Sulle ali della libertà per evadere dal potere

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Corriere Eventi
C ORRIERE
L’ I NTERVENTO
i protagonisti
DELLA
S ERA U M ARTEDÌ
9
M AGGIO
2006
NOVEMBRE ’89 La caduta
del muro di Berlino (Turnley)
Sulle ali della libertà per evadere dal potere
Resistere a ogni tirannia che si presenta irresistibile: così l’uomo conquista la sua dignità
JOHN MILTON
Il poeta inglese
(1608-1674), difendendo
la libertà di stampa come
paradigma di ogni libertà
di espressione, sostenne
che bruciare un libro era
come bruciare un uomo.
E in un verso della sua
opera «Il Paradiso
perduto» scrisse che
«ragionare non è altro
che scegliere»
JOHN STUART MILL
Il filosofo ed economista
britannico (1806-1873),
autore del saggio
«Sulla libertà», sosteneva
che, tanto in economia
come in politica e in
religione, «ogni vincolo
in quanto vincolo è un
male», e che impedire
l’espressione di
un’opinione significa
«derubare» la razza umana
CHARLES DARWIN
La lezione profonda
dello scienziato inglese
(1809-1882), autore de
«L’origine delle specie»,
è che la nostra libertà
è una conseguenza
dell’evoluzione: essa
si radica nel corpo, e senza
questa dimensione materiale
non avremmo esperienza
di ciò che si definisce
«libertà dello spirito»
A
mmoniva il cattolico Blaise Pascal:
«Non è un bene essere troppo liberi», ma un poco, sì. Constatava l’illuminista Voltaire: «Siamo tutti deboli, incoerenti, soggetti all’incostanza, all’errore». Per questo, almeno una scintilla di
libertà è necessaria: per poter imparare
qualcosa da questa fragilità, per non limitarsi a sopravvivere, ma cercare di vivere
meglio.
Quella di libertà è nozione tipicamente
relativa: l’essere umano si sente più libero
delle scimmie e giudica la scimmia più libera di un’ameba. Un tempo avremmo ricordato che Adamo ed Eva erano stati fatti a
immagine e somiglianza del loro Creatore;
oggi, più modestamente, riconosciamo che
la nostra maggiore libertà è una conseguenza di come siamo e di come siamo evoluti.
È la lezione più profonda della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin. La nostra
libertà si radica nel corpo — nella nostra
mano e nel nostro cervello. Non voglio svilire i sentimenti più elevati, le grandi idee della cultura o le conquiste dell’arte e della
scienza — insomma, tutto quello che i filosofi chiamano il mondo dello Spirito o i
prodotti della Mente. Ma senza questa dimensione materiale, non avremmo alcuna
esperienza di libertà. Quante volte sentiamo parlare di "libertà di pensiero", e quanto ci ripetono che anche sotto il più feroce
tiranno ciascuno resta libero di pensare ciò
che ritiene opportuno! Ma che cosa vale tutto ciò se all’individuo viene impedito di
esprimere quel che pensa, per esempio le
sue ragioni per non piegarsi al tiranno? Difendendo la libertà di stampa come paradigma di ogni libertà di espressione, nel Seicento il poeta John Milton diceva che bruciare un libro era come uccidere un uomo.
Viceversa, il Novecento dei totalitarismi ha
conosciuto persino la tirannia sui cervelli,
nel tentativo di controllare materialmente
il pensiero stesso.
Chi ama la (propria) libertà potrebbe far
sua la battuta di John Stuart Mill per cui
«ogni vincolo in quanto vincolo è male». Il
pensatore britannico alludeva non solo all’economia, ma anche a quello della politica e della religione. In un certo senso, colpiva nel segno: possiamo percepire qualsiasi
vincolo come un legame che vorremmo
sciogliere, una catena che vorremmo spezzare. «Come assomiglia il morto al prigioniero», recita la tavola X dell’epopea di Gilgamesh — l’eroe babilonese per il quale
l’estinguersi della libertà equivale alla cessazione della vita. Ma la sensazione che ognu-
di GIULIO GIORELLO
IL PESO DEL RISCHIO
Quando le mura del vecchio ordine si sgretolano,
coloro che hanno lottato per il cambiamento
si trovano di fronte ad una terribile responsabilità
no di noi prova di essere un «individuo»
autonomo e indipendente da tutto ciò che è
altro, è più labile e precaria di quanto usualmente appaia. Siamo plasmati dai nostri geni, modellati dall’ambiente e dall’educazione, né certo possiamo illuderci di fare a meno delle leggi della fisica o di dimenticare i
limiti della nostra struttura biologica. Forse, la stessa società di cui ci troviamo a fare
parte è, come direbbe ancora Pascal, solo
un enorme corpo «pieno di membra pensanti». Se le cose stanno così, non dovremmo concludere che i condizionamenti sono
tanto molteplici quanto potenti, al punto
che la libertà è solo un’illusione?
Eppure, questa illusione è così forte che
cambia il mondo. Magari la sua comparsa
è stata, in un momento imprecisato del cammino dell’evoluzione del vivente, qualcosa
di puramente accidentale, una sorta di incidente di percorso. Col tempo è diventata
una caratteristica sempre più consolidata,
fino a costituire un tratto distintivo della
nostra natura. Come recita un verso de Il
Paradiso perduto di Milton, «ragionare
non è altro che scegliere»: più che di «libertà di pensiero», dovremmo parlare della libertà come condizione del pensiero stesso.
Pensare è già agire. La libertà non è pura
scelta tra questa o quella idea in una sorta
di magazzino dell’intelletto, ma decisione
tra differenti linee di condotta. A differenza dalla morte, si può — almeno qualche
volta — abbattere la parete del carcere ed
«evadere».
Sia lecito un ricordo personale. Le immagini della caduta del muro di Berlino sono
presto diventate il simbolo di interi popoli
che evadevano da pesanti condizioni di assoggettamento: ne parlavo allora con due
amici che ora non ci sono più. Ludovico
Geymonat, maestro della filosofia della
scienza italiana, che aveva «scommesso»,
pur tra critiche e dissenso, sull’esperimento
del «socialismo reale», non si limitava a ricredersi sulla propria scelta, ma traeva di
L’INCONTRO
Quella parola contesa tra scienza e filosofia
di MASSIMILIANO FINAZZER FLORY
L
a parola è il luogo in cui
si ordinano i rapporti tra
l’ignoranza e la saggezza
(in filosofia) e tra la conoscenza
e la scoperta (nella scienza).
Naturalmente, dentro una parola vi
sono molte altre cose. Perché le
parole non sono solo ambivalenti ma
anche generosamente ambigue.
La parola può essere opera d’arte.
La parola contesa è in questa
prospettiva un progetto pensoso
che coniuga, contaminandoli, i saperi
della filosofia e della scienza.
Perché non è del tutto superata
la contrapposizione tra queste due
culture, causa la radicalizzazione
delle loro identità (retorica
e tecnica). È sterile tale
contrapposizione; non genera una
domanda alta, una sfida importante
alle nostre certezze: in fondo,
filosofia e scienza non sono piuttosto
due facce della stessa medaglia di cui
ignoriamo o neghiamo il valore?
Il valore di ricerca, l’interrogazione
fondante, la lotta contro l’ovvio,
l’allargamento della libertà di
pensiero, le sue motivazioni etiche,
sono questi alcuni elementi attraverso
i quali si articola il progetto
di Parola contesa come provocazione
nei confronti delle nostre conoscenze.
Dove dialogare non è attività
pacificante o consolatoria.
Al contrario, dia-logare significa
invitare e ospitare discorsi
per «provare» l’esperienza della
differenza. E due sono le parole
emblematiche su questi temi: libertà
ed etica, occasioni per riflettere
e comprendere le pieghe di questi due
concetti ricchi di sfumature
e stratificazioni di senso. Dove ogni
piega ruota sempre attorno a un
punto che offre, così, anche un punto
di vista. All’interno dell’attuale
contesto tra filosofia e scienza,
in bilico fra una facile divulgazione
o una criptica autorevolezza, occorre
ri-scoprire una possibile strategia:
la scelta di situarsi nelle pieghe
dell’oscillazione tra filosofia
e scienza.
Il tema della Libertà sarà al centro
dell’incontro del ciclo «La parola
contesa» che si svolgerà il 24 agosto
alle 18 al PalaVolkswagen
di Cortina d’Ampezzo tra il filosofo
della scienza Giulio Giorello
e il biologo Edoardo Boncinelli.
I dibattiti sono ideati e condotti
da Massimiliano Finazzer Flory
qui lo spunto per insegnarci che non si dà
libertà senza libertà di cambiare; Marco
Mondadori (con cui qualche anno prima
avevo curato un’edizione del saggio Sulla
libertà di Mill) metteva in luce come la libertà di un popolo fosse ancora una volta ottenuta attraverso la libertà delle «membra»
che lo compongono: da sudditi a cittadini.
Quando le mura del vecchio ordine si sgretolano, la «libertà» che le persone si conquistano appare solo «licenza» ai difensori del
passato. Ma essa è invece responsabilità,
anzi responsabilità «terribile», per coloro
che sono impazienti del nuovo.
Come finì con l’ammettere Karl Popper
(incalzato dalle provocazioni di Paul Feyerabend), «un liberale non è altro che un
anarchico timido». Si può osare di più.
Non si tratta di sognare un’ideale società
senza tirannidi, ma di combattere, caso per
caso, le tirannidi esistenti — comprese quelle che possono sembrarci «democratiche»:
«Quanto più perfetta è l’organizzazione,
quanto più riesce ad attrarre e a educare ai
propri fini le persone più capaci provenienti da ogni strato della comunità, tanto più
completa è la schiavitù per tutti, poiché i
governanti sono altrettanto schiavi della loro disciplina quanto ne sono schiavi i governati». Ai tempi (1859) del Saggio sulla libertà, Mill temeva soprattutto il crescente peso della burocrazia; più di un secolo dopo,
Popper guarderà con altrettanto sospetto a
quello dei media, come la televisione. Resistere a qualsiasi potere che si presenta come irresistibile: questo è il nucleo delle varie libertà (al plurale) che vengono via via
conquistate e difese spesso al prezzo di lacrime e sangue.
Credo che Ludovico e Marco sarebbero
stati d’accordo che questo è il modo migliore di celebrare un pensatore come John
Stuart Mill, di cui ricorre quest’anno il secondo centenario della nascita, che aveva
intuito gli aspetti di quella particolare forme di tirannide che oggi chiamiamo «correttezza politica» — così ossessionata da
«sicurezza» e «rispetto» al punto da vietare
il gusto del rischio e l’esperienza del conflitto. Ma ogni istituzione che «rimpicciolisce
i propri membri perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a
fini benefici, scoprirà che con gente piccola
non si possono compiere cose veramente
grandi» — nell’impresa scientifica come
nella competizione politica: «La perfezione
meccanica cui tutto è stato sacrificato alla
fine non servirà a nulla, perché mancherà
la forza vitale che, per fare funzionare meglio la macchina, si è preferito bandire».
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