivisione della ricchezza
Così erano i cristiani del I e del II secolo: entusiasti seguaci del comunismo. Ma questo comunismo dell’uso di prodotti finiti, che non si fondava
sul comunismo del lavoro, non poteva in nessun modo migliorare la situazione della società di allora, non poteva rimuovere le ineguaglianze fra gli
uomini e l’abisso fra i ricchi e il misero popolo.
I mezzi di produzione, principalmente il terreno, rimanevano proprietà
privata e, considerando che il lavoro per la società si fondava ancora sulla
schiavitù, i proventi ottenuti per mezzo del lavoro continuavano a fluire nelle tasche di pochi proprietari. Il popolo, invece, continuava ad essere privato dei mezzi per sopravvivere, tranne magari in alcune circostanze in cui i
ricchi si muovevano sospinti dalla pietà verso il popolo dei mendicanti.
Quando gli uni (si tratta, però, in proporzione di una manciata di persone) posseggono quale esclusiva proprietà privata tutto il terreno, boschi,
prati, bestiame e tutti gli edifici commerciali, artigianali, utensili e oggetti
per la produzione, gli altri (l’enorme maggioranza del popolo) comunemente non possiede niente con cui poter lavorare per se stessi, per cui è impossibile che possa esistere, a queste condizioni, uguaglianza tra gli uomini, ma ci saranno ricchi e poveri, eccesso e penuria.
Supponiamo, per esempio, che oggi questi ricchi proprietari contriti dagli insegnamenti cristiani diano ai bisognosi, per una fruizione comune, tutto il loro denaro e tutti i beni mobili, quali cereali, frutta, vestiario, bestiame
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da macello, ecc. Cosa ne consegue? Solo per un breve arco di tempo
scompare il bisogno e il popolo si nutre troppo, perciò male, e ha la possibilità di vestirsi decentemente. Ma tali mezzi ben presto finiranno. In breve
tempo, il popolo nullatenente avrà esaurito le ricchezze distribuite e si ritroverà nuovamente a mani vuote; dall’altro, invece, i proprietari dei terreni e
degli utensili potranno continuare, con l’aiuto dei lavoratori (all’epoca, schiavi), a produrre quanto vorranno, di conseguenza tutto rimane invariato.
Ecco perché oggi i socialdemocratici vedono la loro funzione in modo
diverso dai comunisti cristiani e dicono: non vogliamo pietà ed elemosine,
perché non possono cancellare l’ineguaglianza tra gli uomini. Non vogliamo che i ricchi dividano con i poveri, ma fondamentalmente non devono
esserci né ricchi né poveri. Questo sarà possibile quando la fonte di tutta
la ricchezza, la terra e tutti i mezzi per lavorare, apparterranno a tutto il popolo lavoratore, che con la sua forza lavoro potrà produrre i beni necessari secondo il fabbisogno di tutti.
I primi cristiani, tuttavia, volevano coprire la deficienza dell’enorme, inoperoso proletariato attraverso una continua divisione delle ricchezze, che
provenivano dai ricchi, ma questo significava attingere acqua con il setaccio.
Con ciò non era tutto. Il comunismo cristiano non poteva né cambiare
le relazioni sociali né migliorarle, esso persino non era in grado di reggersi a lungo. Finché le adesioni al nuovo vangelo erano esigue, finché formavano una piccola setta di entusiasti nella società romana, fino ad allora era
possibile mettere insieme la proprietà per la comune spartizione, assumere i pasti insieme e spesso anche vivere sotto lo stesso tetto.
Ma nella misura in cui aderivano sempre più persone al cristianesimo,
le comunità si diffondevano per tutto il regno, la convivenza dei seguaci diveniva sempre più difficile. L’abitudine quotidiana di consumare il pasto insieme scomparì presto del tutto e nel contempo anche il sacrificio delle
proprietà destinate all’uso comune assunse un altro significato. Considerando il fatto che i cristiani già non vivevano più in un’unica famiglia e che
ciascuno si doveva curare della propria, non si cedevano più gli interi averi per l’utilizzo comune dei confratelli cristiani, ma solo ciò che restava dopo aver soddisfatto i bisogni della propria famiglia. Ciò che i benestanti ora
offrivano alla comunità non era più partecipazione a una vita spesa nel comunismo, bensì sacrificio per altri, fratelli indigenti, perciò era già beneficenza, elemosina.
Quando i ricchi cristiani smisero di mettere mano alle proprie proprietà
e a offrire agli altri solo una parte, allora anche quest’ultima iniziò a vacillare tra un quantitativo maggiore o minore a seconda della volontà e dell’indole del confratello. A poco a poco crebbe in seno alla comunità cristiana
l’identica divisione tra ricchi e poveri, già esistente nella società romana,
contro cui i primi cristiani avevano sollecitato la lotta. Solo i cristiani poveri,
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i proletari ricevettero ancora i pasti dalla loro comunità, i ricchi presero le distanze da quelle tavolate e sacrificarono parte dei loro eccessi ad esse.
In questo modo si ripresentavano in realtà presso i cristiani le stesse relazioni che vigevano presso la società romana: il popolo viveva di elemosine e una minoranza di ricchi offriva elemosine. Ancora per molto tempo,
i Padri della Chiesa lottarono con parole accese contro questa frattura all’interno della comunità cristiana dovuta a ineguaglianze sociali, censurando aspramente i ricchi e richiamandoli a ritornare al comunismo dei primi
apostoli.
Nel IV secolo d.C., ad esempio, il santo Basilio minacciò i ricchi come
segue: “O voi miseri, come pensate di giustificarvi dinanzi al giudice divino? Voi mi rispondete: quale colpa ricade su di noi, se noi riteniamo per noi
solo quello che ci appartiene? Ma io vi chiedo: che cosa chiamate vostra
proprietà? Da chi l’avete ricevuta? … Per mezzo di che cosa si arricchiscono i ricchi, se non arraffando ciò che appartiene a tutti? Se ciascuno mantenesse per sé solo ciò che gli serve per il suo sostentamento e il resto lo
desse agli altri, non ci sarebbero né ricchi né poveri”.
Molto più insistente fu l’azione di persuasione di San Giovanni (Johannes) Chrysostomos (patriarca di Costantinopoli, nato in Antiochia nel 347
e morto esiliato nel 407 in Armenia) nel convertire i cristiani all’originario
comunismo degli apostoli. Questo noto pastore nella sua undicesima predica sulla storia degli apostoli disse: “C’era tra tutti gli apostoli grande misericordia e non c’era tra di loro nessuno che avesse sofferto la fame e
questo derivava dal fatto che nessuno diceva dei propri averi che gli appartenessero, ma tutto apparteneva a tutti. Esisteva misericordia tra di loro perché nessuno era bisognoso: ciò significa che grazie alla loro zelante
generosità nessuno viveva in povertà. Tutto questo perché non offrivano
solo una parte e il resto rimaneva a loro, ma in più consideravano il ceduto non come loro esclusiva proprietà. Abolirono l’ineguaglianza e vivevano
in grande benessere e fecero tutto ciò nel modo più lodevole. Non si sottomisero a porre il sacrificio nelle mani dei bisognosi e non lo regalarono
nemmeno per superba compiacenza, bensì lo porsero ai piedi degli apostoli e li elevarono a signori e ripartitori delle loro offerte. Dalle riserve della comunità e dalle proprietà private di ogni singolo si prelevava ciò di cui
si necessitava. In questo modo si faceva sì che i donatori non peccassero
in superbia”.
“Se oggi agissimo in questo modo vivremmo molto meglio, i ricchi come i poveri, e i poveri conseguirebbero una felicità non superiore ai ricchi,
poiché chi si sacrifica non diviene di certo povero, ma piuttosto rende ricchi anche i poveri”.
“Immaginiamoci quanto segue: tutti cedono ciò che possiedono come
proprietà comune. Non c’è nessuno che diventa irrequieto, né povero né
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ricco. Secondo voi, quanti soldi si raccoglierebbero in questo modo? Io
credo che (perché con esattezza non è possibile stabilirlo), se ogni singolo consegnasse tutto il suo denaro, terreno, bestiame, abitazioni (non faccio riferimento agli schiavi, poiché con molta probabilità i primi cristiani non
ne possedevano e, anzi, li liberavano) si raccoglierebbero nel complesso
un milione di libbre d’oro, certamente anche due o tre volte tanto. Allora ditemi, quante persone abitano nella nostra città (Costantinopoli)? Quanti
cristiani? Non sono forse centomila? E di questi quanti sono pagani e
ebrei! Si raccoglierebbero mille libbre d’oro! E quanti poveri ci sono? Non
penso siano più di cinquantamila. Per accudirli quotidianamente, quanto si
spenderebbe? Se la consumazione avvenisse a una tavolata comune, le
spese rimarrebbero esigue. Per cui, che cosa ne facciamo del nostro immenso tesoro? Pensi che lo si potrebbe riscattare un giorno? E non ricade
la benedizione divina mille volte più intensa su di noi? Non faremmo della
terra un paradiso? Se ciò si avverò così meravigliosamente presso i tremila o cinquemila cristiani dell’epoca e nessuno di essi patì la miseria, allora
quanto meglio dovrebbe riuscire con un così grande numero di persone?
Non contribuirà ogni nuovo associato con qualcosa?”
“La dispersione delle ricchezze genera grandi spese e di conseguenza
povertà. Consideriamo un’abitazione con uomo, donna e dieci figli. Lei svolge lavoro di tessitura, lui cerca sostentamento sul mercato. Avranno molte
più spese vivendo sotto lo stesso tetto o separatamente? Naturalmente vivendo separatamente. Dovessero i dieci figli accingersi a prendere strade
diverse, essi avranno bisogno di dieci case, dieci servitori e tutto il resto aumentato nella stessa proporzione. Ma come si evolve il numero degli schiavi? Non li si lascia mangiare allo stesso tavolo, per risparmiare spese? La
divisione, in genere, porta con sé spreco; la condivisione, invece, risparmio
di averi. In questo modo si vive oggi nei conventi e così vivevano all’epoca
quei fedeli. A quei tempi chi moriva di fame? Chi non era abbondantemente soddisfatto? Eppure gli uomini temono questo ordinamento molto di più
di un salto in mare aperto. Facciamo un tentativo e mettiamoci a lavoro arditamente! Quanto grande sarebbe la benedizione! Se a quei tempi, quando il numero dei fedeli si limitava ad appena tremila fino a cinquemila, se all’epoca, quando tutto il mondo ci era nemico, quando non vi era conforto in
nessun luogo, i nostri antenati erano così imperturbabili, quanta sicurezza
in più dovremmo avere ora che, con la misericordia di Dio, esistono ovunque credenti! Chi sarebbe rimasto a quei tempi pagano? Nessuno, penso.
Avremmo agghindato tutti e li avremmo vinti a nostro favore”.
L’invadente tentativo di persuasione e le accese prediche di Johannes
Chrysostomos non ebbero seguito. Non fu intrapreso nessun tentativo di
diffusione del comunismo a Costantinopoli o altrove. Con il diffondersi del
cristianesimo, che già all’inizio del IV secolo era la religione preminente a
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Roma, i fedeli non si rifecero all’esempio dei primi apostoli (alla comunione
dei beni), bensì si allontanarono sempre di più da esso. L’ineguaglianza tra
ricchi e poveri all’interno della comunità dei fedeli si accentuò sempre di più.
Ancora nel VI secolo d.C., riecheggia l’appello di Gregorio il Grande:
“Non è sufficiente rispettare la proprietà altrui. Non siete privi di colpe, se
conservate per voi stessi averi che Dio ha creato per tutta l’umanità. Chi
non offre ad altri ciò che possiede è ladro e assassino, perché se conserva per sé ciò che potrebbe servire al sostentamento dei poveri, uccide giorno dopo giorno tanti quanti potrebbero sopravvivere dalla sua sovrabbondanza. Se condividiamo con i poveri non diamo loro ciò che ci appartiene,
ma ciò che appartiene loro. Questo non è un gesto di commiserazione,
bensì il ripagare per le proprie colpe”.
Questi appelli non ebbero seguito a causa della durezza d’animo dei
cristiani di allora, nonostante essi certamente dovessero dimostrare maggiore sensibilità verso le prediche dei Padri della Chiesa rispetto agli odierni cristiani. Ma non era la prima volta nella storia dell’umanità in cui si osservava una maggiore incidenza delle condizioni economiche rispetto alle
più belle prediche. Il comunismo, la società del consumo, di cui i primi cristiani hanno favorito la diffusione, non poteva mantenersi a galla senza il
lavoro di tutta la comunità svolto sulla terra e le officine in loro possesso,
ma a quei tempi era pressoché impossibile introdurre un’attività del genere con mezzi di produzione condivisi, poiché nel lavoro trovavano impiego
gli schiavi, emarginati dalla società, e non gli uomini liberi. Sin dall’inizio, il
cristianesimo non intraprese nulla e non aveva nemmeno la facoltà di revocare le ineguaglianze nel lavoro e nella proprietà dei mezzi di produzione, per cui risultava privo di speranza lo sforzo di reprimere l’ineguale distribuzione delle ricchezze. Conseguentemente, le voci dei Padri della
Chiesa, che si attenevano all’idea di comunismo, dovevano rimanere simili a quelle di un oratore nel deserto. Ancora per poco furono udibili queste
voci, poi divennero sempre più rade e infine scomparvero del tutto. Persino gli stessi Padri della Chiesa smisero di fare appello alla comunità e alla condivisione delle ricchezze, perché con l’accrescersi della comunità dei
fedeli anche la Chiesa si trasformò fin dalle fondamenta.
Una nuova casta sociale dominatrice: il clero
All’inizio, quando il numero dei fedeli era molto limitato, non c’era una
vera e propria figura carismatica (religiosa). In ogni città si riunivano i fedeli, organizzavano una comunità religiosa autonoma e proponevano ogni
volta un confratello del loro gruppo a tenere la messa e ad assolvere alle
mansioni religiose. A quei tempi, ogni fedele poteva aspirare a diventare
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vescovo o presbitero; erano cariche temporanee, che non assegnavano alcun potere, se non quello stabilito liberamente dalla comunità, e non erano retribuite. Tuttavia, man mano che cresceva il numero dei seguaci e si
estendeva e arricchiva la comunità, la gestione degli affari comunitari e la
celebrazione delle messe divenne un vero e proprio lavoro che richiedeva
molto tempo e completa dedizione. Poiché singoli fratelli cristiani non riuscivano ad ottemperare insieme alla propria attività privata anche a queste
mansioni, si iniziò a designare un associato della comunità quale incaricato esclusivo alle funzioni religiose. In questo modo si giunse a dover stabilire un compenso per questi funzionari, anche e soltanto perché si interessavano delle questioni legate alla Chiesa e alla comunità. Nell’ambito della comunità cristiana si costituì un nuovo ceto sociale: dalla moltitudine dei
fedeli si isolò il particolare ceto dei funzionari della Chiesa (il clero). Accanto all’ineguaglianza tra ricchi e poveri si ebbe una nuova ineguaglianza tra
clero e popolo. Sebbene all’inizio si trattava di seguaci eletti temporaneamente ad assumere l’incarico di rappresentante della comunità nella celebrazione delle funzioni religiose, ben presto gli ecclesiastici si elevarono a
casta collocata al di sopra del popolo. Quante più comunità cristiane si formavano nelle città dell’enorme regno romano, tanto più forte diveniva il desiderio dei cristiani perseguitati dal governo e dagli eterodossi di associarsi tra di loro per incrementare la loro forza. Le comunità sparpagliate sul
territorio del regno iniziano a unirsi in una Chiesa (sin da ora non si tratta
fondamentalmente di unione del popolo, bensì del clero). A partire dal IV
secolo d.C., gli ecclesiastici delle singole comunità iniziano a riunirsi regolarmente in concili. Il primo concilio di questo genere si tenne a Nicea nel
325 d.C.. In questo modo si sigillò lo stretto legame degli ecclesiastici con
la formazione di una casta ben distinta dal popolo. Nel contempo naturalmente assistevano ai concili i vescovi delle comunità più potenti e ricche,
per cui ben presto il vescovo della comunità cristiana di Roma fu posto a
capo di tutta la cristianità, della Chiesa, assumendo la veste di Papa. Si
formò in questo modo la gerarchia ecclesiastica che si discostò e si elevò
sempre più dal popolo.
Nel contempo cambiarono anche le relazioni economiche fra clero e
popolo. Prima, tutto ciò che offrivano i ricchi seguaci della Chiesa era considerato parte di un fondo destinato al popolo povero; poi, si iniziò a detrarre proprio da questo fondo una parte sempre più grande per retribuire il
clero e per provvedere ai bisogni della Chiesa.
Quando all’inizio del IV secolo il cristianesimo a Roma divenne l’unica
religione riconosciuta e protetta dallo Stato e per i cristiani cessarono le
persecuzioni, le celebrazioni delle messe non ebbero più luogo nelle caverne o in modeste stanze, ma a tal fine si costruirono Chiese sempre più
sontuose. Le relative spese decimarono progressivamente il fondo desti70
nato ai poveri. Già nel V secolo d.C., le entrate della Chiesa furono divise
in quattro parti uguali: di esse una andava al vescovo, una al restante clero di rango inferiore, una per la costruzione e la manutenzione delle Chiese e solo un quarto trovava impiego nel sostentamento del povero popolo.
Tutto il povero popolo cristiano riceveva ora tanto quanto il solo vescovo e
a lungo andare si interruppe persino la consuetudine di devolvere una precisa somma ai poveri. Quanto più ricco diveniva il clero, tanto più veniva a
mancare il controllo da parte del popolo dei fedeli sulle proprietà e sugli introiti della Chiesa. I vescovi decidevano a propria discrezione quanto destinare ai poveri. Già allora il popolo riceveva le elemosine dal clero.
Con tutto ciò non si è giunti ancora alla fine. Se all’inizio le offerte dei
fedeli dirette alla collettività cristiana erano libere, poi, quando soprattutto
la Chiesa ebbe il riconoscimento dello Stato, il clero iniziò ad esigere forzatamente da tutti, seguaci e non, offerte.
Nel VI secolo fu introdotto un particolare tributo ecclesiastico, la “decima” (cioè la decima parte del raccolto di grano, la decima parte del capo
di bestiame, ecc.). Questo tributo ricadeva come nuovo onere sulle spalle
del popolo e più tardi, nel tardo Medioevo, divenne un flagello di Dio per i
poveri e i contadini sfruttati per mezzo di corvée. Fu sottoposto a “decima”
ogni zolla di terra, ogni avere che il contadino doveva estinguere con lavoro estenuante al cospetto del signore. Ora il povero non solo era privato di
aiuti e appoggio della Chiesa, anzi, al contrario, la Chiesa si alleò con gli
altri sfruttatori e aguzzini del popolo: prìncipi, nobiltà terriera e usurai.
Quando, nel Medioevo, il popolo lavoratore a causa delle corvée divenne sempre più povero, d’altra parte il clero si arricchì sempre di più. Oltre
agli introiti derivanti dalla “decima” e da altre tasse, la Chiesa ottenne anche enormi donazioni e eredità di devoti ricchi o ricchi dissoluti di ambo i
sessi che ritenevano di potersi liberare in extrema ratio della loro vita peccaminosa destinando alla Chiesa le proprie ingenti eredità. Denaro, case,
interi villaggi (compresi i servi della gleba), singole rendite e prestazioni lavorative di competenza della terra furono regalate e lasciate in eredità alla
Chiesa. In questo modo venivano convogliate immense ricchezze nelle
mani del clero. Così il clero smise il suo ruolo di affidatario e amministratore dei beni della Chiesa, cioè della comunità dei fedeli o per lo meno dei
poveri confratelli.
Nel XII secolo, il clero annunciò già esplicitamente e lo presentò come
diritto apparentemente derivante dalle Sacre Scritture che tutta la ricchezza della Chiesa non costituisce proprietà della comunità, bensì proprietà
privata del clero e soprattutto del suo capo supremo, il Papa. Le cariche
ecclesiastiche erano dunque il miglior modo per entrare in possesso di ingenti entrate e ricchezze e ciascun ecclesiastico che poteva disporre delle proprietà della Chiesa come se fossero le proprie, le forniva a piene ma71
ni ai propri parenti, figli e nipoti. Considerato che gli averi della Chiesa diminuivano considerevolmente e si assottigliavano nelle mani dei familiari
degli ecclesiastici, i Papi ordinarono di porre sotto la propria custodia l’intera ricchezza, si elevarono a unici detentori di tutte le proprietà della Chiesa e istituirono il celibato per gli ecclesiastici, cioè una condizione di vita
priva di donne, per evitare che i beni potessero diminuire a causa di cessioni ereditarie.
Il celibato, in principio, fu istituito già nell’XI secolo, ma in seguito all’ostinatezza dei preti fu accettato in generale solo alla fine del XIII secolo.
Per ridurre al minimo le uscite della Chiesa, Papa Bonifacio VIII emise
nel 1227 un decreto che vietava a ciascun ecclesiastico di compiere donazioni ai laici, detraendole dai propri introiti, previa concessione del Papa.
Così la Chiesa accumulò un’enorme ricchezza, si trattava in prevalenza di
proprietà terriere. In tutti i Paesi cristiani il clero divenne il più grande proprietario terriero. In genere, il clero possedeva un terzo di tutte le proprietà terriere di uno Stato, qualche volta anche di più.
Gli abitanti delle campagne dovevano lavorare non solo su terre di re,
prìncipi e nobili, ma dovevano in più estinguere la “decima” con il lavoro di
corvée sugli enormi appezzamenti di proprietà della Chiesa. Milioni di contadini e migliaia di artigiani lavoravano per vescovi, arcivescovi, canonici e
conventi. Nel Medioevo, all’epoca del feudalesimo, la Chiesa era tra i maggiori sfruttatori della servitù della gleba. In Francia, ad esempio, prima della grande rivoluzione, il clero possedeva un quinto di tutti i terreni, da cui
intascava entrate annuali per un ammontare di 100 milioni di franchi.
La “decima” incassata attraverso beni privati ammontava a 23 milioni;
con questo ammontare si assicurava vitto e alloggio a 2.800 prelati e vicari, 5.600 abati e priori, 60.000 vicari e nei monasteri a 24.000 frati e 36.000
suore. L’intero esercito clericale era esonerato da qualsiasi tributo e dal
servizio militare e devolveva solo in anni di particolare calamità (come, ad
esempio, in seguito a guerre, raccolti scarsi, epidemie) un libero contributo alle casse dello Stato, ma l’ammontare non superava mai i 16 milioni di
franchi.
Insieme l’agiato clero e la nobiltà delle corvée formavano una casta che
regnava sul povero popolo e viveva del loro sudore e sangue. Le cariche
ecclesiastiche più alte, che erano anche le più remunerative, si assegnavano sempre alla nobiltà e rimanevano alle famiglie nobiliari. Anche per questa ragione, all’epoca delle corvée, il clero era dappertutto alleato della nobiltà, appoggiava il suo dominio, insieme alla nobiltà torturavano il popolo e
facevano sì che il popolo sopportasse la miseria e la sottomissione remissivamente, senza brontolio e ribellione. Il clero fu anche il nemico dichiarato del popolo cittadino e rurale, quando esso diede vita alla rivoluzione per
porre fine alla servitù della gleba e assicurarsi i doverosi diritti umani.
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Tuttavia esistevano nella gerarchia ecclesiastica due classi: l’alto clero
arraffava tutta la ricchezza; la stragrande maggioranza dei sacerdoti di
campagna si aggiudicavano le povere parrocchie che, ad esempio, in
Francia raccoglievano introiti annui per 500 fino a 2.000 franchi. Anche
questo svantaggiato basso clero insorse contro l’alto clero e nella grande
rivoluzione che scoppiò nel 1789 si alleò con il popolo insorto contro la nobiltà temporale e secolare.
La Chiesa si appropria delle logiche capitalistiche
Nel corso del tempo il rapporto tra Chiesa e popolo fu stravolto. Il cristianesimo nasce come vangelo di conforto per i poveri e le classi diseredate. In origine, il suo insegnamento si batteva contro le ineguaglianze sociali e propugnava la costituzione di una collettività patrimoniale per debellare le ineguaglianze tra ricchi e poveri. Però, gradualmente, la Chiesa da
rifugio dell’uguaglianza e della fratellanza divenne nuovo difensore di ineguaglianze e ingiustizie. Il clero, disinteressandosi della lotta contro la proprietà privata dei primi apostoli della cristianità, poi fu spinto dall’impeto a
raccogliere e aggiudicarsi ricchezze e ad allearsi con le classi abbienti che
vivevano dello sfruttamento della servitù della gleba e l’esercizio del potere sul popolo. Nel Medioevo, quando la nobiltà feudale esercitava il suo potere sulla servitù della gleba, la Chiesa affiancava la classe nobiliare regnante e difendeva con tutte le sue forze il suo potere contro la rivoluzione. Quando poi alla fine del XVIII secolo in Francia e verso la metà del XIX
secolo in tutta l’Europa centrale il popolo con la rivoluzione spazzò via la
servitù della gleba e i privilegi nobiliari ed ebbe inizio la dominazione del
moderno capitalismo, la Chiesa si unì di nuovo con le classi al potere, con
la borghesia industriale e commerciale.
Con il mutare dei tempi il clero possiede non più così tanti appezzamenti di terreno come in passato, ma in compenso possiede capitale e si
impegna a speculare, tanto che con lo sfruttamento attuato sul lavoro del
popolo dai capitalisti delle industrie e del commercio essi cercano di arraffare il più possibile.
Così la Chiesa cattolica, ad esempio, in Austria possedeva un patrimonio stimato sulla base di propri dati ecclesiastici per oltre 813 milioni di corone, di cui all’incirca 300 milioni in terreni, 387 milioni in obbligazioni (ciò
significa diversi documenti di borsa dai quali scaturiscono interessi) e circa 70 milioni che la Chiesa conferisce quale interesse all’industriale privato sfruttatore o a gente d’affari, ecc..
Da signore delle corvée del Medioevo, la Chiesa divenne un capitalista
finanziario e industriale moderno e, se un tempo si collocava nella classe
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che spremeva sangue e sudore dai contadini, ora essa compare nella classe che si arricchisce con lo sfruttamento dell’operaio di fabbrica e del lavoratore agricolo.
Questa trasformazione è più evidente soprattutto nei monasteri. In alcuni Paesi, come ad esempio in Germania e in Russia, i conventi cattolici
furono già molto tempo prima vietati e soppressi, ma nei luoghi in cui si sono preservati fino ai giorni nostri, ad esempio Francia, Italia, Spagna, si osserva quanto estesa fosse la compartecipazione della Chiesa all’odierno
capitalismo vigente sul popolo.
Nel Medioevo, i conventi erano ancora l’ultimo rifugio per il povero popolo; in essi il popolo sottomesso si nascondeva dalle crudeltà terrene dei
prìncipi e dei signori, dagli orrori delle guerre e cercava stremato pane e alloggio. A quei tempi, i conventi non negavano ai bisognosi nemmeno un
granello di pane o un cucchiaio di minestra. Molto probabilmente, non sarà
nemmeno necessario evidenziare che, nel Medioevo, non vi era ancora
questo generale commercio di beni che caratterizza i tempi moderni, ma
che ogni podere, ogni convento ricopriva quasi tutto il suo fabbisogno con
l’aiuto dei servi della gleba e degli artigiani e le riserve, le scorte in eccesso
non erano messe in vendita. Quando vi era abbondanza di cereali, ortaggi,
legna o prodotti caseari che gli stessi confratelli del convento non potevano
consumare per intero, l’eccesso non acquisiva alcuna importanza, non
c’era nessuno a cui lo si sarebbe potuto vendere e conservare provviste
non era sempre possibile; quindi, ben volentieri i conventi proteggevano e
nutrivano il popolo indigente prelevando una minima parte di ciò che loro
stessi avevano attraverso lo sfruttamento dei servi della gleba, racimolato
(atteggiamento, per quei tempi, più che lecito visto che era praticato pressoché in tutti i più importanti poderi nobiliari). Soprattutto per i conventi si
trattava di un’azione caritatevole molto utile, poiché, in vista per essere asilo per i poveri, essi ricevevano regali e scorte dai ricchi e dai potenti.
Quando però si diede vita alla produzione di beni, sorse l’industria capitalistica, a tutto si diede un valore e tutto divenne oggetto di scambio
commerciale. I conventi e i poderi degli ecclesiastici smisero di fare beneficenza e serrarono le porte ai poveri. Ora il misero popolo non ricevette
più rifugio e aiuto e, tra l’altro, anche per questo motivo si ebbe all’inizio
della dominazione capitalistica del XVIII secolo (quando cioè i lavoratori
non si erano ancora organizzati per difendersi dallo sfruttamento) negli
Stati altamente industrializzati, quali Inghilterra e Francia, una condizione
di povertà così esasperante tra il popolo, quale si era verificata unicamente con il declino dell’impero romano.
Ma se all’epoca la Chiesa cattolica suggerì quale possibile àncora di
salvezza al proletariato romano, che sprofondava nella miseria, il vangelo
del comunismo, la proprietà comune, l’uguaglianza e la fratellanza, ora con
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il potere del capitale la Chiesa agì diversamente. Non esitò a sfruttare il
momento di sofferenza dell’ingenuo popolo per asservirlo e arrogarsi forza
lavoro a basso prezzo. I conventi divennero roccaforti di sfruttamento capitalistico e questo nei modi più agghiaccianti, come lo sfruttamento del lavoro minorile e delle donne. Un famoso esempio di spietato sfruttamento
del lavoro minorile è offerto al mondo, e resta in vita fino ai giorni nostri, dal
processo contro il convento “Zum Guten Hirten” (Al buon pastore) dell’anno 1903 in Francia, ove ragazze dai nove ai dodici anni perdevano la vista
e la salute dovendo assolvere a lavori estenuanti tutto il giorno ininterrottamente e mangiando lo stretto necessario come nelle prigioni più terribili.
Oggigiorno, anche in Francia i conventi sono scomparsi quasi del tutto
e in questo modo scompare anche l’opportunità della Chiesa di dedicarsi
all’inevitabile sfruttamento capitalistico, allo stesso modo già da tempo
estinto è l’impiego della “decima”, piaga del contadino sottoposto a corvèe.
Ma il clero ha ancora oggi molteplici metodi per incassare denaro del popolo lavoratore: messe, matrimoni, funerali, battesimi e altro ancora. I governi che intrattengono rapporti con il clero obbligano ripetutamente la popolazione a liberarsi di quest’ultimo e inoltre ovunque la Chiesa riceve, con
eccezione degli Stati Uniti del Nord-America e della Svizzera, ove la religione è affare privato, ricchi compensi per i quali il popolo lavora con il proprio sudore. In Francia, ad esempio, il clero cattolico detrae ancora oggi 40
milioni di franchi dalle imposte statali. In fin dei conti, la Chiesa oggi vive
insieme al governo e alla classe capitalistica grazie al duro lavoro del popolo. Quali introiti attualmente ha la Chiesa, un tempo rifugio dei meno abbienti e dei diseredati, lo si evince, ad esempio, dalle cifre delle entrate del
clero cattolico austriaco. Cinque anni fa, le entrate della Chiesa in tutta
l’Austria ammontavano a 60 milioni di corone annue; le uscite invece raggiungevano un importo di 35 milioni, per cui la Chiesa metteva da parte in
un anno 25 milioni ricavati dal sangue e dal sudore del popolo lavoratore.
Nello specifico, l’arcivescovado di Vienna ha entrate annue per un totale di 300.000 corone, uscite meno della metà, un corrispettivo profitto
netto annuo di 150.000 e lo stato patrimoniale si aggira intorno ai 7 milioni; l’arcivescovado di Praga ha entrate annue per mezzo milione, uscite di
circa 300.000 e il suo patrimonio ammonta a quasi 11 milioni; l’arcivescovado di Olmütz ha entrate per mezzo milione, uscite di circa 400.000 e il
suo patrimonio ammonta a più di 14 milioni.
Non meno influenti risultano essere i gravami inflitti dal basso clero al
popolo che, per di più, si lamenta della povertà e la crudeltà d’animo del
popolo. Gli introiti annui dei parroci, in Austria, ammontano a più di 35 milioni di corone, le uscite invece a 21 milioni di corone, così che nel complesso i “risparmi” dei parroci giungono a 14 milioni. Il patrimonio complessivo delle parrocchie in Austria invece è di più di 450 milioni. Infine, cinque
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anni fa, anche i conventi in Austria avevano un reddito netto (ciò significa
con detrazione delle uscite) di 5 milioni annui e queste ricchezze crescono
annualmente, mentre presso la popolazione sfruttata dal capitalismo e dallo Stato cresce la miseria. Come in Austria questo accade anche da noi e
ovunque.
La Chiesa alleata del governo zarista e dei capitalisti e i socialdemocratici
paladini del vero crisitanesimo
Ora, dopo aver compiuto in breve una panoramica sulla storia della
Chiesa e del clero, non dovremmo più stupirci dell’alleanza tra ambito ecclesiastico, governo zarista e capitalisti e delle violente invettive contro i rivoluzionari lavoratori combattenti.
I ben consapevoli lavoratori socialdemocratici aspirano a realizzare
proprio quell’idea di uguaglianza e fratellanza sociale tra gli uomini di una
comunità che era appannaggio in origine della Chiesa cristiana.
Questa uguaglianza, che inizialmente era irrealizzabile presso le società delle schiavitù e poi le signorie in cui si praticava la servitù della gleba,
ora può trovare applicazione con la realizzazione su tutto il globo terrestre
di un capitalismo industriale.
Ciò che gli apostoli della Cristianità non riuscirono ad imporre attraverso prediche infuocate dirette ai ricchi egoisti, in un futuro molto prossimo
potrà essere realizzato dai proletari moderni, dalla classe dei lavoratori
consapevoli, quando avranno inglobato nelle proprie mani, in tutti i Paesi,
tutto il potere politico e strappato agli sfruttatori capitalistici le fabbriche, i
latifondi e i mezzi di produzione per renderli proprietà comune dei lavoratori.
Il comunismo, al quale tendevano i socialdemocratici, non è più quella
comunità di consumo formata da mendicanti nullafacenti con cui i ricchi
condividono, bensì una comunità in cui vige il lavoro onesto e il giudizioso
godimento comune dei frutti derivanti da tale lavoro. Socialismo non significa più condivisione tra ricchi e poveri, ma proprio l’estinzione di questa
differenziazione tra ricchi e poveri, il porre fine allo sfruttamento degli uni
per mezzo degli altri con l’istituzione di eguali obblighi lavorativi per tutti coloro in grado di lavorare.
Per introdurre questo ordinamento socialista, i lavoratori in tutti i Paesi
si devono organizzare nel partito dei lavoratori socialdemocratici, che persegue proprio questo fine. Ecco perché proprio la socialdemocrazia, il processo di emancipazione dei lavoratori e i movimenti proletari sono così detestati dalla classe dei proprietari, che oggi vivono dello sfruttamento dei
lavoratori. Il clero (sì, l’intera Chiesa), però, aderisce parimenti alle classi
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dominanti. Tutte queste enormi ricchezze, che la Chiesa ha posto sotto la
propria esclusiva custodia, furono acquisite senza attività lavorativa, ma
per mezzo di sfruttamento e a danno del popolo lavoratore. Il patrimonio
degli arcivescovi e dei vescovi, dei conventi e delle parrocchie è stato ottenuto con lo stesso sangue e sudore del popolo lavoratore urbano e rurale con cui si è realizzato quello dei fabbricanti, dei commercianti e dei magnati dei latifondi.
Da dove provenivano le donazioni e le eredità dei ricchi in favore della
Chiesa? Chiaramente non dalla risultante dell’attività lavorativa di questi
ricchi bigotti, bensì dallo sfruttamento dei lavoratori che sgobbavano per loro: le ricchezze sacrificate al clero derivavano, in passato, dal lavoro della
servitù della gleba; oggi, dallo sfruttamento del lavoratore salariato. Per
quanto concerne gli stipendi che oggi gli ecclesiastici percepiscono dallo
Stato, è chiaro che essi provengono dalla comune cassa dello Stato e che
fondamentalmente si tratta di detrazioni effettuate sul povero popolo sotto
forma di tasse. Il clero è alle calcagne del popolo e vive della sua sottomissione, umiliazione e ottusità, tanto quanto tutta la classe capitalistica. Il popolo rinvigorito, che lotta per i suoi diritti e per l’uguaglianza tra gli uomini,
è detestato dai preti tanto quanto dai capitalisti parassiti (scrocconi), poiché oggi l’introduzione dell’uguaglianza e l’eliminazione dello sfruttamento
determinano il colpo di grazia per il clero che vive dell’oppressione e dell’ineguaglianza.
Ma ciò che è più importante è che il socialismo aspira a garantire a tutta l’umanità una onesta e sincera fortuna, la massima istruzione, sapere e
potere nella società e quest’ultima fortuna terrena su tutta l’umanità e questa chiarezza delle menti è temuta dagli odierni servitori della Chiesa come
se fosse uno spettro. Come i capitalisti rinchiusero il corpo del popolo nella
prigione della miseria e della schiavitù, allo stesso modo e in aiuto ai capitalisti, il clero rinchiuse la spiritualità del popolo per amore del proprio potere, poiché temeva che un popolo illuminato e giudizioso, per mezzo della
scienza, potesse osservare natura e mondo con tutt’altri occhi e, di conseguenza, distruggere la potestà dei preti, non considerandoli più quali rappresentanti del potere supremo e fonte di tutta la misericordia terrena.
Modificando e deformando gli insegnamenti originari del cristianesimo,
che auspicavano la fortuna terrena degli indigenti, l’odierno clero cerca di
persuadere il popolo del fatto di non soffrire miseria e sopraffazione a causa delle vergognose condizioni sociali, bensì per volere del cielo, per disposizione della provvidenza. È in questo modo che la Chiesa annienta
nell’uomo lavoratore lo spirito, la speranza e la volontà di un futuro migliore, la sua autostima e la sua forza, il rispetto per la propria dignità umana.
Gli odierni preti si tengono in vita grazie ai loro ingannevoli insegnamenti
che avvelenano lo spirito e grazie all’ottusità e alla repressione del popolo
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e perciò tentano di preservare questa condizione all’infinito. Esistono di ciò
prove inconfutabili.
Nei Paesi in cui il clero cattolico governa onnipotentemente sul pensiero del popolo, come ad esempio in Spagna e in Italia, lì vige anche la più
vasta ottusità e il maggior numero di crimini. Mettiamo a confronto, ad
esempio, due regioni della Germania: la Baviera e la Sassonia. La Baviera è prevalentemente una regione a vocazione contadina, ove il clero cattolico esercita un forte ascendente sul popolo; dall’altro, la Sassonia è invece una regione altamente industrializzata, in cui i socialdemocratici già
da molti anni esercitano la loro influenza sulla popolazione lavoratrice (attiva). In Sassonia, ad esempio, sono stati eletti da quasi tutti i circoli elettorali esponenti della socialdemocrazia per il Reichstag (Parlamento); conseguentemente, la borghesia detesta questa regione e la scredita definendola “rossa”, socialdemocratica. Cosa se ne può dedurre? Dati ufficiali mostrano che se si paragonano i numeri delle infrazioni commesse in un anno (anno 1898) nella Baviera clericale e nella “rossa” Sassonia, su
100.000 persone in Baviera si arriva a 204 casi di furto aggravato e in Sassonia a 185 casi; nei casi di lesioni (aggressioni) personali in Baviera si
contano 296 casi, in Sassonia 72; casi di spergiuro in Baviera quattro, in
Sassonia soltanto uno. Allo stesso esito perviene l’indagine sul numero di
crimini avvenuti in Posnania: nel medesimo anno su 100.000 persone si
ebbero 232 aggressioni, a Berlino 172 e a Roma, sede pontificia, nel penultimo anno dell’attuale Stato della Chiesa, cioè del potere temporale del
Papa dell’anno 1869, furono condannati 279 persone per omicidio, 728 per
aggressione, 297 per furti e 21 per incendio doloso. Questa era la risultante dell’esclusivo esercizio del potere della Chiesa sul pensiero della povera popolazione.
Ciò non significa che la Chiesa incoraggi il crimine: al contrario, spesso i preti si esprimono contro il furto, la rapina e l’alcolismo, ma notoriamente gli uomini non rubano, picchiano e bevono per capriccio o inclinazione (predisposizione), bensì per due motivi: bisogno e ignoranza. Chi costringe il popolo alla povertà e all’ignoranza (e a ciò contribuisce anche il
clero), chi uccide la volontà e le energie nel popolo di ricercare una via
d’uscita dall’indigenza e ignoranza, chi intralcia con qualsiasi mezzo coloro che cercano di educare e risuscitare il popolo dalle pene, colui è altrettanto responsabile della diffusione del crimine e dell’alcolismo, quanto colui che lo promuove.
Fino a poco tempo fa, accadeva la medesima cosa nelle zone clericali
a vocazione mineraria del Belgio, finché non giunsero i socialdemocratici
a esortare gli sventurati e sottomessi lavoratori del Belgio dicendo: “Alzatevi, lavoratori, risollevatevi dalla sottomissione, non seminate zizzania,
non bevete alcool, non chinate la testa per la disperazione, ma leggete,
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istruitevi, alleatevi con i vostri fratelli per costruire insieme un’organizzazione, lottate contro gli impostori che vi annientano e così vi rialzerete dalla
miseria e diverrete uomini!”.
I socialdemocratici portano con sé ovunque la risurrezione dei popoli,
ritemprano i disperati, congiungono i deboli ad un potere, aprono gli occhi
agli ottusi, indicano la via verso la libertà ed esortano il popolo a erigere il
regno terreno dell’uguaglianza, della libertà e della carità.
Invece, i servitori della Chiesa spronano il popolo ovunque verso la remissività, la disperazione e la morte intellettuale.
Dovesse ricomparire oggi Cristo sulla terra, certamente tratterebbe alla stessa stregua questi preti, vescovi e arcivescovi (che difendono i ricchi
e vivono del sangue e del sudore di milioni di persone), come all’epoca
quei commercianti che egli mandò via a colpi di bastone, affinché non deturpassero con atti infamanti la dimora di Dio.
Perciò non può che sussistere tra il clero, che vuole perpetrare in eterno miseria e schiavitù del popolo, e la socialdemocrazia, che propaga tra
il popolo il vangelo della liberazione, una lotta tra vita e morte, come tra la
tetra notte e il sole all’alba. Così come le ombre notturne che malvolentieri e con riluttanza cedono il passo alla splendente luce aurorale, allo stesso modo i pipistrelli di Chiesa ora desiderano velare con le loro nere vesti
talari la testa al popolo, affinché i loro occhi non possano scorgere il destarsi della luce liberatoria della socialdemocrazia. Poiché essi non possono affrontare il socialismo con spiritualità e verità, cercano rifugio nell’ingiustizia e nella violenza. Con le parole di Giuda diffondono le ignobili diffamazioni di coloro che tentano di aprire gli occhi al popolo; attraverso bugie
e calunnie cercano di screditare coloro che sacrificano il loro sangue e la
loro vita per il popolo e infine questi sacerdoti, questi servitori del vitello
d’oro, onorano e difendono i crimini del governo zarista, benedicono gli assassini del popolo, si ergono a difensori del trono dell’ultimo despota zarista che sottomette il popolo con fuoco e spada, alla stregua di quel Nerone che perseguitava i primi cristiani a Roma!
Sono inutili questi sforzi! Invano vi adirate, corrotti servitori della Cristianità, che ora siete servitori di Nerone! Inutilmente aiutate i nostri assassini
e sgherri; invano proteggete con il segno della croce i ricchi e gli sfruttatori del popolo.
Se un tempo spietatezza e diffamazione non riuscirono a frenare il
trionfo delle idee cristiane, quelle stesse idee che voi avete macchiato con
l’adorazione del vitello d’oro, oggi non riuscirete a frenare la vittoria del socialismo. Oggi siete con i vostri insegnamenti e il vostro modo di vivere simili ai miscredenti; noi, invece, che diffondiamo tra i poveri, gli sfruttatori e
gli oppressi il vangelo della fratellanza e dell’uguaglianza, oggi noi conquistiamo il mondo come colui che disse: “In effetti vi dico che è molto più pro79
babile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago, piuttosto che
un ricco entri nel regno dei cieli”.
Le prediche e i sindacati “cristiani”: nuovi mezzi di oppressione del proletariato
E per concludere ancora alcune parole. Il clero ha due modi per reprimere la socialdemocrazia. Nei luoghi ove il movimento proletario ha da poco acquisito i diritti di cittadinanza (come ad esempio da noi) e ove la classe dominante è ancora convinta di poterli soffocare con la violenza, lì il clero si limita a tenere prediche infuocate, a calunniare i socialisti e a minacciare i “pretenziosi” lavoratori. Lì dove, però, vige la libertà politica e il partito dei lavoratori sta per affermarsi (come ad esempio in Germania, Francia e Olanda) il clero ricorre ad altri metodi. Astutamente cela i propri denti da lupo e i propri artigli sotto la pelliccia di montone e da onesto nemico
del lavoratore diviene un perfido amico. Gli stessi preti si adoperano nell’organizzare i lavoratori e nel costituire sindacati “cristiani”. In questo modo cercano di imbrigliare i lavoratori nelle reti dei loro ambigui sindacati, in
cui insegnano la rassegnazione ancora prima che essi possano imbattersi
nei sindacati della socialdemocrazia che li educano invece alla lotta e alla
difesa dal sopruso.
Quando finalmente il governo zarista si sgretolerà per i colpi inferti dal
proletariato polacco e russo e sorgerà, infine, anche da noi la libertà politica, certamente potremo constatare noi stessi che l’arcivescovo Popiel
e gli stessi preti, che ora insultano con impeto il proletariato combattente, inizieranno a organizzarlo forzatamente in associazioni “cristiane” e
“nazionali” per stordirlo in altro modo. Già da ora si possono osservare le
prime avvisaglie di questo lavoro sotterraneo, quasi impercepibile all’interno delle associazioni dei “democratici nazionali”, i futuri complici dei
sacerdoti, che oggi li appoggiano nella diffamazione della socialdemocrazia. Perciò i lavoratori devono essere preparati a non farsi imbrogliare, domani, dopo la vittoria della rivoluzione e l’introduzione della libertà
politica, dalle dolci parole di coloro che hanno il coraggio di difendere dal
pulpito il regime zarista, assassino dei lavoratori. Per difendersi da questa ostilità attuale del clero, durante la rivoluzione, e amicizia sleale di
domani, dopo la rivoluzione, i lavoratori si devono organizzare al più presto nel loro partito proletario, aggregarsi alla socialdemocrazia e rispondere alle aggressioni dei sacerdoti come segue: “La socialdemocrazia
non nega a nessuno la sua fede e non combatte contro la religione! Al
contrario, essa esige piena libertà di coscienza e rispetto per ogni confessione e convinzione”.
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Ma se i sacerdoti vogliono abusare del pulpito usandolo quale mezzo
di lotta politica contro la classe proletaria, allora i lavoratori non potranno
che considerarli nemici dei loro diritti e della loro libertà.
Questo perché chi appoggia gli usurpatori e gli oppressori, cercando di
eternare l’odierno ignobile ordine sociale, è nemico mortale del popolo, sia
che egli indossi la veste talare o l’uniforme da gendarme.
(traduzione a cura di Anna Maria Simeone, da R. LUXEMBURG, Kirche und Sozialismus,
a c. di Dorothe Sölle e Klaus Schmidt, Stimme-Verlag-Kleine antworten-Reihe,
Frankfurt am Main 1982)
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EDMOND HUSSERL
GENESI DEL MONDO CIRCOSTANTE
STORICITÀ (inedito, 1928)
a cura di Angela Ales Bello
La seconda parte del Ms, trans. A V 10, il cui titolo generale è Descrizione del mondo circostante – Problema dell’ontologia del mondo – L’uomo nel mondo circostante – Storicità, risalente al 1928 – trascritto da G.
Diem, collazionato da M. Biemcl e conservato nell’Archivio di Lovanio –
contiene un’acuta analisi del mondo circostante come mondo storico. Di
seguito si propongono in traduzione italiana alcuni brani, nei quali, per la
comprensione di tale mondo, si delinea un cammino regressivo che dalla
intersoggettività conduce alla soggettività.
p.151 Se un mondo è consaputo sempre sempre di nuovo e in
tutti i cambiamenti, che emergono continuamente grazie alle sintesi di questo stesso mondo, come già dato e già dato per tutti
da parte dei soggetti nella vita del mondo in modo tale da consentire azioni che tendono ad uno scopo e se tutte queste azioni sono da indagare secondo la loro storia, allora appare chiaro
in primo luogo che dovremo pervenire alla scoperta delle intenzionalità secondo i gradi della genesi e propriamente in modo tale che tutti gli oggetti già dati relativi al mondo, che di volta in volta vale, siano ricondotti agli oggetti in sé primi. Questi si sono già
caratterizzati come tali che non portano in sé nessuna determinazione che si sia già confermata oggettivamente a causa della
provenienza dalla vita del mondo (come il valutare, il teorizzare,
l’agire all’interno del mondo già dato). Tali primi oggetti sono, per
così dire, oggetti originari rispetto a quella genesi, in cui un mondo già dato prende continuamente una nuova forma muovendo
dalla soggettività che agisce al suo interno. Si può anche esprimere la cosa nel modo seguente: ogni mondo già dato come
mondo di cultura si estende geneticamente all’indietro verso un
mondo ancora senza cultura e in generale libero dallo spirito oggettivo. Ma a questo proposito bisogna essere prudenti e mettere in evidenza tutti i problemi che qui sono connessi.
82
Il mondo già dato come mondo della cultura si costituisce attraverso
una tradizione, cioè una catena di generazioni e non si trova mai, andando all’indietro, un mondo senza cultura.
p.152 In primo luogo bisogna domandarsi se il mondo storico in
generale sia pensabile come un mondo, per così dire, nudo,
cioè un mondo privo di tutti i significati spirituali, un mondo nel
quale gli uomini appaiono ad un tratto (infatti appena essi ci sono e vivono comincia immediatamente un processo di formazione culturale) e il dubbio diventa più forte e le risposte negative
si affollano, appena ci accingiamo ad una considerazione più
attenta.
p.153 Dobbiamo pensare allora, però, cosa che si è precisamente già notata, che ogni genesi del mondo, mutevole in questa
predatità a causa della vita del soggetto nel mondo già dato, si
compie nei singoli soggetti nella loro intenzionalità e in essi stessi procede per mezzo dell’empatia verso una genesi intersoggettiva. […]. In questo modo ci siamo riferiti alla genesi del mondo
già dato, che presuppone sempre già un mondo già dato, alla
genesi del mondo storico come quel mondo che assume sempre
nuovi contenuti storici per mezzo degli uomini che vivono in esso, quel mondo per il quale ogni generazione ha un mondo già
dato. Ogni uomo nella connessione storica porta a compimento
la sua vita mondana e deve svolgere perciò la sua parte nella costituzione del mondo storico. Ma nella vita di ogni singolo il mondo è già dato per lui esclusivamente a partire dalle sue proprie
fonti di intenzionalità e soltanto attraverso la mediazione delle
sue esperienze empatizzanti il mondo è quello intersoggettivo,
quello di tutti noi, già dato per la comunità.
Se esaminiamo il mondo già dato nella prospettiva dell’auto datità, dell’automanifestazione di ciò che si mostra, notiamo che il mondo spirituale
non ci è dato in una originarietà immediata, ma attraverso un’automanifestazione mediata, cioè un’appresentazione. Si giunge pertanto alla distinzione fra ‘natura’ e ‘cultura’.
p.154 L’universo degli oggetti, che mi sono dati e che mi debbono esser dati direttamente come sperimentabili in modo immediato (che possono mostrarsi immediatamente in un’intuizione
originale) è la natura. Anche il carattere di valore, il carattere teleologico-pratico che io da solo le ho attribuito, sono mediati, ma,
tuttavia, da ricondurre alle autodatità originali attraverso una re83
gressione all’attività propria (attraverso la rimemorazione e la rimemorazione ripetuta quanto si vuole).
Ciò delimita un universo che è da riportarsi dal [p. 155] mondo
già dato per me all’autodatità originale. Da ciò deriva una differenziazione fra la pura natura e la cultura, la quale si configura
soltanto a partire da me. Poiché le determinazioni della cultura
nei loro modi di datità rinviano alla loro genesi in me, per questa
ragione ho in me una successione di livelli. Il livello più basso, la
natura, è qui il presupposto della genesi oggettiva, se è in questione proprio la genesi che fa venire fuori da ciò che è mondano, quello che è mondano in grado maggiore.
A questo punto l’analisi fenomenologica che rintraccia le strutture del
mondo già dato, è definita da Husserl un’“estetica”, termine ripreso dalla
Critica della ragion pura di Kant, ma inteso nel senso ampio di analisi globale dell’esperienza.
p.158 La struttura, rintracciabile di volta in volta, del mondo già
dato, per così dire già fatto, nel corrispondente stile e contenuto
di apparizione, si deve mostrare in primo luogo attraverso
un’analisi estetica e quindi in particolare si deve indicare lo stile
universale di un mondo umano e di un mondo per gli uomini e la
struttura altamente necessaria che ne costituisce il nucleo, rappresentato dalla pura natura, che si presenta come corporeità
organica divisa in tante parti e come corporeità vivente formata
dalla dimensione animale e soprattutto da quella spirituale; si
deve mostrare quindi questa totalità oggettiva fisica e psicofisica
dotata di determinazioni culturali, legate nella loro oggettività di
secondo grado alla comunità, per le quali esse hanno un valore
che è tale per tutti, in quanto hanno conseguito il loro significato
a partire dalla vita comunitaria.
L’analisi estetica conduce alla genesi delle formazioni conoscitive.
p.158 Questa struttura estetica riconduce all’indietro ad una
struttura genetica. La genesi, però, come si può vedere da queste considerazioni, è una genesi intenzionale nei soggetti che, in
quanto soggetti, hanno un mondo sempre già dato come ambito
in cui si svolge la vita. Il mondo già dato ha come mondo [p. 159]
spazio-temporale, la sua struttura di incondizionata aggettività:
l’essere-là per ognuno senza alcun dubbio. Allora la natura, ma
anche gli uomini, possono essere acessibili ad ognuno, ad ogni
uomo attraverso l’esperienza, per quanto grande possa essere
84
anche la incompletezza. Certamente la mentalità di uomini di altre culture lontane nello spazio e nel tempo è poco accessibile e
in parte esse si presentano di fatto permanentemente chiuse.
Ma quando veniamo in contatto con esse, ci imbattiamo pur
sempre con uomini e ciò accade reciprocamente; lo stesso accade con le cose che per tutti noi sono cose, esse sono identificabili una volta da un lato e una volta dall’altro e anche in questo caso i modi di apprensione possono essere molto diversi e,
rispetto alle varie prospettive, anche incomprensibili. […]
Nella descrizione del mondo già dato si è ricondotti pertanto alla sua
genesi.
Muovendo da quello che è stato indicato, abbiamo ancora l’ambito di ciò che è puramente soggettivo; fermo restando il nucleo
di una oggettività necessaria comune, con forme strutturali comuni necessarie. L’intero ambito delle oggettualità della cultura
è l’ambito di ciò che è soggettivo, che (sempre presupposto il nucleo) conduce ad una oggettività relativa. Ma in fondo ciò vale
anche per la natura che per noi appartenenti alla cultura europea
è un’oggettività solida, perché possediamo, costruite in noi, tutte le leggi delle scienze della natura. Anche qui una relatività che
ha cura di nascondersi solo per noi.
Seguendo l’analisi genetica siamo ricondotti alla soggettività nella doppia valenza trascendentale e singolare.
Se seguiamo la genesi del mondo già dato, siamo ricondotti all’io
singolo – dato ciascuno di noi come proprio [p.160] in modo speciale e da porsi in sé in modo assoluto – e muovendo da esso risaliamo ad una genesi universale, rispetto alla quale la natura è
solo un punto di partenza relativo, mentre andando più a fondo si
mostra anche che la natura sta alla base in primo luogo di un’analisi estetica; ma questa rimanda in se stessa ad una genesi.
da “Segni e comprensione” n. 2, anno I, luglio-dicembre 1987
85
I testi qui presentati erano, al momento della pubblicazione della rivista,
inediti in assoluto. Il primo scritto è l’unico a cui l’autore ha dato il titolo che
è Sul valore, ed è un brano autografo di tre pagine composte nel 1938 circa. Il secondo inedito, Spirito e dialettica, probabilmente del 1943, è titolato da A. Stella ed è composto da tre fogli manoscritti. Individuo e persona,
ancora titolato da A. Stella, è uno scritto di cinque fogli autografi consistenti in riflessioni a margine ad un intervento di V. Fazio-Allmayer. L’universalismo più autentico è del 1943 ed è composto da quattro fogli manoscritti.
ALDO CAPITINI
INDIVIDUO, VALORE, PERSONA
INEDITI FILOSOFICI (1938-1943)
a cura di Giovanni Nicolì
Il primo scritto che presentiamo è l’unico a cui l’autore ha dato il titolo:
“Sul valore” è un breve autografo di tre pagine composto nel 1938 circa.
Lasciato da Capitini allo stato di abbozzo, risulta essere quasi un promemoria per se stesso, un appunto di riflessione da sviluppare in seguito. Esso tocca, comunque, uno degli aspetti centrali della riflessione di Captini: il
tema del valore, appunto.
Quando Capitini parla di valori è a quelli crociani del Bello, del Vero, del
Buono che fa riferimento; esclude, però, quello dell’Utile, prendendo così
le distanze da Croce per quella sua incapacità di concepire una prassi che
vada oltre il vitalistico, la sopravvivenza fisica, oltre quel “giuoco di causa
ed effetto” a cui si vuol ridurre la vita dell’uomo. L’uomo, invece, produce
valori al di là di ciò, della vita, della morte, in una realtà di tutti in cui tutti
sono veramente presenti.
La stretta connessione che Capitini, in questo scritto, propone tra l’agire, il valore e l’uomo è anch’essa, nella forma, inedita.
Raramente nelle opere della maturità Capitini tematizza l’agire e il valore in relazione all’identità dell’uomo. Da qui il riferimento insistito alla “coscienza del proprio volto interno” e il ricorso all’Ulisse omerico come metafora della ricerca dell’identità. L’uomo, per Capitini, realizza se stesso, la
propria umanità solo agendo e realizzando valori in questa realtà. Ogni fuga metafisica, ogni rifugiarsi in un mondo di sogni non fa altro che allontanare l’uomo da se stesso, “perché appunto là si sente meno uomo, meno
se stesso, meno responsabile…”
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Sul valore
Dovendo parlare di valore e di azione ci riferiamo al mondo umano.
In generale noi non rinunciamo, pensando a questo riferimento, a questa preminenza, né agendo; e cioè se pensiamo a un valore, pensiamo a
un valore che valga per noi, prima che per ogni altro essere animato o inanimato della realtà; se pensiamo ad azione, pensiamo soprattutto all’agire
umano. E quando passiamo ad agire (ammessa una sommaria distinzione
tra pensiero e azione) poniamo un consapevole o implicito riferimento al
nostro essere uomini: pur allontanandoci, talvolta, torniamo sempre a costeggiare questo essere uomini, che spesso sentiamo anche come un dovere essere (sei uomo: possiamo dirlo anche ad uno che ignora la cultura,
ed egli comprende). Dunque l’uomo non molti anni dopo la nascita, comincia a portare con sé un sentirsi uomo, sia che lo dica o che non lo dica con
altri; una specie di coscienza del proprio volto interno. E fino alla vecchiaia è così, e in modo sempre più certo: l’Ulisse antico, quando lui e compagni sono divenuti vecchi, esprime questa consapevolezza della “sensenza”
umana.
Che cos’è questo sentirsi uomo? Pur allargando i confini quanto si voglia, e pur con innumerevoli variazioni interne, è innegabile che questo
senso c’è in noi. Questo senso di poter pensare, decidere, questa fiducia
che l’uomo ha, anche semplicemente pensando tra sé e sé, fiducia di poter riflettere, considerare, è innegabile anche nel più ribelle ad ogni affermazione di umanismo. L’uomo in generale sente che si stacca volentieri
dal pensare ai sogni, perché appunto là si sente meno uomo, meno se
stesso, meno responsabile, in un mondo più caotico, incoerente, frammentario, passivo, piuttosto subumano, una specie di confuso ripostiglio della
casa. Sicché tornando al proprio più alto e decidere, e continuamente osservando quello che fanno gli altri uomini, egli si conferma uomo.
L’Europa specialmente, pur con tutte le sue molteplici avventure, si è
tenuta relativamente più fedele a questo principio. Atteggiamenti come
quello di D’Annunzio nel “Meriggio” non sono frequenti. Possiamo chiamare questo senso dell’uomo ideale classico (non classicistico).
Potrebbe sorgere subito qui un’obiezione: quella di chi volesse togliere
questa differenza tra uomo e non uomo (o essere in generale). Lasciando
stare i diversi aspetti che potrebbero presentare questa esigenza, ad uno bisogna accennare, appunto per aprirci la via all’esame più preciso del tema
azione e valore, ed è l’affennazione che potrebbe qui fare lo studioso di
scienze naturali, chimiche, anatomiche, per es. Se egli volesse, supponiamo, ridurre la vita dell’uomo ad un meccanismo, e cioè ad un giuoco di causa ed effetto (come un orologio ad esempio), gli potremmo subito far constatare come nella storia del pensiero al prevalere di una simile concezione,
87
cioè meccanicistica e deterministica, succede immediatamente una rivendicazione umana dell’animazione, della libertà, della storicità, della dialetticità
estesa perfino al cosiddetto mondo fisico. Si veda Illuminismo e Romanticismo, Positivismo e Neoidealismo (spiegare questo). Basta che l’uomo dal lavoro scientifico, di gabinetto, passi alla considerazione di altro perché si accorga che quegli schemi non bastano. Schematicamente avviene questa
contrapposiz[ione] il biologo dice: Io dalla mattina alla sera non trovo che cellule, dunque tutto è cellula; ma, strano, lo studioso di poesia ad es. e così di
morale, (il Kant della Ragion pratica) può dire: in tutto il mio lavoro non incontro cellule. Senza voler affrontare qui il problema metafisico ricordiamo
almeno di rispettare le due considerazioni come due diversi punti di vista.
Spirito e dialettica
Il pensiero europeo è venuto sostituendo alla humanitas del Rinascimento lo Spirito, specialmente per opera della filosofia idealistica (il Geist):
quando l’humanitas è divenuta, soprattutto attraverso il Kant, Soggetto universale, legislatore, ecc., si è passati a un impegno maggiore, a una risoluzione teologica. L’uso del termine spirituale viene a significare l’estensione della “forma” che è nell’uomo ad essere “valore”: “spirituale” è consacrazione di un valore.
Per lo storicismo del Croce il valore è identico alla vita stessa dello spirito: “I giudizi di valore sono di realtà, di somma realtà, se il vero e il bene
e il bello e l’utile sono somma realtà, ossia costituiscono le categorie stesse e la dialettica dello spirito” (Conversazioni Critiche, III, p. 98). D’altra
parte, quando si afferma che lo Spirilo è Libertà (Hegel, Croce), si vuol
combattere contro ogni metafisica di carattere oggettivistico e rivendicare
lo svolgimento, la dialetticità del reale contro ogni assoluto che si ponesse,
dal di fuori, come limite a tale svolgimento. Il valore metafisico della Libertà è proprio questo di polemica: essa si è insediata là dove erano altri valori metafisici, per garantire (“il libero pensiero”) il valore dello sviluppo immanente della realtà.
Da questo punto di vista la storia della civiltà europea è storia della consapevolezza di questo valore della Libertà: liberale significa intrinsecamente liberatore: e liberatori sono Lutero, Giordano Bruno, Mazzini. Mentre essi combattono, la Libertà vale come arma polemica, e intanto affermano un valore. Altrimenti l’affermazione della Libertà come valore si trasforma in naturalismo, cioè
(nel significato) di Libertà contemplata e non vissuta autenticamente.
La dialettica guardava dinanzi a noi come legge del reale, non è un valore, ma funzionamento, cioè cosa esterna: funzionamento che va messo
in moto dal valore.
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Dal mondo strutturato grecamente secondo la causalità si è passati alla storia strutturata secondo la dialettica; ma questo non fa che indicare il
“luogo” dove avviene l’affermazione del valore. La dialettica garantisce che
il valore trova posto nella storia. La civiltà europea ha vissuto questo, prima nel fatto e poi, sempre più, nella consapevolezza: la filosofia è stata veramente, come dice Hegel, l’uccello che esce la sera. Lo ha vissuto in modo intensissimo nel fatto dell’arte, con la innata fiducia dell’artista nella libertà della sua creazione, nel posto che l’opera d’arte indubbiamente viene ad avere nel mondo; e lo ha vissuto per l’individuo economico, per le
nazioni, per i sistemi filosofici, ecc. Se il più alto conoscere per i Greci è
scire per causas, per gli europei la verità è pensiero che si svolge con interna coerenza e si afferma pur sapendo modestamente che dovrà cedere ad un ulteriore pensiero (la citaz[ione) del Croce). E come è possibile ad
un antico (aristotelicamente) mirare nella realtà circostante come tutto si
organizza risalendo alla Causa, così un moderno (hegelianamente) vede
ogni aspetto del reale entrare o partecipare dialetticamente nell’Uno-tutto;
questa è chiamata considerazione religiosa. “La cultura storica, che potrebbe dirsi anche religiosa perché è un intrinseco elevamento al pensiero
di Dio, ci apre la visione del mondo e di noi stessi come in perpetuo divenire, senza nessuno stato terminale a cui sia dato mirare e senza posa alcuna in cui sia dato indugiare. Ad ogni attimo un uomo muore e noi moriamo con lui, e a ogni attimo un mondo nasce e noi con lui rinasciamo. Questo ci canta la poesia, ci teorizza la filosofia, questo ci mette dinanzi alla
mente la storia” (Croce, “Critica”, 20 marzo 1943, pp. 88-89).
Individuo e persona
Gli elementi fondamentali della comunicazione [di] Fazio Allmayer, da
cui prendono le mosse queste conversazioni, sono i seguenti:
1) Chiarimento del concetto di individuo in senso generale;
2) Caratterizzazione del diverso potenziamento (com’egli lo chiama) degli individui mediante i loro alti: potenziamento aristotelico (attuazione di potenze già possedute dall’individuo); mistico (opera trascendente della Grazia); storico (mediante l’esperienza storica);
3) Importanza culminante di questo concetto di individuo storico, che
equivale a persona (l’elemento naturale vi si risolve nell’elemento storico);
4) Ribellione dell’individuo come naturale alla persona come ente morale;
5) Affermazione che la persona è un farsi, che è reale se sbocca nel
mondo delle persone (la persona si afferma nel mondo universale dello
spirito; l’individuo deve assumere la forma della spiritualità senza timore di
perdersi).
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Questo problema dell’individuo e della sua risoluzione è l’elemento
drammatico della spiritualità contemporanea; e prove di ciò sono, tra le altre, queste: la diffusione dell’esistenzialismo, le tendenze religiose che mirano all’individuo; i dibattiti giuridici e sociali sul rapporto tra persona e società; l’affermazione della moralità come porre l’altrui persona. Si può citare anche molta della poesia contemporanea (vista come documento e non
nel suo valore di forma estetica); l’attenzione alle sensazioni e agli aspetti
particolari può essere intesa come affermazione che l’individuo possiede
qualche cosa, è qualche cosa nella sua singolarità.
Dall’altra parte c’è lo storicismo assoluto, l’affermazione del mondo dello
spirito: vediamo in esso la più recente tappa di universalismo, che è stato prima medioevale, rinascimentale, illuministico, e, in confronto con quello medioevale, l’universalismo storicistico ha il vantaggio di porre l’immanentismo,
cioè l’intrinsecazione di universale e individuale, non concependosi universale che non si concreti in individualità di atti (che sono opera di persone).
Quello che in tal modo viene assicurato è il valore, che è la migliore barriera contro la barbarie, l’immortale presenza, sviluppatasi, della grecità nel
mondo occidentale: nei tre valori, la bellezza dell’esprimere, la verità di
pensare, la bontà dell’agire, tornano i vecchi valori del bello, del vero e del
buono, con la differenza che se nella concezione antica essi sono attributi che adornano la persona di Dio, nella concezione moderna essi appartengono allo spirito nella sua dialettica.
Sicché si prospettano, senz’altro e finora, due soluzioni. [O] questo
mondo di universalità risolve in sé interamente la persona con tutta la sua
vita (anche sensibile; per questo Fazio Allmayer comprende nella persona
il senso e la ragione). O l’individuo, invece, si pone separatamente da questo mondo di valori, con esigenze che tale mondo di universalità non soddisfa; si ha un dualismo, un’irrazionalità essenziale e insanabile, e l’individuo si presenta come angoscia (Kierkegaard), come volontà di potenza
(Nietzsche), come dolore (Leopardi).
Questa seconda soluzione o, per dir meglio, posizione non vuole sottoporsi al dovere di negarsi per attuarsi come valore, perché non ha fede nel
valore. Ma se si sottrae al dovere, non si sottrae al dolore, a soffrire in questa sua mancanza di fede e di sforzo morale; di questo suo bisogno di un
residuo, come di qualche cosa oltre il lavoro, una mancia, un piacere che
l’individuo possa godere come assolutamente proprio privato.
Messe di fronte e come a colloquio le due posizioni, l’una vuole che l’individuo sia interessato in prima persona e il mondo dei valori si chini più
verso di lui, che vuole, malgrado tutto e nel suo intimo, più salvarsi che godere; l’altra dice, severa e sicura: tu devi; opera, calati nella tua vita e nei
tuoi problemi, impègnati (questa è la parola) in essi singoli e vedrai che il
valore (il bello, il vero, il buono) sarà con te, nel tuo operare. È facile vede90
re come in questa concezione operosa della dedizione etica dell’individuo,
si conservi molto dell’etica tradizionale (contro quanto affermano le superficiali critiche dei tradizionalisti).
L’universalismo più autentico
1
Nella civiltà attuale si delineano tre universalismi, europeo il primo, amministrativo il secondo, e il terzo religioso.
2
L’universalismo europeo è teso alla produzione dei valori nei quali l’individuo supera sé stesso (idealismo in senso generale, universalismo di diritto). L’universalismo amministrativo si propone di portare tutti gli uomini ai
valori (universalismo di fatto), di migliorare cosmopoliticamente la distribuzione dei beni. L’universalismo religioso approfondisce il soggetto che si
attua nei valori, e scopre in questo soggetto l’unità presenza di chi ha e di
chi non ha, di chi fa e di chi non può fare, di chi vive e di chi è morto (coralità alla base del fare e dell’esistere).
3
L’universalismo amministrativo si trova davanti al contrasto fra la mentalità (e classe) produttrice che rivendica libertà di proprietà e di iniziativa
economica, e la mentalità delle moltitudini che premono per entrare integralmente nella partecipazione ai beni della civiltà (contrasto fra liberismo
e socializzazione). Il contrasto deve essere superato più che da un illimitato potere che fiacchi l’uno e l’altro elemento nella burocrazia e nella forza
esteriore, sulla base invece di una nuova coscienza.
4
Finché si deve arrivare alla coscienza della socialità, questa appare come negazione dell’individuo, ma quando la socialità è vissuta come punto
di partenza (come realtà, e non come concessione fatta a “chi non ha”), allora ci si dirige verso l’individuo, si sostiene il suo sviluppo, e la socialità è
liberatrice instancabile dell’individuo.
5
La coralità, vissuta nel campo economico, ha interesse a che ciascuno
produca nel campo generale del Fare, a che ciascuno crei e si svolga secondo i valori; nel campo dell’esistenza, a che il singolo viva.
6
L’universalismo europeo ha scoperto la dialettica come legge del reale,
ma l’ha vissuta, come in famiglia, in riferimento alle individualità storione
europee; oggi è superato nell’universalismo amministrativo, e questo si integra nell’universalismo religioso.
91
7
La coscienza dell’immanente soggetto corale nel produrre, nel fare, nel
vivere (corroborando l’universalismo amministrativo nel suo voler provvedere a tutti e integrandolo con la presenza di chi non è) supera le distinzioni di classe, poiché i valori sono la espressione intima e l’interesse superiore di tutti; produrre i valori è il paradiso che Punita presenza vive eternamente; la musica che ascoltiamo è il canto di tutti, vivi e morti.
8
Ho vissuto la religione come libera aggiunta alla vita razionale e morale, del sentire le persone, nel dire il tu e ho trovato come pace dall’agire
pauroso, la realtà della presenza interiore di tutti, vivi e morti, e così ho superato e popolato il nulla, e svolgo la vita e la morte.
9
Mentre quella socialità politica (pur essendo originariamente atteggiamento morale e potendo restare di pochi e come centro di missione educatrice, critica, stimolatrice ed esemplare) tende a concretarsi in istituti giuridici, politici, economici, la libera aggiunta religiosa è dal di fuori di ogni
istituzione, con continua invenzione, e sente esplicitamente di essere incarnazione individualmente sofferta e celebrata, atto di amore sopra ogni
dovere, discesa nel mondo.
10
Alla gioia virile dell’attività che è creazione di utilità, di bellezza, di verità, di bontà, di coraggio, e insomma di tutti i valori della vita, aggiungo la
gioia per la presenza a questa creazione.
11
Questa è la presenza eterna di tutti alla creazione di tutti i valori, ed io,
individuo incarnato nel mondo, vivo e sento questa eterna realtà di tutti solo se mi appassiono per la presenza di concreti esseri, e l’allargo sempre
più ai morti, ai viventi, ai nascenti, e oltre gli stessi esseri umani; vivo l’eterno se lo accresco.
12
Questa realtà di tutti è il Paradiso o regno di Dio di cui sono persuaso
e di cui facciamo parte in Eterno, in eterno cooperando alla creazione dei
valori, accrescendo le due gioie, del valore e della perseveranza.
13
II dolore che potrei avere di essere io a vivere, a operare, a guardare
la gioia della primavera, ad ascoltare la musica, la supero nella persuasione di questa presenza e intima cooperazione anche dei sofferenti, dei minorati, dei morti; e dalla ombra loro posso guardare senza rimorso la luce,
e avere in me qualche cosa di più del mondo coi suoi dolorosi limiti.
14
Persuaso di portare in terra e nella vita quotidiana questa realtà di tut92
ti, apro il socialismo e il comunismo al problema non solo dei lavoratori
sfruttati, ma dei sofferenti, dei colpiti, dei morti: non solo la produzione dei
beni economici è corale, ma di tutti i beni valori; e non possiamo far nulla
di bene senza l’aiuto intimo dell’Uno-Tutti.
15
Nella situazione storica attuale si esplica visibilmente la tendenza all’unità di tutto il mondo economico e politico, che migliora l’amministrazione della vita umana e la diffusione della civiltà; ma questa unità deve essere punto di partenza e non punto di arrivo, non un tutto che schiacci gl’individui; e perciò deve continuamente aprirsi al loro sviluppo, al loro animo,
al loro esistere. L’infinita socialità dell’intimo si appunta alla libertà di ciascuno e la favorisce.
16
L’antitesi tra una libertà dell’individuo materiale e una socialità chiusa in
uno Stato politico-economico, caserma-collegio-carcere, è superata da
una socialità che vede il suo fine nella libertà di sviluppo degl’individui.
17
La nuova socialità vive e attua in molteplici modi, istituzioni, sentimenti, concezioni, leggi, questa sintesi, questo incarnarsi, questa realtà di tutti: la socialità è la vera patria, la libertà è il suo sviluppo.
18
Chi è persuaso di questa socialità religiosa (perché ha nell’intimo la
presenza eterna dell’Uno-Tutti che è il Dio nostro), libera (perché tende allo sviluppo di ciascuno nella produzione dei valori), la attua immediatamente nel tu di affetto e di amore, anticipando il punto in cui il mondo unificato
sentirà vivissima questa passione di aprirsi ai singoli esseri individui.
19
Costituendosi centro, solo e con altri, il persuaso aggiunge nel presente e in tutti i modi socialità e libertà, presenza e valore, accrescendo la realtà di tutti; e la vecchia civiltà perde così le sue ultime ragioni di essere,
perché dai centri della nuova socialità la libertà e la vita religiosa vivono liberate dai privilegi della struttura capitalistica e dai pregiudizi delle vecchie
religioni dogmatiche e leggendarie.
da “Segni e comprensione” n. 10, anno IV, maggio-agosto 1990
93
GEORG MISCH1
L’ORIGINE DELLA FILOSOFIA (1939-1949)
a cura di Sergio Franzese
Nel 1939, all’età di 59 anni, costretto ad abbandonare la cattedra presso l’Università di Göttingen a seguito delle leggi razziali naziste, Georg
Misch filosofo e storico della cultura, allievo e genero di Dilthey, per sfuggire alla persecuzione razziale, ripara in Inghilterra. Qui soggiornerà a
Cambridge, senza fissa occupazione, fino al 1943, e poi ad Halderden
(Chester), come bibliotecario, fino al suo rientro in Germania come professore emerito, di nuovo a Göttingen, nel 1946. In questo periodo, certamente il più difficile della vita di Misch, si colloca la conferenza, databile presumibilmente tra il 1939 e il 1940, il cui testo, scritto originariamente in inglese, viene presentato qui per la prima volta in traduzione italiana.
Ricordato come l’autore di una monumentale storia dell’autobiografia in
quattro volumi (Geschichte der Autobiographie) e come editore postumo
degli scritti di Dilthey, Misch, considerato dai suoi contemporanei più come
uno storico della cultura che come un pensatore dotato di un pensiero filosofico rigoroso e innovativo, ha finito per occupare un posto di secondo
piano nella storia della filosofia contemporanea. Studi più recenti procedendo dall’analisi delle sue opere più specificamente filosofiche, in particolare del suo Lebensphilosophie und Phaenomenologie. Eine Auseinandersetzung der Diltheyschen Richtung mit Heidegger und Husserl, hanno cercato di rendere giustizia all’attività teoretica di Misch, mettendo in maggiore evidenza il ruolo di Misch come elemento di congiunzione e di trasmissione tra lo storicismo di Dilthey, l’antropologia filosofica di Plessner e la fenomenologia di Husserl e di Heidegger.
La conferenza su “L’origine della filosofia”, comunque, si connette più
direttamente con l’altro versante dell’attività di Misch, quello della storia
della cultura, che mostra come suo carattere peculiare l’apertura sincretica verso le culture asiatiche, in particolare indiana e cinese, della quale restano importanti testimonianze negli appunti redatti nel corso del viaggio in
estremo oriente, effettuato da Misch dal settembre 1908 al gennaio 1909,
e soprattutto nel saggio sull’origine della filosofia, Der Weg in die Philosophie (1926), della cui tesi di fondo la conferenza si presenta come una sintetica ripresa a dieci anni di distanza.
L’origine della filosofia, se mai si possa porre una questione di questo
94
tipo, non può essere rintracciata né in un solo individuo – il primo filosofo
–, né in una sola nazione — la Grecia, ad esempio, secondo la tradizione
della storia della filosofia occidentale —, ma in un unico movimento spirituale che ha investito contemporaneamente la Grecia, la Persia, l’India e
la Cina e che si è articolato e differenziato secondo le particolari tendenze
spirituali di questi popoli, mantenendo però intatta la sua unità strutturale
costituita dalla compresenza di una tendenza razionalistica e di una tendenza metafisica nella relazione teoretica tra l’uomo e il mondo. Dovunque
e ogni qual volta la filosofia si è presentata, si è manifestata come trascendenza della vita, ossia come un violento stravolgimento del rapporto pratico-naturale dell’uomo con il suo ambiente, spinta e sorretta dai suoi tre
motivi portanti caratteristici: la meraviglia, la conoscenza, il dubbio.
Quello che cambia e che costituisce l’elemento di opposizione tra le differenti culture, in particolare tra la cultura europea con la sua doppia radice
greca e cristiana e le culture orientali, è il diverso accento posto su una delle due tendenze fondamentali e la diversa attenzione dedicata agli oggetti
fondamentali della filosofia: il cosmo, l’io, la società. Più razionalista e attenta alla conoscenza del cosmo la filosofia greca delle origini, improntata alla
fondazione matematica della fisica, che segna così il carattere “scientifico”
e critico della cultura europea; più metafisiche, ossia tese alla ricerca del
fondamento imperscrutabile, la speculazione indiana e quella cinese, la prima dedita a scandagliare le profondità dell’io, la seconda concentrata sulla
ricerca dell’armonia della società e dei suoi principi. Si tratta però di linee
tendenziali che caratterizzano il conato iniziale dell’insorgenza dello spirito
filosofico e non di percorsi esclusivi. La filosofia occidentale recupererà ben
presto la speculazione sui fondamenti e le modalità della vita sociale e sull’io, sia pure secondo la tendenza razionalistica che le è più propria, tanto
quanto la filosofia indiana e cinese elaboreranno a loro volta una conoscenza teoretica del mondo anche se declinata secondo la tendenza metafisica
che ne ha connotato la nascita. Bisogna piuttosto guardarsi dal radicalizzare queste differenze tendenziali. Se è vero che la filosofia sbilanciata sul
versante metafisico rischia di ridursi a mitologia o a mitopoiesi, è altrettanto vero che affidata solo alla sua tendenza razionalistica e privata del suo
carattere originario di ricerca dell’infinito e dell’imperscrutabile, la filosofia
tende a inaridirsi e a venir meno al suo compito originario riducendosi ad un
infruttuoso tecnicismo. L’equilibrio delle opposte tendenze che è la natura
propria e la condizione originaria della filosofia “è il notorio mistero dell’unità delle opposte tensioni; lo stesso segreto che si manifesta nella struttura
originaria della filosofia, ossia il ‘logos’ stesso.” È questo Logos, o Brahman,
o Tao, il termine ultimo in cui si unifica l’impresa filosofia umana, come ricerca del senso spirituale della vita, e che resta unico, al di sotto delle sue
molteplici conformazioni culturali come unica era la sua origine.
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Non bisogna però fraintendere questo richiamo all’unità spirituale originaria come un mistico o metafisico dissolvimento della molteplicità concreta nell’indistinto mare dell’essere o dell’assoluto.
Nata in anni tragici della storia mondiale, questa conferenza lancia un
tenue ponte al di là del conflitto che sta per coinvolgere l’Europa e il mondo intero e mostra la sensibilità di Misch per la tormentata questione, condivisa da molti altri intellettuali del suo tempo, del destino dell’Europa e dell’occidente.
In particolare, per Misch, la ricerca di un senso dell’identità e del destino
della cultura europea non esclude il riconoscimento delle altre culture, ma
assume la necessità di un confronto ragionato che resti comunque rispettoso delle differenze costitutive tra i popoli. Vittima in prima persona dell’intolleranza e delle persecuzioni razziali, Misch allude al superamento delle opposizioni culturali, nazionalistiche e politiche reso possibile dal comune fondamento spirituale dell’umanità, che le concrete differenze delle configurazioni culturali in cui esso si oggettiva non devono far obliare. È altrettanto vero però che lo spirito per unitario che sia non può superare o risolvere la realtà plurale delle sue oggettivazioni storiche e delle loro differenze.
Differenze e opposizioni culturali e unità spirituale sono entrambe reali e
non possono venir eliminate l’una a vantaggio dell’altra, quanto piuttosto
vanno tenute in equilibrio, attuando quel difficile compito, a cui la filosofia
deve partecipa in modo eminente, di gestire la tensione degli opposti che è
il senso stesso della storia umana, senza ricorrere all’illusione ecumenica
del superamento dialettico totalizzante o della unione mistica dei popoli.
Il testo del tutto inedito di questa conferenza viene pubblicato in traduzione italiana per gentile concessione degli eredi di Georg Misch e in particolare del prof. Frank Bloch, il quale ha reso accessibile il dattiloscritto originale
in suo possesso e a cui va il nostro più sincero ringraziamento. [S. F.]
L’origine della filosofia
Vorrei parlarvi dell’origine della filosofia. Si tratta di un argomento di vasta
portata, forse troppo vasta per una sola serata. La sola cosa che mi conforta
è che avrei potuto sceglierne uno ancora più vasto, quale ad esempio, l’essenza della filosofia. Ma quello sarebbe un problema sistematico. Ho preferito un argomento storico concreto, che può risparmiarvi quello che chiamano
il “fastidio del pensiero astratto”. Questo argomento, comunque, riguarda solo la filosofia. L’origine della filosofia non è un argomento semplicemente storico come l’origine dell’impero britannico, ma ha anche una portata sistematica. Quando si ha a che fare con la filosofia non si può evitare di condividere
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la sua tendenza alla sistematizzazione. Inoltre, interrogarsi sull’origine della filosofia non è del tutto differente dall’interrogarsi sulla sua essenza. Se conoscete l’origine di qualcosa o di qualcuno, sapete anche qualcosa su ciò che
essi sono. Forse potreste avere l’impressione che io tenti di barare presentandovi un problema che è apparentemente storico, laddove non potrò fare a
meno sempre e comunque di trattare di che cosa è la filosofia. Se fossi un baro, però, non vi mostrerei tutte le mie carte in una sola volta.
Preferisco incominciare dicendovi semplicemente qualcosa sull’inizio
storico della filosofia. Siccome gli storici amano raccontarci delle storie comincerò con una storia.
Negli anni della mia giovinezza, quando studiavo a Berlino, ho frequentato corsi dal titolo “La storia universale della filosofia da Talete a Kant” oppure “da Talete a Nietzsche”. Suppongo che voi conosciate i nomi di Kant
e di Nietzsche, ma Talete? Il suo nome era inserito in questi titoli perché
Talete è considerato il primo filosofo. Certo, era un Greco. Infatti, ci dicono
che la culla della filosofia è stata la Grecia. Conosciamo il nome dell’uomo
che è cresciuto in quella culla. Conosciamo anche il suo ambiente e qualche data della sua vita. Sappiamo che è vissuto intorno al 600 a.C. a Mileto, una città sulle coste dell’Asia minore dove i Greci avevano fondato alcune colonie. Delle sue idee filosofiche però non sappiamo molto. Era uno
dei sette saggi, i quali per lo più erano uomini politici. Era considerato anche il primo astronomo. Su di lui circolava anche un simpatico aneddoto
piuttosto irridente. Lo racconta Platone, il quale dice: “Capitò un giorno all’astronomo Talete di cadere in un pozzo, mentre scrutava assorto verso il
cielo. Un’arguta e graziosa fanciulla di Tracia trasformò l’incidente in una
burla dicendo che nell’ansia di scoprire cosa c’era in cielo non aveva visto
cosa c’era intorno a lui e sotto i suoi piedi. Adesso – continua Platone – la
stessa battuta può essere rivolta contro tutti gli studiosi di filosofia. Essi sono piuttosto ignoranti per quanto riguarda ciò che interessa il loro prossimo, quasi ignoranti riguardo a se siano esseri umani; in compenso cosa
sia un uomo, cosa gli necessiti, in quanto distinto da ogni altra creatura, di
fare o di patire, su tutto ciò fanno un’indagine diligente.”
È evidente che qui Talete è visto nell’ottica di un’epoca successiva. Platone gli attribuisce un atteggiamento teorico puro che si era affermato due
secoli dopo. Per quanto riguarda Talete stesso, un solo enunciato ci è tramandato da Aristotele il quale dice: “Talete sosteneva che tutte le cose sono acqua e che il mondo è un essere vivente.” Suona strano, ma non è così strano come sembra. Piuttosto è molto più strano che uomini dotti abbiano preso quella frase come la prima proposizione filosofica. Perché è strano? Perché è buffo parlare del “primo filosofo”. “Chi fu il primo filosofo? Chi
fu il primo poeta?” Una domanda del genere è semplicemente uno scherzo.
Gli sportivi chiedono cose del genere, perché si interessano ai primati e al97
le competizioni. Gli antichi greci erano appassionati di sport e competizioni
e amavano chiedere cose del tipo “Chi fu il primo?” Anche il reverendissimo
maestro Aristotele parlava di Talete come del primo di tutti i filosofi. I greci
dell’età classica non erano capaci di vedere le cose storicamente. Visto storicamente, il grande compito umano della filosofia [o della politica] non può
essere concepito come lo sforzo di una sola persona identificabile con un
nome. Esso emerge da un movimento spirituale generale di cui le figure
emergenti sono allo stesso tempo i creatori e le creature. In Grecia, ci fu un
tale grande movimento spirituale nel VII e VI secolo a.C.
Durante questo periodo si stava dileguando una forma di cultura precedente, ossia la cultura eroica, o già forse cavalleresca, rappresentata nei
poemi omerici e, parlando in generale, il sistema di valori esistente fino a
quel momento si era allentato. Questo tratto generale è caratteristico di tutte le epoche in cui sorge la filosofia, ossia di tutte le epoche di rinascimento. Il nuovo inizio della filosofia nel Rinascimento può essere quindi ben paragonato al suo primo inizio in Grecia. A proposito del Rinascimento, potete immaginare alcuni dettagli di quella situazione storica, tipo la distruzione della morale, il fermento sociale, la crisi religiosa, la battaglia per il potere politico. In mezzo a questa disgregazione un nuovo ordine di vita veniva gradualmente eretto. In periodi simili, la vita risale, come un fiume a
primavera. La vita, allora, diventa pericolosa perché i suoi valori non sono
più stabili, ma ogni cosa che toccate esplode. Suppongo che conosciate il
motto moderno, propugnato da Nietzsche, che chiede ad ognuno di “vivere pericolosamente”. Nietzsche lo ha ricavato dalla cultura del Rinascimento. Se vivere significa vivere pericolosamente, la personalità individuale acquista nuova importanza. L’emancipazione della personalità è uno dei tratti principali del Rinascimento. Allo stesso tempo la filosofia veniva liberata
dalla sua dipendenza dalla teologia, la quale aveva prevalso nel Medio
Evo. Movimenti simili dovevano aver luogo nell’antica Grecia nell’epoca in
cui ha avuto origine la filosofia. In considerazione di questi movimenti dobbiamo evitare di confinare l’origine della filosofia in un solo uomo.
Peraltro non possiamo confinarlo neppure in una sola nazione. Se osserviamo i movimenti nell’epoca intorno al 600 a.C., diventiamo coscienti
di un fenomeno storico impressionante. A parte il giovane popolo greco,
troviamo le vecchie nazioni orientali agitate da movimenti paralleli che erano cominciati alcuni secoli prima. Vi ricorderò solo alcuni nomi ben noti.
Naturalmente conoscete i profeti di Israele dato che in questo paese ognuno conosce piuttosto bene la Bibbia. I primi profeti sorsero intorno alla fine
dell’ottavo secolo. C’era anche un movimento etico e religioso in Persia
probabilmente in epoca ancora precedente. Forse conoscete il nome di
Zoroastro, se non altro lo conoscete dal titolo del famoso libro di Nietzsche
Così parlò Zarathustra. Zarathustra visse probabilmente intorno allo 800
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a.C. Certamente sapete qualcosa di Buddha. Buddha visse intorno al 500
a.C. Questa data indica una fase di sviluppo tarda. Il buddismo fu un risultato, non un inizio originale. Si trattò del risultato di un lungo sviluppo filosofico, il cui principio fu segnato dalle cosiddette Upanishad, che sono una
delle maggiori produzioni filosofiche, ben paragonabili con le prime realizzazioni greche. Da ultimo, certamente conoscete il nome di Confucio. Confucio visse intorno al 550 a.C. Il suo insegnamento morale dipendeva da
un precedente sviluppo religioso e metafisico. Così, in quell’epoca mirabile, noi troviamo un movimento parallelo anche nel lontano oriente.
Visto nell’insieme, è come un’onda che si spande su tutti quei popoli di
alta cultura, che erano già creativi o diventavano creativi in quell’epoca, sia
in religione sia in filosofia. Quest’onda raggiunse le coste dell’Asia minore
dove i Greci avevano fondato le loro colonie. Queste colonie erano più versatili, di mente più aperta, e aperte alla luce, del popolo di Atene che odiava i filosofi e li derideva. Così il VI secolo divenne il primo periodo della filosofia greca, la quale nacque in Asia minore e non nel continente europeo
ed era connessa con il pensiero orientale.
Questa iniziale connessione tra oriente e occidente implicava la loro
opposizione. Si tratta di uno dei temi principali della storia della cultura europea, che qui posso solo sfiorare. Certamente gli antichi greci ruppero
con l’oriente. I filosofi greci insieme agli artisti e ai poeti greci hanno posto
le basi dell’atteggiamento mentale tipicamente europeo, il quale include
non solo la tendenza scientifica caratteristica della cultura europea, ma anche la moralità e il monoteismo. I nostri parametri morali europei dipendono dalla filosofia greca tanto quanto dalla cristianità. Ma questa realizzazione dei Greci fu solamente un risultato tardo raggiunto dai poeti greci che
crearono le famose tragedie e dai filosofi che vissero in quell’epoca tragica, nel V secolo a.C. In quell’epoca fu coniato il nome “filosofia”: un bel nome, che è caratteristico della mentalità europea, infatti significa amore della sapienza in contrapposizione al suo possesso, e che circoscrive criticamente lo sforzo umano nella ricerca della conoscenza. In principio, i filosofi greci, quali Talete o Pitagora, erano chiamati semplicemente dotti o saggi come i Saggi Divini di cui parlavano gli Indiani e i Cinesi. La stessa situazione generale può essere ugualmente osservata nella poesia greca arcaica. I poemi omerici non mostrano ancora la visione tipicamente europea
della vita, né conoscono ancora azione morale e responsabilità personali,
piuttosto esibiscono un atteggiamento più antico nei confronti del mondo.
Ora possiamo mettere a punto il nostro tema. Se guardiamo la situazione storica che ho cercato di tratteggiare, risulta evidente che non dobbiamo limitare il problema dell’origine della filosofia ai suoi inizi in Grecia.
Dobbiamo confrontare i vari movimenti filosofici che sorsero in India, Grecia e Cina pressappoco nello stesso tempo. Ho fatto un simile tentativo in
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un libro pubblicato circa 10 anni fa2. Il risultato delle mie ricerche era che
tutti quei vari movimenti perlopiù coincidevano, anche se differivano in apparenza quanto gli europei, gli Indiani e i Cinesi differiscono tra loro come
popoli. Dopo tutto l’origine della filosofia è una e la stessa, e le differenze
devono essere comprese come variazioni di una struttura unica che si ripete dovunque emerga la filosofia.
Cos’è questa struttura? “Struttura” significa la maniera in cui è organizzato un organismo o un altro insieme completo. Qualunque insieme consiste di parti. Per quanto riguarda la struttura della filosofia io distinguo due
parti, o tendenze, essenziali, una razionalistica sia essa più teorica o più
empirica, l’altra soprarazionale o per così dire metafisica. Entrambe si trovano necessariamente nell’inizio della filosofia sia Grecia, sia in India o in
Cina, e ve lo mostrerò partendo dalla tendenza razionalistica che certamente vi è ben nota. Questo infatti è l’atteggiamento degli scienziati e siccome
vivete a Cambridge certamente sapete cosa sia la scienza. La “scienza”,
comunque, nel senso specifico in cui questo termine è usato oggigiorno in
inglese e in francese, cioè strettamente riferito alle scienze della natura, è
una realizzazione specificamente europea e la sua formazione classica appartiene solo al XVII secolo. Tuttavia, come ho detto prima, la cultura europea fu fondata dai greci e la scienza è un’illustrazione di quella impostazione generale; i filosofi greci crearono la scienza nel suo senso specifico, che
è determinato dalla fondazione matematica della fisica. Questo avvenne intorno al 450 a.C., dopo uno sviluppo del pensiero filosofico durato più di un
secolo e mezzo. Per quanto concerne l’inizio, l’atteggiamento scientifico dei
filosofi greci deve essere preso in senso generale come definito dalla tendenza propria dell’esperienza razionale. Essi tentarono di comprendere la
natura delle cose in maniera puramente oggettiva. Cercarono la natura delle cose nel mondo incluso l’uomo. Ricorderete che il termine greco per “natura” è “physis”, da cui la nostra parola “fisica”.
L’attività iniziale dei Greci che approdò alla fondazione della fisica è di
solito chiamata cosmologia. “Cosmo”, come “physis”, è un termine greco
caratteristico, che designa il Mondo come un tutto completo bello e ben ordinato: originariamente infatti la parola “cosmo” significava ornamento.
La ricerca della natura di tutte le cose nel “cosmo” era il genio caratteristico dei primi Greci, ma anche il limite dell’inizio greco della filosofia. Ci
sono infatti altri quesiti che possono stimolare gli uomini e tali domande furono poste dagli iniziatori Indiani e Cinesi. I pensatori indiani meditarono
sulla realtà interiore, chiedendosi “Chi sono io?” “Qual è il mio vero io?”
Certo, anche noi conosciamo questa domanda, ma nella filosofia europea
antica essa fece la sua comparsa solo in uno stadio più tardo, quando la
religione arrivò a prevalere sulla scienza e la cristianità era già ben diffusa.
Allora la conoscenza interiore era considerata la conoscenza di ciò che è
100
più conoscibile come la definì Agostino, chiedendosi “Cosa vuoi conoscere?” e rispondendosi “Dio e l’anima.” “Nient’altro?” “Nient’altro.” In India
questa domanda tenne la filosofia in movimento sin dall’inizio, perché la religione in senso mistico prevaleva in quel paese delle meraviglie, e la metafisica indiana, le Upanishad, è germogliata dal misticismo.
In Cina l’inizio della filosofia fu inaugurato da un problema differente riguardo ai modi corretti dell’azione umana in questo mondo. In Cina la visione della vita non si focalizzava né sul misticismo religioso, né sul mondo fisico, ma piuttosto sullo stato. Conseguentemente, “tutta la filosofia cinese è essenzialmente lo studio di come gli uomini possono essere aiutati al meglio per vivere insieme in armonia e con un buon ordine” (per usare l’espressione di Arthur Waley). È quindi caratteristico di questa tendenza che la parola cinese che originariamente ha lo stesso significato della
parola greca “cosmos”, cioè ornamento, venne a significare “cultura”
(Wen). La cultura umana invece del mondo naturale. Il lavoro filosofico di
Confucio fu la fondazione razionale della morale, che emancipava la personalità morale e stabiliva un atteggiamentop etico nei confronti della politica. Egli compì questo lavoro un secolo prima che la filosofia greca arrivasse a preoccuparsi prevalentemente di questo argomento, all’epoca di
Socrate e dei sofisti, ridirigendosi dalla cosmologia all’antropologia.
Questi sono semplicemente fatti storici. Non dipendono né dalla necessità naturale, né dal caso, ma dalla ragione. Vorrei designare sinteticamente i tre temi di cui quei tre inizi si occupavano – l’io, la comunità degli uomini, il cosmo – con i pronomi “io”, “noi e voi”, “esso”. Questo dovrebbe evidenziare la loro connessione ragionevole reciproca. Una volta concepiti,
questi tre occuparono incessantemente e senza tregua la parte più nobile
dell’umanità in varie regioni, e divennero parti essenziali di quel insieme
unitario che la filosofia aspirava ad essere una volta sviluppatasi in forma
sistematica. All’inizio, essi fecero la loro comparsa simultaneamente, ma
ognuno in uno diverso di quei paesi in cui è sorta la filosofia. Una tale distribuzione, comunque, deve essere compresa in un senso ristretto. In
ogni inizio gli altri due temi erano anch’essi presenti, ma sono rimasti sullo sfondo oppure in forma mitica, senza diventare problemi centrali. Per
quanto riguarda la distribuzione, è un fatto essenziale che la domanda prevalente segni la direzione in cui ognuno dei vari sviluppi divenne creativo
per l’esperienza razionale. Così, i filosofi greci fondarono la scienza, quelli indiani hanno approfondito la conoscenza dell’anima, mentre i cinesi fecero un lavoro fondamentale nella filosofia dello stato e della morale.
Adesso andrò avanti, o piuttosto indietro, rivolgendomi all’altra tendenza originale che precedentemente ho chiamato metafisica. Il fatto è che
non possiamo spiegare pienamente i risultati dello sviluppo illustrato adesso, e soprattutto della creazione greca della scienza, se ci limitiamo a pren101
dere in considerazione solamente l’atteggiamento mentale razionalista.
Certamente tale atteggiamento non è da sottovalutare, e inoltre è un punto di partenza facile da capire poiché è fondato nella stessa natura umana.
Gli uomini per natura cercano di comprendere la loro esistenza e il loro ambiente con l’esperienza e il pensiero, in quanto hanno avuto il dono del linguaggio. Essi sono capaci di dare nomi alle cose, il che implica il guardarle a distanza. E così essi fanno nel loro commercio con il mondo, e il mondo con cui essi si rapportano coincide naturalmente con il loro ambiente.
C’è una lunga strada da percorrere tra una tale visione sul mondo e la
comprensione oggettiva del mondo. Lungo questa strada c’è una svolta
che noi raggiungiamo partendo dall’altro polo che, per essere esatti, originariamente era non solo un polo, ma il centro del movimento filosofico.
Il centro è contrassegnato esternamente dalla concezione dell’unità. I
primi filosofi greci supposero che la natura di tutte le cose nel mondo incluso l’uomo fosse una e la stessa, nonostante la loro apparente varietà e mutazione. I metafisici indiani cercavano il Dio unico, Brahman, rompendo
con il politeismo tradizionale. In Cina c’era la concezione del “Tien”, il Cielo, e del Tao, che è la Via dell’universo o, per essere esatti, la via di ciò che
opera in tutte le cose. Da una prospettiva interna, questa concezione dell’unicità mostra un senso più profondo. Alla ricerca del fondamento del
mondo, il fondo dell’anima o il principio dell’azione vera, i primi metafisici
trovarono che non c’era un terreno solido su cui poggiarsi. Ricercare nelle
profondità più abissali significava per loro incontrare l’imperscrutabile. Di
più, essi consideravano questa conoscenza dell’inconoscibile la più alta
forma di sapienza che gli uomini possano raggiungere perché è la conoscenza dell’infinito. Questo significa l’opposto dell’agnosticismo poiché è
una sapienza positiva di una realtà che oltrepassa la conoscenza e la cui
concezione cambia i nostri modi di esistere. C’è un’impressionante coincidenza tra i detti dei primi metafisici dell’oriente e dell’occidente. Sia riguardo all’Ego, o al Cosmo, o alla comunità umana, essi tentavano di esprimere l’infinito come immanente e trascendente ad un tempo. Anche se la parola “infinito” è un’espressione negativa, essa tuttavia ha un significato positivo e i primi metafisici riuscirono a esprimere il suo senso positivo.
Vi darò qualche esempio. C’è un vecchio detto cinese che si riferisce al
tao che dice:
Sapere quand’è che uno non sa è meglio,
Pensare di sapere quando non si sa è una terribile malattia.
Solo chi riconosce la malattia come tale può curarla e liberarsene.
Questo detto enigmatico diventa chiaro se sentiamo il detto corrispondente dei metafisici indiani. Essi si riferiscono agli indovinelli dell’Ego. L’in102
dovinello, messo in forma moderna suona così: Noi non possiamo conoscere il nostro Ego perché tutto ciò che conosciamo diventa oggetto della
nostra conoscenza, laddove l’Ego è colui che conosce e resta colui che conosce anche quando tentiamo di conoscere noi stessi.
Siccome è sorta dalla religione, la metafisica indiana pone il problema
dell’Ego a partire dalla relazione tra Dio e l’anima, tra Brahman e atman.
In una delle Upanishad un discepolo chiede:
Per decreto e incarico di chi la mente si appresta al suo lavoro?
Per decreto di chi la parola viene pronunciata? Quale Dio assegna le loro funzioni all’occhio e all’orecchio?
E il maestro risponde:
Colui che è l’orecchio dell’orecchio, la mente della mente, il linguaggio del linguaggio, è veracemente la vita della vita, l’occhio
dell’occhio.
Pensa come Brahman ciò che non è manifestato dal linguaggio
e da cui il linguaggio è tuttavia manifestato e non ciò che è adorato come tale.
Conosci come Brahaman ciò che non pensa con la mente e da cui
la mente è tuttavia pensata e non ciò che è adorato come tale.
Conosci ciò che non si vede con gli occhi…
E così via, e alla fine:
Da colui il quale pensa di non comprendere Brahman, da costui
Brahman è compreso. Colui che pensa di comprendere Brahman
non lo conosce. Esso è sconosciuto per coloro che pensano di conoscerlo e conosciuto per coloro che pensano di non conoscerlo.
In Grecia, la sapienza metafisica fece la sua comparsa in competizione
con le concezioni di “physis” e di “cosmos” che attribuiscono completezza
ad un corpo finito. Essa apparve con Eraclito e Parmenide (500 a.C. circa).
Eraclito dice: “La Natura ama nascondersi.” “La recondita armonia è meglio
di quella manifesta.” “Se non ti aspetti l’inaspettato, non lo troverai; infatti
esso è faticoso da trovare e difficile.” E dice ancora: “Non troverai i confini
dell’anima percorrendo ogni sentiero, tanto profondo è il suo logos.”3
Qui troviamo la parola “logos”, la parola fondamentale della filosofia europea. “Logos” è il termine greco per “parola” o “frase”, un termine comune
che può essere usato al plurale. Eraclito fu il primo ad impiegarlo in un senso metafisico che vi è noto dal vangelo di San Giovanni: “In principio era il
103
Logos.” In questo senso esso poteva essere usato solo al singolare, ma c’è
una connessione tra questi due significati. Nella misura in cui il linguaggio è
l’incarnazione della mente, il “logos” divenne il termine generale per indicare
la ragione, ma con una connotazione greca speciale riferita alla misura e alla proporzione. Eraclito manteneva il senso razionale così come l’atteggiamento razionalista dicendo del suo proprio lavoro “Tutte le cose avvengono
in accordo con questo logos, tuttavia sembra come se gli uomini non avessero esperienza di esse, quando mettono sotto giudizio parole e fatti quali io
li ho fatti conoscere, dividendo ogni cosa secondo il suo genere e mostrando cosa essa sia veramente.” Ma egli parlò anche del logos imperscrutabile
nelle profondità dell’anima o della vita che sono senza confini. Così il “logos”
venne ad essere compreso in un senso soprarazionale. La connessione tra
questi due significati implica una tensione. A proposito della realtà nascosta,
Eraclito dice: “Essa è un’armonia di tensioni opposte, come quella dell’arco
e della lira.” Questo va dritto al cuore della struttura della filosofia. L’approccio metafisico contrasta con la tendenza razionalistica. Contrasto però non
significa contraddizione, ma polarità, e la polarità è caratteristica non solo dei
fenomeni fisici quali la corrente elettrica, ma anche dei movimenti spirituali.
Logos, Brahman, Tao sono le parole primigenie della metafisica, in tedesco le ho chiamate le “parole originarie” (Urworte) metafisiche. Tutte e
tre sono ognuna un termine particolare per “parola”. Dispiegare il loro significato equivarrebbe all’esposizione stessa dell’origine della filosofia. Ma
io temo che voi vi ritraiate da quella sapienza metafisica o dalle sue
espressioni originarie che erano a un tempo lucide ed enigmatiche. Tenterò quindi di dischiudere4 il cuore del problema per un’altra via, quella storica, avvicinandomi ai cosiddetti pensatori classici il cui linguaggio è più facile da comprendere.
Essi erano già interessati al nostro problema. I filosofi, come sapete,
sono persone riflessive e scrupolose, che amano andare al fondo delle cose; così essi riflettono sulla loro stessa attività e si chiedono “Perché filosofiamo?” Questa domanda riguarda i motivi del filosofare, ma è legata alla domanda storica “Qual è stato l’inizio della filosofia?” Infatti, i motivi del
filosofare sono permanenti, e non sono limitati all’avvio della mente umana all’inizio della filosofia, che è un evento storico datato intorno al 600
a.C.; bisogna invece anche prenderne atto e perseguirli ogniqualvolta
qualcuno entra nel regno della filosofia.
Così sono stati definiti tre motivi essenziali. Primo, la meraviglia. Secondo, il desiderio della conoscenza. Terzo, il dubbio. Il primo motivo fu rivelato da Platone, il secondo da Aristotele, il terzo da un pensatore classico dell’età moderna, Descartes, che visse nel XVII secolo e al quale ho già
accennato a proposito della fisica classica. Siccome Platone, Aristotele e
Descartes erano persone autorevoli le loro affermazioni sono state ripetu104
te spesso da allora in poi. Nello spiegare tali affermazioni vi mostrerò anche in che modo sono connesse tra loro.
Platone afferma: “La vera condizione del filosofo è la meraviglia.” Trasformandolo in termini storici egli continua dicendo “La meraviglia è il solo
inizio della filosofia.” Ma che significa “meravigliarsi”? Il termine inglese
“wonder” non esprime pienamente il significato del termine greco corrispondente thaumàzein. Non è veramente in grado di catturare ciò che viene evidenziato dal tedesco Staunen, stupore, o del verbo latino admirari.
Ogni traduzione è interpretazione, però “wonder” è una parola interessante che cattura qualcosa di non poca importanza che le altre due traduzioni non esprimono. Nello Oxford Dictionary essa porta la seguente definizione: “emozione suscitata da ciò che sorpassa l’aspettativa o l’esperienza o
sembra inspiegabile. Sorpresa mista ad ammirazione o curiosità o perplessità.” La cosa eccezionale è che una sola parola esprima sorpresa e curiosità allo stesso tempo, e voi sapete che nel linguaggio comune questo secondo elemento prevale. Suppongo infatti che voi preferiate usare l’allocuzione colloquiale “wonder” per dire che vorreste sapere una cosa o per
chiedere qualcosa a qualcuno in maniera più gradevole – dovrei dire piuttosto che mi chiedo (I wonder) se voi preferiate fare così.
Questo elemento era già prevalente quando Aristotele interpretò il detto platonico. Aristotele, come sapete, è un pensatore empirico, e in questo
senso assomiglia agli inglesi. In un passo riguardante i primi filosofi greci
dichiara: “È grazie alla meraviglia (wonder) che gli uomini adesso cominciano e originariamente hanno cominciato a filosofare; interrogandosi da
prima su questioni piuttosto spicciole, e poi per progressione graduale sollevando interrogativi anche sulle grandi questioni, ad esempio sui moti della luna e del sole, sulle stelle e sull’origine dell’universo. Ora, chi si interroga (wonders) ed è perplesso sente di essere ignorante. Pertanto – conclude Aristotele – se gli uomini hanno praticato la filosofia per sfuggire all’ignoranza, è ovvio che essi perseguivano la scienza per amore della conoscenza e non per alcuna utilità particolare.”5 Questa conclusione non ha
più niente di empirico. Un pensatore puramente empirico non parla di conoscenza da perseguire come fine in sé. Per quanto empirista Aristotele
restava un discepolo di Platone, e come Platone credeva nel potere della
teoria ossia della concezione speculativa e le dava il posto preminente.
Questa credenza nella teoria era un preconcetto particolare dei greci, che
però ha promosso la creazione della scienza. Quando Aristotele spiegava
l’inizio della filosofia, lo faceva avendo presente questa realizzazione. La
filosofia gli appariva come la scienza più alta. Così Aristotele determinava
il motivo platonico: il meravigliarsi gli sembrava essere collegato principalmente ai fenomeni cosmici quali i moti della luna e del sole. Questa presupposizione è quello che io chiamo l’aspetto teoretico della filosofia.
105
A partire da tale aspetto, Aristotele diede una chiara e generale spiegazione dell’origine della filosofia dal desiderio di conoscenza. Così arriviamo al secondo motivo, che egli espone come segue, a partire da un enunciato generale:
Tutti gli uomini – ci dice – per natura desiderano la conoscenza.
Un’indicazione di ciò è la nostra considerazione per i sensi, infatti a prescindere dalla loro utilità noi li apprezziamo per se stessi, e in particolare il senso della vista. Non solo ai fini dell’azione, ma anche quando non si ha alcuna intenzione di agire noi, di
fatto, preferiamo la vista a tutti gli altri sensi. La ragione di ciò è
che di tutti i sensi la vista è quella che più ci aiuta a conoscere
le cose, rivelandone le molte differenze.6
Questo è il primo paragrafo del famoso libro che originalmente si intitolava “Scienza prima”, cioè scienza fondamentale, ossia filosofia, ma che
tradizionalmente è chiamato Metafisica. La parola metafisica che usiamo
comunemente deriva da questo libro e in modo piuttosto curioso. Gli studiosi greci che raccolsero e organizzarono gli scritti aristotelici collocarono
questo libro subito dopo il libro che trattava della fisica. In greco “dopo” si
dice “meta”, così “metafisica” significa semplicemente il libro che sta dopo
il libro sulla fisica. Si trattava solamente di una denominazione tecnica ad
uso dei bibliotecari. Successivamente, quando questa intenzione venne dimenticata, il termine metafisica venne riferito all’argomento di quel libro e
divenne un termine generale per indicare la filosofia teoretica.
Infine, quando la filosofia teoretica fu screditata dallo sviluppo della
scienza moderna, l’innocente parola fu fraintesa e presa come se indicasse una scienza pretenziosa di ciò che giace al di là del mondo fisico, e tale è il significato che usualmente gli si dà oggigiorno.
Tutto falso. Amante della teoresi quanto poteva esserlo Aristotele resta
empirista. Così egli nel passo che ho citato incominciava dalle sensazioni,
dichiarando che la preferenza accordata al senso della vista era prova che
gli uomini desiderano la conoscenza per se stessa, e fornisce diversi esempi a sostegno di questo enunciato generico. L’origine della filosofia è uno di
questi esempi, dal momento, egli dice, “che fu per sfuggire all’ignoranza che
gli uomini praticarono la filosofia.” Certo, ci sono grosse differenze tra vista,
scienza e filosofia, ma secondo Aristotele esse si spiegano con lo sviluppo,
idea questa che Aristotele introdusse nella storia della mentalità europea.
La conoscenza umana, egli insegna, si sviluppa per gradi dalla sensazione
all’esperienza, dalla semplice esperienza, cioè la sola conoscenza dei fatti,
alla esperienza razionale, le arti e le scienza, cioè la conoscenza delle cause e delle origini; dalla scienza alla filosofia che è la scienza somma in
106
quanto si occupa delle le cause più universali o principi primi dell’essere e
della conoscenza. Il desiderio per la conoscenza appariva come la forza
motrice di quello sviluppo; tale desiderio infatti si trova nella natura umana
ed è per questo che Aristotele definiva l’uomo l’animale parlante – “parlante”, ossia che ha il logos. E infatti la Metafisica inizia con la frase lapidaria
“Tutti gli uomini per natura desiderano la conoscenza.”
Non posso diffondermi qui sul problema se quella frase sia vera o no.
Dobbiamo attenerci al nostro problema, chiedendoci se Aristotele lo abbia risolto. Ho già fatto notare che egli lo pose dal punto di vista teoretico. Questo
implica due presupposti: primo, la filosofia appariva come il risultato finale di
un processo di sviluppo intellettuale che precedentemente aveva prodotto la
scienza. La storia contraddice tale apparenza, e mostra che è piuttosto il
contrario. La filosofia è stata la madre della scienza e non la sua progenie. Il
secondo presupposto è che Aristotele supponeva che il desiderio per la conoscenza che era parte della natura umana tendesse alla scienza e la raggiungesse passo dopo passo, costringendo così lo sviluppo lungo una linea
retta. È vero che la conoscenza è immanente alla vita umana – e l’ho già sottolineato parlando della tendenza razionalista, quando dicevo che gli uomini
naturalmente cercano di capire la loro esistenza e ciò che la circonda. Ma ho
anche sottolineato che questa tendenza naturale era strettamente connessa
all’ambiente, che gli uomini ingenuamente presero per il mondo. Il termine
“mondo” originariamente voleva significare con una sola parola gli uomini
con il loro ambiente, ossia l’universo. C’è un salto. Lo sviluppo lo ha superato, ma il ponte è stato costruito dalla filosofia, meglio, dalla metafisica. La conoscenza come sua tendenza naturale è utile ai bisogni e agli interessi della vita umana. La tendenza a guardare la vita e il mondo in maniera oggettiva indica che l’intelletto umano è stato capace di emanciparsi dagli scopi particolari della vita. Questa emancipazione implica un evento che ha avuto luogo nella storia e che coincide con l’origine della filosofia. Parlo di un evento
come si fa della storia biblica di Adamo ed Eva e dell’albero della conoscenza, per quanto non sia propenso a considerare l’origine della filosofia come
caduta dell’uomo. Inoltre tale evento non è accaduto una volta sola, poiché
la filosofia, dovunque sia entrata per la prima volta, ha fatto irruzione nella vita. Fino a quel momento invertire la direzione dell’intelletto era un cosa innaturale. L’intelletto infatti, per filosofare, deve invertire la sua direzione intesa
all’azione e assumere una posizione distaccata, così da guardare la vita e il
mondo a distanza. Solo se visti a distanza il mondo e la vita appaiono come
un tutto. La mente umana è capace di alterare la sua visione, perché la conoscenza non solo è immanente alla vita, ma cerca anche di trascenderla. Il
motivo platonico marca la svolta.
Infatti il meravigliarsi (wondering) ha un riferimento più ampio di quello
che supponeva Aristotele. Non riguarda infatti solamente ciò che sorpassa
107
le aspettative o che sembra inspiegabile, ma anche ciò che oltrepassa la
conoscenza. Così esso è in grado di includere i vari impulsi iniziali della filosofia, come ad esempio l’inizio indiano. Lì, i temi della speculazione erano la finitezza della nostra esistenza, la vanità dei nostri sforzi e soprattutto la conoscenza della morte. Sotto questo aspetto, lo stupore filosofico
non sembra più un tipo di emozione e riflessione innaturale. Infatti la conoscenza della morte dava e dà all’uomo l’impulso più forte alla riflessione,
come mostra ogni concezione pre-filosofica della vita. In effetti, la pulsione
filosofica ha la sua fonte nella nostra vita, non è una cosa aliena separata
dal comune atteggiamento umano di riflessione, anche se questo genere
di riflessione è più affine alla poesia che alla scienza, per mezzo della quale – come insegna Aristotele – la conoscenza dovrebbe svilupparsi naturalmente dalla sensazione alla filosofia. E così è perché, o nella misura in
cui, il poeta è l’uomo vero.
Ma voi potreste volervi attenere all’aspetto teoretico della filosofia a cui
mi sono opposto. Infatti esso ha prevalso nell’età moderna fino al secolo
scorso e prevale ancora in questo paese, se non mi sbaglio. Se ci atteniamo ad esso, comunque, il motivo Aristotelico si dimostra nuovamente insufficiente, infatti la sua nozione di conoscenza è troppo generica e ampia
perché include la sensazione e l’esperienza comune così come la filosofia
e la scienza. Resta così ancora da spiegare in cosa consista il compito
specifico del filosofo.
Questo ci porta al terzo motivo che è stato presentato da Descartes, il
quale afferma: “Dobbiamo dubitare di ogni cosa.” E lo spiega così:
Colui il quale cerca la verità deve una volta nella sua vita liberarsi da tutte le opinioni tradizionali al fine di costruire il sistema della conoscenza daccapo dalle sua fondamenta, come un architetto abbatte le vecchie case per ricostruire la città secondo il suo
progetto.7
Questo è il cosiddetto “dubbio universale”. Come vedete non ha niente
a che fare con lo scetticismo. Piuttosto l’opposto, perché il dubbio è preso
come il principio della filosofia mentre lo scetticismo finisce con essa. Si
tratta di un mezzo per avvicinare la realtà metodicamente. Dobbiamo dubitare di ogni cosa che si ritiene vera al fine di accettare solo ciò che è
compreso dalla ragione. Se io seguo questo principio procedurale, divento cosciente che c’è un punto dove mi diventa impossibile continuare a dubitare ulteriormente perché non posso dubitare della mia propria esistenza
o della mia coscienza razionale. Cogito ergo sum. Questa, come insegna
Descartes, è la base solida a partire dalla quale il filosofo è capace di erigere il sistema della conoscenza secondo il metodo della scienza.
108
Questa spiegazione è impressionante per la sua lucidità. Di norma, i
pensatori francesi eccellono per la loro enigmatica lucidità. Descartes mette in luce un punto importante del nostro problema. I primi filosofi, come vi
dicevo, ruppero con la tradizione e le credenze comuni. Si tratta dell’aspetto negativo di quel evento grazie a cui, come sottolineavo precedentemente, l’intelletto umano divenne capace di comprendere il mondo oggettivamente. L’aspetto positivo, comunque, è sempre più significativo di quello
negativo. Inoltre qualunque negazione presuppone un’affermazione, a meno che uno non voglia solo distruggere senza costruire nulla. L’intenzione
di Descartes era di ricostruire la filosofia. Incominciare con la distruzione
implicava che la costruzione era in atto. Il dubbio significa mancanza di
credenza o di armonia, letteralmente significa essere duplice. Questo stato doveva essere superato da una credenza unificatrice. Sta di fatto che
esso era stato già superato ogniqualvolta la filosofia aveva avuto un nuovo impulso e di ciò Descartes stesso è un grande esempio. Come dicevo,
il dubbio universale significava per lui un principio metodologico inteso ad
assicurare una base solida per la ricostruzione del sistema della conoscenza. Tale base doveva essere l’Ego. Tuttavia l’Ego dell’individuo singolo non
è in alcun modo il principio centrale della filosofia, né lo stesso Descartes
lo intese così. Egli tentò di scoprire l’ego indagando nella propria coscienza, e cosa vi trovò? Molte idee, ovviamente, tuttavia il punto essenziale su
cui Descartes si soffermò era che in mezzo a tutte queste idee si trovava
l’idea di “infinito”. Finiti quanto possiamo esserlo, noi abbiamo nozione dell’infinito. Questa nozione, ci dice, è il distintivo onorifico del genere umano
e dovrebbe essere il principio del filosofare.
Così il pensatore scientifico moderno ha raggiunto con una deviazione
metodica la stessa sapienza che i primi metafisici avevano espresso direttamente. Egli comunque differiva da questi poiché prese una tale sapienza come un fondamento solido. Ma proprio quello era lo sbaglio. Si tratta
infatti di un fondamento senza fondamento [groundless ground]. Descartes
– e più di lui il suo discepolo Spinoza – affermò di possedere intellettualmente quella sapienza che gli iniziatori avevano concepito come conoscenza dell’inconoscibile. Spinoza afferma: “La mente umana ha un’idea
adeguata dell’essenza eterna di Dio”, ossia dell’essere assolutamente infinito. Tale affermazione dipendeva dall’atteggiamento scientifico dei pensatori moderni. La stessa affermazione una volta aveva inaugurato il processo di creazione della scienza in Grecia. Allora si era rivelata fruttuosa. Ma
a parte questa uscita, di quella credenza razionalistica potrei dire con Shakespeare: “Il Moro ha fatto ciò che doveva.” Certo, la scienza ha imparato
a disporre dell’infinito, e vi è riuscita con l’invenzione del calcolo infinitesimale che ci ha resi capaci di calcolare con le quantità infinite proprio come
facciamo con quelle finite. Ma questo significa liberarsi dell’infinito. La filo109
sofia però non deve mirare a liberarsi dell’infinito. L’infinito è stato il primo
oggetto di meraviglia [wondering] filosofica e manterrà questa posizione. O
forse la meraviglia dovrebbe risolversi in un nihil admirari? C’è una semplice distinzione da farsi tra quella meraviglia che sopravvive alla soluzione
dei problemi e quella che non lo fa. Per quanto riguarda la scienza, la meraviglia porta ad un problema e qualunque problema è lì per essere risolto. Per contro, la meraviglia da cui sorge la metafisica si cambia in riverenza verso l’imperscrutabile. Non si tratta né di agnosticismo, né di misticismo, ma di un atteggiamento filosofico che, nella misura in cui ha a che fare con la vita umana, diventa fruttuoso nel lavoro di ricerca anche nelle cosiddette arti o nelle scienze morali o storiche.
Tali scienze diventano asfittiche e senza vita se non ricercano nell’incercabile: esse infatti hanno a che fare con il mistero del tempo. Così la
storia non guarda solo indietro per rianimare il passato, ma interpreta il
passato a partire dal presente che procede verso il futuro. Inoltre esse hanno a che fare con l’individuo considerandolo per il significato che ha nella
vita umana e nella storia, e tuttavia, nell’indagare il suo significato individuale, esse cercano ciò che è essenziale o tipico e pertanto generale.
Le cose puramente generali sono ragionevoli, le cose puramente individuali sono ineffabili. La connessione tra le due è il notorio mistero dell’unità delle opposte tensioni – lo stesso segreto che si manifesta nella
struttura originaria della filosofia, ossia il “logos” stesso.
Anche se la vita umana è imperscrutabile e chiunque si avventuri a cercare in essa continua a restare perplesso [wondering], essa però non è
semplicemente irrazionale. C’è una struttura e il suo dinamismo implica un
processo di sublimazione. L’individualità, che è un fatto, diventa significante e diventa così ideale. La via della vita storica è la via che porta dai fatti
alla realtà ideale prodotta dalla creazione dei valori. Questo vale anche per
la storia spirituale delle nazioni. Mi azzardo a dire che le grandi nazioni mostrano la loro individualità significante attraverso i loro sforzi e il loro pensiero più elevati e più puri. Quanto più elevate esse divengono tanto meno
esse sono separate tra di loro. L’individualità non è opposta all’universalità. C’è una coincidenza in essa a cui la parte più nobile dell’umanità tende. L’origine della filosofia in Oriente e in Occidente dovrebbe essere un
esempio di tale verità.
[Cambridge (UK) 1936].
Presumibilmente Der Weg in die Philosophie: Eine Philosophische Fibel. Lipzig,
Berlin, 1926.
3 Si tratta, rispettivamente, dei fr. 123; 54; 18; 45 (Diels-Kranz).
4 Il testo porta la seguente variazione [unfold > disclose]
5 Aristotele, Metafisica A 982b, 12-23.
6 Aristotele, Metafisica A 980, 1-28.
7 Il riferimento, molto libero, è alle prime pagine della seconda parte del Discours de
la méthode di Descartes. Misch tuttavia congiunge la metafora dell’architetto, o dell’ingegnere, che rappresenta per Descartes l’intenzione unitaria della conoscenza con l’analogia delle case da abbattere per ricostruirle dalle fondamenta che allude al suo progetto
di rifondazione del corpo delle scienze.
1
2
Alcuni brevi cenni bibliografici per chi fosse interessato ad approfondire l’opera e la
figura di Georg Misch.
Le opere di Georg Misch non sono tradotte in italiano. A scopo puramente indicativo
indichiamo qui i titoli principali.
Zur Entstellung der franzosische Positivismus, Berlin 1901.
“Herman von Helmholtz, ein Lebensbild nach den neusten Quellen” in Westermanns
illustrierte deutsche Monatshefte, n. 12, 1903, pp. 782-97. (Pubblicato sotto lo pseudonimo Peter Langen).
Geschichte der Autobiographie, Leipzig, 1907.
Vom den Gestaltungen der Persoenlichkeit, Berlin, 1910.
Der Weg in die Philosophie, Leipzig, 1926 [ed. Ingl.: The Dawn of Philosophy, Cambridge 1950].
“Die Idee der Lebensphilosophie in der Theorie der Geisteswissenschaften”, Kantstudien, 1926.
Lebensphilosophie und Phaenomenologie, Bonn 1930.
Vom Lebens – und Gedankenkreis Wilhelm Diltheys, Frankfurt 1947.
La letteratura secondaria su Misch in italiano è piuttosto esigua; qui ricordiamo solo il
saggio più recente rimandando il lettore interessato alla sua ampia e curata bibliografia.
M. MEZZANZANICA, Georg Misch. Dalla filosofia della vita alla logica ermeneutica,
Franco Angeli, Milano 2001.
(traduzione e note di Sergio Franzese)
da “Segni e comprensione” n. 58, anno XX, maggio-agosto 2006
110
111
TRAN-DUC-THAO
LA “FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO”
E IL SUO CONTENUTO REALE (1948)
a cura di Maria Rosaria Fasano
Tran-Duc-Thao nasce in Vietnam, intorno al 1920. Studia a Parigi; dal 1937 segue i corsi dell’Ecole Normale della Sorbona. Nel
1943 si laurea con una tesi sul metodo fenomenologico di Husserl. Studia, insieme a Merleau Ponty, i manoscritti husserliani di
Lovanio. Di lui in Italia si conosce bene poco. Esiste la traduzione di Fenomenologia e materialismo dialettico (1951), Milano,
1970, con introd. di P.A. Rovatti e una nota bibliografica a cura
della traduttrice R. Tomassini. Sull’opera di Tran-Duc-Thao ricordiamo G.D. Neri, Prassi e conoscenza, Milano, 1966, pp. 149163. Dal 1947 non si hanno notizie precise sulla vita di Thao. Si
sa del suo ritorno in Vietnam, della sua partecipazione alla vita
politica e culturale del suo paese.
Tra gli ultimi scritti italiani su Tran-Duc-Thao, ricordiamo: G. Invitto, La “Kriss” nella lettura di Merleau-Ponty e Tran-Duc-Thao, in
Aa.Vv., Husserl. La “Crisi delle scienze eropee” e la responsabilità storica dell’Europa, a c. di M. Signore, Milano, 1985, pp. 331342; A. Negri, Interventi sulla fenomenologia, Cavallino, 1988.
Il saggio La “Phénoménologie de l’esorut” et son contenu réel, fu
pubblicato sul n. 36, settembre 1948, di “Les Temps Modernes”,
nella sezione Opinions, con la seguente nota redazionale: “Lo studio che stiamo per leggere restituisce con rigore scientifico il pensiero di Hegel in rapporto alla materia e allo spirito come ‘identità
dell’identità e della non-identità’. Il termine di ‘materialismo’, l’idea
di una dialettica ‘propria’ della natura sono, in queste condizioni, i
più convenienti per esprimere questo pensiero? Ecco quello che
ci chiederemmo, se non dovessimo attendere, per farlo, la teoria
della natura di cui l’autore dà qui solo uno scorcio. Ma, anche se
noi formuliamo le conclusioni diversamente da lui, e parliamo
d’ambiguità, quando egli parla di oggettività o di natura, la sua
esegesi ha per noi il valore di un richiamo all’ordine: non bisogna
togliere il sapore al pensiero di Hegel, occorre guardarne in faccia
l’esigenza, centrale, questa deiscenza che apre la natura alla storia, ma che ha già il suo analogo all’interno della natura e che non
si spiega dunque ‘dal basso’, ma dapprima ‘dall’alto’”.
112
Niente si può paragonare all’immensità dell’influenza di Hegel, se non
il mistero che c’è intorno ai testi hegeliani. La dialettica appare come una
magia di cui nessun commentatore sembra avere ritrovato il segreto. Se il
concetto si presenta come sapere di sé, questo sapere resta un in sé, che
non è ancora divenuto per noi.
Non si saprà mai troppo apprezzare, da questo punto di vista, la pubblicazione a cura di Raymond Queneau del celebre corso di Alexandre Kojève sulla Fenomenologia dello spirito1. Per la prima volta, ci troviamo davanti una spiegazione effettiva, che dà al testo un senso concreto rapportandolo a dei fatti reali. Sotto il divenire della coscienza di sé, Marx aveva
riconosciuto il movimento della storia umana; rimane da dimostrarlo nel
dettaglio del contenuto. Il commento di Kojève ci offre un saggio particolarmente brillante e di una profonda originalità.
Il motore della dialettica si presenta in Hegel come una forza misteriosa, la potenza del negativo, che assimila l’oggetto al soggetto e fa passare ciascun termine nella sua contraddizione. Kojève lo interpreta, alla maniera di Marx, come negatività reale: il desiderio e il lavoro negano il dato
naturale e lo trasformano in maniera da renderlo umano. La mediazione è
l’attività che permette all’uomo di rendersi indipendente dalle condizioni immediate e di elevarsi all’universalità in un mondo che è costituito da lui
stesso.
Ma il desiderio e il lavoro non indicano ancora che la relazione esteriore dell’uomo alla natura. La negazione non prende il suo senso spirituale
che come negazione di sé. L’uomo nega se stesso in un desiderio particolare proprio della specie umana, il desiderio del desiderici o desiderio di riconoscimento, che lo spinge a rischiare volontariamente la sua vita in una
lotta di puro prestigio, per dimostrarsi come indipendente dall’esistenza
animale e degno d’essere riconosciuto. Il risultato immediato è la morte di
uno degli avversari. Ma una tale negazione è astratta e sopprime le condizioni di un riconoscimento effettivo. Il vinto deve restare vivo per riconoscere il suo vincitore: l’uno diviene il padrone e l’altro il suo schiavo.
Il padrone ha raggiunto resistenza propriamente umana annientando in
se stesso l’esistenza animale nella lotta per la vita e la morte; lo schiavo è
ridotto al momento della cosa. Ma l’umanità del padrone resta immediata,
perché egli conduce un’esistenza oziosa. Lo schiavo, sottomesso al lavoro, realizza, da questa stessa costrizione, le condizioni di una liberazione
effettiva. Ma l’uomo non è veramente umano che quando ha rischiato la
sua vita per affermarne il senso. La storia del lavoro e delle lotte per il riconoscimento definisce il divenire storico come divenire umano.
La dialettica della Fenomenologia non fa che riprodurre, secondo Kojève, questo movimento reale. Il primo mondo propriamente storico è il mondo greco, dove i padroni passano il loro tempo nella politica e la guerra, la113
sciando il lavoro effettivo ai loro schiavi. Ma l’imperialismo romano realizza un livellamento generale, nella sottomissione di tutti ad uno solo. Gli antichi schiavi provano a persuadersi di essere diventati realmente liberi, elaborando delle ideologie che collocano la libertà fuori della situazione reale: lo Stoicismo, lo Scetticismo, il Cristianesimo.
Una liberazione di questo genere è illusoria, non avendo lo schiavo rischiato la sua vita in una lotta per il riconoscimento. Il Cristianesimo non
realizza l’uguaglianza degli uomini che ponendoli in una servitù comune.
Lo schiavo, liberandosi dal padrone umano, si è asservito al padrone divino, asservimento dovuto allo stesso motivo del primo: la paura della morte, sublimata questa volta nel desiderio di una vita eterna. La liberazione
vera consisterà dunque, secondo Kojève, nel negare l’esistenza di Dio, attraverso l’accettazione dell’idea della morte, ciò che non è possibile che in
una società universale e omogenea, dove tutti possano essere riconosciuti. Un tale riconoscimento soddisfa l’uomo dando alla sua esistenza la pienezza del suo significato, e rende inutile l’idea dell’aldilà. Tutto il movimento del mondo cristiano consiste nel realizzare le tappe attraverso le quali
l’uomo ottiene la soddisfazione. Questo è precisamente il risultato che si
trova realizzato con Napoleone, che compie la storia, e con Hegel, che ne
esplicita il significato.
È impossibile riprodurre la ricchezza delle analisi concrete che formano il raro merito del commento di Kojève. Dietro le asprezze di un testo
astruso, l’interprete scopre un contenuto a un tempo obiettivo e vissuto, di
una sorprendente profondità e di un realismo impressionante. Del resto, si
parte da un punto di vista la cui solidità non lascia posto alla discussione:
la dialettica hegeliana non ha evidentemente senso che attraverso l’ateismo. Come pure sottolinea Niel, “non c’è nessuno ai nostri giorni che si rifiuti di ammettere che il pensiero di Hegel giunga alla fine a spogliare del
loro senso religioso i dogmi cristiani”2.
Faremo evidentemente alcune riserve sul lavoro di realizzazione: ci
sembra esagerato voler interpretare il contenuto della intera Fenomenologia attraverso la dialettica del padrone e dello schiavo. Senza dubbio la
storia è fatta dalle lotte e dal lavoro umano. Ma, questi concetti sono troppo vaghi e non danno conto delle particolarità del movimento, come Hegel
l’ha esposto. Il rapporto di dominio a schiavitù, come pure ha fatto osservare lo stesso Kojève3, non spiega il riconoscimento dei padroni tra loro,
più in generale il riconoscimento reciproco degli individui all’interno della
totalità sociale, che definisce la concezione hegeliana della spiritualità. Le
figure fenomenologiche, come figure dello spirito, sfuggono in tal modo
completamente all’interpretazione proposta. Così, la città antica, che implica evidentemente il momento della schiavitù, si caratterizza nella sua strut114
tura spirituale con l’opposizione della famiglia e dello Stato, delle potenze
sotterranee e delle divinità della luce: non ci sono qui né dominazione né
servitù, ma scissione interna nella comunità degli uomini liberi. La dialettica che porta all’unità del mondo, sotto l’impero romano, resta tuttavia misteriosa, avendo le guerre tanto la possibilità di perpetuare le divisioni che
di sopprimerle. Il caso del Cristianesimo può sembrare più calzante poiché
sarebbe la paura della morte che avrebbe fatto del cristiano lo schiavo di
Dio. Ma è facile vedere che una spiegazione di questo genere viene da un
razionalismo astratto, del tipo dell’Aufkiarung. Infine, se la dialettica del
mondo dell’alienazione, dal Medioevo alla Rivoluzione, si può definire genericamente come la liberazione dello schiavo cristiano, si arriva difficilmente a spiegare attraverso un concetto così generale il dettaglio delle figure che guidano il movimento, ancora meno la loro genesi concreta. In
una parola, se le nozioni di lotta e di lavoro sembrano caratterizzare la realtà storica nel suo insieme, esse appaiono come tasselli giacché si applicano, come le vede Hegel, alla diversità del contenuto. Risulta una certa
ineguaglianza nel commento, essendo state le figure della coscienza, in
particolare, relativamente trascurate: (capitoli dal I al III) era difficile in effetti spiegarle seguendo lo schema del padrone e dello schiavo.
Il formalismo non è che il segno dell’astrazione. Il concetto fondamentale di riconoscimento si trova separato, nel commento di Kojève, da tutto
lo svolgimento precedente: egli definisce anche il principio della separazione, come dualità assoluta e totalmente inesplicabile dell’uomo e della natura. L’animale non sa desiderare che degli oggetti e resta così egli stesso
sul piano dell’oggetto. L’uomo “desidera il desiderio”, mette volontariamente la sua vita in pericolo in una “lotta di puro prestigio”, per dimostrarsi come indipendente dall’esistenza biologica. Il questa negazione di sé come
semplice essere naturale, l’uomo realizza la “coscienza di sé” (Selbstbewusstsein), mentre l’animale non possiede che “il sentimento di sé” (Selbstgefühl).
La scissione sarà dunque totale e farà dell’apparizione dell’umanità un
cominciamento assoluto. Ora, la dialettica, come la intende Hegel, consiste giustamente nell’identificare le contraddizioni e nel fare scaturire la differenza dalla stessa unità. La dualità della natura e dello spirito implica un
doppio passaggio, come divenire-umano della natura e divenire-natura
dell’idea, dove ciascun termine si realizza in sé negandosi nel suo opposto. Kojève lo condanna senza più ampio esame come ‘Terrore monista di
Hegel”. Con lo stesso colpo si trovano respinti evidentemente i principi
classici del marxismo. Ora, in realtà, non si è semplicemente eliminato il
“materialismo”: si è rifiutata tutta la dialettica in generale, anche nel senso
hegeliano. Il rifiuto di Kojève per il monismo sarebbe giustificato se si trattasse di affermare l’identità astratta della natura e dello spirito; ma nessu115
no ignora che tutta l’opera di Hegel è stata scritta per protestare contro una
tale interpretazione. L’identità vera implica in sé la negazione e la differenza, come identità dell’identità e della non identità.
Lo sconvolgimento della coscienza di sé, nel capitolo IV della Fenomenologia, si trova sempre in una continuità perfetta essendo il biologico e
l’umano i due momenti di un solo e medesimo divenire. Le nozioni di “desiderio del desiderio” e di “lotta per puro prestigio” non esistono in nessuna
parte, per quanto sappiamo, di Hegel. Quanto all’opposizione della “coscienza di sé” e del “sentimento di sé”, essa non appare, almeno nel testo in questione, dove l’autore parla uniformemente della “coscienza di sé” (Selbstbwüsstsein). Si tratta in effetti della genesi del Sé a partire dalla natura.
L’oggetto si è definito alla fine del movimento della coscienza come infinità o unità che si scinde essa stessa e identità nell’opposizione. In quanto la differenza non è una, ma si trova immediatamente soppressa, l’oggetto non è più opposto al soggetto, ma gli diviene identico, come il sé che appare a se stesso: la coscienza, come coscienza dell’oggetto, è divenuta
coscienza di sé.
L’infinità si presenta allora sotto due aspetti: come soggettività, è il desiderio che sopprime l’alterità, essa è il movimento stesso della vita, come
totalità di forme indipendenti che non si mantengono nella loro esistenza
separata che per l’attività stessa, per la quale esse s’impegnano in un processo universale di scambi reciproci. Dal punto di vista dell’esteriorità, gli
esseri viventi si nutrono gli uni degli altri, non essendo l’atto attraverso cui
ciascuno mantiene la sua esistenza individuale che l’attuazione di un circuito universale. Dal punto di vista dell’interiorità, il movimento appare come soggettività desiderante, annientatrice dell’altro e che lo assimila a sé.
La coscienza ha coscienza dell’oggetto come identico a sé: essa è coscienza di sé. Ma la vita e il desiderio non superano la separazione che in
maniera immediata: essi mettono capo in realtà alla riproduzione e alla
proliferazione delle esistenze individuali. La coscienza desiderante perpetua l’alterità negandola sul piano naturale: “essa fa l’esperienza dell’indipendenza dell’oggetto”. In ragione di questa indipendenza, l’oggetto non
sarà veramente il Sé e la coscienza di sé che quando l’altro si sarà negato esso stesso: “La coscienza di sé non raggiunge la sua soddisfazione
che in un’altra coscienza di sé”.
Un tale movimento si realizza quando il vivente si scontra con un altro
vivente, che risponde al suo attacco attaccando egli stesso. “La coscienza
di sé è essere per sé uguale a se stesso escludendo da sé tutto ciò che è
altro […]. L’altro gli appare come un oggetto inessenziale, marchiato dal
carattere del negativo. Ma l’altro è anche una coscienza di sé. Un individuo sorge faccia a faccia con un altro individuo. Sorgono così immediatamente, essi non sono l’uno per l’altro che dei semplici oggetti, delle figure
116
indipendenti, delle coscienze immerse nell’essere della vita, perché l’oggetto si è qui determinato come vita”4. Un vivente incontra un vivente e ciascuno scopre l’altro come una semplice preda da annientare. Poiché il movimento è reciproco, ciascuno mirando alla morte dell’altro, mette la sua
propria vita in pericolo: egli nega se stesso negando il suo avversario. Così comincia sul fondamento del desiderio biologico – il desiderio di sopprimere l’altro e di assorbirlo – una lotta per la vita e per la morte, dove il vivente si costituisce come indipendente dalla vita giustamente attraverso
l’affermazione della vita stessa. Nell’esasperazione dell’animalità, ciascuno si nega come esistenza animale e scopre l’altro come autonegantesi.
Poiché l’oggetto sopprime la propria oggettività, la coscienza di sé non lo
coglie più come altro, ma come identico a sé, o come un altro se stesso.
La lotta per la vita e la morte, dove si realizza, nella sua forma immediata,
il riconoscimento della coscienza di sé, come passaggio dalla natura allo
spirito, non si motiva dunque attraverso l’intervento di un elemento radicalmente nuovo, il “desiderio del desiderio”, di cui non è fatta questione, del
resto, in Hegel. Essa mostra precisamente la negazione della natura come
suo momento supremo, dato che la vita si oppone alla vita e si trascende
nel suo stesso compiersi.
La vita e la coscienza di sé definiscono le due facce dell’esistenza del
vivente, come obiettività e soggettività. Nella lotta si opera una scissione,
che mette capo a una manifestazione più evoluta, il vincitore riservandosi
il momento della coscienza di sé e il vinto trovandosi ridotto alla vita corporale. Si sarebbe tentati di giungere ancora una volta a una separazione
assoluta, apparendo il sé come pura negazione dell’esistenza biologica.
Ma è proprio dell’essenza della dialettica dimostrare l’identità nella più
grande opposizione e quanto è esposto nella Fenomenologia lo fa con una
chiarezza totale. Contrariamente alle apparenze, il vinto, accettando la servitù, non ha rinunciato alla coscienza di sé: perché non è arretrato davanti alla morte se non perché ha giustamente compreso, nell’angoscia, che
la vita non è una semplice condizione esteriore, ma la realtà stessa di Sé.
“Questa coscienza ha provato l’angoscia, non a ragione di questa o quella cosa, non durante questo o quell’istante, ma a ragione della totalità della sua essenza, perché essa ha sentito la paura della morte, il padrone assoluto. In quest’angoscia essa si è dissolta intimamente, ha avuto dei fremiti nelle profondità di se stessa, e tutto ciò che era stabile ha vacillato in
essa. Ma un tale movimento puro e universale, una tale fluidificazione assoluta di tutta la sussistenza, è l’essenza semplice della coscienza di sé,
l’assoluta negatività, il puro essere per sé, che è così in questa coscienza”5. Così il Sé si è scoperto davanti alla morte nel suo essere effettivo.
Nell’angoscia, tutto il costituito crolla per mettere a nudo l’essere-per-sé,
come esistenza pura e fluidità assoluta. Questa esistenza si rivela come la
117
stessa vita, e, attaccandosi alla vita, il vinto non è legato al corpo come a
una cosa, ma come alla realtà stessa di sé, come negatività assoluta e puro essere-per-sé. Se l’esperienza dello schiavo è profondamente umana e
se la paura della morte costituisce la premessa di una formazione vera, è
perché la morte ha svelato l’essere della coscienza materiale: “la coscienza rifluita in se stessa” si è rivelata come pura dialettica del corpo o negatività vivente. Giacché il lavoro non la forma, per così dire, dal di fuori, ma
nella sua esistenza più intima: “la forma, per il fatto di essere esteriorizzata, non diviene, per la coscienza che lavora, altro da essa; poiché questa
forma è precisamente il suo puro essere per sé che si eleva così attraverso essa alla verità”6. Il Sé non realizza dunque autenticamente se stesso
se non quando si è riconosciuto come corporale, nell’angoscia, e si è effettivamente elevato all’universalità, attraverso il servigio e il lavoro. Il padrone non possiede che una libertà apparente, perché la sua vittoria non
è stata che una negazione immediata e, in ultima analisi, ancora animale
dell’esser-là naturale: continua proprio a vivere nel desiderio e nel godimento. Lo schiavo arriverà a una liberazione effettiva perché si è scoperto
come oggetto e si è formato nella sua realtà obiettiva.
Il capitolo IV della Fenomenologia non sembra presentare la lotta delle coscienze di sé che nel suo senso più generale, come contraddizione
immanente all’essenza stessa della vita. Si vedono degli esempi caratteristici nel mondo della natura: come il combattimento della tigre e del pilone. Ma il pieno significato non si rivela che sotto la forma propriamente
umana, quando essa motiva la costituzione dello spirito. Un risultato di
questo genere non è possibile che sul fondamento di un’attività economica, e i testi di Jéna danno su questo punto tutte le precisazioni desiderabili. La lotta per la vita e la morte si ingaggia per la difesa dei beni accumulati, in un’economia naturale, nella famiglia. Il riconoscimento è riconoscimento del possesso, che si costituisce in proprietà: la famiglia si assorbe nella società.
L’uomo esce dalla vita propriamente animale, quando si mette a produrre le sue stesse condizioni di esistenza7. Questa produzione, sotto la
sua forma immediata, si sviluppa nel quadro della comunità naturale o familiare. La famiglia ed i beni creati attraverso il lavoro dei suoi membri costituiscono una prima totalità che permette di superare l’esistenza immediata. Quando l’animale sopprime realmente l’oggetto nel desiderio e nel
godimento, il rapporto di possesso mantiene la cosa nella sua interezza,
pur negandola nella sua esteriorità. Attraverso il mio lavoro, ho fatto dell’oggetto un bene di cui io dispongo. Il reale è assorbito in me sussistendo
nella sua realtà obiettiva: io lo sento, fuori di me, come un momento di me
stesso. L’esteriorità, così soppressa e mantenuta, definisce resistenza
ideale o resistenza nella coscienza. Attraverso la produzione familiare si
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costituisce la prima forma del mondo come mondo umano, disponibile per
l’uomo, e della coscienza come coscienza umana, dal momento che essa
implica l’oggetto in se stessa a titolo di cosa a cui si tende come oggetto
intenzionale.
Ma il rapporto di possesso si rivela immediatamente come dialettico. La
totalità familiare, il cui contenuto e già umano, resa nella sua forma sul piano della natura: ciascuna famiglia, come totalità organica, esclude necessariamente le altre. Il conflitto è inevitabile. Non ci si può limitare a questo
o quel bene di contestazione, perché il bene in quanto posseduto, dal Sé,
è assimilato al suo stesso essere e ogni danno portato alla parte sarà risentito come tale dal tutto: “È come totalità di questo genere che i due avversari si affrontano, è come tali che vogliono riconoscersi e sapersi riconosciuti. Essi devono da allora attaccarsi l’un l’altro; è in un’azione reale,
che ciascuno deve affermarsi nella singolarità della sua esistenza come totalità esclusiva. L’aggressione è necessara”8. Così le famiglie che entrano
in guerra vogliono farsi riconoscere, non come pure coscienze di sé indipendenti dall’esistenza naturale, ma giustamente come totalità reali. Il Sé
non è altro che l’unità ideale del suo corpo e dei suoi beni, e, se egli si impegna in una lotta totale, ciò non è in vista di un vano “prestigio”, ma semplicemente perché, toccando il suo bene, si attenta a lui stesso nella sua
totalità: le nozioni di “prestigio” e di “onore”, a questo livello, non designano giustamente che questa stessa totalità, come unità immediata dell’essere-là naturale. Ma la situazione va a ribaltarsi nel combattimento, poiché
il Sé si dimostra come il contrario di ciò che egli crede di essere. “Io non
posso conoscermi questa totalità singolare nella coscienza dell’altro, che
affermandomi nella sua coscienza come una totalità che lo esclude e cerca la sua morte. Mentre io tendo alla sua morte, espongo me stesso alla
morte, rischio la mia propria vita. Mi impegno in una contraddizione: voglio
affermare il mio essere e i miei beni come esistenza singolare, e questa affermazione diventa il suo contrario, sapendo che sacrifico tutti questi beni
e la possibilità di ogni bene e di ogni godimento, la vita stessa. Affermandomi come totalità di una esistenza singola, mi sopprimo precisamente come tale. Voglio essere riconosciuto in questa estensione della mia esistenza, nel mio essere e nei miei beni, ma ottengo il contrario, poiché sopprimo questa esistenza […]. Questo riconoscimento delle esistenze singolari
è così assoluta contraddizione in se stessa”9.
Attraverso questa dialettica dove la natura si nega affermandosi, l’economico diventa politico. È la difesa degli interessi materiali che impegna
l’uomo nella lotta dove, per una conseguenza inattesa, si dimostra come indipendente dai suoi stessi interessi. Riconosciuto come pura coscienza di
sé, diviene una persona e la comunità naturale, o familiare, accede all’esistenza spirituale, nella totalità sociale. La coscienza “effettua” in sé questa
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riflessione, che la totalità singolare (naturale o familiare), volendosi mantenere come tale, sopprime assolutamente se stessa, e fa il contrario di ciò a
cui essa tenda. Essa non può esistere che come soppressa; non può mantenersi come ente, ma è soltanto come un essere che è posto come soppresso, e non può essere riconosciuto che così […]. Essa è da allora coscienza assolutamente universale. Questo essere dell’essere soppresso
dalla totalità singolare (= famiglia) è la totalità come assolutamente universale, come spirito (= società) […]. La totalità singolare si percepisce essa
stessa come soppressa, come un essere ideale; essa non è più esistenza
singolare ma soppressione di se stessa, e non è riconosciuta che come
soppressa. Questa totalità come esistenza singolare è affermata in sé come semplicemente possibile, come esistenza che non è per sé e non sussiste se non in quanto sempre vicina alla morte, avendo rinunciato a se
stessa. Essa esiste certo come totalità singolare, come famiglia con i suoi
beni e i suoi godimenti, ma in modo tale che questa relazione è per se stessa una relazione ideale, e si manifesta come sacrificando se stessa”10.
L’esistenza umana è certo negazione dell’essere là e disponibilità costante per una morte volontaria. Ma non si tratta in alcun modo di una proprietà misteriosa che introdurrebbe una differenza metafisica fra l’uomo e la
natura. La libertà umana è un costituito: la negazione dell’essere là naturale definisce tessere dell’esistenza sociale, come risultato del movimento
stesso della vita. La famiglia, che si presenta come l’ultima totalità biologica, realizza ugualmente la prima forma dell’esistenza umana, dato che produce i propri mezzi di sussistenza”. Una tale situazione si rivela come contraddittoria, perché se il lavoro fa sorgere un mondo nuovo, come negazione della natura, il Sé resta sempre sul piano dell’essere naturale: pretendo
di conservare in mio possesso il risultato del mio lavoro, ma questo risultato, dato che implica un senso umano, si trova immediatamente agognato da
tutti. Un conflitto si inizia, dove l’io, affermando il suo essere singolare, si nega in questa singolarità stessa e si pone come universale. Essendo il prodotto universale, l’appropriazione non può essere essa stessa che universale. Nel movimento del riconoscimento, i rapporti singoli non sono mantenuti se non soppressi. L’essere come essere soppresso si afferma come essere sociale, in cui l’uomo si realizza nella sua verità assumendo il senso
del mondo che egli ha prodotto. L’individuo si eleva all’universalità, poiché
la sua esistenza si mantiene nel senso nel quale egli è riconosciuto, e finché si tiene sempre pronto a sacrificare la sua vita per difendere questo
senso. Non ci sarà rapporto vero di possesso che nella misura in cui sarà
stato annullato come semplice rapporto di fatto, e posto come rapporto
ideale e di diritto, nella proprietà. Il soggetto, nella sua esistenza sociale,
non è più un’unità biologica, ma una persona, definita nella sua astrazione,
come pura coscienza di sé negatrice di ogni dato naturale.
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Le figure dello spirito sono le forme storiche dove si costituiscono i rapporti propriamente umani, come la verità nella quale si assorbono i rapporti naturali, in quanto riconosciuti nel loro senso di universalità. Un tale riconoscimento si definisce come passaggio dall’economia all’ideologia, poiché l’attività umana sul piano naturale si definisce come attività economica. L’uomo non vive, come l’animale, in simbiosi con la natura, ma si crea
un mondo a parte dove consuma ciò che lui stesso ha prodotto. L’oggetto
economico, come negazione del dato immediato, implica un senso di universalità, come disponibilità universale. Risultato dell’attività soggettiva,
egli trasforma a sua volta il soggetto costituendolo come soggetto universale. La vita economica è il lavoro del negativo che eleva il Sé all’universalità sul piano del reale o dell’in sé. Il riconoscimento dell’essenza sociale umana, come Sé universale, definisce il rovesciamento dialettico che fa
passare alla spiritualità, come verità della vita naturale ovvero essere per
sé dell’in sé.
Il discorso hegeliano espone sul piano del concetto un movimento reale, la cui descrizione corretta non è possibile che nell’orizzonte del materialismo storico e dialettico. Le nozioni misteriose di negatività e di superamento scoprono il loro senso effettivo nel riferimento allo sviluppo delle forze produttive, essendo l’astrazione del concetto, infranta dal movimento
del suo contenuto reale. Una dialettica di questo genere suppone che la vita economica non è una semplice condizione esteriore dell’esistenza propriamente umana, ma la sostanza stessa del suo essere. La spiegazione
materialistica non è una “riduzione” dello spirito alla natura, ma la spiegazione del movimento costitutivo dello spirito, come divenire-spirito della natura, o divenire-soggetto della sostanza. Nella lotta per la vita e la morte,
l’uomo si nega come natura precisamente affermando la propria potenza
naturale. In un tale movimento, l’esistenza si realizza nella sua verità: lo
svolgimento della produzione materiale non è semplicemente il motore nascosto della dialettica della coscienza, ma il fondamento del suo senso di
verità. Sarebbe meglio dimostrare tutto ciò esaminando il movimento stesso della Fenomenologia.
Senza entrare nel dettaglio delle figure particolari, si può schizzare in
maniera relativamente semplice l’andamento generale dello svolgimento.
La vita umana si presenta dapprima come relazione dell’uomo con la natura, in altri termini come relazione dell’io con l’oggetto, o coscienza dell’oggetto. Dal momento che il concetto dell’economia definisce i rapporti dell’uomo con la natura, la dialettica della coscienza (cap. III) costituisce
l’esposizione idealizzata della storia economica dell’umanità. Attraverso l’attività economica si elabora un mondo nuovo, in cui il significato propriamente umano s’impone in una presa di coscienza rivoluzionaria, come negazio121
ne della vita immediata e affermazione di un modo più elevato dell’esistenza. La storia dell’umanità rivoluzionaria si presenta come il divenire della coscienza di sé, dove il Sé respinge il mondo dato per porre se stesso come
la realtà vera. I nuovi significati appaiono nelle età primitive nella stessa esistenza singola, dove la lotta per la vita e la morte e la relazione dominioschiavitù mediano le forme immediate della vita sociale. Nell’antichità, le rivoluzioni urbane fanno trionfare l’universalità astratta che definisce la civilizzazione nella sua lotta contro la barbarie: il movimento si compie con lo
Stoicismo, lo Scetticismo e il Cristianesimo rivoluzionario (cap. IV). Nel periodo moderno, l’individuo si afferma portando l’universale nella sua stessa
individualità: la coscienza di sé, certa di essere essa stessa tutta verità, si
presenta come Ragione (cap. V). La negazione rivoluzionaria del mondo
dato tende alla presa del potere e all’organizzazione del mondo nuovo, specificatamente umano, definito come mondo dello spirito. L’oggetto è lì oggetto universale, elaborato dal lavoro di tutti e riconosciuto dal soggetto, egli
stesso universale, come la sua stessa realtà oggettiva. La dialettica dello
spirito, esposta nel capitolo VI, descrive il divenire dell’essenza sociale
umana come universalità effettiva. Ma una tale essenza non si realizza pienamente che attraverso la coscienza, presso l’individuo, della verità del suo
essere come essere universale. Nella coscienza di sé dello spirito, il Sé
prende coscienza del senso della sua esistenza come senso d’eternità.
Questo definisce il progetto umano, che si trova dapprima rappresentato
dall’esteriorità, attraverso la religione (cap. VII). Ma lo svolgimento storico
mette capo a un mondo che realizza pienamente l’universalità in ciascuno
dei suoi momenti: il Sé si riconosce nella singolarità stessa della sua esistenza effettiva come Sé universale, nel Sapere assoluto (cap. VIII).
Il movimento della coscienza comprende tre momenti: certezza sensibile, percezione, intelletto. La certezza sensibile caratterizza la vita naturale. Essa trova il suo significato nei “misteri di Cerere e di Bacco, il segreto
dell’assorbimento del pane e del vino […]. Gli stessi animali non sono
esclusi da questa saggezza, ma si mostrano piuttosto profondamente iniziati ad essa: perché essi non restano davanti alle cose sensibili come se
queste fossero in sé, ma disperano di questa realtà e nell’assoluta certezza del suo niente, la prendono senz’altro e la consumano; e la natura tutta intera celebra come loro questi misteri rivelati a tutti, che insegnano qual
è la verità delle cose sensibili”12.
La certezza sensibile è dunque il rapporto del vivente con il suo ambiente naturale; in linguaggio hegeliano, il rapporto immediato dell’io singolo con l’oggetto singolo.
Sotto la sua forma originale, essa implica il primato del dato esteriore,
in quanto l’attività soggettiva non si presenta ancora a livello animale che
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sotto una forma evanescente, come bisogno, ricerca e godimento: “l’oggetto è; è il vero e l’essenza; esso è, indifferente al fatto d’essere conosciuto
o non conosciuto; esso resta anche se non è conosciuto; ma non c’è sapere, se non c’è l’oggetto”13. Ora, fa notare Hegel, una tale verità contraddice necessariamente se stessa. Perché, se proviamo a dire che è l’oggetto singolo, ci accorgiamo immediatamente che la nostra definizione è falsa, perché l’oggetto sarà cambiato nel frattempo. Per quanto forte sembri
l’argomento, non si vede come possa toccare uno spirito positivo. Perché
se è evidentemente impossibile definire il questo come tale, niente ci obbliga a impegnarci in un’operazione del genere: la coscienza naturale non
procede per definizioni, ma giustamente per sensazioni, e non si è mostrato ciò che, in essa, la forza ad uscire da se stessa. In effetti la potenza del
negativo non può trovarsi che attraverso l’esame del contenuto reale.
Allo stadio animale, la vita soggettiva è puro flusso spontaneo e non
può organizzarsi che intorno al dato esteriore, preso come un assoluto. Ma
il vivente, cercando di soddisfare i suoi desideri, spiega un’attività che si
sviluppa naturalmente attraverso l’impiego dell’utensile. Ora l’utensile è la
materializzazione stessa dell’azione dell’io; “è ciò in cui il lavoro trova la
sua permanenza, ciò che resta del soggetto lavorante e dell’oggetto lavorato, ciò in cui essi passano dalla contingenza alla necessità”14. Il suo uso
regolare crea un orizzonte nuovo. Il mondo non si impone più come un dato assoluto, ma si organizza intorno all’io, rappresentato sotto una forma
reale e consistente attraverso l’utensile. L’oggetto non è più il questo appreso nell’appropriazione immediata, ma ogni esistente in generale, poiché può essere raggiunto dall’azione dell’utensile. Il suo senso di essere si
è universalizzato come appartenenza a un mondo fin d’ora dominato dal
soggetto, che appare immediatamente come la realtà vera. “Ciò che rimane per la certezza sensibile, è non più ciò che noi cerchiamo come essere, ma l’essere con la sua determinazione d’essere l’astrazione o il puro
universale […]. L’oggetto, che deve essere l’essenziale, è ora l’inessenziale della certezza sensibile […]. Questa è ora passata nell’opposto, cioè nel
sapere che era prima l’inessenziale. La sua verità è nell’oggetto in quanto
oggetto mio, o nel mio desiderio; perché io ho conoscenza di lui”15.
Preso come assoluto nella sua singolarità, l’io si colloca in una nuova
dialettica, dove sarà condotto a negarsi in quanto tale. La costituzione dell’utensile ha permesso di superare lo stadio propriamente animale. L’attività soggettiva non si definisce più semplicemente attraverso le forme biologiche: essa presuppone ormai un apprendistato, attraverso la tradizione.
Da parte sua, l’oggetto, mediato dal lavoro, non può più essere fatto proprio in maniera immediata. In seno all’orda sorgono problemi nuovi, legati
alle funzioni dell’educazione, della ripartizione, della difesa, della trasmissione. L’organizzazione si elabora spontaneamente sul fondamento natu123
rale delle relazioni familiari. La famiglia si costituisce in unità sociale. Essa
non è più la comunità naturale immediata, ma una comunità spirituale definita con delle regole. La lotta per la vita e la morte, che essa ingaggia per
la difesa dei suoi beni, la pone nel suo essere ideale. L’individuo si trova
soppresso come io singolo, e non vive più che seguendo la legge universale del clan. Nell’utensile la certezza sensibile ha colto l’universalità dell’oggetto; nel clan, essa fa l’esperienza del Sé come Sé universale. “Quando io dico io, quest’io singolo, dico in modo generale tutti gli io; ciascuno di
essi è giusto ciò che io dico: io, proprio questo io singolare”16.
L’apparizione del clan, nel corso del paleolitico, fa sorgere l’umanità
propriamente detta, sotto la forma della selvatichezza. Il regime comunitario offre un quadro favorevole allo sviluppo delle forze produttive: attraverso il lavoro umano, il mondo si costituisce in mondo familiare. In questo orizzonte, il reale presenta immediatamente un senso per l’io. Dato
che questo senso non è portato come un predicato esteriore, ma integrato all’essere come il suo senso stesso, l’oggetto sarà la pianta commestibile o l’animale addomesticato. Attraverso l’agricoltura e l’allevamento,
la comunità familiare si costituisce in totalità naturale, autosufficiente. Il
soggetto e l’oggetto si confondono in un’unità immediata: la famiglia contadina vive in comunione con le sue bestie e i suoi campi. “La certezza
sensibile fa l’esperienza che la sua essenza non è né nell’oggetto né nell’io, e che l’immediatezza non è né l’immediatezza dell’uno né l’immediatezza dell’altro […]. Noi arriviamo con ciò a porre il tutto della stessa certezza sensibile come sua essenza, e non più soltanto uno dei suoi momenti, come succedeva nei due casi precedenti, dove prima l’oggetto opposto all’io, poi l’io stesso deve essere la sua realtà. È dunque soltanto
la certezza sensibile tutta intera che si conserva in se stessa come immediatezza […]. La sua verità rimane come rapporto che resta uguale a
se stesso, che fra l’io e l’oggetto non fa alcuna differenza d’essenzialità
e di inessenzialità, e nel quale per conseguenza non può più introdursi
alcuna differenza”17.
La costituzione dell’agricoltura e dell’allevamento, all’inizio del neolitico,
fa passare l’umanità dallo stadio selvaggio a quello delle barbarie. L’apparizione della ricchezza scatena le cupidigie, che fanno nascere la guerra
allo stato permanente: i villaggi del neolitico si coprono di fortificazioni. Con
l’abitudine della competizione, il Sé si costituisce come pura negatività
astratta e si afferma come tale nelle lotte di puro prestigio18, del tipo del potlach [festa dei doni]. L’uguaglianza primitiva sparisce nei conflitti perpetui,
che permettono ad alcuni individui di accaparrare la ricchezza e la potenza. Al clan comunitario si sostituisce il clan feudale, con la sua gerarchia di
capi, di uomini liberi e di schiavi. L’individualizzazione della proprietà favorisce lo sviluppo della produzione e degli scambi. Il movimento dello scam124
bio, ritornando su se stesso come totalità, si realizza nella moneta19. In
questo momento il mondo cambia senso. L’oggetto non è più prodotto per
il suo uso immediato, ma per la vendita sul mercato. Non è più il questo
della fruizione singola, ma la merce offerta a tutti e definita attraverso caratteristiche valide per tutti. La produzione si regola su norme astratte, rispondendo ai bisogni posti nella loro universalità ideale. Il rapporto del
soggetto all’oggetto, mediato dal denaro, si eleva all’universale percepito
nella sua verità: la certezza sensibile è passata alla percezione.
La dialettica idealistica, restando a livello delle forme della coscienza, si
trova incapace di fondarle in maniera effettiva. Il motore del movimento della certezza sensibile si presenta presso Hegel come l’atto di designare, o di
definire. Non si può in effetti designare il qui e l’adesso che uscendo dal qui
e dall’adesso. Ma precisamente la coscienza sensibile non ha preoccupazioni di tal genere: essa si contenta di sentire e resta nell’immediato.
In effetti, il sensibile trapassa nell’attività sensibile reale. In ciascuno
stadio del mondo primitivo, il lavoro umano strappa resistente al suo essere immediato per integrarlo in un mondo nuovo, come mondo della verità.
Dato che l’oggetto prodotto presenta un senso per l’io,sarà immediatamente oggetto di una riflessione della coscienza, che cercherà di designarlo e
di dargli un nome. Nell’esperienza della soggettività sorge un orizzonte
nuovo, dove l’essere si definisce attraverso l’universalità, poiché solo l’universalità può nominarsi. Ma un tale movimento suppone che il reale si sia
presentato, fin d’ora, con un senso che lo rende nominabile. La negatività
spirituale, come riflessione della coscienza, non si esercita che sul fondamento di una negatività reale, come lavoro umano materiale. Essa non è
precisamente che la riflessione del sé sul suo essere reale, e l’universale
percepito dalla coscienza esprime l’universale già costituito in sé, nel mondo materiale: esso è l’essere-per-la-coscienza di questo in-sé.
Ma la Fenomenologia non esplicita che la parte cosciente del movimento, la sola che si sia mantenuta nel ricordo della soggettività. Il mondo naturale – l’essere-là – è già stato, nel passato, l’oggetto d’un lavoro reale
che gli ha dato un senso in sé. Erede della storia universale, il filosofo non
si deve più occupare dei problemi materiali, già risolti: egli si contenterà di
ripensare il divenire sul piano della coscienza. “Poiché la sostanza dell’individuo, poiché lo spirito del mondo stesso ha avuto la pazienza di percorrere queste forme in tutta l’estensione del tempo, e di intraprendere il travaglio prodigioso della storia universale […], così, secondo la cosa stessa,
l’individuo non può concepire la sua sostanza attraverso una via più corta;
e pertanto, la pena è nello stesso tempo minore, poiché in sé tutto questo
è già compiuto, il contenuto e proprietà (Eigentum) della sostanza; non è
più l’essere-là che bisogna convenire nella forma dell’essere-in-sé, è solamente l’essere-in-sé non più originario né nascosto nell’essere-là ma pre125
sente nell’interiorità del ricordo, che bisogna convertire nella forma dell’essere-per-sé” 20.
In una parola, come fa notare Marx, “Hegel ha concepito il lavoro solo
come lavoro spirituale astratto”. Considerando che la trasformazione effettiva del mondo reale – la “conversione dell’essere-là nella forma dell’essere-in-sé” – è già stato ottenuta attraverso il movimento della storia universale, il filosofo cerca semplicemente, in quanto individuo, di comprendere come la coscienza costituisce per essa i due sensi già realizzati in sé nell’oggetto. Il divenire-per-la coscienza in-sé avrà come motore la differenza, interiore alla coscienza stessa, fra il senso esplicitamente cercato dell’oggetto e il suo senso implicitamente vissuto, in sé. Nel movimento dell’esperienza, il senso vissuto si impone come l’essere dell’oggetto. In questa obiettivazione, come passaggio dalla certezza alla verità, un oggetto nuovo si rivela alla coscienza: il mondo sembra così crearsi attraverso la riflessione
del Sé su se stesso. Ma una tale magia è stata possibile solo perché un lungo lavoro materiale aveva dato anzitutto all’essere-là il senso dell’in-sé.
“Giustamente, poiché la coscienza ha, in maniera generale, il sapere d’un
oggetto, la differenza è già presente in essa: per essa c’è da una parte l’insé, e, da un’altra parte, il sapere o l’essere dell’oggetto per la coscienza. In
questa distinzione, che è presente, si fonda l’esame. Se, in questo confronto, i due momenti non si corrispondono, la coscienza sembra dover cambiare il suo sapere per renderlo adeguato all’oggetto; ma nel cambiamento del
sapere, si cambia anche, in effetti, l’oggetto stesso […]. Questo movimento
dialettico, che la coscienza esercita in se stessa, nel suo sapere come pure nel suo oggetto, dato che davanti ad essa il nuovo oggetto vero ne scaturisce, è propriamente ciò che chiamiamo esperienza”21.
L’apparizione dell’economia monetaria fa passare l’umanità dalla barbarie alla civilizzazione. Il mondo della merce è un mondo universale, sul
movimento del quale si costituiscono le strutture della razionalità. “Tutto ciò
che, per la percezione, è l’esistente, è preso da essa come Universale. Essendo l’universalità il suo principio in generale, sono universali anche i momenti che si distinguono in essa: l’io come io universale e l’oggetto come
oggetto universale”22. Ma non si tratta dapprima che dell’universalità immediata o sensibile, che implica una contraddizione tra l’individualità e l’intellegibilità. La produzione antica è una produzione artigianale, che risente
necessariamente del mondo naturale sul quale essa si costituisce. Essa,
non consiste ancora che nell’introdurre nella materia lavorata un certo numero di proprietà astratte, indipendenti fra loro: l’oggetto è “il mezzo nel
quale esse sono tutte […]. In questo mezzo come in un’unità semplice, esse si compenetrano senza toccarsi […]. Poiché ciascuna è un semplice
rapporto a sé, essa lascia le altre in pace, e si rapporta a esse solamente
per l’Anche indifferente. Questo Anche è dunque il puro universale o il
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mezzo, è la cosalità che le riunisce così”23. Un’universalità di questo genere resta astratta e non può rendere conto dell’individualità dell’oggetto che
ne costituisce pertanto un momento necessario. Perché se, per l’artigiano
o per il mercante, non si tratta che di riunire un certo numero di qualità definite, l’interesse del consumatore si porta sull’esistente nella sua singolarità, come oggetto di fruizione o unità esclusiva: “l’Uno è il momento della
negazione, in quanto si rapporta a se stesso in maniera semplice ed esclude ogni altra cosa”24. L’opposizione dei due momenti caratterizza il pensiero antico: “Non c’è scienza che dell’universale, non c’è esistenza che del
singolare”. La soluzione non si potrà trovare che nella dialettica stessa della percezione, come movimento storico reale.
Lo sviluppo della produzione artigianale nell’antichità poggiava sullo
sfruttamento del mercato barbaro, che assicurava i grossi profitti necessari per incitare agli investimenti e forniva la mano d’opera servile. Ma la pratica stessa del commercio coloniale comporta la creazione di nuovi centri
di produzione, che entrano in concorrenza con i vecchi, nello stesso tempo in cui il regresso della barbarie riduce sempre di più le possibilità di profitto e di rifornimento di schiavi. Lo sviluppo della città fa sorgere le condizioni della sua stessa decadenza. Le sue istituzioni affondano nelle crisi
imperialistiche e nelle guerre che esse generano. L’economia urbana finisce di dissolversi sotto l’impero romano con l’emigrazione dei mestieri verso le campagne, dove questi si integrano al sistema demaniale. In questo
ritorno allo stadio agricolo, le acquisizioni della vita civilizzata perdono il loro valore di universalità – come valore di scambio – per integrarsi a titolo
di semplici oggetti d’uso nella totalità naturale costituita attraverso la grande proprietà: la percezione ritorna alla certezza sensibile. “Il semplice e il
vero che io percepisco non sono più un mezzo universale, ma la proprietà
singola per sé […]. Come questo puro rapporto a se stessa, essa resta solamente essere sensibile in generale, perché essa non ha più in sé il carattere della negatività. E la coscienza per la quale c’è ora un essere sensibile, è solamente un pensiero [visée] del questo, cioè essa è completamente uscita dalla percezione ed è ritornata in se stessa”25.
La dissoluzione delle forme antiche fa sorgere le condizioni della nascita di una civilizzazione più elevata. “L’essere sensibile e il pensiero del
questo passano essi stessi nella percezione […] ma non nello stesso modo della prima volta. Essa ha fatto precisamente l’esperienza che il risultato e il vero di questo atto di percepire, sono la sua risoluzione e la sua riflessione che ritorna dal vero in se stessa”26. Il ritorno della civilizzazione
alla vita agricola immediata – “la riflessione che ritorna dal vero in se stessa” – implicava malgrado il rallentamento degli scambi il mantenimento dei
risultati del movimento anteriore: le tecniche artigianali, l’uso della moneta,
la soppressione della schiavitù. Le città antiche si sviluppavano sotto il
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mondo naturale della barbarie. La ricostituzione, nel Medioevo, della vita
urbana e delle forme della razionalità parte dai fondamenti di una economia monetaria, posti come elementi universalmente acquisiti. L’oggetto si
presenta, fin d’ora, implicitamente, come oggetto di scambio, e implica, virtualmente, il senso dell’universalità. Questo si trova rappresentato nella
sua astrazione attraverso il dominio universale della Chiesa. In un tale orizzonte, il lavoro non può svilupparsi che sotto la forma del lavoro salariato.
Il salariato realizza il soggetto nell’oggetto e lo eleva ad un’universalità effettiva.
La libertà del cittadino antico si fondava sullo sfruttamento dello schiavo; la sua esperienza vissuta si limitava da un lato alla singolarità dell’istante, il momento dell’Uno esclusivo preso nel godimento, dall’altra all’universalità astratta necessaria per eseguire i compiti di direzione. Le forme sono
percepite a parte, separate dal lavoro reale che le costituisce nel loro divenire effettivo. Un ordine del padrone è sufficiente per imporle alla materia.
Rappresentate nella loro idealità, esse si trovano isolate le une dalle altre,
e la produzione che si regola su esse supera difficilmente lo stadio del laboratorio. L’oggetto così fabbricato definisce il vero in quanto percepito; l’intellegibilità resta impotente a rendere conto dell’individualità.
Nel Medioevo, l’uomo libero delle città e l’uomo che lavora. Definita in
termini di danaro, l’attività soggettiva si integra nell’universalità costitutiva
dell’oggetto. L’esperienza del Sé come Sé universale si identifica con il
processo reale in cui si elaborano le forme ideali. Il momento stesso del
godimento si presenta nell’oggetto, come consumazione determinata attraverso il salario, e non è che il momento del movimento universale della
merce. Questo si costituisce in totalità razionale, come ciclo del capitale, e
racchiude tutte le fasi della vita economica. Il danaro si trasforma in merci
che producono esse stesse altre merci, e si ritorna al punto di partenza. La
merce non è che lavoro umano, in azione o realizzato nel suo risultato. Il
movimento del capitale si obiettiva nella manifattura, dove i momenti particolari si assorbono nella intellegibilità di un processo universale. L’esistente, nella sua singolarità, non esiste che nel suo rapporto con gli altri, e grazie al danaro che serve da denominatore universale, questo rapporto si
trova determinato da un calcolo rigoroso. I momenti contraddittori della cosa, l’Uno esclusivo e la pura universalità, scompaiono nella relazione, posta come costitutiva dell’oggettività dell’oggetto. La razionalità matematica
si sostituisce all’intellegibilità ancora immediata e condizionata dalle forme
e qualità sensibili: la percezione passa all’intelletto. “Da un solo e medesimo punto di vista, l’oggetto è piuttosto il contrario di se stesso: per sé in
quanto è per un altro e per un altro in quanto è per sé. Esso è per sé, riflesso in sé, è un Uno; ma quest’Uno per sé e riflesso in sé è in un’unità
con il suo contrario, l’essere-per-un-altro […]. È allora che è presente l’uni128
versalità assoluta e incondizionata, ed è in questo momento che la coscienza entra veramente nel regno dell’intelletto”27.
Il passaggio dal laboratorio alla manifattura fa sorgere il mondo capitalistico moderno. Nel processo della produzione capitalistica, l’oggetto si costituisce attraverso l’oggettivazione dell’attività umana in un movimento
strettamente razionale. Il reale non è che la realizzazione della soggettività, il Sé riflesso in se stesso, il concetto come negatività costituente. Ma il
soggetto non è preso che come una realtà esteriore, in cui non si riconosce lui stesso. Il mondo capitalistico è il mondo dell’essenza umana alienata: le relazioni in esso sono puramente umane, ma sotto la forma inumana del denaro. “Questo universale incondizionato che è ormai l’oggetto vero della coscienza, è ancora tuttavia oggetto di questa stessa coscienza;
essa non ha ancora compreso il suo concetto come concetto. Le due cose sono essenzialmente da distinguere; la coscienza sa che l’oggetto è ritornato in se stesso a partire dalla relazione con un altro, ed è anche divenuto in sé concetto; ma la coscienza non è ancora per se stessa il concetto, perché essa non si riconosce in questo oggetto riflesso”28.
Il processo del capitale appariva dapprima sotto la sua forma esteriore
come movimento reale del denaro e della merce. L’una si presenta nella
sua varietà multiforme, l’altro nell’unità del puro essere-per-sé. Il valore
consiste in uno scambio perpetuo, come la forza universale che si distribuisce passando continuamente dall’Uno al Molteplice e dal Molteplice all’Uno. Il Denaro si esteriorizza nella diversità delle Merci e della loro metamorfosi nella Produzione, poi ritornando allo stesso per riprendere il medesimo circuito29.
“Le differenze poste nella loro indipendenza passano immediatamente
nella loro unità, e la loro unità immediatamente nel loro spiegamento, e
questo spiegamento a sua volta nella riduzione all’unità. È questo movimento precisamente che chiamiamo forza: uno dei momenti di questa, cioè
la forza come espansione delle materie indipendenti nel loro essere, è la
sua esteriorizzazione; l’altro, la forza come essere-scomparso di queste
materie, è la forza che, dalla sua esteriorizzazione, e respinta, in se stessa, o è la forza propriamente detta”30.
Il movimento si presenta dapprima sotto il suo aspetto reale, come investimento di denaro in un’impresa e il suo recupero attraverso la vendita
dei prodotti fabbricati, mentre ciascuna di queste operazioni si accoppia in
un rapporto di scambio fra un sollecitante e un sollecitato. Ma lo sviluppo
delle operazioni permette al circuito di costituirsi in totalità: i ruoli divengono reciproci, potendo il sollecitato essere considerato come sollecitante e
viceversa. “La differenza che trovava posto fra questi due momenti, secondo cui l’uno dovrebbe essere il sollecitante, l’altro il sollecitato, si trasforma
in uno scambio reciproco di determinabilità”31. Da allora la realtà appare
129
come puro passaggio, non avendo senso il denaro che nel suo diveniremerce e la merce nel suo divenire-denaro. Le differenze che appaiono nel
fenomeno esteriore sono assorbite nell’unità puramente intellegibile del
capitale, come puro divenire reciproco del denaro e della merce. Il movimento reale vi si sopprime per elevarsi alla sua verità, come concetto. “Le
due forze esistono come delle essenze che sono per sé; ma la loro esistenza è un movimento dell’una relativamente all’altra, tale che il loro essere è piuttosto un puro essere-posto-da-un-altro, cioè che il loro essere
ha piuttosto il puro significato di sparire […]. La forza come effettivamente
reale è unicamente nell’esteriorizzazione, che non è nello stesso tempo
niente altro che una soppressione di se stesso […]. Senza alcun riposo i
momenti della sua realtà effettiva, le sue sostanze e il suo movimento crollano nell’unità senza differenza [… ] questa unità è il concetto della forza
come concetto. La realizzazione della forza è anche nello stesso tempo
perdita della realtà”32.
Lo sviluppo del capitalismo moderno eleva la coscienza alla concezione di un universo intellegibile, dove il puro rapporto matematico definisce
l’essere dell’esistente. L’intuizione del mondo che ispira la fisica meccanica si costituisce su una pratica razionale: il calcolo degli elementi dell’impresa capitalistica come momenti del divenire dell’oggetto. Conviene evidentemente non intenderlo in un senso psicologistico. I rapporti di produzione non definiscono semplici forme sociali nel senso in cui esse sarebbero esteriori alla realtà stessa. Il lavoro umano non si applica dall’esterno
alla natura: dato che l’uomo appartiene alla totalità naturale, la sua attività
non è che il momento attraverso cui la natura agisce su se stessa. La forma della produzione definisce dunque la forma stessa del reale in quanto
questo produce se stesso. In un movimento di questo genere, è la costituzione stessa delle cose che si rivela alla coscienza. Il Sé è l’essere che riflette su se stesso; la riflessione è interiore alla sostanza: ma definisce il
momento della soggettività. Se l’attività umana fosse un movimento esterno alla natura non si comprenderebbe come le forme della coscienza che
si elaborano possano prendere un valore di verità. L’oggetto costituito non
corrisponderebbe necessariamente alla realtà delle cose e la sua universalità sarebbe relativa all’organizzazione sociale in cui si è sviluppata. Ma
il divenire umano non è precisamente che un momento del divenire totale.
La vita umana non è che il movimento stesso del reale, nel suo divenireverità. Perciò i valori che essa implica si trovano pienamente fondati come
valori autentici. L’essere dell’oggetto per la coscienza ben definisce l’essere dell’esistente, poiché il divenire dell’oggetto per la coscienza non è che
il movimento attraverso il quale il reale si costituisce per se stesso. Sarebbe dunque perfettamente assurdo volere separare il materialismo storico,
come “teoria psicologica della conoscenza”, dal materialismo dialettico, co130
me “teoria filosofica dell’universo”. Il materialismo storico non ha precisamente niente a che vedere con lo psicologismo.
Il riferimento all’economia non è una semplice spiegazione empirica
del corso della rappresentazione: essa lo sarebbe giustamente solo separandola artificialmente dalla filosofia materialistica come concezione generale del mondo. Dato che essa si integra nella dialettica universale della natura, la dialettica delle forme sociali assicura al movimento della coscienza il suo fondamento trascendentale come fondamento di verità. “Se
il negativo appare immediatamente come ineguaglianza dell’io con l’oggetto, è anche ineguaglianza della sostanza con se stessa. Ciò che sembra prodursi al di fuori della sostanza come un’attività diretta contro essa,
è in realtà una sua stessa operazione: ed essa mostra di essere essenzialmente soggetto”33.
Il capitale è il puro intellegibile, “l’interno delle cose”, che si rivela all’intelletto dietro al movimento esteriore del denaro e della merce. Questo, come “gioco di forze” è il fenomeno che si scopre come semplice fenomeno
la realtà sensibile che nega Se stessa e che si assorbe nell’universale.
L’esistenza umana implica ormai la soppressione delle forme naturali, come semplici apparenze, e il loro assorbimento nel mondo della relazione,
come mondo della verità. Il Sé non ha ora da fare che con se stesso, sebbene sotto la forma di un oggetto ancora esterno; l’essenza sociale umana realizzata nella sua alienazione. Il capitale è il vero per la coscienza,
perché in questo come nell’in sé esso ha nello stesso tempo la certezza di
sé o del suo essere-per-sé; ma essa non è ancora cosciente di questo fondamento, perché l’essere-per-sé, che l’interno dovrebbe avere in se stesso, non sarebbe niente altro che il movimento negativo; ma questo è ancora per la coscienza il fenomeno che scompare posto come oggetto, egli
non è ancora il suo proprio essere-per-sé”34.
Il capitale, posto come la realtà in sé, si presenta dapprima come la legge immutabile delle apparenze in movimento: “il fenomeno assolutamente
diviene la differenza semplice […]. Questa differenza è espressa nella legge come immagine costante del fenomeno sempre instabile. Il mondo soprasensibile è anche un calmo regno delle leggi”35. Ma il movimento riappare nell’azione del contenuto reale. Il capitalismo ha assorbito la diversità della vita umana in un sistema di relazioni intellegibili, dove la realtà non
sussiste che come legge degli scambi. Ma il compimento stesso dell’universalità, come puro valore di scambio, implica la sua particolarizzazione
nella distribuzione del capitale nei suoi differenti momenti. La sua esistenza come puro rapporto universale non è che l’atto stesso di questa distribuzione. “Nella cosa stessa, con questo movimento, non nasce niente di
nuovo”36, poiché la differenza posta si sopprime immediatamente come differenza e ritorna all’identità: è un solo e medesimo valore che si pone iden131
ticamente nell’unità del capitale e la diversità dei suoi momenti, come puro passaggio reciproco dall’uguaglianza all’ineguaglianza e dalla ineguaglianza all’uguaglianza. Ma è questo precisamente il puro cambiamento
stesso: il movimento, negato nella sua forma naturale, riappare nell’intellegibile, come puro movimento universale. “Noi abbiamo là una seconda legge, il cui contenuto è opposto a ciò che al principio era chiamata legge,
cioè la differenza che resta costantemente uguale a se stessa; perché questa nuova legge esprime piuttosto il divenire-ineguale dell’uguale e il divenire-uguale dell’ineguale […]. Grazie a questo principio, il primo soprasensibile, il calmo regno delle leggi, la copia immediata del mondo della percezione, è convertito nel suo contrario […]. Questo secondo mondo soprasensibile è anche il mondo rovesciato”37.
L’essenza sociale non è più ormai semplice negazione della vita naturale, come soppressione degli oggetti sensibili nell’universalità astratta del
valore di scambio: essa rivela il suo contenuto positivo come vita e movimento. In questo universale concreto, il primo universale appare come un
semplice fenomeno che si assorbe nella sua verità. “Attraverso ciò l’interno è compiuto come fenomeno poiché il primo mondo soprasensibile era
solamente l’elevazione immediata del mondo della percezione nell’elemento dell’universale. Aveva il suo originale necessario in questo mondo
della percezione, che riteneva ancora per se stesso il principio del cambiamento e dell’alterazione; il primo regno delle leggi non possedeva questo
principio, lo ottiene ora come mondo rovesciato”38.
L’oggetto produce attraverso il lavoro umano presente un senso di universalità come senso umano, che implica da parte del soggetto un’appropriazione anch’essa universale. Un bene, in quanto bene, è necessariamente l’oggetto della cupidigia di tutti, e il possesso non è effettivo se non
trovandosi riconosciuto da tutti. Nell’esistenza ancora naturale delle età
primitive, il riconoscimento non si ottiene che attraverso una lotta per la vita e la morte. Con la costituzione dell’economia monetaria e delle strutture dell’universalità, appare un mondo nuovo, un mondo civilizzato, dove la
vendetta privata cede il posto al castigo applicato dall’autorità sociale. In
effetti, la società si realizza come l’essere dell’individuo: nel castigo, c’è il
criminale che sopprime se stesso, nel suo essere naturale, per ristabilirsi
nella sua essenza universale. Ma l’operazione non si presenta ancora che
in maniera esteriore e formale, come sanzione giuridica. Essa realizza la
sua verità solo nel mondo morale, dove la penitenza produce una riabilitazione effettiva.
L’economia monetaria ha assorbito le relazioni naturali immediate in
un’universalità astratta come legalità formale. Ma si rivela che la negazione
della vita spontanea è costituzione di una vita più alta. L’universalità non è
semplice intellegibilità immobile: essa definisce una natura nuova, come
132
modo nuovo dell’esistenza. “Secondo la legge immediata, la vendetta sul
nemico è la più alta soddisfazione dell’individualità che ha subito una violenza. Ma questa legge, secondo la quale devo mostrarmi come un’essenza indipendente di fronte a colui che non mi tratta come tale, e devo dunque sopprimerlo come essenza, si converte attraverso il principio dell’altro
mondo nella legge opposta; la reintegrazione di me stesso come essenza
attraverso la soppressione dell’essenza estranea si converte nella distruzione dell’altro attraverso se stesso. Se ora di questa inversione, che si presenta nel castigo del crimine, si fa una legge, essa non è ancora che la legge di un mondo che ha come antitesi un mondo soprasensibile rovesciato;
ciò che è disprezzato nell’uno è onorato nell’altro; ciò che è onorato nell’uno
è disprezzato nell’altro; la pena che disonora e annienta un uomo secondo
la legge del primo mondo, diviene, nel mondo rovesciato, la grazia e il perdono che tutela la sua essenza e gli restituisce il suo onore”39.
Conviene evidentemente non fare del mondo morale un mondo a parte, che ci farebbe ricadere nelle opposizioni astratte: non è che il primo
mondo che rovescia se stesso. Il rovesciamento si e operato sul piano religioso alla fine dello sviluppo antico, che non ha realizzato l’universalità
che in modo immediato. Il capitalismo moderno, che penetra nella vera sostanza dell’essere, esige una rivoluzione reale. Esso implica, nell’alienazione dell’essere umano, l’identità dell’individuo e della totalità sociale, in
un processo di scissione interna che è immediatamente ritorno a sé. La vita umana non è che l’attualizzazione dell’essenza universale, poiché quella non esiste precisamente che nel suo compimento nella coscienza singola di sé. Il Sé si eleva all’universalità in un mondo che è ormai mondo
puramente umano. In questo movimento, la forma dell’esteriorità dell’oggetto entra in contraddizione col suo contenuto reale: questo si rivela come verità della vita effettiva in una presa di coscienza rivoluzionaria, in cui
le relazioni alienate si negano nella loro alienazione per affermarsi nel loro significato propriamente umano, come pura interiorità e universalità vissuta. Il soggetto finisce di elevarsi dall’attività economica alla coscienza
politica. Il mondo si capovolge rivelandosi come identico al Sé, e la coscienza, come coscienza dell’oggetto, è divenuta coscienza di sé.
Non è problema di questo articolo esaminare tutte le figure della Fenomenologia. Sarà necessario un commento generale per esplicitare tutto il
senso del movimento. Vogliamo solamente indicare con qualche esempio il
metodo che converrebbe impiegare. La severità sconcertante con la quale
Kojève condanna “l’errore monistico di Hegel” richiedeva questa messa a
punto. Il concetto dell’identità delle contraddizioni definisce il fondamento
stesso della dialettica. Difendendo il dualismo – con un brio del resto scintillante – Kojève si pone deliberatamente al di fuori dell’orizzonte hegeliano.
133
La concezione della storia come realtà suprema perde nello stesso
tempo il suo significato effettivo. La separazione assoluta dell’uomo e della natura mette capo praticamente a una forma nuova di spiritualismo, che
lascia la porta aperta a un ritorno dell’offensiva della religione. Nessuno
contesterà l’ardore e la solidità delle convinzioni atee di Kojève. Nonostante ciò vediamo male quale risposta decisiva egli potrebbe opporre alle interpretazioni moderne che fanno del Cristianesimo una religione dell’immanenza: secondo il R. P. Niel, “l’idea dell’Umanità-Dio sviluppata da Hegel implica una rottura con la teodicea tradizionale, non con la fede in Dio
[…]. Il dualismo non è necessariamente legato alla fede in Dio. Il cristiano,
proprio come l’esistenzialista ateo e il comunista, vede nella storia la realtà ultima. Essa è per lui la categoria suprema […]. Il Dio dei cristiani non è
il Dio di Aristotele ma Gesù di Nazareth”40. Fatte tutte le riserve sull’ortodossia di queste dichiarazioni, è assai chiaro che mantengano l’essenziale della religione.
Questa non ha niente da temere di decisivo da una filosofia della storia che pone la soggettività umana come un assoluto separato dalla natura, un elemento di questa trascendenza: non è necessario altro per un
apologista sottile. L’opposizione si ridurrà ad una querelle di teologia con i
tornisti: “È possibile, dice il R.P. Niel, dissociare la fede in Dio da certo teismo razionalistico, nato dalla teologia aristotelica. Certo il pensiero hegeliano è stato infine generatore d’ateismo, ma è per avere voluto realizzare
lo Eritis sicut dii della Scrittura, per avere ricostituito una scienza del Tutto.
Il grande merito della filosofia dell’esistenza è stato quello di dimostrare
giustamente che non c’è una scienza possibile del Tutto […]. Quelli che rinunciano a cercare per la loro fede un rifugio nell’Idea e vedono nella storia la realtà ultima, non avranno difficoltà a riconoscere in Gesù di Nazareth la realizzazione concreta di questa totalità”41.
In effetti, l’ambiguità viene dal fatto che il problema è stato posto sul terreno metafisico dove non poteva evidentemente ricevere alcuna soluzione
valida. Non ha molto senso domandarsi se l’assoluto è umano o divino: è
un problema di definizione e, del resto, il concetto di un Uomo-Dio permette di salvare tutto nominalizzando l’equivoco.
Nello stesso tempo, non ci sarebbe alcun profitto a cercare se il reale
è materia o spirito, intendendo con ciò una materia che non sarebbe che
materia e uno spirito che non sarebbe che spirito; poiché appare troppo
evidente che non potrebbe essere esclusivamente né l’uno, né l’altro. E
sarebbe perfettamente disastroso concluderne che la totalità è materia e
spirito, perché non avremmo fatto, una volta di più, che battezzare la difficoltà. L’unità vera non può trovarsi né sul piano astratto di una riduzione
arbitraria, né sul piano eclettico di una giustapposizione senza concetto.
Essa non si realizza che attraverso il passaggio di uno dei termini nel suo
134
opposto. Allora, il vero problema non è metafisico ma dialettico: non concerne la natura dell’essere ma il senso del divenire. Si tratta di sapere se
il movimento si fa dal basso in alto o dall’alto in basso, se il dopo è prodotto attraverso il prima o se c’è bisogno al contrario di un principio di trascendenza, Dio, Idea o Libertà, nel senso della libertà di indifferenza. Nel primo
caso, la natura diviene spirito attraverso una dialettica che le è propria e di
cui la necessità, essendo immanente, definisce il concetto autentico della
libertà. Nel secondo, la nozione di uno spirito che si realizzi nel mondo, ci
farà ritornare, per una strada o per un’altra, alle rappresentazioni ancestrali riassunte nel mito dell’Incarnazione. Da questo punto di vista l’equivoco
non è più possibile: l’essenza delle cose può sembrare ibrida, il movimento non ha che una direzione.
Queste osservazioni non devono sminuire il valore singolare del lavoro
di Kojève. La sua interpretazione ha il merito di essere chiara e precisa e
di entrare nel contenuto. Essa pone nella loro interiorità i problemi che sorgono dallo Spirito del mondo allo stadio attuale del suo sviluppo: essa figura a questo titolo come un momento notevole nel divenire dello Spirito
assoluto.
da “Segni e comprensione” n. 7, anno III, maggio-agosto 1989
ALEXANDRE KOJÈVE, Introduction a la lecture de Hegel, Paris, 1947.
HENRI NIEL, L’interpretai ion de Hegel, “Critique”, nov. 1947, p. 430.
3 ALEXANDRE KOJÈVE, Hegel, Marx et le Christianisme, “Critique”, août-sept. 1946, p. 353.
4 Phanomenologie des Geistes, ed. Hoffmeister, p. 143; Trad. Hyppolite, I, p. 158.
5 Ivi, p. 148; I, p. 164.
6 Ivi, p. 149,1, pp. 165-166.
7 Jenenser Realphilosophie, I, p. 220 seggi.
8 Ivi, I, p. 227.
9 Ivi, I, pp. 228-230.
10 Ivi, I, pp. 230-231.
11 Cfr. MARX, Ideologie allemande: “Si possono differenziare gli uomini dagli animali attraverso la coscienza, la religione, attraverso ciò che si vuole. Cominciano essi stessi a differenziarsi dagli animali, quando cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza”.
12 Phanomenologie des Geistes, p. 87; Trad. Hyppolite, I, pp. 90-91.
13 Ivi, p. 81; I, p. 83.
14 Jenenser Realphilosophie, I, p. 221.
15 Phanomenologie des Geistes, pp. 82-83, Trad. Hyppolite, I, p. 85.
16 Ivi, p. 83; I, p. 86.
17 Ivi, p. 84; I, p. 87.
18 Nella lotta per la vita e per la morte, ogni combattente cerca la morte dell’altro e non è
che per una conseguenza involontaria che mette la propria vita in pericolo. Nella lotta di
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2
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puro prestigio (potlach, harakiri, ecc.) egli si sacrifica volontariamente per poter umiliare
l’avversario e dimostrarsi egli stesso superiore alla natura: si tratta dunque d’una forma
derivata, in cui la conseguenza è divenuta principio.
19 System der Silllichkeit, in Schriften zur Potilik und Rechtsphilosophie, pp. 440-444.
20 Phänomenologie des Geistes, pp. 27-28, Trad. Hyppolite, I, p. 27 [La sottolineatura del
passo e pertanto… è di T.D.T.].
21 Ivi, pp. 72-73; I, pp. 74-75.
22 Ivi, p. 89; I, p. 93.
23 Ivi, p. 91; I, pp. 95-96.
24 Ivi, p. 92; I, p. 96.
25 Ivi, p. 94; I, pp. 98-99.
26 Ibidem.
27 Ivi, pp. 99-100; I, pp. 104-105.
28 Ivi, p. 103; I, pp. 109-110.
29 Lo schema è il seguente: D> [M> P> M] >D.
30 Ivi, p. 105; I, p. 112.
31 Ivi, pp. 107-108; I, pp. 109-110. Il primo movimento definisce il capitalismo commerciale: D> [M> P> M] D. Nel passaggio al capitalismo industriale si ottiene l’equi valenza: D>
[M> P> M] > D = [M> P> M] -> D-> [M-> P-> M].
32 Ivi, pp. 109-110; I, pp. 117-118.
33 Ivi, p. 32; I, p. 32.
34 Ivi, p. 111; I, p. 120.
35 Ivi, p. 114; I, pp. 123-124.
36 Ivi, p. 119; I, p. 129.
37 Ivi, pp. 120-121; I, p. 131.
38 Ibidem.
39 Ivi, p. 122; I, pp. 132-133.
40 L’interprèlation de Hegel, “Critique”, nov. 1947, pp. 433-434.
41 Ivi, p. 436.
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MAURICE MERLEAU-PONTY
IL PROBLEMA DELLA PAROLA (1953-1954)
La parola non realizza soltanto le possibilità iscritte nella lingua. Malgrado definizioni restrittive, già in Saussure essa è tutt’altro che un semplice effetto, ma modifica e sostiene la lingua non meno di quanto sia retta da questa. Assumendo come tema la parola, in realtà Saussure trasferiva su un
terreno nuovo lo studio del linguaggio, avviava una revisione delle nostre
categorie. Egli metteva in causa la distinzione rigida fra il segno e la significazione che sembra imporsi se si considera soltanto la lingua istituita, ma
che si smarrisce nella parola. Qui il suono e il senso non sono semplicemente associati. La famosa definizione del segno come “diacritico, oppositivo e negativo, significa che la lingua è presente al soggetto parlante come
un sistema di scarti fra segni e fra significazioni, che la parola opera con un
solo atto la differenziazione nei due ordini, e che infine non è possibile applicare la distinzione fra la res extensa e la res cogitans a significazioni che
non sono conchiuse ed a segni che esistono solo nel loro rapporto.
Il corso cercava di illustrare e di estendere questa nozione saussuriana della parola come funzione positiva e conquistatrice.
In primo luogo la si è applicata al problema dell’acquisizione del linguaggio nel bambino. Un saussuriano come Roman Jakobson era preparato a distinguere la semplice presenza di fatto di un suono o di un fonema nel balbettio del bambino ed il possesso propriamente linguistico dello
stesso elemento come modo per significare. La diminuzione improvvisa
dei suoni nel momento in cui il bambino sta per parlare dipende dal fatto
che i suoni, per essere a sua disposizione come modi per significare, devono venire integrati da lui nel sistema delle opposizioni fonematiche su
cui è costruita la lingua dell’ambiente che lo circonda, ed i principi di tale
sistema devono essere in qualche modo acquisiti. Ma R. Jakobson interpreta questo fatto nei termini di una psicologia discutibile. Quando si tratta
di comprendere come avviene l’appropriazione del sistema fonematica da
parte del bambino e come, nello stesso tempo, la melodia del linguaggio
udito – che “attende la significazione” – ne viene improvvisamente investita, R. Jakobson fa appello all’attenzione ed al giudizio, in altri termini assume delle funzioni d’analisi e di oggettivazione che in realtà poggiano sul linguaggio e che d’altra parte rendono conto in modo inadeguato tanto del137
l’aspetto atipico dei segni e delle significazioni quanto della loro indistinzione nel bambino.
Giustamente di recente l’acquisizione del linguaggio è stata collegata a
tutti i processi mediante i quali il bambino assume l’ambiente che lo circonda,
ed in particolare alle sue relazioni con gli altri. Soltanto, questo ricorso al contesto affettivo non spiega l’acquisizione del linguaggio. Anzitutto perché gli sviluppi del decentramento affettivo sono enigmatici quanto l’acquisizione del linguaggio. In secondo luogo, e soprattutto, perché il linguaggio non è la riproduzione o la copia della situazione affettiva: esso vi gioca un ruolo, vi introduce altri motivi, ne cambia il senso dall’interno, al limite è esso stesso una forma d’esistenza o almeno una diversione nell’esistenza. Anche soggetti che
non riescono a trovare un equilibrio affettivo imparano ad adoperare i tempi
del verbo che si vogliono far corrispondere alle diverse dimensioni della loro
vita. La relazione con gli altri, l’intelligenza e il linguaggio non possono essere disposti in una serie lineare e causale: sono a quel crocevia di sommovimento dove qualcuno vive. La parola, diceva Michelet, è la madre che parla.
Ora, se la parola pone il bambino in una relazione più profonda con colei che
dà il nome ad ogni cosa e dice l’essere, essa trasferisce anche tale relazione
su un piano più generale: la madre apre al bambino dei circuiti che si discostano anzitutto dall’immediato materno, e attraverso i quali egli non lo ritroverà mai. Le “spiegazioni attraverso l’affettività” non riducono l’enigma dell’uomo né quello della parola: esse devono essere soltanto un’occasione di scorgere ciò che Freud chiamava il “sovra-investimento” della parola, al di là del
“linguaggio del corpo” e di descrivere ad un altro livello il va e vieni fra l’immediato e l’universale, fra la prospettiva e l’orizzonte. Il caso di Helen Keller mostra al tempo stesso quale distensione e quale mediazione la parola rechi alla collera ed alla angoscia del bambino, – e mostra che essa può essere tanto una maschera, una realizzazione in “come se”, quanto una vera e propria
espressione, come forse accade in quel soggetto che non la possiede pienamente. In ogni caso, queste diverse modalità della parola, che sono altrettanti modi di riferirci all’universale, la ricollegano alla operazione di esistere.
Abbiamo cercato in talune disintegrazioni patologiche un’altra testimonianza della funzione centrale della parola, poggiandoci sul libro di Kurt Goldstein (Language and language disturbances, 1948). I precedenti studi di
questo autore distinguevano un linguaggio automatico (un “sapere verbale
esterno”) ed un linguaggio in senso pieno (denominazione vera) che egli ricollegava all’“atteggiamento categoriale”. Ci si poteva quindi domandare se
tali studi non ponessero la significazione nel linguaggio come il pilota nella
propria nave. Il libro del 1948, al contrario, congiunge i due ordini; non vi sono da una parte la significazione e dall’altra gli strumenti (instrumentalities)
del linguaggio, gli strumenti rimangono utilizzabili con l’andar del tempo soltanto se l’atteggiamento categoriale è mantenuto integro, e inversamente il
138
danneggiamento degli strumenti compromette la possibilità di cogliere la significazione. Vi è dunque per così dire uno spirito del linguaggio e lo spirito
è sempre ricolmo di linguaggio. In effetti il linguaggio è il sistema di differenziazioni nel quale si articola il rapporto del soggetto con il mondo. Le concezioni della patologia nervosa come incapacità di differenziazione e la concezione saussuriana del segno diacritico si raggiungono e raggiungono le idee
di Humboldt sul linguaggio come “prospettive sul mondo”. È ancora Humboldt che Goldstein ritrova quando analizza la “forma interna del linguaggio”
(innere Sprachform), ossia ciò che, a suo avviso, mobilita gli strumenti del
linguaggio o nella percezione della catena verbale o nella elocuzione. Lo spirito rimane dipendente da questo organismo di linguaggio che ha creato, al
quale continua ad infondere la vita, e che tuttavia gli dà impulso come se fosse dotato di vita propria. L’atteggiamento categoriale non è l’atto dello spirito puro, ma implica un funzionamento agile della “forma interna del linguaggio”. In un primo tempo concepita in termini kantiani essa è ora collegata al
linguaggio articolato: poiché il linguaggio articolato è in grado di adoperare
dei simboli vuoti, esso non solo può, come il grido o il gesto, recare un sovrappiù di senso ad una situazione data, ma può evocare da sé il proprio
contesto, insinuare la situazione mentale da cui procede e, nel senso pieno
del termine, esprimere. “Si può dire che il grado dell’atteggiamento categoriale è funzione del grado di evoluzione del linguaggio verso forme eminentemente convenzionali, a proposito delle quali abbiamo detto che il massimo
di indeterminazione dei simboli garantisce il massimo di determinazione dell’oggetto” (A. Ombredane, L’Aphasie et l’élaboration de la pensée explicite,
pp. 370-371). Benché gli autori non lo nominino, si riconosce in questo spirito immanente al linguaggio il mediatore che Saussure chiamava parola.
Proprio a ciò lo scrittore, per professione, si trova di fronte. L’atto di scrivere, diceva Proust, è per un certo verso all’opposto della parola, della vita,
poiché questa ci apre agli altri quali sono, chiudendoci a noi stessi. La parola
dello scrittore, al contrario, crea essa stessa un “allocutore” che sia in grado
di comprenderla e gli impone come evidente un universo privato. Ma allora
essa non fa che ricominciare il lavoro originario del linguaggio, con la risoluzione di conquistare e di mettere in circolazione non soltanto gli aspetti statistici e comuni del mondo, ma perfino il modo in cui questo tocca un individuo
e si introduce nella sua esperienza. Non bisogna pertanto che essa si accontenti delle significazioni già acquisite e correnti. Come il pittore ed il musicista
si servono degli oggetti, dei colori, dei suoni per manifestare i rapporti degli
elementi del mondo nell’unità di una vita – per esempio le corrispondenze metaforiche d’un paesaggio marino – lo scrittore, adoperando il linguaggio comune a tutti, se ne serve per restituire la partecipazione prelogica dei paesaggi,
delle case, dei luoghi, dei gesti, degli uomini fra loro e con noi. Le idee letterarie, come quelle della musica e della pittura, non sono “idee dell’intelligen139
za”: esse non si separano mai completamente dagli spettacoli, traspaiono irrecusabili come persone ma non definibili. Ciò che si è chiamato il platonismo
di Proust è un tentativo d’espressione integrale del mondo percepito o vissuto. Per questa stessa ragione il lavoro dello scrittore resta lavoro di linguaggio piuttosto che di “pensiero”: si tratta di produrre un sistema di segni che, in
virtù della sua interna strutturazione, restituisca il paesaggio d’una esperienza, occorre che i rilievi, le linee di forza di questo paesaggio inducano una sintassi profonda, un modo di composizione e di narrazione che fanno e rifanno
il mondo ed il linguaggio usuali. Questa parola nuova si forma nello scrittore
a sua insaputa, durante anni di vita apparentemente oziosa in cui egli si rammarica di mancare d’idee e di “soggetti” letterari, fino al giorno in cui – cedendo al peso di quel modo di parlare che poco a poco si è stabilito in lui – egli
prende a dire come è divenuto scrittore e compone un’opera raccontando la
nascita di quest’opera. Così la parola letteraria dice il mondo in quanto esso
è stato dato a qualcuno per vivere, ma nello stesso lo trasforma in se stessa
e si pone come proprio scopo. Proust aveva ragione a sottolineare così che
parlare o scrivere può diventare un modo di vivere. Avrebbe avuto torto a pensare (non ha pensato) che quel modo, non più di qualsiasi altro, potesse contenere tutto e bastare a se stesso.
In ogni caso nessuno ha meglio espresso il circolo vizioso, il prodigio
della parola: parlare o scrivere è sì tradurre una esperienza, la quale però
diviene testo soltanto in virtù della parola che suscita. “Quanto al libro interiore di tali segni sconosciuti (segni in rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente, cercava, urtava, contornava come un
palombaro che scandagli), nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a
decifrarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi”1.
Queste descrizioni della parola nelle sue forme incoative, regressive o
sublimate ci consentiranno di studiarne il rapporto di principio con la lingua
istituita e di chiarire la natura dell’istituzione come atto di nascita di tutte le
parole possibili. Tali questioni saranno oggetto in seguito di un altro corso.
(traduzione di Mauro Carbone)
da “Segni e comprensione” n. 1, anno I, gennaio-agosto 1987
1
M. Proust, Il tempo ritrovato, tr. it. di G. Caproni, Einaudi, Torino 1978, p. 210 [N.d.A.].
140
JEAN-PAUL SARTRE
UNA VITA PER LA FILOSOFIA (1975)
a cura di Michel Rybalka
Intorno al 1972 Paul A. Schilpp, che dirigeva negli Stati Uniti la collezione The Library of Living Philosophers, ebbe l’idea di fare un libro su Sartre, ottenendo da questi la promessa di una breve autobiografia e riunì una
trentina di testi critici che trattavano i molteplici aspetti della sua filosofia.
In seguito Sartre, essendo diventato cieco, non poté mantenere la promessa, e si decise allora a sostituire l’autobiografia con delle conversazioni.
Queste, della durata di circa sette ore, si svolsero il 12 e il 19 maggio 1975,
in compagnia di Oreste Pucciani, professore alla U.C.L.A., Susan Gruenheck, professore al Collegio Americano di Parigi, e Michel Rybalka che poi
ha curato con Michel Contat Les Ecrits de Sartre e l’edizione dei suoi romanzi nella collana “La Pléiade”. Sartre rifiutò di accettare la partecipazione di un filosofo dell’università francese.
Il testo integrale di queste conversazioni, trascritto e poi tradotto da S.
Gruenheck, riveduto da Michel Rybalka, è uscito nell’ottobre 1981 nel volume: Schilpp, Paul A., ed. The Philosophy of Jean-Paul Sartre, The Library of Living Philosophers, vol. XVI, Open Court Pub.Co.
Pubblicati per la prima volta in francese sul “Magazine littéraire” nº 182
del marzo 1982, i brani che seguono sono stati estratti dal testo francese
originale, con qualche modifica secondaria, e sono stati scelti da M. Rybalka. Essi si propongono soprattutto di ripercorrere la biografia filosofica di
Sartre e tralasciano gli aspetti più tecnici delle conversazioni, dal punto di
vista filosofico. Sono stati raccolti e pubblicati alcuni passaggi sul marxismo, sul maoismo e sulla coscienza degli animali, inediti nella versione
francese.
– Michel Rybalka1. Il suo progetto iniziale era di scrivere, di fare della
letteratura; come è arrivato alla filosofia?
– Jean-Paul Sartre. Non mi sono appassionato alla filosofia quando seguivo le lezioni di filosofia. Avevo un professore che si chiamava Chabrier
e che era soprannominato «Cucu-Filo»2; non mi ha mai trasmesso la voglia di fare filosofia. Questo desiderio non mi è venuto nemmeno durante
l’hypokhâgne3; il mio professore – che si chiamava Bernes – si esprimeva
in modo particolarmente difficile e non capivo quello che diceva.
141
È stato durante il khâgne4 che mi sono deciso, grazie ad un altro professore, Colonna d’Istria, un uomo invalido, piccolo, molto piccolo, che era
stato ferito. In khâgne si raccontava che fosse stato investito da un taxi e
che la folla gli si fosse avvicinata dicendo: «Che orrore!» In realtà era così
da sempre.
Il primo argomento che ci ha proposto per il tema, suggerendoci di leggere Bergson è stato: «Che cosa significa durare?» Così ho letto Il saggio
sui dati immediati della coscienza ed è senza dubbio questa lettura che all’improvviso mi ha dato la voglia di interessarmi alla filosofia. In quel libro
ho trovato la descrizione di quello che mi pareva fosse la mia vita psichica. Ne sono stato catturato, quello è diventato per me un tema di riflessione. Mi sono detto che mi sarei dedicato alla filosofia, allora la consideravo
semplicemente come una descrizione metodica degli eventi mentali dell’uomo, della sua vita psichica, tutto questo doveva costituire un metodo e
uno strumento per le mie opere letterarie. Desideravo ancora scrivere romanzi e a volte desideravo scrivere saggi, ma pensavo che passare l’agrégation5 di filosofia, diventare insegnante di filosofia, mi avrebbe aiutato a
sviluppare i miei temi letterari.
– R. In quel periodo, lei era già incline a vedere la filosofia come una
base per l’opera letteraria. Ma non provava anche questo bisogno d’inventare una filosofia per rendere conto del suo vissuto?
– Entrambe le cose. Desideravo interpretare il mio vissuto – la mia vita
interiore, come la chiamavo allora – e questo doveva servire come base a
delle opere che avrebbero trattato non so bene di cosa, ma sicuramente
temi strettamente letterari.
– R. Nel 1924, quando lei entra alla Scuola Normale Superiore6, la decisione è quindi già presa.
– Proprio così: avrei fatto della filosofia una materia di insegnamento.
Consideravo la filosofia come uno strumento, ma non ci vedevo un campo
in cui avrei potuto creare un’opera personale. Probabilmente, pensavo, ne
ricaverai delle verità nuove, ma queste verità non ti serviranno a comunicare con gli altri.
– R. Si tratta insomma di una conversione?
– No, ma era qualcosa di nuovo, che mi spingeva a studiare seriamente la filosofia.
Punto di partenza e fondamento di ciò che avrei scritto, la filosofia non
mi sembrava qualcosa che dovesse essere scritta da se stessa e per se
stessa, ne conservavo delle annotazioni, eccetera. Prima di leggere Bergson, provavo interesse per quello che leggevo e scrivevo dei pensieri che
mi sembravano filosofici. Avevo anche un taccuino da medico, diviso alfabeticamente, che avevo trovato in metropolitana e nel quale scrivevo questi pensieri.
142
– R. Torniamo indietro. C’era una tradizione filosofica nella sua famiglia?
– No, assolutamente. Mio nonno, che era professore di tedesco, non
capiva niente di filosofia e la ridicolizzava. Per il mio patrigno, che era ingegnere uscito dal Politecnico, la filosofia non era, in un certo senso, altro
che filosofia della scienza.
– R. Nel prendere la sua decisione, è stato influenzato da qualche amico come Nizan?
– No, anche se non saprei spiegare perché Nizan si sia dedicato alla filosofia nello stesso periodo in cui mi ci dedicai io e sia diventato anche
«agrégé»7 in filosofia qualche anno dopo di me. Lui compì questa trasformazione nello stesso momento e la filosofia giocò per lui più o meno lo
stesso ruolo che svolse per me.
– R. Voi non vi eravate consultati?
– Sì, certamente.
– P. Che cosa ad una prima lettura di Bergson ha suscitato il suo interesse per la filosofia?
– Sono stati i dati immediati della coscienza a sorprendermi. Già in terza superiore8 avevo un insegnante molto bravo che mi aveva un po’ guidato verso lo studio dell’io; da allora mi sono interessato ai dati immediati della coscienza, allo studio di quello che passa per la testa, alla maniera con
cui si formano le idee, al modo con cui i sentimenti appaiono, scompaiono,
eccetera. In Bergson ho trovato delle riflessioni sulla durata, sulla coscienza, su che cosa sia uno stato di coscienza, eccetera, e questo mi ha certamente influenzato molto. Ciononostante mi sono staccato da Bergson
molto presto perché l’ho abbandonato l’anno stesso in cui frequentavo ancora il khâgne.
– R. E nell’Immaginazione d’altra parte lei lo attacca abbastanza duramente, tanto che Merleau-Ponty glielo rimprovera.
– Non sono mai stato bergsoniano, ma il mio primo incontro con Bergson mi ha rivelato una maniera di studiare la coscienza che mi ha convinto a fare filosofia.
– R. Il suo primo lavoro filosofico importante, il diploma di studi superiori che ha presentato nel 1927, verte sull’immagine. Perché questo interesse piuttosto che un altro?
– Perché, in definitiva, per me la filosofia, era psicologia. Mi sono liberato di questa concezione più tardi. C’è la filosofia, e quindi non c’è la psicologia. Quest’ultima non esiste; è una chiacchiera oppure è uno sforzo
per cercare di stabilire che cos’è l’uomo a partire da nozioni filosofiche.
– R. Quali sono i filosofi che, dopo Bergson, l’hanno interessata?
– Be’, sono i filosofi classici: Kant, molto Platone, Cartesio in modo particolare. Mi considero un filosofo cartesiano, almeno nell’Essere e il Nulla.
143
– R. Ha studiato questi autori in modo sistematico?
– In modo assolutamente sistematico, perché dovevo seguire i programmi della licence9 e quelli dell’agrégation. I filosofi a cui mi sono appassionato, Cartesio o Platone, per esempio, mi sono stati insegnati all’università della Sorbona. In altre parole, la formazione filosofica che ho ricevuto
durante quegli anni è una formazione scolastica. Del resto questo è naturale perché si finisce di studiare con l’agrégation. Una volta che si è «agregé»10, si diventa immediatamente insegnanti di filosofia e tutto finisce lì.
– R. C’è stata un’influenza di Nietzsche?
– Mi ricordo di aver preparato una relazione su di lui per il professor
Brunschvicg al terzo anno della Scuola Normale Superiore. Mi interessava, come molti altri, ma per me non ha mai rappresentato niente di importante.
– R. Questo mi sembra un po’ contraddittorio. Da un lato, si sente che
lei subisce una certa attrazione perché nell’ Empédocle, Une défaite identifica con Nietzsche, il personaggio del «patetico Frédéric». Tuttavia, nello
stesso periodo, lancia delle bombe ad acqua sui nietzschiani della Scuola
gridando: «Così pisciava Zarathustra!».
– Credo che in tutto questo non vi sia contraddizione. Nell’Empédocle,
ho voluto riprendere in chiave romantica la storia Nietzsche-Wagner-Cosima-Wagner, dandole un carattere molto più forte. Non ho voluto rappresentare la filosofia di Nietzsche, ma semplicemente la sua vita d’uomo: lui
è stato innamorato di Cosima nello stesso momento in cui era amico di
Wagner. Frédéric è diventato uno studente della Scuola Normale Superiore e finalmente mi ci sono identificato; avevo dei referenti anche per gli altri personaggi. Non ho mai terminato questo romanzo breve.
– R. E Marx?
– L’ho letto, ma in quel preciso momento non ha giocato nessun ruolo.
– P. Lesse anche Hegel?
– No. Lo conoscevo da alcune opere e dai corsi, ma non l’ho studiato
che molto più tardi, intorno al 1945.
– R. Ci stavamo proprio domandando a che data risale la sua scoperta della dialettica.
– Tardi. Dopo L’Essere e il Nulla.
– P. (con un’aria meravigliata). Dopo L’Essere e il Nulla?
– Sì. Conoscevo il concetto di dialettica dalla Scuola Normale Superiore, ma non lo utilizzavo. C’è qualche passaggio ne L’Essere e il Nulla che
richiama un po’ la dialettica, ma la maniera di procedere non era specificamente dialettica e pensavo che non ce ne fosse una. Invece, a partire dal
1945…
– R. Ci sono molti critici che ritengono che lei sia stato dialettico sin dall’inizio…
144
– È affar loro. Da parte mia non vedevo le cose in questo modo.
– P. Ma c’è comunque ne L’Essere e il Nulla una dialettica dell’in-sé e
del per-sé?
– Sì, ma in quel senso, c’è una dialettica in tutti gli autori; si trovano
ovunque delle contraddizioni che si oppongono, che si trasformano in qualcos’altro, eccetera.
– R. Le si è spesso rimproverato di non dedicarsi al pensiero scientifico e all’epistemologia. Queste discipline hanno avuto un’importanza nella
sua formazione?
– Sì, sono stato costretto a studiarle al liceo e alla Scuola Normale Superiore (ci si occupava molto delle scienze), e successivamente sono stato costretto, per la preparazione dei miei corsi, a leggere dei testi particolari. Ma questo non mi ha mai appassionato, in una parola.
– P. E Kierkegaard, quando l’ha scoperto?
– Intorno al 1939-40. Prima di allora, sapevo che esisteva, ma per me
non era che un nome e questo nome, non so perché non mi piaceva. A
causa delle due a, penso… Questo mi toglieva la voglia di leggerlo. Per
continuare questa biografia filosofica, vorrei dire che quello che è stato
molto importante per me, è stato il realismo, vale a dire l’idea che il mondo quale io lo vedo esiste e che gli oggetti che percepisco sono reali. Questo realismo non aveva trovato un’espressione valida perché per essere
realista, era necessario avere allo stesso tempo un’idea del mondo e
un’idea della coscienza – ed era precisamente quello il mio problema.
Ho creduto di trovare una soluzione, o qualcosa come una soluzione,
in Husserl, o piuttosto in un piccolo libro uscito in francese sulle idee di
Husserl.
– R. Il libro di Lévinas?
– Sì, ho letto Lévinas un anno prima di andare a Berlino. Nello stesso
periodo, Raymond Aron, che ritornava dalla Germania, mi diceva che secondo lui era un filosofo realista. Non era affatto così, ma ero assolutamente desideroso di conoscere quella filosofia e nel 1933 sono partito per la
Germania. Là ho letto le Idee nella versione originale e ho davvero scoperto la fenomenologia.
– R. Taluni distinguono un Sartre fenomenologo e un Sartre esistenzialista. Le sembra che questa distinzione sia fondata?
– No, non vedo la differenza. Husserl faceva dell’«io», dell’«ego» un
dato interno alla coscienza, invece, già nel 1934, ho scritto un articolo, La
Trascendenza dell’ego, nel quale ritengo che l’ego sia una specie di quasi-oggetto della coscienza e che, di conseguenza, esso si trovi escluso dalla coscienza. Ho mantenuto questo punto di vista fino a L’Essere e il Nulla, e lo manterrei ancora oggi, ma non è più il tema delle mie riflessioni, in
questo preciso momento.
145
– P. Questa questione dell’ego costituisce una difficoltà per molti dei
suoi critici.
– Sono critici che si limitano alla tradizione. Perché l’ego apparterebbe
al mondo interiore? Se è un oggetto della coscienza, allora esiste all’esterno; se esiste nella coscienza, questa cessa di essere straordinariamente
lucida, di essere coscienza di se stessa, per ripiegarsi su un oggetto all’interno di se stessa. La coscienza è all’esterno, non c’è interno della coscienza.
– P. La difficoltà dipende dal fatto che non è una cosa…
– No, ma nemmeno lei lo è, lei non è una cosa e nello stesso tempo è
anche un oggetto della mia coscienza. La soggettività non è nella coscienza, essa è la coscienza; è attraverso questa via che si può trovare un senso della coscienza che corrisponda nel soggetto ad una oggettività. L’ego
è un oggetto vicino alla soggettività, ma non è interno alla soggettività. Non
può esserci niente nella soggettività.
– P. Simone de Beauvoir scrive che questa rimane una delle sue convinzioni più solide. È una convinzione o un fatto?
– Ritengo che sia un fatto. In un pensiero non riflessivo, non incontro
mai l’ego, il mio, incontro quello degli altri. La coscienza non riflessiva è
completamente alleggerita dell’ego che appare soltanto in una coscienza
riflessiva, o meglio in una coscienza riflessa, perché la coscienza riflessa
è già un quasi-oggetto per la coscienza riflessiva. Alle spalle della coscienza riflessa, come una specie di identità comune a tutti gli stati che sono subentrati a una coscienza riflessa, c’è un oggetto che si chiamerà ego.
– R. Nei suoi primi scritti filosofici, quando scriveva, per esempio, L’Immaginazione o Immagine e coscienza, aveva delle ambizioni di stile?
– Non ho mai avuto ambizioni di stile per la filosofia. Mai. Ho tentato di
scrivere chiaramente e nient’altro. Mi si è detto che c’erano passaggi ben
scritti. È possibile; quando ci si sforza di scrivere chiaramente, tutto sommato si scrive bene, in un certo qual modo. Non sono nemmeno orgoglioso di
quei passaggi, se ce ne sono. Ho voluto scrivere in un francese il più semplice possibile; non l’ho sempre fatto, per esempio, ne La Critica della ragione
dialettica (in cui questo è dovuto alle compresse di corydrane11 che ingerivo).
– R. Quale sarebbe la sua definizione di stile?
– Ho già parlato di stile altrove, nelle interviste. Lo stile è in primo luogo l’economia: si tratta di costruire delle frasi in cui coesistano molteplici significati e in cui le parole siano prese come allusioni, come oggetti piuttosto che come concetti. In filosofia una parola deve esprimere un concetto,
e solo quello. Lo stile è un certo rapporto tra le parole, e rinvia a un senso
che non si può ottenere per semplice addizione di parole.
– R. Ci si pone spesso la questione di sapere se nel suo pensiero ci sia
continuità o rottura.
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– C’è un’evoluzione, ma non penso che ci sia stata rottura. Il grande
cambiamento nel mio pensiero è la guerra: 1939-40, l’occupazione, la resistenza, la liberazione di Parigi. Tutto questo mi ha fatto passare da un
pensiero filosofico in senso classico a dei pensieri in cui la filosofia e l’azione, o il teorico e il pratico sono legati: il pensiero di Marx, quello di Kierkegaard, quello di Nietzsche, quello dei filosofi a partire dai quali si potrebbe
comprendere il pensiero del XX secolo.
– P. E Freud in quale momento è intervenuto?
– L’ho conosciuto dopo il mio corso di filosofia. Poi ho letto qualche suo
libro: ricordo di aver letto Psicopatologia della vita quotidiana al primo anno della Scuola Normale Superiore, poi finalmente L’Interpretazione dei
sogni prima di finire la Scuola. Ma mi urtava perché gli esempi che fa nella Psicopatologia della vita quotidiana sono troppo distanti da un pensiero
razionale e cartesiano. Ho parlato di questo in un’intervista che ho rilasciato alla “New Left Review”.
Poi durante i miei anni d’insegnamento ho approfondito la dottrina di
Freud, sempre mantenendomi separato dalla sua idea dell’inconscio. Intorno al 1958, sono stato interpellato da John Huston che voleva fare un film
su Freud; cadeva male perché non si sceglie qualcuno che non crede all’inconscio per fare un film in onore di Freud.
– R. Cumming dice che lei ha la tendenza ad esagerare la discontinuità del suo pensiero: annuncia ogni cinque o dieci anni che ha cambiato,
che non farà più quello che ha fatto. Se si prende l’esempio che lei faceva
un momento fa – quello del piccolo diario che teneva quand’era studente
e che diventa ne La Nausea il diario dell’Autodidatta – è evidente che lei
pensa contro se stesso.
– Ma non è così: pensavo contro di me nello stesso momento e il pensiero che ne risultava era un pensiero contro il primo, contro quello che
avevo pensato spontaneamente.
Non ho mai detto che cambiavo idea ogni cinque anni. Al contrario,
penso di avere seguito uno sviluppo continuo a partire da La Nausea e fino alla Critica della ragione dialettica. La mia grande scoperta, è il sociale
durante la guerra, perché essere soldato al fronte, è veramente essere vittima di una società che ti tiene là dove non vuoi stare e che ti impone delle leggi che tu non condividi. Ne La Nausea non c’è il sociale, ma lo si intrevvede.
– R. E sotto questo aspetto, L’Essere e il Nulla, ha rappresentato per
lei la fine di un’epoca?
– Certamente. Ne L’Essere e il Nulla la cosa più brutta sono i capitoli
propriamente sociali, su il «noi», a differenza dei capitoli sul «tu» e gli altri.
– R. Maurice Natanson si chiede, per l’appunto, qual è per lei la relazione tra l’ontologia e la sociologia.
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– Questa relazione non è ne L’Essere e il Nulla, infatti, si trova nella Critica della ragione dialettica…
– R. A questo proposito, lei considera la nozione di rarità come ontologica?
– No. Non è nemmeno antropologica; se preferisce, appare dal momento in cui c’è una vita animale.
– R. Natanson pone la domanda: «Il per-sé ha un plurale o un genere?»
– No, evidentemente. Esiste solo il per-sé, il vostro, il mio, ma questo
non costituisce dei per-sé.
– P. La forza del suo sistema, è di essere fondato su un’ontologia. Come è arrivato a questa nozione di ontologia?
– Volevo che il mio pensiero avesse un senso in rapporto all’essere.
Penso che l’idea di ontologia fosse nella mia testa a causa della mia formazione filosofica, delle lezioni che avevo seguito. La filosofia si interroga
sull’essere o sugli esseri… Ogni pensiero che non arriva a interrogarsi sull’essere non è un pensiero valido.
– P. Sono assolutamente d’accordo, ma vorrei ricordarle che un certo
pensiero scientifico (i filosofi del circolo di Vienna per esempio) rifiuta totalmente, come una specie di fantasticheria, ogni nozione dell’essere.
– Lo so, ma io penso proprio che, quando si parte da questo, si fa noi
stessi della filosofia. In altri termini, non credo che il pensiero dei filosofi di
Vienna (e quello delle persone a loro vicine) sia un pensiero valido e che
abbia dato sucessivamente dei risultati validi. Bisogna partire dall’essere o
ritornarvi, come fa Heidegger. Bisogna ad ogni modo che l’essere sia in
questione; questo conduce a dei pensieri più precisi sui problemi della filosofia attuale.
– R. Come domanda Natanson, si deve assumere un punto di vista retrospettivo e si può discutere oggi de L’Essere e il Nulla senza entrare in
una dialettica?
– Questo pone un problema difficile, quello di sapere come fare per interpretare un filosofo morto, che ha avuto tante filosofie. Come si può parlare, poniamo, di Schelling, che importanza dare alla sua prima filosofia e
come comprenderla in rapporto alla successiva? Saper esattamente quali
sono le fonti di una prima filosofia, proprio in quanto originaria e quali le
fonti della seconda, sapere in che misura la prima interviene nella seconda, è una questione molto difficile alla quale non ho ancora risposto, non
completamente.
– P. Ma senza l’ontologia fondamentale, mi chiedo se avrebbe potuto
porre il problema sociale come lo ha posto nella Critica.
– Penso che non avrei potuto. È davvero in questo mi distinguo da un
marxista; quello che precisamente rappresenta per me una superiorità sui
marxisti, è il fatto di porre la questione di classe, la questione sociale, a
148
partire dall’essere che esce dai confini della classe, perché questo riguarda sia gli animali, sia gli oggetti inanimati. È a partire da questo che si possono iniziare a porre i problemi di classe, di questo sono certo.
– R. Ci si chiede spesso qual è il posto dell’estetica nella sua filosofia.
Ha un’estetica, una filosofia delle arti?
– Se ne ho una, (e ce l’ho a malapena), è completamente in quello che
ho scritto e la si può trovare là. Non ho creduto che valesse la pena di creare un’estetica come Hegel ne ha creata una.
– G. Ha pensato di fare una filosofia del linguaggio?
– No. Il linguaggio deve essere studiato all’interno di una filosofia, ma
non può essere la base di una filosofia. Penso che dalla mia filosofia si
possa ricavare una filosofia del linguaggio, ma non c’è una filosofia del linguaggio che le si possa imporre.
– G. Per ritornare al problema letteratura/filosofia, considera ancora la
letteratura come una maniera di comunicare?
– Sì, non vedo proprio cos’altro potrebbe essere. Non si scrive mai, o
meglio non si pubblica mai qualcosa che non sia destinato agli altri.
– R. Pensa che il filosofo, simile in questo allo scrittore, abbia un’esperienza particolare da trasmettere?
– No. Anzi, forse. La sua funzione è di mostrare un metodo, un modo
di concepire il mondo a partire dall’ontologico.
– G. Cumming cerca di dimostrare che questo metodo è sempre stato
per lei una dialettica.
– In un primo tempo sono stato non-dialettico e solo intorno al 1945 ho
cominciato a occuparmi veramente del problema. Mi sono inoltrato nella
dialettica a partire da Santo Genet e penso che la Critica sia davvero
un’opera dialettica. Adesso, ci si può divertire a dimostrare che prima ero
dialettico senza saperlo; si può dimostrare allo stesso modo che Bergson
era bergsoniano anche a sei anni, quando mangiava pane e marmellata.
– G. Crede che esistano delle sintesi?
– Sì, delle sintesi parziali, in ogni caso; l’ho dimostrato nella Critica della ragione dialettica.
– G. Suppongo che rifiuti una sintesi assoluta, o mi sbaglio?
– Sì, assoluta. Ma una sintesi dell’epoca, per esempio, no. La nostra
epoca è di per se stessa la propria sintesi, e lo spiegherò nel secondo volume della Critica. È certo che bisogna superare il tipo di sintesi di cui dispongo nel primo volume per arrivare a delle sintesi riguardanti noi stessi
e gli altri. Ognuno di noi può, in ogni momento, fare delle sintesi. Per esempio, posso fare la sintesi di voi tre e in un certo modo, immedesimarmi in
questa situazione, e voi, potete fare la stessa cosa. Ma queste sintesi non
sono a livello di una sintesi globale, e non esiste nessuno che la possa fare. Se si era in sei, si potrebbe ricominciare, ma se si era mille, questo non
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avrebbe più molto senso. Bisogna quindi cercare un altro modo di concepire quelle sintesi.
– P. Eppure, ne L’Essere e il Nulla, lei dice che la coscienza è sintesi.
– Sì, è vero. Ma è la coscienza di ciascuno che costituisce la sintesi di
quello che vedo. Io sono sintesi in rapporto a tutto quello che vedo, in rapporto a voi tre, ma a voi tre che siete in rapporto con me. Ma non sono sintesi di quello che accade per la strada e che non vedo. (In quell’istante, un
rumore di sirene nella strada). Dato che credo solo a delle coscienze individuali e non ad una coscienza collettiva, mi è impossibile dare dunque
una coscienza collettiva come sintesi storica.
– R. Ha definito la Critica della ragione dialettica un’opera contro i comunisti e che si considera marxista.
– Contro i comunisti, certamente. Ma marxista è una parola che in quel
momento usavo con un po’ di leggerezza.
All’epoca, consideravo la Critica un’opera marxista, ne ero convinto.
Ma su questo punto mi sono ricreduto: oggi penso che la Critica si avvicini al marxismo sotto alcuni punti di vista, ma non è un’opera marxista.
– R. Nelle Questioni di metodo, sottolinea una differenza tra l’ideologia
e la filosofia, ed è una differenza che imbarazza i critici.
– È perché pretendono di essere tutti filosofi! Mantengo la differenza
ma il problema è molto complicato. L’ideologia non è una filosofia costituita, meditata e riflessiva, è un’insieme di idee che sta alla base di atti
alienati e che li riflette, che non è mai completamente espressa e formulata, ma che appare nelle idee correnti di una data epoca o di una data
società. Le ideologie rappresentano dei poteri e agiscono. Le filosofie si
costituiscono contro le ideologie, anche se in una certa misura le riflettono, proprio nel criticarle e nel superarle. Notiamo che attualmente l’ideologia esiste tra coloro che dichiarano che bisogna mettere fine alle ideologie.
– P. Anch’io ho provato imbarazzo davanti a questa differenza: consideravo l’esistenzialismo della Critica come un tentativo di sintesi del marxismo e come un superamento, invece lei direbbe che l’esistenzialismo
non era che un ‘enclave’, del marxismo.
– Sì, ma era questo l’errore. L’esistenzialismo non può essere un ‘enclave’ a causa della mia idea della libertà ed è quindi in definitiva una filosofia a parte.
Non penso affatto che questa filosofia sia marxista. Non può ignorare il
marxismo, è legata a questo come certe filosofie sono legate ad altre senza tuttavia entrarvi, ma adesso non la considero affatto come una filosofia
marxista.
– R. Allora quali sono gli elementi del marxismo che lei accetta?
– La nozione di plus-valore, la nozione di classe, tutto rielaborato, del
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resto, perché la classe operaia non è mai stata definita da Marx e dai marxisti. Bisognerà rivedere queste nozioni, ma per me restano valide in ogni
caso come elementi di ricerca.
– R. E oggi non si riconoscerebbe più come marxista?
– No. Penso del resto che assistiamo alla fine del marxismo e che, nei
prossimi cent’anni, il marxismo non avrà più la forma che si conosce…
– R. Il marxismo teorico o il marxismo come è stato applicato?
– Il marxismo come è stato applicato, ma è stato applicato anche come
marxismo teorico. Dopo Marx, il marxismo ha vissuto una certa vita e, nello stesso tempo, è invecchiato. Ora noi siamo nel periodo in cui l’invecchiamento va verso la morte. Il che non significa che le nozioni principali del
marxismo scompariranno; al contrario, saranno riprese… Ma per conservare il marxismo oggi ci sono troppe difficoltà.
– R. E quali sono queste difficoltà?
– In sintesi, dirò semplicemente che l’analisi del capitalismo nazionale
e internazionale nel 1848 non ha nulla a che fare con il capitalismo contemporaneo. Non si può spiegare una società multinazionale nei termini
marxisti del 1848. Bisogna introdurre una nozione nuova che Marx non ha
previsto e che, quindi, non è marxista nel senso puro del termine.
– P. La Critica è quindi già un superamento del marxismo?
– In ogni caso, non è sul piano in cui si è situata, quello di una semplice interpretazione del marxismo, con qualche modificazione a destra e a
sinistra. Non è contro il marxismo, è veramente non-marxista.
– P. È stato superato dall’idea di serialità, di pratica-inerte, grazie a delle idee nuove che non avevamo mai sfruttato.
– Ci sono delle nozioni che mi sembravano venute dal marxismo, ma
che sono differenti.
– R. E con chi si sente in sintonia in questa contestazione del marxismo?
– Con quelli che si chiamano maoisti, i militanti della sinistra proletaria
con i quali ho guidato La Cause du peuple. Inizialmente erano marxisti, ma
hanno fatto come me: non lo sono più, o lo sono molto meno. Pierre Victoir, per esempio, con il quale lavoro nelle trasmissioni televisive, non è più
marxista o almeno, vede la fine del marxismo.
– R. Alcuni critici cercano di vedere in lei un filosofo maoista.
– È assurdo, io non sono maoista; del resto, questo non significa nulla.
Si parlava un po’ di Mao quando scrivevo L’Essere e il Nulla.
Per alcuni gruppi, questo aveva un senso, molto vago: si immaginavano forme di vita socialista come quelle che avevano visto o creduto di vedere in Cina e le volevano applicare qui. Questi gruppi sono stati maoisti
quando la testa di Mao non compariva su La Cause du peuple; hanno
smesso di esserlo quando la testa di Mao ha fatto la sua apparizione.
151
– R. Mi è sempre sembrato che nei maoisti francesi ci fosse un 10% di
maoismo e un 90% d’altro genere, non molto facile da definire.
– Difficile da definire, ma interessante. È quello che noi abbiamo cercato di fare in On a raison de se révolter.
– R. E cosa diventerà questa filosofia della libertà che sta per nascere
oggi?
– È una filosofia che sarebbe sullo stesso piano, mescolando la teoria
e la pratica, del marxismo, una filosofia in cui la teoria serve alla pratica,
ma che assumerà come punto di partenza la libertà che mi sembra manchi al pensiero marxista.
– R. In alcune conversazioni recenti, utilizza il termine socialismo «libertario».
– È un termine anarchico e lo conservo, perché mi piace ricordare le
origini un po’ anarchiche del mio pensiero. Sono sempre stato d’accordo
con gli anarchici che sono i soli ad aver concepito un uomo completo, da
costituire per mezzo dell’azione sociale, e la cui caratteristica principale è
la libertà. Detto ciò, evidentemente, in politica, gli anarchici sono un po’
semplici.
– R. Forse anche sul piano della teoria?
– Sì, a condizione che non si consideri solo la teoria e che non si lascino da parte intenzionalmente intuizioni che sono molto buone, e cioè quelle riguardanti la libertà e l’uomo completo. Queste intuizioni qualche volta
si sono realizzate: gli anarchici hanno vissuto insieme, hanno formato delle società comunitarie, per esempio in Corsica intorno al 1910.
– R. Se oggi dovesse scegliere tra due etichette, quella di marxista e
quella di esistenzialista, quale preferirebbe?
– Quella di esistenzialista. Gliel’ho appena spiegato.
– R. Non preferirebbe un altro termine che esprima meglio la sua posizione?
– No, perché non l’ho mai cercato. Mi hanno chiamato esistenzialista,
ho accettato la definizione, ma non sono stato io a darla.
– R. Robert Champigny, che ha dedicato un libro intero a questo tema,
la accusa di razzismo umano, di antropomania. Quello che lo infastidisce
nella sua frase famosa di I Comunisti e la pace, «Un anti-comunista è un
cane», non è l’espressione di un’idea politica…
– …È il cane?
– R. È il cane. (Risate)
– Veramente, non credo che se ne possa concludere che ce l’ho con i
cani. È una formula molto banale che ho usato in quel momento (…) So
bene che gli animali hanno una coscienza, perché non comprendo il loro
comportamento se non ammettendo una coscienza. Di che tipo è la loro
coscienza, che cos’è una coscienza non dotata di linguaggio? Non saprei.
152
Forse arriveremo a decifrarlo più avanti, ma dovremmo saperne molto di
più sulla coscienza.
– P. I miei studenti mi chiedono continuamente: dove sono gli animali
ne L’Essere e il Nulla?
– Non ci sono. Perché ritengo che quello che si dice degli animali nella psicologia animale è in generale stupido, in ogni caso completamente
slegato dalle nostre esperienze coscienti. La psicologia animale è da rifare. Ma è difficile dire su quali basi.
– P. Attualmente negli Stati Uniti si fanno delle ricerche molto interessanti con delle scimmie alle quali si insegna a battere a macchina; esse
possono pensare secondo simboli, ma non possono passare alla parola.
– R. C’è una coscienza vegetale?
– Non ne so assolutamente nulla. Non penso che vita e coscienza siano sinonimi. No, per me, la coscienza, è là dove la si nota, ed esistono degli animali che non ce l’hanno, i protozoi, per esempio. La coscienza appare nel mondo animale a un dato momento, negli uomini, sicuramente anche nelle scimmie. Ma come appare e che cos’è?
– R. Pierre Verstrueten è rimasto colpito dallo statuto che lei ha dato nel
III volume di «Flaubert» alla nevrosi storica del XIX secolo. Per lui, è una
scoperta e si chiede a ragione quale sia lo statuto di questa potenza inventiva. In quale momento si produce questa scoperta? Quando, per esempio,
ha scoperto l’idea di programmazione o quella di nevrosi storica?
– Non lo so. Emerge nel corso delle mie riflessioni, ma non posso dire
in che momento appare. Un’idea viene in questo modo: inizialmente si ha
un’idea vaga completamente non-affermata, e in seguito si cerca di determinarla, di creare delle funzioni; in quel momento si arriva ad una coscienza che non è più la pura coscienza-sentimento che c’era all’inizio. Dapprima si ha qualcosa che non chiamo conoscenza ma intuizione, e la conoscenza in un certo senso è radicalmente differente da ciò che è dato da
questa prima intuizione. Questa determina delle cose che non erano determinate, ne sviluppa delle altre, ne sfuma altre che erano più evidenti inizialmente. Conserva un certo legame con la prima intuizione, ma è un’altra cosa e differente.
– R. Per gli americani, lei è spesso il filosofo dell’anti-natura.
– Sono un filosofo anti-natura, ma su alcuni piani solamente. So che all’inizio c’è stata una natura che indirettamente ha influenzato l’uomo. È certo che gli uomini primitivi intrattenevano dei rapporti reali con la natura, come gli orango o le formiche. Questo rapporto, in questo momento, esiste
ancora, ma è superato da altri rapporti che non sono più dei rapporti materiali, o almeno dei rapporti in cui la natura non gioca più lo stesso ruolo.
– R. La rarità, questa nozione che sviluppate nella Critica, è legata al
desiderio o al bisogno?
153
– Talvolta al bisogno, talvolta al desiderio. Data una causa qualsiasi che fa
sì che si abbia bisogno di una certa sostanza o di un certo oggetto, questo oggetto non è dato nella proporzione in cui se ne ha bisogno; questa è la rarità.
– R. E così la rarità non ha la tendenza a diventare una categoria ontologica piuttosto che storica? Oscar Wilde diceva, per esempio: “Dove c’è
domanda, non c’è offerta”.
– Non è una nozione ontologica, ma non è nemmeno una nozione semplicemente umana o una constatazione empirica. Tende verso l’ontologia,
ma non è ontologica, perché gli uomini che noi prendiamo in considerazione nel mondo non sono da studiare solo secondo una prospettiva ontologica o su un piano di idee astratte particolari, come fanno le filosofie o le
ontologie particolari. Bisogna studiarli empiricamente, come sono. E su
questo piano, si constata che un uomo è circondato di rarità, che si tratti
del gioco che il bambino non ha a sua disposizione quando lo vorrebbe o
dei prodotti alimentari che un gruppo umano reclama e di cui non ha a disposizione che una sola porzione. Ad ogni modo, c’è una differenza tra la
domanda e l’offerta, che deriva dalla maniera in cui è fatto l’uomo, che deriva da quello che l’uomo domanda ancora quando l’offerta è limitata.
– R. Oggi si vede chiaramente che l’idea di abbondanza che si è potuta avere negli Stati Uniti è una mistificazione.
– Certamente. Completamente. Viviamo in un mondo di rarità e di
quando in quando possiamo immaginarci di trovare l’abbondanza cambiando il nostro desiderio di natura. Non avendo quel che ci occorre in un
campo, trasferiamo il desiderio in un altro campo. Ma è ugualmente la rarità che è all’origine di questa concezione.
– P. Ciononostante ho sempre inteso la rarità nella Critica della dialettica come il risultato di una oppressione sociale.
– Può essere, è sempre un fatto di oppressione sociale. Ma ci sono delle rarità che provengono semplicemente dal rapporto di domanda dell’uomo – una domanda libera, per niente assoggettata a un’altra – con la quantità offerta.
– P. Ma se c’è una mancanza oggettiva, è anche una rarità?
– Certamente. In origine, la rarità era proprio questo. Il desiderio, la volontà, la necessità di utilizzare il tale oggetto come mezzo per creare una
domanda che può essere qualche volta illimitata, mentre l’oggetto domandato è disponibile su un territorio o sul globo in quantità limitata. Quindi, per
me, la rarità è un fenomeno di esistenza, un fenomeno umano, e naturalmente, la più grande rarità è sempre quella fondata sull’oppressione sociale. Ma all’origine c’è la rarità; noi creiamo circondati da un campo di rarità.
– P. Per passare a un altro problema, il professor Frondizi ritiene che il
suo lavoro morale sia stato soprattutto negativo e che si finisca per cadere in una morale dell’indifferenza.
154
– Non ho mai avuto una morale dell’indifferenza. Quello che rende le morali difficili, non è questo, sono i problemi concreti e politici, per esempio, che
bisogna risolvere. Come ho già sottolineato in Santo Genet, penso che attualmente non siamo in un tale stato, la società e le conoscenze non sono
tali da permetterci di ricostruire una morale che abbia lo stesso tipo di valore di quella che abbiamo superato. Non si può, per esempio, fare una morale su un piano kantiano che abbia lo stesso valore della morale kantiana.
Perché le categorie morali dipendono fondamentalmente dalle strutture della società nella quale noi viviamo e dal fatto che queste strutture non sono
né abbastanza semplici, né abbastanza complesse perché noi possiamo
creare dei concetti morali. Siamo in un periodo senza morale, o, se si vuole,
ci sono delle morali, ma queste sono superate o veramente personali.
– R. La morale è impossibile?
– Sì. Non lo è sempre stata, ma lo è oggi. Non lo sarà sempre, lo è attualmente. Detto questo, penso che all’uomo sia necessaria una morale.
– P. C’è compatibilità tra la sua filosofia e quella di Merleau-Ponty, in
particolare quando sviluppa la nozione d’«intramondo»?
– Credo che ci sia un’incompatibilità fondamentale, perché dietro alle analisi di Merleau-Ponty c’è sempre il riferimento a un tipo di essere per il quale
evoca Heidegger e che non è assolutamente qualcosa che io consideri valido. Tutta l’ontologia che si sviluppa dalla filosofia di Merleau-Ponty è distinta
dalla mia: si tratta piuttosto di continuismo. Io non sono tanto un continuista:
l’in-sé, il per-sé e le forme intermedie di cui si parlava poco fa, questo mi basta. In Merleau-Ponty c’è un rapporto con l’essere che è molto differente, un
rapporto nel fondo di se stesso. Ho parlato di questo in Merleau-Ponty.
– R. L’esempio di oggi lo conferma, credo che in generale lei impari
molto poco dagli altri sulla sua opera.
– Fino ad ora molto poco. Mi hanno sempre detto, quando avevo diciassette o diciotto anni, che si impara molto dai critici. Quindi sono cresciuto
con delle buone idee su questo, delle idee disciplinate, sagge. Leggevo i critici e pensavo: «Che cosa mi insegnano?», ma non mi insegnavano nulla.
– R. Non c’è un confronto con altri pensieri che la spinge a rivedere certe sue idee?
– Non mi sono mai sentito spinto a rivedere le mie idee. Forse sono un
filosofo ostinato! Ho letto, ho visto effettivamente che c’erano delle cose da
dire, e poi ho continuato a fare quello che facevo.
– R. Il suo pensiero si sviluppa così su un piano relativamente autonomo?
– In rapporto al pensiero dei critici scrittori, sì. Se degli amici mi fanno
notare qualche cosa, questo sì che può essere più importante. Tra i critici,
i migliori che abbia incontrato sono quelli che dicevano quello che avevo
voluto dire.
– R. La irrita vedere spesso il suo pensiero semplificato?
155
– No. Lo scrivono, tutto qui.
– R. Lei stesso ha detto che servirebbero dei mediatori per il «Flaubert». Come prevede una critica possibile della sua opera?
– Per cominciare bisognerebbe leggerla. Molti commentatori si fermano a metà strada.
– R. Leggere l’insieme?
– Be’, insomma, sì. Non lo chiedo al lettore in generale, ma ai critici
specializzati: che si prendano il tempo. Bisogna poi esporre l’opera, vedere se un punto di vista si prolunga per tutta la vita o cambia a metà, cercare di spiegare gli sviluppi, le rotture, tentare di ritrovare la mia scelta originale, che è la cosa più difficile: che cosa ho deciso di essere scrivendo la
tal opera, perché ho deciso di scrivere?
– R. Il critico rischia di non immedesimarsi in lei tanto quanto lo vorrebbe e così di non renderle totalmente giustizia.
– Nonostante tutto, che faccia un po’ quello che faccio io su Flaubert;
non pretendo di avergli reso giustizia, completamente, ma spero di aver
trovato certe direzioni, certi temi.
– R. Le farebbe piacere quindi che si facesse su di lei un lavoro come
quello che ha fatto su Flaubert?
– Sì, proprio così. Il senso della critica mi sembra proprio questo. Ecco
dei libri, un uomo li ha scritti. Che cosa significa? Chi è quest’uomo, che
cosa sono questi libri? Il punto di vista estetico mi sembra talmente variabile che è proprio questo aspetto che trovo interessante.
– R. Attribuisce una grande importanza alla documentazione?
– Sì. Lo posso dire, perché so quello che c’è voluto per Flaubert.
– P. Ciononostante, non c’è molta documentazione su di lei. Se si confronta quello che ha messo ne Le Parole con quello che si conosce dell’infanzia di Flaubert, c’è una grande differenza.
– Questo è dovuto anche al periodo attuale. Oggi si danno molti meno dettagli sulle persone, si sa molto meno su di loro che nel secolo
scorso, proprio perché i problemi della sessualità, i problemi della vita,
diventano individuali e scompaiono. Per esempio, quello che si sa di
SolÏenicyn, sono cose che in fondo riguardano tutta la Russia. Si sa che
è stato esiliato in un campo; subito si riflette sui campi, ci si ricorda che
cosa significa questo, eccetera. Ma quanto a sapere se amava il caffè,
e quale fosse la sua sessualità, mistero. Si potranno forse individuare
certi elementi a partire dai suoi libri, ma bisognerebbe che qualcuno lo
facesse.
Tutto questo non è nascosto, in effetti. Penso che il mio amore per il
caffè e la mia sessualità siano nei miei libri. Non c’è da fare altro che ritrovarli e questo è compito dei critici. Detto altrimenti, questi dovrebbero, a
partire dai libri, e nient’altro che secondo i libri, aggiungendo la corrispon156
denza, capire la persona che li ha scritti, ricostruire le correnti, vedere a
quali dottrine si collega…
– R. Nel suo caso c’è molta corrispondenza?
– No, o molto poca.
– Quello che vuole quindi, è una biografia?
– Sì, una specie di biografia che si può fare soltanto con dei documenti. Una biografia letteraria, vale a dire l’uomo con i suoi gusti, i suoi principi, la sua estetica letteraria… e ritrovare tutto questo in lui, a partire dai
suoi libri e in lui. Ecco, mi sembra che sia questo il lavoro che deve fare la
critica.
– R. Stranamente, nessuno degli articoli che abbiamo davanti ci parla
dell’insegnamento della filosofia, della maniera in cui potremmo insegnare
il suo pensiero. Come insegnava la filosofia?
– Tenevo un corso professorale, un corso ex cathedra, come si dice,
ma mi interrompevo in continuazione per fare delle domande o per rispondere alle domande che mi venivano poste. Penso che l’insegnamento non
consista nel far parlare un signore davanti a delle persone giovani, ma nel
discutere con loro a partire da problemi concreti. Se dicessero: «quel tipo
è un idiota. Dice questo, ma io da parte mia ho vissuto un’altra cosa», bisognerebbe spiegargli che si può pensare la cosa diversamente.
– R. Riusciva a stabilire un inizio di reciprocità, perché non si ha mai
una reciprocità completa?
– Era una reciprocità molto forte. Bisogna dire che facevo anche altre
cose con i miei allievi, anche della boxe, e questo, questo aiuta. Passavo
anche molto tempo a estirpare le idee che avevano nella testa.
– R. Questo modo di insegnare non è stato considerato un po’ scandaloso, all’epoca?
– Sì. Ho scatenato le reazioni dei colleghi, di un censore, di tutte le persone di quel tipo. Inoltre, permettevo ai miei allievi di fumare in classe, cosa che era considerata molto male.
– R. Come vedrebbe l’insegnamento della filosofia oggi?
– Come sapete, nel progetto di riforma che deve essere votato, la filosofia è eliminata dall’insegnamento secondario.
– R. Lei sa che negli Stati Uniti non si insegna la filosofia nelle scuole
superiori, ma soltanto all’università.
– Ma, a mio modo di vedere, bisognerebbe fare il contrario. Penso, come ha proposto qualcuno, che la filosofia potrebbe essere insegnata fin
dalla terza superiore, un po’, per permettere di capire gli autori insegnati;
tre ore alla settimana, per esempio.
Per me, la filosofia è tutto. È come si vive. Si vive in modo filosofico. Io
vivo da filosofo; questo non significa che vivo da buon filosofo, ma le mie
percezioni sono percezioni filosofiche, anche quando guardo questa lam157
pada o quando guardo voi. Di conseguenza, è un modo di vivere e ritengo
che lo si dovrebbe insegnare il più presto possibile, senza paroloni.
MARÍA ZAMBRANO
ANTONIO MACHADO, HOMBRE PENSATIVO1 (1975)
(traduzione dal francese di Lucia Angelino)
“Segni e comprensione” e la traduttrice ritengono doveroso ringraziare
Michel Rybalka e “Magazine Littéraire”, che hanno concesso i diritti per la
traduzione italiana.
da “Segni e comprensione” n. 55, anno XIX, maggio-agosto 2005
[Frontespizio dattiloscritto. Fotocopia di un dattiloscritto recante delle correzioni a mano]
Mostrami, o Dio, la prodigiosa mano che fece l’ombra: la lavagna
oscura ove si scrive il pensiero umano2.
1 Nel seguito della conversazione, G. indica Gruenheck (Susan), P. Pucciani (Oreste), R. Rybalka (Michel).
2 Questa parola, si compone di due termini, «Cucu», che vuol dire «stupido, sciocco» e «Filo» che vuol dire, in forma abbreviata, «filosofo». (N.d.T.)
3 Questo termine dell’argot scolastico designa il primo anno del corso preparatorio
alla Scuola Normale Superiore. (N.d.T.)
4 Con questo termine gli studenti chiamano scherzosamente gli anni di preparazione
al concorso d’ammissione alla Scuola Normale Superiore. A Parigi funzionano quattro
khâgnes: le due più importanti sono collocate l’una presso il Liceo Louis-le-Grand, l’altra
presso il Liceo Henry IV, le altre due, di minore importanza, si trovano presso il liceo Condorcet sulla riva destre della Senna, e presso il Liceo Lakanal a Sceaux in periferia.
(N.d.T.)
5 L’agrégation è un esame di concorso per ottenere l’abilitazione all’insegnamento.
Una volta superato, esso dà il diritto e la possibilità d’insegnare nelle scuole medie e superiori. (N.d.T.)
6 La Scuola Normale Superiore è una prestigiosa istituzione, creata il 9 brumaio dell’anno III (30 ottobre 1794) dalla Convenzione, per iniziativa del Comitato di salute pubblica, e sistemata, a partire dal 1847, nei locali appositamente costruiti nella rue d’Ulm a
Parigi. Da questa «grande scuola» (o università a numero chiuso) è uscita la maggiore
e la migliore parte della élite intellettuale e del personale politico francesi. Per ulteriori approfondimenti e precisazioni sulla storia di questa istituzione, rinviamo al libro celebrativo del 150º anniversario, realizzato da Alain Peyrefitte, raccogliendo testimonianze e
scritti dei più famosi «normalisti», introdotto da Georges Pompidou: Rue d’Ulm. Chronique de la vie normalienne, Flammarion, Parigi, 1963. (N.d.T.)
7 L’agregé è un professore di ruolo nelle scuole medie inferiori e superiori o un docente ordinario in alcune facoltà universitarie. (N.d.T.)
8 Nell’ordinamento scolastico francese la classe de première corrisponde alla terza
superiore, o terzo anno di liceo. (N.d.T.)
9 La licence è il diploma universitario che si consegue dopo tre anni di studi. (N.d.T.)
10 È questo il titolo che si attribuisce a chi ha conseguito l’agrégation. (N.d.T.)
11 Si tratta di una droga, ottenuta mescolando anfetamina e aspirina.
158
(Abel Martín, eteronomo di Antonio Machado
Los complementarios)
Leggendo un giorno luminoso
i miei beneamati versi,
ho visto nel profondo
specchio dei miei sogni
che una verità divina
tremando sta di paura,
ed è un fiore che vuole
spargere al suo aroma al vento3.
(Galerías, Introduzione)
Se un granello del pensare ardere potesse,
non nell’amante, nell’amore sarebbe
la più profonda verità ciò che si vedrebbe4.
(Da un Cancionero apócrifo, CLXVII)
Un pensatore, ma di un pensiero unico che esige, come è legge per ciò
che è unico, molteplicità di forme o di “generi”, e anche pluralità di persone in cui darsi. L’uomo inabitato da un pensiero unico, talvolta a immagine
e somiglianza della divinità, ha bisogno, oltre alla persona che porta il suo
nome proprio e manifesta il suo essere individuale, di altre persone che
non sempre l’essere così inabitato giunge a “creare”, a dare vita e forma a
un essere al modo umano oppure che si voglia sovrumano. Poeta, per
questo solo, è colui che vi riesce, come è il caso prodigioso di Antonio Machado. Poeta, anche se non avesse mai scritto poesie. Antonio Machado
ci appare immediatamente come poeta sin dal principio; ma vediamo che
cosa egli stesso intenda per “essere poeta”. Lo afferma in modo netto nel159
la maturità quando, detto per inciso, tra gli elementi – “radici dell’essere” li
chiamò il loro scopritore, Empedocle – il fuoco ha gradualmente preso il
sopravvento sugli altri nel suo pensiero: innanzitutto sulla terra, sull’aria e
anche, senza evitarla, sull’acqua. Non ha evitato nessuno di questi, ma
l’acqua corre per le vene della sua poesia come se fosse il suo stesso sangue. Quel sangue che ogni parola deve avere senza cessare di essere acqua: “Di’, per quale segreto canale,/ acqua, vieni sino a me,/ sorgente di
vita nuova/ ove mai bevvi?”5, invoca allorché albeggia la sua maturità.
È nel Cancionero apócrifo (Juan de Mairena), nel capitolo “La metafisica di Juan de Mairena” che leggiamo: “Ogni poeta – dice Juan de Mairena
– presuppone una metafisica: forse ogni poesia dovrebbe avere implicita
la sua – ovviamente mai esplicita – e il poeta ha il dovere di esporla, separatamente, in concetti chiari. La possibilità di farlo distingue il poeta dal mero signorino che compone versi”, citando dal Trattato di metafisica “Los siete reversos” [“I sette ‘a rovescio’”].
Ma questa metafisica risulta essere teologia, una singolare teologia
della quale sarebbe troppo semplice dire che inverta i termini dell’atto creatore secondo la teologia ebreo-cristiana: “Quando l’‘Essere che è creò il
nulla” – dice all’inizio del sonetto “Al gran Cero” [“Al grande zero”] di Abel
Martín, che Mairena proclama “immortale” allorché lo commenta.
Ha, dunque, un duplice commento il sonetto rivelatore della sua singolare teologia. Singolare perché non si tratta di muoversi in un pensiero all’interno di una tradizione, codificandola o alterandola, ma del concepire
l’essere divino traendoselo fuori dalle viscere del sentire dell’uomo, di questo uomo, Antonio Machado, minacciato egualmente dall’essere e dal nulla. E apertamente come poeta, e non solo semplicemente come uomo, gli
appaiono irrinunciabili sensazione e modi di sentire, e di pensare, diremmo prima di tutto. Modi di pensare che nascono dall’unico pensiero, dal
suo fondo insondabile e che giungono ad essere un sentire proprio del
pensiero. Poiché tale pensiero è proprio di un essere finito, minacciato, ed
anche ferito. Una specie di astro nell’universo. Monade? Abel Martín ravvisa in Leibniz il filosofo dell’avvenire, quando esige la restituzione all’universo della sua intimità.
Pura intimità è tale pensiero e non “interiorità dell’uomo”, agostinianamente. Sebbene dica “guardando un giorno luminoso6/ i miei beneamati
versi/ ho visto nel profondo/ specchio dei miei sogni/ che una verità divina
tremando/ sta di paura”. Il profondo specchio dei sogni riflette la verità divina, la mostra tremando. Manifesta forse il dentro del divino, che trema
per offrirsi in uno specchio?
E questa verità divina “è un fiore che vuole spargere il suo aroma al
vento”. Al poeta dovrebbe bastare il vederla tremolare nello specchio dei
suoi sogni e assisterla, poiché ha paura, darle il suo alito di vita affinché ef160
fonda il suo aroma al vento. Ciò basterebbe forse a tutta una concatenazione di poeti, a tutta una tradizione poetica, forse basterebbe alla poesia
tutta. Ma ad Antonio Machado, poeta prima di tutto, no. Ciò vuole dire che
la poesia tutta non gli basta. Non si accontenta della verità divina, benché
essa sia quella che chiede, quella che vuole effondere, come un fiore, il
suo aroma al vento, nulla di più. Ma a lui chiede di pensare affinché [si]
compia il suo chiedere. E pensare, per quello che vediamo, è giungere sino a Dio stesso, sapere di lui, comprendere la sua creazione per inserirsi
in essa, così come spetta all’uomo-poeta. Fare qualcosa o farsi dentro
questa divinità?
E questa esigenza ultima di comprendere Dio viene ad essere in Machado come ciò che è in Nietzsche, in Hölderlin, in Novalis – Unamuno non
vi giunge – un concepire Dio nella intimità del pensiero e dell’essere, quasi un ricrearlo.
E, sebbene sia solo come enunciato, diciamo che non cessa di essere
alquanto sorprendente che si studino le “concezioni del mondo” mentre restano fluttuanti queste concezioni di Dio o del divino che a partire dal Romanticismo tedesco – Goethe per primo – giungono a darsi in poeti-filosofi e in
filosofi-poeti, incluso Hegel7. La loro profondità, prossima o remota è, senz’alcun dubbio, il Dio che il mistico concepisce, o il Dio per il quale egli muore nel concepirlo. Eckhart, Böhme, san Giovanni della Croce. Ciò non vuole
dire che quei poeti-filosofi o filosofi-poeti seguano la stessa via del mistico inteso quale archetipo. Al contrario, di Abel Martín, Mairena dice che ha scarsa simpatia per i mistici a causa di questo separarsi dal mondo, dalla sensazione, dai sentimenti, dal sensibile insomma. Rimane in piedi unicamente
questo concepire il divino nell’intimità del pensare e sentire umano, questa
ricerca dell’intimità insieme alla divinità, dell’uomo e dell’universo intero.
E in questa ricerca più che dell’intimità, del dentro del divino, universale e umano, l’eros è agente ineludibile, talora creatore. Abel Martín, nel
quale l’eros si stabilisce più che in chiunque altro dei suoi eteronomi, è un
grande erotico, ma non si rivela a noi platonicamente, a causa della bellezza, piuttosto in modo metafisico, poiché l’essere è eterogeneo. Da parte
nostra aggiungiamo che tale eros non entra dentro le profondità della carne. E non viene a mancare un parallelismo tra il rifiuto del dio creatore giudeo-cristiano, quello di “Genesi”, e questa assenza totale dell’eros carnale, del quale non vediamo apparire neanche un accenno nella poesia di
Machado, né nella metafisica dei suoi eteronomi e neppure, per quanto lievemente, nei suoi Complementarios. E ciò appare in tale purezza che neppure si dà a vedere questa assenza della passione della carne che chiede
di riprodursi, di generare e… essere rigenerata nella resurrezione, che tanto fiammeggia nel pensiero di Miguel de Unamuno.
Questa assenza della passione della carne è agente di trasparenza tra
161
Dio e l’uomo. Le viscere dell’uomo non chiamano né reclamano; la loro inesistenza dà senz’altro luogo all’essere e al non essere, al pensare e al pensiero. Questo essere non sogna di incarnarsi. Si direbbe che il mistero cristiano dell’Incarnazione non lo tocchi, né quello della passione o del dolore
divino tocca l’umano; “Non posso cantare né voglio/ quel Gesù del legno/
ma colui che andò per mare”8. Non chiede, allora, né accetta l’umanizzazione di Dio. Non esige di esistere. Non chiede neppure tempo. Di quale Dio
si tratta? Poiché è rivelatore della divinità che si concepisce o si chiede di
concepire, ciò che l’uomo le chiede: la supplica e la successiva offerta.
Abbiamo detto che ci offrono due generi di commento il sonetto “immortale” “Il gran Cero” e inoltre due poesie nei quali si approfondisce e, insieme, si chiarisce: quella del suo autore Abel Martín e quella del suo discepolo Mairena. Notiamo appena che se non troviamo tracce di ansia di generazione né ansia esistenziale, per converso la relazione di Martín e di
Mairena ci appare come una sorta di generazione del pensiero; dei modi
di sentire e di pensare. Una genesi del pensiero unico, il che rafforza la
convinzione che si tratti di un pensiero che desidera concepire e generare. Poiché deve essere un pensiero d’amore.
***
Un pensiero unico, che prende tutta una vita umana, deve essere un
certo modo di essere pensiero o dell’essere del pensiero, che potrebbero
e anche dovrebbero fissarsi “a priori”. Ci appaiono immediatamente tre “a
priori” di tale pensiero unico: essere indistruttibile; possedere senza fare
del soggetto in cui si dà un “posseduto”; e, poiché prende per sé tutta la vita, darla. Essere allora un pensiero che è vita. E, nell’essere pensiero veritiero, essere universale, trascendente. Contenere in sé qualche aspetto
irrinunciabile della condizione umana. Un imperativo che non necessariamente si enunci come tale, che andrà enunciandosi nel processo del suo
compiersi, a seconda che vada manifestandosi non solo nel pensare, ma
nel modo di vivere, di questo soggetto che esso governa, e che tanto più
docilmente lo seguirà quanto più andrà dimorando nella libertà. Ed egli
stesso, l’uomo, Antonio Machado, andrà facendosi visibile, andrà manifestandosi. La sua più recondita intimità verrà a darsi, e non soltanto nella
parola e nella condotta, ma andrà piuttosto facendo di lui una figura inequivocabile, una forma indelebile e vivente, come se fosse nato intero dal capo di Zeus come Pallade Atena, e armato come lei. Tanto inerme che vi si
vedeva che era nato. Poiché lungi dal cancellare l’essere della nascita, la
creatura nata, questa figura consona alla storia che non passa, la rivela o
la fa tralucere. Quel suo andare vacillante, cercando di non pesare sulla
terra, sfiorava appena il terreno con i suoi piedi, e seduto si raccoglieva e
162
si ritraeva, pure, tendendo a cancellarsi; poiché non occupava spazio si
sentiva che era così. La sua “goffaggine” (torpeza) nei movimenti non era
altro che resistenza all’occupare dei luoghi, a dire “qui sono io”. Corpulento, scivolava via andando tra le genti, si affilava come per attraversare un
labirinto. Soltanto quando parla della “polis” e più in là di essa, si direbbe
che, dinanzi a un occhio invisibile che lo guardava, si ergeva e rimaneva
saldo, scoperto, “quasi nudo” come uno dei “figli del mare”, e ancor prima
di salire a bordo di qualsiasi nave.
Un pensiero indistruttibile, dunque, che se distrugge lo farà concentrando, distillando (alquitarando) e – qualora osassimo – diremmo purificando
in un’ascesi non dichiarata, come se l’azione senza posa di un fuoco sottile, dello stesso pensiero, si esercitasse di per sé all’oscuro del soggetto,
che così conserva il suo candore guadagnando in saggezza. “Cuore maturo di ombra e di scienza”9.
Quanto maggiore sia l’indistruttibilità di questo pensiero, tanto più ce ne
sarà bisogno per pensarsi e viversi al contempo. Ciò che potrebbe forse
essere un atomo, una figura enigmatica, solo una parola, richiede più modi di manifestazione, di espressione. Anche perché questo pensiero non
giunge a darsi nel servire da espressione a un individuo, nel soddisfare
una passione mediocre. Chiede verità e realtà a un tempo, come un essere che è già di per se stesso. E offre pienezza dentro la quale colui che l’arreca può rimanere seminascosto, senza apparire compiutamente, quasi
anonimo, come avvenne a Miguel de Cervantes. Il cuore stesso è la sua
dimora e il pensare il suo ufficio indispensabile, e persino richiederebbe il
sangue, e lo chiede, in effetti, quando deve inverarsi, facendo dello spargersi del sangue qualcosa di universale. E se apre qualche ferita è la ferita dell’uomo senz’altro; cancella le caratteristiche individuali, si alimenta di
esse, per così dire, o le lascia sotto un velo che accentua il mistero ultimo
di questa vita singolare e, tra tutti insieme, si fa in uno solo e gli conferisce
solitudine essendo in principio per tutti gli uomini. E perciò è veramente
pensiero. È una proposizione ineludibile dell’umano, un teorema, in certo
modo, che si rende vero facendo dell’uomo un uomo vero.
Un pensiero, allora, dotato di vita propria che fa dell’uomo ove abita,
prima che un filosofo o un saggio o un poeta dispiegato, un pensatore, un
meditativo, un essere pensante a ogni ora, fin nei sogni, come è in Antonio Machado, archetipo di questa specie di esseri pensanti.
E poiché da secoli di “cultura occidentale”, allorché si tratta di pensare si intende che deve esserci soltanto o, meglio, essere soltanto colui
che pensa; che, insomma, deve essere un esistente, bisogna mostrare
in seguito che questa specie di pensatore non sarà mai sola, sebbene ci
dica da subito delle sue “solitudini”. Ciò in quanto queste solitudini non
provengono da quel genere di solitudine dell’uomo senza mondo e sen163
za dio, senza essere e senza sogni. E nemmeno dal dubbio alla maniera cartesiana. Bisogna intendere tali solitudini come una pienezza di un
essere balbuziente che si affaccia, con un’innocenza che non perderà
mai, all’universo. E che sa con immediatezza del suo luogo proprio, e
della sua condizione nel pensiero. Sta sotto l’ombra e al fianco del pensiero vivo: dentro l’essere pensante e senza distaccarsi da esso, configurandolo, imprimendovi il sigillo, proprio come alcune creature non
umane ci appaiono, con un marchio nella loro pelle o nel loro guscio o
nelle figure del piumaggio di certi uccelli e che pure, a volte, si mostrano
nelle nuvole.
E così: “Olivo solitario/ lontano dall’uliveto,/ olivo ospitale/ che dai la tua
ombra a un uomo pensoso/ ed a un’acqua trasparente”10 leggiamo in “Olivo del Camino”, che apre Nuevas Canciones. Tutto è rivelatore: l’olivo non
è solo, ma è ospitale come un’anima vivente. Parallelamente a “E tutta la
campagna un momento/ rimane muta e ombrosa/ meditando”11 delle prime
poesie del suo primo libro Soledades. Può sentirsi solo chi sente la campagna meditare? Solitudini e non solitudine, stati dell’essere come “muto”
e “ombroso”, come “solitario”, sentiti immediatamente nelle campagne,
nell’albero, come la trasparenza è sentita e vista nell’acqua.
Sì, sappiamo già che tali espressioni vengono chiamate metafore o trasposizioni e, più conformemente con la terzultima estetica, “proiezione
sentimentale”. Ciò in quanto la mentalità moderna ha rotto con l’immediato eccetto l’immediatezza del soggetto attraverso il suo dubbio, in ciò in cui
non vi è più immediatezza. E non può accettare il sentire diretto di un modo di essere umano originato in una realtà che non giunge all’essere; realtà, certamente sì, ma senza essere, e se si tratterà di esseri, se si percepiscono e vivono tali realtà come ciò che sono (esseri), allora il problema
appare ben diverso.
D’altra parte, l’accusa o almeno la diagnosi di “panteismo”, salterebbe
fuori senza sforzo se ci collocassimo negli schemi del pensare occidentale: è l’uomo e soltanto lui il pensante, è soltanto lui ad avere relazione diretta con la divinità. E sentire il divino e ciò che definisce l’umano così come è il pensiero, dunque in identità, se non è metafora è panteismo. Poiché il pensiero divino così considerato sarebbe divino senza esistere più.
Non ve n’è, almeno.
Ma avviene che il pensiero originale, originario, e al pari universale, non
procede dai modi qui indicati, il suo procedere è altro. Esistenzialmente,
esistenzializzando il soggetto in questione? Ma per definirlo così non vi sarebbe altra difficoltà se non il fatto che non si tratta dell’esistere del soggetto, ma di qualche altra cosa che se si pone in relazione con l’esistere è per
giungere al suo opposto, il dis-esistere. L’uomo in cui tale soggetto del
pensiero unico si annida va rimanendo libero per farsi responsabile in mo164
do immediato, moralmente e anche politicamente, per l’azione, se fosse
necessario un giorno che egli non ha previsto.
Si potrebbe anche dire, cedendo alle ultime formulazioni, che questo
pensiero “struttura” il soggetto, l’uomo stesso. E per esso non si presenta
maggiore ostacolo che il rendersi conto che quest’uomo che si presenta
già in pienezza non è strutturato, ma configurato, conformato. E che si tratta del fatto che il dispiegarsi del suo pensiero dischiuda le possibilità di
pensare e di essere in attivo, mentre il soggetto intimo si va avvicinando
come purificato dalle acque, che mai vengono a mancare, in cui si bagna
alla semplicità prima e ultima, quella di essere creatura vivente e, quindi,
quella di essere senz’altro, nel nulla. In un nulla – come si è visto – che
non lo divora, né gli resiste, e nemmeno lo culla, come se stesse per portarselo di nuovo. In un nulla che viene a essere l’ospitalità del creatore.
È così l’uomo pensoso (pensativo) è protetto dall’olivo solitario, “olivo
della via”, che è andato a stare da solo, proprio per essere sull’orlo della
via ove passano gli uomini, le bestie, la polvere e la via stessa.
E protetto da tale ombra buona (non dimentichiamo che Antonio Machado era dell’Andalusia, ove l’ombra e il fatto che sia buona è qualcosa
di molto rilevante) l’uomo che pensa è in sé poiché è nel luogo del suo pensiero.
È ospitale l’olivo solitario. Ospitale la locanda (venta) o la donna come
in Cervantes – sia detto per inciso: “Bianca locanda / cella del viaggiatore,
/ con l’ombra mia”12 CLIX (Canciones).
La bianca locanda equivale all’olivo ospitale della via, che dà la sua
ombra. Ma qui, l’ombra è la sua, è lui che dà la sua ombra, questa ombra
misteriosa che lo accompagna sempre; la sua a volte, o quella di altri: di
altri o di uno, talvolta quella del più profondo se stesso.
***
E l’amore è innanzitutto e oltre tutto un pensiero d’amore. Un pensiero
e non un luogo come abbiamo cercato di indicare; la campagna, l’olivo e
anche l’ospitalità. E misteriosamente e soprattutto: sogno.
Il pensiero d’amore sfiora la “verità divina” che sta tremando. E non è il
semplice tremito che avvertiamo anche nella campagna, è il venire meno,
una specie di tremito nel proprio cuore tra il risveglio e il sonno: “…Il limone fiorito, il cipresseto dell’orto, il sole, il campo, l’arcobaleno-l’acqua nei
tuoi capelli. E tutto nella memoria si perdeva come una bolla di sapone al
vento”13.
Ma il perdersi, che non giunge a essere oblio, nel cuore-memoria è
qualcosa di cosmico. Il più lontano da un pensiero.
Il pensiero d’amore nasce compiuto (entero). Solo con tale pensiero si
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potrebbe vivere, il che vuole dire che solo tale pensiero prenderebbe tutta
una vita. Ma forse quando il pensiero d’amore si è dato – Dante, Petrarca,
Quevedo… – è stato soltanto ciò che si intende per amore, amore tra uomo e donna? Tra “gazzella e leone”, come analogamente a ciò che si crede stabilito riguardo al pensare e al suo soggetto umano, con l’amore accadrebbe pure. Ovvero, come se l’Amore, esso, vivesse di per se stesso
mentre si crede, e oggi con ostinazione, che l’evento dell’amore potrebbe
darsi soltanto in termini psicologici e sociologici, senza un “a priori”, senza
un pensiero che germina in un essere. Come se qualsiasi uomo si potesse innamorare di Guiomar (compreso lo stesso Antonio Machado in un’altra stagione del suo essere) senza che il pensiero d’amore lo abbia a ciò
disposto. E così, la identificazione di Guiomar con l’esistenza reale di una
donna amata viene a essere accessoria rispetto a quel pensiero d’amore,
senza il quale quell’amore concreto non sarebbe esistito o si sarebbe dato in forma differente. E perché questo pensiero d’amore, che non discutiamo per nulla, potesse giungere a incarnarsi, era indispensabile Abel
Martín. Fu a partire da lui, tramite lui e con lui, se l’uomo reale Antonio Machado giunse a vivere questo amore concreto che sarebbe conferma (corroboración), risposta (se realmente così gli si diede).
Ma, come è stato possibile? Poiché nella metafisica erotica di Abel Martín sembra che l’amata sia impossibile, sarà forse quella che “non accorse
all’incontro”? Leggiamo: “Nella metafisica intrasoggettiva di Abel Martín fallisce l’amore, ma non la conoscenza o, per meglio dire, è la conoscenza la
ricompensa dell’amore. Tuttavia, l’amore in quanto tale non trova oggetto;
detto liricamente: l’amata è impossibile”. E prima: “‘L’occhio che tutto vede
a vedersi esso stesso’ è, certamente, un occhio dinanzi alle idee in attitudine teorica, di visione a distanza; ma le idee non sono che un alfabeto o
un insieme di segni omogenei che rappresentano le essenze che costituiscono l’essere […]. Figlie dell’amore, e in un certo senso, del fallimento
dell’amore. Mai sarebbero concepite senza di esso, poiché è l’amore stesso, o conato dell’essere per superare la propria limitazione, colui che le
proietta sul nulla o zero assoluto che il poeta chiama anche zero divino, come vedremo in seguito. Dio non è il creatore del mondo – secondo Martín
– ma il creatore del nulla. Le idee, dunque, non hanno realtà essenziale,
‘per sé’ sono mere trascrizioni […]. Queste essenze non possono separarsi dalla realtà, se non nella loro proiezione illusoria, e neppure – secondo
Martín – si dà appetizione dell’una verso l’altra, piuttosto tutte le idee aspirano congiuntamente e indivisibilmente all’altro, a un essere che sia il contrario di ciò che è, di ciò che esse sono. Insomma: all’impossibile”.
E così la vera conoscenza corre l’alea dell’amore, come figlia del suo
fallimento. Rimane in piedi risplendendo come una colonna di luce ormai
senza fuoco, diremmo, questa aspirazione delle idee congiuntamente e in166
divisibilmente verso l’altro, come attratte magneticamente da tale impossibile loro contrario, aspirano, diciamo, alla loro stessa distruzione. Poiché
“Non è neppure per Abel Martín la bellezza il grande sprone dell’amore, ma
la sete metafisica dell’essenzialmente altro”. L’altro di chi ama, l’altro di chi
pensa, l’altro di chi guarda. O l’altro in se stesso, come suggerisce, benché qualifichi questa espressione come iperbolica, “come un appassionato culto per la donna”, il fatto che “La donna è il dritto dell’essere”, che non
potremmo senz’altro interpretare come il non-essere in questa forma di
pensiero che non si attiene alle premesse e che, con ancora maggiore decisione, dissolve i contrari o li assoggetta all’eterogeneità dell’essere. Che
cosa sarebbe, ci chiediamo, questo “dritto dell’essere”? Un assoluto, impensabile, ci sovviene.
E che sia impensabile non presuppone ineluttabilmente la sua inesistenza, ma la donna rimarrebbe allora come un assoluto? E l’assoluto può
forse essere uno che ammetta l’altro? O sarà un più in là dell’essere, giacché l’essere non sussiste prima del nulla, del nulla divino. Sarebbe dunque
la donna per l’uomo anticamera della verità ultima raggiunta dal pensiero
nella metafisica di Abel Martín. Ma, si potrebbe vivere? Lo si potrebbe anche come questo “dis-essere”(deseerse) che annuncia, come via negativa
tanto della mistica come di tutta la vita. “Ma nessuno riuscirà ad essere
quello che è se prima non riesce a pensarsi come è”.
E questa via Abel Martín, attraverso Machado, la espone con nitida chiarezza nel fare con tratti concisi la critica del pensare che ancora patiamo. “La
concezione meccanica del mondo – aggiunge Martín – è l’essere pensato
come pura inerzia, l’essere che non è per sé, immutabile e in perpetuo movimento e un turbinio di ceneri che agita, non sappiamo perché e a quale fine, la mano di Dio”. E commenta così questo pensiero originario di Martín.
“Quando questa mano palese anche nel ‘colpetto’ (chiquenaude) cartesiano,
non è tenuta in conto, l’essere è già pensato come quello che assolutamente non è. Gli attributi della sussistenza sono già, in Spinoza, gli attributi del
puro nulla. La coscienza giunge, per ansia dell’altro, al limite del suo sforzo,
a pensarsi come non è, a dis-essere sé. Il tragico erotismo di Spinoza condusse a un limite invalicabile la desoggettivazione del soggetto.
Ed è qui che ci è data la soluzione, l’uscita dall’aporia e dal suo interminabile labirinto poiché egli continua esponendo subito dopo, e separato
nel testo solo da un punto, il pensiero decisivo di Martín, la sua rivelazione: “E come non tentare di restituire a ciò che è la sua stessa intimità?”
Questa impresa fu tentata da Leibniz – filosofo dell’avvenire, aggiunge
Martín – ma può essere consumata dalla poesia, che Martín definisce come “aspirazione alla coscienza integrale”. Ma se la poesia, a sua volta, ci
viene detto, è figlia del fallimento dell’amore, ho qui una figlia che consegue ciò che la metafisica, la conoscenza non può. Si tratta, allora, di crea167
re o almeno di scoprire qualche creazione possibile, una creazione non
dell’altro essere, ma di una congiunzione tra pensare e amore. Forse questa: “Se un granello del pensare ardere potesse, non nell’amante, nell’amore, sarebbe la più profonda verità [ciò] che si vedrebbe”. E solo il vederla, diciamo, ci basterebbe? Ci basterebbe, sebbene la sua azione immediata ci viene enunciata così: “e lo specchio di amore si romperebbe,
rotto il suo incantesimo”14.
“Vuole dire Abel Martín che l’amante rinuncerebbe a quanto è specchio
nell’amore, perché comincerebbe ad amare nell’amata ciò che per essenza non potrà mai riflettere la sua stessa immagine”. Il che ci consegna la
chiave del pensiero che l’uomo Antonio Machado, rinchiuso nei confini delle circostanze sociali, intellettuali e storiche, non poté manifestare da se
stesso. Come avrebbe potuto dirsi, senza allontanarsi dalla sua via, non
soltanto a se stesso, e meno ancora a se stesso, un pensiero, quello centrale di tutta la mistica e segnatamente della più limpida di questo Occidente? – quella di Master Eckhart, che appare in ognuno dei passi del suo
pensiero, un pensiero unico, se ce ne sono stati. Scegliamo questo perché
semplice e adeguato: “Nessuna immagine ci dischiude la divinità né l’essere di Dio. Se qualche immagine o somiglianza permane in te, mai giungerai a essere uno con Dio” – “Sermo surrexit autem Saulus”15.
Non poteva Antonio Machado formulare così per sé questo pensiero e
neppure mediante Abel Martín. Come poeta gli è irrinunciabile l’odore, il sapore, il riflesso. Come pensatore, l’ombra e, come metafisico dell’amore,
l’eterogeneità dell’essere – della donna, come uomo. Come abitante di un
Paese, di una storia, di anima e spirito irrinunciabile (e, sia detto di passaggio, soltanto quando così accade si ha una patria, anche se la si perde). E
attraverso tutto ciò è passato Antonio Machado affermando, al pari della sua
vita, questa specie di “Ars Amandi” della quale osiamo dire che contiene la
metafisica e, pertanto, l’etica di Martín e Mairena. Ma può darsi che differisca dalla mistica di Eckhart – uomo attivo, attento al suo dovere storico nel
suo tempo – l’azione che trasmuterebbe tutto al rivelare la “più profonda verità”. “Se un granello del pensare ardere potesse/ non nell’amante, nell’amore”. Per quanto si sappia, una tale azione divina, umana, o umana e divina
insieme, non è stata mai proposta né qualcuno ha affermato di averla sognata. Si tratta di qualcosa di inedito. Un pensiero d’amore inedito che reclama
il suo luogo proprio là nella costellazione dei pensieri unici, al modo degli
astri e indelebili come loro, indistruttibili finché la vita umana non si smentisce, non si disdice, cosa che oggi non bisogna dare per impossibile.
E possiamo permetterci di identificare questa verità (“il più profondo ciò
che si vedrebbe”) con “la verità divina tremando di paura” nel profondo
specchio dei suoi sogni, vista quando un giorno limpido guardò i suoi beneamati versi?
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La verità divina trema, ci chiediamo, perché si sta riflettendo nello specchio? E se, come insinuavamo nel riferirci ad esse, ci chiede qualcosa di
più dell’essere vista, se forse trema per qualcosa proprio dell’uomo essendo divina, se la verità è un essere divino che richiede l’uomo. Ed è allora
la verità dell’amore che si realizza quando ciò che è uno – l’uno16 – si fa
l’altro, chiedendo all’altro o agli altri che si facciano uno, degli uno nell’amore, salvandosi così dall’eterogeneità dell’essere e degli esseri. E se è
così, nel caso dell’amore uomo-donna si darebbe che questo “dritto” (anverso) dell’essere che è la donna chieda enigmaticamente all’uomo che la
segua più di quanto egli capisca nel modo spontaneo proprio dell’uomo,
che si neghi trascendendosi, e persino inabissandosi. “Grazie, Petenera
mia/ nei tuoi occhi mi sono perduto/ era ciò che volevo”17. Poiché trema anche questa verità divina per fluttuare nel sogno umano. Trema al risveglio
dentro il sogno umano? E allora tremerebbe della storia che procede dai
sogni umani, e richiederebbe una storia limpida, una storia creatrice e trasparente, quella che “l’uomo pensoso” crea unificando l’ombra che ricopre
il suo capo e l’acqua trasparente che senza ombra la accompagna, al margine del cammino, del cammino storico mentre ancora serpeggia.
E così, sebbene conservi qualcosa della sua stessa immagine, giunge
a pensare e amare insieme, nell’intimità dell’essere e della storia. E la storia stessa si farà intima, l’intimità della storia si farà verità manifesta e non
vi sarà contrapposizione tra l’agire e il pensare.
La Petenera è anche una figura della storia che ci guarda.
Il pensiero unico contiene o forse è contenuto nella visione data al poeta Antonio Machado (il suo vero punto di partenza, motore della sua poesia) nella “verità divina” vista nei suoi “Beneamati versi”. Nel “profondo
specchio dei miei sogni” che così come specchio si rivela dandogli i suoi
sogni. Ottenere la rivelazione dei propri stessi sogni dalla poesia e quindi
in essa per diretta visione, è sostanza di poesia e di conoscenza insieme.
Ma sarebbe forse possibile una poesia che non sarebbe conoscenza in se
stessa, pensiero visibile, pensiero nato, cresciuto come un fiore, come si
dice di tale “verità divina”. E così la dialettica tra il vedere e il guardare, tra
l’occhio e il vedere ha la sua radice o fondamento divino ed è cosa d’amore, come è saputo. “L’amore è l’occhio con il quale l’amante vede l’amato”,
enuncia precisando Plotino.
Precisando non solo la tradizione platonica, ma come ogni pensiero sicuro – unico – rende il sentire diffuso e trattandosi di amore particolarmente confuso, che sostiene il cuore umano che non è giunto a essere “maturo di ombra e di scienza”.
Non troviamo indizi che Machado-Martín-Mairena si siano abbeverati in
questo pensiero di Plotino. Ma la filiazione di un pensatore o di un pensare non dipende, come si sa e si dimentica, dalla conoscenza dei testi che,
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d’altra parte, possono essere stati conosciuti un giorno e approfondirsi nel
fondo creatore della memoria.
L’unità indistruttibile del pensiero unico di Antonio Machado si mostra
anche nell’avvio comune delle sua poesie e della metafisica di Abel Martín, il primo dei suoi eteronomi, “poeta e filosofo” che scrisse nella prima
pagina del suo libro di poesie Los complementarios: “I miei occhi nello
specchio/ sono occhi ciechi che guardano/ gli occhi coi quali li vedo”18. E
di seguito: “In una nota, Abel Martín fa osservare che furono questi i primi
versi che compose, e che li pubblica nonostante la loro apparente ovvietà
o la loro marcata banalità, poiché da essi trasse, in seguito, per riflessione
e analisi, tutta la sua metafisica”.
E non è cosa che debba stupirci il fatto che la poesia propriamente detta inizi o si origini in una rivelazione, e che pure la metafisica si dischiuda
o si origini in una rivelazione, ma negativa: “I miei occhi nello specchio” che
danno a conoscere l’esistenza – ineludibile – dello specchio che ogni visione trova ancorché non sia nei beneamati versi, risponde qui a una domanda che, pur non formulata, non manca di essere determinante. Ha posto i
suoi occhi nello specchio e dunque lo guardano ciechi, si guardano ciechi
essi stessi in una identità frustrata.
Dell’identità, asse di ogni verità metafisica, e di ogni vero amore. Non
vi è metafisica che non vada facendosi filosofia in modo ineludibile, intrepido, persino eroico, non in cerca dell’identità dell’essere e del pensiero,
del soggetto e dell’oggetto, ma integralmente, di se stesso e del tutto, della vita e dell’essere, dell’amore uno e molteplice, di ciò che vede e ciò che
è visto dell’amore. Del centro e della circonferenza.
E per giungere almeno alle porte dell’identità o anche soltanto vederla
come possibile – sentendola già – è stato sempre indispensabile eliminare qualcosa della semplice vita e del semplice, dato pensare. Si presenta
almeno una scissura: un abisso o una sola linea, limite; il limite che il pensiero umano deve stabilire, foss’anche soltanto per fare il vuoto indispensabile o la cavità ove corra la via.
Quella via al cui lato si erge l’“olivo solitario” come suo guardiano, l’olivo ospitale che dà la sua ombra all’uomo che pensa alla sua ombra come
nel luogo proprio, vicino a un acqua trasparente, rappresentazione del
Pensare stesso quando si compie. Tale figura poetica del luogo del pensiero unico – a sua volta, l’olivo unico – ci si rivela come un metodo. E la
metafora contenuta in parole tanto concise appare a noi perfetta. Poiché la
via è una separazione in un territorio che prima era unito, un’apertura nell’indifferenziato.
Sentiamo che tale rivelazione negativa che rende possibile la metafisica, il pensare umano, si origina nientemeno che in un atto divino. Lo
enuncia poeticamente Abel Martín e lo commenta, lo rende ancor più
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esplicito “La Metafisica de Juan de Mairena”. E più compiutamente, poiché in soli quattro versi appare la congiunzione dello sguardo con l’atto
creatore del nulla: “Disse Dio: Sorga il nulla./ E alzò la mano destra,/ sino a nascondere il suo sguardo,/ E rimase creato il nulla”19. Gli occhi
ciechi che guardano non nello specchio, ma dietro lo specchio del nulla, “lavagna scura nella quale si scrive il pensiero umano”? E dunque,
dacché esiste tale lavagna, specchio, dacché prorompe il “Fiat umbra”
da dove “sorse il pensare umano”, potrà esserci visione, la visione desiderata dall’amore che è l’unica identità possibile che questo pensiero
ci mostra?
E dice così egli, questo “egli” unico che progressivamente formano
Abel Martín e Juan de Mairena. Giacché se Mairena è altro lo è perché
era chiamato a essere maestro del pensare in un’aula semivuota che è
andata riempiendosi di innumerevoli uditori e, come succede di solito, da
costoro saranno usciti e usciranno alcuni veri discepoli come lui, splendidi e che trasudano ironia: l’ironia indispensabile che suggella l’unità tra ragione e Pietà – la Pietà grande, sebbene sia data in piccole quantità ( al
menudeo).
E così tra la metafisica di tali eteronomi non vi è che complementarietà. Machado spiega questi quattro versi: “Così Mairena simboleggia, seguendo Martín, la creazione divina, mediante un atto negativo della divinità, mediante un volontario accecarsi del grande occhio che tutto vede al
vedere se stesso”.
Dio come il “grande occhio che tutto vede al vedere se stesso” era stato enunciato prima. E prosegue: “Si domanderà: come, se non vi è Problema di ciò che è, dato che l’apparente e il reale sono una e la stessa cosa
[…] può esservi una metafisica?” E Mairena risponde: “Proprio il rendere
aproblematico l’essere, il quale postula l’assoluta realtà dell’apparente, pone ipso facto al tappeto il problema del non essere. E questo è il problema
di ogni futura metafisica”.
Al porre il problema del non-essere, si libera il pensiero poetico, diciamo, come si dimostra precisamente nello stesso Abel Martín, colui che
“trasse” tutta la sua poesia metafisica dai suoi tre primi versi, ovvero da
una intuizione e un sentire poetico (i miei occhi nello specchio/ sono occhi
ciechi che guardano/ gli occhi con i quali li vedo), Abel Martín il teologopoeta, emanazione e rivelazione all’umano, del pensiero poetico come
pensiero divino. Commentando subito il suo sonetto che è alla base del
suo teologizzare, “Al gran Cero”, dice: “Dio dona all’uomo il grande zero, il
nulla o zero integrale, lo zero integrato da tutte le negazioni di quanto è.
Così la mente umana possiede un concetto di totalità, la somma di quanto non è, che serva logicamente da limite e frontiera alla totalità di quanto
è”. E ripete: “Fiat umbra. Sorse il pensiero umano”.
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“Si intenda: il pensare che rende omogeneo – non il poetico che è già
pensiero divino”.
Si dà nell’uomo, grazie al poeta, il pensiero divino. Ma, e il vedere?
Quale alea corre?
E che di vedere si tratta e, pertanto, di un Dio della visione, lo mostrerebbe a sufficienza la supplica dell’uomo. Poiché, come già scorgiamo, si
può identificare il dio in cui l’uomo crede mediante la supplica che non può
mettere a tacere l’essere questo dio il suo. E la troviamo precisamente nel
componimento poetico offerto in qualità di Abel Martín (i complementari
ove si offre ancora una volta la rivelazione negativa): “Mostrami, oh Dio! La
prodigiosa mano/ che fece l’ombra: la lavagna oscura/ ove si scrive, il pensiero umano”.
E questa supplica, al modo di quasi tutte le suppliche nate dal più profondo, rimane nel testo senza commento. Curiosamente, nella poesia, nella metafisica stessa, in tutto quello che l’uomo “crea” ed esprime, ciò che
più rivela rimane senza spiegazione, così come succede nei sogni. La verità intima, il motore della profondità ultima, è già molto che appaia. La verità profonda (entrañable) rimane qui come abbandonata, come se uscisse da sé stessa. Poiché la verità è così imparentata con il sogno che si fonde in esso. La verità umana che l’uomo grida al suo dio, o soltanto a se
stesso se non ha o non crede di avere dio, è come un sogno. Il suo sogno
originario. La sua verità.
E prima, nel periodo che diremmo ingenuo della poesia di Antonio Machado, prima che Mairena e Martín fossero nati o prima che si mostrassero, troviamo… Ma ancora prima, nelle non molto frequenti apparizioni della luce, “Luz en sueños” (Galerías), la luce, medio della visione diretta, della visione vera, immediata è forse nei sogni? Troviamo in Nuevas canciones in “Iris en la noche” [“Arcobaleno nella notte”] una vera preghiera della visione. “E tu, Signore, per il quale tutti/ vediamo e che vedi le anime,/
dì a noi se tutti un giorno,/ dobbiamo vederti il volto”20.
Sarà questa forse la “più profonda verità”, rotto lo specchio che mantiene ammaliato l’amore? Amore che muore per vedere e che trema per essere visto.
E questo amore deve continuare così? Il pensiero poetico, che è “pensiero divino”, non lo ha riscattato perché è cosa di visione. E vi è solo la visione oltre lo specchio, sia quello dei sogni o della lavagna oscura che il
dio cieco per sua volontà tese all’uomo che deve riflettere. Dovrebbe verificarsi un’azione divina, o forse umana, se fosse possibile all’uomo disporre di un granello di pensare interamente divino, interamente pensare. Non
appare alcun riferimento al “pensiero di pensiero” del Dio di Aristotele il cui
atto è vita, pensiero puro che non è creatore come il Dio della tradizione
ebraico-cristiana che Martín rifiuta. Ma il nulla, esisterebbe senza questo
172
atto creatore? È ben certo che tale nulla di Martín-Mairena non è il nulla
propriamente detto, ma uno specchio, una lavagna, un luogo dato al pensare umano. E dal pensare divino, poetico nell’uomo, è dove giunge come
possibile il riscatto. Deve accadere qualcosa di straordinario, quasi impensabile, perché si verifichi la congiunzione pensiero-visione, senso della visione e dell’amore insieme, dunque vita. Ed è unicamente l’amore il luogo
ove può darsi. Ha aspetto di preghiera, e di recondita preghiera timida e
ardente, un arcano che infine si dischiude, quel sonetto ove leggiamo: “Se
un granello del pensare ardere potesse/ non nell’amante, ma nell’amore”,
si romperebbe l’incantesimo dello specchio e sarebbe la più profonda verità quella che si vedrebbe. Si vedrebbe veramente. E veramente si amerebbe. Sarebbe veramente vita, noi diciamo. E l’amore non tremerebbe.
Farebbe ardere e arderebbe senza estinguersi.
(traduzione dallo spagnolo di Nunzio Bombaci)
da “Segni e comprensione” n. 66, anno XXII, settembre-dicembre 2008.
Scritto contenuto nella lettera inviata ad Agustín Andreu il 3 agosto 1975, in M. ZAMCartas de La Pièce (correspondencia con Agustín Andreu), Pre-Textos, Universidad Politécnica de Valencia, Valencia 2002, pp. 260-274. Il frontespizio è dattiloscritto e
il testo, pure dattiloscritto, contiene delle correzioni autografe. [Tutte le note, meno la nota 7, sono del traduttore].
2 “Muéstrame, ¡oh Dios! La portentosa mano che hizo la sombra: la pizzarra oscura
donde se escribe el pensamiento humano”.
3 “Leyendo un claso día / mis bien amados versos, / he visto en el profundo / espejo de mis sueños / que una verdad divina / temblando está de miedo. / Y es una flor que
quiere / echar su aroma al viento”.
4 “Si un grano del pensar arder pudiera, / no en el amante, en el amor, sería / la más
honda verdad que lo se viera”.
5“Dí ¿Por qué acequia escondida, / agua, vienes hasta mí, / manantial de nueva vida /en donde nunca bebí?”.
6 Qui, diversamente dall’esergo, l’autrice cita in modo erroneo “Mirando un claro dia”
anziché “Leyendo un claro dia”.
7 Cfr. G. F. LESSING, Estudios Filosoficos y Teólogicos, Anthropos, Barcelona 1990,
pp. 402 ss. [ *Gesammelte Werke. Philosophische und Teologiche Schriften. Bd. 8, Aufbau-Verlag, Berlin 1956; segnalo la più recente edizione italiana: Opere filosofiche,
UTET, Torino 2006], ove Jacobi attribuisce, scandalizzato, a Lessing l’opera poetica Prometeo, la cui concezione della divinità è spinoziana. Ed è curioso che un uomo come Jacobi credesse ormai inutile occultare e ostacolare lo spinozismo dopo che Diderot aveva pubblicato certe cose, e che Leibniz aveva pubblicato il Nuovo Sistema della Natura
[Das neue System (Système nouveau de la nature et de la communication des substances, aussi bien que l’union qu’il y a entre l’ame et le corps, 1695), in G.W. LEIBNIZ, Klei1
BRANO,
173
ne Schriften zur Metaphysik. Philosophische Schriften, Bd. 1, Suhrkamp, Frankfurt am
Main 1965; edizione italiana in Scritti filosofici, UTET, Torino 1967, 1979, 1986, 2000].
Pertanto Jacobi vedeva in Leibniz l’ombra del nefando ebreo. Se lo sapessero certi leibniziani! [N.d.A.]
8 “No puedo cantar ni quiero / a ese Jesús del madero / sino al que anduvo en la mar”.
9 “Corazón maduro de sombra y de ciencia”.
10 “Olivo solitario, / lejos del olivar, junto a la fuente, / olivo hospitalario / que das tu
sombra a un hombre pensativo / a un agua transparente”.
11 “Y todo el campo un momento / se queda mudo y sombrío, / meditando”.
12 “Blanca hospedería, / celda del viajero, / con la sombra mía”.
13 “…El limonar florido, el cipresal del huerto, el sol, el campo, el iris – el agua en tus
cabellos –. Y todo en la memoria se perdía como una pompa de jabón al viento”.
14 “y el espejo de amor se quebraría, roto su encanto”.
15 Cfr. la conversione di Paolo di Tarso nel capitolo 9 degli Atti degli Apostoli dove però non il termine Sermo.
16 “lo uno – el uno”.
17 “Gracias, Petenera mía: / en tus ojos me he perdido / era lo que yo quería”. Abel
Martín scrive in realtà “por tus ojos…” anziché “en tus ojos..” La petenera è un canto andaluso di carattere melanconico e sentimentale, la cui denominazione costituisce una
corruzione del nome di una cantante, La Petenera, originaria di Paterna de Rivera, presso Cadice. La parola designa inoltre un ballo eseguito esclusivamente da donne, accompagnato per lo più dal suono delle nacchere. Un componimento poetico di matrice popolare ravvisa nella Petenera una donna crudele con gli uomini. Riferimenti alla Petenera
si colgono anche nell’opera di Federico García Lorca.
18 “Mis ojos en el espejo / son ojos ciegos che miran / los ojos con que los veo”.
19 “Dijo Dio: Brote la nada. / Y alzó la mano derecha, / hasta ocultar su mirada, / Y
quedó la nada hecha”.
20 “Y tú, Señor, por quien todos / vemos y que ves las almas, / dinos si todos un día
/ hemos que verte la cara”.
174
ITALO MANCINI*
CRISTIANESIMI SPURI E IL «NON ANCORA»
DEL CRISTIANESIMO (1978)
Ci sono delle questioni che ritengo decisive per l’essere dei cristiani ed
essere capaci di offrire una visione pulita e produttiva del cristianesimo, di
cui non ci si debba vergognare, stando nel centro delle notti umane.
Come continuare a credere, come persistere nell’essere cristiani pur
volendo rimanere totalmente uguali; cristiani ma totalmente uomini? Fu anche detto in forma più generale: come dare forma mondana e quindi valore politico alla realtà cristiana che sembra andare per tutt’altra strada –
sembrerebbe che il cristianesimo non avesse niente a che fare con la logica del mondo –, come dare forma politica e valore mondano a questo, che
sembra per definizione sopramondano? La questione può essere espressa con le parole di Lukàcs: «Può vivere ancora l’uomo su cui si è posato
lo sguardo di Dio?»1.
Può continuare a vivere l’uomo su cui si è posato lo sguardo di Dio? Se
io ho intuito l’eterno o se Dio si è posato su di me, posso continuare a vivere? cioè a vivere la vita mondana, a stare insieme agli altri nelle opere e
i giorni quotidiani? Detta in termini negativi la questione potrebbe essere
espressa in questo modo: c’è ancora spazio per il mondo, c’è ancora una
considerazione per quelle che ho chiamato le «opere» i «giorni» dell’uomo
quando si è avuto notizie, sia pure per fede, della realtà di Dio e del suo
disegno? Come dire: ci può essere un novum, una novità quando già si
possiede il totum di una polemica garbata, commossa? Se un cristiano ha
il totum, non può avere il novum, perché nel totum la storia è tutta pre-contenuta? Eppure per un altro marxista coma Bloch, nel Geist der Utopie, i
tre termini sono: novum, totum e fronte: non semplicemente un sapere ma
un fronte di lotta.
In vista di quella che ritengo la risposta pura, la risposta buona per queste domande, intendo prospettare prima tre risposte che chiamerei «spurie», storicamente forse finite, certamente destinate ad essere messe in
crisi – e sono resistenti come vedremo – tutt’altro che facile metterle in crisi e toglierci l’anima.
La prima forma di questo nesso, che ho chiamato «forma spuria» ossia
forma non più riproponibile, è quella di natura integralistica della società
medioevale: la società medievale è detta «con bontà». Infatti, come cate175
goria, non è ancora morta, se in essa è da vedere «il tarlo che rode ancora l’evangelo». In Con quale Cristianesimo, ho indicato nel neo-integralismo, nei suoi vari aspetti, il nemico mortale con il volto della caduta di fronte all’impresa di tener desto un senso non volgare del cristianesimo.
Perché, se pure ebbe un senso, e una grandezza, nell’età di mezzo,
nell’età medioevale l’esigenza del sacrum imperium, lo stato adulto del
mondo oggi, non lo sopporterebbe più se non a prezzo di quello che Bonhoeffer chiamava «eteronomia nella forma del clericalismo», cioè i clerici
che eteronomizzano il mondo. Si ebbe certo allora una germinazione di tutto il corpo sociale da parte del fermento cristiano; si ebbe certo una gestione solidale dell’Europa organica, unitaria, del corso del mondo; si ebbe
una lingua, una fede, una cultura, una politica, un vero patrimonio comune: si ebbe certo una penetrazione, ma anche un intasamento del sacro e
da parte del sacro di tutti i pori e di tutte le cellule del sistema vitale, ma il
prezzo pagato fu alto. È questo prezzo che non intendiamo pagare più.
Mancò un vero umanesimo, mancò l’autonomia della considerazione dell’uomo, della natura e della storia, mancò quel vero umanesimo come ebbe a denunziare, fin dal 1936, proprio Maritain nel primo capitolo nel suo
Umanesimo integrale.
Soprattutto la storiografia è relativa di entrambi gli abusi del «sacro».
Ancora nelle Storie fiorentine (Cronica) del Villani si fa agire il peccato come responsabile di insuccessi meramente tecnici; la forza del demonio viene ad interrompere il corso naturale e volontaristico della storia. Non esiste in questa forma, in questa soluzione, il valore della laicità che viene assunto nell’arca dei chierici e si direbbe che tutta la legislazione del tempo
non fa che spandere la «regala» monastica facendo quasi del mondo una
proiezione della struttura monasteriale. Nonostante il fatto che resista ancora oggi, come categoria, il momento dell’integralismo si può dire però
che l’esperienza medievale è anche storicamente conclusa.
Per effetto della rottura con l’età precedente e parte per effetto di continuità (sempre con l’età precedente) è nata la forma rinascimentale del
rapporto fra Chiesa e Mondo, fra cristianesimo e Storia. Io ritengo che il Rinascimento nel quattro-cinquecento e primo ventennio del seicento rappresenti un’epoca più storica che categoriale, ma anche categoriale, che
ha dato una sua soluzione al nostro problema come l’aveva posto il medioevo. Una forma rinascimentale che, a motivo di questi due fatti – la continuità col medioevo e la rottura col medesimo –, risulta dualisticamente
giusta, positiva. Il momento mondano e laico porta séco come un elemento un po’ estraneo l’elemento ideologico che però non muore. Sono due
grandezze portate avanti con una giusta posizione che non fonde, non salda, non articola il motivo. I grandi scritti dell’età propriamente umanistica
come di quella tardorinascimentale, con Bruno e Campanella ad esempio,
176
come nella terza ondata agli inizi dell’età moderna, con Galileo, sono altrettante conferme di questo dualismo non placato, grandi tormenti e grandi roghi di questa età dove non si vuole smettere di essere cristiani e non
si è in grado di essere totalmente moderni. Da Tolosa alle lunghe stagioni
della ricerca di Campanella a Napoli, a Campo dei fiori di G. Bruno ci sono decine di processi. Anche un soggetto come Pico della Mirandola ne
ebbe: in tutte queste persone c’è un tormento per una saldatura non avvenuta. Basti l’esempio del De Voluptate di Lorenzo Valla. Mentre si professa cristiano nel «proemio» e dice di mantenere il senso della realtà della
fede, fa sua la dottrina epicurea, e cioè che il piacere è il solo bene e che
lo sviluppo del corpo è l’unica certezza, contaminando così la giacitura storica del Dio post-dottrine, quella cristiana e quella epicurea. Nonostante il
tono scherzoso, si manifesta la drammatica ondatura del libro.
Analogamente il De hominis dignitale di Pico della Mirandola intende
metter pace – si parla di pace all’inizio –, intende fare conciliazione tra
l’essere creatura, quindi subordinato a Dio dell’uomo, e la sua energia
prometeica. Marx diceva che Prometeo è da fare santo e da mettere nel
calendario. E anche in questo modo il problema rimane giustapposto e
non placato. È indubbio il riscatto, talora l’esplosione del mondo naturale
storico-umano, però il cristianesimo ha subito uno snervamento, un depotenziamento in questa vicenda. Anche se è rimasto, noi non potremmo riprendere l’ideale rinascimentale, perché ci troviamo di fronte ad un cristianesimo che, pur persistendo, finisce per essere la doratura e la copertura puramente esangue di un mondo che, in definitiva, vive nelle sue midolla intime di ben altra vita. Il cristianesimo diventa una grandezza dotta,
quella che chiamerei «il religionismo» che emerge dalle sintesi delle religioni storiche, tutte riconducibili a questa unica religione come grandezza
naturale. Ad una religione così estenuata, non si poteva chiedere molto
per la vita morale e politica e neanche per la vita sociale dell’uomo. Tant’è vero che, quando si volle potenziare la religione in vista di quella renovatio o di quella palingenesi che dà i brividi a tutta questa età e che non
è certo risolta dalla ripresa degli antichi, si dovette appoggiare alla qabbalah ebraica, al neo-platonismo, all’«eroico furore» di Giordano Bruno, a
quel comunismo plebeo contadino, dai beni delle scienze occulte all’astrologia, alla magia, all’alchimia, allo stesso rosacrocismo in grossa ripresa
nei nostri studi.
L’istanza pura e forte del cristianesimo fu gestita ai margini della cultura ufficiale. Penso alla guerra dei contadini, nel 1525, al fenomeno dell’anabattismo, alla corrente puritana. Se ne trassero grandi frutti sociali, le
migliori rivoluzioni fra il cinque e seicento, ma nel cristianesimo ufficiale tutto questo non avviene. Se la storia passa sempre per la vie maestre non
hanno ragione tanti giovani di credere che la storia passa anche attraver177
so i suoi margini, attraverso quello che si chiama il marginalismo; mentre
è certo che, in questa stagione, i fenomeni più produttivi contestativi e rivoluzionari del cristianesimo si trovano in questi «fenomeni» marginali, fenomeni fondamentalmente rifiutati e ingabbiati, quando non strangolati dalla società ufficiale. È una vera cultura alternativa, quasi uno spettro per
l’Europa che nel pensiero ufficiale, quello che noi studiamo nei manuali, e
neanche la gestione della Chiesa ha fatto proprio, accumulando così una
responsabilità storica di inadempienza che esplode nel ribellismo dei giovani, delle donne, delle caserme, della polizia. Ho il convincimento che
quella grande eruzione di pensiero radicale, sia a livello laico come a livello religioso, avvenuta nella età rinascimentale, fu compressa fino al punto
che oggi riesplode con un ribellismo che fa paura, ma che ha tutta la sua
giustificazione per una serie ininterrotta di inadempienze che tanto le chiese, o la chiesa, tanto la cultura ufficiale e gli stati che la sorreggevano hanno su loro, hanno sulla loro coscienza. Nonostante quest’ultimo fenomeno
del ribellismo alternativo, anche le seconda forma non è più proponibile:
cristiano in sacrestia, cristiano che sulla piazza dimentica come era questa
giusta posizione dell’età tardorinascimentale.
Nello sviluppo che ho fatto c’è la chiave di lettura dei movimenti giovanili e femministici di questo momento.
Sono convinto che questi fenomeni, nonostante la brutale irruenza con
cui colpiscono la nostra quiete, hanno una giustificazione che parte di là,
da quei secoli, da quelle intraprese culturali, che sono state spente e mortificate sull’altare della cultura del potere ufficiale. Ecco che allora non era
del tutto ozioso partire tanto di lontano.
Tra il sette e l’ottocento prese corpo la terza forma della soluzione di
questo rapporto, cioè tra fede e realtà mondana, chiesa e promozione
umana. È la forma che indicherei come la grande stagione del cristianesimo che si fa borghese (la parola grande non è messa per caso), del valore di questo cristianesimo anche nel suo disastro. Ho parlato di ciò, nel
saggio introduttivo all’edizione italiana dello scritto di Barth, La teologia
protestante del secolo XIX. In quest’opera di Barth è descritta meravigliosamente la grande avventura del cristianesimo che, di fronte all’irrompere
della borghesia creativa, accetta la sfida, ne esce vittorioso ma dissanguato, tanto che oggi non possiamo rivivere e riproporre la forma o lo spazio
borghese per la realtà cristiana.
E allora uno si chiede: l’integralismo medioevale, no; la forma giusta
positiva rinascimentale, no; la soluzione borghese, no. Cosa resta? Il problema è di creare insieme il cosa resta, il quel che viene dopo. Di fronte alla borghesia nascente, il cristianesimo non solo si è cimentato ma ha retto, con la resistenza grandiosa, ma a prezzo di una grande riduzione.
Grande perché legata a uomini come Rousseau, come Lessing, come
178
Kant, come Herder e come Schleiermacher: ciascuno, a suo modo, ha
mantenuto, però riducendolo nel suo valore, il cristianesimo.
In ciascuno di questi, il cristianesimo ha ingaggiato una grande battaglia ed è sopravvissuto permeando, come nell’hegelismo, tutta la stoffa e
la sostanza di filosofie immense che sono forse le più immense filosofie
gestite dalla civiltà moderna. Il prezzo pagato è qui davvero alto, e si tratta di un sequestro di cui ancora oggi facciamo fatica a districarci. Ricordo
soltanto alcuni di questi sequestri avvenuti nel cristianesimo che diventa
«affare di Stato».
Pensate a questo fenomeno, alle ripercussioni che ancora oggi ha, il
cristianesimo che è diventato un affare di Stato: il cesaropapismo che è
una iattura enorme; però ancora noi riteniamo tranquillamente che il cristianesimo sia non un affare di grazia, ma un affare di Stato. Poi, la permeazione filosofica del cristianesimo, per cui quello che è «inaudito», quello
che è «assurdo» in fondo, la grande intuizione di Tertulliaino, è brutale,
l’abbiamo levigato, abbiamo leso un osso che non dà fastidio alla gola, abbiamo fatto del cristianesimo una religione facile. Invece pensate al tormento di un Péguy, al tormento di Bernanos, di coloro che sentivano nel
cristianesimo la impossibilità di questa levigatura, quasi fosse un fenomeno «rococò». Poi c’è la riduzione così detta «moralistica», ossia il cristianesimo che vive unicamente in funzione della vita morale. Kant è stato il
grande responsabile dell’aver ridotto il cristianesimo ad un ausilio per la vita morale, invece di pensarlo come un’avventura totalmente «altra», nei
confronti di quella onesta moralità che possiamo acquisire con le nostre
mani. Soprattutto è responsabile di aver dato un valore esclusivo all’individuo e alla coscienza. Il fenomeno del coscienzialismo, cioè il cristianesimo
che vive tutto all’interno delle pareti dell’anima, per cui una volta in pari con
te stesso, crepi il mondo. Un problema come popolo, come società, come
comunità, come metro di misura, la realizzazione carnale del cristianesimo, tutto questo è scomparso. Ricordiamo la grande lamentazione di Péguy di Notre Jeunesse, sulla scomparsa di quella religion peuple, nello
spazio borghese. Quando alla fine dell’ottocento si fanno i conti, ci si accorge che il frutto di questa grande operazione era veramente tragico. La
cultura cristiana, e la sua creatività, era diventata grama e languente. Non
c’è periodo più sterile della seconda metà dell’ottocento. I fenomeni e i valori dei fenomeni sempre giudicati individualisticamente. La crisi operaia e
l’esplosione dell’organizzazione capitalistica, nella produzione della ricchezza e nell’impiego del lavoro e, infine, quel nazionalismo le cui ripercussioni sono state anche nel novecento ed hanno prodotto i campi di concentramento, che sono fenomeni nati all’interno dell’area cristiana e che
sono la vergogna eterna dello spazio cristiano, poco importa se protestante o cattolico: questo è il bilancio della grande stagione borghese.
179
Della estrema sponda di questa avventura – vissuta seriamente, vissuta con tanta tragedia –, noi facciamo un bilancio storico, forse anche ingeneroso per qualche persona. Sull’estrema sponda di questa avventura,
che era pure sorta in modo affascinante e legata ai vertici della civiltà moderna, riappare con Cristo l’uomo crocifisso e risorto. Come Uomo, Cristo
dice un’immersione totale nel mondo, il prender su di sé con noi la fatica
della terra e del suo riscatto, il grande amore per l’uomo, che viene messo
al centro affinché realizzi in pienezza la sua redenzione anche come realtà terrestre, realtà storica. C’è un’immagine di Péguy molto bella. Quando
parla dell’incarnazione dice: «L’incarnazione deve entrare nelle vene e nell’arterie della storia» non per intasarle con il dominio, ma per aprirle, per liberarle, visto che non impone nuovi pesi, ma toglie i pesi storici. In quanto crocifisso. Gesù manifesta che il mondo non può essere benedetto in toto, non può essere lasciato giacere così com’è, perché le forme del potere e del dominio esigono continuo contrasto, esigono che il credente applichi, anche sul piano politico, le categorie, nate in suolo mistico, dell’abbandono e dello svuotamento. Così, quella con il mondo, si rivela una unità polemica, una unità di lotta, tanto da realizzare quella doppia constatazione
di Giovanni: Dio ha tanto amato il mondo e il mondo è posto totalmente sul
maligno.
Infine, in quanto risorto, Cristo è l’anticipazione di un mondo nuovo, è
la prefigurazione di quella patria sempre intravista e mai posseduta, che
blocca le ultime righe della speranza, chiama l’ultimo segreto dell’uomo.
È una dialettica non facile, totalmente mondana, per cui si è totalmente staccati e proiettati nella prefigurazione di questo mondo della promessa alla quale il Dio resta fedele. Dal punto di vista pratico, l’atteggiamento
che scende da questa forma di rapporti, può essere indicato, con le parole di Pascal, «fare professione dei due contrari». Pascal dice proprio questo: il cristiano deve fare le professioni dei due contrari, fedeltà a Dio e fedeltà alla Terra. Fare professione del secolare che tenacemente va mantenuto e rispettato e mai azzannato. Fare professione del teologo ringhiosamente difeso, senza nessuna identificazione che profanerebbe il teologico
e clericalizzerebbe il profano, quello che Barth chiama il «cortocircuito».
Quante realtà mondane e laiche vengono investite dalla cataratta del sacro; il sacro si sperpera come un seme che va a male, e il mondano si lacera nella sua identità: è qui il cortocircuito. Tanto il sostantivo, come l’aggettivo finiscono per essere bruciati. Si tratta certo di una posizione scomoda, anche tragica, dando alla parola un significato meno irruente. Deve
rendere il cristiano pensoso, deve rendere non facile il cristianesimo e soprattutto deve liberarlo dalla risorgente tentazione di ridurre il messaggio.
Pascal disse egregiamente questa prospettiva, egli che aveva vissuto
la notte di fuoco e di gioia nella quale aveva sentito Dio. C’è il famoso te180
sto che portò sul cuore fino alla morte: la notte, come la chiama lui, di fuoco e di gioia dove sentì Dio, non il Dio inutile di Descartes, che dà il colpettino e il mondo va, poi si ritira beatamente nella sua sede, ma il Dio dal nome proprio vivente, il Dio di Àbramo, di Isacco e di Giacobbe. Questo medesimo Pascal, così furiosamente arso dal fuoco di Dio, passa gli ultimi anni della vita studiando i teoremi della cicloide, dichiarando la geometria il
più bell’impiego del mondo, cioè con la vita laicamente e profanamente
esaustiva. Se uno riuscisse a dare ad un tempo il senso di questa profanità totale di questa religiosità o teologicità consumante, direi che dà lo stile
del cristiano «nuovo», almeno come io oso immaginarlo e trepidamente invocarlo.
Dal punto di vista sostanziale, si tratta di vivere fra i tempi. Noi siamo
fra il tempo dell’evento avvenuto e il tempo dell’avvento non ancora totale.
E in questa tormentosa situazione del possesso e della mancanza, noi
possediamo la Bibbia, e l’istituzione, la Chiesa, la Santità, la grande tradizione, il cuore antico del cristianesimo, però non possediamo la seconda
venuta di Cristo, cieli e le terre nuove, tutte quante le promesse palingenetiche. Ora, vivere in questo è strazio, che tale è fra i tempi dell’evento seriamente avvenuto, se no sarebbe una mitologia la nostra, se non fosse legata al «seriamente» avvenuta ma anche dell’avvento che da esso dev’essere la pienezza. Questo di avere e non avere, di essere e non essere, è
un po’ il tormento, ma anche la grandezza. Le ideologie, sono identiche,
sono «seriali», dice Sartre. Il cristianesimo non ha identità esaurita, c’è un
novum, c’è un «non ancora» di cui non sappiamo.
La seconda questione può essere espressa in questo modo: quali sono i conti aperti dalla cultura di ieri, e dalla sensibilità di oggi, ancora non
saldati. C’è un conto della cultura moderna che non è stato ancora saldato. Quali sono i recuperi del marginalismo passato, di quelle culture alternative cui accennavo ricacciate violentemente nell’ombra e che debbono
essere fatte? Quanto si tratta ancora di pagare, perché finalmente il corso
del pensiero moderno sia placato e il cristianesimo in se stesso, che in fondo lo ha ispirato, non sia uno scandalo e una imperdonabile inadempienza? C’è uno scandalo di inadempienze, c’è una resa di conti (ecco il ribellismo) di fronte al quale non possiamo tacere. Ed ora, quale prezzo si tratta ancora di pagare e su che linee? Sta oggi venendo quella che chiamerei egemonia radicale.
Qui non tratto un problema alla ribalta, quello della crisi, o di una certa
crisi, dell’egemonia marxistica. Vorrei invece fissare l’attenzione sull’emergente egemonia radicale. Questa, più che sulla economia, punta sulla dignità dell’uomo sulla base di categorie sociologiche e sulla fatalità manipolativa delle medesime. Quindi non più puramente economiche, ma sociologiche; la manipolazione diventava la vera fonte dell’alienazione. C’è un
181
recente pensiero marxista francese, Foucault e Deleuze, per esempio, che
spiega i dinamismi dell’alienazione con quella che chiamano la microfìsica
della funzioni. Ossia, non sarebbero i rapporti di lavoro e neanche i rapporti sociali; il guaio grosso starebbe nel fatto che dentro di noi ci sono pulsioni erotiche che nella società attuale non trovano un rasserenamento creatore, per cui diventano la vera fonte alienante.
Il trapasso dalla interpretazione puramente economicistica a quella che
viene chiamata la microfisica delle pulsioni, è già avvenuto. Anche al radicalismo interessa molto il problema del corpo, l’espansione del corpo. Se uno
leggesse il De voluptate di Lorenzo Valla lo potrebbe chiamare della corporeità. Però, esistono già tradizioni come quella che ho ricordato a cui potrei
anche aggiungere il Saggio sulla liberazione (1969) di Marcuse, dove la novità viene considerata quella legata alla rottura della base biologica.
Occorrono occhi fermi per scrutare le vene profonde dei secoli passati; in superficie c’è tanta retorica e c’è tanto conformismo. Ci vogliono occhi fermi per scrutare le molteplici distanze del prodotto radicale, di cui il ribellismo odierno, pure tanto fastidioso per la nostra quiete clericale e di
comportamento, il ribellismo delle autonomie studentesche, quello delle
femministe, quello che arriva dalle carceri, non è che il tremendo scoppio
fragoroso dopo la lunga compressione. Si pensi come si siano incattiviti fra
le mani i temi del diritto di famiglia e della stessa lotta per il diritto che la
mancata rivoluzione liberale in Italia non ha fatto maturare al tempo giusto,
come invece è avvenuto altrove. E allora, pur con tutto il terrore di questo,
delle P. 38 per esempio, che può essere considerato l’estremo limite del ribellismo, io non posso accettare la condanna in blocco senza un esame
serio, da quale scaturigine può essere nato un controsenso di questo tipo.
Ecco allora perché il radicalismo, che ritengo la cultura egemone, oggi non
solo in Italia, va considerato, sì, come fenomeno che assume, ed ha assunto, forme patologiche, ma anche istanze che scendono da quella cultura compressa lungo l’arco dei secoli moderni che vanno presi seriamente
in esame se non si vuole ancora una volta arrivare decisamente in ritardo.
Allora indicherò, senza nessuna pretesa di compiutezza, quattro segni
di queste istanze radicali gestite ma non realizzate nel corso dell’età moderna ed ora esplose nella furia del ribellismo che, almeno per questo, merita il nostro rispetto e l’attenzione più accurata e non semplicemente la
condanna moralistica!, che non serve a nulla, se non a mettere apparentemente la coscienza a posto.
La prima di queste istanze riguarda Dio. Pensate ad uno che debba
riannunciare Dio nell’Areopago del radicalismo egemone. Quale Dio, quale volto di Dio? Dio è la sua trascendenza. Questa va certo difesa, senza
la trascendenza non avrebbe alcun senso la fede, quando nella rivelazione ci dice le «parole di Dio», che sarebbe Dio, il divino senza la sua tra182
scendenza? Quando si parla delle «gesta dei» (passaggio del Mar Rosso,
la resurrezione di Cristo), sono eventi di Dio. Oppure, quando si parla di
Chiesa di Dio, che senso avrebbe il di Dio senza la trascendenza? Però
non ci si può fare abbacinare da una trascendenza spaziale. Quell’altissimo «di Dio», tanto vicino al trono dei potenti, fonda e nel suo faraonismo
si sottrae alla logica della croce e della sua impotenza mondana lasciando, come ha scritto Bloch, «il servo a bocca asciutta».
Un Dio faraonico, zeusico, ammantato da una trascendenza spaziale
ontologica è un Dio che non è un Dio. È un Deus minime Deus pro nobis
e non corrisponde all’immagine dell’impotenza mondana ma della potenza
teologica che manifesta il Dio biblico e che, pertanto, si presenta come colui che prende l’uomo in conto e non semplicemente lo rende un suddito
come il Faraone. Cioè, per usare una formula, dirci: invece di trascendenza fra Enti che ricreerebbe una specie di lotta di classe – gli enti superiori
nobili imperituri e gli enti inferiori destinati alla perdizione; al luogo della trascendenza fra enti, parlerei della trascendenza fra tempi. Il Dio cristiano e
trascendente nel senso che al tempo della perdizione, al tempo dell’alienazione, presenta una trascendenza di un tempo riscattato, di un tempo di libertà, «libero uomo su libero suolo» secondo una formula che avrebbe
compreso lo stesso Bloch. Ora, un Dio che ha immagine biblica della sofferenza, è un Dio che ha una trascendenza temporale, ossia legata al riscatto dell’uomo, e un Dio che può essere ripredicato in tutti gli Areopaghi.
Ed è un Dio che fa per noi, quello che ci permette di far nostro l’impulso
che viene da Cristo.
Il secondo segno è quello che si propone il tema del corpo e che vuole svincolare la materia del materialismo. Noi abbiamo assistito a tutta
l’operazione fatta dalla cultura idealistica che permea anche i nostri testi
scolastici, dove i filosofi della materia sono sempre i filosofi, i parenti poveri, perché la materia è sempre materialismo. C’è materialismo meccanicistico, quello che fa il ritmo dell’uomo uguale al ritmo dell’atomo, del cane e
della scimmia, quel materialismo volgare contro cui ha scritto pagine grandi, all’inizio della Sacra famiglia, Marx. Ma non sempre, anzi, sempre non
la materia è necessariamente questo materialismo: è stata troppo sbrigativa da parte delle false alture spiritualisliche l’operazione riduttiva della
materia del corpo a forme di materialismo così fatto. È chiaro che non si
tratta di fare del corpo un assoluto. Questa assolutezza pretesa del corpo
non esiste e non può esistere: il linguaggio, è stato teorizzato recentemente nella cultura francese, nella filosofia francese, nasce per la insufficiente
comunicazione da parte del corpo. Il corpo non è totalmente comunicazione, ha bisogno, perché la comunicazione sia completa, del linguaggio.
Beethoven ha avuto bisogno della parola, di comporre il grande inno alla
gioia, perché la parola sembrava dare una dimensione ulteriore al grande
183
suono della «nona» sinfonia. Cos’è avvenuto? Affidandosi unicamente alla logica del corpo, privata delle logica dello logos, della parola, l’autonomia è finita in una solitudine esasperata che soltanto la P. 38 rompe senza il consenso, senza la partecipazione; perché il consenso e la partecipazione possono venire soltanto dal corpo, ma debbono venire attraverso la
dialettica, cioè attraverso il dialogos, il logos che diventa uno stadio fra noi.
Quindi, la tematica del corpo può avere questa insidia di solitario solipsismo, quando non venga presa nella sua integralità. Anche l’esasperazione, come quella ora indicata nel radicalismo più tipico del nostro tempo,
essendo però di un’istanza vera che è da recuperare nel senso in cui, in
Véronique, Péguy parla di «àme charnelle», e con essa fonda quella comunicazione sociale che pare uno dei punti nevralgici del grande Péguy:
cioè la libertà e la autorità. Il terzo senso è ancora legato a un senso di Péguy, quello già ricordato della religion peuple. Come quello di corpo, anche
quello di popolo è un’invenzione biblica, è un dato biblico. Il mondo greco
non ha concetto di corpo e non ha neanche il concetto di popolo. Son due
valori biblici che noi abbiamo speso e consumato nella gestione borghese
e che dobbiamo recuperare come nostra grande tradizione. Popolo da
considerare non in senso immediato e spontaneistico quasi che il popolo
produca autonomamente il suo valore. Per usare una terminologia hegeliana, dirci che il popolo è un valore a sé ma non per sé, se non gli diamo
la chiara coscienza del suo valore; quel valore e un tesoro nascosto che
non viene mai pagato. È un po’ la distinzione marxiana tra proletariato cosciente e l’umile proletariato. In altre parole, non si intende fare credito allo spontaneismo populistico, come una certa letteratura russa degli anni
venti. Se a livello di società civile il valore popolo si attua attraverso la mediazione dei partiti e della realtà sindacale, a livello di società cristiana la
mediazione si attua attraverso la Chiesa nella gestione più aperta delle sue
forme. Certo, anche la religiosità popolare merita rispetto. Talora dà voce
ad uno spavento esistenziale diversamente non noto. Però, i suoi più interessati dinamismi non vanno disgiunti dal fecondo rapporto con la viva ecclesialità. Se il Concilio tridentino ha potuto diventare egemone per vari secoli nella storia cristiana lo deve certamente alla fioritura delle congregazioni religiose. Penso che il Vaticano II, potrà diventare, ancora uso
l’espressione di Péguy, «sangue nelle vene e nelle nostre arterie della storia» attraverso le chiese locali che devono ritrovare il loro nome e la loro
vocazione particolare. Che cento fiori fioriscono da questo punto di vista,
una comunione che rispetti la fedeltà di base essenziale ma, che peraltro,
germinino con una abbondanza tipica.
Ma i princìpi? La Bibbia non è un libro di principi: è un libro di nomi propri. La Bibbia è là dove ci stanno Abramo, Isacco, Giacobbe, il nome santissimo di Maria, quello grande di Gesù, sono nomi, sono individualità, col184
locazioni, sono risposte e non questa astratta e mortificante sequenza di
princìpi a cui vorremmo ridotto il nostro discorso e il nostro vivere.
Come ultimo segno, vorrei indicare l’istanza della gioia e, se non sembrasse volgare, l’istanza del piacere. Queste quattro istanze che vengono
dalla cultura radicale cristiana hanno il suo vero volto come autentici valori:
una trascendenza particolare, il tema popolo, il tema carne e ora il tema Gesù. La gioia e il piacere, che sono legati ai bisogni elementari corporei e materiali dell’uomo, non vanno considerati privi di una loro funzione autonoma,
tanto che li si vuole sempre rendere eteronomi verso traguardi morali e spirituali, li si vuole sempre legalizzare, quasi che mangiare un frutto in un certo modo non possa avere un valore per sé. Se noi vivessimo con semplicità quella pagina biblica che dice: «Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il
tuo vino con cuore», perché Dio ha già capito le tue opere in ogni tempo, le
tue vesti siano bianche e il profumo non manchi sul tuo capo, godi la vita
con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita, che Dio ti conceda sotto il sole, perché questa è per la tua sorte nella vita che soffri sotto il sole!
Non vogliamo certo arrivare all’immoralismo di Nietzsche, per cui confine e
limite per l’uomo sono quello che egli può sopportare. In fondo, non ha fatto male a mostrare in Al di là del bene e del male, a quali aberrazioni conduca il dogma che l’uomo può fare tutto quello che può sopportare; quando
i sensi crollano è il segno del limite ma, oltre questo, non c’è un aldilà.
Non è certo questo che si vuol dire, ma non vogliamo neanche far nostra quella categoria del contemptus mundi, contro di cui già Maritain in Le
paysan de la Garonne aveva rivolto la sua critica. A ripensarci bene, non
sono queste le istanze radicali che l’età moderna ha gestito e che la stagione attuale propone? Al di là dell’estremismo spiegabile, d’altronde, con
la lunga e cocente serie di inadempienze, non sono esse da prendere in
seria considerazione per la realizzazione di quel modo nuovo di essere cristiano che non si vergogna certo del già fatto, ma punta necessariamente
al non ancora?
Il cristianesimo è stata una grande stagione, noi non possiamo pensare di risolverci e ridurci e consumarci nella serialità della ripresa. Non si vogliono porre argini alla fantasia creativa della cristianità. L’informazione,
che volevamo più modestamente portare alla coscienza critica, implica un
triplice fatto di cui si deve tener conto e da cui si deve partire:
1) il grande nodo del cristianesimo di ieri e di oggi è sempre questo: come far diventare movimento «dentro la storia» l’«oggetto immenso». Questo rimane il problema di sempre. Fu nel medioevo, nell’età umanistica, fu
nell’età borghese. Come farlo diventare movimento, cosa che si muove,
che si aggrega nella storia.
2) Nel recupero di questa soluzione, una soluzione, non si può non tener conto del motivo, della ragione di queste forme di civiltà. E anche que185
sti fatti che abbiamo alle spalle, hanno qualche insufficienza nella divina
società della chiesa, pronta a investire i problemi che ci stanno intorno, e
anche nella crisi teologica.
3) Sarebbe un fatto politicamente sconvolgente, creativo, se i cristiani
si decidessero a proporre al mondo un evangelismo forte e puro, non in
maniera ingenua, ma con sulle spalle tutto il travaglio critico e culturale delle grandi sperimentazioni passate, con l’intento di invitare il mondo, non
solo a crescere ma a mettersi davvero in pari con la sua logica di progresso e di civiltà.
Penso che sia l’ultima mia parola, questa. Io credo che il gesto più radicalmente politico che i cristiani possono compiere nel fare diventare movimento l’Oggetto immenso, è quello di rappresentare al mondo un evangelismo forte e puro, senza nessuna volontà di frattura ma, unicamente,
una grande volontà di servizio a contatto, o a fianco, degli altri, senza nessuna volontà di divisioni ideologiche.
da “Segni e comprensione” n. 19, anno VII, maggio-agosto 1993
* Pubblichiamo la trascrizione inedita di una relazione tenuta da Italo Mancini a Santa Maria di Leuca, il 7 gennaio 1978, in uno dei periodi più duri nella nostra storia civile.
[Il titolo è redazionale].
1 LUKÀCS, L’anima e le forme (1911), Milano, 1963, p. 305.
2 D. BONHOEFFER, lettera del 26 Luglio ’44, in Resistenza e resa, Milano, 1969, p. 264.
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EMMANUEL LÉVINAS
PÉGUY E LA CULTURA OCCIDENTALE (1989)
a cura di Marisa Forcina
In occasione del “Colloque” internazionale su “La réception de l’ouvre de Charles Péguy en France et à l’entranger” (Orléans, 17-19 novembre 1988), abbiamo condotto una
indagine tra alcuni significativi esponenti della intelligencija occidentale. Attraverso “Segni e comprensione” pubblichiamo in anteprima, rispetto al volume complessivo, le risposte di Lévinas.
Le domande rivolte erano le seguenti:
1) Conosce Péguy?
2) Quale ruolo Péguy ha avuto nella Sua formazione culturale?
3) Quale ruolo ritiene che Péguy abbia avuto nella storia culturale del suo Paese?
4) Come lo situerebbe politicamente?
5) Quale ritiene sia stato l’apporto di Péguy in letteratura?
6) Quale contributo ritiene che Péguy abbia dato nel settore filosofico?
Le risposte di Leévinas sono state da noi tradotte dal francese.
Emmanuel Lévinas
1) Conosco poco l’opera di Péguy. Ne ho letto un poco durante gli anni Venti. La conoscevo maggiormente partendo da citazioni. Conoscenza
indiretta – o ignoranza – tanto meno scusabile perché si accompagna a
una ammirazione per la sua vita, per il suo patriottismo liberato da ogni
ostilità, per il suo coraggio in occasione dell’affaire Dreyfus, per la sua
comprensione della spiritualità ebraica, esente da ogni condiscendenza,
per il suo cristianesimo dagli accenti popolari nuovi e dove ai vertici dello
spirito circolano le immagini dell’infanzia.
2) Una funzione di complemento.
3) È una delle fonti dell’umanizzazione di tutta una “nobiltà crudele”, di
tutta una serie di valori compromessi dall’esclusivismo aristocratico-sociale e intellettuale.
4) A sinistra.
5) Tutti i testi della letteratura moderna che ricorrono al linguaggio popolare, quotidiano o crudo, non certo per rendere un colore locale, ma per
esprimere con esso la decenza menzognera d’una parola divenuta retorica – devono molto alle audacie di Péguy.
6) Forse una nuova attenzione risvegliata per l’unico nelle cose e negli
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esseri. Io vorrei riportare un ricordo di studente. A Strasbourg, un giorno,
nel 1924, una versione latina proposta agli studenti era un brano delle
Confessioni di Sant’Agostino. Il professor Grenier, grande latinista, durante il corrigé accostava lo stile di quel brano alla maniére di Péguy.
TERESIA MARGARETA DRÜGEMÜLLER
EDITH STEIN NELLA VITA DEL CARMELO1 (1989)*
da “Segni e comprensione” n. 6, anno III, gennaio-aprile 1989
“Ho sempre percepito che il Signore mi riservava qualcosa che avrei
potuto trovare soltanto nel Carmelo!”2 Queste le parole di Edith Stein,
quando chiese di essere accolta nel Carmelo di Colonia.
Il 14.10.1933 passò “nella pace più completa l’uscio della Casa del Signore. Non potevo provare un’immensa gioia, perché ciò che avevo lasciato dietro di me era troppo doloroso.”3 La cosa tanto dolorosa era l’addio alla madre e ai fratelli. Che le fosse costato molto, lo si notava dall’espressione seria, stanca e triste del suo viso quando fu presentata alle abitanti
del convento come postulante Edith Stein. La filosofa che nel mondo degli
scienziati era nota e stimata, entrò in convento con la più completa semplicità e umiltà.
Ben presto iniziò a prendere parte alla quotidianità del Carmelo. Edith
Stein era un’artista delle cose quotidiane. Nulla le è stato risparmiato, e
nulla le è piovuto dal cielo. Anche lei ha dovuto lottare duramente.
Quando Edith Stein giunse al Carmelo di Colonia, aveva già percorso
una lunga via. Da giovane si era allontanata completamente da Dio, tanto
che si era volutamente imposta di non pregare più. Poi però, l’incontro con
cristiani credenti riavvicinarono questa ebrea dalle molteplici doti alla fede
ed a Dio e quindi anche alla fede in Gesù Cristo, il Crocifisso4.
L’1 gennaio 1922 fu battezzata e il 2 febbraio dello stesso anno ricevette la Cresima. Sperava di essere subito ammessa nel Carmelo, ma dovette piegarsi al fatto che, avendo causato tanto dispiacere a sua madre con
il suo battesimo, ora non poteva recarle anche questo dolore. Le porte del
Carmelo si aprirono per lei soltanto dopo undici anni trascorsi svolgendo
attività di insegnamento nelle scuole e di ricerche scientifiche, dando conferenze e occupando per un breve periodo fino alla primavera del 1933 un
posto di docente presso l’Istituto Tedesco di Pedagogia Scientifica a Münster. “Finalmente aveva tutto ciò che fuori le mancava e non le mancava
più nulla di ciò di cui fuori disponeva.”5
Che idea ci eravamo fatta noi giovani novizie su chi fosse questa postulante Edith? Cosa sapevamo della sua carriera scientifica che dovette
interrompere? Vedevamo soltanto una postulante Edith 42enne che sembrava inserirsi in maniera molto naturale nel nostro noviziato. La madre
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priora e la direttrice delle novizie erano dell’avviso che sarebbe stato meglio per tutti se noi novizie non sapessimo nulla. Solo a poco a poco e per
caso venimmo a sapere chi fosse veramente la postulante Edith. Già nelle prime ore di ricreazione ci raccontò di sua madre, di suo padre deceduto, dei fratelli e delle sorelle. Noi eravamo curiose e non avendo ricevuto
alcuna notizia da parte della direttrice delle novizie, ponemmo a lei tante
domande a cui rispose con tanta disponibilità.
Così avvenne che un giorno la postulante concluse i suoi racconti con
la frase seguente: “Come saprete i miei famigliari sono ebrei!” La direttrice
delle novizie non era molto contenta del fatto che la postulante svelasse
così presto la sua provenienza ebraica, e le fece l’appunto, ma questa rispose con la massima amabilità: “Se ora devo condividere con le mie consorelle piaceri e dolori, è giusto che anche le mie consorelle condividano
con me piaceri e dolori e sappiano che sono ebrea.” Questo me lo riferì la
direttrice delle novizie quello stesso giorno. Attraverso i miei conoscenti
venni a sapere chi fosse la nostra postulante Edith che nel frattempo si
sforzava di assumersi gli impegni quotidiani nel Carmelo.
Intanto, la nuova postulante trovò nel Carmelo la sua nuova patria. Il
suo viso serio, ancora marcato dalle tracce del difficile distacco da casa,
col tempo si rasserenò fino a cambiare completamente la sua persona e
farla sembrare 20 anni più giovane. In un primo periodo, la postulante visse serenamente. Si impegnava con noi a penetrare sempre più a fondo
nello spirito dell’Ordine. Trascorreva le giornate con la preghiera comune,
la meditazione e il lavoro. Amava moltissimo la preghiera corale. Dal suo
battesimo aveva pregato ogni giorno il breviario romano dopo le sue intense giornate di lavoro. Ora poteva pregare e cantare nella comunità delle
suore. Quanto amava i salmi, queste preghiere millenarie del popolo di Dio
a cui apparteneva anche lei.
Glorifica il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion.
Perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.
Annunzia a Giacobbe la sua parola,
le sue leggi e i suoi decreti a Israele.
Così non ha fatto con nessun altro popolo,
non ha manifestato ad altri i suoi precetti. (Salmo 147)
Possiamo partecipare anche noi alla gioia del popolo che sa di essere
il popolo eletto tra i popoli della Terra. Sin da piccolo l’ebreo sa che la nuvola della magnificenza divina lo accompagna. Ovunque egli si trovi in
questo mondo, la magnificenza divina sta sopra di lui. Egli porta sempre in
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cuor suo le parole delle Sacre Scritture: “Questo popolo è figlio di Dio!”6 Anche Sr. Benedicta, in quanto figlia di Israele, era cosciente di essere eletta, anche se con la massima umiltà. Era meraviglioso vederla così tutta dedita a Dio e anche figlia del Popolo Eletto di Dio. Era un’ebrea, ma sottolineava sempre anche “ebrea tedesca”7, così come anche sua madre e i
suoi parenti si definivano sempre “ebrei tedeschi”. Questa coscienza e certezza conferiva a Sr. Teresia Benedicta una grande forza interiore che traspariva.
Non solo durante la preghiera corale, ma anche durante la meditazione vedevamo una persona totalmente abbandonata in Dio. Dal canto suo
era molto restia a parlare della sua preghiera: “Quando mi immaginate al
mio posto, non vedetemi con il saio bianco …, ma nel vecchio abito marrone, piccola, per terra. Allo stesso modo anche le mie riflessioni non sono alti voli della mente, bensì quasi sempre umili e semplici. Sono però
sempre permeati dalla gratitudine per aver ricevuto questo posto come patria terrena e tappa verso la patria eterna.”8 Se sottolinea che le sue riflessioni erano quasi sempre umili e semplici, significa che c’erano anche delle eccezioni. Ma ne riparleremo più avanti.
La vita quotidiana della postulante Edith prevedeva, oltre alle ore dedicate alla preghiera, anche molto lavoro. Molte ore di lavoro nel Carmelo di
Colonia erano dedicate alla ricerca scientifica, in particolare alla rielaborazione di uno scritto che sarebbe diventato l’opera Essere finito ed essere
eterno 9. Tuttavia c’erano da svolgere anche i lavori di casa, come riordinare e pulire. Ogni suora è responsabile di un determinato ambito della casa. Anche alla nuova postulante fu conferito un ambito. Dovevate vedere
con quale dedizione faceva le pulizie, con quanto slancio e in che modo
maldestro! Ma con il tempo la postulante Edith imparò come usare la scopa al meglio, come passare lo straccio e tanti altri lavori di questo genere.
Considerava il fatto di essere maldestra nei lavori di casa come “una
scuola dell’umiltà, dove si devono fare cose che si riesce ad eseguire soltanto con grande fatica e in maniera imperfetta.”10 Con le parole della moglie di suo cugino Richard avrebbe potuto dire: “Tutte queste cose sono
tanto più difficili, quanto più sono distanti dalla (Filosofia).”11
Svolgendo queste mansioni non perdeva mai il buon umore. Era buffissima quando durante la ricreazione descriveva le sue avventure con scopa e strofinaccio. D’altra parte le dispiaceva non essere stata istruita, da
giovane, almeno in alcune faccende di casa.
La vestizione della postulante fu una grande festa, proprio come, un
anno più tardi, la professione dei voti. La postulante era diventata una
novizia, la novizia una suora professa. Come scrisse ad una amica religiosa, aveva “portato con sé” il nome di “Teresia Benedicta della Croce”,
“poiché è sotto la croce che compresi il destino del popolo di Dio che al191
lora cominciava già a delinearsi. Pensai che coloro che comprendevano
che si trattava della Croce di Cristo, dovevano caricarsela sulle spalle nel
nome di tutti. Oggi so molto meglio di quanto non sapessi prima del mio
ingresso in convento cosa significa essere sposa di Dio nel segno della
Croce.”12 La Croce di Cristo faceva parte imprescindibile della vita quotidiana della nostra consorella Teresia Benedicta. Pativa molto quando veniva a sapere del destino toccato ai suoi parenti, amici e conoscenti. In
quegli anni del Nazismo cresceva sempre più il disprezzo nei confronti
degli ebrei.
Sr. Teresia Benedicta lavorava con grande lena alla sua opera scientifica Essere finito ed essere eterno, con la speranza di farla stampare al più
presto. In un primo momento tutto sembrava filare liscio. Poi però subentrarono grandi difficoltà. “Non so ancora cosa succederà riguardo alla pubblicazione di quest’opera. Se si realizzasse, sarebbe il mio regalo d’addio
alla Germania”13, scrisse poche settimane prima della sua fuga.
Giunse la notte del 9 novembre 1938, la cosiddetta “Notte dei cristalli”, in cui le orde con le camicie marroni importunarono, minacciarono e
intimidirono gli ebrei su tutto il territorio del Reich tedesco. Furono distrutte anche preziose opere d’arte, furono incendiate le sinagoghe. I nazisti
giravano sbraitando per le strade e schernivano gli ebrei urlando brutte
canzoni.
Sr. Teresia Benedicta ammutolì quando venne a sapere tutto questo.
Per non mettere in pericolo il nostro convento, chiese subito di essere trasferita nel nostro convento associato di Echt nei Paesi Bassi. Poco dopo
Natale, le formalità erano sbrigate. Questa festa di Natale nel Carmelo di
Colonia fu adombrata da tutti gli avvenimenti recenti. In una lettera natalizia, Sr. Teresia Benedicta scrisse: “Più intenso si fa il buio attorno a noi, e
più dobbiamo predisporre il nostro cuore a ricevere la Luce dall’alto.”14
Il 31 dicembre 1938 fu il giorno del difficile addio dal Carmelo di Colonia. Tutte le suore si erano riunite nella sala di ricreazione. Lei pronunciò
ancora qualche parola di ringraziamento e poi abbracciò ogni suora, una
dopo l’altra. Quando fu il mio turno, fui capace soltanto di pronunciare il
suo nome. Diede un singhiozzo di pianto, ma si riprese subito e passò alla prossima suora per abbracciarla e dirle addio.
“Non esiste consolazione umana, ma colui che impone la sua croce, sa
come rendere dolce e leggero il fardello … Con la macchina che mi condusse qua potei ancora andare nella Schnurgasse e ricevere la benedizione della Regina della Pace. Non ho bisogno di descrivere quanto l’addio
alla cara famiglia conventuale fosse difficile!”15 Queste le parole scritte ad
una amica religiosa. Ad un’altra amica invece confidò in una lettera: “Ho
iniziato [l’anno] davanti al Santissimo assieme alla mia nuova famiglia conventuale. Lei può ben immaginare quanto fosse doloroso l’addio a Colonia.
192
Ma sono di nuovo nel Carmerlo e circondata da caloroso amore materno
e fraterno. Questa casa fu fondata dalle Carmelitane di Colonia che nel
1875 furono cacciate.”16
Come nel Carmelo di Colonia, anche a Echt Sr. Teresia Benedicta si
dedicò ai suoi lavori di ricerca nella speranza di portare a termine finalmente la stampa della sua opera Essere finito ed essere eterno. Si preoccupava dei suoi fratelli e delle sue sorelle rimasti a Breslau. Alcuni fecero in tempo ad emigrare, altri non volevano andare via dalla loro patria tedesca. Essa pregava per tutti i bisogni e tutte le pene di cui veniva a sapere e nelle
sue lettere pregava i suoi interlocutori di ricordare nelle loro preghiere lei e
le sue preoccupazioni. I giorni trascorsi nel Carmelo di Echt si facevano
ogni giorno più cupi, anche se l’immenso amore fraterno e la grande comprensione alleviavano un poco le pene.
È su una via molto stretta che Sr. Teresia Benedicta saliva verso la cima del Carmelo. La Guerra Mondiale si allargava sempre più. Anche i Paesi Bassi erano minacciati. Il 29.10.1939 essa scrisse in una lettera: “… La
grande opera [Essere finito ed essere eterno] si è arenata.” Era svanita
ogni speranza di poter ancora pubblicare l’opera. L’editore (Borgmeyer,
Breslau)17 aveva perso ogni possibilità. Essa ne parla in questi termini:
“Ogni tentativo è fallito. Non so più cos’altro fare se non mettere tutto nelle mani del Signore. Visto che il lavoro di correzione si è ormai interrotto,
ho chiesto di poter lavorare in casa … Mi è stato affidato il refettorio. Si aggiungono anche lavori in comune nella grande casa di campagna, molti
panni da lavare, tante pulizie e così via.”18 A tempo perso produsse ancora qualche testo più breve, ma accanto ai lavori in casa non le rimaneva
più molto tempo. Così descrisse in una lettera i suoi sentimenti: “Da quando sono qui, il sentimento fondamentale è quello di grande gratitudine perché posso stare qui e perché la casa è così com’è. Sono però continuamente cosciente del fatto che qui non sarà la nostra patria per sempre.
Non voglio altro se non che attraverso di me avvenga la volontà di Dio. A
Lui spetta decidere quanto mi vuole lasciare qui e cosa verrà dopo.”19
Forse presagiva già cosa le sarebbe successo? “È necessario pregare
molto per rimanere fedele in ogni situazione”20, scrisse in un’altra lettera.
Anche i Santi sono uomini che soffrono amaramente del male inflitto loro,
ma cercano di sopportarlo seguendo il Signore crocifisso. “Non si può desiderare di essere liberati dalla croce se si porta il titolo della Croce” osservò in una lettera del 17.11.1940 indirizzata ad una carmelitana21. Giorno
per giorno Sr. Teresia Benedicta ha sentito il peso della sua croce e ha ridetto il suo “sì”.
A partire dal maggio del 1940 anche i Paesi Bassi furono coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale. Il futuro si profilava sempre più buio.
Nell’autunno di quell’anno ricevette l’incarico da parte dei suoi superio193
ri di scrivere un lavoro su San Giovanni della Croce in occasione dell’imminente 400° compleanno del Santo (1542-1942). Sr. Teresia Benedicta
raccolse il materiale e si mise subito al lavoro.
Per la nuova opera che stava redigendo scelse il titolo di La scienza
della Croce. Sicuramente questo incarico ridiede un po’ di slancio a Sr. Teresia Benedicta. Sin da giovane era abituata a lavorare di mente. Che le
fosse mancato si evince anche dalla lettera succitata in cui scrive: “Sono
grata di poter ancora fare qualcosa prima che il cervello mi si arrugginisca
completamente.”22 Come lavoro propedeutico scrisse il breve articolo “Le
vie verso la conoscenza di Dio – La teologia simbolica dell’Aeropagita e i
suoi presupposti oggettivi.” Ricominciò a dedicare ogni minuto libero alla
scrittura.
Nel frattempo – il 12.10.1941 – si festeggiò nel convento il suo 50° compleanno. Fu rallegrata da una piccola rappresentazione teatrale che descrisse in una lettera: “Ho visto non soltanto Abramo, ma anche Enoch e
Noè, Isacco e Giacobbe, Mosé ed Aronne, Davide, Elia ed Eliseo. Abramo
era una figura rispettabile. In Mosé spiccava soltanto il naso e per il resto
era piccolo e gracilino; sul retro delle sue tavole della legge c’era la lista
della spesa della settimana scorsa. Questa notevole rappresentazione è
stata possibile perché al momento abbiamo un noviziato eccezionalmente
numeroso in confronto alla norma nel Carmelo.”23
Qualche settimana più tardi raccontò che sua sorella Frieda era stata
evacuata dalla casa materna dai Nazisti e portata in una “comunità abitativa di ebrei” con l’obbligo di prestare servizio. Lì viveva con undici signore nobili di Breslau in un vano sotto il tetto. Il fratello maggiore era in attesa di subire una sorte simile. Sua sorella Rosa invece era riuscita a rifugiarsi in tempo nel Carmelo di Echt. Il peso di queste notizie gravavano come un macigno su Sr. Teresia Benedicta, poiché amava moltissimo i suoi
fratelli e le sue sorelle.
Dovette sperimentare ancora altre delusioni dolorose. Ma accolse ogni
amarezza per seguire sempre la Croce di Cristo. Verso la fine dell’anno
1941 (non è nota la data precisa) scrisse: “Si può ricavare una Scientia
Crucis [scienza della Croce] soltanto se si prova sulla propria pelle tutta la
pesantezza della croce. Di questo ero convinta sin dal primo momento e
ho quindi pronunciato ‘Ave Crux, spes unica’ [‘Ave, Croce, nostra unica
speranza!’]”24.
Da anni sentiva gravare su di sé la croce con tutto il suo duro peso. Si
sentiva profondamente addolorata dall’ideologia del nazionalsocialismo,
dall’amarissimo destino del suo popolo ebreo con tutti gli aspetti collaterali, dalla dura guerra che portava il popolo all’estrema povertà. Aveva presentito già da diversi anni che si stava avvicinando una catastrofe ed aveva offerto a Dio la sua vita per impedire il disastro. Si aspettava aiuto sol194
tanto da Dio, perché aveva capito che l’aiuto umano in questa immensa
miseria non bastava. “Ho fiducia che Dio ha accettato la mia vita. Mi viene
spesso di pensare alla regina Ester che è stata allontanata dal suo popolo proprio per poterlo rappresentare davanti al re. Sono soltanto la sua poverissima, impotente, piccola Ester. Ma il Re che mi ha prescelta è immensamente grande e potente. Questa è la mia consolazione!”25 Queste le sue
parole rivolte ad un’amica religiosa.
Era consapevole della sua situazione precaria e di quella di sua sorella Rosa. Una notizia funesta dopo l’altra giungeva anche nella solitudine
del Carmelo di Echt. Sr. Teresia Benedicta chiese di poter emigrare in Svizzera. Le trattative si trascinavano. In fondo, però, essa sperava, “che la situazione non si modificasse prima della fine della guerra”26.
Cercarono di intervenire delle persone per aiutare. La mettevano in
guardia, la supplicavano di poterla nascondere. Ma Sr. Teresia Benedicta
rifiutava. Nel frattempo lavorava senza sosta alla Scienza della Croce, forse perché inconsciamente sentiva che le sarebbe rimasto pochissimo
tempo27.
Non c’è dubbio che le ore di preghiera e il lavoro dedicato alla Scienza
della Croce alleviarono le pene di Edith Stein in quel periodo. Scrivendo
con rigore scientifico della vita e della dottrina di San Giovanni della Croce, essa svelava, senza volerlo, la sua propria vita mistica nella grazia. Sapeva di aver ricevuto una grazia straordinaria. Sapeva che nella sua vita
Dio l’aveva condotta e guidata. Sapeva che Dio l’aveva raccolta e l’aveva
chiamata vicino a sé dopo che ella si era allontanata da Lui. Sapeva che
Dio le aveva regalato tanta conoscenza piena della Sua luce.
Nella Scienza della Croce descrisse sicuramente la via del santo padre
del suo ordine, San Giovanni della Croce, ma non si può non notare come
contemporaneamente riferì anche delle sue esperienze. Sapeva per esperienza personale di cosa scriveva nel passo seguente: “Se un non credente venisse sorpreso dalla grazia, la dottrina della fede che egli fin’ora non
ha ancora accettato, dovrebbe venirgli necessariamente in aiuto per portarlo a raggiungere la conoscenza del fenomeno del quale viene ora afferrato… Non è una condizione necessaria che la grazia sia insita nell’anima
di una persona per poter essere toccata nell’intimo. Questo contatto può
condurre un non credente incallito ad avvicinarsi alla fede e può essere donato come preparazione all’accoglienza della grazia che santifica. Può anche fungere da mezzo per rendere utile un non credente a determinati fini
… Se il contatto avviene in un’anima che non è in grado di accogliere la
grazia, con esso dovrebbe essere donata anche la grazia che santifica e
presupporrebbe necessariamente un pentimento completo.”28 In questo
passo Sr. Teresia Benedicta rivela senza dubbio la sua esperienza riguardante il grande dono della grazia di Dio.
195
Partendo da queste parole non è difficile trovare il collegamento con la
confessione che proprio la lettura della Vita della nostra santa Madre Teresa del Bambin Gesù pose fine alla sua lunga ed ostinata ricerca della verità29. Infatti negli anni passati aveva ricercato incessantemente la verità.
Nelle esperienza mistiche di Santa Teresa essa vide le sue proprie esperienze interiori e le riconobbe come “verità”. Ora sapeva con certezza da
“Chi” il suo intimo era stato toccato. Dio stesso le rivelò il Suo segreto. Riconobbe Dio come non lo aveva mai conosciuto in passato, e riconobbe le
proprie profondità che in passato le erano rimaste celate. Avendo ricevuto
la grazia di Dio, fece l’esperienza dentro di sé del “fuoco di Sion”, e il suo
amore per Cristo assomigliò al “braciere di Gerusalemme”, come possiamo leggere nella sua opera Scienza della Croce. Era certa di questo: Tutto è grazia. Così proseguì nella sua preghiera: “Tu mi dai una conoscenza
divina che riempie tutta l’abilità e la capacità del mio intelletto! Tu mi infondi l’amore sino al limite di capienza della mia volontà, sommergendo la sostanza dell’anima mia con il torrente del piacere provocato dal tuo contatto e dal tuo congiungimento sostanziale.”30
Mentre il suo spirito si innalzava fino alla più alta unione mistica, Sr. Teresa Benedicta sperimentò l’estrema minaccia alla sua esistenza e soprattutto alla vita di sua sorella Rosa che aveva molta paura e che si aspettava tutto l’aiuto da lei. Le trattative per emigrare in Svizzera avevano preso
una piega che lasciava sperare ben poco. Nell’ultima lettera che scrisse
ancora dal Carmelo – o che comunque è conservata – leggiamo: “C’è molto dubbio sul fatto se riceveremo il permesso di emigrare. Sembra in ogni
caso che ci sarà molto da attendere. Non sarei però triste, se non arrivasse per niente. Perché non è facile lasciare per la seconda volta una cara
famiglia conventuale. Ma accetto tutto quello che Dio mi manda!”31 Quando Sr. Teresia Benedicta scrisse queste righe il 29.7.1942, i nazisti avevano già stabilito la sua sorte e quella di tutti gli ebrei cattolici.
La domenica del 26.7.1942 in tutte le chiese cattoliche si lesse una lettera pastorale dei vescovi olandesi: si trattava di una protesta contro la persecuzione degli ebrei. Per vendetta la domenica successiva – il 2.8.1942
– i nazisti arrestarono tutti gli ebrei cattolici, anche Sr. Benedetta e sua sorella Rosa Stein. Più di 900 ebrei furono internati nel campo di concentramento di Drente-Westerbork.
Iniziò così un periodo molto doloroso. Dal campo giunsero ancora tre
brevi lettere indirizzate al Carmelo di Echt. Nella lettera del 5.8.1942 si legge: “Abbiamo fiducia nella vostra preghiera. Qui ci sono così tante persone bisognose del conforto, ed esse sperano di riceverlo dalle suore.”32 Nelle sue ultime righe scritte il 6.8.1942 dal campo pregò di mandarle il breviario aggiungendo: “Fin’ora sono riuscita a pregare benissimo.”33
Tutto ciò che era umanamente possibile fare in una tale situazione, Sr.
196
Teresia Benedicta tentò di farlo per dare conforto e forza alle persone impaurite. Si occupò dei bambini le cui madri, stravolte dal dolore, non avevano la forza di prendersi cura di loro.
La mattina del venerdì – il 7.8.1942 – prestissimo gli ebrei cattolici internati furono trasportati verso Est. Quindi venerdì e sabato furono gli ultimi giorni della vita di Sr. Teresia Benedicta e di così tante altre persone arrestate con lei. La domenica – il 9.8.1942 – il trasporto giunse alla meta: il
campo di lavoro di Auschwitz. Lì furono separati i giovani capaci di lavorare dagli altri che furono subito caricati sui camion e portati nel campo di
sterminio di Auschwitz-Birkenau. La stessa domenica – il 9.8.1942 – furono uccisi tutti, probabilmente con gas velenoso.
Si racconta che molti ebrei andarono ad incontrare la morte cantando
i Salmi, tanto che le loro voci si udivano per tutto l’ampio piazzale del
campo.
Anche Sr. Teresia Benedicta non può che aver confermato anche in
questa ora difficile la sua completa dedizione a Dio e l’offerta della sua vita per le pene dell’epoca. Era divenuta tutt’uno con il suo Signore in Croce. Così come Dio l’aveva innalzata fino alle cime della vita mistica, così
l’aveva anche accolta nell’ultima ed estrema imitazione di Suo Figlio in
Croce. Egli l’ha portata a compimento e l’ha donata alla Sua Chiesa come
colei che è benedetta dalla Croce.
Edith Stein, figlia del popolo di Israele ed ebrea tedesca, era nata il
giorno della Riconciliazione del Popolo di Dio. “Mia madre dava molta importanza a questo fatto, e credo che questo, più di ogni altra cosa, abbia
contribuito a renderle tanto cara questa sua figlia più giovane.”34
Questa grande donna potrebbe essere presa ad esempio come anello
di conciliazione tra Ebrei e Cristiani affinché entrambi riconoscano che sono figli e figlie dello stesso Padre in Cielo grazie al cui amore e alla cui benedizione essi vivono. – Edith Stein è la prima donna santificata che svolgeva un’attività lavorativa in senso moderno. Papa Giovanni Paolo II la vede in particolare come una cristiana che ha saputo armonizzare la fede viva con il sapere in vari ambiti. Che interceda per noi presso il Dio meravigliosamente espresso nei Suoi Santi.
(traduzione e cura di Fr. Francesco M. Alfieri, O. F. M.)
da “Segni e comprensione” n. 62, anno XXI, maggio-agosto 2007
197
* Sr. Teresa Margareta vom Herzen Jesu (Drügemüller) OCD, nata il 20.VIII.1910 a
Vorhelm vicino a Ahlen, in Westfalia, l’ultima delle religiose del Carmelo di Colonia, è stata con-novizia di Edith Stein e ha convissuto tutto il tempo che Edith ha trascorso in questo monastero (14.X.1933 - 31.XII.1938). Da piccola è vissuta in fattoria ed è la più grande di quattordici figli: quattro maschi e dieci femmine. Dopo gli studi frequentò un corso
di economia domestica presso un Istituto di suore, ma ben presto entrò nel Carmelo di
Colonia. Da giovane era spesso ammalata e la Stein ne parlerà spesso nelle sue lettere
(cfr. Lettera 322, 332, 334, 338, 446, 597, 684, 751, in E. STEIN., Selbstbildnis in Briefen:
Zweiter Teil: 1933-1942, Bd. 3, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2000). Per tre anni è stata
Priora del Carmelo di Colonia e attualmente ha novantasei anni. È stata lei che ha iniziato, già negli anni cinquanta, a raccogliere i documenti, lettere e fotografie, mettendo così le basi dell’attuale archivio di Edith Stein di Colonia. [N.d.T.]
1 Il manoscritto originale – Edith Stein im Alltag des Karmel – non esiste più, come
mi informa in una lettera, del 2.XII.2006, Sr. Amata Neyer OCD, responsabile dell’Archivio Stein di Colonia. Il testo in questione è stato stampato, dalle Carmelitane di Colonia,
ad uso interno, nel 1989 e ristampato successivamente nel 1998. Nel mio lavoro ho utilizzato quest’ultima ristampa. Il testo consta di 9 pagine. Ringrazio Sr. A. Neyer per avermi inviato preziose informazioni a riguardo. Traduzione italiana e apparato critico a cura
di Fr. Francesco M. Alfieri OFM. In questo piccolo scritto l’autrice racconta, in modo sobrio e profondo, l’esperienza che ha avuto stando accanto ad Edith nel Carmelo di Colonia. La testimonianza oculare dell’autrice permetterà al lettore di avvicinarsi alla soglia
del mistero di questa grande donna per ammirarne la sua scelta di vita unitamente ad
una profonda onestà intellettuale. [N.d.T.]
1 Come giunsi al Carmelo di Colonia, pubblicato in: Edith Stein di Sr. Teresia Renate dello Spirito Santo [T. R. POSSELT, Edith Stein. Das Lebensbild einer Karmelitin und
Philosophin, Glock und Lutz, Nürnberg 1948; tr. it. Edith Stein, a cura delle Carmelitane
Scalze di Arezzo, Morcelliana, Brescia, 1952, p. 174; (Sr. Teresa Benedetta consegnò la
presente relazione, come dono di Natale, alla sua M. Priora del Carmelo di Colonia, nella notte santa del 1938). Sr. T.R. der Spiritu Sancto (Posselt), è nata il 28.4.1981 a Neu‚,
ed è stata dal 1936 per otto volte priora del Carmelo di Colonia. Morirà il (26).I.1961. Ella, già nei primi anni del dopoguerra, compilò una biografia su Edith Stein/Schwester Teresia Benedica a Cruce. Questo scritto ha conosciuto nel tempo molte edizioni ed è stato tradotto in diverse lingue. N.d.T.]
2 Ivi, p.184.
3 Edith aveva conosciuto, nel suo soggiorno a Gottinga, Adolf Reinach, assistente di E.
Husserl, e la sua consorte. I Reinach si erano convertiti alla fede evangelica. A. Reinach
muore in Fiandra nel novembre del 1917. Edith andò a trovare la giovane vedova, in quanto era stata invitata a Gottinga per ordinare le opere postume del marito, ma aveva una certa ritrosia pensando di trovare una donna distrutta dal dolore. Quando si rese conto della
serenità con la quale aveva accettato la scomparsa del marito, fece lei stessa esperienza
di quello che può operare la fede. È suggestivo rievocare quell’incontro con le stesse parole di Edith: «Fu il mio primo incontro con la Croce, la mia prima esperienza della forza divina che dalla Croce emana e si comunica a quelli che l’abbracciano […]. Fu quello il momento in cui la mia incredulità crollò, impallidì l’ebraismo e Cristo si levò raggiante davanti
al mio sguardo: Cristo nel mistero della sua Croce»; ivi, pp. 103-104 [N.d.T.].
4 Autoritratto nelle lettere, Lettera 194 [E. STEIN., Selbstbildnis in Briefen: Zweiter Teil:
198
1933-1942, cit., Lettera 370 (Köln-Lindenthal, 11.II.1935), p. 108; tr. it. Lettere per un autoritratto, vol. I, di T. Galiani, Città Nuova, Roma, in corso di stampa. La lettera è indirizzata a Konrad Schwind, nipote del deceduto Vicario Generale Josef Schwind di Speyer.
Era nato il 14.X.1898 a Schifferstadt ed è deceduto il 21.IX.1976. Nel periodo in cui è stata scritta la lettera era parroco a Frankenthal-Mörsch/Palatinato. (Nell’edizione tedesca
che ho utilizzato viene cambiata la numerazione delle lettere, in quanto sono state aggiunte alcune lettere nuove e tolte le lettere a Roman Ingarden, che sono state pubblicate a parte. Di volta in volta segnalerò le nuove numerazioni corrispondenti a quelle utilizzate dall’autrice) N.d.T.]
5 Libro della Sapienza 18, 13 b.
6 Le sue radici ebraiche fanno sì che Edith condivida, fino all’ultimo istante della sua
vita, non solo le sorti del suo popolo ma anche quelle dell’intera Germania. Ella si è vista rifiutata e perseguitata per questa sua doppia appartenenza; (Cf. A. ALES BELLO – PH.
CHENAUX, Edith Stein e il Nazismo, Città Nuova, Roma 2005). Anche la mentalità dominante del suo ambiente familiare verrà espressa – a distanza di tempo – da una nipote
di Edith, Susanne Batzdorff-Biberstein (nata il 25.IX.1921, vive attualmente con la sua famiglia in USA): «Diventando cattolica nostra zia aveva abbandonato il suo popolo; il suo
ingresso in convento manifesta di fronte al mondo esterno una volontà di separarsi dal
popolo ebreo»; in E. STEIN, Vita e pensiero, a cura di Waltraud Herbstrith, Città Nuova,
Roma 1987, p. 71. [N.d.T]
7 Lettera 182 [E. STEIN., Selbstbildnis in Briefen: Zweiter Teil: 1933-1942, cit., Lettera 342 (Köln-Lindenthal, 17.X.1934), pp. 78-79. La lettera è indirizzata a Petra (Agnes)
Brüning, badessa del Convento delle Orsoline a Dorten, nata il 15.VIII.1879 a Osterwick/Coesfeld e deceduta il 15.II.1955 a Dorten. Ella aveva invitato Edith a trascorre con
lei il Natale a Dorten e, da allora inizio tra le due un intenso scambio epistolare durato
per molti anni. Petra andò a farle visita non soltanto a Colonia, ma anche nel Carmelo di
Echt.]
8E. STEIN, Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins,
Werke, II, Herder, Louvain-Freiburg i. Br. 1950; tr. it. Essere finito e Essere eterno, di L.
Vigone, revisione e presentazione di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1999?. L’opera è
stata iniziata nella primavera del 1935, poco dopo la fine dell’anno di noviziato – emise i
voti il 21.IV.1935 – e la Stein aggiungerà alla firma della Prefazione: Köln-Lindenthal,
1.9.1936. [N.d.T]
9 Lettera 254 [E. STEIN, Selbstbildnis in Briefen: Zweiter Teil: 1933-1942, cit., Lettera
535 (Köln-Lindenthal, 12.XII.1937), p. 292. La lettera è indirizzata a Petra Brüning.].
10 Dalla vita di una famiglia ebrea, p. 321. [E. STEIN., Aus dem Leben einer jüdischen
Familie. Das leben Edith Stein: Kindheit und Jugend, Werke VII, hrsg.von Dr. Gelber und
P. Fr. Romaeus Leuven OCD, Druten und Freiburg-Basel-Wien 1985, p. 231. tr. it. di B.
VENTURI, Storia di una famiglia ebrea. Lineamenti autobiografici: l’infanzia e gli anni giovanili, Città Nuova, Roma 1999?, p. 239. (A fine lavoro sono venuto a conoscenza che
sta per essere inaugurata la nuova edizione italiana di tutti gli scritti di Edith Stein con
l’uscita del suo prime volume: Dalla vita di una famiglia ebrea e altri scritti autobiografici,
tr. it. a cura di B. Venturi, F. Iodice e M. D’Ambra che ha curato anche le revisioni e le integrazioni sulla base del testo della Edith Stein Gesamtausgabe(ESGA), Città Nuova –
OCD, 2007). Il riferimento testuale dell’autrice («All diese Dinge sind um so Komplizierter, je weiter sie fon der (Philosophie) entfernt sind») non corrisponde esattamente a
quello dell’edizione del 1985 né alla nuova edizione Edith Stein Gesamtausgabe (Bd.I,
2002, p.212). Ripropongo per intero la citazione: «Die Dinge sind um so Komplizierter, je
weiter sie sich von der (Mathematik) entfernen». N.d.T.]
199
11 Lettera 287 [E. STEIN., Selbstbildnis in Briefen: Zweiter Teil: 1933-1942, cit., Lettera 580 (Köln-Lindenthal, 9.XII.1938), p. 338. La lettera è indirizzata a Petra Brüning.].
12 Ibidem.
13 Ibidem.
14 Lettera 290 [Ivi, Lettera 586 (Echt, 3.I.1939), p. 343. La lettera è indirizzata a Petra Brüning.].
15 Lettera 292 [Ivi, Lettera 595 (Echt, 22.I.1939), p. 353. La lettera è indirizzata a Uta
von Bodman – nata il 16.XI.1896 a Lahr/Baden è deceduta il 14.VIII.1988 a Oberkirch –
collega di lavoro di Edith nella scuola di S. Magdalena come insegnante di Arte.].
16 Cfr. E. STEIN, Essere finito e Essere eterno, cit., p. 539: «L’opera sarebbe dovuta
uscire a Breslavia presso Borgmeyer, il medesimo editore che aveva pubblicato la traduzione del De Veritate di san Tommaso curato da E. Stein. La composizione del testo iniziò nell’autunno del 1936, ma – dopo numerose interruzioni durate interi mesi – dovette
essere definitivamente sospesa nel 1939. Le misure coercitive nazionalsocialiste non
permettevano che fosse stampata nessun’opera di autore non ariano. A quell’epoca era
impaginata la prima parte dell’opera, erano composte le prime bozze della seconda parte, comprese le due appendici e le note». [N.d.T.]
17 Lettera 306 [E. STEIN, Selbstbildnis in Briefen: Zweiter Teil: 1933-1942, cit., Lettera 645, pp. 416-417. La lettera è indirizzata ad Agnella (Maria) Stadtmüller – nata il
9.VI.1898 a Landstuhl e deceduta il 9.II.1965 a Speyer – suora domenica dell’Istituto di
S. Magdalena in Speyer. Ella, per prepararsi allo studio universitario, aveva preso lezioni private da Edith.].
18 Ibidem [L’autrice riporta questa citazione come proseguo della Lettera 306. Tale
passo appartiene invece alla Lettera 300: Ivi, Lettera 614 (Karmel Echt, 16.IV.1939), pp.
382-383. La Lettera è indirizzata a Petra Brüning.].
19 Lettera 300 [Ibidem].
20 Lettera 316 [Ivi, Lettera 678, p. 465. La lettera è indirizzata a Johanna (Ida) van
Weersth – nata il 20.III.1901 a Hauset è deceduta il 22.V.1971 a Echt – allora badessa
del Carmelo di Beeker. Finita la guerra, nel maggio del 1946, tornò nel Carmelo di Echt
ed ebbe il grande merito di raccogliere e mettere al sicuro tutti i documenti lasciati da
Edith.].
21 Ibidem.
22 Lettera 324 [Ivi, Lettera 707(Echt, 13.X.1941), p. 509. La lettera è indirizzata a Johanna van Weersth.].
23 Lettera 330 [Ivi, Lettera 710, p. 511. La lettera è indirizzata ad Antonia Ambrosia
(Theresia) Engelmann, suora carmelitana, nata il 31.III.1875 a Eltville sul Reno e deceduta il 30.IV.1972 ad Echt. Questa lettera è stata scritta sul retro di una letterina di un
carmelitano di Waspik e porta la data del 29.IX.1941. Non è possibile determinare il nome di questo carmelitano in quanto la parte inferiore del foglietto è strappata.].
24 Lettera 281 [Ivi, Lettera 573 (Köln-Lindenthal, 31.X.38), p. 333. La lettera è indirizzata a Petra Brüning.].
25 Lettera 335 [Ivi, Lettera 731 (Echt, 8.IV.1942), p. 540. La lettera è indirizzata a
Agnella Stadtmüller.].
26 Stava lavorando a quest’opera quando venne tratta in arresto il 2.VIII.1942. La terza parte del manoscritto, intitolata Sulla via della Croce, non poté essere portata a termine. Di essa rimane solo un frammento [N.d.T.].
27 Scienza della Croce, p. 163 [E. STEIN, Kreuzeswissenschaft. Studie über Johannes a Cruce, Werke I, hrsg.von Dr. Gelber und P. Fr. Romaeus Leuven OCD, Druten und
Freiburg-Basel-Wien 1983, p. 163; tr. it. di P. Edoardo di Santa Teresa, Scienza Crucis.
200
Studio su S. Giovanni della Croce, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma
1982, p. 205. N.d.T.].
28 Come giunsi al Carmelo di Colonia [Stein Edith, Wie ich in den Kölner Karmel Kam,
mit Erläuterungen und Ergänzungen von Schw. Maria Amata Neyer, Echter-Vellag-Würzburg 1994, p. 20; tr. it. Come giunsi al Carmelo di Colonia, di Fabrizio Iodice, Edizioni
OCD, Milano 1998, p. 20].
29 Scienza della Croce, p. 170 [Stein E., Kreuzeswissenschaft. Studie über Johannes
a Cruce, cit., p. 170; tr. it. Come giunsi al Carmelo di Colonia, cit., p. 212].
30 Lettera 339 [E. STEIN, Selbstbildnis in Briefen: Zweiter Teil: 1933-1942,cit., Lettera
760, p. 577. La lettera è indirizzata a Auguste Pérignon, cugina di Agnella Stadtmüller,
nata il 2.II.1886 a Landstuhl e deceduta il 24.II.1971 a Speyer. Era insegnante nel Palatinato.].
31 Lettera 341 [Ivi, Lettera 767(Drenke-Westerbork, Baracca 36), pp.583-584. La lettera è indirizzata ad Antonia Engelmann (Cfr. nota 25). Riporto per intero la traduzione di
questa lettera:«Oggi una crocerossina di Amsterdam vuole parlare con il console. Qui da
ieri, tutto è vietato agli ebrei cattolici. Forse qualcuno da fuori può ancora tentare qualcosa, ma con pochissime speranze. C’è in progetto di far partire un trasporto venerdì
prossimo. Potreste scrivere a Mère Clare a Venlo, Kaldenkerkenweg 185, e richiedere il
nostro Ms., nel caso non l’abbia spedito. Abbiamo fiducia nella vostra preghiera. Qui ci
sono così tante persone bisognose del conforto, ed esse sperano di riceverlo dalle suore. In Corde Jesu, vostra sempre grata B.» ].
32 Lettera 342 [Ivi, Lettera 768, p.584. Questa lettera, indirizzata a A. Engelmann,
porta la data del 6.IV.1942, ma è evidentemente un errore di Sr. Teresia Benedicta. La
vera data è il 6.VIII.1942].
33 Dalla vita di una famiglia ebrea, p. 47 [E. Stein, Aus dem Leben einer jüdischen
Familie. Das leben Edith Stein: Kindheit und Jugend, cit., p. 47; tr. it. di B. Venturi, cit., p.
67. N.d.T.]
201
PAUL RICOEUR
FILOSOFIA E LIBERAZIONE (1991)
Ho intitolato il mio intervento “Filosofia e Liberazione” e non “Filosofia
della Liberazione”, per non emettere un giudizio a priori sull’esito del confronto fra questi due termini; considero quindi il loro legame come problematico. A questa mia riserva fornisco due motivazioni: innanzitutto, anche
ammettendo che ogni filosofia abbia per fine ultimo la liberazione, questo
termine ha ricevuto più di un significato nel corso della storia, come dimostra la filosofia di Spinoza, nella quale il terzo genere di conoscenza è considerato come la liberazione per eccellenza dall’immaginazione e dalle
passioni. Seconda motivazione: non è solo la tematica della liberazione
che è problematica, ma lo sono anche le situazioni a partire dalle quali
queste tematiche sono esposte e sviluppate: così le filosofie latinoamericane della liberazione partono da una precisa situazione di pressione economica e politica che le confronta direttamente agli Stati Uniti d’America.
Ma, in Europa, la nostra esperienza princeps e il totalitarismo, nel suo doppio aspetto nazista e stalinista: otto milioni di ebrei, trenta o cinquanta milioni di sovietici sacrificati. Auschwitz e il Gulag. Quanto alla storia recente
– e in corso – dell’Europa centrale e orientale, essa appartiene ai postumi
di questa storia mostruosa. Ora, questa avventura è sotto tutti gli aspetti
un’esperienza di liberazione; lo dimostra la caduta delle dittature in Germania, in Italia, in Spagna, in Portogallo, in Grecia. Nessuno può negare che
si tratti di esperienze di liberazione. Bisogna dunque prendere in considerazione varie tematiche e varie situazioni originali. Si può parlare a questo
proposito di una pluralità di storie della liberazione. La questione allora è
di sapere ciò che una può insegnare all’altra, ciò che una può apprendere
dall’altra. A questo punto mi sembra importante un corollario: le filosofie e
le teologie della liberazione che non dipendono da questa storia non possono più esprimersi negli stessi termini prima e dopo il crollo del totalitarismo sovietico e dopo il fallimento della sua economia amministrata, pretestuosamente denominata socialista e rivoluzionaria.
Se insisto su questa eterogeneità delle storie di liberazione, è per preparare i nostri spiriti ad ammettere che queste esperienze sono non solo
diverse, ma forse incomunicabili; di più, che l’autocomprensione che si attribuisce ad una crea ostacolo alla comprensione plenaria dell’altra, e che
202
una certa controversia a questo proposito è forse insormontabile, anche
fra noi.
Tenevo a fare questa dichiarazione preliminare prima di entrare nel vivo del soggetto, che sarà filosofico piuttosto che politico, anche se la filosofia politica vi occupa un ampio spazio, ma precisamente in quanto filosofia. Il problema che vorrei sottoporre a discussione è questo: che cosa il
pensiero occidentale apporta di migliore o di più forte che possa contribuire ad un dibattito nel quale esso accetti di essere solo uno dei partners? Si
presuppone soltanto l’intesa sulla ricerca e l’ascolto del miglior argomento
secondo l’etica di discussione di Apel e Habermas. Perché qui siamo per
ipotesi nel regno del discorso, anche se non ci atteniamo sempre ad esso
e anche se esso prosegue in un mondo di lotte che non sono di discorso,
ma di forza e di violenza. Per lo meno qui si discute; e non vi si fa niente
di più, né niente di meno.
I
Non abbordo direttamente la questione dell’ermeneutica e della liberazione, alla quale Domenico Jervolino e Enrique Dussel hanno accordato
ampio spazio. Vi arriverò soltanto nelle mie osservazioni finali. Vorrei piuttosto situare questa discussione, in cui sono coinvolto troppo direttamente
sullo sfondo di una più vasta considerazione, in cui l’accento sarà messo
su quelle grandi tematiche occidentali che sono legate ad esperienze storiche di liberazione. Mi manterrò nei limiti della filosofia moderna che Hegel oppone a quella degli Antichi, definendola, davvero grosso modo, come filosofia della soggettività, in opposizione alla filosofia della sostanza,
che è sua ambizione riunire dialetticamente. In cosa queste filosofie della
soggettività (da Descartes a Locke a Kant e Fichte) sono legate, al tempo
stesso come causa e come effetto, ad esperienze di liberazione? Si può dire, ancora grosso modo, che è nella misura in cui esse hanno prodotto una
concezione indivisamente etica e politica della libertà. Ne dirò fra poco i limiti, ma ne sottolineerò innanzitutto la forza, che mi fa dire che non ho vergogna dell’Europa.
Distinguerò tre componenti di questa concezione etico-politica della libertà.
1. Innanzitutto, la critica del sovrano e della sovranità concepita come
trascendenza, in senso religioso o no. Questa critica della sovranità, demistificata come dominazione, fa presa su esperienze effettive di liberazione,
illustrate dalla formazione delle città libere italiane e fiamminghe, l’instaurazione e lo sviluppo del Parlamento britannico, la Rivoluzione francese. A
questo proposito il contrattualismo di Rousseau/Kant è da comprendere in
quanto arma critica: tutto avviene ai loro occhi come se il potere nascesse
da un accordo liberamente acconsentito di abbandono della libertà selvag203
gia in favore della libertà civile. È qui contenuta una formidabile forza di
sovversione. Infatti esiste al centro del potere un punto opaco, e intorno ad
esso un’aura quasi sacra che Hannah Arendt amava riportare alla distinzione romana fra potestas e auctoritas: “II potere è nel popolo, l’autorità nel
Senato”. Si ritrova in Spinoza, nella sua filosofia politica, una distinzione
comparativa fra potendo e potestas. Al limite di questa messa a nudo del
potere, questo si avvera essere soltanto il voler vivere insieme di una comunità storica. Ma questa origine è come dimenticata e può senz’altro essere solo simbolicamente rappresentata attraverso istanze superiori che,
come suggerisce la parola auctoritas, aumentano la potenza pubblica che
viene meno. Da ciò una lotta senza fine di riduzione della dominazione al
potere autentico, riduzione alla quale resiste una sacralità residua che si
manifesta negli accessi di potere personale e in generale nella personalizzazione del potere. Al che bisogna aggiungere il lento apprendistato della
separazione del politico e del religioso, e, all’interno stesso del religioso,
della distinzione fra la comunità ecclesiale del popolo di Dio e le istanze
autoritarie e gerarchiche che la circondano. Questa prima esperienza storica presenta un paradosso inquietante: se la critica della dominazione
avesse successo, il potere messo a nudo sarebbe ancora creduto e temuto? Bisogna proprio ammettere che la democrazia è il primo regime politico che sa di essere mal fondato, perché si sta continuamente fondando. A
questo proposito, ciò che il pensiero occidentale ha di meglio da offrire, è
la crisi delle sue nozioni fondatrici. Forse è il solo pensiero ad essere insieme fondazionale e critico, voglio dire autocritico.
Questa affermazione forse non è indifferente ai fini del nostro dibattito
con le filosofie della liberazione, nella misura in cui queste mettono l’accento principale sulla dimensione economica dell’oppressione, piuttosto
che sulla sua dimensione politica. Io vedo da parte mia la necessità di un
avvertimento serio. Se la critica dell’oppressione economica e sociale non
passa attraverso la critica della dominazione politica e se si pretende di
giungere alla liberazione economica attraverso qualsiasi cammino politico,
ci si condanna ad una terribile vendetta della storia: il leninismo ne è l’illustrazione sinistra. Resta che per l’Occidente il passaggio attraverso la liberazione politica è apparso ineluttabile, come ci ha continuamente insegnato la catastrofe totalitaria.
2. Vorrei ora mettere l’accento sulla ricerca e la crisi dell’universale concreto nel pensiero e nell’esperienza storica dell’Europa occidentale.
È questo un problema che supera e comprende il precedente, concernente la sovranità dello Stato. Esso concerne la stessa razionalità dell’esperienza storica. Per introdurre il problema, evocherò successivamente gli scritti storico-politici di Kant (Idea di una storia universale dal punto di
204
vista cosmopolitico. Congettura sugli inizi della storia dell’umanità. Progetto di pace perpetua) e i Principi della filosofìa del diritto di Hegel. La nozione di storia universale vi è trattata come l’idea regolatrice sotto la quale è
possibile pensare l’umanità come sviluppante un’unica storia, e non in
quanto costituente un’unica specie, benché essa non sia mai riuscita a
produrre un’unica istituzione politica.
Ora, questa ricerca dell’universale concreto è stata, di primo acchito,
sede di una crisi specifica. Per farne comprendere la posta, suggerirei di
trasporre nell’elemento del linguaggio l’intento dell’universale che la filosofia kantiana e post-kantiana proietta su un piano razionale. Il linguaggio costituisce un buon terreno d’esercizio nella misura in cui, da una parte, esso non esiste che nella pluralità delle lingue naturali e, dall’altra, esso lascia apparire la sua fondamentale unità grazie al fenomeno della traducibilità universale. È a priori che noi stabiliamo che ogni lingua è traducibile
in qualsiasi altra lingua. È il solo modo in cui possiamo affermare l’universalità del linguaggio. Ebbene, ciò che avviene sul piano del linguaggio, avviene anche sul piano morale e politico. Sul piano morale, possiamo facilmente concepire che un dovere è imperativo soltanto se può, in un modo
o nell’altro, essere considerato universale; d’altra parte, la vita morale esiste soltanto sotto la condizione di questa contestualizzazione culturale che
definiamo i costumi. Fra universalità del dovere e storicità dei costumi persiste la lacerazione. Quest’ultima si riflette d’altronde nell’elemento del linguaggio, come si vede nella discussione contemporanea intorno a Rawls
e Habermas. Il primo propone una concezione puramente procedurale della giustizia che ignora le condizioni storione della sua effettuazione. Il secondo progetta, nel quadro di una pragmatica trascendentale, l’idea di una
“comunità ideale di comunicazione”, che regola l’etica del miglior argomento. Ma resta la questione di sapere quali contenuti possono essere attribuiti, sia a questa idea puramente procedurale di giustizia, sia alle condizioni
di possibilità imposte dalla pragmatica trascendentale. Per dirla molto semplicemente: quali argomenti ci si scambia in una morale “post-convenzionale”? Non è nelle passioni, nei sentimenti, negli interessi, nelle con-venzioni e infine nelle convinzioni che prendono forma ciò che Kant avrebbe
chiamato le massime dell’azione?
Vorrei insistere sull’ultimo termine dell’enumerazione precedente: quello di convinzioni. Giacché sono esse che introducono nella discussione i
conflitti senza i quali non ci sarebbero problemi di negazione e di arbitrato.
A questo proposito, le convinzioni nate dall’esperienza storica più rispettabile generano controversie irriducibili. Sembra allora che il segno dell’universalità possa essere trovato soltanto nella formazione di fragili compromessi che trattengono il conflitto sul pericoloso pendio della guerra civile.
Tale è, a questo proposito, una delle maggiori esperienze dell’Europa oc205
cidentale: l’apprendistato della gestione dei conflitti e l’invenzione di procedure di compromesso.
Mi si obietterà che non tutto è discorso. Habermas non ha un tempo
evocato il fenomeno della “distorsione sistematica della comunicazione”
sotto la pressione del denaro e del potere? Ciò è proprio vero; ma la mediazione del discorso, della discussione e dell’argomentazione resta la nostra sola risorsa. A questo proposito, anche se è vero che il dibattito NordSud è derivato da relazioni di dominazione d’altro ordine che non etico-politico, sarà proprio, un giorno o l’altro, in una negazione che il conflitto sarà arbitrato e trattato. O il discorso o la violenza, insegnava testé Eric Weil.
La sequenza d’implicazione è ineluttabile: dalla pratica della negazione alla logica dell’argomentazione e da questa all’etica della discussione.
3. Vorrei proseguire sotto un terzo registro, quello del diritto e delle istituzioni giuridiche, questa crisi dell’universale concreto, fissandomi sull’idea
regolatrice di giustizia. La ricerca di principi di giustizia ha una lunga storia, segnata anch’essa da crisi maggiori. Si potrebbe dire, ancora una volta grosso modo, che il pensiero giuridico costituisce la condizione e l’orizzonte della formazione di uno Stato di diritto e della pratica del compromesso evocate nei due paragrafi precedenti. Non penso soltanto al lavoro
considerevole della ragione all’opera nell’elaborazione del diritto penale
(rendere proporzionale il castigo al delitto), ma anche, e in modo più interessante, quella del diritto civile (riparare i danni inflitti ad altri dagli effetti
di un’azione sregolata). Ci troviamo qui infatti alla nascita dell’idea di responsabilità, che consiste in questo: qualcuno è pronto a rendere conto dei
suoi atti, ad assumerne le conseguenze e così si riconosce obbligato a riparare i danni inflitti ad altri e a subire la punizione delle sue colpe considerate come delitti dalla società. Non si può essere che impressionati dal
formidabile edificio giuridico dei codici nati dal pensiero e dalla pratica giuridica (leggi scritte – tribunali – istituzioni di giudici in quanto individui come noi investiti del potere di dire il diritto in circostanze particolari – dispositivo della sentenza – monopolio della violenza legittima). Denunceremo
l’ipocrisia del diritto? Certamente si può. Non cessano di nascondersi in
esso dei rapporti di potere e di violenza. Ma, in nome di cosa li si denuncerebbe, se non in nome di una giustizia migliore, di una richiesta di giudici più indipendenti e più integri, in breve nell’attesa di istituzioni di giustizia
più conformi all’idea di giustizia?
Ora, questa idea comporta la sua critica interna e la sua crisi. Fin da
Aristotele si impone la distinzione fra la giustizia aritmetica strettamente
ugualitaria e la giustizia geometrica, proporzionale al merito, che regola le
divisioni ineguali. Questa distinzione non ha smesso di imporsi, nella misura in cui, a dispetto dell’estensione della sfera della giustizia ugualitaria
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(uguaglianza dinanzi alla legge, uguaglianza dei diritti di espressione, di
riunione, di pubblicazione, ecc.), il problema di divisioni ineguali meno ingiuste di altre spartizioni operate secondo altre leggi di distribuzione, resta
il paradosso centrale della giustizia sociale.
Il problema ricade nella Teoria della Giustizia di Rawls. Nella sua concezione puramente procedurale della giustizia, quella di un contratto sociale concluso sotto il velo dell’ignoranza, l’idea di giustizia si spezza in due:
giustizia civile e politica definita dall’eguaglianza dinanzi alla legge, giustizia economica e sociale di spartizioni ineguali retta dal principio detto del
maximin, principio in virtù del quale ogni aumento del privilegio dei più favoriti deve essere compensato da una diminuzione dello svantaggio dei più
sfavoriti; da cui l’espressione maximin: massimizzare la parte minimale.
Si vedono subito le difficoltà: eterogeneità dei beni sociali da distribuire, statuto aleatorio di ogni sistema concreto di distribuzione, carattere
sempre contestabile dell’ordine di priorità assegnato alla soddisfazione di
tali beni alle spese di altri (produttività, cittadinanza, educazione, sicurezza, salute, ecc.). Dalla disputa suscitata da queste difficoltà deriva la biforcazione fra l’universalismo procedurale e il contestualismo comunitario,
che caratterizza la discussione contemporanea intorno all’idea di giustizia.
Si obietterà che questa discussione concerne soltanto le dispute interne
della social-democrazia occidentale. Accetto volentieri questa obiezione.
Questa lite è precisamente ciò che abbiamo di meglio da offrire in questo
terzo registro della politica della libertà. Suggerisco che è nella misura in
cui avremo spinto il più in là possibile da noi le risorse della social-democrazia, con le sue contraddizioni e i suoi conflitti, che noi ci porremo in
quanto interlocutori validi di fronte a protagonisti che avranno scelto altre
vie per lo sviluppo (contro lo schema semplicistico dello sviluppo lineare e
alla ricerca di uno schema arborescente dello sviluppo). La nostra storia
complessa e confusa ci dà solo il diritto di mettere in guardia i nostri compagni di discussione contro la tentazione di ogni scorciatoia storica; Rawls
a questo proposito è di una fermezza esemplare: non si potrebbe fare economia del primo principio di giustizia – l’uguaglianza civica e politica dinanzi alla legge – e affrontare con qualunque mezzo politico il problema della
giustizia economica e sociale. L’uguaglianza dinanzi alla legge è la condizione politica della liberazione economico-sociale. Si urta ancora una volta all’errore tragico del leninismo.
Al termine di questa prima parte vorrei insistere sugli equivoci del termine liberazione. Come ho detto iniziando, ci sono molte storie della liberazione che non comunicano. Se l’America Latina è confrontata ad un problema specifico che si iscrive nel quadro più generale dei rapporti NordSud, l’Europa è l’ereditiera di lotte che sono culminate nella liquidazione
dei totalitarismi illustrati dalle parole “gulag” e “Auschwitz”. Questa storia
207
costituisce un ostacolo alla comprensione dei progetti di liberazione latinoamericana? Bisogna che gli europei ammettano che il totalitarismo che affrontano i latinoamericani è di tutt’altra natura di quello che abbiamo conosciuto in Europa? Bisogna ammettere che nel Terzo Mondo ci si può aspettare ancora dal socialismo ciò che abbiamo smesso di aspettarci in Europa? Queste domande devono restare aperte. Ma le riserve e i silenzi che
si impongono non devono impedirci di avvertire i nostri amici che devono
anch’essi trarre tutte le lezioni dal fallimento dell’economia amministrativa
nell’Europa dell’Est, né devono impedirci di deporre a favore della libertà
politica, come condizione non aggirabile per ogni accrescimento di produttività tecnologica ed economica e anche come componente della liberazione economica e sociale.
II
È su questo sfondo che vorrei risituare la querelle ermeneutica-liberazione, nella quale sono maggiormente coinvolto. Anche qui, insisterò più
sui problemi che sulle soluzioni (la mia fra le altre). Per l’essenziale, sono
d’accordo con Domenico Jervolino. È alla luce del suo contributo che riprenderò alcuni problemi posti dall’amico Dussel.
È vero che la problematica ermeneutica sembra di primo acchito straordinariamente lontana dalla problematica della liberazione, in qualunque
senso sia. Non è dalla chiusura nei testi che partiamo adesso? Vorrei perorare, con molta moderazione, la legittimità della transizione testuale, fin
nelle situazioni che hanno per posta la liberazione. È innanzitutto col favore di un’iscrizione, di cui la scrittura è l’espressione più notevole, che
l’esperienza passata dei nostri predecessori ci perviene sotto forma di eredità ricevute, di tradizioni trasmesse; è, inoltre e ancora, sotto la forma testuale che si fondano i grandi scambi fra il passato delle tradizioni e il futuro delle nostre più vive attese, tra le quali bisogna annoverare le nostre
utopie. Aggiungerò ancora che l’ermeneutica consiste in se stessa in una
lotta contro la chiusura testuale. A questo proposito Domenico Jervolino ha
ben sottolineato l'importanza della funzione di raffigurazione esercitata dai
testi sul piano dell'agire umano effettivo. È grazie a questo processo di raffigurazione che la critica testuale si reiscrive al centro stesso della filosofia
dell'azione, che anch'io considero come il grande involucro di ogni investigazione relativa al linguaggio. Ciò che abbiamo appena detto sullo scambio fra tradizione ed utopia (nel testo e attraverso il testo) ha il suo equivalente nella filosofia della storia sotto forma di scambio fra ciò che Koselleck
chiama spazio d'esperienza e orizzonte d'attesa. Infine, non si potrebbe
parlare di ermeneutica se non si risituasse il processo di interpretazione all'interno della relazione fra testo e lettore. A questo proposito una critica
della lettura fornisce un elemento di risposta alla principale obiezione di
208
Dussel secondo la quale la relazione produttore/prodotto copre (enveloppe) la relazione autore/lesto. Si dimentica in questo corto circuito la funzione di "vis-a-vis" che costituisce un lettore critico suscettibile di porre domande sulla pertinenza dell'equazione precedente e di denunciare la relazione di dominazione che si dissimula nel processo di trasmissione e di tradizione. Il fenomeno più importante a questo proposito non è tanto l'iscrizione nella scrittura, altrimenti detta il divenire testo dell'azione, ma la relazione critica di lettura, che rende possibile il divenire azione del testo.
Questo divenire del testo riconduce l'ermeneutica all'etica, più precisamente a un'etica che assegna un posto centrale al fenomeno dell’alterità.
Mi permetto qui di segnalare che vi è posto per diverse filosofie dell’alterità: asimmetrica per Lévinas, reciproca per Hegel. Vi è ugualmente posto
per diverse figure dell’alterità: la corporeità, rincontro d'altri, l'ascolto della
coscienza morale interiorizzata. Vi sono anche diverse figure d'altri: altri in
quanto viso nel faccia a faccia, altri come il "ciascuno" della relazione di
giustizia. Accordo ben volentieri che queste figure dell'alterità e queste figure dell'altro vengono a riassumersi e a culminare nel momento di alterità in cui l'altro è il povero. È qui che incontro ed ascolto le filosofie e le teologie della liberazione.
da “Segni e comprensione” n. 15, anno VI, gennaio-aprile 1992
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SERGIO QUINZIO
IN LOTTA CON L’ANGELO1 (1991)
In lotta con l’Angelo, oltreché un bel titolo in sé, è un’immagine straordinariamente felice per esprimere la realtà del rapporto tra filosofia e cristianesimo negli ultimi due secoli, e cioè da Kant ad oggi. Credo sia vero
che il cristianesimo ha continuato ad essere in questo periodo di tempo, e
ancora oggi malgrado tutto resta, il termine di riferimento più significativo e
costante per il pensiero filosofico. Altri modelli interpretativi – quello per
esempio che vede nel pensiero moderno e contemporaneo un ovvio e lineare allontanamento dalle “superate” categorie e dai problemi cristiani,
come pure quello opposto che vede una lotta del cristianesimo contro l’empia e nichilistica aggressione moderna – mi sembrano molto meno convincenti. Lotta dell’uomo con l’Angelo, del pensiero filosofico con il Dio biblico, significa anzitutto riconoscere che, proprio come nel racconto della lotta notturna di Giacobbe al guado dello Yabboq, ci si muove nelle tenebre
e non ci sono vincitori né vinti. Nessuno dei due contendenti soccombe all’altro. Giacobbe conquista nella lotta il suo vero nome, Israele, interpretato come “forte contro Dio”, e strappa a Dio la benedizione che voleva: ma
ne esce malconcio, colpito all’anca, e Dio non gli svela il suo nome. Ma
certo, nel racconto biblico, la vittoria per così dire “morale” appartiene all’uomo, a Giacobbe-Israele, che ha sfidato Dio, l’ha guardato faccia a faccia, ed è sopravvissuto, estorcendogli una benedizione, che implica evidentemente una legittimazione della sua stessa sfida.
Credo che il riferimento biblico del titolo corrisponda alla vicenda della
riflessione filosofica nel periodo storico considerato con una intensità e
precisione che vanno al di là, forse, delle stesse intenzioni degli autori del
libro. Dio non splende più intangibile nella sua solitaria trascendenza, il suo
strapotere non mantiene a debita, sacrale distanza l’uomo, ma l’uomo lottando con lui lo afferra e lo stringe con le sue mani, non per un attimo, ma
per tutta la lunga notte. È importante che questo modello di comportamento dell’uomo moderno e contemporaneo che è “forte contro Dio”, che lotta
contro Dio, ci sia proposto nell’uomo biblico. Già il padre nella fede, Abramo, prima di Giacobbe aveva osato opporsi a Dio a proposito dei giusti di
Sodoma, dicendogli insistentemente: se tu distruggi la città peccatrice, che
cosa ne sarà dei giusti che abitano in essa, che cosa ne è della tua giusti210
zia? Dio ferisce l’uomo che osa affrontarlo, e tuttavia lo benedice (come farà con Giacobbe che lo aveva contestato violentemente: Gb 42, 7-8), anche se non gli svela il suo segreto. La situazione resta fluida e incerta, dolorosa ma aperta. Credo che sia davvero questa la condizione del pensiero contemporaneo, credo che s’inscrivano loro malgrado in questo orizzonte anche le negazioni dirette e frontali avanzate dal nichilismo ateo. Mi
sembra che anche questo appartenga ancora, sia pure come ultima paradossale tappa, al percorso che ha nella lotta di Giacobbe il suo emblema:
uno sforzo, comunque, per togliere la separatezza che divide Dio e l’uomo,
abbassando Dio fino all’umano, o innalzando l’uomo fino al divino. È una
lotta, ma una strana lotta che ha per oggetto, magari inconsapevole, la benedizione di colui contro il quale si lotta: e cioè la salvezza, fosse pure
quella estremamente indebolita forma di salvezza che consiste nel senso
che, all’esito nichilistico contemporaneo, può essere conferito solo dalla
sua “provenienza destinale” dalla speranza cristiana.
Il nostro mondo, insomma, che è anche il mondo dei nostri filosofi, non
è, o almeno non è ancora, un mondo post-cristiano, o a-cristiano. Le categorie e i problemi restano ancora quelli definiti dall’orizzonte cristiano, anche se le varie forme di secolarizzazione li hanno travestiti fino al limite dell’irriconoscibile. Già gli ideali etici che gli illuministi credevano di dedurre
dall’universale ragione, erano in realtà trascrizioni di ideali cristiani: sebbene, più che di una lineare continuità, si trattasse di una riduzione, di una
decostruzione, di uno stravolgimento. Mi sembra significativo che oggi
Gianni Vattimo inviti (un invito per me, cristiano, ovviamente inaccettabile)
il credente a passare a un’accettazione nichilistica come se si trattasse
dell’esito coerente della fede che ci chiede di rinunciare a ogni “ricchezza
di spirito”, di abbandonare qualunque sicurezza, di perdere la nostra vita.
Ma oggi c’è anche, in vari modi, un ritorno d’interesse diretto e in positivo
ai valori della tradizione cattolica, come dimostra, ad esempio, il nuovo clamoroso ruolo storico e politico assunto dalla Chiesa in Europa e nel mondo. Se il nostro mondo non è, dunque, post-cristiano, o a-cristiano, non è
nemmeno più anti-cristiano, come spesso lo è stato negli ultimi secoli. È
venuto infatti in gran parte meno l’accanimento laicista contro la fede e la
tradizione cristiana: un accanimento che era comunque, a sua volta, un diverso segno dell’implicazione in una problematica ancora religiosa, perché
evidentemente non si dà professione di ateismo là dove l’idea di Dio è
scomparsa dall’orizzonte.
Credo dunque che il libro colga e documenti efficacemente un elemento essenziale dell’attuale situazione della filosofia: il suo riferirsi, sia per negare o sia per affermare, il suo confrontarsi, comunque, con il cristianesimo, il suo permanere, in definitiva, all’interno dell’universo mentale cristiano. Penso che un orientale, abituato a un universo mentale davvero diver211
so, percepirebbe subito questa situazione come evidente. La tesi, nel libro,
è comprovata con buoni argomenti: ci sono pagine fortemente persuasive,
come quelle dedicate a Schelling, a Nietzsche, a Weber, a Heidegger, all’ambiguità della secolarizzazione.
Il punto di vista dal quale, dichiaratamente, si pongono gli autori, cattolici e professionalmente filosofi, è quello della filosofia, non quello della fede. Il mio punto di vista, che non è in grado di essere quello del filosofo, è
inevitabilmente diverso. Io posso dire solo come appare a me, in quanto
credente non filosofo, il discorso dei miei amici, con i quali, del resto, vado, privatamente e anche pubblicamente, discutendo da non pochi anni.
Era certamente inevitabile che il libro, che è già di cospicue dimensioni, dovesse obbedire a delle scelte, e quindi anche escludere dei pensatori le cui posizioni potrebbero mettere in questione alcune conclusioni alle
quali il libro perviene. Penso ad autori cristiani come Hamann, come Solov’ev, come Unamuno, come Sestov, ad autori ebrei come Simone Weil,
Adorno, Horkheimer, Wiltgenstein, Scholem, Neher, Lévinas, Jonas, Derrida, Lyotard, che vengono nominati, o vengono appena nominati (sarebbe
comunque utilissimo un indice dei nomi: speriamo per la seconda edizione!). Alcuni di questi autori, io credo, potrebbero essere collegati fra di loro – e a Lutero, a Pascal, a Kierkegaard, a Dostoevskij (solo questi ultimi,
per ragioni di scelta del periodo storico, vengono trattati nel libro) – per costituire una vera e propria linea di pensiero alternativa a quella individuata
come più adeguata nell’interpretazione proposta da In lotta con l’Angelo.
Una linea di pensiero, cioè, che sia totalmente interna alla fede e rifletta
esplicitamente secondo la sue categorie e il suo linguaggio, negando fiducia alla “Ragione” come necessario strumento autonomo capace di approfondirla criticamente e di tradurla in termini universali. Proprio questi autori e questa linea di pensiero dimostrano che, se è vero che nell’orizzonte
della modernità non c’è fede senza riflessione filosofica, la riflessione filosofica può però ben essere, nella modernità, lontana dalle ragioni della
“Ragione”, per assumere i caratteri di quella che Lev Sestov ha chiamato
“filosofia ebraico-cristiana”. Si propone allora, come in Adorno, in Horkheimer, in Bloch, un uso critico della ragione contro la ragione stessa.
Quali sono le tesi che stanno soprattutto a cuore agli autori del libro?
“Ragione” e “religione” si implicano a vicenda: il rapporto tra filosofia e cristianesimo è, e deve essere, un rapporto di alterità e di differenza, che provoca una vitale tensione. Se tale tensione cade, se cioè la riflessione filosofica non continua a confrontarsi e ad alimentarsi ai nuclei simbolici che
si condensano soprattutto nell’esperienza religiosa, la filosofia cade in un
vuoto formalismo, in un fatale esaurimento. Poiché il punto di vista del libro è quello della filosofia e non quello della fede, gli autori non ci propongono con altrettanta nettezza la domanda opposta ed equivalente: che co212
sa accadrebbe della fede se venisse meno la sua esplicitazione, e, come
dicono, l’approfondimento e l’universalizzazione dei suoi contenuti ad opera della ragione, divenuta ragione ermeneutica? Forse – dico io – non accadrebbe nulla, perché la fede biblica è nata e si è sviluppata là dove non
era neppure immaginabile il bisogno della sua lettura in termini supposti
universalmente razionali. Già questo bisogno – mi sembra – è il segno di
un indebolirsi della fede, che è costretta allora alla pericolosa, o addirittura fatale, ricerca di sostegni.
In ogni caso il rapporto tra fede cristiana e ragione filosofica resta difficile: non esiste infatti nessun metalinguaggio che consenta di confrontare
tra loro, pariteticamente come sarebbe necessario per un vero confronto, i
due rispettivi linguaggi. O si parla il linguaggio della fede o quello della ragione, e in In lotta con l’Angelo si parla, intenzionalmente, il linguaggio della ragione. Ma questo linguaggio riesce veramente a dire la fede, quel che
dice è veramente la fede? Soprattutto attraverso l’analisi della fenomenologia, di un certo esistenzialismo e di una certa ermeneutica, gli autori pervengono sì a mostrare chiaramente il fatto che i due ambiti si implicano,
ma non, direi, a mostrare il senso di tale implicazione. Preme fortemente
la testimonianza concorde dei due forse massimi interpreti contemporanei
delle esigenze della fede e della ragione, Barth e Heidegger, i quali dai rispettivi punti di vista escludono la possibilità di un rapporto positivo e fecondo tra filosofia e cristianesimo. Tale rapporto, nel libro, oscilla infatti tra
la drammatica differenza radicale di due polarità inconciliabili, ma proprio
per questo capaci di muovere la storia, e una sorta di convergenza, integrazione, compimento, reciproco arricchimento. Il nesso tra religione e ragione comprende, insieme, solidarietà e opposizione, ma proprio per questo si rende difficilmente pensabile in modo sufficientemente definito. Penso che anzitutto in questo debba manifestarsi il segno profondo di un pensiero consapevole della propria essenza tragica.
Esistono naturalmente fra i quattro autori che firmano il libro delle diversità riconoscibili, malgrado la larga base comune. Ciancio, nelle pagine dedicate a Tillich, scrive che “la via più feconda è probabilmente quella dell’opposizione dialettica, l’unica che, all’interno della ragione moderna, sembra capace di far scaturire l’unità profonda e originaria di filosofia e religione o addirittura ribaltarsi in un’esplicita espressione di tale unità”. Perone
conclude invece la sua analisi della secolarizzazione dichiarando (sono le
ultime parole del libro) “la consapevolezza che un ripensamento dei contenuti del cristianesimo non possa avvenire senza un ritorno anche ai momenti che ne hanno segnato la crisi e che appunto coincidono con il formarsi di una consapevolezza del moderno”. Anche in una intervista data
da Ciancio e da Perone al settimanale “II nostro tempo”, Perone sembra
accentuare la drammaticità della situazione: siamo posti di fronte a una ve213
ra lotta – dice – in cui “la religione costringe la ragione a mettere in discussione uno dei suoi dogmi più consueti: che sia lei, la ragione, a produrre i
propri contenuti, facendosi arbitra di verità da essa sola create. La religione, resistendo alla assolutezza della ragione, la obbliga a diventare ragione ermeneutica, che interpreta, e non crea, una verità che sta fuori di lei”.
Ciancio sembra invece accentuare la solidarietà e la convergenza: “La filosofia non può fare a meno della religione, luogo primario ed esistenziale
della verità. Una filosofia che prescinda dal riferimento alle verità religiose
[…] si sottrae al suo compito. Il tentativo operato in questo saggio è mettere in luce che da sempre la filosofa si è alimentata dell’esperienza della
tradizione religiosa: nel mondo greco fu il mito, nel mondo cristiano è stato il cristianesimo”. Ciancio insiste nell’affermare, sulle orme dell’ultimo
Schelling, che la filosofia non ha contenuti propri: ma allora mi sembra diffìcile anche concepire una sua “lotta con l’Angelo”.
Entrambi gli autori ai quali ho preferito riferirmi concordano comunque
nell’affermazione, esplicitamente dichiarata ma implicita in ogni pagina del
libro, che religione e filosofia stanno o cadono insieme, che la distruzione
della religione è la distruzione della filosofia, in quanto la perdita del riferimento alla verità le svuota entrambe. Il rapporto è però più complesso: si
potrebbe anche, o piuttosto, dire che, storicamente, la filosofia (sia quella
greca antica che quella medievale) è nata dal consumarsi della religione,
anche se ritengo sia vero che, separata dalle radici, anche la filosofia finisce prima o poi per inaridirsi e morire. Mentre resterebbe ancora da chiedersi se è davvero possibile riattingere un rapporto con le radici diretto e
pienamente vitale, al di là di quello confuso e impoverito che ha segnato le
tappe del pensiero filosofico negli ultimi secoli.
Ma mettendo in evidenza la prospettiva della coincidenza originaria della religione e della filosofia nella verità comune ad entrambe, si fa più esplicito un presupposto che filosoficamente potrà magari essere addirittura obbligatorio, non lo so, ma che dal punto di vista della fede cristiana mi sembra discutibile. È l’idea cioè che la religione in quanto – come si esprime
Ciancio – “luogo primario ed esistenziale della verità” (ma qui “religione” è,
forse un po’ ambiguamente, identificato con “fede”) garantisca la possibilità e il senso stesso dell’argomentare filosofico, come se la ragione filosofica (per esempio nei secoli della Grecia precristiana) si proponesse di attingere ed effettivamente attingesse quella stessa “verità” che ci è rivelata
nella Bibbia e in Cristo. L’esperienza della trascendenza non è di per sé
l’esperienza della rivelazione. Il Dio che promette di risuscitare i morti non
è la verità platonica, e a mio modo di vedere un credente non può far propria l’opinione di Nietzsche, secondo il quale “non ci sbarazzeremo di Dio
perché crediamo ancora nella grammatica”. Il Dio che muore sulla croce
non è il garante della nostra grammatica né della nostra logica.
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Pascalianamente, il Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, il
Dio di Gesù, il Dio che è Gesù Cristo, non è il Dio dei filosofi, non è l’essere, non è la verità che fonda l’argomentare filosofico, e non è, neppure, la
verità che si manifesta in un qualunque mito e in una qualunque opera
d’arte. Un Dio così inteso, ai miei occhi di credente non filosofo, ma credo
non soltanto ai miei, è troppo simile a un idolo, e non basta Max Scheler a
risolvere le cosiddette “apparenti contraddizioni” tra ragione e fede. Il Dio
cristiano è testimoniato, invece, nelle celebri, paradossali parole della lettera di Dostoevskij alla signora von Vizime: “Io sono un figlio della incredulità e del dubbio”, ma “io mi dico con un amore geloso […] che se qualcuno mi provasse che il Cristo è fuori della verità, e che la verità è fuori dal
Cristo, io preferirei restare piuttosto col Cristo che con la verità”.
da “Segni e comprensione” n. 12, anno V, gennaio-aprile 1991
1 C. CIANCIO, G. FERRETTI, A.M. PASTORE, V. PERONE, In lotta con l’Angelo. La filosofia
degli ultimi due secoli di fronte al Cristianesimo, Torino, 1989, pp. 462.
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