Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella INTRODUZIONE Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella L’ORIGINE DEL PENSIERO MEDIEVALE E IL SUO SIGNIFICATO Il pensiero medievale è un fenomeno complesso e molteplici sono gli elementi che contribuiscono alla sua nascita. Si può, volendo semplificare molto il processo storico che conduce alla nascita del mondo medievale, affermare che il mondo speculativo e la filosofia medievale nascono dall’incontro tra eredità greca e tradizione giudaica. Sebbene le componenti che conducono la società romana tardo-antica a trasformarsi nel variegato mondo medievale siano molteplici, dal punto di vista della ricerca filosofica i principi fondamentali del Medioevo devono essere rinvenuti nella religione cristiana con il suo retroterra giudaico e nel pensiero pagano. Già all’interno di alcuni vangeli, segnatamente quello di Giovanni (il più tardo dei quattro, scritto probabilmente intorno alla fine del I secolo d. C.), e in alcune lettere paoline, si possono trovare elementi propri della cultura ellenistica. Il Logos in Giovanni (che scrive in greco) rimanda alla tradizione filosofica ellenistica, mentre alcuni critici hanno visto nel tema della Sapienza in Paolo riferimenti alla tradizione stoica (con la quale forse l’Apostolo era entrato in contatto nella originaria Tarso). Il dialogo e la progressiva fusione di elementi della religione giudaico-cristiana con il retaggio greco prosegue lungo tutti i primi secoli della Chiesa con l’opera degli autori appartenenti alla tradizione patristica; spesso al centro di dibattiti accesi, l’impiego delle categorie speculative greche al fine di difendere e rendere maggiormente coerente la fede cristiana contribuisce alla creazione di una nuova civiltà (vedi il capitolo: Patristica). Questa contaminazione, tuttavia, era iniziata già nel III secolo a. C., quando il testo della Bibbia ebraica viene tradotto in greco, secondo la tradizione per ordine del re Tolomèo Filadèlfo ad Alessandria d’Egitto; questa versione, detta dei Settanta (dal numero dei traduttori che la avrebbero realizzata), rappresenterà l’antico Testamento della Bibbia cristiano-cattolica. La traduzione dei Settanta rappresenta uno dei momenti iniziali di un dialogo tra mondo greco e mondo giudaico, sempre complesso e articolato. Questa operazione di traduzione, infatti, produce una prima sovrapposizione tra le categorie lessicali-concettuali del mondo greco e quelle giudaiche, dando inizio al processo di fusione tra le due tradizioni. Tale processo, alla pari di ogni operazione volta ad armonizzare visioni del mondo e apparati concettuali diversi, risulterà altamente problematico e ambiguo. Come testimonianza della laboriosità di questa operazione si può citare il caso, molto significativo e di grande importanza culturale, della traduzione in greco del termine ebraico nèfesh. L’espressione giudaica in questione, infatti, può essere reso con “respiro”, indicando genericamente la vita e potendo essere anche usata come pronome personale o riflessivo. Il termine nèfesh viene reso in greco con l’espressione psyché, ovvero “anima”. La nozione greca di “anima”, tuttavia, è collegata a una particolare visione antropologica che si regge proprio su quella distinzione tra dimensione interiore-mentale e dimensione corporea pienamente elaborata da Platone nella sostanziale opposizione dei due termini: nell’uomo, per la tradizione greca, le attività conoscitive superiori (razionalità o intelletto) devono essere distinte da quelle inferiori (sensibilità e funzioni vegetative) e rappresentano l’aspetto qualificante di ogni essere umano. Nella tradizione ebraica, invece, nèfesh, “carne” (basâr) e “cuore” (leb) sono tutte parti dell’uomo inteso come una realtà unitaria. I termini antitetici in questa visione antropologica non sono “corpo” e “anima” ma “alleanza” e “non-alleanza” con Dio dell’uomo; l’alleanza con Dio significa lo stare in rapporto con il soffio divino, la ruah (tradotto pneuma dai Settanta), che garantisce all’uomo la Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella vita e la prosperità, la rottura di tale alleanza coincide con la morte dell’individuo. Nel mondo ebraico la stessa contrapposizione tra carne e spirito (basâr e ruah) si produce solo come antitesi tra l’uomo che fa il volere di Dio restandoGli fedele (e godendo del soffio vivificante della ruah) e l’uomo che volta le spalle a Dio divenendo solo carne (basâr priva di ruah); non compare, quindi, in questa visione antropologica (che è al tempo stesso teologica) una gerarchia tra le funzioni conoscitive dell’individuo. È evidente, quindi, come la stessa resa in greco di alcuni termini ebraici introduce un nuovo e profondamente differente orizzonte concettuale. Questa complessa, reciproca traduzione dei due universi culturali (greco ed ebraico-cristiano) continuerà lungo tutto il mondo medievale; la filosofia dell’epoca di mezzo declinerà l’insegnamento religioso cristiano (sul senso dell’esistere umano e sulle vie per conquistare una vita nonché una felicità eterne) nelle forme e con il linguaggio “tecnico” del pensiero “scientifico” greco. Lo sforzo di sovrapposizione tra la tradizione greca e quella cristiana, tuttavia, risulta facilitato da alcuni fattori storico-culturali. 1) Innanzitutto va ricordato che è presente nel mondo tardo-antico una diffusa esigenza di spiritualità e una tensione verso la trascendenza o il divino, all’interno di un contesto culturale che sembra accentuare gli aspetti irrazionalistici presenti nelle civiltà antiche. In questo mondo la tradizione giudaico-cristiana viene percepita come una forma di spiritualità capace di soddisfare efficacemente i bisogni esistenziali e di placare le ansie di una realtà in profonda trasformazione, nella quale proprio l’interesse religioso è sintomo di un’interna tensione e insoddisfazione. 2) In secondo luogo alcuni elementi propri della nascente civiltà cristiana sembrano manifestare una convergenza con teorie elaborate nel contesto greco, risultando a queste più facilmente sovrapponibili. Si possono ricordare a questo proposito le parti del patrimonio di credenze giudaico-cristiane che trattano questioni di natura filosofica (come la narrazione della Creazione divina nel Genesi la quale rappresenta una sorta di “fisica” Rivelata) o la similitudine di alcune idee teologiche tra ebraismo e grecità (l’ineffabilità di Dio di cui si parla, ad esempio, in Esodo 33, 20, in riferimento all’incontro che Mosé ha con il Signore, può risultare consimile alle teorie platonico-neoplatoniche sulla natura del Bene-Uno). Interprete di nuove esigenze spirituali, allora, il cristianesimo si afferma progressivamente, contro altri culti (dal mitraismo allo gnosticismo), entrando sempre di più in rapporto con le precedenti forme di pensiero e di civiltà, sino a uscire dalla clandestinità (editto di Milano ad opera di Costantino nel 313 d. C.) e a divenire religione di stato (380, editto di Teodosio I). Il prodotto di tale sinergia, delicato e articolato, è una nuova realtà speculativa e una nuova civiltà, germe nonché incubatore del mondo medievale. SIGNIFICATO DI “MEDIOEVO” E CARATTERE PLURALE DEL PENSIERO MEDIEVALE La definizione “Medioevo” deve essere considerata come un’etichetta storiografica complessa, da utilizzare con prudenza. Bisogna ricordare, innanzitutto, che la categoria “Medioevo”: non è neutra ma veicola una precisa filosofia della storia e un peculiare sistema di valori. Il termine “Medioevo”, con il quale si indica generalmente il periodo che va dalla fine del mondo romano (deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odacre nel 476) alla scoperta dell’America Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella (1492), infatti, significa “epoca di mezzo”. Una delle prime attestazioni di questa espressione si ha nel 1469 con Giovanni Andrea Bussi che la utilizza attribuendole un chiaro valore negativo (media tempestas): il mondo medievale è in quel caso pensato come quell’insieme di fatti e di scelte culturali che sono prive in sé di valore e che, quindi, hanno avuto l’unica funzione di dividere, come epoca-che-sta-in-mezzo, la grandezza dell’antichità (romana in particolare) e il nuovo periodo (Rinascimento), impegnato nel recupero di quella perduta perfezione. Il termine “medioevo” come categoria storiografica e l’implicito giudizio sull’epoca che l’espressione designa si affermerà lentamente nel mondo moderno; la ritroviamo normalmente impiegata solamente alla fine del XVIII secolo con l’opera di intellettuali quali Cristoforo Cellario professore all’università di Halle (morto nel 1770). La ricerca storica ha mostrato il carattere pregiudizievole e falso di una simile visione del mondo che nasce dalla fine dell’impero romano, imponendo di utilizzare l’espressione “Medioevo” in modo più attento e consapevole. Va aggiunto a questo rilievo che tale valutazione del mondo medievale è stata elaborata solamente in riferimento al Medioevo latino (dell’Europa occidentale) e che, se risulta discutibile per tale mondo, è ancora meno accettabile quando la si applica alla realtà dell’Oriente (quello bizantino e ortodosso), ancora non indagato a fondo dalle ricostruzioni critiche dedicate alla filosofia medievale, o a quella del mondo non cristiano (islamico ed ebraico). D’altra parte anche l’esatto arco temporale che dovrebbe costituire il mondo medievale non è certo, ma risulta il frutto di convenzioni storiografiche e scelte ricostruttive. Lo stesso Cellario, ad esempio, fa iniziare il periodo in questione con la morte di Costantino (IV secolo d. C.), ma ne vede la conclusione già con la presa turca di Bisanzio (1453) e non con la scoperta dell’America. In modo analogo altre date ed eventi possono essere indicati come legittimi “estremi” cronologici del Medioevo occidentale. Anche la categoria “filosofia medievale” sarà inevitabilmente segnata da numerose ambiguità. Le cautele critiche che si devono avere nell’utilizzo dell’etichetta “Medioevo” risultano ancora maggiori nel caso della dicitura “filosofia medievale”. A questo proposito va ricordato che: l’impiego di un’unica sigla per indicare le diverse scuole e correnti che costituiscono il pensiero dell’epoca di mezzo rischia di far dimenticare la reale natura e complessità della speculazione medievale. Tale speculazione, infatti, è costituita da esperienze di pensiero molto diverse tra di loro in termini culturali e geografici. Per provare una simile affermazione basta ricordare che la dicitura “filosofia medievale” raccoglie in sé autori molto eterogenei: dal pensiero di Boezio, nobile romano al servizio del re goto Teodorico nel VI secolo d. C. (in un mondo occidentale dove ormai il potere romano è scomparso), alla filosofia del persiano Ibn Sīna (in latino Avicenna) che nella Hamadan (città dell’attuale Iran) dell’XI secolo ricopre importanti incarichi politici, dalla teologia di lingua greca di Dionigi Areopagita nel Medio Oriente del VI secolo, alla raffinata speculazione di Tommaso d’Aquino, docente all’università di Parigi nel XIII secolo e appartenente all’ordine domenicano, e al pensiero ebraico di Mosè Maimonide attivo tra la Spagna e l’Egitto nel XII secolo. Gli autori citati, come i molti altri che si potrebbero ricordare quali figure più o meno centrali del pensiero medievale, quindi, sono diversi per formazione culturale, luogo di nascita, lingua parlata (latino per Boezio e Tommaso, greco per Dionigi, arabo per Avicenna e in parte anche per Maimonide che scrisse in questa lingua oltre che in ebraico) e persino fede religiosa. Il pensiero medievale, allora, deve essere considerato come un fenomeno plurale, ovvero composto da diverse tradizioni culturali-speculative, spesso molto differenti tra di loro. Per questa ragione la dicitura al singolare “filosofia medievale” può essere fuorviante, in quanto Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella non va intesa come etichetta che qualifica un percorso omogeneo e coerente, ma come espressione capace di racchiudere una grande differenza di fenomeni speculativi differenti tra di loro in modo anche molto marcato. La categoria “filosofia medievale” continua a essere utile come strumento di lavoro storiografico Le categorie “Medioevo” e “filosofia medievale”, in ogni caso, possono continuare a essere utilizzate in quanto rappresentano utili (e non sostituibili) “strumenti di lavoro”. Queste etichette, infatti, hanno una precisa utilità tecnica e operativa. La suddivisione critica della storia del pensiero del mondo occidentale ha fatto proprie queste espressioni ed esse sono diventate parte del lessico storiografico-scientifico contemporaneo, sebbene nel loro impiego sia sempre preferibile ricordare i limiti che portano con sé. In sintesi, quindi, il pensiero medievale deve essere preliminarmente definito come: un’esperienza complessa costituita da molteplici correnti teoriche e organizzata intorno alla discussione di differenti questioni non identificabile con la sola speculazione in lingua latina, ma definito anche dalle esperienze filosofiche greco-bizantine, arabe ed ebraiche non identificabile con il solo mondo cristiano, ma segnata da un rapporto pluriconfessionale con le altre “religioni del libro” (Islam ed Ebraismo) NATURA E PROBLEMI STORIOGRAFICI DELLA “FILOSOFIA MEDIEVALE” La natura plurale della filosofia medievale richiede una particolare cautela nella definizione della sua speculativa mediante l’identificazione di temi e dottrine. La diversità di tradizioni, problemi e fedi religiose rende complesso individuare una serie di questioni speculative che possano riassumere in modo efficace ed esaustivo l’intero percorso filosofico medievale. Per questa ragione, quindi, ridurre il pensiero dell’epoca di mezzo a una formula univoca rischia di essere sempre un’operazione parziale e incapace di rispettarne l’autentica fisionomia. Ciononostante è possibile indicare alcuni nodi tematici che hanno una certa rilevanza e che sono presenti in molteplici autori. Le questioni speculative così definite, benché non possano fornire un modello filosofico che serva per descrivere con precisione ogni fenomeno speculativo dell’epoca di mezzo, rappresentano tematiche certamente importanti e capaci di restituire almeno una parte dell’indagine speculativa medievale. La prima di tale problematiche è: 1. il rapporto tra la filosofia, come pratica razionale, e la fede cristiana. L’espressione “filosofia”, infatti, come è noto, indica una pratica di ricerca della saggezza che si fa iniziare nel mondo greco, con fenomeni culturali ai quali inizialmente non veniva applicata tale dicitura; questa pratica era segnata da un utilizzo della sola razionalità umana in un indagine che, con precise metodologie di ricerca e strumenti concettuali, cercava di trovare spiegazioni che dessero ragione della totalità della realtà e delle cose. La trasformazione, rispetto alla realtà greco-romana, del contesto sociale e culturale nel quale la speculazione si sviluppa durante i 1000 anni dell’epoca di mezzo ha conseguenze anche sulle forme del pensiero medievale. L’evento centrale che rivoluziona il contesto culturale e “ideologico” nel mondo medievale è rappresentato dall’affermazione del cristianesimo come nuova religione e nuovo sistema di valori, diffuso sia in tutto il mondo occidentale sia in quello orientale (con la progressiva differenziazione Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella tra cristianesimo occidentale cattolico e cristianesimo orientale ortodosso, dopo lo scisma tra le due chiese del 1054). Analoga importanza, anche per le sue eco sul mondo della filosofia in Occidente, avrà nei secoli dell’epoca di mezzo la nascita di una nuova fede: l’Islam. Religioni come quella cristiana e islamica, pur nelle loro reciproche differenze, rappresentano fenomeni culturali nuovi rispetto sia alle tradizioni cultuali del mondo pagano sia al mondo ebraico (dal quale pure a diverso titolo discendono). La diffusione di queste fedi, quindi, con la profonda trasformazione sia culturale sia socio-politica che seppero determinare, incise fortemente anche sui modi della riflessione filosofica. Il rapporto fede-ragione appare così una delle problematiche al centro di numerose scuole, dottrine e riflessioni della filosofia medievale. Aspetto centrale di tale questione è il problema sia dell’opportunità o meno di applicare allo studio delle fede la razionalità filosofica sia dei limiti dell’utilizzo della ragione stessa nella comprensione degli articoli di fede. Il problema appare di estrema complessità e interesse perché il cristianesimo (come l’Islam e il mondo ebraico) in quanto “religione del libro”, ovvero fede che si trovava rivelata direttamente da Dio in un testo ben definito (sebbene i modi in cui il divino comunica all’uomo la sua Parola differiscono tra cristianesimo e islamismo o giudaismo) consisteva in una verità assoluta (di origine soprannaturale) e chiaramente attestata (riportata una volta per tutte in un libro) che richiedeva come tale una totale adesione-conformità da parte del credente. Nel mondo cristiano, inoltre, la Chiesa si assunse ben presto il ruolo di guardiano della purezza della fede e giudice della conformità delle pratiche dei credenti alla verità del testo sacro. Nei confronti di una fede con simili caratteri il problema dello spazio di autonomia e del compito del pensiero filosofico-razionale diviene tema da discutere attentamente. Agostino di Ippona (354 – 430), fra i più importanti Padri della Chiesa (vedi capitolo: Patristica), riassume in questo senso una posizione che avrà grande successo. Di contro agli autori e alle scuole di pensiero cristiane che nutrivano diffidenza verso la razionalità pagana (legata a un modo idolatra che aveva perseguitato la fede della Chiesa), Agostino ribadisce l’opportunità di servirsi del patrimonio delle conoscenze derivato dal mondo greco-romano e di impiegarle per un approfondimento della stessa religione cristiana. In un suo testo fondamentale, il De doctrina christiana (L’insegnamento cristiano), Agostino paragonava l’utilizzo della sapienza pagana allo scopo di un perfezionamento della comprensione delle dottrine di fede all’oro che il popolo ebraico portò via con sé nella fuga dall’Egitto (Esodo 12, 35): i beni, impuri e da rifiutare, di un popolo nemico della fede, possono essere utilizzati a scopi positivi (De doctrina christiana II, 40, 60). Agostino riassume questa teoria con la formula credas ut intelligas, intellige ut credas (credi per comprendere, comprendi per credere; Sermones 43, 9): la fede apre il percorso di ricerca della verità e tale ricerca risulta perfezionata dall’incontro con la razionalità filosofica, capace di rendere più saldo e pieno lo stesso atto del credere. Tale teoria, per cui la ragione filosofica può agire come dottrina al servizio della fede per edificare e promuovere la pietà del credente, viene ripresa da differenti autori. La si trova, solo per citare alcuni nomi, in Giovanni Eriugena (IX secolo) il quale afferma che la vera filosofia è la vera religione, in Anselmo d’Aosta (XI secolo) che si serve dell’espressione fides quaerens intellectum (“la fede che cerca la comprensione razionale”), Tommaso d’Aquino (XIII secolo) nel cui pensiero si può trovare la dottrina dei preambula fidei (Expositio in Boethii De Trinitate, q. 2, a. 3) secondo la quale la fede deve avvalersi della ragione per spiegare quelle verità conoscibili senza la Rivelazione divina (quindi dimostrabili con la sola filosofia) ma utili alla fede (come l’esistenza di Dio o di un’anima immortale). Va comunque ricordato che la attuale storiografia sottolinei come non si debba ritenere la questione del rapporto fede e ragione come la problematica capace di riassumere completamente ogni aspetto del pensiero medievale, come poteva per certi versi accadere nella ricostruzione proposta da Etienne Gilson (1884 – 1978, uno dei più importanti storici del pensiero medievale del XX secolo). Gilson a Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella questo proposito, infatti, parlò del pensiero nell’epoca di mezzo in termini di semplice “filosofia cristiana”. Il Medioevo, infatti, si caratterizza per elaborazioni speculative che, pur nascendo in un contesto cristiano e senza prendere le distanze da quel sistema di valori, hanno diversi interessi ed esiti non teologici. In questo senso deve essere rifiutata quella visione del pensiero medievale nella quale la ragione è un semplice strumento al servizio della fede (philosophia ancilla theologiae). Quest’ultimo modo di pensare alla filosofia, per quanto sembri testimoniato da varia autori (a partire da Agostino), rappresenta un ideale regolativo teorizzato da alcuni pensatori e non un dato di fatto assoluto. I temi e gli ambiti dottrinari indagati dalla filosofia nel Medioevo, d’altra parte, sono molto maggiori in numero di quanto l’enfatizzazione della questione del rapporto fede-ragione potrebbe far pensare. Il peso preponderante attribuito alle questioni dogmatiche cristiane aveva suggerito di concentrare l’analisi della filosofia medievale su quelle dottrine speculative, come l’indagine intorno alle realtà extra-fisiche e alle forme dell’essere (essere materiale-diveniente ed essere immateriale-indiveniente), che sono maggiormente rilevanti per la ricerca religiosa. In questo modo alcune ricostruzione storiografiche hanno in passato privilegiato gli aspetti metafisici e ontologici del pensiero medievale, riducendo così a queste forme della riflessione filosofica la totalità dell’indagine razionale nell’epoca di mezzo, mentre il progresso dell’indagine storiografica ha fatto emergere la molteplicità degli interessi dei pensatori medievali, attenti a problemi di fisica, semiotica, politica, teoria della letteratura, epistemologia. Una seconda questione che può essere considerata di grande importanza per il pensiero medievale, ancorché incapace di riassumere ogni aspetto della filosofia nell’epoca di mezzo, è: 2. la cosiddetta “disputa sugli universali” Per alcuni storici della filosofia del XIX secolo (come Victor Cousin, 1792 – 1867), infatti, il problema degli universali avrebbe rappresentato il cuore e la sintesi dell’intera speculazione medievale. Sebbene simili giudizi siano stati abbastanza presto ritenuti scorretti, il dibattito logico in generale e la discussione sui termini universali in particolare rappresentano di certo momenti importanti in differenti autori dell’epoca di mezzo. La disputa sugli universali nasce da un passaggio di un testo tardo-antico, l’Isagoge (ovvero Introduzione) che Porfirio (primo allievo di Plotino, 233 d. C. – 305 d. C.) preparò per un suo discepolo, Crisaorio, intorno alle Categorie di Aristotele. In questo testo Porfirio affermava esplicitamente che non si sarebbe occupato del problema dei generi e delle specie, ovvero: se questi siano sussistenti di per sé o se siano semplici concetti della nostra mente; e, nel caso siano sussistenti, se corporei o incorporei; e, per finire, se siano separati o se si trovino nelle cose sensibili, a queste inerenti Il problema che così Porfirio poneva nell’Isagoge, senza risolverlo, era quello: se le idee generali (come animale o uomo) siano semplici concetti o se abbiano un’esistenza propria; se, nel caso abbiano un’esistenza propria, la loro natura sia corporea o no; e se esistano nelle cose (come qualcosa che inerisce loro) o separatamente da esse. L’Isagoge rappresentò uno dei testi di logica più letti nel mondo medievale e la questione introduttiva posta da Porfirio divenne problema ampiamente dibattuto. Intorno alle questioni poste da Porfirio alle loro possibili soluzioni si sviluppò nel mondo medievale un complesso dibattito, che a partire dal XII secolo vide la nascita di differenti scuole. Tradizionalmente si possono individuare due correnti di pensiero relative agli universali nel mondo medievale. In queste si possono inserire autori diversi, attivi in differenti periodi storici: I realisti. Questo gruppo di pensatori sosteneva l’esistenza concreta dei termini concettuali, identificandoli con essenze immateriali simili alle idee platoniche. Tali Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella essenze potevano poi essere considerate modelli delle cose reali, presenti nella mente di Dio al momento della creazione. Guglielmo di Champeaux, maestro e avversario di Pietro Abelardo (1079 – 1142) è la figura più significativa di questa corrente. I nominalisti. Questo gruppo di pensatori sosteneva il carattere di puro nome dei generi e delle specie, riducendo quest’ultimi ai termini con cui si indicavano i corrispettivi oggetti reali. In alcune forme del nominalismo l’universale era ridotto a semplice flatus vocis (emissione di un suono articolato come parola), radicalizzando il carattere di semplice nome dell’universale stesso. Posizioni nominaliste intorno alla questione degli universali verranno elaborate da diversi pensatori; nel XII secolo Roscellino sostiene una dottrina di questo tipo, ma solo con Guglielmo d’Ockham (1288 – 1349) questa dottrina si sviluppa pienamente e si impone nel pensiero del XIV secolo. A queste due correnti si può aggiungere quella: abelardiana o concettualista. Questa dottrina può essere identificata sostanzialmente con il pensiero logico di Pietro Abelardo (1079 – 1142), per il quale l’universale è il termine con cui si possono raccogliere e chiamare insieme con un solo nome (ad esempio “uomo”) individui differenti (i vari uomini e donne reali); ciò che rende possibile questa operazione concettuale e linguistica dell’universale è lo status, ovvero la condizione o qualità propria degli uomini che li rende tra loro simili. Questa posizione può essere avvicinata a quella di Boezio, dal quale molto dipende il pensiero di Abelardo; per Boezio (475 – 525) gli universali esistono solo negli individui come loro forme, ma l’intelletto dell’uomo può separare la forma dal corpo cogliendo la somiglianza tra diversi individui e riunendoli in un solo concetto universale Alle problematiche sinora elencante (questione del rapporto fede-ragione e problema degli universali) si può aggiungere, tra i diversi nodi tematici che in varia misura ebbero una certa importanza trasversale nel Medioevo, la: 3. questione della felicità (beatitudo) Studi storici più recenti, infatti, hanno messo in rilievo come nell’epoca di mezzo in molteplici autori venga discusso il problema della beatitudo dell’uomo, ovvero della felicità umana, nell’interno di definirne le forme e gli strumenti per raggiungerla. Tale questione, da sempre al centro del pensiero filosofico occidentale, viene risolta nel Medioevo con una sostanziale unità di posizioni teoriche: per la quasi totalità dei pensatori medievali la felicità, risultato e premio di una vita buona, ha una natura intellettualistica, ovvero consiste nella contemplazione del Vero che è Dio. I pensatori medievali, infatti, ritengono che la massima realizzazione dell’uomo consista nella conoscenza del vero, quale attività che produce un peculiare piacere intellettuale e quale realizzazione del fine proprio della natura umana (volta nella sua più intima essenza al sapere e alla conoscenza); Dio, tuttavia, è il principio di ogni verità e, quindi, la conoscenza del Vero coincide con la contemplazione del divino che l’uomo buono merita come ricompensa per la sua condotta in vita. Nel mondo medievale a partire da tale idea di felicità “mentale” si sviluppa poi il dibattito intorno sia alla qualità della felicità che l’uomo può ottenere attraverso la conoscenza del Vero durante la vita fisica e terrena sia al ruolo attribuito alle passioni (e quindi alla corporeità) nella ricerca di tale beatitudo. La vita tesa alla piena realizzazione delle capacità conoscitive umane, infatti, è ideale proprio anche della filosofia greca, nella quale però tale fine è collocato in un orizzonte del tutto mondano; quando l’Occidente latino conoscerà il pensiero etico aristotelico che vede in tale forma di vita teoretica il vertice, raggiungibile dall’individuo senza interventi di carattere divino, delle virtù dianoetiche e il coronamento di ogni attività umana, si innescherà il dibattito sulla differenza tra tale felicità intellettuale “laica” e quella concessa da Dio ai beati. Eco di tale dibattito si trova nel Monarchia di Dante Alighieri (circa 1312) dove viene discussa la distinzione tra le due tipologie di felicità Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Nonostante il considerevole numero di autori coinvolti nell’analisi di queste questioni e la loro centralità all’interno dell’economia della filosofia medievale nessuna di tali problematiche può riprodurre da sola l’aspetto autentico e totale del pensiero nell’epoca di mezzo. A ciascuna di queste tematiche, quindi, si farà di volta in volta riferimento nella ricostruzione della fisionomia del pensiero nell’epoca di mezzo, senza volerne considerare nessuna come il problema o il cuore del pensiero medievale. PERIODIZZAZIONE DEL PENSIERO MEDIEVALE La tradizione storiografica ha individuato all’interno della filosofia medievale alcune epoche. Anche la suddivisione del pensiero medievale in vari periodi risponde a esigenze di categorizzazione o organizzazione dello studio e non deve essere considerata come perfettamente oggettiva. La collocazione di un pensatore in uno o in un altro di questi momenti e, di conseguenza, la definizione dell’esatto significato nonché dei precisi limiti di tali epoche, infatti, non è sempre facile e presenta margini di ambiguità. La prima epoca fra quelle nelle quali si può dividere la storia del pensiero medievale è la: Patristica. Con tale termine si intende l’insieme di opere, dottrine e teorie che alcuni autori (i cosiddetti Padri della Chiesa) producono nei primi secoli del cristianesimo (indicativamente sino al VII-VIII secolo d. C.) allo scopo prima di difendere (apologetica) e poi di ripensare in termini concettuali rigorosi la fede cristiana. Si può così distinguere una: prima patristica di natura apologetica (sino al III secolo d. C.), intenta cioè a difendere la fede cristiana dagli attacchi pagani e rivendicare per essa uno spazio nella società dell’epoca (secondo il significato originale greco di “apologia” quale difesa giudiziaria di una persona), e una seconda patristica, che sviluppa la formalizzazione delle idee religiose in termini filosofici e che si articola a sua volta in un primo momento di grande originalità (sino alla metà del V secolo) e in un secondo momento di consolidamento dei risultati ottenuti (sino all’VIII secolo) Il lavoro di tali Padri della Chiesa avrà un ruolo centrale nella definizione del sistema di dogmi del nascente mondo cristiano. La patristica può essere poi suddivisa al suo interno in almeno due diverse famiglie linguisticodottrinali: Patristica latina e Patristica greca, segnate da molteplici differenze contenutistiche. Rinascita carolingia. Il periodo definito rinascita carolingia va dall’VIII secolo d. C. (771 d. C. salita al potere di Carlo Magno; 800 sua consacrazione come imperatore) all’inizio della dissoluzione dello stesso potere carolingio (morte di Carlo il Calvo nell’877 d. C.). Questo periodo è contrassegnato da una ripresa degli studi filosofici e teologici, resa possibile anche dall’unificazione politica carolingia e dal programma culturale promosso dallo stesso Carlo Magno. Agli studi logici si affianca la pratica di leggere e raccogliere intorno a determinati problemi filosofico-teologici i contributi dei Padri della Chiesa, secondo la pratica del florilegio. Le trasformazioni della filosofia dal IX all’XI secolo. Il processo di arricchimento delle fonti impiegate e di approfondimento della discussione in sede filosofica e teologica proprio del mondo carolingio produce i propri effetti anche nei secoli successivi. Se fino all’anno 1000 non si hanno esiti speculativi particolarmente originali, durante l’XI secolo si può assistere a una prima trasformazione del panorama culturale medievale. Le opere di Berengario di Tours, Lanfranco di Pavia e, soprattutto, Anselmo d’Aosta rappresentano le testimonianze più interessanti di questo periodo. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella La rinascita del XII secolo. Preparata dal lavorio filosofico iniziato a partire dall’anno 1000, la riflessione filosofia del XII secolo è indicata come un momento di particolare vitalità speculativa. In questo periodo, che prepara direttamente le successive fasi del pensiero medievale, si assiste alla crescita degli studi logico-dialettici e al potenziarsi dell’utilizzo degli strumenti razionali in sede teologica. È questo il periodo in cui la cultura si sviluppa anche nelle scuole cittadine, espressione della rinnovata vitalità economico-sociale dei centri urbani. Scolastica. Con questo termine, oggetto di lunghe discussioni e analisi, si può intendere in prima istanza la filosofia che si produce a partire dal XIII secolo nelle scuole universitarie, ovvero nelle Università, quali tipica istituzione culturale medievale. La ricerca filosofica e teologica universitaria nel Medioevo, tuttavia, è caratterizzata da precisi caratteri metodologici (le procedure con cui si compie la ricerca) e contenutistici (i temi su cui si concentra la ricerca) che rappresentano una novità essenziale nel pensiero dell’epoca di mezzo (per quanto resa possibile dall’intero percorso speculativo precedente). La scolastica, quale complesso e articolato fenomeno, presenta in sé differenti caratteri e momenti. Per questa ragione si tende a distinguere una: prima scolastica (XIII secolo), che rappresenta l’affermazione del sistema metodologico e contenutistico universitario, e una: seconda scolastica (a partire dal XIV secolo), caratterizzata da una riflessione intorno agli sviluppi teorici del precedente periodo e in certi casi da una loro critica anche molto severa Va ricordato come alcune tradizioni storiografiche, prendendo le mosse dalla lettura della filosofia medievale semplicemente come dialogo di fede e ragione e indicando nella prima Scolastica il momento di massima armonizzazione tra questi due elementi, abbiano letto le posizioni della Scolastica più tarda, come un momento di dissoluzione o crisi della Scolastica stessa, proprio in ragione del lavoro di analisi e verifica che il pensiero del XIV secolo sviluppa intorno ai risultati dottrinali precedentemente ottenuti. Più recentemente, tuttavia, si è correttamente sottolineato che la filosofia del ’300 può essere descritta non tanto come la fine della Scolastica quanto come un momento di evoluzione del dibattito filosofico-teologico proprio della stessa tradizione scolastica. Il modello culturale proprio della tarda scolastica (a partire dal XIV secolo) continuerà a essere impiegato all’interno delle università europee ancora per molto tempo e sino in piena epoca moderna, quando ormai la filosofia occidentale aveva scelto differenti direttrici di sviluppo e nuove forme per esprimersi. All’interno di questo quadro storico possono trovare collocazione i diversi autori che la tradizione ha individuato come i più importanti rappresentanti del pensiero nell’epoca di mezzo (da Agostino a Tommaso, da Eriugena a Ockham, da Avicenna a Mesiter Eckhart), allo studio delle cui dottrine ci si deve rivolgere se si vuole comprendere in che cosa consista la filosofia medievale. CRONOLOGIA - Tra il 60 e il 90 d. C. la tradizione orale che raccoglieva la predicazione del Cristo viene fissata nei quattro vangeli che la Chiesa riconosce canonici (Marco, Matteo, Luca e Giovanni), distinguendoli così dalle molte testimonianze già esistenti che mettevano al centro al figura del Cristo stesso - Dalla metà del I sec. al 311 d. C. si hanno a diverse riprese persecuzioni contro i cristiani; nell’ultima fase della repressione anti-cristiana operata dal mondo romano (250 d. C. – 311 d. C.) diversi imperatori, quali Decio, Valeriano e Diocleziano promulgano editti contro la nuova religione. - 165 d. C. muore come martire a Roma Giustino, la figura di maggior rilievo della prima patristica greca, volta alla difesa (apologia) del cristianesimo. Suo allievo è Taziano, convertitosi intorno al 150 d. C. alla fede cristiana. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella - Nel 313 d. C. l’imperatore Costantino rende il cristianesimo religio licita, ovvero culto che si poteva praticare senza paura di incorrere in sanzioni legali - Il 28 febbraio 380 con l'editto di Tessalonica Teodosio I stabilisce la religione, nella definizione che ne dava il credo elaborato al primo concilio di Nicea (325), come religione dell’impero, elevando, quindi, la nuova fede a religione di stato. - Nel 410 d. C. Alarico, re dei Visigoti, saccheggia Roma; l’evento crea grandissimo scalpore e gli ambienti pagani accusano i cristiani di essere causa della decadenza del potere romano. - Sul fine del VIII secolo (circa 780 d. C.), Carlo Magno indirizza una Epistula de litteris coelendis all’abate del monastero di Fulda, Baugulfo: è il documento che sintetizza la volontà del futuro imperatore di rivitalizzare lo studio delle lettere nei suoi domini - 999: Gerberto d’Aurillac viene eletto papa con il nome di Silvestro II. La vasta cultura filosofica di Gerberto e la sua attività di raccolta di codici antichi rappresentano l’ideale di un incontro tra Fede e Ragione che segna il mondo medievale nell’anno 1000 - Nel concilio di Parigi del 1051 viene confermata la condanna della dottrina sulla presenza del corpo e del sangue di Cristo nell’eucarestia di Berengario di Tours, il quale metteva in questione la posizione ufficiale della Chiesa applicando gli strumenti dell’analisi dialettica aristotelica - Nel 1180 circa Giacomo Veneto compie una prima traduzione degli Analitici secondi di Aristotele in latino: l’intero patrimonio filosofico greco comincia ad essere conosciuto in Occidente - Nel 1231 si ha lo statuto definitivo dell’università di Parigi: nasce il sistema educativo universitario proprio del mondo medievale. - Nel 1328 Guglielmo di Ockham, teologo e frate francescano, fugge da Avignone, sede in quel momento della curia papale, per aver difeso posizioni contrarie al potere temporale del papato. Si rifugerà a Monaco di Baviera presso la corte imperiale sino alla sua morte nel 1349 Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella PARTE PRIMA: DALLA PATRISTICA ALL'ANNO 1000 Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella LA PATRISTICA. ALLE ORIGINI DEL PENSIERO CRISTIANO Gli autori patristici si caratterizzano per il loro impegno nell’analisi delle dottrine rivelate attraverso gli strumenti della filosofia. Il termine “patristica”, infatti, fa riferimento all’espressione “Padre della Chiesa”. Con questo termine si intendono, a partire dal IV e dal V secolo d. C., quegli autori: 1. capaci per primi di definire la fisionomia dottrinale della fede cristiana, indagando sulle questioni centrali della fede stessa che la Rivelazione proponeva senza fornire soluzioni ultimative 2. capaci per primi, nel produrre tale definizione dottrinale, di iniziare un confronto con il sapere pagano e la filosofia greca. 3. membri della Chiesa dotati di particolare autorevolezza, le cui opinioni quindi sono fondanti la fede stessa. Nel cosiddetto Decreto gelasiano (492 – 96) vi è un primo elenco di autori che la Chiesa accetta universalmente per via dell’ortodossia della dottrina, della santità della vita e della loro antichità. 1. Per quanto riguarda il primo aspetto (fisionomia dottrinale della fede) si deve ricordare (come già accennato; vedi: Introduzione) come si possa distinguere tra la Rivelazione delle Scritture, su cui si fonda la fede cristiana, e la nascita di un apparato omogeneo e armonico di credenze, dottrine, dogmi propriamente cristiani. La Rivelazione offre una serie di indicazioni sulla condotta da assumere per la salvezza, ovvero per l’entrata nel “regno dei cieli”; farsi prossimo al proprio prossimo (ovvero amare il proprio prossimo, come in Luca 10, 27 ss.), operare il bene concretamente senza fermarsi a un rispetto esteriore delle leggi e norme (Marco 3, 1 ss.), riconoscere che Gesù è il Cristo (ovvero l’Unto, segnato con il crisma sacro, quindi il Prescelto da Dio per la salvezza di Israele e del Mondo, come in Matteo 16, 16). Queste verità hanno a che fare con la condotta del singolo individuo e con il suo modo di rapportarsi agli altri, in una dimensione che si può definire “etica”, sebbene, a differenze delle etiche greche (da Socrate ad Aristotele alle scuole ellenistiche), il Vangelo non elabori una morale fondata su di una determinata antropologia “scientifica” e attraverso una rigorosa procedura razionale. Tale Rivelazione, quindi, non chiarisce, nella lettera del testo scritturale, le questioni teologiche che pure sono parte integrante del messaggio cristiano, limitandosi a porre dei problemi di ordine più generale; tali questioni, come l’esatta natura del Cristo (divina o umana), il rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, le forme corrette della venerazione nei confronti del divino, le vie possibili della salvezza nella dialettica tra Volontà di Dio e azione dell’uomo (solo per fare alcuni esempi), pur essendo la “cornice” della “buona novella”, non vengono sviluppati in dettaglio e risolti dalle Scritture. L’opera dei Padri si caratterizza proprio per un pionieristico lavoro di discussione e definizione di simili problematiche. Tale ricerca speculativa si affianca al lavoro dei primi concili della Chiesa cristiana, interagendo con questi e spesso essendone parte integrante, sino alla definizione del sistema di dottrine e dogmi che costituiscono i contenuti della fede, in tutte le sue sfaccettature e aspetti. 2. Per quanto riguarda il secondo aspetto (confronto con la sapienza pagana), bisogna ricordare che il dialogo con le categorie, i metodi e i concetti della filosofia greca da parte dei Padri della Chiesa ebbe una capitale importanza nel processo di definizione dell’apparato dogmatico della fede. Il sapere greco, infatti, rappresentava la più antica e prestigiosa tradizione di insegnamento e cultura; tale tradizione, d’altra parte, già in tempi remoti, aveva iniziato a misurarsi con i sistemi di credenze tradizionali, finendo per assumere un valore soteriologico (di riflessione sulle vie della salvezza per l’uomo) e religioso (dalle obiezioni di Senofane di Colofone sull’antropomorfismo degli dei greci, al dàimon socratico, sino all’intenso sentimento religioso proprio del neoplatonismo con Plotino e Giamblico). Per i Padri, quindi, confrontarsi con un tale lungo cammino speculativo era per certi versi naturale, rappresentando questo l’espressione più articolata, sia in termini religiosi che più Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella genericamente culturali, del mondo antico. Come già accennato (vedi: Introduzione) questa operazione fu coraggiosa e radicale. Fra gli stessi Padri della Chiesa alcuni assunsero posizioni caratterizzate da una certa diffidenza nei confronti della tradizione speculativa antica; esemplari in questo senso sono le teorie di Tertulliano (di cui si dirà più avanti) e di Taziano (di origine siriaca, attivo nel II secolo d. C. e morto probabilmente intorno al 180 d. C.). Va comunque ricordato che anche questi atteggiamenti di sospetto o rifiuto del sapere greco prendevano le mosse da una significativa conoscenza del retaggio filosofico ellenico e facevano uso, per dimostrare la superiorità della Rivelazione biblica e la non necessità di un suo dialogo con la speculazione pagana, di argomenti filosofici. La fusione tra messaggio rivelato e razionalità umana, quindi, si presenta come una tendenza di fondo della riflessione intorno ai contenuti della Fede nei primi secoli dell’era cristiana. Tale interazione produce inizialmente la semplice apologia, la quale nel tentativo di difendere la nuova fede sviluppa un’indagine filosofica sui contenuti rivelati limitata e senza ambizioni di esaustività, per farsi con il tempo più matura; le precedenti esperienze dottrinali e i primi tentativi di sintesi operano allora come basi a partire dalle quali sono via via approfonditi diversi aspetti dogmatici e si cercano di risolvere con precisione le difficoltà concettuali potenzialmente presenti nella Rivelazione. Nella patristica si possono poi distinguere la tradizione latina e quella greca. L’individuazione di queste due “famiglie” nella Patristica è fondata, innanzitutto, sulla differenza delle lingue nelle quali scrissero i diversi pensatori appartenenti all’una e all’altra tradizione (vedi: Introduzione). Questa distinzione, tuttavia, riproduce anche una più profonda differenza di temi, dottrine e temperie speculative. La differenza di lingua si traduce, infatti, in una diversità di fonti e dottrine studiate, la quale a sua volta ridefinisce gli orientamenti speculativi dei vari autori. In questo modo le due patristiche svilupperanno percorsi filosofici diversi e non sempre facili da conciliare. Semplificando al massimo la contrapposizione tra le due patristiche si può dire che quella latina prediligerà la riflessione morale e le indicazioni sulla condotta del buon credente, non soffermandosi particolarmente sulle questioni metafisiche; quella greca, invece, si caratterizzerà per una maggiore forza speculativa, sarà maggiormente attenta alle questioni ontologiche e teologiche più complesse e svilupperà così un percorso d’indagine teoreticamente più intenso. Tra i rappresentanti della patristica latina gli autori ai quali va riconosciuta la maggiore complessità speculativa, testimonianza di un’interazione ormai molto articolata tra Rivelazione e Ragione, e la maggiore importanza per la storia della filosofia sono Agostino di Ippona (354 – 430 d. C.) e Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (470/480 – 525 d. C). Nella patristica di lingua greca l’autore maggiormente conosciuto e studiato nel mondo medievale (anche latino) è Dionigi Areopagita (V – VI secolo d. C.). Per la loro importanza a questi autori va riservata una trattazione a parte. LA PATRISTICA LATINA. APOLOGIA DEL CRISTIANESIMO E PREOCCUPAZIONI MORALI La patristica latina si caratterizza per il dibattito intorno al problema dell’utilizzo della ragione nell’ambito della fede e per l’interesse etico che segna la riflessione di alcuni suoi esponenti. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Fra i primi esponenti della Patristica latina si deve ricordare Tertulliano, nel quale si possono vedere riassunti alcuni dei tratti qualificanti di questa tradizione speculativa. Tertulliano nasce a Cartagine intorno al 160 d. C. e all’età di circa trent’anni si converte al cristianesimo. Intorno al 213 si converte nuovamente all’eresia montanista (nata dalla predicazione, intorno alla metà del II secolo d. C., da parte di Montano e di due profetesse Massimilla e Prisca o Priscilla; questa dottrina eretica attendeva la fine del mondo ed esortava a una vita più casta e pura) per poi abbandonare anch’essa e fondare una propria setta, prima della morte avvenuta intorno al 240 d. C. In Tertulliano è evidente un certo interesse per le problematiche etiche, come messo in luce dalla sua adesione ai montanisti e dal fatto che al suo discepolo, Taziano, si fa risalire la setta degli encratiti, credenti rigoristi che predicavano l’assoluto rifiuto del piacere fisico e una condotta estremamente ascetica. Rappresentante della tradizione apologetica latina, Tertulliano è uno degli esponenti di quella linea di pensiero che rifiuta l’utilizzo di categorie proprie della filosofia greca nella ricerca spirituale cristiana. A questo proposito Tertulliano osserva che: 1. la filosofia può portare solamente alla confusione dottrinale e alla nascita delle eresie 2. il cristiano è già perfettamente filosofo, perché conosce pienamente Dio e l’ordine della realtà, cosa che i più illustri filosofi pagani (come Platone) avevano detto essere molto difficile 3. la religione cristiana non trova la propria fondazione in un’argomentazione razionale, in quanto è in se stessa superiore alla ragione e da questa del tutto diversa 1 e 2. I primi due punti della dottrina di Tertulliano rappresentano argomenti che diverranno convenzionali presso quanti si opporranno all’interazione tra Fede e Ragione. La filosofia altera la regola della fede, così come essa è stata definita dalle Scritture, portando in questo modo alla nascita di dottrine eterodosse (i filosofi, quindi, sono eresiarchi, ovvero origine e causa di eresie contro la vera fede); d’altra parte il cristiano, possedendo una dottrina perfetta intorno all’universo e al suo principio divino, conosce già il Vero ed è per questo filosofo perfetto. 3. Il terzo punto della dottrina tertullianea risulta più complesso e interessante. Tertulliano, affermando che Fede e Ragione sono principi del tutto inconciliabili e antitetici (cosicché non è possibile ricorrere alla seconda per giustificare o comprendere la prima), giunge a sostenere posizioni molto radicali. La Fede, infatti, è descritta dal Padre della Chiesa come costituita da una serie di dogmi che non possono essere ritenuti veri dalla Ragione, palesemente impossibili, completamente assurdi: che il Figlio di Dio possa essere stato condannato come un comune malfattore, ovvero sulla croce (il patibolo più terribile e umiliante nel mondo romano), che possa essere morto e che una volta sepolto possa essere risorto sono asserzioni del tutto inammissibili. Ciò che la Rivelazione testimonia è per la Filosofia umana del tutto inaccettabile. Tertulliano, tuttavia, non si limita a separare le due vie dell’indagine umana (attraverso la fede e attraverso il pensiero) affermando di preferire la verità delle Scritture, ma intende la stessa inconciliabilità della rivelazione rispetto all’atteggiamento razionalistico della precedente filosofia come la prova della verità e del primato della Fede. Tertulliano, infatti, afferma che proprio il carattere assurdo e illogico è ciò che definisce la Fede, dal momento che la Fede stessa è ciò che differisce dalla Ragione ed è priva degli attributi che qualificano una dottrina o un atteggiamento come razionale. Per questo colui che crede, cioè chi ha scelto la Fede, trova nella difformità tra l’insegnamento rivelato e quanto la filosofia ritiene corretto la prova che quell’insegnamento è espressione della Verità del Verbo, offerto da Dio all’uomo per la sua salvezza, e in questo è spinto a credere più intensamente e in modo più completo. In definitiva: se l’assurdità è il carattere qualificante della Verità rivelata, colui che vuole credere in tale Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Rivelazione troverà nell’illogicità dei dogmi cristiani una prova del loro essere autentica espressione della Fede e, quindi, una giustificazione del suo credere in essi. Tertulliano in questo modo segue quanto dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Corinzi 1, 22 – 23: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”) e sviluppa una teologia all’apparenza antifilosofica dove la prova della verità della Fede è il suo essere irrazionale e assurda (ovvero priva di un fondamento razionale), secondo l’espressione che i suoi posteri attribuirono allo stesso Tertulliano: Credo quia absurdum (“Credo perché è assurdo”). Ambrogio, vescovo di Milano e santo della Chiesa cattolica (333 o 340 – 397), dimostra nella sua opera di avere una preparazione filosofica superiore a quella di Tertulliano, che gli deriva probabilmente anche dalla frequentazione della teologia dei Padri greci. Ambrogio dimostra, infatti, di considerare la sapienza antica come un’importante risorsa, anche se anche nel suo pensiero l’interesse metafisico è subordinato a quello morale. 1. La dottrina più caratteristica dell’opera di Ambrogio è la messa a punto e l’utilizzo di una tecnica di lettura allegorica delle Scritture. Ambrogio in questo è influenzato da Filone d’Alessandria (ca. 30 a. C. – 45 d. C.), autore di fede ebraica tra i primi a sviluppare una sintesi sistematica del pensiero greco e della tradizione giudaica, e Origene d’Alessandria, grande personalità della Patristica greca (vedi infra). Tale procedimento di decifrazione allegorica messo a punto da Ambrogio assume una particolare rilevanza, inoltre, per essere stato modello e fonte di ispirazione per Agostio di Ippona; lo stesso Agostino, infatti, riferisce di aver imparato a cogliere il senso spirituale della Bibbia e, grazie a questo, di essersi riavvicinato al cristianesimo (rifiutato in gioventù proprio per il suo stile sgraziato e l’astrusità di molti episodi vetero-testamentari) ascoltando a Milano le omelie di Ambrogio e imparando così a cogliere il significato metaforica del testo sacro. Manifestazione esemplare della tecnica esegetica di Ambrogio è il suo Hexaëmeron (nel quale è evidente anche l’influenza di San Basilio), ovvero il suo commento sui sei giorni (questo il significato del titolo in greco) della Creazione così come questa è raccontata nel Genesi (questo tipo di testo diverrà nel corso del Medioevo una sorta di genere a se stante e si potranno trovare Hexämeron composti da diversi filosofi). Qui Ambrogio legge l’episodio della caduta di Adamo escludendo che il fatto faccia riferimento a un evento storico e a un luogo concreto: l’Eden, nel quale Eva fa mangiare ad Adamo il frutto proibito, viene decifrato come allegoria della parte superiore dell’anima, mentre Eva diviene immagine della conoscenza carnale-sensoriale (i cinque sensi), Adamo dell’intelletto e il serpente del piacere sensibile. L’intero evento, quindi, viene interpretato come immagine metaforica delle cause dell’imperfezione morale dell’uomo: quando l’anima si perverte preferendo il piacere sensibile alla contemplazione della verità immateriale lì c’è il peccato e la caduta dell’uomo stesso. 2) La testimonianza della volontà di Ambrogio di utilizzare il sapere pagano in funzione cristiana (nonché dell’interesse etico dello stesso Ambrogio) può essere rinvenuta, invece, nel suo De officiis ministrorum. Il testo, che descrive la condotta corretta per i chierici e per i semplici fedeli, è costruito prendendo a modello il De officiis di Cicerone; Ambrogio trasforma la riflessione del retore latino sui doveri del buon cittadino romano, nell’analisi della giusta condotta dell’uomo di Chiesa nel mondo cristiano. La sapienza pagana è qui utilizzata come serbatoio di idee e paradigmi allo scopo di costruire una dottrina etica cristiana. Tra i Padri della Chiesa latini merita di essere citato anche Gregorio I (detto Gregorio Magno, ovvero il Grande). Nato da una famiglia patrizia romana intorno al 540 d. C., quando ormai il mondo romano si era politicamente dissolto, Gregorio divenne papa nel Settembre del 590 e nel suo pontificato (durato sino alla sua morte nel 604) si impegnò nell’organizzazione della vita della Chiesa, introducendo importanti riforme nella liturgia e nel canto sacro (“canto gregoriano”). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Oltre che per la sua attività di riformatore, Gregorio Magno viene ricordato per i suoi scritti la cui importanza sta, più che nella loro originalità speculativa o teologica, nella grande influenza che seppero esercitare nel corso dei secoli. Gregorio scrisse un Liber regulae pastoralis, testo dedicato alla definizione dei doveri di un pastore cristiano, un libro di Dialoghi (raccolte di leggende agiografiche) e i Moralia in Job. A partire da quest’ultimo testo si possono ricostruire le due dottrine più caratteristiche di Gregorio: 1) la lettura allegorica della Scrittura e 2) il rapporto tra cristianesimo e sapere pagano. 1) Nei Moralia in Job, infatti, Gregorio sviluppa un’articolata lettura allegorica della Bibbia, cercando in particolare di decifrare gli eventi o i fatti narrati nelle Scritture come veicoli di un insegnamento morale. Una delle eredità più longeve della riflessione speculativa di Gregorio sarà proprio la teorizzazione dei diversi livelli di senso in cui si può scomporre e attraverso di cui si deve comprendere la Bibbia. Gregorio, riprendendo un’immagine presente nel vecchio Testamento (Ezechiele 2, 9-10), descrive le Scritture come un rotolo scritto sia nella sua parte interna che in quell’esterna. Il duplice contenuto che la Bibbia, in questo modo, avrebbe (uno nella sua parte “esterna” e un secondo nella sua parte “interna”) è prefigurazione dei molteplici livelli di senso presenti nella Bibbia stessa: all’interno esiste un senso spirituale che si coglie nella decifrazione allegorica del senso letterale o storico, il primo (e, quindi, più esterno) livello del messaggio rivelato. Gregorio contribuisce a fissare i tradizionali tre gradi della comunicazione propria delle Scritture (anche se altri autori ne individueranno sino a quattro): storico, tipologico e morale. Questi tre momenti, ordinati in senso gerarchico dal più semplice e meno intenso al più ricco, possono essere identificati con: la semplice “lettera” del testo sacro, ovvero quanto la Bibbia comunica in modo diretto e quanto è palesemente espresso dalle Scritture (storia). la decifrazione della lettera del testo sacro come un’immagine allegorica che prefigura un evento futuro della storia della salvezza (tipologia). In questo modo in particolare gli autori cristiani leggono alcuni episodi dell’antico Testamento come anticipazione, sotto il velo allegorico, di eventi del Nuovo. il cogliere l’insegnamento morale (nascosto sotto la lettera biblica), superando anche il livello tipologico al fine di fare persino degli episodi meno importanti o più difficili da comprendere una fonte di educazione etica. 2) Poiché la questione dell’acquisizione delle competenze retoriche necessarie per la decifrazione dei diversi livelli di senso della Scrittura pone a tema il problema del rapporto tra sapienza cristiana e sapere classico, Gregorio propone su questo punto una propria soluzione. Gregorio può essere considerato tra i sostenitori di una separazione della tradizione cristiana da quella pagana la quale deve essere usata dal credente solamente in un modo molto attento e sorvegliato. Le lettere e le tradizioni pagane rappresentano un mondo di false credenze contrarie alla vera fede. La sapienza antica è ricca di racconti osceni e di riferimenti a false divinità, con cui il vero credente non deve avere nulla a che fare. Lo studio di questa sapienza, quindi, è funzionale solo all’apprendimento delle tecniche adeguate di lettura e decifrazione dei testi (come le regole che la retorica classica codifica per la comprensione del messaggio allegorico). Neppure lo stile e la qualità letteraria dei testi pagani deve essere presa a modello dal vero credente. La Bibbia, infatti, è scritta in uno stile ben diverso da quello degli autori classici latini e tra i due modelli Gregorio preferisce sicuramente quello scritturale, poiché errori o forme stilistiche sgraziate sono comunque parola divina. All’interno della riflessione sulla patristica latina è necessario, per meglio chiarire il panorama filosofico e teologico della speculazione nel Medioevo occidentale dei primi secoli, fare riferimento Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella anche ad alcuni autori che, benché non possano essere definiti propriamente Padri della Chiesa, avranno una grande influenza nella storia del pensiero dell’epoca di mezzo. Questi autori, infatti, non pongono programmaticamente al centro del loro pensiero la volontà di creare una sintesi di Rivelazione biblica e Ragione pagana, né sono tradizionalmente considerati come esponenti della Patristica latina. In almeno un caso (Macrobio; vedi infra), d’altra parte, si tratta di autori non convertiti ma ancora legati alla fede pagana. Cionondimeno l’operazione compiuta da questi pensatori di ripresa e divulgazione delle principali correnti filosofiche tardo-antiche, prima fra tutte il neoplatonismo, nell’ambiente latino renderà fruibile all’Occidente non grecofono dottrine metafisiche di grande intensità e importanza, centrali per l’elaborazione di una “filosofia cristiana”. 1) Il primo autore da ricordare, tra quelli appartenenti a questo gruppo di pensatori, è Macrobio (Ambrogio Macrobio Teodosio). Forse originario dell’Africa settentrionale e attivo nel IV o V secolo d. C., Macrobio è conosciuto dal mondo medievale per il suo commento al Somnium Scipionis (il Sogno di Scipione, contenuto nel VI libro del De re publica di Cicerone). Il testo ciceroniano racconta di un sogno fatto da Scipione l’Emiliano nel quale il padre di questi, Scipione l’Africano, gli descrive la natura dell’anima, immortale e destinata se ha ben agito sulla terra a riunirsi agli dei e al dio supremo. Prendendo spunto da questa dottrina Macrobio propone una teoria dell’universo di stampo neoplatonico, nella quale il principio del Tutto è identificato con il Bene sommo. Da tale principio discendono poi l’Intelletto, luogo di tutte le idee e paradigmi, e l’Anima universale nella quale si trovano tutte le singole anime. Alcune di queste sono tanto attratte dai piaceri carnali da perdere il contatto con l’anima universale e con la contemplazione delle realtà superiori. Per questa ragione tali sostanze psichiche si incarnano, unendosi ai corpi che sono come le loro tombe; le anime possono riscattarsi da tale condizione grazie alle virtù, a partire da quelle politiche che regolano la vita sociale dell’uomo (prudenza, fortezza, giustizia e temperanza) sino a quelle esemplari che sono i modelli eterni dei comportamenti umani corretti. Macrobio considera l’anima non semplice forma del corpo ma essenza sostanziale che possiede in sé il movimento e, quindi, la vita, secondo la definizione platonica. Benché il mondo medievale abbia letto e studiato a lungo questo autore, pare certo che egli non fosse cristiano ma appartenesse agli ambienti pagani dell’epoca; l’influenza del commento macrobiano sarà molto vasta, soprattutto durante il XII secolo negli autori della scuola di Chartres. 2) Rilievo non minore ha avuto l’opera di Calcidio, attivo anch’egli nel IV secolo e probabilmente di fede cristiana. L’importanza di questo pensatore per il Medioevo latino consiste nella sua traduzione e commento di una parte del Timeo di Platone (da 17A a 53B), il testo che il pensatore ateniese aveva dedicato alla fisica e alla cosmologia. Questa versione sarà sino al XII secolo l’unico testo platonico conosciuto dal mondo medievale. Calcidio distingue tre principi cosmici: Dio, materia e idea. Da Dio, definibile come Bene sommo, discendono la Provvidenza, che può essere identificata con l’Intelletto di cui parlano i filosofi antichi, e da questa l’Anima che vivifica e permette la vita nell’intera realtà universale. Il Destino, ovvero la legge che governa ogni cosa esistente, e poi la Natura, la Fortuna, il Caso e gli angeli (daemones) discendono da questi principi. Le idee sono i modelli in base ai quali il mondo fisico è creato, cosicché si deve distinguere tra un mondo intelligibile (tutte le idee) e un mondo sensibile (dove si trovano le immagini, simulacra, di tali idee). Le idee sono sostanze immateriali, esistono quindi perfettamente, e sono il prodotto di Dio che le crea con un atto di intellezione della propria mente. La materia è il ricettacolo al quale si uniscono le idee per generare il mondo sensibile. Calcidio traduce il termine greco per materia (hyle) con silva, avvicinandola al Caos; l’uso di questo termine (silva) per indicare il sostrato materiale diventerà comune in numerosi autori medievali. Calcidio precisa, tuttavia, che l’elemento eidetico che si unisce alla materia per formare il mondo non sono le idee stesse ma una forma “seconda”, nata dalle idee; queste species nativae o secundae species sono i modelli intelligibili presenti nei corpi e causa della loro natura. La materia, come puro ricettacolo, Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella è semplice e indistinta. 3) Un’analoga visione del cosmo e dei suoi principi si trova, infine, in Mario Vittorino (Caio Mario Vittorino, 280-285 – 363 d. C.); maestro di retorica e logica di una certa fama a Roma, dopo aver polemizzato contro la dottrina cristiana si convertì al cristianesimo intorno al 355 e compose opere anti-ariane e teologiche quali il De generatione divina, i quattro libri dell’Adversus Arium e il De homoousio recipiendo, oltre a degli inni alla Trinità e commenti alle epistole di Paolo ai Galati, Filippesi ed Efesini. Di particolare importanza per la storia della filosofia in lingua latina furono le sue traduzioni del De regressu animae di Porfirio e delle Enneadi di Plotino (testo forse letto da Agostino). Mario Vittorino recupera l’idea neoplatonica di Dio definendolo come non-essere; Dio, infatti, uno, semplice, ineffabile e superiore a tutto, è non esistente non in quanto privo di essere ma in quanto realtà ultra-essenziale, ovvero superiore all’essere stesso e capace di produrlo. Vittorino aggiunge che l’Essere è un aspetto nascosto dello stesso non-essere o pre-essere di Dio; per cui la nascita dell’Essere è solo manifestazione di Dio stesso e tale manifestazione coincide con la generazione del Figlio, seconda persona della Trinità. In questo modo Vittorino organizza il cosmo in diversi gradi ontologici: il super-essere divino, dopo di cui si ha ciò che è veramente, ciò che è, ciò che non è veramente non essere, ciò che non è veramente e ciò che veramente non è Il secondo e il terzo gradino rappresentano rispettivamente la dimensione degli intellectibilia (le realtà celesti e perfette) e degli intellectualia (le realtà immateriali ma che dipendono dalle prime, come l’anima dell’uomo dall’Intelletto). Gli ultimi gradini sono rappresentati dalla materia (ciò che non è veramente), la cui composizione con l’anima intellettuale produce le realtà mondane come ciò che non è veramente non essere, e dall’impossibile (ciò che veramente non è). PATRISTICA GRECA. METAFISICA PAGANA E RIFLESSIONE SUL CRISTIANESIMO La patristica greca è caratterizzata dal recupero di alcune dottrine metafisiche della filosofia pagana e dalla riflessione intorno agli aspetti di maggiore complessità teorica nel cristianesimo Fra le prime figure di Padri greci della Chiesa, quella di Giustino appare la più compiuta e interessante. Giustino, originario di Flavia Neapolis (l’odierna Nablus, città situata ad alcune decine di chilometri da Gerusalemme) e morto a Roma, martirizzato, nel 165 circa, appartiene anch’egli al novero dei Padri apologisti. Nonostante diverse siano le opere che la tradizione attribuisce a Giustino, si possono considerare sicuramente suoi due Apologie e il Dialogo con Trifone. Lo scopo precipuo degli scritti apologetici di Giustino (difendere la fede evangelica) e il carattere “pionieristico” dell’opera di fusione tra tradizione giudaico-cristiana e filosofia pagana fanno sì che i suoi testi non sviluppino una teologia sistematica e risultino su alcuni nodi dogmatici complessi abbastanza vaghi o imprecisi. Ciononostante in Giustino si può rinvenire il primo tentativo di armonizzare Rivelazione e Ragione, nel tentativo di sostenere i diritti della prima. D’altra parte Giustino stesso racconta del percorso da lui fatto prima di convertirsi al cristianesimo: l’interesse per la filosofia e gli studi presso maestri stoici prima, peripatetici e pitagorici poi, sino ad arrivare al platonismo che lo conquistò con la sua dottrina delle realtà sovrasensibili e immateriali (le Idee e l’anima). Giustino, quindi, aveva una preparazione filosofica abbastanza completa. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella La conversione al cristianesimo arriva in seguito al confronto con un saggio che Giustino incontra durante un periodo da lui speso in un luogo isolato per meditare e riflettere; questo interlocutore gli mostra le incoerenze del platonismo e indica nella dottrina dei Testamenti un’autentica via di sapienza. 1) Il primo aspetto centrale del pensiero di Giustino si può riassumere nell’espressione contenuta nel XIII capitolo dell’Apologia II: “Tutto ciò che è stato detto di vero ci [scil.: ai cristiani] appartiene”. Con questa asserzione Giustino: a) intendeva affermare che ogni dottrina corretta e giusta prodotta dall’uomo nella storia sino alla manifestazione perfetta della Verità, ovvero il Vangelo di Cristo, doveva essere ricondotta allo stesso Cristo, cosicché tutti i filosofi potevano dirsi in qualche modo cristiani b) richiamava la sua dottrina teologica per la quale il Verbo, ovvero il Cristo, aveva operato da sempre nella storia, accompagnando e ispirando quanti erano stati in grado di seguirLo. a. Giustino intendeva dire in questo modo che ogni verità che la ragione umana ha scoperto autonomamente e indipendentemente dalla Rivelazione ha la propria radice nella Verità perfetta che viene mostrata dalle Scritture. I Testamenti, pertanto, non rappresentano (tanto e solo) il paradigma con il quale confrontare ogni asserzione per scoprirne la correttezza o meno, ma sono l’espressione più chiara di una Verità che è stata colta anche da altri uomini in altre epoche. b. Giustino fondava la prima dottrina sui alcuni versetti iniziale del vangelo di Giovanni (1, 9: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” e 3, 21: “Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”). Giustino, quindi, trovava nelle Scritture l’affermazione per cui chiunque viene al mondo è illuminato dalla luce del Verbo e colui che agisce in questa luce viene riconosciuto come appartenente a Dio. Il Verbo/Logos è Cristo. Per Giustino, quindi, i filosofi nati prima della Rivelazione evangelica si possono considerare discepoli del Cristo stesso; il loro impegno di ricerca razionale ha disvelato a questi autori verità che i Testamenti hanno poi espresso pienamente. Esempio di tale continuità tra filosofia pagana e insegnamento cristiano è, in Giustino, Socrate, anch’egli “martire” nella testimonianza della verità. In questo modo Giustino, da un lato, difendeva la dignità speculativa del cristianesimo e, dall’altro, poteva sostenere che chiunque non avesse “reso testimonianza” alla Verità in ogni epoca aveva agito contro il Verbo e, quindi, poteva legittimamente meritare la punizione divina quale peccatore. 2) Un secondo tratto caratterizzante il pensiero di Giustino è l’identificazione del principio creatore dell’universo con l’unico Dio della tradizione giudaico-cristiana. In modo analogo al Pastore di Erma (testo cristiano del II secolo d. C.) Giustino afferma che ogni cosa è stata tratta dal nulla da Dio, Padre, unico e inconoscibile. Questo Dio si manifesta unicamente attraverso “un altro Dio”, ovvero il Verbo. La relazione tra le prime due Persone della Trinità e tra queste e la terza non viene chiaramente definita da Giustino. Abbastanza vaga risulta anche la dottrina di Giustino sul destino dell’anima. Il Padre della Chiesa è certo della necessità di una punizione o di un premio per il singolo individuo dopo la morte in base alla sua condotta in vita e, quindi, sostiene la sopravvivenza dell’anima; egli però afferma che essa non è in sé vita, ma che la possiede perché Dio gliel’ha attribuita. Il Padre della Chiesa di lingua greca la cui opera appare la più compiuta e ricca sintesi di Fede e Ragione nei primi anni del cristianesimo è, però, Origene di Alessandria (forse Alessandria, 183185 – Tiro, 253-254). Allievo di Clemente Alessandrino, anch’egli importante pensatore cristiano, iniziò ancora giovane a insegnare. Dopo un viaggio a Roma, intorno al 212 d. C., si recò ad Alessandria per approfondire la sua preparazione filosofica e studiò alla scuola di Ammonio Sacca, maestro di Plotino. Sebbene nelle Enneadi plotiniane si faccia riferimento a un Origene non è sicuro che Plotino sia stato condiscepolo del filosofo cristiano in quel periodo. Venne ordinato sacerdote intorno al 230 durante Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella un viaggio in Palestina e in seguito fondò una sua scuola a Cesarea di Palestina. Arrestato e torturato durante le persecuzioni anti-cristiane di Decio del 250-253 morì poco dopo, forse per le torture subite. L’opera di Origene copre diversi ambiti disciplinari e tocca differenti problematiche teologiche. Sebbene le fonti antiche gli attribuiscano circa un migliaio di scritti, sono giunti a noi pochi testi, sia di esegesi (interpretazione della Scrittura) sia teoretici. Le più importanti sono: il Contra Celsum, una confutazione di Celso, filosofo pagano che aveva scritto un trattato contro i cristiani, e il De principiis, nella traduzione latina, a volte imprecisa e fuorviante di Rufino. Ci sono pervenuti anche commenti a Giovanni e Matteo, alcune omelie, una Esortazione al martirio e un Sulla preghiera. 1) Una prima dottrina caratteristica di Origene è la sua teoria sulla lettura allegorica delle Scritture. Proprio a Origene, infatti, si deve una delle prime teorizzazioni del metodo di decifrazione del testo sacro, che diviene in questo autore una complessa teoria anche metafisica. Origene, infatti, individua tre livelli del senso scritturale e associa a questi livelli i tre principi di cui si compone l’uomo, ovvero corpo, anima e spirito, capaci a loro volta di definire tre tipologie di fedele: esistono i normali credenti che sono come il semplice corpo dell’uomo i quali colgono il solo significato letterale della Bibbia esistono poi i credenti più perfetti che, come l’anima dell’uomo, riescono ad avere una conoscenza vera, cogliendo il valore allegorico del testo esistono infine i credenti completamente perfetti che ascendendo al livello dello spirito ottengono la visione del senso spirituale, intuendo la beatitudine del Paradiso. La Scrittura, quindi, va interpretata e letta nei suoi diversi sensi, per cogliere dietro al messaggio letterale, verità etiche, filosofiche e teologiche più profonde. Attraverso l’insegnamento di Origene la tradizione di lettura allegorica della Bibbia si svilupperà tanto in Oriente quanto in Occidente (dove, come già osservato, la lezione di Origene sarà ripresa da Ambrogio e da Agostino). 2) La teoria metafisica e teologica di Origene si può rinvenire nel De principiis, diviso in quattro libri: Dio e gli esseri celesti; il mondo materiale e l'uomo; il libero arbitrio; la Sacra Scrittura. Questo testo descrive Dio come la realtà somma e più perfetta, di natura immateriale poiché solo l’assenza di materia garantisce l’immutabilità e la perfezione stessa. Secondo Origene la creazione dell’universo avviene prima attraverso la produzione divina del mondo intelligibile, ovvero delle essenze immateriali della realtà stessa. È il Verbo divino, Logos e Figlio del Padre, a realizzare questa creazione, sicché Origene tende a subordinare il Figlio al Padre. Tale creazione è caratterizzata dalla libertà delle realtà poste in essere; senza libertà non vi è bene e merito per la scelta del bene stesso. In virtù di tale libertà alcune nature immateriali scelgono di servire Dio in modo più o meno perfetto, altre di allontanarsi dallo stesso principio divino; in questo modo si genera una gerarchia di spiriti dai più perfetti (gli angeli maggiormente puri) ai meno perfetti (l’anima dell’uomo e i demoni). Il peccato che consiste nel rifiutare Dio produce anche l’incarnazione nella materia e la nascita del mondo fisico. Origene in questo modo considera la materia e il corpo come uno strumento della punizione dell’anima umana, ma non come un male in sé; creata da Dio anche la materia rientra nel suo piano e il corpo è occasione di ascesi e perfezionamento dell’individuo, proprio nella misura in cui questi se ne distacca e lo rifiuta. Coltivare le capacità spirituali e la conoscenza intellettuale è la via che rende possibile all’uomo il perfezionamento di sé. 3) Tra le dottrine origeniane quelle più caratteristiche, tuttavia, riguardano il destino del mondo creato e la salvezza dell’uomo. Origene, infatti, ritiene che l’universo non possa restare separato da Dio e che la Grazia redentrice del Cristo operi anche nel progressivo ritorno di tutte le creature al loro Principio. Origene, quindi, elabora la dottrina della apocatastasi, per la quale alla fine dei tempi ogni cosa ritornerà in Dio e, quindi, ogni male o peccato cesseranno. L’influenza di Origene si fa sentire lungamente sul pensiero patristico greco, in particolare sulla Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella scuola di Cappadocia, situata nell’omonima regione dell’Asia minore. I Padri cappadoci, ovvero san Basilio (Cesarea di Cappadocia, 330 circa – 379), Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo (Nazianzo, Cappadocia, 330 circa – 390 circa) (questi ultimi due spesso confusi dai pensatori latini medievali), rappresentano le personalità più importanti per lo sviluppo del primo pensiero cristiano di lingua greca. Fra questi particolare attenzione deve essere data a Gregorio di Nissa (Cesarea di Cappadocia, 335 – Nissa, 394 d. C.); la teoresi di questo pensatore, nella quale si avvertono le eco della riflessione di Origene, influenzerà, in particolare per quanto riguarda la dottrina antropologica, alcuni pensatori latini del IX secolo, in particolare Giovanni Eriugena. Tra le sue opere si devono ricordare il Contra Eunomium, il De Spiritu Sancto sulle questioni trinitarie, il De anima et resurrectione, il De opificio hominis tradotto in latino e conosciuto con il titolo De imagine (a questo testo si può far risalire l’influenza di Gregorio su Eriugena) e alcuni scritti esegetici. 1) Gregorio sostiene, riprendendo le dottrine platoniche, la distinzione della realtà in due livelli, ciò che è visibile e materiale e ciò che non lo è. L’uomo, essendo un corpo dotato di anima, si trova al vertice del mondo visibile e capace di collegare quest’ultimo ai superiori livelli cosmici. L’anima umana si caratterizza, infatti, per la ragione e la capacità intellettiva, sebbene in essa vengano riassunte tutte le altre funzioni dell’anima come il sentire e il nutrirsi/crescere. L’anima è una sostanza creata dotata di vita e di ragione che ha il compito di vivificare e organizzare il corpo. Avendo tale funzione, l’anima si trova diffusa e unita a tutto il corpo e tale rapporto persiste anche dopo la morte, sicché l’anima non si stacca mai del tutto dagli elementi che costituiscono il suo corpo. La razionalità dell’anima umana è testimoniata dalla sua intelligenza (nous) e dalla sua parola (logos), che sono inferibili dal modo in cui l’uomo agisce, ovvero con ordine e in maniera organizzata. In questo senso anche il mondo manifesta a coloro che lo contemplano un ordine e un’armonia di elementi che permettono di inferire l’esistenza di una mente organizzatrice (come la condotta dell’individuo fa intuire l’esistenza dell’anima). Mondo e uomo, quindi, sono realtà che testimoniano una perfezione e un ordine, cosicché è possibile passare dalla conoscenza della creatura a quella del Creatore come principio di tale armonia. 2) Per Gregorio la conoscenza di tale forza creatrice è possibile a partire dall’uomo, fatto a immagine di Dio. Il rapporto tra la parola e l’intelligenza umana, allora, può permettere di cogliere un aspetto della natura divina, ovvero il rapporto tra le prime due persone trinitarie: il Padre e il Figlio. Come la parola (logos) umana esprime in modo pieno il pensiero e da questo deriva, così il Verbo-Figlio procede dal Padre manifestandoLo. In modo analogo come l’unità della parola e del pensiero trova espressione nell’emissione fisica del fiato, così lo Spirito Santo procede dalla stessa unità del Padre e del Figlio. 3) La profonda relazione di somiglianza tra anima e Dio non può allora per Gregorio di Nissa essere cancellata nemmeno dal peccato. La scelta peccaminosa di Adamo e dell’uomo ha solo nascosto e reso imperfetta la similitudine tra anima e Creatore. Il peccato è scegliere in modo scorretto, introducendo nel mondo quel negativo (come privazione di bene e di essere) che non sussisterebbe per sé. Il peccato ha poi colpito anche il corpo, sicché l’uomo ha perso il suo corpo perfetto posseduto prima del peccato ed ha assunto il corpo imperfetto che tuttora lo caratterizza. Gregorio, infatti, ritiene che poiché l’uomo è unione di anima e corpo, e quest’ultima è la forza che rende vivo e senziente il corpo stesso, non ci possa mai essere una separazione tra questi due principi (altrimenti non esisterebbe neppure l’uomo); al tempo stesso ritiene la vita carnale e la conoscenza sensibile una forma imperfetta di esistenza. Teorizza, quindi, l’esistenza di un corpo perfetto, prima della caduta, spirituale e privo della divisione in sessi (gli uomini senza il peccato si sarebbero riprodotti Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella in modo spirituale e senza la necessità dell’unione sessuale). In modo analogo teorizza anche una materia intelligibile, che è data dall’insieme degli elementi intelligibili (quantità, qualità, pesantezza etc.) in cui si può scomporre e attraverso cui si riesce a definire la materia concreta; solo l’unione di questi elementi genera la materialità determinata e corporea che noi percepiamo. 4) Queste dottrine si armonizzano, infine, con la teoria di Gregorio sulla salvezza dell’uomo. Corpo spirituale e materia intelligibile permettono di pensare che alla fine dei tempi la bontà di Dio non possa non prevalere su ogni male. A Dio, come realtà spirituale, quindi, ritornerà tutto il mondo e anche la materia. La stessa negatività e il male, compresi l’inferno e i suoi patimenti, verranno superari e riconciliati al Padre. In questa teoria è evidente l’influenza di Origine. Tra i pensatori e teologi di lingua greca di particolare importanza in quanto capace di influenzare anche la speculazione latina va ricordato, infine, Massimo di Crisopoli, conosciuto come Massimo il Confessore (Costantinopoli, 580 – Transcaucasia, 662). Alcune opere che circolarono nell’epoca di mezzo sotto il nome di Massimo il Confessore, infatti, erano stato concepite come chiarificazione e commento a passi particolarmente complessi di Gregorio di Nazianzo e di Dionigi l’Areopagita, quest’ultimo il teologo di lingua greca in assoluto più influente e importante per l’intera speculazione medievale, anche latina (vedi: Dionigi: teologia e filosofia). Insieme alle opere di Gregorio di Nissa i commenti di Massimo vennero tradotti in latino (con il titolo Ambigua) e studiati da Giovanni Eriugena, contribuendo in modo essenziale alla formazione del suo pensiero. Massimo il Confessore elabora nei suoi Ambigua una filosofia di ispirazione neoplatonica, come quella di Dionigi, ma sviluppando in modo originale alcuni temi tipici dell’Areopagita. 1) Dio è definito come unità e semplicità perfette, ovvero come monade: non numero che si possa sommare o sottrarre, ma l’origine stessa di tutti i numeri in quanto tali (una sorta di “idea del numero” che ne fonda la natura stessa come capacità di definire e individuare una realtà). Ogni cosa, infatti, esiste in quanto è un’unità (ovvero è identica a sé e definita) e lo stesso molteplice deriva dall’unità, cosicché tutto trova origine nella monade che è il principio dell’unità. 2) In tale realtà divina Massimo individua due movimenti: uno interno e uno esterno, entrambi però di natura non fisica, ma definibili come il processo di manifestazione e comprensione dell’essere divino. Chiaramente, quindi, nel movimento interno si avrà un’auto-manifestazione di Dio a se stesso e nel movimento esterno una manifestazione di Dio alla ragione creata-finita. Il movimento interno a Dio fa scaturire dalla Monade la Diade (il Verbo) che manifesta la prima; dalla Diade nasce la Triade (lo Spirito Santo) che dispiega in piano i due precedenti elementi. In questo modo nel rapporto delle persone trinitarie, Padre, Figlio e Spirito Santo, di identica natura ed essenza, si produce la piena manifestazione del divino. 3) Il movimento esterno di Dio coincide con la stessa creazione del cosmo. Il Verbo divino, infatti, è il “luogo” in cui le essenze di tutte le realtà che sono esistite ed esisteranno sono contenute; Dio, quindi, ha già conosciuto e posto in essere i modelli di ogni realtà universale così come ha predeterminato il venire all’essere, in conformità con il proprio modello, di ciascun individuo. In questo modo ogni creatura che nasce è una sorta di incarnazione del Verbo e rivela un aspetto o momento della natura divina. 4) L’uomo ha, in questo progetto cosmico, un ruolo particolare. Essendo dotato di volontà, l’uomo può decidere o di agire in conformità con il progetto divino e con l’ordine del Tutto, potenziando così la propria natura, oppure allontanarsi da Dio. L’uomo però essendo un corpo unito naturalmente ad un’anima rappresenta una sorta di nodo e raccordo tra livelli cosmici differenti: la sua capacità intellettuale propria della sostanza psichica immortale lo assimila al divino immateriale, mentre il suo corpo lo lega alla dimensione fisica della realtà concreta. Inoltre quale unica creatura materiale dotata di intelletto, l’uomo conosce le essenze delle cose e così le congiunge in una superiore unità, avvicinandole al Verbo. 5) L’uomo però peccando ha compiuto l’operazione inversa, volgendosi al mondo materiale e Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella frammentando il suo unitario sapere intelligibile nel desiderio dei corpi fisici. La via di ritorno al divino, nel superamento del peccato, è aperta da Dio stesso mediante l’incarnazione del Cristo. La discesa del Verbo in un corpo umano riproduce il movimento con il quale l’anima si rivolge al mondo fisico, spezzando l’unità delle essenze raccolte nel Verbo nella pluralità delle creature materiali, e per questo rende possibile il movimento inverso di ritorno del tutto a Dio. Il Cristo, infatti, insegna una nuova condotta di vita, attraverso la quale si è in grado di rivolgersi nuovamente al divino e al mondo intelligibile. L’uomo, emulando il Cristo stesso, quindi, deve iniziare un cammino di conversione, fondato sulla conoscenza nonché sull’amore di Dio e delle realtà ultrasensibili, in quanto il movimento proprio dell’anima è l’approssimarsi al suo oggetto di contemplazione nell’analisi di quest’ultimo. Per Massimo, che in questo modo mostra anch’egli una dipendenza da Origine, questo percorso di conversione, anticipa e prepara un movimento universale della creazione verso Dio: l’estasi dell’uomo che esce da sé (questo il significato originale del termine greco “estasi”) per ritornare presso il divino, dove è la sua causa e la sua vera essenza, rende possibile l’unione finale di tutta la natura con il suo Principio in quanto l’uomo raccoglie nella sua intelligenza tutte le cose (divinizzazione della creatura). Il movimento sarà, quindi, dalla dispersione nel molteplice all’unità: alla fine dei tempi la distinzione dei sessi verrà meno, la terra si riunirà al paradiso terrestre e questo sarà assimilato al cielo, sino a che anche la distinzione tra intelligibile e sensibile verrà meno in una nuova perfezione del Tutto. Questi aspetti della dottrina del Confessore verranno ripresi e riproposti da Giovanni Eriugena. CRONOLOGIA - 160 d. C.: all’età di circa trent’anni si converte Tertulliano - Nel 165 viene martirizzato a Roma Giustino, la prima personalità di rilievo della patristica cristiana - Intorno al 254 muore Origene, forse in seguito alla persecuzione anti-cristiana voluta in quegli anni dall’imperatore Decio - 335: nasce a Cesarea di Cappadocia Gregorio di Nissa, fratello di San Basilio, e uno dei più importanti Padri della Chiesa greca; insieme allo stesso Basilio e Gregorio di Nazianzo rappresenta la scuola dei Padri cappadociani - 374 d. C.: Ambrogio viene nominato, per acclamazione popolare, vescovo di Milano - Nel Settembre del 590 viene eletto papa Gregorio Magno, grande riformatore e sistematizzatore della vita della Chiesa - Nel 355 si converte al cristianesimo Mario Vittorino; la sua opera insieme ad altre personalità del IV secolo come Macrobio e Calcio (le cui precise vicende biografiche sono però ignote) definisce i tratti fondamentali della metafisica di lingua latina nei primi secoli del mondo cristiano. - 662: muore in esilio Massimo il Confessore, una delle ultime voci della teologia patristica greca. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella 1. AGOSTINO: PENSATORE CRISTIANO E “MODERNO” L’opera e il pensiero di Agostino possono essere caratterizzati da una duplice cifra. L’attenzione per la Rivelazione e la fede cristiana, da un lato, e l’attenzione per i problemi esistenziali e per la dimensione pratico-etica dell’uomo, dall’altro. Da un lato Agostino è il pensatore che produce una prima, efficace e ben organizzata, sintesi di filosofia pagana e di Rivelazione cristiana. Con Agostino la scelta di conservare e utilizzare il patrimonio culturale pre-cristiano, servendosene per chiarire/approfondire il messaggio biblico dei due Testamenti, è chiara e netta (lo stesso Agostino nel De doctrina christiana, testo del 397 d. C. tra i suoi più importanti, parla della sapienza antica paragonandola all’oro e ai gioielli che gli Ebrei portarono via agli Egizi nel passaggio del Mar Rosso; Esodo 12, 35). In conseguenza di questa scelta Agostino sviluppa una filosofia cristiana nella quale ogni aspetto della tradizionale teoresi greca viene ripensato e riplasmato in funzione del rapporto tra uomo e Dio. Dall’altro Agostino appare come un pensatore radicalmente “moderno”. Tale modernità di Agostino consiste nell’abilità di analizzare gli aspetti della vita interiore dell’uomo, a partire innanzitutto dalla propria esperienza esistenziale (una sorta di esercizio di introspezione psicologica). Tale attenzione per le emozioni, gli stati d’animo e le reazioni dell’uomo nel suo rapporto con il mondo e la vita definisce in Agostino il punto di partenza e il fine della riflessione filosofica: il filosofare agostiniano nasce dalla presa di coscienza di un problema esistenziale, ovvero di una difficoltà di ordine pratico ed etico che riguarda la vita concreta dell’individuo, e dalla volontà di trovare soluzione a tale difficoltà. L’esempio più perfetto di tale atteggiamento filosofico di Agostino è, non a caso, anche la sua opera più famosa e più complessa, le Confessioni (400 d. C.); in questo testo Agostino ricostruisce la sua filosofia mettendone in relazione idee e teorie fondamentali con i singoli momenti della sua esperienza di vita, con le sue incertezze personali, con il suo smarrire e ritrovare il giusto senso dell’esistenza. Questi due aspetti caratteristici del pensiero agostiniano in realtà convergono nel definire una immagine coerente ed unitaria del pensatore: in Agostino la filosofia è un dialogo con Dio e una riflessione intorno a Dio per trovare risposta al problema del senso dell’esistere per l’uomo. Per questa ragione la vita di Agostino rappresenta, ancora di più di quanto non accada per altri pensatori, un dato fondamentale da cui partire per comprendere la sua filosofia Le fonti biografiche su Agostino sono numerose; alcune notizie sulla vita del padre della chiesa, infatti, si possono ricavare dalle sue stesse opere (innanzitutto le Confessioni, nelle quali lo stesso Agostino intreccia riflessione filosofica e racconto della sua esistenza) e da testimonianze di altri autori, alcuni a lui contemporanei. Agostino nasce a Tagaste (l’attuale Souk Ahras, in Algeria) il 13 Novembre del 354, dalla madre Monica, cristiana che avrà una grande importanza nella vita del figlio, e da Patrizio, funzionario romano pagano. Dopo una prima formazione a Tagaste e Madaura, tra il 370 e il 374 studia retorica a Cartagine. In questi anni di preparazione culturale Agostino si lega sentimentalmente a una donna (della quale non riferisce il nome); la loro relazione durerà 15 anni e da questa nascerà un figlio, Adeodato. Alla morte del padre Agostino inizia la professione di insegnante di retorica tra la città natale e la stessa Cartagine. Agostino non è però soddisfatto della preparazione acquisita nel corso di questi anni, dedicati allo studio della letteratura e delle regole dello scrivere con efficacia ed eleganza. Lo stesso padre della chiesa ricorda nelle Confessioni e nel De beata vita la scoperta della filosofia attraverso lo studio (collocabile nel 373) dell’Hortensius, un dialogo ciceroniano oggi perduto. Agostino è stimolato da questa lettura ad assecondare il proprio desiderio di una ricerca speculativa Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella che gli fornisca regole di condotta e gli offra una visione esistenziale coerente, capace di condurlo all’autentica realizzazione (secondo quell’ideale pratico del filosofare proprio dell’epoca in cui Agostino vive e della sua stessa idea di riflessione filosofica). Sotto la spinta di questa volontà di perfezionamento personale Agostino si rivolge alle Scritture; l’incontro con la Bibbia però lo lascia deluso per l’oscurità della narrazione e la scarsa qualità letteraria del testo. Agostino si avvicina così al manicheismo (dal nome del suo fondatore, il persiano Mani, vissuto a cavallo del III sec. d. C.), una dottrina di stampo gnostico e dualista, la quale sosteneva l’esistenza di due principi universali, entrambi materiali, uno positivo e identificabile con il Dio di cui parla il Cristo nel Vangelo e uno negativo, responsabile del male e identificato con il Dio dell’antico Testamento. In questo periodo Agostino continua a formarsi e a studiare, interessandosi di astrologia, estetica, astronomia e filosofia (lettura delle Categorie di Aristotele). Durante la sua militanza manichea Agostino fa una brillante carriera come retore, insegnando prima in Africa e poi, a partire dal 383, a Roma. Qui approfondisce lo studio dello scetticismo accademico (l’Accademia platonica di Atene che nel suo periodo medio e nuovo assume posizioni scettiche), senza però sposare del tutto questa dottrina. Nel 384 Agostino raggiunge l’apice della sua carriere con la nomina a professore di retorica alla corte imperiale di Milano. Qui Agostino farà alcune esperienze centrali per la sua formazione e le sue scelte future. Innanzitutto devono essere fatte risalire a questo periodo alcune letture di “testi platonici”, come li definisce Agostino, che avranno grande peso nella definizione della sua dottrina e della sua speculazione matura; Milano, infatti, era il centro di una scuola neoplatonica cristiana. In secondo luogo a Milano Agostino incontra e ascolta le omelie del vescovo Ambrogio. Ambrogio proponeva una lettura allegoria delle Scritture, capace di rendere comprensibili e coerenti molti passi altrimenti oscuri, che avevano dissuaso il giovane Agostino dall’approfondire la comprensione del testo rivelato. L’eleganza dello stile e della scrittura di Ambrogio, inoltre, offrivano l’esempio di un cristianesimo retoricamente perfetto. Le scoperte spirituali e intellettuali fatte a Milano accentuano in Agostino il senso di insoddisfazione per la propria condotta e il proprio orientamento ideologico, finché nel 386 decide di abbandonare l’insegnamento e di cambiare radicalmente la sua vita. Nelle Confessioni lo stesso Agostino racconta con grande intensità questa esperienza come determinata da un improvviso comando divino. Mentre riposava nel giardino della sua casa di Milano, la cantilena di un bambino che ripeteva “prendi e leggi” lo spinge ad aprire il Vangelo. Il passo che per primo Agostino legge è quello della Lettera ai Romani sulla necessità di abbandonare ogni forma di immoralità e di vivere in Cristo. Dopo questa esperienza Agostino decide di convertirsi alla fede cristiana. Agostino si ritira, quindi, presso una tenuta di campagna a Cassiciaco (un paese non lontano da Milano) con la madre Monica, il figlio e alcuni amici; qui approfondisce lo studio della filosofia (identificabile con il neoplatonismo di Porfirio) e comincia a scrivere le sue prime opere giunte sino a noi. Nel 387 viene battezzato e successivamente rientra a Milano continuando l’attività di studio e ricerca. Nello stesso anno riparte alla volta dell’Africa con l’intento di intraprendere la vita monastica. A Ostia, presso Roma, mentre attende di imbarcarsi, Agostino e la madre condividono una profonda esperienza religiosa e mistica; Monica, tuttavia, muore poco dopo. Dal 388 al 391 conduce vita monastica, ma nel 391 viene consacrato sacerdote e nel 395 vescovo di Ippona (carica per via della quale sarà ricordato come l’Ipponate). Da questo momento Agostino si divide tra i doveri pastorali e la scrittura delle sue opere teologicofilosofiche. Sono questi gli anni in cui si impegna nelle polemiche dottrinali contro i donatisti (sostenitori di una Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella posizione cristiana rigorista), i manichei e i pelagiani (che asserivano la possibilità per l’uomo di salvare la propria anima con la giusta condotta etica e in modo pressoché autonomo). Negli ultimi anni di vita Agostino attende alla realizzazione della sua opera forse più impegnativa, il De civitate Dei e alla revisioni di alcune sue precedenti dottrine od opere (le Retractationes). Agostino muore nel 430 all’età di 76 anni, mentre i Vandali di Gianserico assediano Ippona. 2. IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA: ORDINE UNIVERSALE E POLEMICA ANTISCETTICA Come accadeva per i precedenti “sistemi” filosofici greci anche in Agostino le questioni epistemologiche (se e come si possa conoscere la verità) rappresentano un problema fondamentale e fondativo del suo pensiero. Agostino sviluppa abbastanza presto nella sua ricerca speculativa la teoria dell’esistenza di un ordine universale razionale e, quindi, l’idea non solo che esista una verità ma che la ragione abbia la capacità di coglierla. Agostino già nelle prime fasi della sua riflessione filosofica dopo la conversione al cristianesimo (De ordine 386 d. C., De musica 387 – 391 d. C.) elabora l’idea per cui il cosmo deve essere concepito come un tutto perfettamente organizzato e regolato da precise leggi; le cose, i fatti, gli eventi sono retti da norme immutabili che garantiscono l’armonia universale del Tutto. L’uomo, quindi, può conoscere e ricostruire tale armonia mediante le proprie capacità intellettuali, giungendo a conoscere le leggi che governano il mondo. L’ordine, come categoria filosofica, quindi, è il succedersi degli eventi secondo un piano o progetto e in base a leggi universali. Tale cosmo ordinato può essere descritto come “musica” e conosciuto attraverso le arti liberali della parola. La musica, infatti, è rapporto armonioso tra le parti, in un progetto razionale (in quanto la musica è regolata da rapporti numerici) e finalizzato a creare bellezza. Le arti della parola, come la dialettica o la grammatica, insegnano un metodo che permette di conoscere l’ordine del Tutto e offrono all’anima un’occasione di esercizio per staccarsi dal sensibile, procedendo verso Dio. In questo modo compare, già nelle prime opere agostiniane, il tema della parola e delle sue leggi, al cui studio il vescovo di Ippona attribuisce la massima importanza sia dal punto di vista filosofico che teologico. Se la dialettica insegna a trovare il vero secondo un metodo ordinato, le regole retoriche e grammaticali permettono di approcciarsi alle Scritture cogliendone tutti i significati reconditi ed evitando di fraintendere il messaggio rivelato. Centrale in questa pratica ermeneutica sono in particolare le leggi del dire traslato, dell’allegoria e dell’enigma; la Bibbia si esprime mediante un linguaggio oscuro e simbolico, celando dietro immagini spesso violente o grottesche verità speculative. Solo colui che conosce le regole della decifrazione allegorica può cogliere il significato autentico della Rivelazione, conformandosi così all’insegnamento di San Paolo che in 2 Corinzi 3, 6 ricorda come: “La lettera uccide, lo spirito dà vita”. Proprio la lettura simbolica delle Scritture nelle prediche di Ambrogio, d’altronde, permette ad Agostino di superare il suo scetticismo e di abbracciare la fede cristiana. Agostino qui si serve di una serie di differenti dottrine e tradizioni: la tradizione logica e semiotica (la teoria sul funzionamento dei segni, innanzitutto quelli linguistici) dello stoicismo le tecniche di comprensione del senso traslato (allegorie, metafore e racconti con un significato recondito) delle Scritture già utilizzate nel mondo cristiano Ciò che l’Ipponate ricava sintetizzando questi insegnamenti è la teoria dei “termini traslati” (verba translata; ad esempio nel De doctrina christiana); si tratta di espressioni che hanno un senso nascosto, rimandando al contempo a due oggetti o referenti reali differenti, e delle quali la Rivelazione stessa si servirebbe per comunicare importanti verità intorno alla salvezza dell’uomo. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Bisogna d’altra parte ricordare come tali esiti teorici siano preparati da un lungo lavoro tecnico che Agostino fa sul linguaggio e la sua natura, nel corso del quale l’Ipponate raggiunge importanti risultati speculativi. È nel De magistro (scritto tra il 388 e il 391) che Agostino sviluppa una semiotica (una riflessione sul funzionamento della lingua come sistema di segni) molto complessa nella quale stabilisce che: i segni sono indispensabili per ogni forma di conoscenza e rappresentano il tramite necessario tra l’uomo e la realtà del mondo i segni possono essere utilizzati per fare riferimento alle cose ma anche per riflettere sui segni stessi nonché sulla loro natura (distinzione tra linguaggio e metalinguaggio). Al tempo stesso, tuttavia, in questo dialogo Agostino relativizza il valore dei segni stessi. L’Ipponate, infatti, osserva che un segno permette solo di riconoscere una cosa che già si conosce e non di sviluppare nuovo sapere. La vera radice di ogni conoscenza si deve trovare dentro all’anima dell’uomo e gli deve venire da una fonte più alta. Agostino indica questa sorgente di verità con l’espressione “maestro interiore”, identificando tale figura con Cristo, Logos divino e Signore di ogni verità. In questo modo la teoria dell’ordine cosmico e la riflessione sul linguaggio conducono allo stesso esito: la scoperta di Dio come origine e vertice di ogni sapienza. Se il maestro interiore è l’approdo ultimo dell’indagine sul linguaggio (preparando l’analisi del dire traslato nel De doctrina cristiana), lo studio dell’ordine e dell’ armonia razionale del mondo mostra all’uomo l’esistenza di un principio unico, creatore increato, sapiente (in quanto capace di organizzare tutto con perfezione come somma Intelligenza) e onnipotente. Agostino delinea così una teoria filosofica in cui la ragione ha la capacità di conoscere la verità del mondo poiché l’universo stesso è stato creato e “funziona” seconde leggi razionali. Ad analoghi risultati (affermazione dell’esistenza di una verità certa nel mondo) Agostino giunge confutando le posizioni scettiche (tradizione accademica ciceroniana). Agostino, infatti, cerca di confutare le posizioni relativistiche di certa filosofia tardo-antica, per le quali non vi era conoscenza certa e ogni verità non era autenticamente tale. Fra i vari argomenti e le diverse rielaborazioni con cui Agostino cerca di superare questa posizione speculativa quello più significativa si può trovare nel De vera religione (389 – 391 d. C.; XXXIX, 73) e nel De Trinitate (400 – 416 d. C.; XII, 15, 21). L’argomento di Agostino si può riassumere così: lo scettico ritiene ogni verità solo apparente e, quindi, dubita di tutto, ma non può dubitare di esistere; questa certezza deriva proprio dal dubbio radicale. dubitando di ogni cosa e dubitando anche di esistere (come prima e più evidente verità) si raggiunge la certezza nella propria esistenza: se dubito della mia esistenza e temo di ingannarmi intorno a essa allora devo esistere, perché solo chi esiste può dubitare e anche essere ingannato. il dubbio assoluto conduce alla scoperta di almeno una verità certa, ovvero quella della propria esistenza. Questo ragionamento apre per Agostino, inoltre, ulteriore vie per superare lo scetticismo radicale. chi dubita di tutto è sicuro almeno del fatto che sta dubitando di ogni cosa, quindi si produce la certezza del dubbio. questo d’altra parte accade perché colui che si trova nel dubbio assoluto ritiene che non esista verità assoluta e così facendo trova la verità indubitabile che nulla è certo Questa dottrina epistemologica, ripresa e discussa in diverse opere agostiniane, conduce lo stesso Agostino a elaborare la teoria dell’illuminazione. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella La teoria dell’illuminazione rappresenta la più importante dottrina che il filosofo di Ippona sviluppa per spiegare come l’uomo conosca e come possa cogliere la verità. Poiché l’uomo può raggiungere un livello di conoscenza certa e non opinabile (le conclusioni del ragionamento matematico sono un esempio di sapere certo) Agostino cerca di comprendere le vie che conducono l’uomo a tale grado di conoscenza. In De Trinitate XII, 15, 24 l’Ipponate osserva che il sapere dei sensi non può produrre assoluta certezza in quanto i sensi stessi permettono di cogliere solamente quanto è transeunte e contingente (la conoscenza sensibile mostra solo le cose del mondo nel loro nascere e perire, quindi nella loro mutevolezza). Nell’uomo solamente l’intelligenza non materiale fa comprendere le regole certe di una verità immutabile e fornisce la prova della necessità del vero stesso. La ragione e l’intelletto umano, tuttavia, non sono i “padroni” o i “creatori” delle verità eterne che possono cogliere. L’uomo, infatti, è contingente come ogni altra realtà naturale e di fronte alla verità che può razionalmente scorgere si trova in una condizione di inferiorità; se ben condotta la ragione è costretta a riconoscere la necessità ed eternità del Vero come qualcosa che la trascende. Nell’interiorità dell’uomo, al di là dei suoi sensi, conclude quindi Agostino, si trova qualcosa che trascende l’uomo stesso e che è eterno, immutabile, vero. Le facoltà intellettive superiori dell’uomo sono il luogo del manifestarsi di una Verità che trascende l’uomo e che spinge l’individuo a dare testimonianza a questa Verità. Tale Verità non può che essere Dio. Per spiegare le modalità secondo le quali avviene questa interazione tra la Verità divina e la ragione dell’uomo Agostino ricorre a sua serie di immagini (come quella del “maestro interiore”) tra le quali la più famosa è la metafora della luce. Come la luce sensibile cala dall’alto e rende l'occhio capace di vedere le realtà fisiche così Dio in quanto Verità illumina la mente dell’uomo permettendogli di cogliere il vero in tutte le sue forme. Dio, infatti, è sia Padre creatore sia Verbo, ovvero Logos, Ragione, Conoscenza; in quanto Verbo allora in Dio sono contenuti tutti i paradigmi del mondo e i modelli perfetti di quanto viene all’essere concretamente (le idee di cui parlava Platone), poiché è Dio stesso che ha posto in essere tali paradigmi. La Verità-Dio, quindi, illumina la mente dell’uomo permettendole di scorgere i modelli delle cose e le leggi del reale. Da tali teorie epistemologiche è possibile inferire anche come per Agostino la dimensione corporea abbia un ruolo subalterno e come la conoscenza autentica debba venire fondata solamente sull’attività razionale dell’anima. Agostino, infatti, pur dovendo riconoscere in quanto cristiano il carattere positivo della materia quale elemento cosmico esplicitamente voluto da Dio resta, in particolare nell’ambito epistemologico, nettamente platonico. La verità dell’uomo è la sua anima; questa si serve solo del corpo nei confronti del quale mantiene un ruolo attivo. Poiché, infatti, l’inferiore non può agire sul superiore e poiché l’anima è più perfetta del corpo, anche la sensazione fisica non dovrà essere spiegata come una passione (un subire) dell’anima dovuta agli stimoli fisici; al contrario nella sensazione corporea l’anima avverte il corpo di quanto lo circonda e lo controlla, agendo su di lui e restando sostanzialmente indipendente dalla stessa sfera carnale. Diviene così chiaro in che termini l’epistemologia, come ogni altro aspetto del pensiero di Agostino, risulti elaborata dal pensatore di Ippona alla luce del problema del rapporto uomo-Dio. La conoscenza del Vero è possibile per l’uomo nella misura in cui egli si apre all’azione dell’illuminazione divina, poiché solamente il non materiale in quanto immutabile può condurre alla certezza: la verità consiste per l’uomo nel mantenere un corretto rapporto con il divino. Di contro l’errore si produce quando il sapere è ricercato nella dimensione materiale e mutevole. Quando nell’anima viene meno la giusta tensione al proprio Creatore l’uomo preferisce il transeunte all’eterno, dimentica la propria natura e si affida alle realtà divenienti: l’errore consiste per l’uomo nella perdita del rapporto con il divino. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella 3. TEOLOGIA E ONTOLOGIA. LA RICERCA DELL’ESSERE COME RICERCA DI DIO È allora chiaro come in Agostino la comprensione filosofica dell’essere non possa venir disgiunta dall’indagine teologica e dalla ricerca personale di Dio. Il carattere transitorio che le cose concrete manifestano a livello epistemologico è loro caratteristica essenziale anche sul piano ontologico. La realtà materiale e creata non possiede veramente l’essere ed è sempre sospesa tra l’esistere e il non esistere. Una simile realtà, pertanto, deve dipendere e venir prodotta da un’altra causa e tale causa dovrà possedere l’essere in maniera piena e perfetta. Tale causa in grado di spiegare l’esistenza del mondo è Dio. “Essere” (essentia) è in Agostino il nome più perfetto che la ragione finita dell’uomo può dare a Dio: mentre il creato è mutevole e quindi non esiste veramente, Dio è eterno, senza mutamento e cambiamento, agendo come causa dell’esistenza delle cose transeunti. La stessa Rivelazione biblica, d’altra parte, suggerisce di identificare Dio ed Essere; in Esodo 3, 14 quando Mosè chiede al Signore cosa dovrà dire al suo popolo se questo gli chiederà con chi abbia parlato, Dio risponde “Io sono colui che è” (Ego sum qui sum). Il passo biblico eserciterà una duratura influenza sulla tradizione filosofica medievale e in Agostino si può scorgere il primo interprete che con autorevolezza e consapevolezza speculativa sviluppi in termini ontologici rigorosi le parole dell’Esodo. In questo modo Dio è il Principio che fa esistere le cose e la Potenza che le ha create. Agostino sviluppa a questo proposito una riflessione filosofica sulla natura e l’origine delle cose, nella quale da un lato segue la narrazione biblica della creazione del mondo nel Genesi (il cosiddetto hexameron, ovvero il racconto dei sei giorni della creazione) e dall’altro la filosofia pagana. Se ogni cosa esiste grazie all’atto creatore di Dio, allora ogni realtà esistente, compresa la materia, è stata voluta e deriva da Dio. In quanto rientrano nel progetto divino, corporeità e materialità, quindi, non possono essere elementi negativi, ma strumenti con una loro propria utilità e dignità. La creazione divina, inoltre, è immediata e semplice, in quanto avviene fuori del tempo; lo scorrere temporale, infatti, inizia con la stessa creazione del mondo e prima di essa non esisteva, in quanto lo stato proprio dell’essentia divina è l’eternità (questa non è il perdurare indefinito nel tempo, ma lo stare al di là del tempo). Dio volle semplicemente che il mondo fosse e in questo modo lo generò, creando tutti i modelli delle cose (le idee) e la materia che dalle idee viene informata. Nel semplice atto creatore divino, tuttavia, viene ricompresa tutta la complessità del fluire temporale e della trasformazione del mondo; Dio, infatti, pone nella materia delle rationes seminales (concetto di derivazione stoica), ovvero dei principi che, come semi piantanti nel terreno, portano alla generazione le singole realtà individuali in tempi e momenti differenziati, prestabiliti dalla Provvidenza divina. È evidente in questo modo come riflessione ontologico-filosofica e teologia in Agostino siano in stretta relazione reciproca, tanto che la comprensione della realtà fisica può avvenire pienamente solo conoscendo il mistero della natura di Dio, a partire dalla Trinità. Agostino fornisce un contributo decisivo all’approfondimento del mistero trinitario parlando della persona del Padre come l’Essere, della persona del figlio come l’Intelligenza e della persona dello Spirito Santo come l’Amore. Agostino sviluppa questa dottrina in vario modo, chiamando le persone della Trinità con nomi diversi; tutti, però, sono sempre funzionali a definire una medesima fisionomia del divino. Padre, Figlio e Spirito Santo si trovano così in un rapporto di reciproca relazione. Da un lato, infatti, ciascuna persona condivide con le altre la stessa medesima natura, ovvero la divinità; dall’altro ogni persona, si trova in rapporto con le altre secondo un preciso progetto che permette alla Trinità di essere totale pienezza dell’esistere, del pensare e dell’amare. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Anche nel caso dell’ontologia, quindi, filosofia e ricerca del divino si sovrappongono. Il vero essere è Dio e colui che si allontana dal trascendente perde anche il proprio rapporto con l’autentica essentia, la quale si configura come modello perfetto della persona umana. Questa dottrina avrà in Agostino delle importanti conseguenze antropologiche ed etiche. 4. ETICA, TEODICEA E ANTROPOLOGIA IN AGOSTINO In Agostino l’errore morale e, quindi, il male nonché il peccato vengono descritti come la perdita del corretto rapporto tra uomo e Dio dovuta alla libera decisione del singolo individuo. La centralità in Agostino, sia a livello epistemologico che ontologico, del tema del divino e della sua relazione con l’uomo diviene ancora più netta nell’ambito antropologico ed etico. In ambito etico Agostino, infatti, fonda la sua teoria sull’origine del male facendo riferimento alle dinamiche di separazione/avvicinamento tra Dio e uomo. Il male come azione delittuosa o ingiusta deve essere attribuito alla libera decisione dell’individuo (come si dice chiaramente nel De libero arbitrio): dotato di libero arbitrio e di autonoma ragione (che valuta le cose del mondo) l’uomo è l’unico responsabile del peccato. Tale peccato viene poi definito da Agostino come l’incapacità di scegliere correttamente da parte dell’uomo tra i beni e, in particolare, di optare per il bene autentico di contro a quelli apparenti. Questo errore di giudizio consiste essenzialmente nel preferire il mondo materiale (i beni apparenti) alla realtà dello spirito e in ultima istanza a Dio (il bene autentico). Il rovesciamento della giusta gerarchia di valori che così si produce porta l’uomo a porre il Creatore al di sotto della creatura, sovvertendo il corretto ordine delle cose. Introducendo questi temi, tuttavia, Agostino pone immediatamente la necessità di analizzare più approfonditamente il tema del male e della sua origine, ovvero il problema della teodicea: l’esperienza del male e del negativo nella realtà del mondo deve essere conciliata con la dottrina teologica che insegna l’esistenza di un Dio buono, onnisciente e onnipotente. Già nel De libero arbitrio, infatti, Agostino distingue due tipi di male: il male subito e il male causato Agostino spiega l’origine della seconda tipologia di male con la libera azione dell’uomo, cosicché non si può vederne in Dio l’origine. Il problema proprio della teodicea, tuttavia, si ripresenta immediatamente: la responsabilità del negativo appare essere di nuovo ricadere su Dio in quanto la libera volontà è stata data all’uomo da Dio. In realtà, argomenta Agostino, la capacità di agire liberamente è comunque un bene ed è tale nella misura in cui è condizione per ottenere la massima felicità, ovvero la beatitudo che è incontro con Dio e conseguimento della pienezza della natura umana; tale stato perfetto spetta all’individuo quale conseguenza per una condotta giusta e una vita pia scelte in modo libero. Col peccato l’uomo sceglie in libertà i beni apparenti rispetto a quelli autentici, sovverte la giusta gerarchia dei valori e si vota in questo modo all’infelicità. Il male subito, invece, viene descritto da Agostino, da un lato, come un nulla dal punto di vista ontologico-metafisico e, dall’altro, come un elemento che collabora alla perfezione del tutto. Tutte le forme di negatività esperite dall’uomo (la morte, la malattia, le varie ingiustizie che segnano le relazioni sociali etc.), infatti, sono affrontate da Agostino innanzitutto da un punto di vista ontologico. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Il ragionamento agostiniano si può scomporre nei seguenti passaggi: Il male non può che essere considerato assenza di bene; il bene ontologicamente coincide con l’essere, in quanto pienezza e positività assoluta; quindi il male è pura assenza di essere e, come tale, non esiste (De civitate Dei XII, 3) Si tratta di un argomento nel quale appare chiara l’influenza del pensiero neoplatonico e della connessa teoria sul male. In questo modo Agostino non intende affermare che l’esperienza del negativo che l’uomo può fare sia illusoria o non reale, ma vuole scagionare Dio dall’essere ritenuto causa del male patito dagli individui. Su un piano puramente metafisico, infatti, quel male esperito dall’uomo è un non essere e, come tale, risulta privo di una causa positiva, in quanto una simile causa può generare solamente una realtà esistente e non un nulla. Dio in quanto causa di tal genere (buona e saggia) non può produrre un nulla e, pertanto non può produrre neppure il male. Agostino, tuttavia, sviluppa anche una seconda strategia argomentativa per conciliare l’esperienza del negativo e la dottrina teologica del Dio giusto e onnipotente. Riprendendo in questo caso teorie stoiche (poi inglobate nelle teodicee neoplatoniche, come quella di Proclo Licio Diadoco), Agostino osserva da un lato che: ciò che è male in un determinato momento o per un certo individuo in realtà concorre alla perfezione del tutto (una morta permette la nascita di una nuova vita), esattamente come un’ombra in un dipinto ne accresce la bellezza e dall’altro che: solo la presenza del male rende il bene autentico, fondato e dotato di significato, in quanto il perfetto è tale in presenza di un non perfetto e ogni opposto trae la propria identità con sé dal rapporto con l’altro da sé Il negativo, quindi, non esiste ontologicamente e Dio non ne è il responsabile; quel male che viene esperito dall’uomo può comunque essere considerato un elemento funzionale alla maggiore perfezione/bellezza del Tutto. Naturalmente la realtà creata e con essa l’uomo posso patire il male perché sono un essere imperfetto. Se, infatti, il male è una privazione di bene e d’essere, esso esiste solo come il prodursi di un venire meno dell’essere in ciò che esiste; ma una realtà che può essere soggetta a una diminuzione del proprio essere è per natura imperfetta (l’essere perfetto è tale proprio perché non viene mai meno). Tale difettosa condizione ontologica è determinata nella creatura dal semplice fatto di essere stata generata: ciò che viene posto in essere da Dio deve esistere come altro da Dio (altrimenti Dio riprodurrebbe se stesso, il che non avrebbe senso) se Dio è l’essere perfetto allora l’altro da sé che Dio crea è un essere imperfetto quindi, la stessa creazione del mondo implica la sua imperfezione ontologica Dio, tuttavia, non può essere considerato responsabile della negatività (in quanto imperfezione) che pure segna la natura delle cose create. Infatti non solo la creazione non si potrebbe dare se non in questi termini, ma l’esistere, anche se in una condizione di non pienezza, è comunque un bene; la stessa possibilità di subire una privazione di bene ed essere, d’altra parte, mostra che quanto patisce tale privazione è un essere e, quindi, un bene (fra i molti luoghi: De civitate Dei XII, 3). La stessa possibilità per l’uomo di peccare (producendo la prima tipologia di male, quello causato) è data dall’imperfezione radicale della creatura che, in quanto essere mutevole e transeunte, può agire contrariamente alla Verità e al Bene sommo (Dio). Su tale dialettica tra prossimità e distanza dell’uomo-creatura dal Dio-Creatore si fonda anche l’antropologia di Agostino, imperniata sulla dottrina della organizzazione trinitaria (tripartita) dell’anima umana. Agostino, infatti, ritiene che l’uomo pecchi e conosca il male nella misura in cui perde la propria Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella prossimità a Dio; ciò avviene per la libera decisione dell’individuo e per la intrinseca imperfezione della creatura. La stessa nozione di “imperfezione della creatura”, tuttavia, presuppone, come già notato che vi sia una positività e bontà nella realtà che Dio ha posto in essere; tale positività non può che essere espressa nei termini teologici della vicinanza e, quindi, somiglianza che la creatura ha nei confronti del Creatore. L’uomo (al pari di ogni cosa che esiste) è buono nella misura in cui conserva in sé una traccia di Dio e nella misura in cui agisce in conformità a tale similitudine con il proprio Creatore. Tale somiglianza (di cui si trova testimonianza in Genesi 1, 26 quando si narra la creazione dell’uomo ad imaginem et similitudinem Dei), radice di ogni positività nell’individuo, è data nell’uomo dalla sua anima e dalla sua organizzazione tripartita. Come Dio è vero Essere (Padre), Intelletto perfetto (il Figlio-Logos) e Amore (lo Spirito Santo) anche nell’anima dell’uomo si possono rinvenire le medesime operazioni: l’anima dell’uomo è essere e tale essere trova sintesi nonché espressione nella facoltà della memoria (la quale facendo persistere le cose che non sono più risulta segnata da una forma di pienezza ontologica) l’anima dell’uomo è ricerca della verità in quanto conosce attraverso l’intelletto e l’anima dell’uomo può amare e cercare il bene, come volontà. La struttura trinitaria delle funzioni dell’anima è il segno che mostra come essa discenda da Dio e sia a Egli simile. All’interno del tema della somiglianza tra Dio e uomo può essere inserita anche la riflessione di Agostino sulla natura del tempo, inteso come distensio animi. Agostino, come per le altre sue dottrine teologico-filosofiche, tratta del problema della natura del tempo all’interno della riflessione sul rapporto tra uomo e Dio. Se Creatura e Creatore pur così differenti risultano l’uno simile all’Altro, la funzione psichica dell’uomo dove più risulta evidente la sua prossimità a Dio è la memoria; la capacità di trattenere mentalmente le immagini sensibili delle cose passate è descritta da Agostino come un immenso spazio dove si raccolgono eventi che, benché trascorsi, sono trattenuti nell’essere dal ricordo. Agostino, infatti, parla delle innumerevoli pianure e delle grotte della memoria piene in modo infinito di un numero incalcolabile di cose (in memoriae meae campis et antris et cavernis innumerabilibus atque innumerabiliter plenis innumerabilium rerum generibus sive per imagines; Confessiones X 17, 26) e descrive la memoria come un santuario vasto e infinito (penetrale amplum et infinitum; Confessiones X, 8, 15). Nella memoria Agostino vede la presenza all’interno dell’anima di un infinito che la supera spingendola a un auto-trascendimento: nell’esperienza dell’inesauribile potenza delle memoria l’uomo è spinto a incontrare Dio. È all’interno di questa riflessione sulla memoria e sul rapporto uomo-Dio che Agostino elabora la sua filosofia del tempo. Interrogandosi sulla creazione divina del mondo e cercando di dare una spiegazione dei primi versetti del Genesi, infatti, Agostino si chiede che cosa facesse Dio prima di creare il mondo e, in questo modo, comincia a indagare la natura del tempo. Agostino osserva a questo proposito che il tempo è una realtà non solo sfuggevole (Confessiones XI, 14, 17), ma segnata da diversi paradossi, tra i quali il più stupefacente, osserva l’Ipponate, è che il tempo sembra risultare la somma di elementi in sé non esistenti. Agostino, infatti, nota che: il passato è una realtà già trascorsa e, quindi, non esistente. il futuro, parimenti, deve ancora accadere e come tale non è. il presente, infine, si mostra come un attimo subitaneo, che passa veloce, sempre sospeso tra il non essere del passato e il non essere del futuro (in quanto la sola realtà che possa essere definita “presente” è l’inafferrabile momento che appena colto scompare nel niente) Il tempo, allora, non può consistere di passato e futuro, poiché questi non esistendo non sono Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella oggetto di conoscenza e di misurazione, mentre il presente è talmente rapido nel suo dileguare che quasi non esiste. Il tempo potrà essere spiegato, quindi, solo come il ricordo degli eventi passati nella memoria e l’attesa che prevede gli eventi futuri a partire dall’esperienza di quanto già vissuto. Il tempo è distensio animi, “distendersi” dello spirito indietro, nel ricordo, e in avanti, a partire dai ricordi, operazione nelle quali la memoria appare ricoprire un ruolo centrale. Dio è la causa del tempo, poiché il fluire delle cose è nato insieme alla creazione del mondo e prima dell’atto creatore divino non vi era neppure tempo, ma solo un’immobile eternità. L’uomo è anch’egli capace di creare il tempo misurandolo con il proprio spirito grazie alla memoria che è segno dell’infinità divina nell’uomo. Nel tempo la prossimità tra Dio e uomo diviene così evidente. Tali tematiche (del male, della distanza dell’uomo dal divino in cui il peccato consiste, della somiglianza tra uomo e Dio) si intrecciano nel pensiero di Agostino con le questioni teologiche intorno alla possibilità della salvezza dell’anima e al ruolo che in questa redenzione ha l’intervento salvifico di Dio, ovvero la Grazia. 5. GRAZIA, LIBERTÀ E PREDESTINAZIONE Agostino sottolinea l’importanza della Grazia divina per la salvazione dell’uomo nella disputa contro Pelagio Agostino tratta degli aspetti prettamente teologici connessi al tema del peccato e del male in diversi scritti e in più occasioni durante la sua vita. Centrale nella riflessione su tali tematiche è la disputa contro Pelagio e i suoi seguaci. Pelagio, monaco anglosassone giunto a Roma e di lì spostatosi in Africa a seguito del sacco di Alarico nel 410, sosteneva che l’uomo è in grado di meritare la ricompensa della vita eterna e di salvare la propria anima unicamente con le opere e la preghiera e, quindi, senza l’intervento della Grazia, ovvero l’intervento divino reso possibile dal sacrificio di Cristo sulla croce. La Grazia e i sacramenti con i quali essa è amministrata dalla Chiesa rappresentano per Pelagio un aiuto ma non l’unico strumento per la redenzione. Alla base di tale dottrina Pelagio poneva la convinzione che il peccato originale non avesse radicalmente corrotto la natura dell’uomo e che le conseguenze del peccato di Adamo non si potessero trasmettere all’intera umanità (che da Adamo comunque discendeva). Agostino a più riprese prende posizione contro la dottrina di Pelagio che rendeva la chiesa e la venuta del Cristo ininfluente per la salvezza dell’anima dell’uomo. Agostino, quindi, afferma in diverse opere (come la Grazia e il libero arbitrio, composto intorno al 425) che nel peccato originale l’uomo ha perso la capacità di agire in modo corretto e di non peccare; tale indebolimento della volontà si è poi trasmesso all’intera umanità. Agostino sembra sostenere su questo punto la dottrina del traducianesimo, già ampiamente discussa dai precedenti padri della Chiesa: l’anima dell’uomo deriva come il corpo dai genitori cosicché il peccato e la conseguente corruzione dell’anima di Adamo, primo padre dell’umanità, si sono trasmessi a tutti gli uomini. Lo stato dell’anima umana, quindi, è il seguente: prima del peccato l’uomo poteva peccare (ma anche non peccare), ovvero la sua anima era effettivamente libera di fronte alla scelta tra male e bene dopo il peccato originale di Adamo l’anima non può non peccare, in quanto la corruzione subita dalla sostanza psichica è tale da rendere l’individuo incapace di scegliere autonomamente il bene gli eletti dopo la morte, ovvero coloro che riceveranno il premio della salvezza nel regno dei cieli, non potranno peccare, ovvero agiranno perfettamente seguendo il giusto ordine dei valori e conosceranno sempre così sia il vero bene, potendolo anche realizzare Solamente l’intervento della Grazia, quindi, pone rimedio alla corruzione dovuta alla caduta Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella adamitica, rendendo coloro ai quali è donata capaci di scegliere il bene. L’esatto ruolo della Grazia nel cammino di salvezza e la sua interazione con la libertà umana sono però temi complessi e ambigui in Agostino. Agostino, infatti, sembra sostenere in più occasioni che la Grazia renda l’uomo semplicemente capace di scegliere il bene e che non possa da sola condurlo alla salvazione: l’intervento divino restituisce all’individuo la condizione che gli era propria prima del peccato, ovvero il poter non peccare, e alla libertà personale la capacità di una scelta buona. Nella Grazia l’uomo conosce il bene e sa realizzarlo. La complessità dell’argomento e il contesto nel quale il problema viene discusso (una disputa contro una dottrina dal sapore eretico), tuttavia, fanno sì che Agostino a volte radicalizzi la propria posizione sulla questione della Grazia e della libertà dell’uomo sino a esiti teorici che lo stesso vescovo di Ippona cercherà poi di correggere. In certi casi allora Agostino sembra sostenere: non solo che l’uomo è totalmente incapace di salvarsi senza l’intervento della Grazia, ma anche che la donazione della Grazia da parte di Dio avviene solamente per alcuni, predestinati dalla stessa volontà di Dio e che la sola Grazia conduca l’uomo alla salvezza La complessità del pensiero di Agostino su questo punto è tale che anche gli studi critici più recenti sottolineano come sia difficile definire l’esatta dottrina agostiniana su tali tematiche. POLITICA E FILOSOFIA DELLA STORIA IN AGOSTINO Agostino sviluppa una riflessione politica che è al tempo stesso una filosofia della storia nel De civitate Dei. Il De civitate Dei è, per mole, ricchezza e tempo di composizione, l’opera più complessa di Agostino. Iniziato nel 412 e terminato approssimativamente nel 427 il De civitate è un testo complesso che non può essere considerato una semplice opera di teoria politica, ma piuttosto una complessa riflessione che tocca anche centrali temi politici (quali la giustizia e l’origine dello stato) a partire da una indagine di filosofia della storia. Con questo termine (moderno e applicabile con prudenza all’opera di Agostino) si deve intendere quell’esercizio filosofico per cui si riflette sul significato degli eventi storici e sulla possibilità (nonché i modi o le forme) di concepirli come momenti di uno sviluppo ordinato che tende a un fine ultimo. Tesi centrale del De civitate Dei, infatti, è la distinzione tra due comunità o gruppi umani (il termine civitas nel latino dell’epoca agostiniana può significare anche “comunità”): la “città” di Dio e la “città” del diavolo La prima è composta da quanti comprendono e mettono in pratica la legge divina, improntando la loro vita a un amor (amore, attenzione, predilezione) per Dio e alla carità; è questa, quindi, la comunità dei giusti. La “città” del diavolo, invece, è costituita da tutte le persone che hanno sovvertito la giusta gerarchia dei beni e che, quindi, amano in modo distorto loro stessi sopra ogni cosa. Queste due comunità sono presenti in ogni epoca e in ogni momento, devono restare ben distinte e sono l’una contrapposta all’altra. Bisogna qui precisare che l’appartenenza alla civitas Dei o alla civitas diaboli non è determinata da fattori giuridici o statuali, ma è il prodotto di una scelta morale e di una condotta della singola persona. Per questo motivo l’ascrizione alla comunità dei reprobi non è decisa dal prendere parte Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella all’attività politica o dal vivere semplicemente secondo le leggi all’interno di uno stato secolare, così come l’essere parte della civitas dei giusti non ha a che fare con l’appartenere al novero dei credenti (magari membri della Chiesa); vi possono essere giusti nello stato (il quale produce comunque un certo ordine) e vi possono essere reprobi nella Chiesa dove si può trovare l’ “erba cattiva”. In questo modo cardine teorico dell’opera agostiniana non è tanto una riflessione sulle tipologie delle costituzioni possibili (come nella filosofia di Platone o Aristotele) né la teorizzazione di uno stato teocratico in cui la religione detenga anche il controllo politico; nel De civitate Agostino riflette sui due generi di uomo, quello vecchio e quello nuovo (secondo la dicitura di San Paolo), e sulla scelta esistenziale che permette a ciascuna persona di divenire l’uno o l’altro. A partire dalla dottrina delle due civitates Agostino sviluppa la sua filosofia della storia. La compresenza e la convivenza delle due civitates, infatti, terminerà solamente alla fine dei tempi, quando, con la venuta del Cristo, vi sarà la condanna dei reprobi e l’instaurazione di un regno di autentica giustizia. La dialettica tra la comunità dei giusti e degli empi, quindi, rimanda al tema della fine dei tempi e della storia. In questo modo Agostino sviluppa e teorizza in modo rigoroso una visione filosofica della storia propriamente cristiana, lineare e orientata a un fine ultimo, contrapposta, come tale, alla concezione greca del tempo quale ritorno circolare di eventi e fatti. All’interno di questa teoria della storia gli accadimenti sono orientati al fine ultimo del divenire storico (la venuta del Cristo) e, quindi, ogni cosa rispetta un preciso ordine (ordo temporum) nel quale anche il negativo trova una propria spiegazione. Per Agostino l’intera storia universale si divide in sei epoche desumibili dal vangelo di Matteo: 1) da Adamo a Noè; 2) da Noè ad Abramo; 3) da Abramo Davide; 4) da Davide alla schiavitù di Israele a Babilonia; 5) da questa alla nascita del Cristo; 6) dal Cristo alla fine dei tempi. L’epoca che Agostino ritiene di vivere è l’ultima, quella che conduce al “settimo giorno”, nel quale la creazione conoscerà la perfezione divina. Sulla filosofia della storia agostiniana si innesta poi la riflessione propriamente politica dell’Ipponate. Agostino ritiene che lo stato secolare nasca per accordo degli esseri ragionevoli nella ricerca di ciò che si ama; l’organismo politico, quindi, ha la funzione di aiutare i singoli a raggiungere un bene che tutti ritengono desiderabile (De civitate IX, 24). Se i membri della comunità sono saggi e giusti individueranno tale bene supremo nella pace e nella giustizia. Agostino, tuttavia, si dimostra estremamente pessimista sulla possibilità concreta del raggiungimento di una condizione di vera pacificazione. La perfetta giustizia e l’autentica assenza di conflitto sono solo il prodotto del regno di Dio e della fine dei tempi. Nella condizione di commistione delle due civitates l’uomo è segnato dal peccato e benché lo stato secolare sia una delle forme che garantisce l’ordine del vivere, la durata nonché la qualità dell’armonia così prodotta è sempre parziale. Per questa ragione Agostino ritiene che la vera utilità dello stato e in particolare della sua legge sia quella di controllare, mediante la minaccia della punizione, la condotta dell’uomo, il quale dopo il peccato originale è segnato da una radicale malvagità. CRONOLOGIA Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella - Agostino nasce a Tagaste (nell’attuale Algeria) nel 354 d. C. - Completa una prima fase dei suoi studi a Cartagine all’incirca nel 374 - In questi stessi anni legge un dialogo ciceroniano sull’importanza dello studio filosofico e si appassiona alla speculazione e ai problemi a questa connessi - Nel 383 è a Roma dove giunge grazie anche agli appoggi manichei (setta religioso-filosofica alla quale si era in precedenza unito) e ottiene un udienza da Simmaco il quale gli offre la cattedra di retorica a Milano, posizione che ricopre a partire dal 384 Agostino. - A Milano la lettura di “alcuni libri dei Platonici” (Porfirio e forse anche Plotino) rappresentano un’esperienza formativa e personale fondamentale; di grande importanza è anche l’incontro con Ambrogio e il suo insegnamento sulla lettura allegorica delle Scritture - In conseguenza di queste esperienze nel 386 Agostino decide di convertirsi e di abbandonare l’insegnamento - Nel 387 viene battezzato e prosegue l’attività di studio e ricerca. - Dal 388 al 391 si ritira conducendo vita monastica - 391 consacrazione a sacerdote - 395 ordinazione a vescovo di Ippona - Inizia l’attività pastorale e dogmatica di Agostino che viene presto indicato come personalità centrale del mondo cristiano e pensatore al quale chiedere indicazioni su controverse questioni di fede - Muore nel 430 all’età di 76 anni Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella BOEZIO: L’ULTIMO DEI ROMANI, IL PRIMO DEI MEDIEVALI La figura di Severino Boezio (Anicio Manlio Torquato Severino Boezio) è considerata come la personalità filosofica che “collega” il mondo romano (e quindi anche la tradizione pagana) con la nuova realtà, culturale e politica, del nascente mondo medievale. Boezio nasce nel decennio tra il 470 e il 480 (l’anno preciso resta oggetto di discussione), da una importante famiglia patrizia romana. La sua formazione culturale è ricca: studia ad Atene e forse anche ad Alessandria d’Egitto (importante centro culturale). Ritornato a Roma segue il cursus honorum proprio della tradizione romana: prima è console (510), poi nel 522-23 “maestro dei servizi” (magister officiorum, un’alta carica assimilabile a quella odierna di ministro) alla corte di Teodorico (re degli Ostrogoti che avevano conquistato all’inizio del VI secolo l’Italia, sostituendo il potere di Odoacre responsabile, nel 476, della deposizione dell’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, e della fine del potere romano). Intorno al 524 viene accusato di tradimento, incarcerato a Pavia e giustiziato mediante decapitazione (le circostanze della sua morte fecero fiorire il culto cristiano, come santo, della sua persona). Il ruolo di autore che conduce la riflessione filosofica dal mondo romano-pagano a quello cristiano e che latinizza il sapere filosofico greco dipende da una serie di elementi speculativi e da una serie di circostanze storiche: Boezio vive e redige le sue opere nel periodo di transizione tra il potere imperiale romano e il definitivo instaurarsi del dominio “barbaro”, divenendo per ciò stesso testimone e in parte attore (vista la sua posizione sociale e il suo impegno politico) del momento storico con il quale si fa iniziare l’epoca medievale Boezio è cristiano cattolico e scrive anche opere esplicitamente teologiche, dedicate alla confutazione di alcune eresie cristologiche (quella monofisita e quella nestoriana). In questo modo Boezio, da un lato, fornisce testimonianza del conflitto interno al mondo italiano tra la nuova classe dirigente ostrogota che era sì cristiana ma ariana e la vecchia classe dirigente romana, cristiana cattolica (l’imperatore Teodosio aveva indicato nel 380 il cattolicesimo come religione di stato); dall’altro è prova con la sua opera della progressiva integrazione tra riflessione teologica e filosofia pagana, elemento che può essere considerato uno degli aspetti caratteristici del mondo medievale Boezio si impegna nella sua attività di studioso a tradurre e far conoscere al mondo latino (mediante opere originali e commentari) l’intero sapere greco. Boezio era guidato in questo suo progetto dal tentativo (caratteristico di molta cultura ellenica del periodo) di trovare una sintesi tra Platone e Aristotele, mostrando l’accordo tra i due filosofi. Questa sua opera di divulgazione, ancorché non completata, e di riflessione personale lascerà alla cultura altomedievale un patrimonio di testi (soprattutto di logica) e di dottrine fondamentali per il successivo sviluppo del sapere filosofico. Boezio, quindi, appare come il primo dei medievali in quanto può essere considerato uno dei “maestri” dell’epoca di mezzo. ONTOLOGIA E TEORIA DELL’ENTE Una delle teorie più importanti del pensiero boeziano è quella ontologica relativa alla distinzione tra essere (esse) e ciò-che-è (id quod est) Nel De hebdomadibus (testo che contiene la risposta a una questione che un interlocutore di Boezio gli aveva posto durante alcuni incontri settimanali; secondo alcuni autori da qui deriva il titolo dell’opera: ebdomas indica il periodo di sette giorni e quindi la settimana) Boezio fornisce sette regole che servano da base per la riflessione filosofica in generale e, in particolare, per pensare Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella correttamente l’essere e il bene. Tra queste regole centrali sono la I, la VI e la VII. La prima regola dice che: L’essere (esse) e ciò-che-é (id quod est) sono due cose diverse La sesta regole dice: In ogni realtà semplice l’essere e il ciò-che-è sono una cosa sola, mentre nelle cose composte si differenziano La settima regole dice: Ogni diversità produce una discordanza, mentre la somiglianza viene sempre cercata; ciò che cerca qualcosa è della stessa natura di ciò che cerca La dottrina fondamentale che Boezio introduce con queste regole, quindi, è la differenza tra esse e id quod est. In questo modo il pensatore romano intende distinguere l’atto di esistere (come concetto assoluto) e il modo in cui si dà ciascuna cosa realmente esistente (un uomo, un albero, una casa etc.): il primo è astratto e generico, il secondo è definito e determinato (come dice anche la regola V dove si afferma che una volta che l’id quod est esiste, partecipando all’essere, può partecipare a qualcos’altro e divenire determinato, ovvero aliquid). Queste regole sono funzionali a rispondere a una domanda fondamentale, ovvero: come le cose possano essere dette buone anche se non sono il bene in sé in senso sostanziale. In base alle regole sopra esposte, infatti, è chiaro che le cose siano buone: ogni cosa che è cerca il bene, ma tutto ciò che cerca il bene è simile al bene che cerca (regola VII). Ora è anche chiaro che le cose sono buone ma non possono essere il bene in sé: se così fosse le cose sarebbe il bene assoluto e, quindi, Dio. Non si può neppure dire che le cose partecipano del bene, perchè ciò che partecipa di una qualità non è quella qualità, come una cosa bianca non è la bianchezza. Queste difficoltà si risolvono se si applicano all’analisi di ogni realtà che cerca il bene la regola I e la regola VI, distinguendo id quod est ed esse e pensando la realtà in questione come un composto dei due elementi. Se nella realtà composta l’essere è diverso da ciò che la realtà stessa è, allora la realtà partecipa all’essere in quanto esiste ma mantiene una differenza da tale essere. La medesima forma di rapporto spiega anche il rapporto tra cosa buona e bene in sé, tanto più se si ritengono, come fa Boezio, bene ed essere identificabili: ogni cosa che esiste è anche buona, ma così come in quanto id quod est è diversa dall’esse stesso sarà anche diversa dal bene in sé pur mantenendo con questo un certo rapporto. In questo modo Boezio argomenta che le realtà sono buone in quanto derivano dal bene sommo e dall’essere, ma non sono identiche all’essere e al bene sommo perché sono realtà determinate (id quod est) e, quindi, distinte dall’essere e dal bene. Questa dottrina risulterà centrale per tutta la successiva filosofia medievale che in base a essa imparerà a distinguere tra la semplicità di Dio (puro essere, pura forma senza materia) e il carattere composto nonché determinato delle realtà concrete. LOGICA E TEORIA DEGLI UNIVERSALI Il contributo che Boezio dà alla logica è quello più importante per la storia del pensiero medievale. Una parte delle opere logiche boeziane, infatti, fornirà i materiali fondamentali dell’erudizione dialettica sino all’inizio del XII secolo e un’altra parte, riscoperta a partire dal XII secolo, darà un contributo essenziale a una successiva maturazione del pensiero logico saldandosi per certi versi con la rivoluzione logica (la logica nova) dovuta alla ricezione delle opere logiche di Aristotele prima perdute (fra le quali massima importanza avranno gli Analitici secondi). Il lavoro logico boeziano consiste sia di traduzioni latine di opere greche e di commenti a tali opere Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella sia di testi originali. Boezio traduce le Categorie, il De interpretatione, gli Analitici primi, i Topici e le Confutazioni sofistiche (anche se solo alcune di queste traduzioni saranno conosciute prima del XII secolo); commenta le Categorie e il De interpretatione; scrive opuscoli originali sui sillogismi categorici e ipotetici e sulla logica dei Topici. In logica Boezio segue abbastanza fedelmente il pensiero aristotelico, introducendo però alcuni elementi originali. Boezio introduce il principio per cui i predicati hanno sensi differenti a seconda del soggetto al quale vengono riferiti. Questa dottrina ha un centrale valore teologico: un predicato deve essere inteso diversamente a seconda che lo si riferisca alla Creatura o a Dio. Questo teoria risulta rafforzata e completata da un’altra dottrina boeziana: le categorie si distinguono in sostanziali (de subiecto: sostanza, quantità, qualità) e accidentali (in subiecto): le prime riguardano l’identità e l’essere della cosa, le seconde no. Le proposizioni nelle quali si lega un soggetto a un predicato appartenente a una categoria sostanziale (de subiecto) forniscono indicazioni sulla natura essenziale di quel soggetto. Riflettendo sulle categorie sostanziali, infatti, Boezio osserva che la definizione della natura del soggetto (grazie al rapporto soggetto/predicato) quando soggetto della predicazione è Dio (come quando si dice: “Dio è giusto”) è diversa dalla definizione della natura del soggetto (attraverso l’identico rapporto soggetto/predicato) quando soggetto è una creatura, come l’uomo (“quest’uomo è giusto”). Infatti Dio è semplice e in Lui non c’è nessuna differenza tra l’essere se stesso e l’essere giusto (Dio anzi è la giustizia stessa); nell’uomo, invece, vi sarà sempre una differenza tra il suo essere e il predicato sostanziale attribuitogli. In conformità con questo orientamento aristotelico, nella riflessione intorno al problema degli universali Boezio non sviluppa una dottrina realista. Boezio sostiene che da un punto di vista logico le specie e generi esistono solo in unione con la materia nelle realtà sensibili ma vengono pensati in maniera separata dai corpi. L’anima, infatti, ha la capacità di isolare e considerare separatamente quelle forme che i sensi colgono solamente nella loro unione con la materia. TEOLOGIA E METAFISICA Boezio sviluppa in metafisica una dottrina dal sapere neoplatonico. Boezio pensa la realtà come dipendente da un primo principio, unico e semplice, il quale è completamente privo di materia; tale principio viene identificato da Boezio non solo con una sostanza divina, ma anche con lo stesso Dio cristiano (alcuni opuscoli di tema teologico e di orientamento cattolico dimostrano, infatti, che Boezio era cristiano). Il principio divino e le realtà più perfette (come gli angeli) sono intelettibili, ovvero realtà del tutto immateriali; queste realtà saranno anche perfettamente esistenti in quanto, per Boezio, l’essere deriva dalla forma (come si afferma nel De Trinitate). Vero essere e prive di materia tali realtà possono essere conosciute mediante il metodo intellettivo proprio della teologia. Il mondo naturale, invece, consiste dell’unione delle immagini delle forme pure (una sorta di copia delle forme intellettibili che rimangono separate) con la materia. Questo mondo può essere conosciuto in modo puramente fisico; in questo caso si coglie solo l’aspetto naturalis mediante la physica, che opera attraverso sensi e immaginazione. Oppure può essere conosciuto astraendo con la ragione le immagini delle forme dalla materia (intelligibili); questo è il metodo per Boezio delle Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella matematiche (mathematica) che conoscono l’aspetto intelligibile del mondo fisico. Quindi per Boezio il cosmo è ordinato in una precisa gerarchia, a ciascun gradino della quale corrisponde una facoltà e metodo conoscitivo: Forme immateriali (intellettibili) conosciute con l’intelletto nella teologia Immagini delle forme immateriali astratte dalla materia (intelligibili) conosciute con la ragione nella matematica Immagini delle forme immateriali unite alla materia conosciute con i sensi e l’immaginazione nella fisica In questo modo non solo si definisce la struttura della conoscenza teoretica (distinta da quella pratica) ma viene distinta una forma di sapere di carattere razionale (che coglie l’intelligibile mediante l’astrazione della copia della forma dalla materia) da quello intellettuale (che in modo semplice coglie la forma intelligibile nella sua purezza). Questa dottrina metafisica trova una sintesi nella Consolazione della filosofia (De consolatione philosophiae), l’opera che Boezio scrive durante la carcerazione come riflessione sulla sua situazione e sul concetto di Fortuna/Provvidenza. In questo scritto, in parte in prosa e in parte in versi (fra le opere boeziane il più famoso e il più studiato), Boezio riafferma l’esistenza di una Provvidenza divina e definisce una dottrina della felicità umana. L’uomo è veramente felice nella misura in cui tende verso le realtà spirituali, non cercando, quindi, beni materiali-corporei. Solo questi ultimi sono soggetti alla Fortuna e alle sue alterne vicende, mentre la vita sapiente che scegle i veri beni immateriali risulta al riparo da ogni circostanza. La Provvidenza è il piano voluto da Dio per il mondo secondo la sua Sapienza, capace quindi di orientare la realtà nel modo migliore. In questa visione il male è solo un non essere che non può derivare da Dio. L’esistenza della perfetta Provvidenza divina rischia però di negare la libertà umana (se Dio sa e preodina tutto allora l’uomo non è libero). Boezio risolve questo problema affermando che la condizione propria di Dio, nella quale egli agisce come Provvidenza, è l’eternità e l’eternità è “il possesso simultaneo, perfetto e totale di una vita interminabile” (aeternitas igitur est interminabilis uitae tota simul et perfecta possessio; cfr. De consolatione phislophiae V, pr. 6, 4). Dio, quindi, vive in un eterno presente dove tutti gli eventi sono già dati nella loro compresenza. Per questa ragione la visione provvidenziale di Dio è contemporanea a tutte le azioni che ogni uomo compirà e in questo modo non le rende non libere (così come quando se qualcuno vede nel presente un uomo che cammina questo non rende quell’azione necessaria). CRONOLOGIA - Nasce a Roma circa nel 470 d. C. da una nobile famiglia della gens Anicia. - Inizia presto un percorso di studi e di formazione che lo porta anche ad Atene e ad Alessandria, i due centri più importanti per la formazione culturale dell’epoca - Nel 490, alla morte del padre, verrà affidato a Quinto Aurelio Memmio Simmaco, nobile romano colto e versato nelle lettere - Ritornato a Roma dal suo periodo di studio inizia il percorso politico secondo la tradizione romana, assumendo varie cariche tra cui nel 510 quella di console - Nel 522-23 è “maestro dei servizi”, entrando nella corte di Teodorico re degli Ostrogoti e divenendo parte del governo “barbaro” dell’epoca - Nel 524 difende il nobile Albino dall’accusa, mossagli da Cipriano (anch’egli funzionario alla corte ostrogota) di complotto. Boezio ricorderà in prigionia come il suo impegno verso la gustizia gli avesse procurato molti nemici, tra cui anche Cipriano, il quale proprio dopo la morte di Boezio assunse importanti cariche nel sistema politico della Penisola. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella - Boezio viene accusato anch’egli di tradimento (sulla base di alcune sue lettere, intorno alla cui autenticità gli storici hanno sollevato dubbi) e incarcerato a Pavia. - Nel 525 viene condannato alla pena capitale che sarà eseguita intorno al 526 nella stessa città di Pavia in cui era stato imprigionato. - A partire dall’VIII secolo inizia a Pavia e nei territori circostanti un suo culto come santo: la sua morte sul patibolo viene infatti associata al dissidio tra romani, cristiani cattolici, e, ostrogoti cristiani ariani. - Nel 1883 papa Leone XIII ne approva il culto elevandolo alla condizione di santo della Chiesa cattolica. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella DIONIGI: TEOLOGIA E FILOSOFIA L’opera di Dionigi esercitò un’influenza profonda sulla filosofia medievale in quanto rappresenta uno dei primi, riusciti, tentativi di armonizzazione tra pensiero pagano e fede cristiana. Nonostante l’importanza che la sintesi dionisiana esercitò non sul pensiero medievale, ma anche sulla tradizione speculativa moderna e contemporanea, le notizie biografiche di cui disponiamo intorno alla figura di Dionigi Areopagita sono pressoché nulle. Sotto il nome di Dionigi, infatti, sono giunte a noi alcune opere (il cosiddetto corpus areopagiticum): Nomi divini, Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica e Teologia mistica. A queste opere vanno aggiunte 10 Lettere di contenuto filosofico. L’identità del pensatore che compose tali scritti resta però del tutto sconosciuta. Lo stesso autore del corpus ci informa circa il suo nome, ovvero Dionigi, mentre alcune affermazioni e riferimenti contenuti nelle opere giunte sino a noi lo hanno fatto identificare con il Dionigi giudice dell’Areopago (il tribunale di Atene; da qui il nome Areopagita), il primo convertito al cristianesimo da Paolo nella sua predicazione ad Atene (Atti degli apostoli 17, 34). Nonostante alcune incertezze iniziali tutto il mondo medievale accettò senza riserve l’identificazione tra il filosofo del corpus areopagiticum e il discepolo di Paolo; il corpus, infatti, è citato per la prima volta a Costantinopoli durante le dispute teologiche monofisite della prima metà del VI secolo, e in questa occasione alcuni autori coinvolti nel dibattito teologico sollevarono dubbi sulla reale identità del suo autore. L’autorità conferita a Dionigi dall’essere considerato testimone della prima diffusione della Fede e dall’essere stato istruito nelle verità cristiane dall’Apostolo in persona, d’altra parte, accrebbe enormemente l’importanza attribuita dai medievali alle opere in questione. Solamente nel XIV secolo alcuni autori cominciarono a rilevare la profonda somiglianza tra quanto scritto da Dionigi in alcune parti della sua opera e le teorie di Proclo Licio Diadoco, rettore dell’Accademia platonica ad Atene morto negli anni ’80 del V secolo d. C. (molti secoli dopo, quindi, l’epoca della predicazione apostolica). In epoca rinascimentale Lorenzo Valla ed Erasmo da Rotterdam dimostrarono che il Dionigi autore del corpus areopagiticum non poteva essere il personaggio di cui parlavano gli Atti degli Apostoli. Solamente nell’800, tuttavia, si definì chiaramente la dipendenza di Dionigi da Proclo e la necessità di collocare questo pensatore cronologicamente nel V secolo d. C. e geograficamente nell’area di Antiochia (Siria). Nonostante l’impossibilità a definire la personalità storica dell’autore del corpus (ogni tentativo in questo senso non ha dato risultati) l’importanza filosofica di Dionigi resta immensa. Le ragioni di tale importanza devono essere rinvenute in una serie di ragioni: L’autore del corpus areopagiticum offre un contributo essenziale nel processo, proprio del periodo patristico (seconda patristica), di razionalizzazione e formalizzazione speculativa rigorosa della rivelazione cristiana. Il modello metafisico che Dionigi utilizza per questa razionalizzazione della fede è quello neoplatonico, nella versione elaborata da Proclo. Per questa ragione Dionigi sarà uno dei canali privilegiati attraverso i quali il mondo medievale conoscerà il pensiero di Plotino e dei suoi discepoli, in una forma ricca e più vicina alla sua elaborazioni originale (il neoplatonismo pagano tardo-antico sarà riscoperto poi solamente nel mondo rinascimentale). TEOLOGIA E GERARCHIE UNIVERSALI Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Dionigi fonda la sua riflessione sulla dottrina di Dio come causa della realtà cosmica. Dionigi afferma che tutta la realtà discende da Dio, come sua causa e suo principio. Tale creazione divina viene concepita da Dionigi come un procedere da Dio stesso della sua potenza (dynamis) la quale porta all’essere tutto ciò che esiste. Dio, quindi, irradia da sé la propria energia, come il sole spande intorno luce e calore (secondo le metafore che già Plotino utilizzava). Tale irradiazione non è però semplice, ma si articola in diversi gradi o ipostasi gerarchicamente ordinate. Il procedere della potenza divina, infatti, porta all’essere le diverse realtà secondo una serie gradi cosmici; tutti gli esseri della creazione divina, quindi, sono raggruppati in livelli onto-henologici cosicché all’interno di un medesimo livello vi possono rinvenire sostanze dotate di caratteristiche metafisiche simili. Tale carattere metafisico proprio di ciascuna realtà e di ciascuna gerarchia è determinato dalla maggiore o minore prossimità a Dio del singolo livello cosmico: le cose sono tante più perfette quanto maggiormente vicine si trovano alla loro causa divina e a questa assomigliano. Tale dottrina produce due conseguenze profondamente correlate: tutto l’universo è diviso in gradi di maggiore o minore perfezione e, quindi, di maggiore o minore prossimità/somiglianza a Dio ogni parte o ente universale mantiene un legame con il divino, in quanto da questo derivato, e come tale conserva parte della sua perfezione. Ciascun gradino della scala cosmica dell’essere, infatti, esiste in quanto riceve da Dio una parte della sua potenza, in modo proporzionato al livello gerarchico a cui il gradino stesso appartiene. In Dionigi ricevere l’irradiazione divina e il venire all’essere sono la medesima cosa: l’iniziare ad esistere di ogni realtà coincide con l’irradiarsi della potenza divina la quale produce nel suo fluire da sé diversi livelli gerarchici e tale produzione coincide con l’assumere da parte della stessa potenza divina “forme” differenti. La creazione, quindi, è la stessa energia divina che procede oltre se stessa, assumendo forme diverse a seconda del grado cosmico prodotto (misurabile in termini di distanza del grado stesso dalla perfetta trascendenza divina). Questa costante catena d’essere e di perfezione che discende da Dio continua attraverso le più perfette realtà angeliche e le sostanze immateriali sino al mondo fisico nel quale la Chiesa (anch’essa non a caso organizzato nella gerarchia dei diversi livelli ecclesiastici) è riflesso pieno della superiore potenza. Dionigi descrive così due sistemi gerarchici, ovvero due ordini di gradi cosmici orientati dal più al meno perfetto: la gerarchia celeste (alla quale è dedicata la trattazione di uno dei testi del corpus areopagiticum), costituita dai livelli delle realtà angeliche, e la gerarchia ecclesiastica (anch’essa discussa in uno scritto del corpus), definita, invece, dall’ordine interno alla Chiesa con le sue varie cariche e funzioni (dai laico al vescovo). L’universo dionisiano, pertanto, benché diviso in livelli e gradi risulta profondamente unitario e armonioso al suo interno; l’ininterrotta catena della luce divina, infatti, garantisce che ogni realtà, anche la più umile, possieda bellezza e perfezione. Proprio il concetto di “immagine”, come riflesso metafisico della perfezione divina, e di “bellezza” diventano termini chiave per comprendere il rapporto che intrattengono in Dionigi le realtà appartenenti alle gerarchie cosmiche inferiori con quelle a queste superiori. ONTOLOGIA E TEOLOGIA La natura di Dio, nonostante egli agisca come causa dell’universo, risulta per Dionigi inconoscibile. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Poiché ogni realtà creata è immagine e riflesso della potenza divina, è possibile, nel sistema metafisico dionisiano, comprendere la natura di Dio a partire dagli enti e dalle sostanze concrete. La continuità metafisica tra Creatore e creature rende possibile inferire l’essenza del primo a partire dalle qualità delle seconde, in base al principio che causa ed effetto hanno sempre una qualche similitudine. Dionigi, tuttavia, limita fortemente il valore conoscitivo di questa pratica di inferenza per la reale conoscenza della natura di Dio. Dionigi, infatti, seguendo il modello speculativo neoplatonico da lui scelto, descrive il divino come realtà del tutto semplice e ineffabile, inconoscibile per ogni ragione finita. L’assoluta semplicità che caratterizza Dio come l’Uno impedisce di parlarNe con qualsiasi attributo determinato il quale tradirebbe quella stessa profonda unità che lo deve caratterizzare. Per questa ragione sebbene Dio crei tutte le cose e, quindi, conduca il mondo all’esistenza, lo stesso essere (quale primo e più universale attributo delle creature) non può essere predicato propriamente di Dio. L’essere, infatti, si oppone al non-essere e porta con sé pertanto una dualità o opposizione che, se applicata al divino, ne negherebbe la perfetta semplicità. Analogo discorso deve essere ripetuto per tutte le qualità positive che la realtà cosmica possiede e che discendono da Dio come causa e principio dell’esistenza dell’universo. Dio non può essere definito come bellezza, potenza, verità, giustizia etc. per salvaguardare la sua autentica natura, semplice e in sé unitaria. Tale relativizzazione degli attributi che la ragione finita può predicare di Dio a partire dalla creazione non deve, tuttavia, per Dionigi condurre semplicemente a negare alla stessa essenza del Principio tutte le perfezioni determinate. Dire che Dio non è essere, verità o giustizia, quindi, non può condurre ad asserire che Egli è non-essere, falsità e ingiustizia. Un simile esito, oltre a essere empio, non salvaguarderebbe la natura divina nella sua semplicità: il non-essere (come la falsità e l’ingiustizia) sono attributi determinati e come tali definiti dall’opposizione rispetto all’altro da sé, cosicché una volta predicati di Dio produrrebbero nuovamente nella Sua natura un’implicita opposizione al proprio negativo e Vi introdurrebbero un’idea di duplicità. Dionigi afferma allora che il negare di Dio ogni qualità positiva ha come autentico significato quello di asserire che Dio si trova al di là di ogni determinazione, nella sua semplicità. In questo modo Dionigi definisce tre modalità fondamentali del discorso teologico: teologia affermativa (catafatica): consiste nella forma più semplice di teologia, nella quale si crede sia possibile parlare in modo adeguato di Dio attribuendogli le perfezioni proprie della Natura creata teologia negativa (apofatica): consiste nella raggiunta consapevolezza che Dio trascende ogni perfezione e determinazione, risultando definito in maniera più autentica mediante la negazione (è “più vero” dire di Dio che Egli sia non-essere piuttosto che dire che Egli sia essere) teologia superlativa: consiste nella coscienza che nel discorso su Dio si deve negare anche la negazione, in quanto la negazione non deve essere pensata come un’asserzione (per quanto in forma non positiva) che attribuisce qualche qualità determinata a Dio (il non-essere, la non-verità, etc.). La negazione è solo il primo passo per riconoscere che Dio è ineffabile e, quindi, “supera” ogni qualità finita Tale modalità di concepire la riflessione teologica avrà un’influenza immensa e verrà ripresa da moltissimi autori sia lungo tutto il mondo medievale sia in epoca moderna. In questo modo Dionigi afferma anche la distinzione tra teologia e ontologia. Poiché Dio è ineffabile e risulta inadeguata per definirlo la stessa categoria dell’essere, la teologia (nel suo paradossale parlare di Dio rimuovendo da Lui ogni attributo) non coincide con l’ontologia e risulta a questa superiore. La Teologia mistica dionisiana rappresenta il tentativo che lo stesso Dionigi ha fatto per elaborare Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella un discorso su Dio che fosse coerente con i principi della sua teologia negativa e superlativa. Nel IV capitolo di questo scritto Dionigi, infatti, afferma: Diciamo dunque che la causa universale, superiore a tutte le cose, non è priva di essenza, di vita, di ragione, d’intelligenza; non è neppure un corpo, e non possiede né una figura, né una forma, né una qualità, né una quantità, né un peso; non si trova in nessun luogo, non è visibile, né può essere toccata materialmente; non ha sensazioni, né è oggetto di sensazioni, né disturbata da passioni materiali, né fa albergare in sé il disordine e la confusione; non è neppure priva di forza, come se fosse soggetta alle vicissitudini del mondo sensibile, né ha bisogno della luce; non ammette in sé né il cambiamento, né la corruzione, né la divisione, né la privazione, né lo scorrimento, né alcun’altra cosa sensibile; e non è neppure qualcuna di queste cose. E Dionigi conclude dicendo (cap. V): A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni (a proposito delle realtà che vengono) dopo di essa, noi non l’affermiamo, né la neghiamo. In effetti, la causa perfetta ed unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni afferma zione; e l’eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al disopra di tutto è superiore ad ogni negazione. Tale dottrina fonda in Dionigi l’idea del simbolo come forma di conoscenza del divino Poiché ogni conoscenza determinata è inutile per comprendere adeguatamente il divino, ogni discorso della ragione finita intorno all’essenza del Principio deve avere una natura simbolica o traslata, al pari di una metafora che si sforza di descrivere Dio mediante paragoni e similitudini (a partire dal mondo creato), senza riuscire mai a definirLo in se stesso. I simboli secondo Dionigi possono essere divisi in due classi: i simboli intelligibili che consistono nel paragonare Dio alle realtà create più perfette (di natura angelica e immateriale, come le idee e le Verità eterne), e i simboli sensibili che rappresentano le metafore per parlare di Dio tratte dal mondo materiale Paradossalmente è proprio questa categoria di immagini (e fra di loro quelle più basse e ripugnanti, i simboli mostruosi) a essere la più indicata per parlare di Dio: poiché Dio non può mai essere descritto in sé adeguatamente, paragonarLo a una realtà imperfetta (per ricavarne un qualche insegnamento mistico sulla Sua vera natura) evita al credente di ritenere che quella metafora sia veramente efficace nel descrivere la “tenebra luminosissima” che è Dio e, quindi, di cadere in errore pensando di aver colto la vera natura del Creatore. CRONOLOGIA - Intorno al 50 d. C., nel corso di un secondo viaggio di evangelizzazione, l’apostolo Paolo di Tarso predica nell’Areopago (Atti degli Apostoli 17, 16 – 34), convertendo alcune persone, tra cui un donna di nome Dàmaris e un membro dell’Areopago, Dionigi. - Nel 532 Innocenzo, vescovo di Maronia cita per la prima volta queste opere - Nel 533 alcuni vescovi severiani, in disaccordo con la formula del concilio di Nicea sulla duplice natura (umana e divina) del Cristo, citarono a sostegno delle loro tesi gli scritti di Dionigi; si tratta della prima testimonianza intorno al corpus areopagiticum. Dionigi è identificato con il convertito di San Paolo e, quindi, come discepolo della prima predicazione cristiana. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella - Nel medesimo anno alcuni autori dubitano della possibilità di identificare il Dionigi del corpus con il convertito di Paolo (tra questi Ipazio di Efeso), ma papa Martino I difende l’autenticità delle opere come espressione del primo pensiero cristiano. - Nel XV secolo letterati e autori rinascimentali, come Lorenzo Valle ed Erasmo da Rotterdam, cominciano a sollevare precisi dubbi sull’identità dell’Areopagita, facendo valere osservazioni di carattere stilistico e contenutistico oltre ad alcune incoerenze presenti nei testi. - Sino al XIX secolo di ebbero numerose ricerche come quelle di Erdmann che identificò Dionigi con Sinesio (cristiano formatosi alla scuola di Proclo) e quelle di Ueberweg, che collocava le opere alla fine del sec. V, sulla base del fatto che contengono formule del Concilio di Calcedonia del 451 e nell'Henotikon dell'imperatore Zenone (483), - 1850: sono le ricerche di H. Koch e J. Stiglmayr a definire con chiarezza l’orizzonte temporale e geografico del corpus. Essi stabiliscono che gli scritti dello Pseudo Areopagita furono composti in Siria intorno al 500 d. C. sotto l’influenza del neoplatonismo di Proclo; il IV capitolo de I nomi divini di Dionigi è ripreso dal De malorum subsistentia di Proclo. Le date più probabili del corpus se condo le ricerche di Stiglmayr sono comprese tra il 482 (data dell’Henotikon) e l'inizio del VI secolo. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella LA CULTURA FILOSOFICA DELL’VIII E IX SECOLO: LA RINASCITA CAROLINGIA E LE SUE RADICI La scoperta del valore speculativo della filosofia latina tra l’inizio dell’VIII e il IX secolo d. C. è abbastanza recente e ha contributo a modificare il tradizionale giudizio sul mondo alto medievale. L’immagine del Medioevo come il tempo dei “secoli bui”, segnati da decadenza culturale e materiale, è stata da tempo sottoposta a una profonda revisione. Le fasi storiche segnate da una profonda crisi socio-politica sono stati circoscritte temporalmente e geograficamente, cosicché se la fine delle guerre greco-gotiche lascia l’Italia in una condizione di grave disordine, nei medesimi anni la condizione del mondo iberico o anglosassone è differente. Una delle acquisizioni storiografiche che ha contributo a rinnovare l’immagine tradizionalmente diffusa del Medioevo sono gli studi sulla cultura e la filosofia dell’VIII e IX secolo in territorio francese, durante il periodo carolingio (la dinastia che, iniziata con Pipino di Hèristal, raggiunge la sua massima potenza grazie a Carlo Magno). Il peso della ricerca culturale prodottasi nel mondo carolingio è tale che alcuni autori hanno parlato di “rinascita carolingia”, per sottolineare la trasformazione prodottasi in questo periodo rispetto alle precedenti fasi della storia dell’Europa continentale. Per comprendere meglio i caratteri di tale “rinascita” e i suoi autori più rappresentativi, tuttavia, è necessario fornire una breve analisi del precedente pensiero latino dal quale la fioritura filosofica franca è al tempo stesso distinta e influenzata. All’interno del panorama storico e politico europeo segnato, con notevoli differenze a seconda delle diverse aree o territori, tra VII e IX secolo da problemi sia socio-economici sia culturali, prodottisi in conseguenza della formazione dei cosiddetti regni barbarici, dalle guerre greco-gotiche (535 – 553) e da nuove ondate migratorie (ad esempio l’invasione longobarda in Italia del 568), è possibile rinvenire una produzione filosofica di un certo valore solamente in alcune aree geografiche e ad opera di pochi autori. Cionondimeno i risultati di questa circoscritta attività culturale avranno un peso nelle successive fasi del pensiero medievale, a partire proprio dal mondo della rinascita carolingia. I nomi più importanti in questo periodo sono quelli di: Isidiro di Siviglia (560 – 636) e di Beda il Venerabile (672 – 735) pensatori appartenenti a due diverse generazioni che ben rappresentano la situazione culturale e socio-politica del mondo europeo dell’epoca. L’attività speculativa in quegli anni, infatti, si caratterizza per: un’assenza di grande originalità e l’attenzione alla “conservazione” del precedente sapere più che alla creazione di nuova conoscenza l’importanza attribuita al cosiddetto trivio e quadrivio, ovvero il modello basilare della conoscenza secondo le sette arti liberali, elaborato in ambiente già romano. Questo modello si consolida tra IV e V secolo d. C., in particolare grazie allo scritto De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella (retore romano, di origine africana attivo nel V secolo d. C.); vengono così suggeriti alla tradizione dell’epoca di mezzo il numero e l’articolazione definitiva delle discipline in grado di costruire il sapere. Lo schema delle sette arti è: a) grammatica, b) retorica, c) dialettica (trivio o arti della parola), d) aritmetica, e) geometria, f) astronomia e g) musica (quadrivio). Il trivio (trivium) rappresenta l’insieme delle “strade” e, quindi, degli strumenti per ragionare in modo corretto ed esprimere con chiarezza nonché efficacia quanto si conosce; la logica appare disciplina propedeutica al sapere perché insegna il giusto ragionare, inferendo e deducendo. Il quadrivio (quadrivium), invece, Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella insegna a ricercare la verità nella realtà, facendo uso di tecniche matematiche; anche la musica, infatti, è pensata non semplicemente come composizione o esecuzione di melodie, ma come l’ordine numerico che sussiste tra le cose, organizzate (secondo una dottrina pitagorica e neoplatonica) in maniera armoniosa. Le sette arti liberali avranno una centrale importanza lungo tutto il mondo medievale, e in particolare nel fermento speculativo tra XI e XII secolo. la centralità dell’attività culturale nata all’interno del mondo ecclesiastico (Isidoro fu vescovo di Siviglia, mentre Beda passò la sua vita nel monastero di Jarrow in Inghilterra), l’affermazione come luoghi di ricerca di territori maggiormente periferici rispetto all’antica mappa del potere romano e segnati da una maggiore stabilità politica (la Spagna dei Visigoti e l’Inghilterra nata dalla fusione tra il mondo romano-bretone e il mondo degli AngloSassoni). ISIDORO DI SIVIGLIA: L’ENCICLOPEDIA DEL SAPERE L’opera di Isidoro di Siviglia è alla base della tradizione delle enciclopedie medievali. Isidoro lasciò una grande quantità di scritti, dedicati a temi filosofici e teologici, ma la ragione della grande fama di cui godette lungo tutto il Medioevo è legata alla sua opera più importante, ovvero le Origines o Etymologiae. Quest’opera è organizzata come uno scritto enciclopedico, nel quale vengono raccolte tutte le informazioni su ogni aspetto dello scibile umano e dell’indagine teologica (Isidoro, infatti, vi lavorò per molti anni, sino alla morte, senza riuscire a completare il progetto che aveva concepito). Divisa in venti libri, l’enciclopedia trattava di logica, matematica, grammatica, storia e teologia, ma anche, fra le altre, di mineralogia, agricoltura e alimentazione. Di capitale importanza per la formazione filosofica dei secoli successivi saranno in particolare le nozioni che le Etymologiae forniranno intorno ad alcune discipline del trivio, in particolare la dialettica; Isidoro, infatti, fornisce un sintetico riassunto della logica di Aristotele e in particolare delle Categorie, utilizzata come introduzione all’argomento da generazioni di pensatori. In questa operazione di raccolta e sistematizzazione Isidoro persegue un fine didattico, mirando a fornire in modo semplice e preciso informazioni che potessero essere utili al lettore. Le Etymologiae, tuttavia, non sono uno scritto originale quanto ai contenuti. Il vescovo di Siviglia riprende la struttura dell’opera e le informazioni esposte nella stessa da altri autori latini: innanzitutto Cassiodoro, nobile romano che nel VI secolo dopo un’importante carriera politica fondò un monastero nell’Italia del Sud (a Squillace) dove scrisse intorno al 560 un’enciclopedia del sapere cristiano (le Institutiones divinarum et saecularium litterarum), ma anche Marco Terrenzio Varrone (I sec. a. C.; autore latino di importanti scritti d’erudizione) e Plinio il Vecchio (I sec. d. C.; autore latino della famosa Historia naturalis, un’opera enciclopedica in 37 libri, importante modello per lo scritto di Isidoro). Le ragioni del successo delle Etymologiae allora divengono chiare. In un periodo di transizione tra due mondi in cui il pericolo di smarrire il patrimonio delle precedenti conoscenze era sempre presente, Isidoro, grazie alla sua preparazione culturale, fornì in un singolo scritto tutte le informazioni e le dottrine che potevano costituire l’ideale corpus dei saperi fondamentali. Il metodo che Isidoro segue nel preparare le varie voci della sua enciclopedia è già descritto da uno dei titoli con i quali l’opera è giunta sino a noi, ovvero Etymologiae. Isidoro, infatti, è convinto che la ricostruzione dell’origine del nome con cui si designa una determinata realtà (ovvero appunto la ricerca etimologica) contenga il significato più profondo e Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella l’essenza stessa di quella realtà; la conoscenza dell’origine del nome equivale alla conoscenza della cosa. La ricerca etimologica di Isidoro è svolta prevalentemente all’interno del sistema della lingua latina, ma nelle Etymologiae si possono trovare anche riferimenti a radici greche ed ebraiche di una parola o espressione, nella convinzione isidoriana che, sebbene il latino rappresenti la forma d’idioma perfetto, altre lingue possano avere grande valore speculativo e sacralità. L’ERUDIZIONE NEL MONDO ANGLOSASSONE: BEDA IL VENERABILE Beda il Venerabile ha lasciato numerosi scritti e, come Isidoro, una grande enciclopedia: il De rerum natura. L’attività di studioso di Beda può essere considerata sia come il prodotto della fusione tra mondo anglosassone (i popoli germanici che avevano invaso l’Inghilterra a partire dal V secolo) e mondo romano-bretone sia come il risultato della prima assimilazione della cultura latina da parte della nuova realtà etnico-culturale da tale fusione derivata. L’opera di Beda, in modo analogo a quella di Isidoro, non è originale, ma si serve di materiali precedenti e di dottrine già elaborate; l’importanza degli scritti bediani, quindi, è ancora una volta quella di difendere e diffondere l’apparato del sapere già costituito, rendendolo fruibile alle successive generazioni (il monastero in cui risedette e lavorò per tutta la sua vita era dotato di una ricca biblioteca che il fondatore dello stesso centro di vita monastica, Benedict Biscop, aveva costruito riportando da Roma vari volumi). Possiamo ricordare tra le opere di Beda: il De rerum natura: verrà utilizzato da molte generazioni di pensatori medievali, fornendo informazioni intorno a vari aspetti sia del trivio che del quadrivio (in particolare intorno alle “scienze naturali”). il De schematibus et tropis: è un’analisi grammaticale delle figure retoriche e della loro importanza per la comprensione delle sacre Scritture (elemento centrale nella formazione della cultura cristiana, se si pensa all’importanza dell’opera di Origene e al peso che la lettura allegorica delle Scritture ebbe su Agostino). Anche in quest’opera, quindi, le discipline del trivio (grammatica e retorica) rivestono un ruolo centrale. il De temporibus, il De tempore e il De ratione computi: trasmettono importanti nozioni di matematica, disciplina che interessa tutte le arti del quadrivio, applicate al problema dell’esatto calcolo delle date per l’anno liturgico. Dalle complesse dinamiche della transizione e trasmissione del sapere tardo-antico tra V e VIII secolo all’interno di un mondo europeo segnato da radicali trasformazioni politiche nasce la tradizione carolingia. CARATTERI E PROTAGONISTI DELLA RINASCITA CAROLINGIA L’affermazione del potere carolingio rese possibile un potenziamento dell’attività culturale e della ricerca filosofica. Carlo Magno accompagna la creazione del suo grande regno (re dei Franchi nel 771, sottomissione dei Longobardi, dei Sassoni e degli Avari dal 774 all’805, conquista della Baviera e di Ravenna nel 788, lotta contro il potere islamico in Spagna, imperatore dei Romani nella notte di Natale dell’800) a una precisa politica culturale, con l’intento di rendere uniformi e più coesi i suoi vari e tra loro differenti domini. Questa politica trova concreta attuazione mediante precise indicazioni che derivano dallo stesso Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Carlo Magno. In una lettera-ordinanza la Epistula de litteris colendis (Missiva sulla cura per le lettere) Carlo ordinava che gli esponenti del mondo ecclesiastico siano impegnati anche nello studio delle lettere (la cultura nelle sue varie forme) e che insegnino tale sapere agli altri membri della società franca. La politica culturale voluta da Carlo Magno, quindi, è strettamente connessa con le sorti politiche della dinastia iniziata da Pipino e da Carlo Martello; come tale la rinascita filosofica carolingia può essere iscritta in un arco temporale che va dalla fine del VIII secolo alla fine del IX, producendo i suoi risultati migliori durante il regno di Carlo il Calvo (nipote di Carlo Magno e imperatore sino all’877). Tale riforma carolingia del sapere è caratterizzata da alcuni elementi peculiari: la centralità del sistema educativo ecclesiastico. La rinascita si produce, come si evince dalla stessa Epistula, all’interno dell’apparato educativo e culturale rappresentato dalla Chiesa cattolica e in particolare dai vari monasteri. I centri monastici, luoghi di raccolta, copiatura e studio dei libri antichi, divengono sedi di scuole che diffondono il sapere e che formano le nuove generazioni di studiosi. La maggiore parte degli intellettuali che animeranno la rinascita carolingia verranno da ambienti monastici. In questo modo l’importanza culturale che aveva caratterizzato i centri di vita claustrale con Cassiodoro, Isidoro e Beda viene confermata e tali luoghi assumo un ruolo centrale nella diffusione del sapere lungo tutto il mondo alto-medievale. Un simile fatto produce l’incremento dell’importanza culturale attribuita alle questioni teologiche e dell’attenzione per le questioni relative ai dogmi della fede. la pratica della lectio e del florilegio. La ricerca filosofica carolingia si fonda sulla lettura (lectio) di un testo e sulla sua spiegazione; gli scritti che gli autori carolingi sottopongono ad analisi sono sia la Scrittura (Testo per eccellenza) sia le opere filosofiche, in particolare quelle dei Padri (Agostino). Tale processo inizia con la comprensione del significato letterale del testo e prosegue nella decodifica dei suoi livelli più profondi (dimensione allegorica del testo stesso) sino a proporre un’interpretazione sul significato globale del passaggio preso in considerazione. Questa pratica si può basare sul metodo del florilegio: intorno a un passo (o anche a un problema teologico) l’interprete raccoglie riflessioni e commenti di diversi autori particolarmente rilevanti (le auctoritates), producendo un campionario di interpretazioni possibili, da offrire alla meditazione dei fedeli. l’importanza delle arti liberali. La centralità del rapporto con il testo (innanzitutto biblico) porta gli autori carolingi a enfatizzare lo studio delle discipline che permettevano una migliore comprensione della parola scritta e dei suoi meccanismi di funzionamento. Retorica, grammatica e dialettica diverranno strumenti di lavoro essenziale per l’intellettuale carolingio. l’appartenenza a varie etnie degli autori carolingi. La vastità dei domini conquistati da Carlo Magno e il fine politico della rinascita carolingia (creare uniformità tra i vari popoli assoggettati) farà sì che i protagonisti di questa rinascita sotto l’egida del potere franco saranno studiosi e uomini di cultura provenienti da diversi territori europei. Paolo Diacono, maestro di grammatica (720 – 799) era Longobardo e nato in Italia, Alcuino di York (735 – 804) era un anglosassone proveniente dalla Northumbria, Rabano Mauro (780 c.a. – 856) proveniva da Magonza quasi al confine con il mondo sassone (pagano sino alla conquista carolingia), Teodulfo d’Orléans (750 – 821) era di origine gota, nato nella Spagna allora occupata dal potere islamico, Giovanni Eriugena (attivo nel IX sec.) era di origine irlandese. Tra tutte queste personalità le più importanti per la ricostruzione del pensiero filosofico carolingio sono Alcuino e Rabano (appartenenti alle prime generazioni della rinascita carolingia), da un lato, e Giovanni Eriugena (massima espressione di questa stessa rinascita e del pensiero alto-medievale) dall’altra. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Alcuino di York e Rabano Mauro riassumo in modo emblematico i caratteri della rinascita filosofica carolingia. L’importanza di Alcuino sta sia nella grande quantità di scritti su diversi argomenti che a lui si devono (intervenne significativamente nella formazione culturale della sua epoca diventando un punto di riferimento dottrinale), sia nel contributo dato alla politica culturale carolingia della quale può essere considerato uno dei fautori. L’opera di Alcuino non è originale nei suoi scritti. Come Isidoro e Beda (del quale è conterraneo) e in continuità con la tradizione del sapere monastico pre-carolingio egli riprende nozioni e dottrine precedenti, le ordina con particolare attenzione didattico-pedagogica e le rende fruibili ai suoi lettori. Vanno ricordati i suoi contributi alla teologia trinitaria (De fide sanctae et individuae Trinitatis) dove segue Agostino e ribadisce il carattere perfettamente divino del Cristo (contro posizioni eretiche presenti nell’epoca, come quella adozionista) e la sua logica, contenuta nel De dialectica, dove introduce una lettura delle Categorie di Aristotele fondata su uno scritto tardoantico le Categoriae decem (attribuito però erroneamente ad Agostino), in realtà abbastanza originale e neoplatonizzante rispetto all’autentico testo dello Stagirita. In Alcuino però si riassume bene l’amore per il sapere e la coscienza dell’importanza della cultura come elemento di unità che caratterizza la rinascita carolingia. Rabano Mauro è discepolo di Alcuino e porta avanti l’opera pedagogica iniziata dal maestro. Anche Rabano si pone in ideale continuità con la filosofia monastica di Beda e con il progetto enciclopedico di Isidoro. L’opera più importante di Rabano, infatti, è una enciclopedia, il De universo o De rerum naturis; in questa opera Rabano non solo offre una raccolta dello scibile umano, ma si impegna in una lettura allegorica del reale in modo tale che il mondo fisico possa essere letto in senso teologico, come manifestazione del divino. Rabano compose anche poesie e carmina figurata, ovvero componimenti poetici nei quali le parole del testo erano disposte sulla pagina in diverso modo incrociandosi per creare varie possibilità di lettura e soprattutto per generare (grazie anche all’aiuto di inchiostri con differenti colori) immagini sacre. CRONOLOGIA - Nel 476 Odoacre depone l’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, ponendo fine formalmente all’impero romano, già da tempo in profonda crisi politica - Nel 493 i goti di Teodorico prendono il potere in Italia, dopo una lunga guerra con le truppe di Odoacre - Con il regno di Recaredo (586 – 606) inizia il processo di fusione tra popolazioni romane di fede cattolica e popolazioni visigote, provenienti originariamente dalle regioni della Russia meridionale (stanziatesi, a partire dal 376, nei territori romani) originariamente di fede cristiana ariana. Con Recesvindo (649 – 672) si ebbe la pubblicazione del Liber iudiciorum che aboliva la distinzione tra il sistema di leggi applicato alla popolazione gota e quello applicato al mondo romano. - Dopo il 617 le popolazioni degli Angli e dei Sassoni, che insieme agli Iuti avevano invaso le isole britanniche a partire dal V secolo d. C., cominciano a convertirsi al cristianesimo. - Intorno al 599 Isidiro diviene vescovo di Siviglia, operando a favore dell’integrazione tra mondo romano e mondo “barbaro”, nella Spagna ormai visigota - Negli anni ’70 del ’600 (672-673) nasce, forse a Jarrow, Beda il Venerabile, che si formerà nei monasteri di Wearmouth e di Jarrow - Nell’800 Carlo Magno corona il suo percorso politico-militare, assumendo il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. Dopo quasi 30 anni di lotte e conquiste ottiene una sostanziale unificazione del mondo europeo e fa rinascere un sistema di potere sovranazionale ispirato al Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella modello della Roma antica - Nel 781 Alcuino di York, monaco inglese formatisi nella città natale dove esisteva un centro culturale di grande importanza, diviene responsabile della scuola di palazzo di Carlo Magno, il quale secondo il progetto definito dall’Epistula de litteris colendis (784-785) e dalla Admonitio generalis (789) sostiene lo studio e la formazione letteraria nei suoi domini - Nell’822 Rabano Mauro diviene abate dell’abazia di Fulda: allievo di Alcuino rappresenta una delle personalità più interessanti, prodotto della prima fase della rinascita carolingia. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella ERIUGENA E LA DIVISIONE DELLA NATURA L’attività di ricerca e studio sviluppata nel mondo carolingio produce i suoi risultati migliori con l’opera di Giovanni Eriugena. Il pensiero di Giovanni Eriugena o Giovanni Scoto si distingue radicalmente dalla riflessione teologico-filosofico degli altri pensatori carolingi. L’intensità, complessità, radicalità e originalità della metafisica eriugeniana, infatti, rendono gli scritti di questo pensatore l’espressione più interessante della filosofia alto-medievale e uno degli esiti più alti dell’intero pensiero nell’epoca di mezzo. Nonostante la ricchezza e novità della sua dottrina le notizie che possediamo sulla vita di Eriugena sono molto limitate. I nomi con i quali è conosciuto (Eriugena e Scoto) ci permettono di sapere che egli era originario dell’Irlanda (Eriugena significa, con un’espressione in parte in lingua irlandese in parte in greco, “nato in Irlanda). Non è conosciuta la data del suo arrivo sul continente, forse a seguito delle incursioni vichinghe sulle coste irlandesi. L’unica data certa della sua biografia è l’851, anno in cui interviene (come vedremo) nella disputa sulla predestinazione dei dannati e dei beati (ovvero la decisione presa eternamente da Dio su quali individui salvare e su quali contemporaneamente dannare) scatenate nel mondo carolingio da un monaco, Godescalco (o Gotescalco) di Corbie. Nei primi anni ’60 del IX secolo è attivo alla scuola palatino, sotto il regno di Carlo il Calvo. In questo periodo (all’incirca sino all’863) traduce in latino le opere di Dionigi (il cosiddetto corpus areopagiticum), insieme agli Ambigua di Massimo il Confessore (a commento di Dionigi) e alcune opere di Epifanio si Salamina e di Gregorio di Nissa (il De imagine, ovvero il De homnis opificio). Eriugena in questo modo introduce la tradizione del neoplatonismo greco in Occidente e in particolare rende disponibile alla tradizione latina le opere dionisiane, aprendo di fatto la storia dell’influenza del corpus anche al mondo non grecofono. Eriugena in questo modo dà prova di una abilità e di una conoscenza della lingua greca notevole ed estremamente rara nell’Europa dell’epoca. Le notizie sugli ultimi della sua vita sono poche e confuse. Secondo alcune fonti avrebbe lasciato la Francia alla morte di Carlo il Calvo e si sarebbe recato in Inghilterra. LA DOTTRINA DELLA PREDESTINAZIONE Il primo scritto dedicato interamente a una complessa questione teologica è il De praedestinatione, composto intorno all’851 d. C. (unica data certa nella biografia di Eriugena). Eriugena, attivo probabilmente già da qualche anno alla scuola palatina, aveva ottenuto grande fama come docente e conoscitore delle arti liberali. I suoi primi scritti (il commento alle Nozze di Mercurio e Filologia, testo latino tardo-antico sulle arti liberali) erano proprio dedicati in particolare allo studio delle artes del linguaggio: la Parola (Cristo come Verbo divino) aveva trovato espressione nelle parole dell’uomo (le Scritture composte secondo le regole della comunicazione verbale umana) cosicché la conoscenza di queste ultime diveniva essenziale per la salvezza e la verità. In qualità di dotto filosofo Eriugena era stato chiamato a intervenire nella disputa originata da un monaco, Godesclaco (o Gotescalco) di Corbie il quale, riprendendo Agostino, affermava che Dio predestina (ovvero decide da sempre) tanto i malvagi alla dannazione quanto i giusti alla ricompensa eterna (dottrina della doppia predestinazione, gemina praedestinatio; a differenza di Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Agostino che parlava di una predestinazione dei soli beati). Eriugena attacca le posizioni di Godescalco con uno scritto nel quale sviluppa tre dottrine centrali. Dio è in se stesso semplice e Uno; la Sua sostanza, quindi, è priva di composizione o molteplicità. In base a tale assunto teologico Dio non può avere una doppia conoscenza o un doppio giudizio (sui giusti e sui reprobi). L’unità della sostanza divina impone, da un lato, di pensare che in lui non ci sia differenza e dall’altro che non si possano distinguere la sostanza divina stessa dalle sue azioni/pensieri/risoluzioni. Per tale ragione in Dio le eterne decisioni di condannare i dannati e di salvare i beati sarebbero identiche alla sua essenza e, quindi, produrrebbero veramente la duplicazione della natura divina. Pertanto non c’è in Dio nessuna predestinazione dei dannati. Il concetto di “predestinazione” è inapplicabile a Dio e, quindi, l’intera teoria della duplice praedestinatio deve essere rifiutata. Eriugena riprende qui la dottrina che Boezio esponeva nel V libro del De consolatione philosophiae, secondo la quale la conoscenza che Dio ha delle realtà mondane e della condotta dell’uomo si produce in modo conforme all’eternità della stessa natura divina. Eternità significa non uno scorrere ininterrotto del tempo ma un presente perfetto, nel quale coesistono tutti fatti e gli eventi che per l’uomo sono scanditi dallo stesso scorrere temporale. Quanto Dio conosce e quanto decide in base alla sua conoscenza, quindi, è contemporaneo agli stessi fatti da Lui saputi e giudicati; pre-destinazione e pre-scienza, invece, introducono una categoria temporale (“pre-”, ovvero precedentemente) estranea a Dio. Lo strumento della punizione dei reprobi non può essere identificato semplicemente come il fuoco infernale. Anche se la posizione di Eriugena non è priva di ambiguità su questo punto, il maestro palatino afferma che la punizione per i dannati non consiste tanto nelle fiamme quanto nella condizione propria dell’anima del reprobo, segnata da una profonda mancanza e vuoto. Il peccato e il male, infatti, sono assenza di essere; colui che pecca scegliendo il male, quindi, sceglie il non essere che non potrà mai venire realmente realizzato e che resterà sempre un nulla. Il peccatore sarà allora punito dalla sua stessa azione peccaminosa che lo conduce nel paradosso del fare e scegliere il nulla. La dottrina che così Eriugena sviluppa per confutare Godescalco era troppo complessa e originale per i suoi contemporanei. Rifiutata dagli stessi autori che lo avevano chiamato a esprimersi sulla questione, la dottrina eriugeniana sulla predestinazione verrà condannata in due distinti concili (855 e 859). DIO E LA NATURA: IL PERIPHYSEON L’opera più importante e complessa di Giovanni Eriugena è il suo Scritto intorno alla natura, ovvero Periphyseon (titolo originale eriugeniano) o De divisione naturae (titolo con cui lo scritto fu anche conosciuto in seguito nel Medioevo). Quest’opera eriugeniana non può essere compresa senza far riferimento all’attività di traduzione e commento che lo stesso Eriugena compì nei confronti del corpus di Dionigi Areopagita. La corte carolingia possedeva una copia dell’insieme dei testi dionisiani, redatti in greco, regalata nell’827 dall’imperatore bizantino Michele II a Ludovico il Pio (padre di Carlo il Calvo). La prima traduzione di questi testi (tentata da Ilduino di Saint Denis) era troppo farraginosa e artificiosa per essere utilizzata e Carlo il Calvo ordinò a Eriugena, che conosceva il greco e aveva dimostrato grande abilità linguistica, di procedere a una nuova versione. Eriugena, oltre a rendere in latino i quattro scritti e le dieci lettere (offrendo una versione che sarebbe stata utilizzata a lungo durante il Medioevo), preparò nel corso degli anni anche un commento alla prima delle opere del corpus (la Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Gerarchia celeste). L’incontro con questa ricca tradizione metafisica condiziona profondamente lo sviluppo del successivo pensiero eriugeniano e la stesura del Periphyseon. In questo modo, infatti, il maestro palatino entra in contatto con la tradizione del neoplatonismo di Proclo (e attraverso di lui degli altri autori tardo-antichi ispiratisi a Plotino), sostanzialmente ignota sino ad allora in Occidente e segnata da una ricchezza e radicalità metafisica superiore alle altre versioni del pensiero neoplatonico diffuse nel mondo latino (in particolare quella di Agostino, influenzato da Plotino e soprattutto da Porfirio). Categoria centrale del Periphyseon è il concetto di natura. Con il termine natura Eriugena vuole indicare tutte le cose che sono e tutte le cose che non sono. Natura, pertanto, rappresenta nel Periphyseon ogni realtà cosmica, creata e divina, e non solo il mondo fisico o materiale. Il paradossale significato di “natura” come “ciò che non è”, in particolare, definisce per Eriugena il mondo delle sostanze celesti e di Dio: le essenze immateriali in quanto sfuggono ai sensi e alla ragione creata non esistono e la stessa natura divina può essere identificata con il Nulla. Questa dottrina porta con sé chiare tracce della teologia negativa di Dionigi; anche per Eriugena Dio trascende ogni categoria e ogni pensiero, mostrandosi come il Niente, non per assenza d’essere ma per sovrabbondanza. Il filosofo irlandese arriva ad asserire che il nulla dal quale, secondo il racconto del Genesi, il mondo è stato creato deve essere identificato con la ineffabile essenza divina. Eriugena nel III libro del Periphyseon fonda questo carattere ineffabile di Dio sull’attributo della Sua eternità. Eternità divina significa, osserva Eriugena, infinità; ciò che è infinito non può essere delimitato da nient’altro (altrimenti perderebbe la sua infinità), ma anche la definizione è una delimitazione. In quanto infinito Dio è senza definizione e, quindi, un Nulla indicibile Eriugena individua quattro modi o forme della natura (le divisiones di cui parla il titolo latino dell’opera): la natura non creata e che crea. Tale natura si deve identificare con Dio stesso come il Principio e la causa incausata di Tutto la natura che è creata e che crea. In questa seconda divisione si ha a che fare con i modelli ideali che Dio stesso ha posto in essere, definiti da Eriugena “cause primordiali”. Questi paradigmi (exempla) eterni hanno la capacità di generare il mondo delle realtà individuali e concrete. Le idee, quindi, sono create ma possono a loro volta creare la natura che è creata e che non crea. La terza natura coincide con il mondo materiale e con la dimensione ontologico propria dell’uomo. la natura che non è creata e che non crea. L’ultima e più enigmatica natura è pensata da Eriugena come identica a Dio, inteso però non più come causa ma come fine e traguardo ultimo della Creazione. Eriugena, infatti, sviluppa una teoria del ritorno (reditus) di tutte le cose a Dio. Come l’universo è proceduto dalla potenza divina che origina ogni cosa (ancora secondo un modello neoplatonico) così dovrà tornare a Dio alla fine dei tempi, secondo il movimento ternario di processione, permanenza in sé e ritorno che già Proclo aveva teorizzato. Tutto il cosmo, quindi, sarà riassorbito nella potenza di Dio, facendo venire meno ogni distinzione e anche ogni negatività, pur permanendo ogni realtà nella propria individualità e identità. Ugualmente centrale nell’economia del Periphyseon è il concetto di teofania. Poiché ogni creatura discende da Dio e mantiene con la sua potenza un certo legame, allora ogni realtà è in grado di manifestare la natura divina ed è quindi una teofania. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella La trascendenza divina impedisce ogni sua conoscenza autentica; Dio, infatti, è Nulla ed Eriugena afferma con una lunga analisi che le stesse categorie della logica aristotelica non possono essere applicate all’essenza del Principio. Le singole creature, tuttavia, restituiscono un’immagine imperfetta, ma non del tutto falsa del divino in virtù de legame metafisico che mantengono con Esso. La categoria della teofania si lega così a quella di simbolo e di metafora come già accadeva in Dionigi. Ogni realtà è teofania in quanto agisce come simbolo che, in modo traslato e imperfetto, secondo meccanismi metaforici, rende conoscibile il divino. In Eriugena la manifestazione teofanica di Dio coincide con lo stesso venire all’essere di Dio e con l’autocoscienza divina. La teofania è resa possibile dalla processione della potenza divina oltre se stessa e dalla conseguente creazione delle realtà determinate, le quali in virtù di questo legame con il divino possono far conoscere la stessa essenza del Principio. Nella manifestazione teofanica, quindi, la natura divina identica al Nulla sovraessenziale acquisisce una forma di essere determinato (quello delle creature che ha posto in essere grazie all’elargizione della propria potenza). In modo analogo Dio non può possedere neppure autocoscienza (non può avere una nozione chiara di se stesso) in quanto infinito e, quindi, non conoscibile; assumendo, nella processione che crea le realtà individuali, una forma determinata, tuttavia, la natura divina può autoconoscersi, raggiungendo un’autentica consapevolezza. In questo modo la creazione del mondo ad opera di Dio coincide con l’autocreazione e il conseguimento di un sapere autocoscienziale da parte di Dio stesso. Una simile dottrina metafisica risultava sempre aperta al rischio di interpretazioni panteiste (la processione della potenza divina porta all’essere le singole realtà cosmiche attraverso le quali Dio stesso giunge all’essere e all’autoconsapevolezza). Eriugena ribadì in ogni caso a più riprese la differenza tra Dio e mondo, affermando il carattere sempre trascendente del divino nonostante il suo legame con le creature; pensatori influenzati dal pensiero di Eriugena, come nel ’200 Amalrico di Bene, tuttavia, trarranno dal retaggio del Periphyseon dottrine panteiste. ANTROPOLOGIA E CONCEZIONE DELL’UOMO La concezione teologica e filosofica dell’uomo in Eriugena è improntata a un sostanziale ottimismo Nella dottrina neoplatonica eriugeniana ogni realtà creata, anche umile, ha un peculiare importanza in quanto riflesso della potenza divina. In questo quadro segnato da un sostanziale ottimismo metafisico, Eriugena riconosce all’uomo peculiare dignità, attribuendogli un ruolo e una posizione di grande valore all’interno dell’ordine cosmico. Eriugena, infatti, sottolinea la continuità tra Dio e uomo, fondandola essenzialmente sulle capacità conoscitive della sostanza antropica. Eriugena, infatti, individua nell’uomo innanzitutto la sensibilità come la forma più bassa di conoscenza. Le immagini delle realtà fisiche che i cinque sensi producono nell’anima dell’uomo vengono poi organizzate perché siano conformi alla ragione dal senso interno, che funge da elemento di unione tra momento empirico e momento razionale del sapere. La ragione (logos) definisce le realtà e per questo conosce Dio come il creatore di Tutto. L’intelletto (nous), infine, si spinge quasi alla contemplazione diretta di Dio, ma, data l’ineffabilità divina, non può cogliere la Sua natura e, quindi, si limita a rimanere vicino al divino stesso, Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella ruotando, dice Eriugena, intorno all’essenza del Principio. Quale unica creatura dotata non solo di sensibilità, ma anche di ragione e intelletto ogni individuo è in grado di riassumere in sé tutti gli aspetti della realtà creata, tanto quelli materiali quanto quelli spirituali. Inoltre, proprio in quanto dotato di conoscenza razionale, nell’uomo sono presenti tutte le idee e i paradigmi eterni della realtà (così come essi sussistono, in un differente grado di perfezione, nella mente di Dio, il suo Logos o Verbo; la conoscenza di tali paradigmi nell’uomo, infatti, non è empirica ma deriva dall’alto, secondo un modello innatista, ed è frutto della stessa processione della potenza divina). L’uomo, quindi, è l’ente che riassume in sé tutta la natura e che contribuisce alla sua creazione, quale “snodo” privilegiato dell’azione dei modelli eterni delle cose. Questo essenziale ruolo metafisico riservato all’uomo è confermato sul piano teologico dalla teoria della divinizzazione della sostanza antropica. Seguendo Dionigi e Massimo il Confessore, Eriugena afferma che l’incarnazione del Cristo (il Verbo che prende carne nel Nazareno) è la condizione che permetterà in futuro all’uomo di realizzare la propria autentica natura, raggiungendo una condizione divina; “l’essere umano perfetto”, infatti, per Eriugena “è il Cristo” (Periphyseon IV, 543 B). CRONOLOGIA - Eriugena nasce intorno all’810 in Irlanda, sebbene non si conoscano con precisione la data e il luogo - Dopo una formazione culturale avvenuta nella sua terra, presumibilmente nella scuola di qualche centro monastico, Eriugena intorno agli anni ’30 del IX secolo giunge in Francia, dove esistevano all’epoca diverse comunità irlandesi. - Nell’851 viene chiamato da Icmaro, vescovo di Reims (uno dei prelati più influenti dell’epoca) a pronunciarsi sulla questione della duplice predestinazione, nell’ambito di una disputa originata dalle opere di Gotescalco di Corbie. In quegli anni Eriugena è già famoso con filosofo, esperto conoscitore delle arti liberali, e opera con ogni probabilità presso la scuola palatina, il centro di formazione connesso alla sede del potere carolingio. - Nell’855 arriva la prima condanna del suo De praedestinatione nel concilio di Valenza, a cui seguirà un’analoga presa di posizione della Chiesa nel concilio di Langres dell’859; la posizione di Eriugena e l’appoggio del potere franco evitano al pensatore irlandese di subire le conseguenze pratiche delle condanne. - Nell’860 – 62 Eriugena traduce il corpo degli scritti di Dionigi. Nel corso degli anni Eriugena preparerà altre traduzioni di opere dei Padri Greci: gli Ambigua di Massimo il Confessore (tra l’862 – e l’ 864), le Quaestiones ad Thalassium dello stesso Confessore (864 – 866), il De hominis opificio di Gregorio di Nissa, nello stesso lasso di tempo in cui lavora agli Ambigua. - A partire dall’865 circa realizza il suo commento alla Gerarchia celeste, le Expositiones in hierarchiam coelestem. - Tra l’864 e l’866 prepara il suo Periphyseon, sul quale tornerà a lavorare nel corso degli anni. - La data della morte di Eriugena è incerta; secondo alcuni storici è antecedente alla morte di Carlo il Calvo, mentre secondo altri Eriugena sopravvive al suo protettore spostandosi in Inghilterra. - Le condanne alle dottrine teologiche eriugeniane sulla predestinazione si ripetono nel corso degli anni. Nel concilio di Sens papa Onorio III, infine, condanna il sistema metafisico del pensatore palatino (1225). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella PARTE SECONDA: DALLA RINASCITA DEL XII SECOLO ALLA NASCITA DELLA SCOLASTICA Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella LE TRASFORMAZIONI DELLA FILOSOFIA DAL IX ALL’XI SECOLO E LE NOVITÀ DEL PENSIERO DOPO IL 1000. La rinascita carolingia aveva prodotto un fermento culturale capace di propagarsi in diverse aree geografiche del mondo europeo e lungo i secoli successivi. Come accadde nel caso della speculazione sviluppatasi sotto l’egida del potere franco, la ideale prosecuzione della stessa attività carolingia di studio e di ricerca fiorisce nei grandi centri monastici e nelle più importanti abbazie. Dopo l’anno 1000, tra XI e XII secolo, un nuovo centro di studio e formazione si ha anche nelle scuole cattedrali. Quest’ultime, caratterizzate come quelle dei vari monasteri dallo sforzo di cristianizzare la cultura antica, si svilupperanno a partire dalla fine dell’XI contestualmente alla crescita delle città; la rinascita urbana dell’anno 1000, infatti, porterà al parallelo potenziamento di questi luoghi di conoscenza, dal momento che la cattedrale nasce in genere nel contesto di un centro urbano di una certa importanza. Nelle scuole abbaziali e cattedrali tra IX e inizio dell’XI secolo viene praticato lo studio della grammatica e delle lettere antiche, unitamente a quello della logica in accordo con i testi allora utilizzati (Categorie, De interpretatione e le Categoriae decem) e alla teologia dei Padri della Chiesa; si tratta di un’operazione di conservazione e di consolidamento tanto di posizioni dottrinali quanto di curricula di studio delineatisi a partire dalla rinascita carolingia. Si possono qui ricordare i nomi più importanti fra i protagonisti di questa epoca: Eirico e Remigio di Auxerre, attivi tra l’841 e il 908 (il secondo era allievo del primo), entrambi studiosi delle lettere, della dialettica, della grammatica e dei testi dei Padri. In entrambi questi autori si può sentire fortemente l’influenza di Giovanni Eriugena Abbone di Cluny (anche noto come Abbone di Fleury) (morto intorno al 1004) attivo presso la scuola dell’abbazia di Fleury-sur-Loire il quale diede contributi alla dialettica, iniziando a introdurre in Occidente i testi logici di Aristotele allora non ancora conosciuti come i Primi analitici (mediante i trattati a questa, e ad altre opere logiche aristoteliche, dedicati da Boezio) Gerberto d’Aurillac (morto nel 1003), eletto papa con il nome di Silvestro II e considerato uno degli uomini più colti della sua epoca, in quanto profondo conoscitore sia del trivio che del quadrivio, tanto da rappresentare idealmente il riuscito incontro tra cultura pagana e Rivelazione cristiana L’opera di questi e altri autori, tuttavia, benché sia testimonianza di una significativa attività culturale posta a cavallo tra gli anni centrali della rinascita carolingia e il successivo periodo storico, si caratterizza per una sostanziale assenza di originalità e di innovazione dottrinale. Solamente a partire dall’XI secolo si può assistere alla nascita di esperienze filosofiche di maggiore respiro e in parte inedite quanti ai contenuti e ai metodi seguiti. Per riassumere i caratteri di questa nuova fase del pensiero medievale si può dire che in essa si assiste sia a un potenziamento della dialettica sia a un impiego degli strumenti della razionalità filosofica nell’indagine sulle verità di fede. Questo processo non sarà privo di conflittualità e di tensioni, conducendo a nuovi modelli teologici e speculativi nel mondo Medievale. L’aspetto più caratterizzante della riflessione teologica e filosofica nell’XI secolo, infatti, è proprio il confronto tra quanti sostenevano i diritti della ragione (e, quindi, della logica) in materia di fede e quanti, invece, mettevano in guardia sui rischi derivanti dall’interazione tra Rivelazione e Ragione. In effetti lo studio della logica, ovvero dell’ars dialectica (secondo la dicitura propria del trivio), conosce nell’XI secolo una crescita significativa innanzitutto nelle scuole cattedrali. Con questo termine si intendono quei centri di formazione che sorgono all’interno delle cattedrali, ovvero chiese di grande importanza in quanto sedi vescovili (nelle quali si trovava la “cattedra” del vescovo), in genere sorte all’interno di una città. Si tratta, quindi, di centri di formazione nuovi Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella quanto alla loro fisionomia e al contesto socio-culturale di appartenenza, legati ai centri urbani che proprio intorno all’anno 1000 conoscono una nuova crescita; in queste scuole verranno formati anche uomini non di chiesa, al fine di fornire loro le competenze per svolgere attività politiche e amministrative all’interno delle rifiorenti realtà urbane. Tra queste scuole cattedrali possiamo ricordare: quella di Reims, dove insegnò e fu scolarca Gerberto d’Aurillac. Qui già prima dell’arrivo del futuro Silvestro II veniva insegnata la dialettica e la scuola doveva attirare allievi da differenti regioni del continente. Nel corso dell’XI secolo la scuola continuò la sua attività di formazione e diffusione del sapere. quella di Chartres. Prima della sua massima fioritura nel XII secolo, la scuola cattedrale di Chartres già nell’ultimo decennio del X secolo era un importante centro di formazione dove si insegnava anche la dialettica. Secondo alcune tradizioni, d’altra parte, il pensatore che ne viene considerato il fondatore, Fulberto (nato in Italia intorno al 960), era stato formato nella stessa Reims alla logica. Altre scuole cattedrali molto attive dovevano essere quelle di Ravenna e di Parma. Va ricordato che anche alcune scuole monastiche, le scuole legate ad un monastero, conobbero in questi anni un potenziamento degli studi logici. Fra di esse va ricordata: la scuola del monastero di Fleury sulla Loira, il cui scolarca è Abbone e la cui attività continuerà dopo l’anno 1000. La logica che viene insegnata è quella rappresentata dall’opera di Boezio, con le sue traduzioni dal greco e i suoi originali testi di logica, sulle Categoriae, il De interpretatione, i sillogismi (categorici e ipotetici), i Topici; a essa devono essere aggiunte le opere dialettiche già conosciute nei secoli precedenti: il De nuptiis di Marziano Capella, le Etymologiae, le Categoriae decem e il testo a queste ispirate di Alcuino di York. Di fronte al fiorire degli studi logici e all’applicazione delle tecniche dialettiche alle questioni di fede molti autori dell’XI secolo assumono una posizione critica e numerosi trattati di questo periodo contengono attacchi ai “dialettici”. Una delle figure più rappresentative della mentalità anti-dialettica, ovvero della tendenza dottrinale a sottolineare i rischi dell’applicazione della razionalità dialettica allo studio della Parola e della Scrittura, è Pier Damiani (1007 – 1072). L’approccio di questo autore, vescovo di Ostia, alla Rivelazione è quello suggerito dai Padri della Chiesa: le capacità razionali dell’uomo sono al servizio della Parola per la sua comprensione, non potendo servire per giudicarla o discuterla. Nel suo De divina omnipotentia (Sull’onnipotenza divina), Pier Damiani subordina così ogni verità filosofica alla potenza di Dio la quale non sottostà nemmeno al principio di non contraddizione. Va ricordato, in ogni caso, che questi avversari della razionalizzazione della Fede non erano uomini incolti, ma conoscevano spesso profondamente la logica e la filosofia che criticavano. Lo stesso Pier Damiani, ad esempio, studiò nella scuola cattedrale di Parma. L’espressione più significativa del dibattito tra “dialettici” e “anti-dialettici”, tuttavia, è quella che vede opposti Lanfranco di Pavia e Berengario di Tours sull’interpretazione del miracolo eucaristico. DIALETTICA E TEOLOGIA NEL XII SECOLO: DA BERENGARIO DI TOURS AD ANSELMO D’AOSTA L’applicazione della dialettica e della razionalità all’ambito teologico tra XI e XII secolo produce una prima conseguenza di rilievo nella controversia eucaristica che vede contrapposti Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia. Berengario di Tours (1005 – 1088) applica gli strumenti dell’analisi logica e filosofica aristotelica Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella (ancora limitati ai testi elementari dello Stagirita) alla conoscenza teologica e in particolare al dogma della transustanziazione del corpo e del sangue del Cristo nell’eucarestia (se la sostanza del pane e del vino siano completamente trasformate nella sostanza del corpo e del sangue del Cristo che sono quindi realmente presenti nell’eucarestia stessa). Berengario nega la presenza sostanziale e sensibile del corpo del Cristo nell’Eucarestia. L’argomento più conosciuto con cui dimostra la sua dottrina è quello relativo alla relazione tra sostanza e accidenti. La logica aristotelica trasmessa da Boezio, infatti, afferma che gli accidenti di una sostanza (il colore e le dimensioni ad esempio) non possono sussistere se viene meno la sostanza stessa alla quale ineriscono (la reale natura del corpo al quale quelle qualità come il colore e le dimensioni sono legate). Un accidente è unicamente ciò che inerisce al suo soggetto. Nel caso dell’eucarestia Berengario ritiene impossibile che il pane mantenga i suoi accidenti (l’aspetto esterno, il colore, il sapere etc.), cosa che è attestata da ogni credente che stia per prendere l’eucarestia, quando secondo il dogma la sostanza di quel pane ha cessato di esistere e si è trasformata nella sostanza del corpo del Cristo. Le dottrine di Berengario saranno più volte condannate (concilio Laterano del 1059), sebbene Berengario continuerà a difendere la propria posizione quasi sino alla morte. Lanfranco di Pavia (1010 – 1089) è monaco all’abbazia di Bec (in Normandia), poi abate dell’abazia di Santo Stefano di Caen (anch’essa in Normandia) e alla fine arcivescovo di Canterbury. Lanfranco scrive un Libro sul corpo e il sangue di Cristo contro Berengario di Tours in cui si impegna a confutare le dottrine del rivale. Ciò che è più significativo di questo scritto di Lanfranco, come anche di altre sue opere, è il ruolo che l’autore attribuisce alla ragione e ai suoi strumenti. Lanfranco conosce la dialettica e la utilizza, ma in maniera molto attenta e più “in negativo”, per confutare coloro che ne fanno un uso eccessivo giungendo a risultati che contraddicono i dogmi della Chiesa, che “in positivo”. Ciononostante Lanfranco ritiene che usata correttamente la ragione possa aiutare e sostenere la fede. L’utilizzo della dialettica e della filosofia per il chiarimento della Rivelazione caratterizza anche il pensiero di Anselmo d’Aosta secondo la formula anselmiana fides quaerens intellectum (“la fede alla ricerca della comprensione intellettuale”). Anselmo (conosciuto anche come Anselmo di Bec e Anselmo di Canterbury; 1033 – 1109) rappresenta la figura più importante nella speculazione nell’XI-XII secolo. Anselmo applica gli strumenti della ragione allo studio della Fede, continuando così quel percorso che, iniziato già con Berengario, arriverà sino alle forme più mature del XII secolo. Anselmo, tuttavia, usa maggiore prudenza e gli esiti del suo pensiero sono molto più ortodossi; Anselmo, infatti, rappresenta ancora una tradizione culturale monastica, ostile agli eccessi e tesa a una difesa della Fede della Chiesa. Questa forma di equilibrio e alleanza tra fede e ragione viene sintetizzata dallo stesso Anselmo nella formula fides quaerens intellectum. Con questa espressione si vuole intendere una duplice necessità per il credente: da un lato mettere al primo posto la fede poiché essa permette la conoscenza del Vero e la salvezza dell’anima dall’altro far seguire all’accettazione per fede una ricerca razionale sui contenuti della fede, per rendere più comprensibili e solidi gli articoli su cui si esercita l’atto umano del credere. Bisogna ugualmente rifiutare l’arroganza dei dialettici che prescindono dalla Fede per orientarsi nelle questioni teologiche solo con la ragione e la negligenza di coloro che, accettata la Rivelazione, non si applicano alla sua comprensione razionale. Il manifesto più chiaro del programma dialettico-razionale anselmiano di chiarificazione della Fede si trova nei due scritti dedicati alla dimostrazione di Dio, il Monologion (1076) e il Proslogion (1077). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella In questi due scritti, infatti, Anselmo propone una dimostrazione dell’esistenza di Dio “a posteriori” (secondo un lessico non medievale), ovvero partendo dall’osservazione della realtà esistente e dei suoi caratteri (Monologion) e una dimostrazione dell’esistenza di Dio “a priori”, prescindendo da ogni elemento concreto e utilizzando solamente dati della ragione (Proslogion). Gli argomenti del Monologion possono essere riassunti nell’enunciazione di un unico meccanismo dimostrativo. Anselmo parte dall’osservazione che la realtà creata si organizza secondo una scalarità, ovvero è caratterizzata da differenti gradi di perfezione e di bontà. In questo modo ogni cosa caratterizzata da un qualche attributo positivo (buona, giusta, vera, esistente etc. …) può apparire più perfetta (per quanto attiene a quell’attributo) di un’altra e meno perfetta di una terza realtà. Posto questo carattere gerarchico della realtà deve esistere un ente che rappresenta la perfezione massima e che è causa nonché paradigma di giudizio per ogni qualità positiva particolare, ovvero una realtà che sia in assoluto la più perfetta e che sia l’origine di tutte le positività particolari (bontà, giustizia, verità, essere etc. …). L’esistenza dell’essere sommamente perfetto è richiesta dalla stessa scalarità del reale (una gerarchia di perfezioni deve terminare con la perfezione ultima); l’esistenza di una realtà che causa ogni altra qualità positiva è richiesta dalla stessa esistenza di tale qualità (ovvero dalla necessità di trovare un principio che spieghi la presenza nelle cose della bontà, della giustizia, dell’essere etc.) e dal fatto che posso giudicare il grado relativo di pienezza di quella qualità tra le varie cose (se non ci fosse qualcosa di buono in sé e perfettamente non potremo distinguere tra il più e il meno buono). Questa realtà che è la più perfetta e che possiede in sé il massimo grado di ogni qualità positiva presentandosi come il bene in sé, la verità in sé e l’essere in sé è Dio. Nel Proslogion Anselmo presenta una prova sull’esistenza di Dio che susciterà grandissimo interesse nei filosofi dei secoli successivi e che verrà denominata, a partire da Kant, “argomento ontologico”. Anselmo chiama la sua prova unicamente argumentum, ovvero la “dimostrazione”. Escludendo ogni riferimento al mondo empirico Anselmo cerca di dimostrare che Dio esiste; suo scopo, quindi, è trovare una risposta alla figura biblica dello “stolto” (insipiens), il quale pensa in cuor suo che Dio non esista. Anselmo inizia la sua confutazione dello stolto di cui parlano le Scritture osservando che: anche colui che non crede, quando pensa a Dio e lo definisce non potrà che considerarlo come “ciò di cui non si può pensare il maggiore” (id quo maior cogitari nequit) se Dio è correttamente conosciuto in questi termini, allora dalla sua definizione deriva necessariamente e immediatamente l’esistenza. Una realtà che è perfetta e della quale non si può pensare nulla di più grande dovrà avere tutte le qualità positive; fra queste qualità ci deve essere, tuttavia, anche l’esistenza, in quanto essere è di certo un attributo positivo di una realtà. dalla perfezione di Dio, quindi, si giunge subito ad affermare la Sua esistenza. Se non si attribuisse a Dio l’essere allora sarebbe possibile pensare una realtà dotata di tutte le perfezioni divine e in più anche di quella dell’essere; in questo caso, però, sarebbe tale realtà a risultare ciò di cui non si può pensare il maggiore e così si contraddirebbe la stessa definizione di Dio che era stata già accettata come vera all’inizio dell’argomentazione Anselmo, pertanto, ritiene che a Dio spetti una definizione la quale quando viene pensata e compresa costringe la ragione umana ad affermare anche la reale esistenza di Dio stesso come una delle perfezioni proprie della stessa natura divina. L’argomento anselmiano suscitò subito una serie di reazioni. Un monaco dell’abazia di Marmoutiers, Gaunilone è il primo autore a noi noto a scrivere un opuscolo per confutare la validità della dimostrazione di Anselmo (il Pro insipiente). Gaunilone osserva che il pensiero di una realtà Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella perfetta non comporta necessariamente che tale realtà esista, come dimostra l’esempio dell’ “isola felice”: pensare a un luogo dotato di ogni qualità positiva non implica il pensiero dell’esistenza reale di tale luogo. Anselmo risponderà alle obiezioni di Gaunilone sottolineando in particolare come la condizione della perfetta natura divina sia del tutto particolare in quanto possesso pieno e attuale di ogni positività (situazione che non si può dare invece per altre realtà finite). Anselmo, in ogni caso, introduce in questo modo il problema del rapporto tra pensiero ed essere, aprendo una nuova stagione della filosofia medievale. Il contributo di Anselmo è importante anche nel campo della riflessione intorno alla verità, che egli intende in termini di rectitudo. Anselmo sostiene che la verità di un pensiero o di una proposizione è data dalla loro capacità di rispecchiare la realtà così come essa è; in questo modo una qualsiasi asserzioni che abbia un uomo o un albero come suo oggetto è vera se afferma qualcosa che è conforme alla autentica natura di questi oggetti e quindi alla loro essenza. Le stesse cose reali però sono vere nella misura in cui realizzano e sono quindi conformi al loro modello nella mente di Dio, ovvero all’idea divina secondo le quali sono state create. In entrambi i casi tale rapporto tra cosa giudicata e paradigma che la giudica è spiegato da Anselmo nel suon De veritate in termini di rectitudo: la rectitudo del pensiero è l’essenza della cosa e la rectitudo della cosa è la sua essenza perfetta nella mente di Dio. Anselmo colloca questa sua dottrina all’interno di una teoria degli universali di carattere realista: le essenze delle cose sono ciò che fa essere la cosa stessa e la fa esistere in modo vero e le idee nella mente di Dio rappresentano il massimo grado di realtà/verità al quale possono aspirare gli enti reali. In ambito logico Anselmo si occupa della teoria della paronimia e dei problemi a questa connessi, introducendo la distinzione tra significare e appellare. Nella logica di Aristotele la paronimia è il rapporto che lega due cose e due nomi in una forma di somiglianza, per la quale il secondo deriva dal primo. L’esempio di Aristotele è il rapporto che sussiste tra grammatica e grammatico, in quanto dal primo termine deriva il secondo inteso come “ciò che possiede le caratteristiche della grammatica”. Il problema che nasceva dallo studio di questa tipologia di termini consisteva nella definizione di ciò a cui tali termini facevano riferimento. Anselmo doveva, infatti, conciliare due opposti teorie semantico-grammaticali. In Prisciano, uno dei più importanti grammatici tardo-antichi (visse tra il V e il VI secolo d. C.) il nome significa sempre la sostanza e la qualità (ovvero è implicito nel termine “grammatico” il riferimento a una sostanza, come un uomo, che possieda questa caratteristica); in Aristotele, invece, viene detto che nomi di qualità (come grammatico o bianco) significano solo la qualità. Anselmo concilia le due posizioni distinguendo tra una significazione diretta (o per sé) e una significazione indiretta (o per altro). Anselmo, quindi, afferma che nomi paronimi come “grammatico” (e qualità come “bianco” che possono essere pensate come paronime da “bianchezza”) significano direttamente la qualità e indirettamente la sostanza alla quale la qualità inerisce. I paronimi allora significano la qualità e appellano (appellant) la sostanza. Questa distinzione avrà poi molta importanza nello sviluppo della logica successiva. CRONOLOGIA - Nell’876 Remigio di Auxerre diviene maestro della scuola di Sa. Germano di Auxerre; la tradizione del sapere di Eirico, suo maestro, e della tradizione carolingia nonché specificatamente eriugeniana si diffonde nel mondo francese Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella - Nel 982 Abbone di Cluny fu chiamato a dirigere la scuola abbaziale di Ramsey in Inghilterra: la sua formazione logica e nelle arti liberali rappresenta l’inizio di un primo progresso nell’acculturazione filosofica dell’Europa medievale - Nel 1003 muore papa Silvestro II: la sua opera di uomo di religione e uomo di cultura rappresenta l’ideale fusione tra sapere pagano e Rivelazione cristiana - Nel concilio di Parigi del 1051 le tesi sulla conversio del pane e del vino nell’eucarestia di Berengario di Tours vengono nuovamente condannate, in una delle prime controversie religiose dove la filosofia e la logica aristotelica suggeriscono soluzioni dottrinali contrarie a quelle che la Chiesa sostiene ufficialmente. - Nel 1109 muore Anselmo d’Aosta che rappresenta una delle più riuscite fusioni tra razionalità e fede nell’XI secolo. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella IL MONDO ARABO: RECUPERO DEL PENSIERO ANTICO E SVILUPPO SPECULATIVO Il pensiero arabo ebbe un’importanza capitale per lo sviluppo della filosofia latina nel Medioevo. Gli storici del pensiero hanno da tempo attribuito allo sviluppo di una speculazione filosofica in lingua araba una grandissima importanza per la crescita del pensiero in Occidente (vedi: Traduzioni a partire dal XII secolo). Tale importanza è per lo meno duplice: da un lato, i dotti arabi furono tra i responsabili della riscoperta del patrimonio filosofico antico. Fu, infatti, per il tramite delle traduzioni arabe che molte opere speculative greche vennero conosciute dagli autori medievali. Tale fenomeno riguardò in parte le opere di Aristotele, che vennero conosciute in Occidente soprattutto grazie a versioni dal greco, in parte una serie di altri testi di carattere sia filosofico sia scientifico (trattati di matematica, ottica, astronomia, geografia etc.). dall’altro, dal mondo islamico gli studiosi latini trassero dottrine, spunti teoretici e insegnamenti filosofici originali di grande importanza. La tradizione filosofica islamica, quindi, non ebbe solo il ruolo di mediatore di una conoscenza antica, ma fu in grado di comprendere, assorbire ed elaborare una visione filosofica autonoma, ispirata al retaggio speculativo greco; le opere originali che l’Islam seppe così produrre divennero fonte di ispirazione e materiale di studio per generazioni di pensatori occidentali. In questo senso le figure di maggiore rilievo nella storia del pensiero arabo possono essere indicate in Ibn-Sīnā (che gli occidentali chiamarono, latinizzandone il nome, Avicenna) e IbnRušd (conosciuto in Occidente come Averroé). Questi due filosofi, infatti, seppero esercitare una grande influenza sul mondo europeo. L’importanza che il pensiero di Avicenna ebbe fu enorme, sia come filosofo la cui dottrina si ritrova in Tommaso (distinzione di ente ed essenza) e in molti altri pensatori domenicani (a partire da Alberto Magno, per arrivare a Teodorico di Freiberg e Mesiter Eckhart), sia come medico. Proprio le opere scientifiche avicenniane, il suo cosiddetto Canone, furono testo fondamentale per la formazione della dottrina medica in Occidente sino alle soglie dell’epoca moderna. L’importanza di Averroé, invece, è data dalla sua opera di commentatore di Aristotele, tanto che così lo ricorda anche Dante nel IV canto dell’Inferno nella Comedia (144) “Averrois, che 'l gran comento feo”. L’approccio alle opere dello Stagirita nel mondo occidentale fu spesso mediato dall’interpretazione proposta dallo stesso Averroé, il quale in qualità di credente in una fede monoteistica e al tempo stesso estimatore nonché profondo conoscitore del pensiero aristotelico si era trovato a riflettere intorno ai problemi del rapporto tra Rivelazione e Ragione posti dalla filosofia peripatetica prima che queste stesse questioni dovessero essere affrontate dai filosofi cristiani. Il pensiero arabo, naturalmente, non è risolto dalle figure seppur così importanti di Avicenna e Averroé. La società islamica a partire dal VII secolo d. C., epoca della sua formazione, infatti, ha sviluppato una storia culturale ricca e complessa, accogliendo in sé una molteplicità di forme e tradizione speculative. Ciò significa non solo che, accanto ad Avicenna e Averroè, devono essere ricordate altre figure di pensatori appartenenti al mondo islamico, come al-Kindi (attivo nel IX secolo d. C.) e al-Farabi (IX Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella – X secolo), ma che accanto alla filosofia (in arabo falsafa, evidente conio dal greco philosophia), come peculiare forma di ricerca, coerente in sé per ragioni di metodo (il ricorso alla razionalità e ai suoi strumenti codificati dalla ricerca logica) e di contenuti (il recupero e il riutilizzo della tradizione greca, nella quale Aristotele ha un ruolo di particolare importanza), esistono forme di speculazione differenti, con una propria fisionomia e diverse finalità. Fra queste bisogna ricordare per lo meno: il kalām, termine con il quale si fa riferimento alla teologia (kalām, infatti, significa “parola” e nell’espressione kalām Allāh, ovvero “parola di Dio” indica la Rivelazione sulla quale si esercita la comprensione e l’interpretazione umana). Nel corso della storia dell’Islam la difesa della verità della Rivelazione coranica contro sette ereticali e altre religioni monoteiste iniziò molto presto (VIII secolo d. C.; II secolo dell’Egira) e si sviluppò poi utilizzando tecniche razionali di discussione e confutazione (derivate anch’esse dal retaggio greco, come la dialettica). Anche nel mondo islamico si produsse un conflitto tra falsafa e kalām. Uno degli esempi più significativi di tale polemica è quello offerto da Al-Ghazali, esponente della corrente mu’tazilita del kalām, il quale criticò le pretese della filosofia di poter sviluppare una conoscenza adeguata del mondo e di Dio. il sufismo. Dottrina islamica che sostiene la necessità di una riflessione e di un approfondimento personale nonché spirituale della fede e dei suoi dogmi, evitando forme di legalismo o di osservanza rigida ed esteriore della Rivelazione. Il sufismo si diffuse a partire dal VIII secolo d. C., sviluppandosi in comunità sempre più organizzate, centrate sul rapporto tra maestro e allievo. Nonostante il suo radicamento nella tradizione islamica, gli storici hanno a più riprese messo in evidenza elementi di similarità del sufismo con varie altre tradizioni speculative o mistico-religiose, come il neoplatonismo Distinguere tra falsafa da un lato e kalām o sufismo, dall’altro (solo per citare due tradizioni tra le molte presenti nella realtà islamica), è particolarmente importante soprattutto quando si deve tracciare una storia del pensiero islamico. L’esistenza di una riflessione filosofica autonoma, espressione quindi della tradizione della falsafa, nel mondo islamico, infatti, tende a scomparire dopo le opere di Averroé alla fine del XII secolo e quelle di Ibn Khaldūn (1332 – 1406) storico e “filosofo della storia” nel XIII secolo. La fine della falsafa islamica, tuttavia, non significa la fine del pensiero nel mondo musulmano. Come già notava lo storico del pensiero Henry Corbin, nell’Islam orientale (Iran e Persia) la presenza di scuole e gruppi impegnati in attività speculative è ben attestata. In alcune aree del mondo islamico, quindi, persiste una forma di indagine e di speculazione. Si tratta però di una riflessione di matrice più religiosa che puramente “scientifica” (per quanto nutrita come nel caso della cosiddetta filosofia dell’illuminazione dal pensiero di Avicenna), con toni mistici, apparentabili alla tradizione gnostica o teosofica ma non a quella propriamente filosofica. Nell’Islam occidentale, d’altra parte, anche questi fenomeni culturali tendono a venire meno; scompariranno del tutto quando il mondo islamico, e tutta la realtà mediterranea, saranno conquistate dalle forze turche (presa di Costantinopoli nel 1453 e caduta del sultanato mamelucco d’Egitto nel 1517), nell’imposizione di un’ortodossia rigorosa e ideologicamente uniforme. Per ragioni storiche (l’orizzonte temporale preso in considerazione) e contenutistiche (l’attenzione alle forme propriamente filosofiche) ci si concentrerà, pertanto, nello studio del pensiero islamico, unicamente sulle dottrine e scuole della falsafa che ebbero maggiore importanza per lo sviluppo del pensiero occidentale, non considerando se non marginalmente fenomeni quali quelli della teologia speculativa e del sufismo musulmani. L’ISLAM E IL RETAGGIO FILOSOFICO GRECO Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella L’Islam entra in contatto con la ricchezza del pensiero greco grazie alla propria espansione politica e militare. Sino alla sua dissoluzione nel XIV e XV secolo la falsafa trova la sua origine e le fonti della propria riflessione nell’incontro con la filosofia greca. Tale incontro è reso possibile dall’avanzata militare che permette in pochi anni al mondo islamico di conquistare sia i territori dell’Impero sassanide in Persia sia alcune delle regioni allora sotto il controllo bizantino, in particolare Siria ed Egitto. Nella Siria, Persia ed Egitto del VII secolo d. C., infatti, erano presenti sette religiose e scuole filosofiche che avevano conservato e sviluppato il retaggio speculativo del mondo greco, per diverse circostanze storico-politiche: chiusura delle scuole filosofiche nel mondo bizantino. Nel 529 l’imperatore Giustiniano decide di chiudere le scuole e i centri di istruzioni filosofici, in quanto collegati alla tradizione ideologico-religiosa pagana. Questo fatto costrinse numerosi pensatori non cristiani a trasferirsi verso altre regioni, confinanti con i territori bizantini, come la Siria e la Persia; lì verranno fondate scuole filosofiche (scuole di Edessa, di Nisibis, di Gandisapora), nelle quali i testi e le tradizioni speculative greche continueranno ad essere studiate. presenza nelle regioni mediorientali di comunità e sette religiose cristiane nelle quali persiste lo studio della filosofia. In Egitto, in Mesopotamia e in Siria erano sorte comunità cristiane che dovevano conoscere il greco per leggere le Scritture e i testi dei Padri della Chiesa, aprendosi così anche alle influenze della filosofia ellenistica. Le dispute religiose tra gruppi e sette contrapposte, in particolare quelle di tema cristologico (rapporto in Cristo tra natura umana e divina), quindi tra calcedoniani (sostenitori dell’esistenza di una duplice natura in Cristo, umana e divina secondo i dettami del concilio di Calcedonia del 451) e monofisiti/giacobiti (sostenitori dell’esistenza di un’unica natura in Cristo, quella divina; con giacobiti si intendono i monofisiti della chiesa di Siria), facevano ampiamente ricorso a categorie e concetti propri della filosofia greca, quali “sostanza”, “ipostasi”, “essenza” etc. presenza di sette e comunità religiose non cristiane i cui culti includevano elementi/riti di ispirazione filosofica. Parallelamente alla diaspora filosofica dal mondo bizantino, nelle regioni della Mesopotamia si produsse un movimento migratorio di comunità religiose non cristiane alla ricerca di luoghi dove insediarsi e professare la propria religione. Fra queste comunità quella meglio conosciuta e più volte citata da autori islamici è il gruppo dei Sabei di Harran. La nascita di questa comunità viene collegata da storici musulmani del IX e XIII secolo, seguiti su questo punto da studiosi moderni, alla chiusura delle scuole filosofiche ad Atene; si tratterebbe, quindi, di gruppi di individui le cui credenze erano legate al pensiero ellenistico, in particolare neoplatonico del quale conservavano alcuni elementi dottrinali (trascendenza del divino e sua ineffabilità, identificazioni dei pianeti e degli astri con realtà che fungono da intermediari tra la divinità stessa e il mondo, dottrina dell’esistenza di una connessione nascosta tra realtà appartenenti a diversi livelli gerarchici del cosmo secondo il principio della magia naturale fondata sui legami di simpatia universale). Per queste ragioni i Sabei di Harran sarebbero poi stati anche considerati seguaci di Hermes e delle dottrine ermetiche. Quando l’Islam conquistò i territori mediorientali nei quali erano presenti queste comunità e queste tradizioni speculative, entrò in contatto con un retaggio filosofico molto articolato, iniziando a studiarlo e a venirne influenzato. L’annessione musulmana dei territori siriani, della Persia e dell’Egitto fu molto rapida. Inserendosi al termine del conflitto tra Bisanzio e il potere sassanide in Persia (guerra romano-persiana 602 – 628), che aveva indebolito entrambe le compagini, il mondo islamico attaccò, sottraendola al controllo bizantino, la Siria. Nella battaglia di Yarmuk nell’Agosto del 636 i bizantini vennero Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella sbaragliati dalle forze musulmane, quando Damasco è già caduta. L’Islam attacca poi la Persia, sconfiggendola nel giro di tre anni per poi rivolgersi all’Egitto, ancora sotto il potere bizantino. Nel Dicembre del 641 Alessandria d’Egitto cade. In Egitto, d’altra parte, la lotta tra calcedoniani e monofisiti e la repressione della seconda posizione eretica da parte del potere centrale bizantino, fece percepire ad una parte della popolazione l’arrivo delle forze islamiche come una sorta di liberazione. Inizia così quel processo di dialogo con il pensiero antico che caratterizzò una parte significativa della storia del primo Islam e fu centrale per la riscoperta della sapienza greca nell’Occidente latino a partire dal XII secolo. AVICENNA (IBN SĪNĀ). DOTTRINA DELL’INTELLETTO E DISTINZIONE TRA ESSERE ED ESSENZA Il pensiero di Avicenna consiste in un’armonizzazione di neoplatonismo ed aristotelismo, come è ben osservabile nella sua metafisica e teoria della conoscenza. Al centro della filosofia avicenniana si può porre una riflessione metafisica centrata sulla distinzione tra essenza ed esistenza. Quando l’uomo conosce coglie innanzitutto la realtà individuale e concreta e, in secondo luogo, la sua essenza, come dato universale. L’essenza universale è ciò che rimane identico in più individui e può essere loro attribuito o predicato. Avicenna precisa, tuttavia, che l’essenza in se stessa non né universale né particolare, ovvero non possiede nessuna definizione secondo il numero (plurale o singolare). L’essenza è solamente la definizione e la natura propria di una cosa; essa può essere declinata singolarmente come la forma presente in un certo individuo e capace di renderlo ciò che è o essere pensata in senso universale, come l’elemento che accomuna quello stesso individuo agli altri esemplari della sua specie. L’essenza però rimane in se stessa la semplice definizione di una natura e come tale l’oggetto primo della metafisica L’essenza così definita è legata con l’esistenza in modo non necessario: l’essenza delle realtà non coimplica l’esistenza, cosicché è possibile pensare e comprendere la natura di una cosa senza che tale sapere dica nulla circa l’esistere di quella stessa cosa. Nel conoscere l’uomo, ad esempio, si parte dall’analisi dell’individuo concreto e se ne ricava il carattere essenziale che appartiene tanto a quel singolo individuo quanto a ogni esemplare della specie. In questa conoscenza, tuttavia, non è presente nessun riferimento all’esistenza: il cogliere l’essenza di un uomo non informa circa l’esistenza di qualche individuo nel quale è presente quella forma essenziale. Questa dottrina era già stata elaborata da al-Farabi, pensatore islamico morto intorno alla metà del X secolo e attivo a Bagdad, il quale poneva l’esistenza come accidente dell’essenza. In questo modo Avicenna introduce la dottrina di una realtà universale segnata dalla contingenza. Nel cosmo avicenniano ogni cosa è del tutto non necessaria: se l’esistenza di una realtà non è implicata nella sua essenza, ciò significa che le cose possono anche non esistere senza che questo generi nessuna contraddizione o situazione impossibile (così come sarebbe impossibile per un uomo non avere la propria forma universale di “animale razionale”). Una realtà che non abbia l’esistenza per essenza è una realtà puramente possibile. Per Avicenna una realtà possibile non può esistere se non in virtù di una causa che la conduca all’essere, dal momento che da sola non può spiegare il suo esistere (non ha in sé, ovvero nella sua Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella essenza, la causa dell’essere). In questo modo diviene possibile teorizzare una serie di cause che hanno il compito metafisico di giustificare l’esistenza della realtà. Ogni realtà, infatti, che è nella sua essenza possibile risulta “giustificata” nella sua esistenza dalla causa che la pone in essere e solamente una simile causa può spiegare il suo darsi concretamente. Ogni realtà possibile posta in essere da una causa diviene così necessaria quanto alla sua esistenza. Avicenna, infatti, argomenta che una causa non è tale se non produce il suo effetto, ovvero, nel caso della catena dell’essere universale, se non porta all’esistenza ciò che è solamente possibile. Se la causa non può non produrre perfettamente il suo effetto, allora, ogni realtà possibile risulta necessaria in ragione dell’azione della causa che non può, in quanto causa, non porla nell’essere. Fra tutte le realtà che esistono e che sono necessarie solo in ragione del darsi delle rispettive cause è necessario postulare l’esistenza di almeno una realtà che sia necessaria essenzialmente. Senza un simile ente che possa agire come autentica causa prima spiegando, attraverso la catena di tutte le cause possibili, l’esistenza di ogni realtà possibile non si sarebbe in grado di giustificare il darsi delle molteplici cose che i sensi attestano e che compongono il mondo. Il mondo, per Avicenna, in sé contingente e necessario in ragione della serie delle cause che lo producono, porta a dedurre una causa necessaria per essenza e identificabile con Dio. Avicenna in questo modo conclude che il mondo per propria natura del tutto contingente richiede, per essere spiegato nella sua esistenza, una causa prima che risulti necessaria in virtù della sua sola essenza. Avicenna identifica poi tale causa con la sostanza divina. L’agire di Dio come causa in sé necessaria del Tutto non è, però, in Avicenna un agire libero, quindi contingente o puramente possibile. Il rapporto tra la Causa prima divina e i suoi effetti è eterno, definito sul modello della processione delle ipostasi nel pensiero neoplatonico. La causa divina, infatti, è semplice e unitaria e come tale non può che essere una realtà immateriale la cui natura coincide con quella di un Intelletto. L’azione dell’intelletto è quella di conoscere e, quindi, ogni atto della Causa prima e la sua stessa “creazione” del Tutto consisterà in un atto di conoscenza. Poiché tale Causa è semplice e prima fra le realtà cosmiche (in quanto è funzionale a spiegare l’esistenza di ogni altro ente) dovrà conoscere se stessa. L’auto-conoscenza della Causa divina produce una Prima Intelligenza, la quale conoscendo Dio produrrà la Seconda Intelligenza e questa, conoscendo la Prima, produrrà la Terza Intelligenza e così via. L’ordine così definito è identico a quello delle diverse sfere celesti e, quindi, all’organizzazione del cosmo con i suoi astri e pianeti; ogni Intelligenza, infatti, presiede al movimento e governa una particolare sfera celeste. Ciascuna Intelligenza è possibile in quanto esiste solo in virtù della Causa divina ed è necessaria in quanto prodotta dalla non contingente attività della medesima Causa prima del Tutto: tutte le intelligenze auto-conoscendosi come necessarie generano l’anima del corrispettivo cielo e autoconoscendosi come possibili generano il corpo dello stesso cielo. Questa processione della prima potenza della Causa divina termina con l’ultima sfera celeste, quella della Luna. Tale cielo è il limite della diffusione dell’energia di Dio in quanto dopo la generazione della sfera celeste lunare non è più possibile il prodursi di altre Intelligenze. Il residuo della potenza originaria si frammenta nelle singole forme intelligibili che sono presenti come essenze nei corpi. Anche l’anima umana è una di queste forme e perciò essa è una sostanza spirituale intelligente emanata dal cielo della Luna. Per questo l’anima è una realtà in sé sussistente e dotata di una propria autonomia ontologica rispetto al mondo materiale. Aristotele la definisce come forma del corpo, ma l’attività di Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella organizzare e animare il sostrato materiale umano è solamente la sua funzione, non la sua vera essenza. La struttura gerarchia del cosmo avicenniano permette di spiegare anche l’attività conoscitiva dell’uomo. Evento centrale nella creazione del sapere nell’anima è la capacità di ricevere le forme essenziali delle cose libere dalla materia. L’anima dell’uomo, innanzitutto, ha diverse facoltà e capacità conoscitive; attraverso di esse analizza e paragona le realtà concrete intorno alle quali i sensi la informano. Mediante questa operazione essa si “riempie” di sensazioni e di immagini, passando dal suo stato iniziale, nel quale è completamente vuota e priva di dati (potentia absoluta), a una condizione di maggiore conoscenza (intellectus possibilis). A questo punto la trasformazione di quelle immagini sensibili in autentiche forme essenziali avviene non per un atto proprio dell’anima; l’anima riceve l’irradiazione delle forme dall’Intelligenza dell’ultima sfera celeste, responsabile dell’unione di tali essenze con la materia del mondo fisico, e in tale modo conosce l’essenze stesse. L’ultimo cielo agisce, quindi, come Intelletto agente sull’anima, permettendole di passare da una condizione di conoscenza potenziale delle forme a una loro conoscenza attuale (intellectus adeptus). L’uomo, quindi, possiede un vero sapere solo nella misura in cui impara a rivolgersi all’Intelletto agente separato, coincidente con il cielo della Luna, per tradurre grazie a esso le immagini sensibili che sono solo potenzialmente essenze universali in forme essenziali in atto. La reiterazione di questo contatto, dovuta allo studio e alla ricerca della sapienza da parte dell’uomo, permette all’anima di interagire con maggiore facilità e velocità con l’Intelletto agente, il che spiega il possesso di una vera scienza per gli uomini (intellectus in habitu). I diversi gradi di unione con l’Intelletto agente e di abilità nel trarre da tale realtà separata le forme essenziali spiegano, per Avicenna, i differenti livelli di progresso nella sapienza dei diversi individui. Avicenna ipotizza come condizione ultima della crescita intellettuale dell’uomo, superiore anche allo stadio del sapere scientifico, lo stato del cosiddetto “intelletto santo”. In questo stadio l’uomo ha raggiunto un così alto livello di unione con l’Intelletto separato non solo da vedere direttamente in esso ogni verità e ogni essenza, ma anche da poter sviluppare un potere di controllo sulla stessa realtà naturale. Questa condizione è attribuita da Avicenna al Profeta (Maometto) e diverrà tema di discussione anche nel mondo occidentale, quando le opere avicenniane saranno tradotte e conosciute (Alberto Magno e Teodorico di Freiberg, ad esempio, riprenderanno questa dottrina e in Alberto ritornerà il tema del potere “demiurgico” che questo stadio garantisce all’uomo). RISCOPRIRE ARISTOTELE. AVERROÉ (IBN RUŠD) E IL RAPPORTO FEDE-RAGIONE Averroé si prefigge, quale scopo della sua attività filosofica, la spiegazione del pensiero di Aristotele, commentando le sue opere, come nel caso del De anima. Benché le competenze disciplinari e gli interessi di studio di Averroé fossero vari, l’opera che lo rese maggiormente famoso tra gli autori latini e che influenzò profondamente la cultura filosofica medievale furono i suoi commenti ai testi aristotelici. Di vari scritti dello Stagirita Averroé realizzò non uno solo ma diversi commenti, che in base alla loro dimensione sono distinti in grandi, medi e piccoli. Nell’introdurre e chiosare i trattati di quello che lo stesso Averroé definisce, in certi casi, come il più grande pensatore che l’umanità potrà mai avere e come esempio nonché modello, dato dalla misericordia divina, del più perfetto impiego della ragione da parte dell’uomo, il pensatore arabo ha come scopo quello di individuare e far conoscere la vera dottrina aristotelica, cercando di liberare Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella gli insegnamenti dello Stagirita dalle teorie provenienti da altri sistemi di pensiero, in particolare quello neoplatonico, che ne tradiscono la natura e il significato (spesso, osserva Averroé, l’introduzione di categorie neoplatoniche nella filosofia aristotelica è stata determinata dalla volontà di rendere più armonizzabile con la Rivelazione lo stesso pensiero dello Stagirita). L’opera di Averroé consiste così in una lettura e presentazione del pensiero aristotelico, nel corso della quale il Commentatore riporta opinioni di autori precedenti, confuta interpretazioni per lui non corrette ed espone la propria opinione, spesso in modo complesso, senza indicare chiaramente l’autore di una dottrina o teoria. Uno dei casi più interessanti, per le sue ricadute teologiche, dell’opera di spiegazione e analisi del pensiero aristotelico da parte di Averroé è il commento al De anima, il testo in cui lo Stagirita espone la sua dottrina sull’attività psichica dell’uomo. Seguendo il pensiero aristotelico, Averroé sembra giungere ad affermare che esiste in realtà una sola anima universale, immortale e in sé sussistente, per cui il destino del singolo individuo è, tanto per quanto attiene al suo corpo che per quanto attiene alla sua psyché, la morte e la conseguente dissoluzione. Averroé, infatti, individua nell’uomo innanzitutto un’anima sensitiva e individuale; questa anima è quella che permette all’individuo di percepire la realtà circostante e di conoscerla mediante immagini che persistono a livello mentale. Una tale anima, tuttavia, essendo unita al corpo come sua forma e suo principio di attività è corruttibile e deve, quindi, venire meno alla morte del corpo. La conoscenza autentica nell’uomo si produce solamente quando le immagini mentali delle cose sensibili conservate nell’anima individuale (phantasmata) vengono tradotte in dati universali (intelletto speculativo) e, quindi, quando l’anima individuale riesce a trarre da esse un concetto intelligibile. Tale operazione non si compie per l’azione autonoma dell’anima individuale, ma per il tramite dell’intelletto agente il quale converte in atto sia la capacità intellettiva potenziale dell’anima individuale stessa sia il carattere universale, presente in potenza nelle immagini sensibili. Tale intelletto agente è una realtà separata dall’uomo, perfetta e identificabile con l’intelligenza dell’ultimo cielo, secondo la gerarchia cosmica delle sfere celesti. L’intelletto possibile (detto anche ilico, materiale, passibile o in potenza) è, secondo la lettura che Averroé dà di Aristotele, la pura capacità di recepire le forme e come tale, quindi, è pura passività privo di una forma propria. Come tale non può essere individuale o capacità di un’anima individuale ma è pura predisposizione a pensare che caratterizza tutto il genere umano. Come tale questo intelletto è anch’esso unico e separato rispetto ai singoli individui. Secondo Averroé in Aristotele il prodursi dell’intelletto speculativo, ovvero la presenza di un sapere universale in atto nell’anima individuale, benché in sé sapere corruttibile (perché nasce dall’attività dell’anima individuale e dei suoi phantasmata di origine materiale) permette l’unione tra l’intelletto possibile e l’intelletto agente. Ciò significa che la pratica conoscitiva prodotta dal singolo individuo permette l’unione dei due intelletti separati, agente e possibile, dei quali l’ultimo rappresenta la capacità conoscitiva propria dell’intero genere umano. Il passaggio dall’intelligibile in potenza al suo stato in atto nell’intelletto possibile è determinato dall’azione dell’anima individuale la quale coglie l’universale nel dato sensibile grazie all’intervento dell’intelletto agente. In questa unione, frutto dell’impegno ascetico e della costante ricerca del vero sapere, si produce l’intelletto acquisito (adeptus) e la congiunzione (copulatio) dell’anima individuale con lo stesso intelletto separato; in questa condizione consiste la massima realizzazione dell’uomo e la felicità perfetta data dal conoscere in modo pieno (quest’ultimo è, infatti, lo scopo e la natura propria dell’uomo quale animale razionale). Chiaramente questa dottrina si poneva in aperta contraddizione rispetto ai principi di fede, tanto nel mondo cristiano quanto in quello islamico, intorno al destino dell’uomo e alla sua punizione/retribuzione post mortem. Da un lato, infatti, la non sopravvivenza dell’anima individuale rendeva impossibile la dottrina sul giudizio divino nei confronti del fedele, negando la vita spirituale dopo la fine del corpo fisico. Dall’altro, affermando la possibilità di un’autonoma unione Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella tra individuo e intelletti separati quale premio ultimo per l’impegno nella ricerca del Vero e conquista di uno stato di massima perfezione nonché di felicità per l’uomo, Averroé poneva le basi per affermare la capacità dell’uomo di raggiungere la beatitudo celeste senza l’intervento divino e prima della morte fisica. Proprio queste dottrine averroista-aristoteliche saranno alla radice, insieme ad altre teorie presenti nel pensiero dello Stagirita (come l’eternità del mondo), di un ampio dibattito nel mondo latino tra ’200 e ’300, sui limiti della ragione (sempre più identificata con il “nuovo” Aristotele) e sul rapporto tra questa razionalità e la fede. Tale sarà l’importanza di un tale dibattito nel mondo occidentale che la storiografia parla di averroismo latino, ovvero di un gruppo di pensatori caratterizzati da una grande attenzione al pensiero aristotelico e impegnati nel ridefinire il rapporto tra Rivelazione e conoscenza razionale, nel tentativo di affermare un maggiore spazio d’autonomia per quest’ultima (vedi: Tommaso e la condanna del 1277). Prova dell’intensità della controversia sulla natura dell’anima umana e sul suo destino ultraterreno è il fatto che questa non terminerà con la fine del pensiero medievale, ma continuerà durante tutto il Rinascimento. Ancora nel 1513 con la bolla Apostolici regiminis emanata, tra gli altri decreti, durante il concilio Laterano V, papa Leone X proibirà di sostenere posizioni come quelle averroiste, ribadendo che l’anima è la forma essenziale del corpo, che è immortale e che esistono molteplici anime individuali per ciascun corpo. Nella stessa bolla si richiedeva poi che tutti i teologi e i filosofi difendessero in ogni occasione pubblica la dottrina cristiana su questo punto. Uno degli aspetti più importanti del pensiero di Averroé consiste nella riflessione sul rapporto tra filosofia e religione. La questione sull’anima individuale e sull’inconciliabilità tra la posizione aristotelica su questo punto e quella rivelata (cristiano-islamica) possono essere indicate, insieme ad analoghe problematiche, come la ragione per cui Averroé affronta il tema del rapporto tra Ragione e Fede. Averroè, infatti, nell’intento di difendere l’indagine razionale dalle accuse di essere potenzialmente pericolosa per la Rivelazione, propone una dottrina che definisce il corretto rapporto tra i contenuti rivelati e quelli scoperti dall’indagine razionale. Su questo problema è stata attribuita ad Averroé la dottrina della cosiddetta “doppia verità”. Averroé affermerebbe che una medesima teoria può essere considerata vera filosoficamente anche se contraddice insegnamenti di carattere rivelato; in questi casi lo stesso Averroé affermerebbe la necessità di sostenere da un punto di vista filosofico la teoria in questione e di continuare a credere in quanto fedele all’insegnamento che la religione sostiene. In questo modo su alcune questioni ci potrebbe essere una “doppia verità” (una razionale, l’altra rivelala) che per quanto tra loro contraddittorie potrebbero essere ugualmente accettate. Esempio di questa ambigua posizione averroista sarebbe proprio la questione della natura dell’anima umana, mortale secondo la Ragione (ovvero, secondo le dottrine aristoteliche) e immortale secondo la Fede (così come insegnano Bibbia e Corano). In realtà Averroé ha affermato la necessità della non contraddittorietà della Verità. Il Vero, infatti, non può essere contrario al Vero e, poiché, tanto la Ragione quanto la Rivelazione derivano dall’unica Causa della Verità che è Dio devono essere in sostanziale accordo reciproco. L’esistenza di discordanze tra filosofia e insegnamento rivelato può essere spiegato in base al fatto che la Rivelazione stessa si rivolge a una classe di uomini particolare, coloro che incolti e privi delle necessarie doti naturali conoscono la Verità unicamente mediante racconti allegorici e semplici esortazioni, senza nessuna forma di sapere autentico. Per queste persone le scritture comunicano il Vero in modo indiretto, nascondendo dietro al significato letterale della Rivelazione messaggi più profondi e fornendo un accesso simbolico (quindi semplificato) a dottrine complesse. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Una seconda classe di persone, i filosofi, possono invece non solo comprendere le verità razionali riguardo l’uomo e il mondo (procedendo in modo necessario e, quindi, scientifico), ma sono anche in grado di risolvere le eventuali contraddizioni tra la Rivelazione allegorica indirizzata alle persone più semplici e le stesse verità conosciute filosoficamente. Esiste, afferma Averroé, una terza (seconda nell’ordine gerarchico in base al quale il pensatore arabo organizza le diverse tipologie di uomini) classe di persone (identificabile con alcuni movimenti anti-filosofici nel mondo islamico come quello di Al-Ghazali, 1058 – 1111) i quali possono comprendere solo argomenti probabili (per questo sono detti “dialettici”) e non riescono a comprendere autenticamente le verità razionali nascoste nei testi sacri. Averroé, quindi, sostiene che la contraddizione tra filosofia e religione è puramente apparente, prodotta dai diversi tipi di linguaggio e dai differenti livelli di comprensione della Verità (rispettivamente: razionale e approfondito, allegorico e superficiale) che caratterizzano le due forme di ricerca praticabili dall’uomo. Il sapere dialettico, incapace di vedere la verità filosofica nella Rivelazione e nemico della stessa vera speculazione razionale, invece andrebbe abbandonato e proibito. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella CRONOLOGIA - Nel 529 l’imperatore Giustiniano chiude le scuole filosofiche dell’impero. Inizia un esodo di autori e testi che diffonde il pensiero greco nelle zone mediorientali del bacino mediterraneo. - Tra 602 e il 628 si combatte la guerra romano-persiana, tra il potere bizantino e quello della Persia. L’indebolimento delle due potenze a causa del conflitto accelererà la conquista islamica di quelle zone. - Nel 622 con l’Egira verso Medina di Maometto si fa iniziare la storia dell’Islam (il quale, infatti, computa gli anni a partire da quella data). - Nella battaglia di Yarmuk (636) l’esercito musulmano sconfigge quello bizantino e la Siria cade sotto il potere islamico. - Nel Dicembre del 641 cade in mano al potere musulmano anche Alessandria d’Egitto . Le fonti filosofiche greche cominciano ad entrare in contatto con il mondo islamico. - nel 370 del calendario musulmano (agosto-settembre 980) nasce ad Afshanah presso Bukhārà Avicenna, ovvero Abū ‛Alī al-Husain ibn ‛Abd Allāh ibn Sīnā (la latinizzazione in Avicenna deriva probabilmente dal prefisso Aven- che in dialetti arabi della Spagna sostituiva la formula “ibn”, ovvero “figlio di”). - Non sono molte le informazioni sulla sua vita che si svolse prevalentemente in Persia. Ricoprì incarichi politici come quello di wazīr (ministro) presso il sovrano ad-Dawlah (997 – 1021) - Luglio 1037: Avicenna muore a Hamadhān nella Persia occidentale. - Nel 1126 nasce in Spagna (a Cordova) Abū l-Walīd Muhammad ibn Abmad ibn Muhammad ibn Rushd, conosciuto dai latini come Averroé, da un’importante famiglia di uomini di legge. Lo stesso Averroé ricoprirà la carica di giudice (qādi) a Siviglia e a Cordova. - In Marocco nel 1168 entrò in contatto con il potere almohade e accoltò nella reggia di Marrākush continuò si suoi studi filosofici - Nel 1195, ancora in Marocco, Averroé è accusato di eresia e viene esiliato Cordova, da dove nel 1198 fu richiamato a Marrākush. - Averroé muore a Marràkush nel Dicembre del 1198. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella FILOSOFIA EBRAICA. BIBBIA ED ERUDIZIONE FILOSOFICA L’importanza per l’evoluzione del pensiero medievale di una componente giudaica è per lo meno duplice: mediazione/traduzione di testi e sintesi originale. In modo simile a quanto accade per il pensiero islamico, alla filosofia ebraica deve essere riconosciuto non solo il ruolo di forza che ha reso possibile la diffusione del sapere “scientifico” antico (con i commenti a questo prodotti in differenti epoche e culture), ma anche la capacità di elaborare un sapere originale, in grado di esercitare in certi casi una diretta influenza sulla stessa storia della filosofia nel mondo cristiano. Ciononostante l’influenza della filosofia ebraica sull’Occidente latino e le “dimensioni” della speculazione giudaica nell’epoca di mezzo sono inferiori rispetto a quelle proprie del mondo islamico. D’altra parte, come accadde per gli scolastici, anche i filosofi ebrei risultano in buona parte debitori della precedente ricerca speculativa islamica e a questa si richiamano esplicitamente, a volte in modo critico, a volte sottolineandone la grandezza. Le sintesi filosofiche islamiche e le radici antiche della stessa filosofia (Platone e Aristotele, insieme alle tradizioni che a questi pensatori si erano rifatte nei secoli), quindi, sono le fonti del pensiero ebraico. Con la centralità del modello speculativo islamico, inoltre, devono essere messi in relazione anche i luoghi geografici dove si sviluppò per prima tra le comunità ebraiche (presenti in tutto il mondo mediterraneo) una ricerca filosofica autonoma. La culla della filosofia ebraica, infatti, è la Spagna dominata dal potere politico islamico (degli Almoravidi prima e degli Almohadi poi), a partire dal X secolo. In città come Granada, Toledo o Cordoba, d’altra parte, sino al XII secolo la politica islamica nei confronti del mondo giudaico garantiva a quest’ultimo condizioni socio-economiche abbastanza favorevoli da rendere possibile lo sviluppo di attività culturali e di ricerche filosofiche. Tale importanza geografico-culturale del mondo islamico per la fioritura di una speculazione ebraica è evidente anche nella scelta della lingua in cui scrissero i più importanti pensatori del mondo giudaico. Mentre l’ebraico e l’aramaico erano conosciuti solo dalle persone più colte e risultavano impiegati a scopi liturgici, l’arabo divenne nell’epoca di mezzo l’idioma speculativo per i pensatori ebraici; favorito certamente dalle circostanze politiche, l’arabo rappresenta comunque la lingua dell’educazione speculativa per il mondo ebraico, della quale servirsi quando ci si cimentava con la ricerca filosofica. Non a caso, d’altra parte, parallelamente al progressivo venir meno di una ricerca propriamente filosofica nel mondo islamico si assiste a un rafforzarsi dell’utilizzo dell’ebraico come lingua filosofica presso le comunità giudaiche mediterranee. Bisogna, infine, nell’introdurre il pensiero ebraico medievale, ricordare comunque che, per gli scopi propri di una ricostruzione storiografica della filosofia nell’epoca di mezzo, si prenderà in considerazione (per ragioni di metodo e di spazio) solamente quell’indagine le cui radici vanno identificate con i sistemi/le metodologie greche e che risulta segnata da una autonoma ricerca razionale. Come già detto per quanto riguarda la filosofia islamica (vedi: Filosofia araba), in questo modo non si vuole risolvere l’intero panorama del pensiero ebraico né affermare che differenti manifestazioni dotate di un qualche valore speculativo, presenti nella realtà giudaica come in altre tradizioni culturali, non abbiano un significato filosofico. Le considerazioni fatte sinora sul pensiero ebraico, quindi, sono relative unicamente alle più importanti forme della ricerca razionale ispirata ai modelli platonici e aristotelici all’interno del mondo giudaico, e non possono essere riferite ad altre manifestazioni speculative del giudaismo. Tra queste merita di essere citata per lo meno la Qabbalah. Con questo termine (che in ebraico significa semplicemente “ricezione”, facendo riferimento al retaggio di sapienza ereditato dalle precedenti generazioni) si intende l’insieme di dottrine mistiche elaborate all’interno della Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella tradizione ebraica che si trovano (a seconda dei casi) in un rapporto di maggiore o minore fedeltà rispetto alle linee teologiche ortodosse dell’ebraismo stesso e che spesso manifestano al loro interno influenze filosofiche greche (in particolari neoplatoniche). Sviluppatasi, nelle sue prime manifestazioni, già all’inizio dell’era volgare (III sec. d. C.), la Qabbalah, a differenza di altre forme di esoterismo fiorite in ambienti culturali non cristiani (come il sufismo islamico), suscitò un significativo interesse in alcuni ambienti del mondo culturale latino tra la fine del periodo medievale e l’epoca rinascimentale, diventando oggetto di studio anche da parte di autori non appartenenti al mondo ebraico, come Giovanni Pico della Mirandola. La tradizione cabalista ha attirato nel corso del XX secolo, poi, un sempre maggiore interesse da parti di storici della religione e di filosofi. Quale conseguenza di tale attenzione si è assistito nel ’900 a una crescita della comprensione intorno a dottrine e correnti della Qabbalah e al loro riutilizzo all’interno di originali percorsi teoretici. Per questa ragione si forniranno in questo capitolo alcune indicazioni anche sulla mistica ebraica medievale di carattere cabalistico, sebbene essa non possa considerarsi propriamente una delle forme della filosofia ebraica nell’epoca di mezzo. IBN GABIROL E MOSÉ MAIMONIDE: VOCI EBRAICHE DELLA FILOSOFIA NELL’EPOCA DI MEZZO Le due personalità di maggiore rilievo della filosofia ebraica medievale possono essere considerate Ibn Gabirol e Mosè Maimonide. Gabirol e Maimonide rappresentano i due più significativi filosofi appartenenti alle comunità giudaiche medievali nella misura in cui, da un lato, la loro speculazione si inserisce nel solco della ricerca speculativo greco-araba e, dall’altro, le loro opere furono studiate nel mondo latino, esercitando su quest’ultimo una certa influenza. La filosofia di Gabirol è, nella sua impostazione generale, una chiara ripresa della concezione neoplatonica dell’universo. Ibn Gabirol, conosciuto nel mondo latino con il nome di Avicenbron e erroneamente considerato un autore islamico (per l’assenza nelle sue opere giunte in Occidente di riferimenti alla fede giudaica), nacque probabilmente a Malaga intorno al 1021 e visse in diverse città iberiche sino all’incirca al 1058, anno della sua morte. Autore di componimenti poetici in ebraico, utilizzati anche a scopo liturgico (fra cui si deve ricordare La corona regale), e di opere filosofiche redatte in arabo, Ibn Gabirol è conosciuto in Occidente grazie al suo Fons vitae (Fonte della vita), giunta a noi solo nella sua versione latina ad opera di Domenico Gundisalvi e Giovanni Ispano. Composto in forma di dialogo, il testo consta di 5 libri dedicati rispettivamente: ai fondamenti della metafisica, in particolare ai concetti di materia e forma universale alla materia corporea universale e al suo rapporto con la forma corporea universale alla dimostrazione dell’esistenza delle sostanze semplici allo studio delle sostanze semplici e alla dimostrazione che queste si compongono di materia e forma alla materia e alla forma universali in se stesse Gabirol, quindi, descrive la realtà del cosmo come una piramide di esseri alla cui sommità c’è il Dio-Uno. La gerarchia cosmica è data da: Dio, semplice e ineffabile, inconoscibile nella sua essenza e oggetto del sapere creaturale solamente attraverso gli effetti prodotti dalla sua azione. Centrale diviene allora la categoria di Volontà che è considerata da Gabirol origine dell’agire divino e origine del mondo quale Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella insieme degli effetti di questo stesso agire Materia e Forma universali, quali primi prodotti della Volontà divina ed Elementi che intervengono nella generazione di ogni realtà non divina Intelletto, inteso come insieme delle idee perfette e dei paradigmi del Tutto e come pensiero che riflette su questi paradigmi, composto di Materia intelligibile e Forma Anima, organizzata in anima razionale, animale e vegetativa Natura, ultima realtà semplice che introduce al mondo materiale corporeo, nel quale vive l’uomo. La dottrina propria del pensiero di Gabirol che ebbe il maggior peso speculativo sulla filosofia occidentale può essere considerata quella dell’ilemorfismo universale. È evidente già da quanto sin qui detto che Gabirol sostiene una dottrina di una certa originalità, definita in seguito “teoria dell’ilomorfismo universale”. Affermando, infatti, che le sostanze semplici sono composte di materia e forma, Gabirol sostiene che tutte le realtà cosmiche, sia quelle del mondo materiale corporeo sia quelle appartenenti ai superiori livelli dell’essere, sono date dall’unione di materia e forma. In termini teologici, quindi, Gabirol afferma che anche le creature angeliche sono dotate sia di una forma che di una materia; quest’ultima, naturalmente, è differente dalla materia corporea e va considerata un sostrato materiale intelligibile. Nella realtà cosmica solamente Dio è privo in ogni modo di materia. La dottrina dell’ilemorfismo universale, quindi, consiste nell’asserire che ogni realtà creata (quindi diversa da Dio) è il prodotto dell’unione di materia e forma. In questo modo Gabirol distingue anche diversi “significati” della materia: Materia universale: sostrato universale che nella sua semplicità permette ad ogni forma di trovare un elemento a cui inerire Materia intelligibile: la materia che si unisce con le forme nelle sostanze semplici non corporee Materia corporea: ogni tipologia di materia che emana dalla Natura ed è propria del mondo fisico-concreto Materia dei corpi celesti: materia corporea più perfetta di quella terrestre e che concorre alla creazione delle stelle Materia degli elementi primi: la materia corporea di cui sono composti i quattro elementi primi (aria, acqua, fuoco e terra) Materia delle singole sostanze composte: materia corporea propria di ciascun corpo individuale che costituisce il mondo in cui l’uomo vive La dottrina ilemorfica trovò nel mondo occidentale sia sostenitori che avversari. I primi, rinvenibili spesso tra le file dei teologici francescani, si servono di questa teoria per sottolineare la radicale differenza tra Dio e il mondo, secondo lo stesso obiettivo speculativo perseguito da Gabirol nell’elaborare la soluzione ilemorfica (vedi IV libro del Fons vitae). I secondi, tra i quali si possono ricordare Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, sostengono che una volta asserita questa teoria la distinzione tra sostanze semplici e complesse risulta inutile e preferiscono marcare la distanza tra Creatore e creature facendo riferimento ad altri attributi ontologici; Tommaso, ad esempio, proporrà di individuare nella dialettica tra attualità dell’essere e sua potenzialità il vero discrimine tra Dio (essere sempre in atto) e il mondo (insieme di realtà che devono il loro essere in atto all’azione della Volontà divina). Alla radice della posizione ilemorfica gabiroliana, inoltre, si può rinvenire la peculiare concezione della materia stessa che il pensatore ebraico propone. In Gabirol, infatti, la materia non è l’elemento che permette la nascita degli individui e, quindi, la differenziazione dell’indifferenziato (secondo la dottrina tomista per cui è la materialità concreta, con una determinata quantità, a permette l’individuazione del singolo ente a partire dalla forma che lo assimila agli altri esemplari della sua Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella specie); la materia è l’elemento che accomuna e unifica (assumendo, quindi, la funzione della forma), in quanto sostrato da cui un insieme di elementi deriva e in cui, quindi, questi sono assimilati. Alla base di questa dottrina vi è un utilizzo neoplatonico della teoria logica aristotelica del genere come materia logica: nel genere tutte le specie sono tra loro unite come nel sostrato che le genera e da tale indistinzione emergono solamente per vie delle forme specifiche aggiunte al sostrato stesso. I livelli più alti della gerarchia neoplatonica, quindi, sono pensati come materia e non come forma, in quanto viene applicata alla dimensione ontologica la teoria logica del rapporto tra genere e specie. Gabirol, tuttavia, esclude il divino da tale equazione, considerandolo non materiale. Altri pensatori, seguendo suggestioni teoretiche analoghe, porteranno alle estreme conseguenze le premesse assunte anche da Gabirol e arriveranno a dire che Dio è la materia prima da cui tutto nasce e su cui ogni cosa riposa (come farà nel XII secolo Davide di Dinant, ispiratosi a Giovanni Eriugena e condannato come eretico). Il fine dell’esistenza umana in Gabirol è dato dalla conoscenza perfetta di sé e del mondo. Il sapere filosofico intorno a Dio e alla coppia materia/forma universali rappresenta uno dei momenti del cammino di conoscenza che l’uomo deve seguire. L’uomo, quindi, si realizza pienamente e raggiunge la propria perfezione mediante un cammino di ascesi e di contemplazione. Gabirol, tuttavia, sottolinea la coincidenza tra conoscenza del mondo e sapere che l’uomo può sviluppare intorno a se stesso. Questa dottrina non intende sottolineare tanto o semplicemente la centralità dell’autoconsapevolezza per la realizzazione del percorso di perfezionamento, ma si fonda sulla dottrina dell’anima umana come microcosmo. Nella sua parte psichica l’uomo raccoglie e riassume tutte le realtà create, nella loro condizione di archetipi ideali; unicamente contemplando in sé tutte le realtà nel loro stato archetipico l’uomo può conoscere la totalità dell’universo ed essere così veramente sapiente. Mosè Maimonide fu noto nel mondo medievale come teologo e come maestro di esegesi. Rabbi Moysis, come Maimonide venne conosciuto dai filosofi latini, o Mosheh ben Maymon nacque a Cordova nel 1138. Con la famiglia dovette spostarsi di città in città per sfuggire alle persecuzioni anti-ebraiche sotto il potere alhomade in Spagna. Fuggito dalla penisola iberica fu prima in Marocco, poi in Palestina (anche a Gerusalemme) e infine al Cairo in Egitto, dove trovò condizioni più favorevoli, potendo anche dedicarsi allo studio e alla scrittura, e dove rimase sino alla morte, avvenuta intorno al 1204. La fama di cui Maimonide godette in vita, sia come filosofo nel mondo arabo-ebraico e nel mondo latino, sia come medico ed esperto di diritto religioso ebraico (al Cairo e in tutto il mondo mediterraneo presso le comunità giudaiche), fu enorme. Le sue opere prettamente filosofiche più importanti sono la Guida dei perplessi o Guida degli indecisi e il Trattato sull’arte logica. Mentre il secondo è un’introduzione alla logica di Aristotele, ampiamente usato nel mondo ebraico come introduzione all’Organon aristotelico, la prima rappresenta lo scritto che esercitò la maggiore influenza sui filosofi cristiani. L’importanza di questo scritto (redatto probabilmente tra il 1180 e il 1190) consiste nella sua stessa finalità: dimostrare la compatibilità e la conciliabilità tra le verità razionali della filosofia e le asserzioni contenute nei libri sacri, ovvero la Torah (i primi cinque libri della Bibbia, ovvero il Pentateuco, che costituiscono la Rivelazione divina al popolo d’Israele: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Maimonide afferma, quindi, che l’insegnamento della Ragione e quello rivelato direttamente da Dio Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella non entrano in contraddizione, ma sono l’uno in armonia con l’altro. La condizione per scoprire l’autentico accordo delle due Verità al di sotto di quelle che appaiono contraddizioni e incompatibilità è saper leggere correttamente la stessa Torah, ovvero superare la semplice dimensione letterale del testo rivelato e coglierne il senso allegorico. In particolare le cause della contraddizione in un testo e, quindi, della inconciliabilità apparente tra filosofia e Rivelazione sono: citazione da parte dell’autore di dottrine di diversi pensatori non distinte tra loro il cambiamento di opinione di un autore nel tempo i diversi sensi (letterale e allegorico) di un testo una dottrina o teoria non esplicitata che è comunque parte del ragionamento dell’autore una dottrina oscura che non viene subito analizzata utilizzo di premesse che sono nelle loro conseguenze contraddittorie esporre una dottrina complessa della quale solamente alcune parti vengono subito trattate e analizzate La Guida, tuttavia, sviluppa il tema dell’esegesi e della conciliazione di differenti verità, elaborando un percorso speculativo più ampio e complesso. Introdotta da alcuni capitoli preparatori (in alcuni dei quali Maimonide espone la sua teoria sulle ragioni della contraddizione di un testo), la Guida si articola in tre parti: la prima dedicata a Dio e ai suoi attributi, nonché all’origine del mondo secondo la visione della teologia tradizionale, in particolare quella di origine islamica (kalam) la seconda dedicata alla natura di Dio e alla nascita del mondo secondo la filosofia; in questa parte si discute anche la possibilità di accordare queste dottrine con la verità della Torah. Va subito osservato che la filosofia è per Maimonide da identificare con l’opera di Aristotele. la terza parte dedicata alla questioni teologiche, quali la Provvidenza, il male e l’osservanza dei precetti morali (Maimonide indica questa parte come l’ “opera del carro”, facendo riferimento in questo modo alle visioni mistiche di Isaia, Ezechiele e Zaccaria raccolte in alcuni libri della Bibbia e considerando le dottrine lì contenute come corrispondenti alle teorie metafisiche; la dottrina fisica della filosofia invece è posta in relazione con le verità rivelate nell’ “opera della Creazione” rappresentata dal racconto del Genesi). Mediante la discussione di queste tematiche Maimonide giunge ad analizzare uno dei casi più complessi della contraddizione tra Rivelazione e ragione, ovvero la questione dell’origine del mondo. Maimonide, infatti, fonda la propria ricerca filosofica, come già detto, sulla dottrina aristotelica e sui commenti antichi e tardo-antichi allo Stagirita (per questa ragione consiglia lo studio degli scritti di Averroé e avanza dubbi sull’utilità del pensiero di Avicenna); nella teoria aristotelica, tuttavia, il mondo è eterno, non creato nel tempo ma da sempre e per sempre esistente. La Bibbia, invece, insegna la creazione dell’universo nel tempo, per volere di Dio. Filosofia e Rivelazione appaiono, così, in contraddizione. Maimonide per risolvere questa difficoltà afferma che in termini filosoficamente rigorosi eternità e creazione del mondo non possono essere dimostrati con certezza; razionalmente la dottrina dell’eternità del mondo è preferibile a quella della creazione, in quanto non contraddittoria (non falsificabile mediante auto-contraddizione, secondo la ricostruzione che della teoria di Maimonide fa un importante storico del pensiero medievale, Alain de Libera), ma non può venire dimostrata come certamente corretta. Maimonide può allora affermare che la creazione del mondo può essere creduta per fede, ma non dimostrata, mentre l’eternità del mondo non può essere sostenuta razionalmente in quanto non è dimostrabile, ma non va nemmeno rifiutata perché non produce conseguenze contraddittorie. Questa questione e alcuni aspetti della soluzione proposta da Maimonide verranno ripresi nel mondo latino; anche Tommaso d’Aquino sarà in questo senso influenzato dall’autore della Guida. Il problema della conciliabilità di ragione e fede, in generale, e della contraddizione tra la dottrina religiosa e la teoria filosofica sull’origine del mondo, in particolare, infatti, diventeranno nel mondo latino del XIII secolo un argomento centrale di discussione, con posizioni molto complesse come Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella quelle, ispirate all’opera di Averroé, elaborate da autori quali Boezio di Dacia e Sigeri di Brabante. Nella riflessione metafisica di Maimonide vengono sviluppate anche alcune dottrine sulla natura divina e sulla dimostrazione della sua esistenza. Anche in questo caso l’Occidente latino sarà influenzato dalla riflessione dell’autore della Guida e lo stesso Tommaso riprenderà sostanzialmente la prova di Maimonide. Maimonide ragiona in questo modo: il mondo è contingente, in quanto ogni cosa esistente può anche non essere o cessare di esistere ciò che è contingente richiede una causa necessaria che spieghi la sua esistenza poiché esiste qualcosa di contingente deve esistere una causa necessaria che ne giustifichi l’essere Maimonide deduce dalla necessità dell’esistere di una simile causa la sua unicità e, quindi, il suo essere Dio. Maimonide, in questo modo, riprende l’argomento secondo il necessario e il contingente di Avicenna; la medesima prova confluirà come terza via nelle cinque prove dell’esistenza di Dio di Tommaso d’Aquino. QABBALAH: MISTICISMO E FILOSOFIA La Qabbalah (traslitterato anche Cabala o Kabbalah) è l’insieme di diverse dottrine mistiche ed esoteriche proprie della cultura ebraica. La Qabbalah rappresenta una forma di insegnamento intorno a Dio e all’origine del mondo che veniva impartito alle generazioni successive da quelle precedenti, nella trasmissione di una verità nascosta particolarmente complessa e importante. Tale insegnamento era destinato unicamente a quelle persone che per qualità morali e personali fossero in grado di comprenderlo e usarlo correttamente. Per questa ragione oltre al carattere propriamente mistico, la Qabbalah ha anche una dimensione esoterica (dottrina riservata a pochi) e iniziatica (esistenza di culti e pratiche per ammettere gli eletti alla conoscenza delle verità rivelate). La Qabbalah si caratterizza anche per l’esistenza al suo interno (a partire almeno dal XII-XIII secolo) di una parte teorica e di una parte pratica o magica. Sono attestate, infatti, in relazione alla sapienza cabalistica pratiche di magia naturale, di teurgia (invocazione di potenze soprannaturali), creazione di amuleti, pratiche negromantiche o di divinizzazione e alchemiche. L’origine della Qabbalah è di non facile definizione. Le radici del misticismo cabalistico possono essere individuate all’interno dei primi secoli dell’era volgare (I-III secolo d. C.), nell’area del Mediterraneo orientale. Successivamente importanti centri cabalistici nacquero in Mesopotamia e poi nel mondo spagnolo, francese e italiano. Le prime espressioni di una indagine cabalistico-mistica nel mondo ebraico si sviluppano attraverso la meditazione intorno al ma‛ăsēh bĕrēshīt (“opera della creazione”) e al ma‛ăsēh merkābāh (“opera del carro”; la lettura mistica della visione avuta dal profeta Ezechiele), con la comprensione del significato occulto di questi passi biblici e con la relativa elaborazione a partire da essi di una teologia e di una teoria cosmica. Tra il III e il VI secolo d. C. viene composto il Sēfer Yĕsīrāh (Libro della creazione) che sarà una delle fonti più importanti e influenti della tradizione cabalistica. Nella metà del XIII secolo, invece, viene composto il Sēfer ha-zōhar (Libro dello splendore), anch’esso destinato ad avere grande Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella diffusione, anche al di fuori del mondo ebraico. Segnata sin dall’inizio da un forte sincretismo culturale e aperta a influenze gnostiche e neoplatoniche, la Qabbalah nelle sue diverse scuole e momenti propone una visione del mondo come creato da un Dio, unico, trascendente e ineffabile. Tale principio divino è in genere indicato come En-sof, ovvero l’Infinito. La natura di tale Causa è, proprio in virtù dei suoi attributi, completamente ineffabile per l’uomo, il quale conosce alcuni suoi aspetti solamente grazie alla relazione che l’En-sof stesso instaura con il mondo nella sua opera creativa. Il principio divino agisce come causa e come forza ordinatrice del cosmo. Questa attività dell’Ensof è resa possibile dalle Sĕfīrōt, emanazioni ed espressioni della natura divina. Considerate in certi casi come aspetti della natura di Dio, in altri come forme che assume la stessa forza divina nel suo procedere oltre se medesima, le Sĕfīrōt permettono il realizzarsi dell’azione divina. Rappresentate con diagrammi a forma di figura umana o di albero, che ne evidenziano anche le interrelazioni e i rapporti, le Sĕfīrōt sono in genere indicate in numero di 10 e a ciascuna di esse è affidato il governo del mondo nelle varie epoche in cui la storia dell’universo è suddivisa. Molto poche sono le notizie storiche sui maestri o i pensatori più importanti della Qabbalah. I nomi più importanti giunti sino a noi sono quelli di Isaac il Cieco attivo tra XII e XIII secolo nel sud della Francia (Provenza); Abrāhām Abūl-‛Āfiya (Abulafia) di origine spagnola e vissuto nel XIII secolo e Yishāq Luria (1534-1572), una delle personalità più importanti della Qabbalah dal quale dipesero i successivi sviluppi della stessa riflessione cabalistica e alcuni movimenti ebraici messianici del XVII secolo come quello di Sabbatai Zevi e lo hassidismo (chassidismo) diffuso nell’Est Europa a partire dal XVIII secolo. CRONOLOGIA - Nel 70 d. C. Tito distrugge il tempio di Gerusalemme, a seguito di una rivolta anti-romana. - Nel 135 d. C., sotto il potere dell’imperatore Adriano, una nuova rivolta contro il dominio romano viene repressa con estrema violenza. Questi fatti fanno iniziare la diaspora del popolo ebraico e il progressivo spostarsi delle comunità ebraiche nel mondo mediterraneo ed europeo. - Intorno al 1020 nasce, forse a Malaga, Ibn Gabirol, ovvero Shĕlōmōh ben Yĕhūdāh Ibn Gĕbīrōl, conosciuto dal mondo latino come Avicebron. La sua vita lo portò a spostarsi tra diverse città, tra cui Saragozza e Granada. - Nel 1044 scrive la Correzione dei costumi, tratto di morale pratica - Nel 1049 probabilmente realizza il Fons vitae, la cui dottrina lo farà conoscere nel mondo occidentale. - Nel 1058 Gabirol muore a Valencia - Rabbi Moises, ovvero Moshè ben-Maimon (in arabo Mousa Ibn Maymoun) nasce a Cordova nel 1138. - Intorno al 1148 lascia la Spagna a causa della politica di repressione religiosa anti-ebraica del potere islamico della dinastia degli Almohadi, arrivando ad Acri e a Gerusalemme. - Arrivato in Egitto, prima ad Alessandria e poi al Cairo, Maimonide nel 1185 diviene medico presso la corte , divenne uno dei medici ufficiali presso la corte del sultano. Divenne anche referente per la comunità giudaica d’Egitto - La sua attività di studioso di diritto ebraico, medicina e filosofia lo rende famoso nel mondo ebraico e anche presso le comunità non giudaiche. Tra le sue opere di diritto talmudico la più significativa è la Mishné Torah del 1180, in cui offre un’analisi e una sintesi della legge ebraica. - Del 1190 è la Guida dei Perplessi. - Nel 1204 Maimonide muore al Cairo. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella LA RINASCITA DEL XII SECOLO: DIALETTICA, FISICA E FILOSOFIA. INTRODUZIONE Il mondo filosofico occidentale è caratterizzato da partire dalla fine dell’XI e l’inizio del XII secolo da una nuova fase di rinnovamento e sviluppo dottrinale. Le linee speculative lungo le quali si sviluppa questa rinascita filosofica del XII secolo sono: la ricerca logico-dialettica e le sue conseguenze in teologia. In questo periodo, infatti, lo studio della logica conosce una crescita dovuta sia 1) al precedente lavoro di studiosi che si erano confrontati con gli elementari testi aristotelici (Categorie e De Interpretatione) e avevano sviluppato dottrine di rilevanza logica nell’approfondimento di altre discipline del trivio, come la grammatica, sia 2) alla progressiva riscoperta e utilizzo di opere logiche di Aristotele sino ad allora non studiate in Occidente, ovvero i Primi analitici, in parte i Topici e gli Elenchi sofistici. Il mondo latino conoscerà questi trattati grazie agli scritti a essi dedicati e alle traduzioni preparate da Boezio. Questo percorso di trasformazione del sapere logico latino si compirà definitivamente quando anche gli Analitici secondi, cominceranno a essere studiati e compresi dagli autori occidentali. Questo potenziamento della logica, tuttavia, ha conseguenze anche al di fuori dell’ambito puramente dialettico. Tecniche e dottrine logico-grammaticali sono applicate allo studio di problemi filosofici e soprattutto teologici; viene inaugurata così una nuova fase della teologia medievale, dove la ragione e i suoi strumenti trovano applicazione all’analisi dei misteri divini. Si tratta di una tappa centrale e ulteriore in quel processo di dialogo tra Ragione e Fede che caratterizza almeno in parte il mondo medievale. Figure emblematiche di questa fase del pensiero medievale sono i pensatori di Chartres e Abelardo, al quale si devono le più importanti intuizioni logiche nel XII secolo. Tale nuova forma assunta dell’indagine teologica susciterà naturalmente la reazione di diversi esponenti della cultura del tempo, preoccupati, sul fronte dei contenuti, per gli eccessi a cui può condurre questa speculazione e, sul fronte del metodo, per l’ampliamento della sfera d’azione della ragione. In questo senso emblematica è la dottrina di Bernardo di Chiaravalle (1090 – 1153) che sembra riprendere elementi della critica anti-razionalista in Pier Damiani (1007 – 1072); Bernardo, infatti, si oppose e cercò di far condannare le dottrine teologiche sviluppate con l’apporto degli strumenti razionali (come quelle di Pietro Abelardo e di Gilberto Porreta). Lo studio della logica si accompagna a un generale approfondimento delle arti della parola, da un lato, e delle scienze del quadrivio dall’altro. Lo studio delle sette arti liberali caratterizza in particolare la filosofia chartriana. la nascita di un atteggiamento di ricerca razionale indipendente sulla natura e il mondo. Parallelamente al potenziarsi dell’apparato dialettico il mondo latino conosce anche un rafforzamento della ricerca razionale sulla natura; il nuovo atteggiamento reclama la possibilità di affrontare l’indagine sulla realtà in modo autonomo rispetto alle risposte che la Rivelazione fornisce e, quindi, in modo solamente razionale. All’interno della scuola di Chartres si potranno trovare autori che sosterranno questa forma di ricerca intorno al mondo naturale. La novità di questa forma di speculazione intorno alla natura, d’altra parte, è preannunciata in parte dalle dottrine che in questi anni si sviluppano presso il centro monastico di San Vittore, a Parigi. Qui la presenza di maestri come Ugo di San Vittore (1096 – 1141) e Riccardo di San Vittore (1123 – 1173) rese possibile, tra la metà e la fine del XII secolo, il fiorire di una Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella scuola con precisi connotati dottrinali. Ugo di San Vittore è sostenitore della necessità di un dialogo tra ragione e fede e assertore del valore della scienza mondana. Quest’ultima, organizzata intorno alle sette arti liberali e a sette arti meccaniche (come l’arte della navigazione e l’agricoltura) è originata da una scintilla della luce divina; se il sapere profano fine a se stesso è inutile e persino nocivo alla ricerca della verità come contemplazione del divino, l’erudizione filosofica può essere impiegata come mezzo o momento del cammino umano di avvicinamento a Dio e in questo modo risulta utile. La conoscenza, infatti, viene divisa da Ugo in sapere delle cose necessarie in quanto fondate dalla ragione, sapere delle cose probabili perché conformi a ragione, sapere delle cose mirabili che superano la ragione e sapere delle cose impossibili perché contrarie alla ragione. Dal momento che solo la prima e l’ultima forma di sapere escludono la fede, questa può sempre entrare in dialogo con la razionalità. Anche in Ugo, tuttavia, la conoscenza umana del mondo come occasione per cogliere Dio è intesa prevalentemente in modo simbolico: la natura è conosciuta non come autonomo campo di indagine ma come riflesso allegorico dell’attività divina. La lettura simbolico-allegorica della realtà fisica, la quale è stata creata per l’uomo e per la sua redenzione, è essa stessa via di contemplazione per arrivare alla visione mistica. la scoperta dei testi filosofici greci rimasti sino ad allora sconosciuti e delle opere filosofiche arabo-ebraiche. Inizia nel XII secolo un processo di scoperta da parte dell’Occidente del patrimonio di testi e dottrine, sia greche sia frutto della rielaborazione araba ed ebraica del pensiero greco, prima non conosciute. Causa storica di tale scoperta fu l’incontro politico con il mondo arabo: le città “di confine” tra mondo latino e mondo islamico, in particolare Palermo e Toledo, divennero luoghi di trasmissione del sapere tra studiosi di tradizioni e religioni diverse. Questo fenomeno viene definito come un “processo di acculturazione” del mondo occidentale e avrà conseguenze importantissime per il pensiero Medievale; la tradizione filosofica greca antica e araba, infatti, risultava molto più complessa e ricca di quella dell’Occidente di quegli stessi anni, cosicché l’introduzione (avvenuta in tempi rapidi) delle dottrine greco-arabe nel mondo latino ebbe un effetto di accelerazione della ricerca filosofica e di ridefinizione dell’assetto del sapere dell’epoca. Gli effetti più importanti di tale acculturazione si produssero nel secolo successivo, contribuendo alla formazione della filosofia delle università. Anche tale fenomeno produsse nel mondo cristiano una vasta reazione di preoccupazione e protesta contro i rischi di “contaminazione” della Rivelazione da parte del sapere dei pagani e degli infedeli. la nascita dei testi di sentenze. Lo stesso potenziamento degli apparati logico-dialettici e la loro applicazione alla studio teologico porterà alla nascita di un nuovo genere letterario, ovvero i Libri di Sentenze. Questi testi consistevano nella raccolta di dottrine e asserzioni, tratte da autori patristiche e alto-medievali su un tema o una questione teologica complessa. L’intento dei redattori di queste opere era fornire materiali di studio e chiarificazione per una migliore comprensione della Rivelazione. Se la pratica del florilegio erudito esisteva già nel mondo medievale, l’aspetto di novità delle Sentenze è il metodo e l’ordine impiegati per la presentazione dei materiali. Le questioni e i testi presentati a loro commento sono organizzate in base a un preciso progetto culturale, che vede prima la riflessione intorno a Dio, poi quella sulle realtà immateriali e infine sull’uomo. Il metodo, poi, utilizzato è quello razionale e dialettico: il passo scritturale oscuro va compreso a partire dal confronto delle opinioni delle auctoritates, aprendo così la via a un’indagine razionale su quelle tematiche oggetto di dibattito. Questa nuova tipologia di testi ha il suo archetipo nel Libro delle Sentenze prodotto nella scuola di Anselmo di Laon (morto nel 1177), ma l’autore la cui opera di raccolta e confronto di materiali autoritativi ebbe un peso fondamentale nella storia del pensiero medievale è Pietro Lombardo (fine XI sec. – 1160). Formatosi a San Vittore Pietro Lombardo raccolse e Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella sistemò organicamente nei suoi Libri IV sententiarum (1142 – 1158) testi dei Padri e dei più illustri maestri medievali relativi a differenti questioni teologiche, sebbene egli citi anche opinioni di maestri a lui contemporanei. In questa operazione egli è influenzato dalla teologia del suo tempo come Abelardo, lo stesso Anselmo di Laon o Ugo di S. Vittore) Il primo libro tratta di Dio e della Trinità, il secondo della creazione del peccato e della grazia, il terzo tra le altre dell’Incarnazione, della redenzione e delle virtù teologali, il quarto infine dei sacramenti e dei misteri della fine dei tempi. Le Sentenze di Pietro Lombardo ebbero un’enorme importanza in quanto nel 1215 il Concilio Lateranense le approvò come libro di testo per lo studio nelle Facoltà Teologiche delle nascenti università. Come tali le Sentenze divennero la raccolta su cui si formarono e si esercitarono generazioni di pensatori medievali, visto che il loro commento era parte obbligata del percorso di formazione teologica (dopo lo studio delle arti liberali, la prima tappa del percorso di formazione teologica era proprio il commento alle Sentenze che permetteva di divenire baccellieri sentenziari) Questi linee di sviluppo speculativo e di indagine razionale, sostanzialmente nuove per i metodi impiegati e la corrispettiva teoria del rapporto tra Fede e Ragione, determineranno una profonda trasformazione nelle forme del sapere filosofico-teologico dell’epoca, rendendo possibili le successive evoluzioni del pensiero nell’epoca di mezzo. LA SCUOLA DI CHARTRES: TEOLOGIA, RAGIONE E NATURA NEL XII SECOLO La cosiddetta scuola di Chartres è una delle maggiori testimonianze della grande vivacità speculativa del XII secolo tanto in ambito teologico quanto in filosofico Connessa al percorso di rinnovamento culturale già in atto nell'XI secolo la scuola di Chartres può essere definita come un gruppo di maestri apparentabili tra loro per diversi fattori. Fra questi vanno ricordate ragioni: geografiche (tutti insegnarono o si formarono alla scuola legata alla cattedrale di Chartres, importante centro religioso distante un centinaio di chilometri da Parigi, e tematico, in quanto questi pensatori sono accomunabili per la presenza nelle loro opere di questioni filosofiche abbastanza omogenee. Per quanto riguarda l'aspetto contenutistico le fonti centrali per la speculazione dei maestri di Chartres possono essere individuate in: alcune dottrine propriamente platoniche, conosciute direttamente dall'unica opera di Platone accessibile al mondo medievale, ovvero il Timeo (il dialogo cosmologico, tradotto parzialmente nel V secolo in latino da Calcidio e in questa versione letto dagli autori a Chartres). alcune dottrine di Platone conosciute indirettamente, mediante frammenti presenti in altri autori antichi e tardo-antichi disponibili nelle biblioteche dell'epoca il complesso delle dottrine non propriamente platoniche ma neoplatoniche, attraverso gli autori che le hanno cristianizzate e diffuse nel mondo medievale: Agostino, Boezio e Dionigi, ma anche Macrobio con il suo commento al cosiddetto Somnium Scipionis (VI libro del De re publica di Cicerone) e lo stesso Calcidio. L'insegnamento di Boezio. Autore centrale per tutto il Medioevo, Boezio viene studiato in modo particolarmente dettagliato e con risultati di grande interesse da molti autori chartriani. In particolare la dottrina dell'essere che si può trovare in Boezio verrà ripresa da alcuni filosofi appartenenti a questa scuola. Unitamente a questa tradizione platonizzante l’insegnamento nella scuola di Chartres si fonda su altri elementi: Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella lo studio delle arti liberali, ovvero del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (matematica, geometria, astronomia e musica). Per tale motivo autore ampiamente studiato a Chartres è Marziano Capella con il suo De nuptiis Mercurii et Philologiae. Nella tradizione chartriana la grammatica fu oggetto di particolare attenzione e studio, con la composizione di commenti importanti (come quello su Prisciano opera di Guglielmo di Conches) e l'attenzione dedicata a Donato da parte di Teodorico di Chartres. La grammatica in questi autori viene analizzata nei suoi rapporti con la logica e per le indicazioni speculative che può fornire (valore del nome e attraverso di esso riflessione sulla struttura della realtà). Per queste ragioni si fa risalire all’insegnamento a Chartres la cosiddetta “grammatica speculativa” del XIV secolo lo studio della medicina (mediante autori che rendono disponibili i saperi arabi, come Costantino l’Africano) e della natura fisica, secondo un approccio razionale e attento all’indagine concreta. Fra tutti gli aspetti dottrinali l'attenzione riservata al Timeo platonico e l'interesse medico-”scientifico” rappresentano i tratti speculativi più caratterizzanti della scuola di Chartres. Quanto alle cause storico-culturali che possono spiegare la nascita di questa scuola si devono ricordare le trasformazioni sociali che a partire dall’XI secolo modificano l'assetto economico e culturale dell'Europa, ovvero la crescita dell’urbanizzazione e il conseguente aumento delle scuole connesse al tessuto cittadino. Chartres è una scuola cattedrale che nasce nel mutato panorama dell'economia dopo l’anno 1000. I MAESTRI DI CHARTRES: I NOMI E LE DOTTRINE I pensatori che si possono annoverare tra i maestri di Chartres sono tutti attivi in un arco temporale che va dai primi anni del 1100 al 1175 circa. Il primo fra gli autori chartriani nel quale si possono individuare molti degli elementi caratterizzanti la dottrina di questa scuola è Bernardo di Chartres (la cui data di morte si può collocare tra il 1124 e il 1136) Dopo le figure di Fulberto di Chartres e di Ivo di Chartres (il primo considerato il fondatore della scuola e il secondo, vescovo della città, fra i pensatori più originali legati alla scuola della cattedrale, attivi tra la fine del XI e l'inizio del XII secolo) Bernardo, infatti, è tra i pensatori di maggiore importanza per la ricostruzione della storia dello chartrismo. Il pensiero di Bernardo può essere riassunto in alcuni punti centrali: esponente del platonismo di Chartres Bernardo riprendeva da Calcidio la teoria delle formae nativae. Bernardo ritiene che le realtà materiali siano plasmate in conformità con il loro modello perfetto, identificabile con le Idee di Dio. Le singole cose, quindi, vengono all’essere perché le essenze ideali si uniscono alla materia, creando gli esseri appartenenti ai diversi generi e specie. Il paradigma formale che entra in rapporto con la materia, tuttavia, non è l'idea perfetta ma una sua immagine (forma nativa). Esiste così una sorta di gerarchia dei principi: Dio, le Idee perfette, le loro forme derivate, le cose concrete. in conformità con tale teoria in Bernardo poi è rinvenibile una teoria della derivazione paronimica tra termine astratto e termine concreto che definisce una gerarchia cosmica tra idee e cose. Paronimia è il rapporto che c'è tra due termini dei quali l’uno dipende dall'altro (come l'espressione “bianco” che può essere considerata derivante dall’espressione “bianchezza” o “grammatico” da “grammatica”). In questo tipo di rapporto, secondo Bernardo, si produce una subordinazione dell’espressione concreta rispetto a quella più astratta; nel caso di “bianco” e “bianchezza”, quindi, il primo termine è inferiore e dipendente dal secondo. Bernardo ordina così i termini in una gerarchia dove al vertice sta Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella l’espressione astratta nella sua semplicità (bianchezza: nozione astratta), al secondo posto l’azione che dal termine astratto prende significato (imbiancare: l'atto di rendere qualcosa bianco) e al gradino più basso vi è l’espressione determinata (bianco: l’accidente proprio solo di un corpo determinato). L’espressione che fonda il significato di tutte le altre è la prima, ovvero la più astratta (l'idea di bianchezza) e le altre acquisiscono il proprio valore semantico in relazione a questa. Tale teoria di natura grammaticale ha implicazione metafisiche: la forma pura è il principio dell'essere, mentre le realtà concrete dipendono da essa. La perfezione semantica e ontologica coincide così con l'astrattezza priva di materia. celebre, infine, è anche la dottrina metodologica che Bernardo formula in riferimento al rapporto tra sapienza antica e sapere nuovo. Bernardo attribuisce ai maestri del passato un ruolo centrale nella costruzione della conoscenza e riconosce a loro una acutezza speculativa che non è rinvenibile nel pensiero a lui contemporaneo; Bernardo li paragona a dei giganti. Il contributo che lo stesso Bernardo e i filosofi contemporanei possono dare alla crescita del sapere, quindi, è minimo, tanto che egli descrive sé e gli altri autori come dei nani. Ciononostante anche il piccolo apporto che da questi “nani” può derivare al sapere ha comunque un valore: sedendosi sulle spalle dei giganti passati, ovvero riprendendo e studiando le verità che la filosofia passata ha scoperto, i nani possono vedere qualcosa di nuovo, cioè sviluppare le precedenti dottrine in modo inedito. Bernardo in qualità di insegnante a Chartres formò anche la successiva generazione di pensatori legati a questa scuola. Fra gli studiosi che si formarono sotto la sua guida il più complesso e interessante è Gilberto Porreta (o Porretano, conosciuto anche come Gilberte de la Porreé). Porreta (1076 – 1152) è autore in particolare di una serie di commenti agli opuscoli sacri di Boezio (fra cui di grande importanza sono quelli al De Trinitate e al De hebdomadibus) dai quali si può ricostruire la sua filosofia. Alcuni aspetti particolarmente complessi e radicali della sua filosofia vennero condannati al concilio di Reims nel 1148. Gli aspetti centrali della filosofia di Porreta, tutti elementi di una organica teoria dell'essere e dell'esistenza delle cose, possono essere individuati in: distinzione tra id quod est e quo est. I due termini, ripresi dal De Hebdomadibus boeziano, indicano rispettivamente la realtà concreta esistente (il singolo uomo) e il principio che lo fa essere; tale principio si deve identificare con la realtà che fa sì che l'uomo esista come uomo, ovvero la sua forma. In questo modo la dicotomia tra quo est e id quod est può essere ricondotta a quella tra l'essere formale puro che ha la capacità di portare all'esistenza le cose e la realtà concreta, caratterizzata dalla materia, che dipende dal quo est. In Dio, secondo Gilberto, quo est e id quod est coincidono; le cose create, invece, non sono ciò che sono, in quanto in esse c'è anche “altro” rispetto alla pura forma. distinzione tra sostanza (substantia), sussistenza (subsistentia) e sussistente (subsistens), che in parte si sovrappone alla precedente dottrina. Gilberto definisce la sostanza (substantia) sia 1) come ciò che esiste veramente sia 2) come ciò che può avere degli accidenti (i quali possono esistere solamente unitamente a una sostanza). In questo secondo senso sostanze sono unicamente le realtà dotate di materia (id quod est), perché solamente ciò che ha corpo e materia può avere accidenti. La sussistenza (subsistentia), invece, è la forma che fa essere una certa realtà, in questo senso simile al quo est. Pertanto la sussistenza è vera sostanza perché esiste perfettamente, ma non è sostanza quale sostrato degli accidenti. Il sussistente (subsistens) è la realtà concreta (id quod est) che esiste in virtù della sussistenza e può far esistere gli accidenti (agendo così come sostanza). la teoria dell'esistenza del concreto. Le precedenti teorie permettono a Gilberto di spiegare l'esistere delle cose materiali. Poiché l'esistenza è data dalla forma (quo est, sussistenza) ciascuna realtà esiste in virtù dei suoi elementi formali o eidetici; l'uomo ad esempio esiste in quanto ha in sé l'essenza dell'uomo, ovvero la sussistenza dell'umanità (humanitas). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Gilberto applica questo principio metafisico a ogni elemento che può essere individuato all'interno della realtà materiale. Il corpo, infatti, non è solo la materia che si unisce alla forma per produrre il sussistente come cosa concreta, ma a sua volta è dato da una materia e da quella forma che organizza la materia stessa per creare proprio il corpo umano (e non il corpo di un altro animale o di una realtà inorganica); anche il corpo, quindi, possiede una sussistenza, ovvero la corporeità. Il medesimo ragionamento può essere applicato potenzialmente a tutti gli elementi che contribuiscono a portare all'esistenza una certa realtà (non solo anima e corpo, ma anche gli aspetti accidentali come colore e dimensioni) conducendo a spiegare le cose concrete come una concretio (unione) di più elementi formali (l'umanità, la corporeità, etc.) quali veri responsabili dell'essere della realtà stessa. la teoria della materia. Gilberto completa questa dottrina distinguendo tre principi fondamentali dell'essere: l'essenza (ousia) di Dio, le idee delle cose sensibili e la materia. La prima è essere (esse) perfetto, nel quale non si distingue materia e forma (Dio è puro quo est ed essenza, ovvero sola divinitas quale forma che permette a Dio di essere Dio). Questa essenza crea le Idee delle realtà sensibili; non saranno queste però ad unirsi alla materia, ma delle loro copie (formae nativae), secondo la dottrina già di Bernardo. L'unione tra tali forme e la materia produce la singola realtà. La materia stessa, tuttavia, è data da sussistenze, in quanto ogni sostrato materiale è composto dai quattro elementi materiali primi, ovvero acqua, aria, terra e fuoco e questi elementi sensibili a loro volta esistono in quanto possiedono la forma loro corrispondente (la forma dell'acqua, dell'aria, della terra e del fuoco); in questo modo, in omaggio al principio della sussistenza, la radice della materia è un dato eidetico e formale. Bisogna ricordare, infine, che tradizionalmente la storiografia filosofica ha attribuito a Gilberto Porreta la composizione di un opera di logica, il Liber sex principiorum (Libro dei sei princìpi), il quale ha avuto grande successo lungo tutto il Medioevo, diventando uno dei testi fondamentali per lo studio della logica sino all'epoca moderna. L'opuscolo si occupa dell'analisi delle sei categorie minori (di qui il titolo dell'opera) che Aristotele non tratta approfonditamente nelle Categorie (questa è anche la ragione del successo dello scritto che veniva percepito come strumento capace di colmare una lacuna dell'Organon dello Stagirita). L'opera si apre con una riflessione sul concetto di forma la quale viene definita come “ciò che consistendo di una essenza semplice e invariabile si unisce al composto in modo del tutto contingente”; continua analizzando le diverse categorie a partire da quella di azione; si conclude con una riflessione sulle nozione di maggiore e minore nonché sul modo più corretto di spiegare logicamente tali concetti. La più recente critica ha dimostrato che l'opera non è quasi sicuramente di Porreta e che in alcune parti, in particolare nella riflessione sul magis et minus, mostra punti di contatto con Abelardo e la sua scuola. Teodorico di Chartres (morto dopo il 1155), si formò anch'egli a Chartres. La lasciò per insegnare a Parigi (intorno al 1134) e tornò alla scuola della Cattedrale nel 1141, per divenire cancelliere a Chartres nel 1142 (prendendo il posto di Gilberto Porreta). La sua dottrina si caratterizza per uno studio attento delle arti liberali, carattere tipico della scuola di Chartres, e per una complessa teologia sviluppata mediante dottrine matematiche: Heptateuchon e dottrina delle arti liberali. Teodorico afferma esplicitamente di seguire il modello della conoscenza offerto dalle sette arti liberali, a cui dedica un intero scritto, l'Heptateuchon appunto, ovvero i Sette libri (riferimento alle discipline del trivio e del quadrivio e al Pentateuco, i cinque libri fondamentali della Rivelazione veterotestamentaria). Teodorico redige in questo modo un'esposizione coerente delle arti liberali, organizzando i materiali su queste discipline che erano stati prima di lui sviluppati (Teodorico dichiara esplicitamente che il suo compito in quell'opera è solo fornire un'introduzione organica a dottrine già elaborate). Importanti in quest'opera sono in particolare le dottrine astronomiche e geometriche, che Teodorico riprende da molti autori Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella tardo-antichi (Igino, Tolomeo, Gerberto, Columella, Garlando) e le dottrine logiche; nella sua teoria dialettica Teodorico prosegue nel recupero di testi aristotelici poco studiati sino ad allora come i Primi Analitici e le Confutazioni sofistiche. la dottrina matematica della creazione del mondo. Teodorico identifica il principio metafisico creatore nell'unità; l'unitas è ciò per cui ogni cosa che esiste viene all'essere e come tale rappresenta il divino. Di contro all'unità il numero appare come dimensione del divenire e, quindi, delle realtà create, in quanto i numeri sono addizionabili e sottraibili nella loro sequenza infinita. L'unità è causa e forma essendi delle cose, soggette alle regole matematiche dei numeri. L'atto creatore divino si compie mediante l'operazione matematica della moltiplicazione. Teodorico distingue la moltiplicazione dello “stesso per lo stesso” (quando uno stesso numero è moltiplicato per se stesso) e dello “stesso per l'altro” (quando si ottiene il prodotto di due numeri diversi). La creazione divina si compie secondo il secondo tipo di moltiplicazione, che produce differenza e l'infinità dei numeri, simbolo della potenza del Creatore e atto fondativo del reale. La moltiplicazione del primo tipo (“stesso per lo stesso”) applicata all'unità divina, unitamente al principio per cui ogni cosa tende a porsi in uguaglianza con se stessa (ogni cosa è unità perché deriva da Dio e, quindi, è una con se stessa, ovvero identica a sé), spiega la generazione della Trinità. Nell'operazione 1 X 1 = 1, diviene manifesto come Padre e Figlio abbiano la stessa natura (alla quale si fa riferimento nell'identità delle cifre della moltiplicazione), benché siano distinte in quanto due persone (alle quali si rinvia nella stessa duplicazione dell'unità nei due termini della moltiplicazione); il rapporto tra le due unità che si scoprono uguali per la loro natura (introdotto dal segno di uguaglianza nel prodotto 1 X 1 = 1), invece, rimanda alla terza unità che è lo Spirito Santo. lettura in conformità con la dottrina fisica del Genesi. Nel Tractatus de sex dierum operibus Teodorico cerca di rinvenire dietro il racconto della creazione del mondo offerto dal libro della Genesi una serie di verità razionali fisiche o di filosofia della natura. Al tempo stesso Teodorico afferma, nel Prologo dello scritto, di non voler prendere in considerazione nessun insegnamento morale presente nel testo sacro in questione. In questo modo Teodorico ravvisa nell'affermazione biblica per cui “Dio creò il cielo e la terra” un riferimento ai quattro elementi, i due più pesanti (a cui fa riferimento l'espressione “terra”), ovvero terra e acqua, e i due più leggeri (“il cielo”) identificabili nell'aria e nel fuoco. Teodorico ritiene poi che il fuoco, quale ultimo elemento che circonda l'universo, possa muoversi solo in modo rotatorio (il moto è conseguenza della sua estrema leggerezza). Questo movimento dell'elemento igneo produce la rotazione degli altri elementi e dell'intero universo. Il fuoco è poi responsabile della comunicazione del calore all'acqua e alla terra, con la corrispondente evaporazione di parte dell'acqua stessa, l'emersione di alcune parti della terra e la nascita delle prime specie vegetali e poi degli animali sino all'uomo grazie all'intervento del calore degli astri. L'acqua trasformata in vapore sale superando l'aria e generando le nubi (fatto al quale il Genesi fa riferimento parlando del firmamento posto da Dio a dividere le acque dalle acque, in medio acquarum). La condensazione di questo vapore genera poi le stelle e gli astri. Questi eventi si compiono nell'arco dei sei giorni, ovvero di sei rivoluzioni del cielo mosso dal fuoco. Il settimo giorno, indicato nella Scrittura come il riposo di Dio, deve essere spiegato fisicamente come l'autonomo processo della natura secondo l'interazione delle forze prima create o come il dispiegarsi di un principio formale potenziale (ratio seminalis) che Dio stesso ha posto nella natura durante i sei giorni. Guglielmo di Conches (circa 1080 circa – morto dopo il 1154) è considerato come la figura che riassume in modo più chiaro la fisionomia dell'intellettuale chartriano. Guglielmo è allievo di Bernardo di Chartres e insegnante a Parigi e a Chartres negli anni '40 del XII secolo; tra il 1444 e il Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella 1449 si trova alla corte di Goffredo il Bello Plantageneto che è suo protettore. A Guglielmo si possono attribuire un commento al Timeo, uno al De nuptiis di Marziano Capella, uno all'opera di Macrobio sul Somnium Scipionis e uno alla Consolatio philosophiae di Boezio (unico autore che ha lasciato opere su tutti questi scritti, centrali per la formazione del pensiero chartriano). La dottrina di Guglielmo si caratterizza per: un dottrina della materia. Come altri pensatori di Chartres impegnati a riflettere sul Timeo, Guglielmo si sofferma in particolare a riflettere sulla materia e la sua origine. Nel dialogo platonico, la materia, principio che rende possibile il mutamento e il reciproco trasformarsi degli elementi gli uni negli altri, è indipendente dal Demiurgo e a lui coeterna. Nella tradizione dogmatica cristiana, invece, la materia deve essere intesa come prodotta essa stessa da Dio nella sua creazione del mondo ex nihilo. Guglielmo sostiene la posizione cristiana, cercando di conciliarla con la lettera del testo platonico e affrontando anche altri problemi esegetici, in particolare la divergenza tra lo stesso Platone che sembra attribuire un carattere negativo alla materia (in quanto priva di forma) e la Bibbia che facendo della materia un prodotto del volere di Dio non può che ritenerla buona. Queste tematiche ritornano sia nella Philosophia, opera sistematica giovanile, nel suo Dragmaticon, testo strutturato come un dialogo in cui Guglielmo rivede alcune sue precedenti dottrine, e nelle Glossae, ovvero nel commento al Timeo di Platone. dottrina degli elementi. Guglielmo, nello sforzo di spiegare ogni realtà naturale con la sola ragione, come in Teodorico, riconduce ogni evento fisico ai quattro elementi primi (acqua, aria, terra e fuoco). Questi elementi sono a loro volta composti da particelle ancora più piccole, che Guglielmo chiama elementatum; esse sono i costituenti primi di ogni corpo, semplici per la qualità e minimi per la quantità. Acqua, aria, terra e fuoco hanno qualità che li portano a disporsi secondo un ordine. Le leggi che governano gli elementi e in particolare il principio per cui il simile agisce sul simile (norma fondamentale della natura) permettono di spiegare ogni cosa senza far riferimento all'intervento di Dio. Tale attenzione per la natura e la sua spiegazione indipendente da elementi dogmatici o autoritativi, fondata sulla pura ragione caratterizza, quindi, numerosi autori chartriani a partire da Adelardo di Bath (1070 – 1160), autore legato alla prima fase di Chartres. Adelardo tra il 1108 e il 1116 scrive le Questioni naturali in cui ribadisce la necessità di una libera ricerca razionale della natura. Adelardo sottolinea come tutti abbiano avuto la ragione da Dio e tutti abbiano il diritto e il dovere di usarla. Adelardo deve poi essere ricordato perché nel suo interesse per un nuovo approccio filosofico compie numerosi viaggi nel Sud del Mediterraneo (sarà anche in Siria e in Palestina) per apprendere l'arabo e tradurre testi scientifici da questa lingua, tra cui gli Elementi di Euclide. un'attenzione alle questioni naturali e alle dottrine mediche. L'interesse per la riflessione fisica e per lo studio della natura che compare in Teodorico di Chartres ed è proprio della cultura del XII secolo è presente anche in Guglielmo. Il filosofo di Conches, infatti, espone nei suoi testi alcune dottrine mediche, fondate principalmente sulla teoria degli umori di Ippocrate (medico greco del V-IV secolo a. C.) secondo la quale la salute nell'uomo dipende dal giusto rapporto tra quattro umori (bile gialla, bile nera, flegma e sangue) i quali sono caratterizzati da differenti coppie di qualità (ad esempio il sangue è caldo e umido, mentre il flegma è freddo e umido) e sono responsabili di particolari stati emotivi nell'uomo (il carattere sanguigno, impulsivo e pieno di energia, è dovuto a un eccesso di sangue, il carattere flemmatico, più meditativo e incline alla pigrizia, è determinato da un eccesso di flegma). La conoscenza di queste teorie in Guglielmo è dovuta alla lettura di alcuni autori dell'XI secolo, come Costantino l'Africano, attivo a Salerno intorno alla fine del 1000 e traduttore dall'arabo di molte fondamentali opere mediche (disciplina in cui nel mondo musulmano erano stati condotti studi importanti). dottrina dell'integumentum. Con il termine integumentum, in latino “rivestimento” o Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella “maschera”, si intende la pratica di nascondere (e la conseguente necessità per colui che legge di disvelare) un messaggio o dottrina dietro a un racconto che ha in apparenza altro significato; l'integumentum, quindi, è la narrazione allegorica o mitica di una verità filosofica. La pratica di lettura allegorica dei testi e in particolare della Scrittura era presente in molti autori chartriani e la si ritrova utilizzata in modo sistematico da Guglielmo. Il ricorso all'integumentum è considerato da Guglielmo necessario in due occasioni: 1) per nascondere una verità complessa o difficile da spiegare al di sotto di un racconto mitico (come accadeva già in Platone) o 2) per spiegare un passaggio, scritturale o di un autore antico, il cui senso letterale è in contraddizione con un dogma o con una verità precedentemente scoperta. Giovanni di Salisbury (circa 1110 – circa 1175) rappresenta uno degli ultimi autori legati alla scuola di Chartres; altri pensatori che pure si sono formati in quest'ambiente, come Alano di Lilla e Nicola d'Amiens, svilupperanno poi una filosofia che non può essere direttamente riportata ai caratteri dello chartrismo. Nato in Inghilterra tra il 1115 e il 1120, Giovanni si formò a Parigi e a Chartres. Ritornato in patria ebbe incarichi politici, prima come segretario di Thomas Becket e poi un'altra volta in Francia come vescovo di Chartres. Giovanni ricostruisce nel suo Metalogicon (1175) la storia e le dottrine dei maestri di Chartres che ricorda con entusiasmo (dobbiamo a lui notizie importanti su Bernardo di Chartres). Due sono le teorie centrali di Giovanni: scetticismo filosofico. Giovanni segue la dottrina filosofica fatta propria da Cicerone, ovvero la posizione degli accademici. Con questo termine si intende gli appartenenti all'Accademia platonica nel suo cosiddetto periodo medio (cfr. Carneade di Cirene 214 a.C. – 129 a.C) quando l'orientamento della scuola era di tipo scettico, con dottrine che sostenevano l'impossibilità di ottenere una conoscenza certa del reale. Giovanni si ispira all'ideale culturale di Cicerone e di Quintiliano che prevede la formazione del retore come uomo colto e giusto ma anche capace di esprimere con abilità retorica le proprie convinzioni. La formazione filosofica di colui che segue tale ideale umano ciceroniano è data dalla dottrina degli accademici; questa afferma che la conoscenza umana consiste solo di opinioni probabili. La difficoltà umana di conoscere una verità stabile su molte questioni estremamente complicate consiglia all'uomo di limitarsi al sapere sicuro che la percezione sensibile e la fede religiosa (per vie opposte) permettono di attingere. Al di là di questo sapere l'uomo si deve accontentare di soluzioni puramente probabili e, quindi, non deve assumere una posizione dottrinale definitiva. Questa sospensione del giudizio è il prodotto di una lunga ricerca e, quindi, non porta a una rinuncia al conoscere bensì si fonda su un ampia indagine di tutte le posizioni possibili. Proprio la capacità di confrontare varie teorie e di scoprire per tutte il loro carattere puramente probabile porta all'astenersi dall'asserire la verità di una e la falsità delle altre. teoria dell'agostinismo politico. In qualità di uomo politico e vescovo Giovanni dedica alla politica un'attenzione assente negli altri pensatori chartriani. Egli sostiene nel suo Policraticus che il potere politico deve essere esercitato in conformità della legge divina della quale la Chiesa è interprete. Nella misura in cui l'uomo politico non rispetti tale norma etica e agisca come un tiranno perde la sua condizione e può essere messo a morte. Il potere politico, quindi, dipende da quello religioso e non ha un'autorità autonoma. LE ALTRE VOCI DEL XII SECOLO: ALANO DI LILLA, NICOLA DI AMIENS E IL LIBER XXIV PHILOSOPHORUM Il platonismo di Chartres e le fonti antiche che lo avevano reso possibile furono in grado di Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella esercitare una certa influenza su diversi altri pensatori. In diversi autori e testi del XII secolo è possibile rinvenire tracce della filosofia platonica che è propria di Chartres e che la stessa tradizione chartriana aveva contribuito a rielaborare in modo originale. Ciononostante non è possibile considerare queste espressioni della ricerca speculative del ’100 come propriamente appartenenti alla scuola di Chartres; i temi e gli esiti teoretici di tali espressioni, infatti, possiedono una propria originalità irriducibile completamente alla linea speculativa chartriana, sebbene vi siano tra questi e quella alcune analogie e delle radici comuni. La voce più significativa di queste nuove esperienze speculative ispirate alle radici platoniche è sicuramente quella di Alano di Lilla (1117 circa – 1203 circa). Alano di Lilla, infatti, fu fortemente influenzato dal pensiero chartriano in generale e da quello di Gilberto Porreta in particolare, ma sviluppa in modo inedito gli spunti teorici che gli provengono dalle sue fonti. La dottrina di Alano di Lilla può essere ricostruita secondo queste linee fondamentali: lotta all’eresia. Alano dedicò grande attenzione alla lotta contro le forme di eresia, tra le quali egli poneva anche ebraismo e islamismo. Le forme di dottrina cristiana non ortodossa, in particolare i Valdesi (seguaci di Pietro Valdo che nel XII secolo predicava una riforma della Chiesa) e gli Albigesi (seguaci francesi, residenti in Provenza in particolare presso la città di Albi, dell’eresia catara, che riprendeva il dualismo manicheo tra un Principio buono, creatore delle realtà spirituali, e uno cattivo, signore della realtà temporale-carnale; sterminati nella crociata contro di loro indetta da Innocenzo III nel 1208), vengono attaccate da Alano mediante argomenti razionali, in quanto solo la ragione è elemento comune tra il cristiano e coloro che negano la vera Fede. metodo assiomatico in teologica. La ricerca di un’esposizione razionale e intelligibile, anche per i non credenti, della verità cristiana, che ne dimostri l’intima coerenza e correttezza, conduce Alano di Lilla a sviluppare un metodo teologico improntato al massimo rigore. Tale teologia consiste nell’applicare all’indagine su Dio e sulla Verità il metodo proprio della geometria che procede dando assiomi e definizione e poi deducendone razionalmente, come loro conseguenze, i teoremi. Nell’impiegare questa metodologia Alano è influenzato da Boezio, il cui De hedbomadibus aveva la stessa impostazione, e dal Liber de causis, consistente in una parte della Elementatio theologica di Proclo (412 d. C. – 485 d. C.) (circolata a lungo nel Medioevo sotto il nome di Aristotele) che può essere considerata uno dei modelli tardo-antichi per questa modalità di ricerca speculativa. Nelle Regulae o Maximae de sacra theologia Alano di Lilla, quindi, procede dando alcuni assiomi teologici per dedurre da esse tutte le verità possibili; la prima di tali asserzioni è quella che individua nella monade, ovvero nell’Uno come principio di identità, la causa per cui ogni cosa esiste come unità. In questo modo Alano pone l’Uno come origine di ogni cosa e l’unità come radice dell’essere di ogni creatura. Questa Monade-Dio sarà allora anche semplice e, quindi, priva di materia (sempre legata alla molteplicità). insufficienza del linguaggio umano in teologia. La semplicità del divino è la ragione per quale Alano ritiene che il linguaggio umano sia incapace di parlare adeguatamente di Dio. Le parole umane sono state create per significare le cose concrete le quali sono sempre unione di materia e forma e infatti indicano la sostanza e la qualità. Dio essendo unità, senza materia, pura forma che causa ogni realtà (detta per questo da Alano formalissima) non potrà essere descritto adeguatamente dal linguaggio umano; questo linguaggio avrà allora un valore metaforico, e sarà più efficace nella negazione (rimuovendo da Dio attributi che sono pensabili solo nei termini della composizione di materia e forma). la visione della realtà naturale. Nel De planctu naturae Alano descrive la Natura in lacrime per il comportamento dell’uomo che nel suo agire non rispetta lo stesso ordine naturale. Qui Alano, quindi, presenta la Natura come causa dell’essere delle cose e principio di ordine, bellezza, armonia per le realtà stesse. Si tratta di una visione che collega la Natura a Dio e Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella all’ordine universale, concependola non quale realtà autonoma ma come riflessoconcretizzazione della Legge, anche morale, del Creatore. La struttura assiomatica e la medesima concezione di Dio, pensato in termini platonici come Uno o Monade è presente anche nel Liber XXIV philosophorum. Quest’opera, considerata espressione della cultura ermetica (un insieme di testi, tra cui il Corpus hermeticum e l'Asclepio, e dottrine di matrice neoplatonico-gnostica influenzati anche da culti egizi come quelli del dio Toth) probabilmente fu composta a metà del XII secolo. La dottrina più importante del Liber è quella contenuta nella seconda regola o definizione proposta dal testo stesso: Dio è una monade il cui centro è ovunque e la sua circonferenza in nessun luogo. Questa definizione di Dio, che lo stesso Alano di Lilla riprende nelle sue Maximae de sacra theologia ripropone l’idea di Dio come Unità-Semplicità assoluta, proprie del concetto di “monade”, e come causa dell’universo. Dio produce il Tutto come Monade semplicissima e senza perdere la propria natura; per questa ragione quale causa ineffabile e inestesa (vedi “punto”) Egli è ovunque, ma nessuna creatura lo può comprendere o rappresentare (vedi “circonferenza”). Il metodo assiomatico in teologia nel XII secolo sarà ripreso anche da Nicola di Amiens, probabilmente autore di un Ars catholicae fidei un tempo attribuito ad Alano di Lilla. CRONOLOGIA - All’incirca nel 987 Fulberto giunge a Chartres. Sotto la sua attività la scuola della cattedrale acquisisce grande notorietà tanto che può essere considerato il fondatore della tradizione chartriana. - Nel 1114 Bernardo comincia la sua attività di docente a Chartres: la sua opera sarà centrale per la formazione delle successive generazioni di maestri - Intorno al 1117 (ma la data esatta non è conosciuta) nasce Alano di Lilla. - Intorno al 1120 Adelardo di Bath traduce in latino dall’arabo gli Elementi di Euclide, riassumendo bene quell’interesse scientifico e quella indipendenza della ricerca razionale propria della scuola di Chartres. - Dal 1121 Teodorico è attivo alla scuola di Chartres come maestro - Nel 1148 Gilberto Porreta compare di fronte al concilio di Reims per difendersi dalle accuse di eterodossia mosse contro alcune sue tesi. Principale responsabile dell’accusa è Bernardo di Chiaravalle: il conflitto tra i due riassume bene l’opposizione tra una teologia sviluppata nel dialogo con le più avanzate posizioni filosofiche (Porreta) e una teologia ispirata alla tradizione passata, con la meditazione della Parola e l’utilizzo dei Padri della Chiesa (Bernardo) - Nel 1154 muore Guglielmo di Conches, una delle figure più rappresentative dello spirito chartriano - Nel 1176 Giovanni di Salisbury diviene vescovo di Chartres: la sua testimonianza permette di ricostruire l’ambiente culturale e la storia della scuola - Nel 1179 Alano partecipa al Concilio Lateranense - Nel 1202 muore a Citeaux Alano di Lilla dopo essere entrato nell’ordine cistercense ABELARDO, TRA DIALETTICA E TEOLOGIA La vita di Abelardo è ricca di eventi e di fatti, spesso alquanto avventurosi, e ha contribuito ad accrescere nei secoli la sua fama. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella È lo stesso Abelardo a narrare molte circostanze della sua biografia in una lettera, conosciuta con il titolo Historia calamitatum mearum (Storia delle mie disgrazie). Abelardo nasce a Pallet in Bretagna nel 1079. Figlio di un nobile francese, Berengario, Abelardo ricevette da subito una buona educazione che stimolò in lui un desiderio di conoscenza e sapere. La sua formazione si compì sotto la guida prima di Roscellino, maestro di logica, e poi di Guglielmo di Champeaux nella scuola cattedrale di Notre-Dame, che quest’ultimo dirigeva a Parigi; Abelardo diede prova del suo temperamento e della sua capacità teoretica, attaccando duramente entrambi i suoi maestri e dimostrando l’insostenibilità delle loro posizioni. La sua vita sarà poi caratterizzata da continui spostamenti e costanti conflitti. Dopo aver studiato teologia con Anselmo di Laon, a partire dal 1113-1114 diviene maestro nella scuola cattedrale di Notre-Dame e il suo insegnamento riscuote un grandissimo successo. In questo periodo incontra e si innamora di Eloisa, ma lo scandalo che segue all’opposizione della famiglia della ragazza al rapporto (Abelardo verrà rapito ed evirato dai famigliari di Eloisa) lo costringe a ritirarsi nel monastero di Saint Denis. Il carteggio che i due si scambiano, in parte giunto sino a noi, è divenuto uno delle opere più note e lette del mondo medievale. Nel corso degli anni continua a spostarsi tra diversi centri monastici, assumendo anche la carica di abate, la scuola del Paracleto a Troyes (da lui stesso fondata) e la scuola di Sainte-Géneviève a Parigi (anche questa da lui fondata nel 1108, prima di diventare maestro a Notre-Dame), entrando pressoché ovunque in conflitto con le autorità e le comunità locali, ma continuando anche a riscuotere grande successo come docente. Abelardo morità nel monastero di Saint-Marcel-sur-Saône nel 1142. Il contributo di Abelardo è fondamentale soprattutto per quanto riguarda la logica e i suoi problemi, in particolare la questione degli universali. La posizione storiografica che definisce il XII secolo come un momento di rinascita, preparato dagli sviluppi della speculazione filosofica nel precedente periodo (con il contributo di teologici quali Anselmo d’Aosta), può essere considerata fondata sulla ricostruzione sia del pensiero chartriano sia della filosofia di Abelardo. Se, infatti, da Chartres provengono le più interessanti dottrine relative alle questioni metafisiche (con Gilberto Porreta) e fisiche (Adelardo di Bath e Guglielmo di Conches), Abelardo si presenta come il dialettico più originale della sua epoca. I contributi abelardiani alla storia della filosofia, tuttavia, riguardano anche altri ambiti disciplinari, in particolare la teologia e l’etica. Abelardo, infatti, compose trattati di teologia e di etica, destinati a suscitare un forte dibattito e a esercitare una certa influenza nei secoli successivi. In ambito teologico va ricordato, in particolare, il Sic et non, ovvero una raccolta di affermazioni, tratte prevalentemente dalle Scritture e dai Padri della Chiesa, che intorno a uno stesso problema (ad esempio: “È giusto che la fede sia rafforzata dalla ragione”) danno risposte tra loro contraddittorie (da qui il titolo dell’opera, ovvero Sì e no). L’opera, quindi, promuove nei confronti della Fede un atteggiamento fondato sul confronto e l’argomentazione di posizioni contrarie. Abelardo è stato per questa ragione visto come il pensatore che inaugura il periodo della libera e autonoma analisi intorno a ogni questione, contro qualsiasi dogmatismo, a partire dall’acquisita consapevolezza che la stessa Rivelazione non è sufficiente e coerente. In modo analogo ad Abelardo è stato attribuito il ruolo di primo critico dell’impianto ideologico medievale, fondato sull’equilibrio tra Fede e Razionalità . La critica ha più recentemente riconosciuto come eccessivi questi giudizi. Abelardo, infatti, non vuole distruggere la Rivelazione né affermare un diritto assoluto della razionalità su di Essa. Il Sic et non, piuttosto, ha il compito di: Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella insegnare a leggere bene i testi e a comprenderne il vero significato. Abelardo, infatti, pone come introduzione metodologica alla raccolta delle opinioni contrarie un prologo dove illustra le ragioni che possono produrre divergenze, puramente apparenti, tra affermazioni, come: errori di copiatura del testo, estrapolazioni dell’affermazione dal contesto, intenti ironici dell’autore o volontà di completezza storiografica dello stesso (per cui lo scrittore riporta opinioni scorrette/eretiche perché vuole fornire un quadro esaustivo della questione discussa) etc. insegnare a scegliere i testi più autorevoli. Se la contraddizione non viene risolta mediante il ricorso alle tecniche ermeneutiche illustrate, allora il lettore dovrà preferire l’autorità più affidabile e importante. Il Sic et non, allora, può essere considerato come uno dei primi esempi di un metodo teologico nuovo, nella quale la ragione e il confronto delle opinioni difformi intorno a una questione problematica hanno un ruolo centrale, ma sempre fondato sul primato del messaggio rivelato e volto alla sua difesa nonché alla sua più autentica comprensione. In questo modo al Sic et non si può far risalire il metodo della quaestio (appunto del “domandare”), che segnerà il progresso dell’indagine teologica nel XII secolo e il cui sviluppo porterà alle forme tipiche della ricerca filosofico-teologica scolastica del XIII secolo con la disputatio. In ambito etico Abelardo è autore di una Ethica sive Scite te ipsum (Etica o Conosci te stesso). In quest’opera Abelardo sostiene il primato dell’intenzione rispetto all’azione come elemento per decidere della natura peccaminosa (o virtuosa) della condotta umana: solo l’intenzione (intentio) che ispira l’azione e alla quale l’individuo dà il proprio assenso agendo è responsabile del valore etico dell’azione stessa. In questo modo, per Abelardo, se si fa il bene senza averne l’intenzione l’azione compiuta non può essere considerata realmente virtuosa. I critici hanno da tempo sottolineato il carattere innovativo della posizione abelardiana e hanno messo in luce sia l’originalità sia la modernità della sua dottrina etica. In questo modo la figura di Abelardo appare come quella di un autentico interprete e fautore della rinascita filosofica del XII secolo; il suo pensiero è segnato da rigore e innovazione tanto nell’ambito logico, quanto in quello teologico e morale. LA LOGICA DI ABELARDO La dottrina logica abelardiana più significativa è quella relativa al problema degli universali, risolto con la teoria dello status. Il problema degli universali rappresentava una questione logico-metafisica molto dibattuta e discussa nel pensiero medievale. Il problema consisteva di tre domande poste da Porfirio (originario di Tiro, 233/234 – 305 d. C., allievo di Plotino) nella sua Introduzione (Isagoge) alle Categoriae di Aristotele, ovvero 1) se i concetti universali (ovvero che si possono predicare di più realtà, come uomo o animale) esistano nella realtà o solo nel pensiero, 2) se, nel caso esistano nella realtà, siano corporei o incorporei e 3) se esistano solo insieme alle cose concrete o anche separatamente da esse. A queste tre domande numerosi autori medievali avevano dato sino al tempo di Abelardo (e continueranno a dare dopo il XII secolo) molteplici risposte, sebbene, come già visto, si possano distinguere due grandi scuole intorno a tale problematica: quella realista (gli universali hanno un’esistenza concreta, in genere incorporea e antecedente alle cose concrete) e quella nominalista (gli universali sono solo espressioni sonore, voces, voci). All’interno di questi due indirizzi dottrinali si possono poi individuare ulteriori sotto-divisioni e differenze. Tradizionalmente la posizione di Abelardo viene distinta sia da quella realista sia da quella nominalista e risulta a volte definita concettualista. Abelardo riesce a formulare questa nuova dottrina grazie a uno studio attento della logica aristotelica mediata soprattutto attraverso alcuni Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella scritti boeziani, che proprio dopo l’anno 1000 cominciano a essere riscoperti e studiati. Abelardo dimostra innanzitutto l’impossibilità della soluzione realista al problema degli universali, attaccando la dottrina di Guglielmo di Champeaux suo maestro di logica. Se generi e specie fossero essenze esistenti dovrebbero essere tutte intere in se stesse e intere ugualmente in ciascun individuo di cui è possibile predicarle; questo, tuttavia, appare impossibile, in quanto “uomo” come specie sarebbe un’essenza unica in se stessa ma anche presente senza frammentazione nelle singole realtà come Platone o Aristotele. Inoltre se il genere fosse un’essenza esistente dovrebbe essere presente nelle specie nelle quali si articola, con la conseguenza che il genere stesso parteciperebbe di caratteri contradditori; ad esempio, il medesimo genere “animale” sarebbe presente nella specie “uomo” e nella specie “cavallo” (visto che sono entrambi animali) e in questo modo “animale” dovrebbe essere al tempo stesso razionale (in quanto l’umanità partecipa dell’animalità) e irrazionale (in quanto il cavallo è privo di ragione). Abelardo, tuttavia, è contrario anche alla posizione nominalista. Questa dottrina riduce gli universali a emissioni sonore e voces, ma in questo modo viene perduto il loro valore di segni, strumenti che possono rimandare a molteplici realtà, con la conseguenza paradossale che in questo modo tale dottrina appare confondersi con il realismo; in quanto voces gli universali sono cose reali, dotate della concretezza (anche se piuttosto evanescente) del suono. Per Abelardo l’universale non può essere una res, una realtà; la natura stessa dell’universale come di termine che si predica di più realtà (la specie “uomo” è predicabile di più individui concreti) esclude che possa essere una cosa (logicamente le cose non si predicano di altre cose). L’universale, quindi, è semplicemente un termine che può essere utilizzato per descrivere o parlare di differenti cose concrete. La ragione per cui i termini universali possono con verità rimandare a molteplici individui è data dal fatto che gli universali fanno riferimento allo stato (status) in cui si trovano certi gruppi di realtà. Ciò significa che la specie “uomo” si predica in maniera autentica dei singoli individui concreti, come Socrate o Abelardo, perché entrambi condividono qualcosa, ovvero si trovano nella condizione o stato di esseri umani. Abelardo sottolinea che questo status non è un’essenza reale presente in entrambi gli individui, ma semplicemente l’insieme dei caratteri propri di una certa realtà, il suo modo di essere; sono questi caratteri e questo modo di essere a risultare comuni a più res. In questo modo l’universale è ridotto a un termine logico-semantico con un proprio significato. La creazione del termine universale e del suo significato (la sua inventio o institutio), come quella di ogni altra espressione, deriva da un’analisi della realtà e, quindi, ha un fondamento ontologico concreto. L’universale “istituito” grazie all’analisi della res e del suo status ha così un significato e una verità. È in questo modo possibile per Abelardo anche distinguere tra il semplice suono (la materia sonora di cui si costituisce il termine “uomo” quando lo si pronuncia) e il significato che quel suono veicola. Il procedimento attraverso il quale si coglie lo status della realtà, producendo il termine con il suo significato universale, per Abelardo è l’astrazione. Con questo termine si fa rifermento a una facoltà propria dell’anima dell’uomo che permette di distinguere elementi che esistono sempre uniti. Mediante l’astrazione si separa forma e materia, benché i due elementi esistano sempre congiunti. Poiché l’astrazione conserva solo alcuni dettagli della realtà conosciuta, facendo astrazione dagli elementi concreti e dai dettagli più precisi, l’universale che ne deriva sarà un concetto confuso rispetto alla vividezza del sapere intuitivo relativo alla cosa concreta. Questa conoscenza, quindi, è più vicina a una opinione, cioè a un sapere indeterminato. Solamente Dio che conosce con un atto semplice e immediato dell’intelletto tutti gli Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella individui che possono essere raccolti sotto una specie o un genere ha vere idee di tali individui; l’uomo che conosce solo attraverso i sensi e estrinsecamente le cose non ha di queste un sapere perfetto. TEOLOGIA ED ETICA IN ABELARDO La dottrina teologica di Abelardo si sviluppa in vari scritti, ovvero la Theologia Summi Boni, la Theologia christiana e la Theologia Scholarium, composte rispettivamente intorno al 111417, 1121-26 e 1133-1140. Queste tre opere sono considerate dagli studiosi come riprese e rielaborazioni di un unico progetto che Abelardo comincia a elaborare con la prima di esse (la Theologia Summi Boni), secondo una pratica propria di questo autore che riprende e rielabora più volte le proprie teorie o dottrine. In queste opere Abelardo si sforza di sviluppare una teoria teologica che sia il più possibile coerente. Al centro della sua riflessione vi è, come primo e fondamentale elemento dogmatico da approfondire, il mistero trinitario. Già nella Theologia Summi Boni, Abelardo asserisce che si deve affermare solo quello che si comprende e che non si può credere nulla senza averlo compreso. Questa affermazione non deve essere letta come l’asserzione di una fede sottomessa alla ragione; Abelardo vuole solo affermare che le formule teologiche devono avere un significato minimo comprensibile e devono essere non contraddittorie. In questo sforzo di definire un livello minimo di coerenza razionale delle verità teologiche, Abelardo distingue nella Trinità, la cui sostanza è realmente unica, tre nomi e tre cause: la Potenza, la Sapienza e la Bontà. La sostanza divina è trina in quanto caratterizzata da questi tre attributi. Dietro la spinta delle critiche e delle condanne teologiche Abelardo ribadirà che ciascun attributo è proprio di una delle persone trinitaria (Padre, Figlio e Spirito Santo). A partire dal 1121 e per circa dieci anni Abelardo lavora, invece, al Sic et non. Il testo, che come già detto consiste di una collazione di passi scritturali e dei Padri della Chiesa attestanti soluzioni opposte su un medesimo problema teologico, ha, oltre a rappresentare uno dei primi testimoni del metodo della quaestio, una duplice importanza: da un lato testimonia l’applicazione delle regole della ragione, innanzitutto della grammatica e della dialettica, allo studio della sacra pagina. Il testo va analizzato, per Abelardo, nelle sue strutture grammaticali per comprendere il significato e il valore dei termini, per identificare gli usi figurati del linguaggio, sino a ricostruire il contesto storico di appartenenza. dall’altro manifesta una certa volontà concordistica. L’intento di Abelardo, per quanto egli suggerisca che alla fine potrebbe essere necessario scegliere un passo e un autore rifiutando gli altri, è quello di superare la contraddizione tra le testimonianze sacre e riaffermare la sostanziale coerenza interna della Rivelazione e delle autorità più illustri. La teoria etica di Abelardo si basa, invece, sulla distinzione tra intenzione morale (intentio), risultato dell’azione morale (opus) e azione morale che può produrre un risultato (operatio). Abelardo cerca innanzitutto di definire cosa sia il peccato e per fare questo lo distingue subito dal vizio. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Il vizio è l’inclinazione ad agire male, ovvero a non astenersi da ciò da cui ci si dovrebbe astenere e a non fare ciò che invece si dovrebbe fare (il che significa, afferma Abelardo, disprezzare Dio). Come tale allora il vizio non è peccato. La semplice inclinazione o desiderio ad agire scorrettamente non è esso stesso un male. Il peccato consisterà allora nell’agire male intenzionalmente, ovvero con la precisa intenzione di acconsentire al vizio come desiderio di agire scorrettamente, con disprezzo per Dio e per i suoi comandamenti. Il peccato o la virtù, quindi, non risiedono nell’azione (operatio) e ancora meno nel suo risultato (opus). Un’azione è peccaminosa o virtuosa a seconda dell’intenzione che la anima; si può, infatti, commettere un delitto (un opus delittuoso) perché si è costretti (senza nessuna intenzione viziosa e, quindi, per Abelarado senza commettere peccato) o si può assumere un atteggiamento corretto (una operatio corretta) per ragioni scorrette (senza l’intenzione di fare il bene o per un calcolo utilitaristico personale). Per questo in Abelardo prodotto dell’azione non può avere un valore etico in sé. Se centrale per determinare la natura peccaminosa o virtuosa della condotta è l’intenzione, allora un uomo che agisce con intenzione retta, ma produce, per fatti o circostanze esterne indipendenti dalla sua volontà, un risultato negativo, non ha compiuto un peccato; analogamente, un’azione che ha un effetto (opus) buono può essere in sé cattiva se compiuta con intenzione peccaminosa. Il caso estremo che Abelardo prende in considerazione è quello di Giuda: tradendo Cristo egli ha contribuito all’opera redentrice e, quindi, l’opus (il prodotto) della sua operatio (della sua azione) è un bene (bonum), ma poiché l’ha fatto con un’intenzione negativa egli non ha agito positivamente. Per Abelardo, quindi, il peccato è solo contro la coscienza. Nell’Ethica abelardiana, infatti, c’è azione immorale solamente quando l’individuo, conoscendo ciò che è bene, assecondi la sua inclinazione viziosa intenzionalmente, preferendo scientemente il male. L’etica abelardiana, però, non è un’etica soggettivista. Se, infatti, l’intentio è centrale per il darsi o meno del peccato, colui che agisce in modo scorretto ma credendo in cuor suo di fare il bene avrebbe una intenzione buona e, quindi, la sua azione sarebbe giusta. Abelardo rifiuta questa conseguenza: l’intenzione è buona solamente se ciò che si decide di fare è non solo buono per colui che lo fa ma è oggettivamente buono ed è un bene autentico, ovvero conforme ai comandamenti che Dio ha dato. L’azione per essere buona deve essere conforme alle leggi di Dio. Anche per Abelardo, quindi, chi agisce contro questi leggi verrà punito con la dannazione. Nel caso in cui qualcuno agisca scorrettamente credendo di fare il bene, tuttavia, non c’è comunque peccato autentico per Abelardo. L’azione malvagia compiuta “in buona fede” è in sé negativa, ma non è un peccato, poiché il peccato risiede nell’intenzione dell’azione. Abelardo sostiene che anche coloro che hanno messo a morte Cristo, se lo hanno fatto con giusta intenzione non hanno peccato, per quanto l’azione in sé fosse malvagia; avrebbero, invece, peccato se, credendo che fosse giusto crocifiggere il Nazareno, non l’avessero fatto. La questione è ancora più complessa se si prende in considerazione, come fa Abelardo, il caso di quanti non conoscono o non hanno conosciuto il Vangelo e per questo agiscono (o agirono) contro i dettami divini; anche in questo caso l’ignoranza incolpevole evita il peccato, ma non l’azione malvagia. In Abelardo così il peccato dipende dall’intenzione di colui che agisce, ma esiste un Bene assoluto e colui che agisce contro questo Bene compie il male subendone le conseguenze. Come osserva uno studioso di Abelardo, Jean Jolivet, “l’intenzione cattiva condanna, mentre l’intenzione buona ma erronea non basta per discolparsi”. Le fondamenta di questa complessa etica nella quale l’intenzione e la libera ricerca razionale hanno Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella una grande importanza sono le medesime di un altro scritto abelardiano, Il Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano. Qui la fede cristiana è vista come una verità dimostrabile e sostenibile, dove l’autorità si integra con la ricerca razionale (a differenza del rigido legalismo della tradizione giudaica); per questo il cristiano e il filosofo possono discutere insieme di cosa sia il sommo bene in modo aperto e critico. In altri scritti, come la Theologia cristiana, Abelardo cerca di risolvere le difficoltà che discendono dalla sua teoria etica. Abelardo, infatti, ritiene che Dio abbia dato a tutti un qualche accesso alla Verità; gli Ebrei ebbero i profeti e i pagani i filosofi, i più sapienti dei quali intuirono le verità cristiane e insegnarono a vivere secondo la legge naturale. Chi non agisce in conformità con i comandamenti divini, quindi, può correttamente essere ritenuto moralmente responsabile delle proprie azioni. Nonostante queste precisazioni è possibile comunque rinvenire una certa tensione nel pensiero etico abelardiano, tra il primato dell’intentio e il richiamo a un Bene oggettivo. CRONOLOGIA - Abelardo nasce a Pallet in Bretagna nel 1079 - Si forma prima del 1108 presso Roscellino e Guglielmo di Champeaux - Nel 1108 allora presso il colle di Sainte-Géneviève, non distante da Parigi, apre una propria scuola di dialettica. In quegli stessi anni studia teologia presso Anselmo di Laon, entrando però anche in questo caso in conflitto con il suo maestro e alcuni condiscepoli. - Nel 1113 Abelardo ritorna a Parigi e riesce a divenire maestro a Notre-Dame (Guglielmo era divenuto vescovo di Châlons-sur-Marne). - In questo periodo Abelardo incontra e si innamora di Eloisa, nipote del canonico di Notre-Dame Fulberto, sua allieva. A causa di questo rapporto, non gradito a Fulberto, Abelardo viene aggredito, rapito dai famigliari della ragazza ed evirato. - A causa dello scandalo Abelardo si ritira nel 1118 nel monastero di Saint Denis mentre Eloisa entra nella comunità di Argenteuil. - Nel 1121 deve comparire presso il concilio di Soissons per difendersi dall’accusa di eresia rivoltagli a causa di alcune dottrine del suo De unitate et trinitate divina. In quegli stessi anni, in rotta anche con i monaci di Saint Denis si ritira in un luogo isolato presso Troyes, dove fonda una nuova scuola (intitolata al Paracleto). - Nel 1125 viene eletto abate del monastero di San Gilda; anche in questo caso si trova in disaccordo con i monaci e nel 1129 lascia il monastero per ritornare al Paracleto. - Abelardo tornerà poi a Parigi nel 1136 per dirigere la scuola di dialettica sul colle di Sainte-Géneviève. - Nel 1141 in un nuovo sinodo a Sens Bernardo di Chiaravalle ottiene la condanna delle sue dottrine. In viaggio per Roma dove voleva appellarsi direttamente al papa Abelardo andava per appellarsi viene condannato definitivamente dalla curia Vaticana mentre si trova a Cluny. Pietro il Venerabile di Cluny lo prende come proprio ospite e intercede per lui presso il papa. - Abelardo morirà come monaco cluniacense nel monastero di Saint-Marcel-sur-Saône nel 1142. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella L’ACCULTURAZIONE DELL’OCCIDENTE LATINO: TRANSLATIO STUDII E RISCOPERTA DI ARISTOTELE I testi e le fonti filosofiche che il mondo occidentale poteva utilizzare sino all’XI secolo erano estremamente ridotte e questo segnava negativamente la crescita culturale del mondo latino. I testi di studio e formazione a disposizione di uno studente che volesse essere istruito nelle discipline filosofiche intorno all’anno 1000 potevano essere indicati in un ristretto numero di titoli: le opere dei Padri della Chiesa. Gli scritti di argomento filosofico elaborati dai più illustri Padri e dai primi autori cristiani rappresentavano un patrimonio di dottrine dirette (spesso dipendenti dal pensiero neoplatonico) e di collaterali informazioni sulla precedente storia del pensiero (con riferimenti ad autori quali Cicerone, Quintiliano, Seneca e vaghe citazioni delle correnti speculative antiche ed ellenistiche) fondamentali per ogni individuo colto nell’epoca di mezzo. Nel mondo occidentale, per ragioni culturali e linguistiche, era conosciuta la tradizione patristica latina e al suo interno particolarmente i pensatori maggiormente importanti come Agostino, Ambrogio, Girolamo e Gregorio Magno; meno diffuso era lo studio dei Padri greci, fra i quali molto noto a partire dalla traduzione di Giovanni Eriugena era Dionigi Areopagita. i testi logici aristotelico-boeziani. Boezio esercitava un’influenza significativa sulla formazione filosofica medievale non solo grazie ai suoi trattati e opuscoli (dalla Consolazione della filosofia al De hebdomadibus), ma attraverso anche le sue traduzioni degli scritti logici aristotelici nonché i suoi commenti e i suoi testi dialettici originali. Sino all’XI secolo, tuttavia, la conoscenza logica del mondo medievale si limitava quasi universalmente alle Categoriae (affiancante dalle Categoriae decem) e al De interpretatione. enciclopedie. Le Institutiones di Cassiodoro e soprattutto le Etymologiae di Isidoro (riprese dagli analoghi scritti di Beda e di Rabano Mauro) rappresentavano una raccolta enciclopedica di saperi e dottrine essenziali per la formazione dello studioso. il Timeo. La traduzione parziale del dialogo platonico realizzata da Calcidio nel IV secolo rappresentava l’unico accesso diretto al pensiero originale di Platone. Il mondo medievale conosceva le dottrine platonico-neoplatoniche poi anche grazie (oltre che ad Agostino e Dionigi) a opere come il De mundo di Apuleio e il commento di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone. A partire dall’XI secolo il mondo latino comincia ad avvertire i limiti della propria “biblioteca” filosofica e a percepire il proprio ritardo speculativo rispetto sia al mondo bizantino, che aveva conservato la conoscenza delle maggiori opere antiche a partire dagli scritti di Platone e Aristotele, sia al mondo arabo. Già nel XII secolo si può assistere così a un movimento di ricerca, studio e traduzione degli scritti degli Antichi ad opera di pensatori latini. Questa attività fu a-sistematica, ovvero si sviluppò per la maggior parte dei casi senza un progetto generale e una preventiva pianificazione relativa alle opere o ai testi da recuperare, ma fu realizzata grazie all’iniziativa di singoli studiosi, coadiuvati da dotti di altre culture e lingue che rendevano possibile concretamente la traduzione delle opere cercate. L’esito di questa operazione non fu solo la possibilità di fruire delle opere antiche, ma la scoperta di scritti originali, arabi ed ebraici, di commento alle dottrine filosofiche pagane o contenenti inediti sistemi speculativi; anche questi scritti esercitarono una profonda influenza culturale sul Medioevo latino. Questa operazione continuò lungo tutto il XIII secolo ed ebbe conseguenze profondissime sulla Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella successiva storia ed evoluzione del pensiero medievale. La massiccia e rapida diffusione di un patrimonio di conoscenze erudite, di natura non solo filosofica, nel sistema culturale latino produsse una trasformazione del panorama speculativo occidentale e rivoluzionò modi, temi e forme della ricerca culturale. L’evento al quale in questa fase di riappropriazione del sapere antico può essere attribuito il maggior peso è l’introduzione dell’intero corpus aristotelico nel mondo occidentale. Tutte le opere logiche, gli scritti di metafisica, di psicologia e dottrina della conoscenza, i trattati etici, politici e di teoria dell’arte modificarono radicalmente la filosofia dell’epoca di mezzo ed ebbero un peso determinate per la nascita della scolastica e per le successive fasi della storia del pensiero occidentale LUOGHI E MODI DELL’ACCULTURAZIONE DELL’OCCIDENTE Il processo di traduzione del sapere antico si realizzò prevalentemente in quei luoghi dove per ragioni politiche l’incontro di culture e lingue diverse era più facile, ovvero Spagna e Sicilia. I dotti latini che erano interessati alla riscoperta del patrimonio di conoscenze antiche dovevano recarsi nei luoghi dove fosse possibile accedere a copie delle opere filosofiche che l’Occidente non possedeva e incontrare studiosi che potessero aiutarli nella traduzione (la conoscenza del greco, dell’ebraico e dell’arabo nel mondo medievale sino al XII secolo è molto limitata). I luoghi dove era possibile trovare sia vaste raccolte bibliografiche sia individui versati nelle lingue nelle quali le opere antiche risultavano conservate erano la Spagna araba e la Sicilia normannosveva. La cultura islamica diviene una delle forze che permisero la riscoperta delle opere antiche nel mondo latino in ragione della penetrazione della cultura filosofica greca nelle regioni mediorientali, confinanti con l’impero bizantino, poi conquistate nel corso del VII secolo d. C. dal potere islamico. L’Islam ereditò così testi e dottrine greche, venendone fortemente influenzato (vedi: Filosofia araba). Il mondo islamico, la cui nascita viene fatta risalire al 622 (data della Egira, la “fuga” di Maometto dalla Mecca a Medina), infatti, espande velocemente il suo dominio e arriva, alla metà dell'VIII secolo, a comprendere anche la Spagna, oltre a buona parte del Mediterraneo meridionale, i territori medio-orientali sino ai confini con il potere T’ang in Cina e le regioni atlantiche dell'Africa. L’inizio della colonizzazione della Spagna si può far risalire al 711 d. C., mentre l’arresto di questo movimento di espansione si ha nel 732 con la sconfitta islamica a Poitiers ad opera dei franchi. In conseguenza di questi fatti in buona parte della penisola iberica si creò un potere musulmano guidato da diverse etnie e dinastie (Almovaridi e Almohadi) a partire da quella Omayyade con l’emiro di Cordoba nella metà dell’VIII secolo d. C. Progressivamente il potere islamico si indebolì e si frammentò già nei primi anni dell’XI secolo; in questa condizione acquisirono forza sovrani cristiani, come Alfonso VI che nel 1085 riprese Toledo, iniziando il plurisecolare processo della reconquista. La Spagna, quindi, divenne luogo di incontro tra culture e tradizioni differenti. La storia della Sicilia, invece, fu almeno in parte più complessa. Conquistata da un potere islamico fatimide alla fine del X secolo d. C. (sebbene la penetrazione della cultura musulmana nell’isola non fu mai capillare come nel caso della Spagna), la Sicilia passò poi sotto il controllo normanno (1061 inizio della conquista da parte di Ruggero il Guiscardo, completata nel 1091). Città come Palermo, quindi, divennero luoghi segnati da molteplici culture nei quali venne favorito, anche dal potere normanno, il pluralismo e l’incontro di diverse tradizioni. Tale apertura rimase Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella anche nel passaggio della Sicilia al potere svevo con Federico II. Sono, quindi, le vicende socio-politiche tra VIII e XI secolo a rendere possibile, in Spagna e in Sicilia l’incontro culturale tra mondo islamico e cultura cristiana. Palermo e Toledo furono sicuramente i centri più importanti per l'incontro tra queste tradizioni: sia Ruggero II (1130 – 1154) che Federico II (1215 – 1250) promossero lo scambio culturale in Sicilia e nei territori normanni, mentre Alfonso X detto il Savio (1252 – 1284) sostenne in Castiglia la traduzione di molte opere dall’Arabo. Per analoghe ragioni anche il mondo bizantino rappresentò un luogo importante dove poter reperire testi filosofici non conosciuti nel mondo latino e trovare i mezzi per sopperire alle lacune nella preparazione linguistica dei pensatori occidentali. Bisanzio, infatti, aveva conservato per ragioni storiche e politiche testimonianze molto significative della filosofia greca e là potevano essere rinvenute copie di opere antiche, come quelle di Platone e di Aristotele. L’accesso ai repertori di testi speculativi conservati in città dell’Impero d’Oriente come Bisanzio era possibile a dotti latini che decidevano di risiedere in quei luoghi per motivi di studio e a studiosi che vi giungevano per ragioni politiche, ad esempio quali ambasciatori di regni e stati occidentali. La scoperta e l’utilizzo delle risorse librarie costantinopolitane fu favorita anche, per un certo periodo, dalla creazione dell’Impero latino d’Oriente (1204 – 1261), realtà politica formatasi a seguito dell’attacco e della deposizione del basileus bizantino da parte di forze veneziane-franche che si erano fermate a Bisanzio nel viaggio per la Terra Santa dove si stavano dirigendo per la IV crociata. L’impero latino d’Oriente, quindi, si costituì con l’affermazione del dominio di potenze occidentali sul mondo bizantino e consentì, per questo, a tali forze il controllo delle ricchezze, materiali e culturali, di quella realtà. In modo consimile anche la creazione di regni cristiani in Medio Oriente a seguito dei successi di alcune crociate, favorì l’accesso ad alcuni testi antichi e ad alcuni esempi dell’originale riflessione filosofica sviluppatasi in quelle aree. Va ricordato infine che ben presto si avviò un processo di acquisizione e trasferimento dei testi stessi dai luoghi in cui erano reperibili verso centri culturali europei. La circolazione delle opere originali da tradurre e studiare rese quegli stessi scritti più facilmente conoscibili da un maggior numero di persone, incentivando la formazione di gruppi di traduttori e specialisti che diedero ulteriore slancio al recupero del sapere antico. TRADUTTORI E TESTI: LA NUOVA FISIONOMIA DEL SAPERE OCCIDENTALE Il carattere a-sistematico dell’attività di traduzione fece sì che il mondo latino recuperasse, nelle prime fasi del suo processo di acculturazione, in modo disordinato diversi testi appartenenti a differenti discipline, non solo filosofiche. L’assenza di un programma ordinato di recupero delle fonti e la mancanza nella cultura occidentale di un chiaro quadro dell’articolazione del sapere antico (e, quindi, di quali testi mancavano dai repertori librari latini e le copie di quali sarebbe stato più opportuno reperire per prime) portarono in Occidente tra XI e XII secolo molte opere di diverso valore, ascrivibili a differenti autori e appartenenti a discipline assai diverse. A questa prima fase segue, intorno alla metà del ’200, un momento più sistematico, con piani di lavoro e preoccupazioni filologiche maggiori (cosa che portò anche a iniziare le revisioni di precedenti traduzioni). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella I testi tradotti e studiati nel primo momento dell’acculturazione dell’Occidente comprendono così, oltre ad opere filosofiche, anche trattati di medicina, di matematica, di geometria e di astronomia; alcuni di questi testi vengono correttamente identificati come opere di un certo autore, di altri si ignora la reale origine o li si attribuisce falsamente a un pensatore famoso. Entrano così in Occidente testi non strettamente filosofici fondamentali come gli Elementi di Euclide, testo cardine della geometria antica che viene tradotto dal greco nella prima metà del XII secolo da Adelardo di Bath; ma della stessa opera si deve ricordare per lo meno anche la versione sempre dal greco di Gerardo da Cremona, mentre cominciavano a essere prodotte anche traduzioni latine delle versioni arabe del testo. Opere fondamentali per la conoscenza del sistema astronomico tolemaico vennero dalla traduzione dal greco dell’Almagesto di Tolomeo, ad opera sempre di Adelardo di Bath e di Gerardo da Cremona (quest’ultimo ultimò la sua versione nel 1175). Ma l’astronomia medievale fu influenzata anche da un altro testo, il De motibus caelorum, di Alpetragio (latinizzazione del nome arabo di un astronomo vissuto a Cordoba tra XII e XIII secolo), che Michele Scoto rese dall’arabo nel 1217. Queste opere aprirono la strada alle dottrine astrologiche antiche ed arabe. A questo proposito basta ricordare la versione latina del Tetrabiblos di Tolomeo, preparata nel 1138 da Platone da Tivoli. Fra i testi che furono tradotti in latino ma dei quali fu data una erronea attribuzione il più importante è il cosiddetto Liber de Causis. Costituito in realtà da parti dell’Elementatio theologica di Proclo e, quindi, di ispirazione neoplatonica e caratterizzato da una complessa dottrina, il testo venne realizzato come compilazione da studiosi arabi, influenzando profondamente la speculazione filosofica occidentale. Nella traduzione latina operata nel XII secolo ancora da Gerardo da Cremona l’opera venne attribuita ad Aristotele e così circolò nel mondo medievale sino a che la traduzione delle stessa Elementatio in latino non permise agli studiosi medievali, Tommaso d’Aquino tra i primi, di accorgersi dell’errore di attribuzione. Per quanto riguarda i testi propriamente filosofici l’esito più significativo del processo di traduzione e acquisizione delle fonti antiche è la riscoperta di Aristotele. I nomi e le tappe più importanti della riscoperta di Aristotele, che permettono di rimediare alla scarsa conoscenza del pensiero dello Stagirita nel mondo medievale latino, si possono riassumere in: Gerardo da Cremona. Autore come visto anche di fondamentali traduzioni di altri autori operò a Toledo nel XII secolo. A lui si devono importanti versioni di Aristotele: gli Analitici secondi e la Fisica (corredate di parafrasi tardo-antiche), il De caelo e parti dei Metereologica. Giacomo Veneto. Ambasciatore a Costantinopoli e attivo nel XII secolo (1125 circa), tradusse anch’egli gli Analitici secondi, gli Elenchi sofistici, il De anima, e parti della Metafisica aristoteliche. Roberto Grossatesta; vescovo di Lincoln a partire dal 1235, creò una equipe di traduttori dal greco che realizzò una versione dell’Etica a Nicomaco, insieme con parafrasi e commenti tardoantichi ad altre opere aristoteliche. Gugliemo di Moerbeke; dal 1278 arcivescovo di Corinto, fu uno dei più importanti traduttori e la sua opera avrà grande rilievo anche per Tommaso d’Aquino. Preparò la prima traduzione integrale della Metafisica, revisionò la traduzione grossatestiana dell’Etica a Nicomaco, tradusse per primo la Poetica e la Politica, poco conosciute anche nel mondo arabo e bizantino (la seconda opera era stata pochissimo studiata precedentemente). A Moerbeke si deve anche la traduzione di varie opere procliane: la già citata Elementatio theologica, il commento al Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Parmenide e i Tria opuscula. L’interesse che il mondo latino dimostrò per il pensiero aristotelico può essere spiegato facendo riferimento al carattere sistematico e “scientifico” della filosofia dello Stagirita. Si è imposta all’attenzione degli storici la questione del perché proprio Aristotele venisse scelto dagli autori medievali come la fonte che era più importante tradurre e come proprio maestro. Platone, i cui scritti pure cominciarono ad essere tradotti (intorno al 1148 Enrico Aristippo tradusse il Fedone e il Menone), ad esempio, non fu mai oggetto della stessa attenzione e la sua riscoperta fu compiuta solamente nel Rinascimento. I critici hanno risposto a questo problema sottolineando: il carattere neutro del pensiero aristotelico. Aristotele sviluppo una riflessione in cui piano fisico e piano metafisico, discorso filosofico e discorso teologico appaiono facilmente distinguibili (per quanto interdipendenti). In questo modo era possibile applicare il pensiero di Aristotele per sviluppare una teologia fondata sulla Rivelazione cristiana. la presenza in Aristotele di una rigorosa filosofia della natura. Aristotele aveva scritto numerose opere “scientifiche” sul mondo naturale e i suoi fenomeni (cosa non presente in Platone), che offrivano una spiegazione razionale del mondo fisico insuperata nella tradizione antica. il carattere sistematico di Aristotele. Gli scritti esoterici aristotelici era dei trattati di scuola, distinti per disciplina e rispondenti a un generale piano del sapere; la coerenza del sistema aristotelico lo rendeva adatto per l’insegnamento nel sistema educativo medievale e capace di fornire una mappa, esaustiva e coerente, della conoscenza. La pratica della traduzione e recupero del sapere antico pose anche una serie di questioni tecniche sui metodi migliori nel tradurre e di difficoltà pratiche relative all’apprendimento di lingue non conosciute. In certi casi, infatti, le versioni in latino si testi antichi avvenivano grazie ad alcuni passaggi intermedi e all’aiuto di altri studiosi. Poteva accadere che uomini di cultura araba o ebraica traducessero in un idioma vernacolare (nella lingua volgare dell’area dove si trovavano a vivere e operare) un testo scritto proprio o in arabo in ebraico; tale traduzione veniva por resa in latino da uno studioso che conoscesse sia la lingua volgare di origine sia il latino come idioma finale, l’unico adeguato per tradizione culturale alla diffusione di contenuti alti e complessi. Quanto alle tecniche traduttive si può affermare che il mondo latino conosceva due soluzioni contrapposte: la versione “libera”. L’autore cercava di rendere efficacemente nella lingua di destinazione quanto era scritto nella lingua d’origine; fondamentale per questa pratica traduttiva era cogliere in maniera fedele il senso del testo, alterando la struttura del discorso per riprodurne in maniera efficace il significato complessivo attraverso le forme comunicative della lingua in cui la versione era realizzata. I latini trovavano una teorizzazione e difesa di questa tecnica in San Girolamo. la versione “parola per parola” (verbum verbo). L’autore traduceva parola per parola riproducendo l’ordine e la concatenazione dei termini, secondo le strutture espressive proprie dell’autore e della lingua d’origine. Questa tecnica si ispirava alle indicazioni sul tradurre e al modo di tradurre di Boezio. La seconda metodologia fu quella a prevalere nel mondo medievale tra XII e XIII secolo. CRONOLOGIA Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella - Nel 622 con la grande Egira, nasce il mondo islamico il quale si espanderà velocemente - Nel 732 i Franchi di Carlo Martello sconfiggono a Poitiers le truppe islamiche mettendo fine all’espansione musulmana nel continente - Alfonso VI nel 1085 riconquista Toledo: si creano le condizioni per una “convivenza” nella penisola iberica tra cristiani e musulmani, sostenuta da uomini come Alfonso X (1252 – 1284) - Nel 1091 il potere normanno toglie ai musulmani il controllo della Sicilia. Anche la Sicilia diviene luogo di incontro tra differenti culture, il cui incontro e dialogo è favorito da uomini come Ruggero II e Federico II (1215 – 1250), con il quale al potere normanno sull’isola si sostituisce quello svevo - Tra il 1204 e il 1261 parte dei domini bizantini sono controllati dall’Impero latino d’Oriente e in questo modo è facilitato l’accesso latino al retaggio filosofico greco antico conservato in città come Bisanzio. - Il Tetrabiblos di Tolomeo è tradotto in latino nel 1138 da Platone da Tivoli - Nel 1148 Enrico Aristippo traduce il Fedone e il Menone di Platone - Nel 1278 Guglielmo di Moerbeke è vescovo di Corinto e sviluppa un’importante attività di traduzione, realizzando la prima versione integrale della Metafisica di Aristotele Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella LA NASCITA DELLA SCOLASTICA: QUESTIONI STORICHE E METODOLOGICHE Con il termine “filosofia scolastica” si fa riferimento originariamente alla filosofia prodotta dalle scholae, ovvero da particolari luoghi di studio e ricerca. Nel corso dei secoli il termine “scolastica” ha assunto una valenza negativa, come sinonimo di pensiero non originale, dipendente in modo pedissequo alla ripetizione di un insieme di dottrine già codificate (ad opera in genere di un maestro particolarmente importante), slegato da una ricerca viva della realtà. Nel contesto del pensiero medievale scolastica, invece, questo indica la filosofia che viene prodotta in un certo contesto culturale e secondo precisi metodi. La schola al quale il termine fa riferimento e con la quale tale contesto va identificato può essere identificata con l’università. La filosofia scolastica medievale, infatti, può essere compresa solo facendo riferimento ad alcuni fenomeni storico-culturali: 1) il rinnovamento delle fonti del pensiero latino, 2) l’impegno culturale degli ordini mendicanti e 3) la nascita delle università. Rinnovamento delle fonti. Con tale espressione si fa riferimento al processo di traduzione e diffusione nel sistema culturale occidentale di testi antichi, sia filosofici che scientifici e "magici". L’effetto più significativo di tale fenomeno fu la riscoperta dell’intero corpus aristotelico e il suo imporsi come nuovo paradigma della ricerca filosofica (vedi: Traduzioni a partire dal XII secolo) Gli ordini mendicanti. Gli ordini mendicanti sono quegli ordini religiosi la cui regola (l’insieme di statuti, leggi e principi ispiratori in conformità ai quali gli appartenenti all’ordine si impegnano a vivere) impone di non avere, né come gruppo né come singolo individuo, beni di alcun tipo e che perciò vivono di elemosina e del proprio lavoro. Nello sviluppo del pensiero scolastico ebbero un ruolo fondamentale i due più importanti ordini mendicanti: i francescani e i domenicani. La nascita delle università. Nel mondo medievale europeo tra XII e XIII secolo si assiste alla formazione di un sistema di istruzione superiore costituito da un insieme di discenti e docenti, denominato in latino universitas, ovvero gruppo o corporazione, proprio a indicare la comunità (questo il significato di universitas) di studiosi che dava vita al centro di formazione e ricerca. Le università medievali possiedono alcuni peculiari caratteri giuridici, ovvero a) lo status di studente e professore per coloro che partecipavano all'attività di studio-ricerca del mondo universitario, status che portava con sé alcune libertà e garanzie legali; b) il valore giuridico del titolo acquisito al termine del corso di studi, riconosciuto universalmente e non solo a livello locale, e metodologi: c) il modo di procedere nell’insegnamento e nella ricerca secondo le ben codificate procedure didattiche della disputatio e d) il ruolo attivo che queste procedure attribuivano agli studenti nell’attività didattica stessa. Bisogna ricordare che il sistema di formazione rappresentato dall’università è caratteristico solo del mondo latino, non trovando uguali né nella realtà bizantina né in quella islamica. I critici hanno individuato proprio nell’efficacia dell’apparato didattico e di ricerca delle università una delle ragioni della crescita culturale, a partire dal XIII secolo, del mondo occidentale che in breve tempo riuscì a colmare il divario scientifico con le altre civiltà mediterranee (appunto quella greca e quella araba). Questi fenomeni permettono di comprendere meglio cosa sia la scolastica e quale significato ebbe per lo sviluppo della filosofia nell’epoca di mezzo. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella ORDINI MENDICANTI Dalle fila degli ordini domenicani e francescani proverranno alcuni dei più importanti maestri del pensiero scolastico. L’ordine francescano viene fondato da San Francesco d’Assisi nel 1209 e la sua regola, alla quale in vario modo si rifanno le diverse "famiglie" nelle quali si articola l’ordine stesso, viene approvata nel 1223. Nel 1236 si ha notizia del primo maestro di teologia a Parigi che appartiene all’ordine francescano; si tratta di Alessandro di Hales, inglese, che già da tempo maestro nell’università parigina in quell’anno decide di entrare nell’ordine di San Francesco. A questo ordine apparterranno figure centrali per lo sviluppo del pensiero medievale. Bisogna ricordare a questo proposito: Roberto Grossatesta (1168 – 1253), maestro di teologia a Oxford (il più importante centro universitario inglese), attivo nel processo di traduzione e riscoperta del sapere antico/aristotelico, vescovo di Lincoln a partire dal 1235. Bonaventura da Bagnoreggio (1217 – 1274), maestro di teologia a Parigi, ministro generale dell’ordine francescano (ovvero, la guida dell’ordine stesso) e cardinale nel 1273 Pietro di Giovanni Olivi (1248 – 1298), sostenitore della necessità di una totale povertà per gli appartenenti all’ordine, fu allievo di Bonaventura e dopo la sua morte oggetto di un culto popolare Ruggero Bacone (1210 – 1292), entrato nell’ordine nel 1257, fu attivo a Parigi e a Oxford, caratterizzato da una critica severa della filosofia della sua epoca e impegnato a definire una riforma del sapere. Giovanni Duns Scoto, (1265 – 1308), attivo a Oxford e a Parigi nonché allo studium francescano di Colonia Guglielmo di Ockham (1280 – 1347), formatosi a Oxford e insegnante allo studium domenicano di Londra, chiamato presso il papato ad Avignone per sospetti di eresia, prese parte alla controversia sulla povertà della Chiesa contro il papa Giovanni XXII e fuggito da Avignone visse presso la corte imperiale prima a Pisa e poi a Monaco di Baviera. L’ordine domenicano o dei frati predicatori viene fondato da Domenico Guzman nel 1216, anno in cui papa Onorio III dà la propria definitiva approvazione alla formazione della prima comunità secondo la regola concepita da Domenico stesso. A differenza del mondo francescano che nasce da un’esigenza di riforma spirituale realizzata attraverso una scelta di condotta e di vita ispirate alla semplicità evangelica, l’ordine domenicano si forma per adempiere a un preciso compito dottrinale e culturale. I frati domenicani, infatti, nascono con lo scopo di combattere l’eresia e le manifestazioni di fede non ortodosse, riconoscendo subito nella predicazione e nella difesa della verità dogmatica della Chiesa la propria missione. Per questa ragione, insieme a una semplicità di condotta e di costumi, i frati predicatori scelgono una vita di studio per formarsi adeguatamente al loro compito spirituale. Il primo maestro domenicano di teologia a Parigi è Giovanni di Saint-Gilles nel 1228. Anch’egli entra nell’ordine domenicano in quell’anno e continua la sua attività di docenza nel centro universitario francese. Appartennero all’ordine domenicano: Alberto Magno (Alberto di Lavingen, 1200 – 1280), maestro di teologia a Parigi, fondatore del centro domenicano di formazione (studium) a Colonia, che meritò l’appellativo di Magno per la vastità del suo sapere Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Tommaso d’Aquino (1224 – 1274), allievo di Alberto a Parigi, fondatore dello studium domenicano di Orvieto e di Napoli, divenne nel corso dei secoli la voce ufficiale della teologia e delle filosofia cristiane, condizione ratificata nel 1879 da papa Leone XIII. Teodorico di Freiberg (o Vriberg; 1248 – dopo il 1310), lettore nel convento domenicano di Treviri, maestro a Parigi intorno al 1296, autore di una filosofia che in più punti è critica nei confronti del pensiero di Tommaso. Meister Eckhart (1260 – 1328), maestro di teologia a Parigi, priore del convento di Erfurt e direttore dello studium generale di Colonia nel 1324, ha lasciato anche numerose prediche di grande importanza speculativa, redatte in lingua tedesca I due ordini svilupperanno due modi o stili speculativi chiaramente identificabili, pur nella differenza degli accenti personali propri di ciascun autore, e spesso contrapposti. L’orientamento teologico-filosofico francescano è caratterizzato da una prudenza speculativa, soprattutto nell’utilizzo delle nuove fonti aristoteliche dell’indagine metafisica, e mantiene un più stretto legame con le dottrine patristiche, in particolare quelle di Agostino. Non si deve per questo assolutamente pensare, tuttavia, che i teologi appartenenti all’ordine francescano (come quelli prima ricordati) non conoscano Aristotele e le sue opere introdotte in quegli anni in Occidente; questi autori studiano e utilizzano le fonti filosofiche sino ad allora inedite nel mondo latino, ma il loro atteggiamento è generalmente cauto nei confronti di quelle “nuove” dottrine che vengono sempre messe a confronto con le radici patristiche del sapere medievale. Il mondo domenicano, ad opera di Alberto e di Tommaso, invece, si caratterizza per un intenso utilizzo del pensiero aristotelico nello sforzo costante di integrarlo con la Rivelazione e i dogmi della Chiesa. Proprio Alberto e Tommaso, infatti, furono membri della commissione che nel capitolo dell’ordine domenicano tenutosi a Valenciennes nel 1259 ridefinì il curriculum di studi per i membri dell’ordine stesso; ad Aristotele e alla nuova filosofia nonché scienza greco-araba venne attribuita grande importanza, mentre l’attività di formazione e preparazione culturale, alla quale andavano subordinati tutti gli altri obblighi propri della vita claustrale, assumeva un’assoluta centralità nell’esperienza spirituale dei frati predicatori. La differenza tra l’orientamento teologico francescano e quello domenicano è ben testimoniata da scritti come il Correctorium fratris Thomae (il Correttore di frate Tommaso) del francescano Guglielmo de la Mare; in quell’opuscolo (composto nel 1278) il frate francescano attaccava diverse tesi e dottrine presenti nel pensiero del teologo domenicano. A partire dal 1282 divenne obbligatorio per tutti i francescani leggere Tommaso solo con il sussidio del testo di Guglielmo. I domenicani reagiranno da parte loro con scritti volti a correggere l’opera di Guglielmo, considerata un Corruptorium (non una correzione ma una corruzione) del pensiero tomista. Glu attacchi di teologi francescani come Giovanni Peckham, che in qualità di arcivescovo di Canterbury condannò ufficialmente tra il 1284 e il 1286 alcune dottrine tomiste, confermano le divergenze teologiche tra i due ordini (vedi: Pensiero francescano nel XIII secolo e Pensiero domenicano nel XIII secolo). LA NASCITA DELLE UNIVERSITÀ E IL METODO DELLA DISPUTATIO Il termine “università” nel Medioevo non indica un luogo, ma un insieme di persone e di pratiche, codificate e formalizzate, di studio/ricerca. L’università medievale è l’insieme di individui che si riuniscono per approfondire la loro conoscenza su di un certo argomento, affidandosi a un maestro che possa aiutarli in questa ricerca. Tale attività di studio viene progressivamente definita attraverso una serie di pratiche, di metodi e di testi, con regole, sistemi di valutazione e conclusivo rilascio di un titolo che ha una validità universale, la cosiddetta licentia ubique docendi. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Il primo esito compiuto di questo processo di definizione della fisionomia del mondo universitario medievale è la creazione di 4 facoltà gerarchicamente organizzate. Va ricordato che non tutte le università ebbero tutte le facoltà (tra le quali Teologia era quella per la quale era più difficile ottenere i nulla osta della Chiesa e far iniziare i corsi) e che diverse università divennero famose per l’insegnamento di differenti discipline: è il caso di Bologna per diritto, Montpellier per medicina e Parigi per teologia. Facoltà delle Arti. È il corso di studi iniziale (al quale si accedeva all’età di circa 15 anni) e propedeutico a ogni altra facoltà. La sua durata era di 4 anni, dedicati allo studio delle arti liberali e delle materie filosofiche. Con l’imporsi del paradigma aristotelico, chiaramente ricostruibile attraverso gli statuti (norme che definivano l’attività nelle università e i curricula di studi) fra i quali particolarmente importante fu quello emanato a Parigi nel 1255, queste Facoltà divennero il luogo di studio del pensiero dello Stagirita, in particolare, e della filosofia in generale; attenzione particolare fu data alla logica come disciplina che insegnava a procedere con rigore in ogni campo del sapere. Nel corso del XIII e XIV secolo alcuni pensatori (quali Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia) cominciarono a rivendicare con forza la loro condizione di maestri delle Arti, pensando alla riflessione puramente razionale (non poggiata o condizionata da questioni di Fede) come un’attività indipendente e dotata di una propria dignità. Facoltà di diritto (canonico e civile), medicina e teologia. A queste facoltà si poteva accedere solo dopo aver frequentato la Facoltà delle Arti. Particolarmente significativa nello sviluppo della speculazione medievale fu, naturalmente, la Facoltà di Teologia. Dopo aver completato gli studi alla Facoltà delle Arti, lo studente diventava baccelliere, ovvero assistente di un maestro e gli venivano affidati compiti di sostegno all’attività di docenza. Dopo tre anni di baccellierato (non prima dei 21 anni) poteva ottenere la licentia d’insegnamento, con minimo due anni di successiva attività di docenza, o iscriversi a una delle Facoltà superiore, come Teologia. A Parigi (il centro più importante nel Medioevo per lo studio di questa materia) lo studente doveva seguire: a) 7 anni di formazione sulle Scritture e i relativi testi di approfondimento, fra i quali erano fondamentali le Sentenze di Pietro Lombardo (raccolta di opinioni dei Padri su vari argomenti teologici); b) 2 anni di baccellierato biblico nei quali lo studente commentava le Scritture; c) 2 anni di baccellierato sentenziario con il commento alle Sentenze; d) 4 anni come baccelliere formato al termine dei quali si poteva diventare maestri in Teologia, condizione, quindi, che richiedeva 15 anni di studio. L’età minima per terminare l’intero percorso era di 35 anni. Molti studiosi hanno sottolineato che in questo modo per la prima volta si assiste a una serie di importanti fenomeni: la nascita dell’intellettuale. L’intellettuale di professione è colui che studia/insegna come prima e spesso unica attività, ricavandone anche il proprio sostentamento. Se la figura del sapiente è sempre esistita, anche al di fuori del mondo occidentale, la figura dell’intellettuale nasce solo con il mondo universitario. la nascita di una cultura pubblica. L’università è un sistema di formazione aperto; già nei primi anni della storia delle università erano state previste forme di sostegno economico per gli studenti meno abbienti. In questo modo il sapere, completamente codificato, si diffonde ampiamente e la sua acquisizione è garantita da una serie di pratiche universalmente riconosciute. Il processo di nascita e consolidamento del sistema universitario fu reso possibile dall’appoggio che a questa istituzione diedero i poteri politici dell’epoca, papato e monarchie. L’atto di nascita di una università, infatti, viene fatto coincidere con il riconoscimento da parte di un’autorità, in particolare regia, delle comunità formatesi per scopo di studio; questo Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella riconoscimento consisteva in garanzie e libertà giuridiche, che rendevano autonomi docenti e discenti della comunità di studiosi. In base alle date in cui vengono riconosciute e poste in una condizione giuridica particolare si possono ricordare: la fondazione di Bologna nel 1158, con la costituzione Habita dell’imperatore Federico Barbarossa la fondazione di Parigi nel 1200, con i privilegi accordati dal re di Francia Filippo II l’università di Napoli, fondata da Federico II nel 1224 le fondazionidi Oxford e Cambridge prima del 1220, di Padova nel 1221-22, di Salamanca nel 1218, di Montpellier anch’essa anteriormente al 1220 Nel caso dell’università di Parigi il tema del sostegno del potere è più complesso, in quanto su questo centro universitario si esercitò da subito il controllo della Chiesa. Gli interventi di papa Innocenzo III (1198 – 1216) e di papa Gregorio IX (1227 – 1241) sono importanti per comprendere lo sviluppo dell’università parigina e il fatto che essa divenne il più importante centro di studi teologici del mondo medievale. L’esistenza di una facoltà di Teologia in una città, infatti, era subordinata al controllo dottrinale da parte delle autorità ecclesiastiche su quanto veniva insegnato in quel luogo. Il sistema universitario si caratterizza anche per il metodo di studio e insegnamento utilizzato, consistente nella disputatio. La disputatio può essere definita come una forma d’insegnamento, d’apprendimento e di ricerca, consistente in un metodo dialettico con il quale si sottopongono a verifica argomenti (razionali e d’autorità) intorno a un problema; scopo di tale analisi è per il maestro giungere a una soluzione dottrinale del problema stesso. Per arrivare a tale risultato il maestro procedeva secondo una precisa sequenza di passaggi: momento iniziale era la quaestio, formulazione di una difficoltà o domanda, introdotta dal “se” (utrum; ad esempio Utrum mundus sit aeternus an non, “Se il mondo sia eterno oppure no”). secondo elemento era la discussione intorno al problema posto. Il maestro designava un respondens e un opponens, ognuno dei quali vagliava una possibile soluzione della problematica; il primo tentava di sviluppare una risposta, mentre il secondo elaborava una serie di contro-dottrine e di obiezioni (ricavate dall’analisi razionale o da argomenti autoritativi) alla tesi sostenuta dal primo, il quale doveva a sua volta risolvere le difficoltà sollevate. In questo modo si analizzava in dettaglio il problema e le sue implicazioni, grazie al confronto tra posizioni contrapposte presentate come argomenti contro (contra) o a favore (pro) una determinata soluzione alla quaestio iniziale. momento conclusivo infine era la determinatio nella quale il magister dava la propria risposta al problema, confutando le posizioni già esposte che contraddicevano la propria dottrina o trovando tra questa e quelle una conciliazione razionale. Le questioni disputate potevano consistere di diversi articuli, connessi in vario modo con la questione principale sulla quale verteva la discussione, raggiungendo così dimensioni anche considerevoli. Ciò che va sottolineato nella pratica della disputatio, quindi, è che questa: consiste di un’attività razionale di confronto tra argomenti diversi che sostengono soluzioni differenti a un unico problema. Si tratta così di un lavoro di verifica delle dottrine, le quali sono accettate solo dopo essere state sottoposte a un’analisi. Va ricordato che in questa attività di verifica erano coinvolti anche gli studenti o gli assistenti del maestro (opponens e respondens in genere venivano scelti tra gli studenti anziani o erano due baccellieri). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella prevede la finale scelta e difesa di una posizione da parte del maestro. Nella disputatio la conclusione che deve condurre alla verità non viene demandata al semplice recupero di una posizione autoritativa (un Padre della Chiesa, un passo bibblico), ma consiste nella scelta motivata razionalmente da parte del magister, che diviene autonomo e responsabile della propria posizione dottrinale. si fonda sul dibattito che coinvolge tutte le parti, docenti e discenti, della “classe” universitaria medievale, conferendo allo studente un ruolo attivo è il metodo con cui non solo si insegna, ma in base al quale è organizzata l’esposizione di dottrine originali e, quindi, l’inedito lavoro di ricerca di un magister. La disputatio può essere considerata come l’esito di un processo storico di implementazione dei metodi di ricerca filosofici nel mondo medievale: la lectio e la quaestio. La disputatio, infatti, è preparata, quale metodo di ricerca/insegnamento, dalla lectio e dalla quaestio, che sono ricompresi per certi versi come momenti della disputatio stessa. La lectio è la lettura e spiegazione di un testo, sia rivelato sia profano. È l’approccio basilare alle fonti del sapere che viene impiegato già dai Padri della Chiesa, impegnati nel leggere e nel commentare le Scritture. La lectio è praticata anche nelle aule universitarie medievali dove un maestro o un suo assistente leggono passo per passo un’opera, la commentano e la spiegano. Il testo viene innanzitutto compreso nella sua littera, ovvero nel suo significato primo. Poi l’interprete cerca i vari livelli di senso, in particolare se si tratta di un passaggio scritturale (lettura allegorica, tropologica, anagogica), per poi giungere a formulare un’ipotesi sul reale significato globale del passaggio in questione La quaestio, invece, consiste in un’analisi critica del testo a partire da quanto questo dice. Già Abelardo, nel suo Sic et non, afferma: “Altre affermazioni dei Padri della Chiesa pongono delle domande in quanto sembrano contraddirsi tra di loro ….Attraverso il dubbio, infatti, iniziamo a cercare e cercando troviamo la verità” (Sic et non, Prologus, PL 178, 1349 A – B). La quaestio allora si presenta come la reazione dello studioso di fronte alla scoperta di una contraddizione tra passi e dottrine, entrambe riconducibili a un’auctoritas o apparentemente veri secondo ragione. Da qui si produce un dubbio e la necessità di un’indagine per trovare la verità. In tale attività che si produce dal confronto con un passaggio o un’opera attraverso la lectio è più forte la dimensione razionale e la necessità dell’attività dell’interprete. Nella disputatio proprio il confronto tra posizioni incompatibili sostenute con argomenti razionali o autoritativi apparentemente validi rappresenta l’inizio dell’attività di indagine autonoma; la risoluzione del conflitto dottrinale coincide con l’individuazione dell’unica teoria sostenibile. GENERI LETTERARI E FORME DEL SAPERE La scolastica come filosofia prodotta nelle università secondo il metodo della disputatio possiede particolari forme testuali. Il pensiero scolastico si contraddistingue oltre che per il luogo nel quale si produce (l’università) e il metodo con il quale è sviluppato (la disputatio), per le forme testuali impiegate, ovvero per la tipologia dei testi o documenti attraverso i quali gli autori esponevano i risultati della loro ricerca. La natura della forma testuale influenza le modalità di comunicazione del pensiero, come appare evidente se si mette a confronto il tenore del discorso filosofico proprio di un dialogo (secondo la forma prediletta da Platone) e quello caratteristico di un trattato redatto per finalità didattiche (come gli scritti esoterici di Aristotele). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Le tipologie testuali proprie della comunicazione filosofica nella scolastica sono: gli appunti che riproducono le lezioni di un maestro. Alcune opere scolastiche, infatti, consistono in appunti relativi all’insegnamento orale nell’aula universitaria, alcuni resi pubblici senza la una particolare opera di analisi/verifica (in questo caso si parla di semplice reportationes, ovvero “appunti”), altri controllati dal docente la lezione del quale quel testo riproduceva (ordinatio). Poiché la disputatio era strumento didattico fondamentale molti di questi testi presentano la tipica scansione di parti e momenti della quaestio disputata. il commento. Il confronto con la Rivelazione scritturale e con le autorità del passato faceva del commento uno degli strumenti fondamentali dell’attività didattica e di ricerca nel mondo scolastico. Le tipologie di commenti ai testi autoritativi potevano essere molteplici. Verso il 1260 – 1270 si impose la forma del commento organizzato per questioni e loro discussione, ancora secondo la tecnica della disputatio. Molti commenti alle opere aristoteliche furono realizzati proprio secondo tale metodo. le summae. Con il termine summa si indica un genere testuale che ebbe grande diffusione nell’esposizione non solo del pensiero filosofico, ma anche dello sviluppo dottrinale di altri ambiti disciplinari, caratterizzato dalla volontà di dare una trattazione efficace e completa su un problema o insieme di problemi. Alcune summae sono una raccolta di questioni discusse secondo il metodo della disputatio, ordinate in base a diversi criteri, come le tematiche o problemi presi in considerazione dal maestro nelle varie disputationes. Si però trovare summae che perseguono l’obiettivo di una sistematicità dell’esposizione non seguendo la forma della disputatio e sviluppandosi come trattati, dalla struttura molto più libera. In questo modo si possono trovare nel pensiero scolastico e, più in generale, all’interno della produzione di testi medievali, opere scritte con stili e toni molto diversi, dal trattato che riproduce il rigore dell’argomentazione geometrica all’opuscolo che adotta un linguaggio mistico ed evocativo. CRONOLOGIA - 1158: fondazione dell’università di Bologna - Nel 1200 si hanno i primi documenti che attestano la fondazione dell’ateno pariginol’università di - 1216: Domenico Guzman ottiene l’approvazione della regola dell’ordine che si chiamerà appunto “domenicano”. L’ordine nasce allo scopo di combattere l’eresia e difendere con lo studio e la predicazione la verità della Fede. - Nel 1223 viene fondato l’ordine francescano, movimento che si ispira all’insegnamento di Francesco d’Assisi, inteprete dell’ansia di rinnovamento morale e spirituale del mondo cristiano nel XIII secolo - Nel 1221 si ha la fondazione dell’università di Padova - 1224: fondazione dell’università di Napoli - Nel 1228 insegna a Parigi il primo docente domenicano, Giovanni di Saint-Gilles. Apparterranno all’ordine pensatori di grandissima importanza come Alberto Magno (Alberto di Lavingen, 1200 – 1280), Tommaso d’Aquino (1224 – 1274) e Meister Eckhart (1260 – 1328) - Nel 1236 si ha notizia del primo docente francescano a Parigi, Alessandro di Halles. Altri esponenti importanti della tradizione francescana saranno Roberto Grossatesta (1168 – 1253), Bonaventura da Bagnoreggio (1217 – 1274), Giovanni Duns Scoto, (1265 – 1308), e Guglielmo di Ockham (1280 – 1347) Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella PARTE TERZA: IL PRIMO PENSIERO SCOLASTICO Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella PENSIERO DOMENICANO NEL XIII SECOLO: ALBERTO MAGNO E TEODORICO DI FREIBERG Uno dei contributi di maggiore importanza allo sviluppo filosofico dell’epoca di mezzo offerto dal pensiero domenicano fu l’assimilazione del retaggio aristotelico nel sistema di pensiero cristiano. La tradizione filosofica e teologica dell’ordine dei Predicatori si caratterizza per alcuni elementi dottrinali fondamentali: L’interesse per l’insegnamento greco-arabo. I più importanti autori domenicani, a cominciare da Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino, furono anche attivi fautori dello studio e del dialogo tra le dottrine aristotelico- arabe, che di tali dottrine costituisce spesso un commento, da un lato, e i dati della Rivelazione, dall’altro. In questo modo la definizione della fisionomia del nuovo pensiero filosofico-teologico del XIII secolo deve molto agli autori di questo ordine. Alcuni filosofi del ’200, che portarono alle estreme conseguenze lo studio e la fedeltà del retaggio aristotelico, come Sigieri di Brabante furono forse allievi dello stesso Alberto Magno e l’insegnamento di questo maestro fu centrale per tali radicali forme di speculazione. Dottrina della felicità intellettuale. Seguendo la tradizione aristotelica e quella degli autori arabi da questa influenzati (Avicenna e Averroé), molti autori domenicani affermarono una teoria etica per la quale la massima felicità possibile per l’uomo consiste nella piena realizzazione delle sue capacità intellettuali; il filosofo, in questo modo, come colui che dedica l’esistenza allo studio della verità, diviene il modello dell’essere umano massimamente realizzato. Questa dottrina ha anche importanti conseguenze teologiche. Poiché Dio è tanto fonte della verità quanto causa della stessa perfetta conoscenza umana e poiché la beatitudine degli eletti come premio post mortem per la loro condotta in vita è la contemplazione del Dio/verità, allora l’uomo virtuoso che porta a piena realizzazione la propria natura razionale può essere considerato in grado già in vita di raggiungere quella beatitudine in modo autonomo. Un simile esito poneva grossi problemi teologici legati al tema della necessità della Grazia divina per la salvezza/beatitudine dell’essere umano. Molti autori domenicani, oltre ad Alberto Magno, riprendono, ciascuno con toni e accenti diversi, la teoria della felicità intellettuale, come Ulrico di Strasburgo, Dietrich di Freiberg e Meister Eckhart. Distinzione tra conoscenza teologica e conoscenza filosofica. Conseguentemente all’importanza attribuita alle dottrine greco-arabe, nella scuola domenicana si sviluppa un’articolata riflessione sul valore e reciproca relazione tra sapere filosofico e sapere teologico. Filosofia e teologia vengono così definite come due strumenti e dimensioni metodologiche distinte, fondate su principi a ciascuna propri: quelli della ragione e delle leggi naturali per la prima, quelli della Rivelazione che trascendono la Natura per la seconda. In conseguenza di questa netta distinzione di campi disciplinari alcuni autori domenicani affermeranno il carattere puramente rivelato, quindi solo oggetto di fede e non dimostrabile razionalmente, di alcune dottrine o dogmi cristiani, tra le quali, tipico esempio, è quello della creazione del mondo. La filosofia con Aristotele insegna che il mondo è eterno, mentre la Rivelazione lo definisce creato dal nulla da Dio. Le due posizioni sono incompatibili e per molti maestri domenicani credere alla seconda è solamente un atto di Fede che non ammette una dimostrazione razionale. Anche Tommaso d’Aquino affermerà che l’eternità del mondo è una tesi filosoficamente non contraddittoria e, quindi, razionalmente sostenibile, per quanto il cristiano debba accettare la teoria della creatio ex nihilo. In questo modo si gettavano le basi per la discussione sul rapporto fede/ragione nel Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella ’200 e nel ’300 e per la formulazione di quella che viene erroneamente definita “teoria della doppia verità” (vedi: Tommaso e la condanna del 1277) Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella ALBERTO MAGNO E GLI INSEGNAMENTI DI ARISTOTELE Uno dei primi maestri a teorizzare e a sviluppare il progetto di una riforma del sapere che avesse al centro la tradizione greco-araba è Alberto di Lavingen o di Colonia, detto Magno. L’importanza dell’opera di Alberto Magno deve essere rinvenuta, infatti, nel suo progetto di costruzione di una nuova sintesi filosofica, che avesse al suo centro l’insegnamento di Aristotele (e dei suoi commentatori arabi). Quello che Alberto realizza, tuttavia, è un’enciclopedia filosofica che si compone di molti altri materiali oltre alle dottrine dello Stagirita e di Averroè. Il sistema filosofico che il maestro domenicano sviluppa, infatti, accetta in sé innanzitutto: molti elementi neoplatonici, che derivano dalla tradizione araba di commento ad Aristotele (con Avicenna): i cieli e i loro motori sono pensati come Intelligenze che conservano in sé i modelli delle cose concrete, riflessi delle Idee pensate da Dio stesso (Primo motore e Intelligenza suprema). dottrine stoiche, ermetiche, alchemiche e magiche anch’esse mediate dall’insegnamento arabo e dal mondo tardo-antico gli insegnamenti della tradizione patristica latina e greca, nella quale Dionigi e Agostino hanno un ruolo centrale osservazioni empiriche di carattere naturale (personali o raccolte da altre persone) con le quali Alberto sviluppa le scienze fisiche aristoteliche (sul cielo, sul mondo fisico, sulle piante e gli animali). La complessità e vastità di questo progetto meritano ad Alberto il nome di “Magno” e l’onore di essere letto ancora in vita come una autorità, vicino ai grandi pensatori del passato. Dottrina caratteristica di Alberto Magno è la teoria della conoscenza umana, resa possibile dall’attività divina come Intelletto Agente separato. Alberto ripropone la teoria della conoscenza aristotelica, secondo la quale l’uomo conosce le forme universali delle realtà mediante l’intelletto possibile e l’intelletto agente: quest’ultimo fa passare in atto la forma universale potenzialmente presente nella conoscenza sensibile e la imprime nell’intelletto possibile che solo in questo caso è in grado di conoscere in atto tale forma. Alberto ritiene che ciascuna anima umana abbia tanto un intelletto possibile quanto un intelletto agente; l’anima umana per Alberto non è una semplice forma del corpo (dare forma al corpo è una delle sue funzioni, non la sua essenza), ma una intelligenza tanto attiva quanto sostanziale e, come tale, immortale. L’attività dello stesso intelletto agente è però resa possibile dall’illuminazione divina su di esso. Dio, infatti, emana la sua luce sull’uomo attraverso la mediazione delle diverse Intelligenze celesti separate. In questa illuminazione vengono mostrate le forme che entrano poi nelle anime e negli intelletti agenti, rendendo alla fine conoscibili i dati universali derivati dal sapere sensibile intorno ai corpi. D’altra parte in Alberto le stesse Intelligenze celesti separate, nella mediazione della luce e delle forme, hanno anche una funzione creatrice, poiché proprio il movimento dei cieli rende possibile la presenza delle forme nella realtà materiale. Secondo Alberto in particolare tale movimento porta all’atto le forme già presenti nella potenzialità della materia (teoria dell’inchoatio formarum). Attraverso questo lavoro speculativo di conoscenza delle forme l’uomo ottiene una sempre più stretta fusione tra l’attività intellettuale umana e l’Intelletto Agente separato, identico in ultima istanza a Dio. Poiché il sapere è l’attualizzazione delle forme mediante la luce delle Intelligenze separate e dell’Intelletto divino, la reiterazione del meccanismo che porta al sapere riempie l’anima delle forme in atto (intelletto speculativo) e poi permette l’unione (copulatio) dell’intelletto umano con quello Agente separato. In questa unione consiste l’intelletto adeptus (acquisito); tale Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella condizione è quella in cui il singolo intelletto umano conosce perfettamente e immediatamente perché si è congiunto con la vera causa del conoscere, l’Intelletto Agente separato. Quest’ultimo non agisce sull’uomo più come causa efficiente del sapere (facendo passare le forme da potenziali ad attuali), ma è la stessa forma (intrinsecamente legata, quindi) dell’intelletto umano. Lo stato dell’intelletto acquisito può essere messo in relazione con l’intelletto santo, di cui si parla nella tradizione islamica (lo stesso Alberto chiama anche in questo modo l’intelletto acquisito); in questa condizione l’uomo, facendosi quasi simile a Dio, raggiunge una conoscenza perfetta, acquisendo doti profetiche o la capacità di agire sulla realtà dei modelli formali e, quindi, sul mondo naturale (la diffusione delle forme mediante le Intelligenze celesti coincide in effetti con la formazione della realtà cosmica). La condizione definita dal raggiungimento dello stato dell’intelletto acquisito è il fulcro anche della teoria etica di Alberto Magno. Alberto, infatti, afferma che l’uomo in quanto uomo è il suo intelletto (secondo una lettura personale di un passo dell’Etica Nicomachea di Aristotele). Pertanto l’uomo che realizza a pieno la sua capacità di conoscenza intellettuale realizza anche pienamente se stesso e, quindi, è massimamente felice. La perfetta felicità umana allora consiste nel raggiungere questa condizione che conduce l’uomo alla contemplazione del divino e all’autentica conoscenza cosmica. Il cammino di studio e ricerca del filosofo, quindi, si fonda sulla speranza, propria di colui che intraprende la ricerca della sapienza (fiducia philosophantis), di ottenere tale realizzazione e di arrivare così allo stato dell’intelletto acquisito. Alberto, tuttavia, distingue, tra la contemplazione di Dio concessa dalla stessa Grazia soprannaturale e la contemplazione ottenuta autonomamente attraverso la ricerca filosofica. La prima è propria del beato e resa possibile dalla volontà di Dio; questo stato di beatitudo consiste nel vedere Dio in quanto Dio, al di sopra di ogni forma di razionalità. La seconda, invece, si produce per lo sforzo ascetico dell’uomo con le sue sole forze; la visione del divino che così si ottiene consiste in un sapere dimostrativo, certo e razionale (differente quindi dalla conoscenza del teologo che vede Dio nello stupore della Rivelazione). La dottrina albertina della felicità intellettuale avrà un ruolo molto importante nello sviluppo della successiva speculazione medievale. Questa teoria etica di Alberto Magno, infatti, influenzerà molti pensatori domenicani tedeschi del ’300, sino alla sua rielaborazione nella dottrina dell’ “uomo nobile” o “uomo povero” di Meister Eckhart. Insieme con la teoria della distinzione tra Rivelazione e Ragione, ciascun fondata su principi propri, la dottrina della felicità intellettuale rappresenta la più importante eredità speculativa di Alberto Magno. TEODORICO DI FREIBERG Il pensiero di Teodorico di Freiberg (o di Vriberg) si pone in continuità con l’insegnamento domenicano sulla centralità della dimensione intellettuale alla quale viene attribuita nell’uomo una particolare importanza tanto conoscitiva quanto teologica. La conoscenza dell’uomo si produce per Teodorico mediante l’intelletto agente. Nell’anima umana, infatti, è presente un intelletto in atto il quale è causa della natura sostanziale dell’anima ed è a questa congiunto in una forma di unità in ragione della somiglianza tra la sua essenza e quella Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella dell’anima stessa. L’anima, pertanto, è una sostanza, non una semplice forma che può venire meno; l’intelletto agente è, come causa dell’anima stessa, anch’esso una sostanza individuale. Come tale l’intelletto agente dell’uomo è causa anche dell’intelletto possibile. Quest’ultimo è capace di per sé di creare un sapere autentico solo potenzialmente. Se, infatti, la vera conoscenza dell’intelletto possibile consiste nel cogliere la forma intelligibile e se tale conoscenza si produce quando l’intelletto stesso si unisce a tale forma, l’intelletto possibile produce questa unione solo accidentalmente. L’intelletto agente è il vero responsabile della conoscenza degli intelligibili nell’intelletto possibile. Poiché, però, l’intellezione della forma intelligibile è la sostanza stessa dell’intelletto possibile allora l’intelletto agente sarà causa non solo del conoscere ma anche della sostanzialità di tale intelletto. L’intelletto agente nell’uomo è così consimile ad ogni sostanza intellettuale: proviene direttamente da Dio mediante la catena gerarchica delle realtà separate (identificabili con le intelligenze e le anime dei diversi cieli). In quanto riflesso e immagine della sostanze superiori e dello stesso Dio anche l’intelletto umano sarà attivo e capace di produrre gli intelligibili. Teodorico, quindi, riforma su questo punto la dottrina della conoscenza aristotelica e si discosta chiaramente da Tommaso. Il sapere come possesso delle forme intelligibili, allora, non è prodotto per Teodorico dall’astrazione dell’universale a partire dal sensibile. Teodorico, infatti, separa nettamente sensibile e intelligibile. Per questa ragione il pensatore domenicano è spinto a ritenere che la conoscenza dell’intelligibile si produca solo per la mediazione e l’attività dell’intelletto agente umano e per il rapporto che questo intrattiene con Dio. L’astrazione dall’immagine sensibile, quindi, produce veramente la forma intelligibile solo perché l’intelletto attivo possiede in sé l’intelligibile stesso, ne proietta la luce sui contenuti empirici derivati dall’esperienza e li porta ad uno stato di autentica intelligibilità (mentre questi, sino a quel momento, erano puramente sensibili). L’intelletto agente umano, quindi, possiede in sé tutti gli intelligibili ed è per questo immagine di tutto l’essere cosmico; grazie a tale sua condizione opera come vera causa del sapere sull’intelletto possibile e sulle forme intelligibili. La dottrina della conoscenza di Teodorico non conduce a nessun esito relativistico in quanto ogni sostanza intellettuale deriva da Dio e da Dio riceve la propria natura, secondo la teoria dell’abditum mentis. L’intelletto attivo umano, infatti, non è il creatore delle forme intelligibili che possiede in sé; tali forme derivano dalle Idee di Dio e dalla sostanza del Creatore, del Quale l’intelletto dell’uomo (come ogni intelletto cosmico) è similitudo (riflesso). Le forme presenti nell’anima e che sono le forme di tutto ciò che esiste sono riflessi delle Idee divine, da Lui create eternamente e paradigma di verità per tutto ciò che è. Per tale ragione Teodorico individua nella capacità intellettuale umana l’immagine più perfetta di Dio. Teodorico, collegando tali teorie neoplatoniche ed aristoteliche al pensiero di Agostino, definisce questo luogo dell’interiorità dell’uomo dove risiede la similitudine con il divino abditum mentis, ovvero la “parte più segreta e profonda della stessa anima individuale” (anche in Agostino, infatti, è presente la dottrina per cui l’anima dell’uomo contiene in sé tutti gli intelligibili ed è illuminata direttamente dalla luce divina di verità). Questa teoria apre la strada a riflessioni e a sviluppi speculativi di natura mistica, non presenti direttamente in Teodorico ma rinvenibili in pensatori da lui influenzati e appartenenti al mondo domenicano tedesco come Bertoldo di Mosbourg e Meister Eckhart. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella La dottrina cosmologica di Teodorico riprende, al pari della sua gnoseologia, modelli neoplatonici, con la gerarchia dei cieli e delle loro intelligenze. Teodorico inserisce la dottrina della creazione divina del cosmo all’interno di un modello emanazionista. Dio è l’unica realtà in grado di creare con un atto libero e nella differenza tra Causa e causato. Le realtà create si trovano legate tra loro secondo il vincolo della processione e dell’emanazione: dalle più alte fluiscono le più basse secondo l’ordine gerarchico dei livelli cosmici, ovvero Dio, l’Uno/Verbo, l’Essere, le varie intelligenze e i vari cieli. Il modello in base al quale è pensato tale meccanismo è quello dell’azione dell’intelletto che precontiene e conosce in sé tutto ciò che esiste, per poi farlo fluire al di fuori della propria natura per portarlo all’essere. CRONOLOGIA - Intorno alla fine del XI secolo (forse 1193, forse proprio nel 1200) Alberto nasce a Lavingen (o Lauingen) in Svevia. Tradizionalmente lo si è pensato membro dalla casata dei conti di Bollstädt, anche se alcuni studi lo hanno recentemente indicato come discendente di una famiglia di uomini d’armi. - Nel 1223 entra nell’ordine domenicano a Padova dove si era recato per studiare - Tra la fine degli anni ’20 del ’200 (intorno al 1228) sino al 1245 viaggia e insegna in diverse città tra cui Colonia e Strasburgo. - Intorno al 1245 è a Parigi come magister - Nel 1248 è inviato a Colonia per fondare e dirigere lo Studium (centro di formazione e istruzione) domenicano nella città. In questi anni Tommaso d’Aquino è fra i suoi allievi. - Nel 1250 nasce a Freiberg o Vriberg in Sassonia Teodorico. Della sua vita e dei suoi spostamenti si possiedono però poche notizie, forse per le sue posizioni dottrinali; benché domenicano, infatti, fu in contrasto con la filosofia di Tommaso, al quale venne presto riconosciuta grande autorità dottrinale, divenendo punto di riferimento per la speculazione all’interno dell’ordine dei Predicatori - Nel 1254 Alberto Magno diviene provinciale, ovvero responsabile, dell’ordine domenicano per la Germania. - Tra il 1260 e il 1261 Alberto è vescovo di Ratisbona (carica alla quale rinuncia). - Tra il 1267 e il 1270 Alberto Magno risiede prima a Würzburg e poi a Strasburgo - Nel 1280 Alberto muore a Colonia. - Teodorico ricopre la carica di provinciale per l’ordine domenicano, ruolo che era già stato di Alberto Magno, tra il 1293 e il 1296. - Negli ultimi anni del ’200 Teodorico è a Parigi come maestro di teologia - Dopo il 1310 non si hanno più notizie di Teodorico; la data della sua morte si deve collocare ipoteticamente dopo tale data. - Nel 1931 Alberto verrà canonizzato da papa Pio XI Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella PENSIERO FRANCESCANO NEL XIII SECOLO: GROSSATESTA, BONAVENTURA E RUGGERO BACONE La linea teologico-filosofica propria dell’ordine francescano all’interno della filosofia scolastica del XIII secolo si caratterizza per il recupero dell’eredità agostiniana e una certa diffidenza verso le novità speculative greco-arabe. Il pensiero francescano assume una propria determinata fisionomia teologica (che lo distingue come visto dalla tradizione speculativa domenicana; vedi La nascita della scolastica); tale fisionomia può essere ricostruita grazie ad alcune dottrine che sono spesso rinvenibili negli autori appartenenti allo stesso ordine francescano: Prudenza nei confronti dell’imporsi dell’aristotelismo. Alcuni autori francescani sono consapevoli delle difficoltà derivate dall’esigenza di conciliare Rivelazione e filosofia aristotelica; quest’ultima, ad esempio, sostiene razionalmente l’eternità del mondo, incompatibile con la dottrina della creazione dell’universo ad opera di Dio, o propone una teoria dell’anima come forma del corpo che mette a rischio la teoria della sopravvivenza dell’anima stessa alla morte del corpo e, quindi, la possibilità di premi o punizioni post mortem per l’uomo. Teoria dell’illuminazione. Il mondo francescano sostiene una teoria della conoscenza nella quale il peso delle informazioni sensibili per l’elaborazione del sapere è molto limitato; in omaggio alla dottrina agostiniana dell’illuminazione i teologi appartenenti a questo ordine identificano in una luce interiore all’anima, di derivazione divina, l’autentica origine di ogni verità per l’uomo. Questa dottrina sarà poi approfondita nel XIII secolo mediante gli insegnamenti di Avicenna sul ruolo delle intelligenze celesti. Questa teoria gnoseologica era in contrasto con quella di Aristotele che considerava i sensi corporei come strumento necessario per la creazione della conoscenza. Teoria della molteplicità delle forme sostanziali nell’uomo. Per i francescani l’essere uomo (l’appartenere alla specie “uomo”) di ogni singolo individuo è dovuto non alla sola anima razionale, ma alla presenza di altre forme come quella della corporeità (la forma che dà unità ed esistenza al corpo stesso). In questo modo l’anima non è solo forma del corpo e a questo legata in quanto unica causa dell’essere dell’uomo, ma, grazie all’“indipendenza” del corpo che è dotato di una sua forma, può risultare essa stessa autonoma e separata dalla dimensione materiale; in questo modo l’anima può più facilmente essere pensata come una sostanza autonoma e, quindi, immortale. Ilemorfismo universale. Tale dottrina, derivata dal pensiero ebraico medievale (Ibn Gabirol), sostiene che tutte le realtà, eccetto Dio, sono composte di materia e forma, sebbene le sostanze più alte (come gli angeli) siano formate da una materia non corporea. In questo modo era possibile garantire la differenza teologica tra Creatore e creature. Le ragioni seminali. Anche questa teoria deriva da Agostino (che la riprende a sua volta dalla tradizione stoica): Dio ha posto nella realtà delle cause (ragioni) che cominciano a operare producendo i loro effetti solamente in determinati momenti nel tempo, secondo il piano divino. Tale dottrina concilia l’immutabilità e singolarità dell’atto creatore di Dio con lo sviluppo storico-cronologico del mondo. Il primato della volontà. Di contro ad Aristotele e ai suoi seguaci medievali che accentuano l’importanza dell’Intelletto nell’uomo, facoltà capace di realizzare a pieno la natura umana, i francescani sottolineano la centralità della volontà come vero centro della decisione e della condotta umana. La volontà in molti autori francescani (vedi, ad esempio, Duns Scoto) è autonoma e sovrana. Dio come primo oggetto del conoscere. Origine dell’illuminazione dell’anima, Dio per l’uomo è, nella teologia francescana, il primo oggetto della conoscenza, la cui esistenza si Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella può provare a priori e che può essere contemplato. In Tommaso, invece, Dio può essere dimostrato a posteriori, con argomenti che dagli effetti (le creature) risalgono alla loro causa (il Creatore). Molti di questi tratti dottrinali caratterizzano e possono essere rinvenuti nei principali pensatori francescani nel XIII secolo, a partire da Roberto Grossatesta. GROSSATESTA: FILOSOFIA DELLA LUCE ED EPISTEMOLOGIA La dottrina più caratteristica del pensiero di Roberto Grossatesta è la filosofia della luce, che consiste innanzitutto in una teoria sulla nascita dell’universo mediante l’opera della lux. Grossatesta, in una serie di opuscoli come il De luce, sviluppa una dottrina in base alla quale la luce è causa prima della nascita della realtà e fondamento di ogni forma di conoscenza “scientifica” dell’universo. In questa dottrina la tradizione agostiniana è sviluppata sulla base della concezione metafisica dell’universo neoplatonico (attraverso Dionigi Areopagita e il Proclo del Liber de causis) e della scienza ottica di derivazione araba. Grossatesta afferma che la luce è la prima forma corporea, ovvero la corporeità. All’origine dell’universo esiste, infatti, un punto luminoso inesteso; appena creato tale punto inizia ad espandersi, in quanto la luce ha come suo carattere proprio la capacità di dilatarsi. Tale espansione produce un corrispettivo movimento della materia prima che è inscindibile dalla propria forma (ovvero la luce); la dilatazione della luce e della materia determina la nascita delle dimensioni spaziali e con queste di una realtà organizzata secondo queste, ovvero la corporeità. In Grossatesta materia e forma prime sono assolutamente semplici e inestese; solamente la diffusione della luce e il suo moltiplicarsi producono la nascita della corporeità e delle realtà dimensionali. La luce espandendosi tende anche a rarefarsi, cioè a diventare sempre meno concentrata e potente. Come un qualsiasi raggio luminoso che si allontana dalla propria origine, anche la lux grossatestiana tende a diminuire progressivamente in intensità. Nel punto di massima rarefazione la luce produce il firmamento, ovvero il cielo più esterno (secondo il modello cosmologico antico); questo è anche il primo corpo perché consta della materia e della forma prime, nella loro massima espansione e organizzate quindi secondo le tre dimensioni (ricordiamo che il dilatarsi della materiaforma produce il corpo esteso nelle tre dimensioni). In quanto è composto di forma e materia prima il firmamento è una realtà spirituale: Grossatesta lo definisce uno spirito corporeo o un corpo spirituale. Dopo aver posto in essere il primo cielo la luce continua a muoversi, ma in direzione opposta a quella precedente. Il cielo più alto, infatti, riflette la sua luce verso il centro dell’universo; non si tratta più della luce come forma prima (lux), ma del riflesso di questa luce che Grossatesta chiama lumen. La luce così rifratta procedendo verso il centro dell’universo comprime la massa di quanto esiste al di sotto del primo cielo; questa pressione produce per compressione una divisione della massa e una sua condensazione. È in questo modo che i successivi cieli dell’ordine cosmico vengono all’essere, ciascuno sempre più materiale e corporeo proprio a causa della compressione e conseguente distinzione delle sue parti. Oltre il nono cielo tale processo finisce per generare la massima corporeità e moltiplicazione delle parti, con tutti i caratteri a tale stato connessi, ovvero generazione Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella e corruzione, accrescimento e distruzione; si tratta delle quattro sfere degli elementi materiali (fuoco, aria, acqua e terra), ciascuno sempre più pesante e materiale per la crescente pressione della luce riflessa nel suo movimento verso il centro. In questo modo Grossatesta spiega la nascita dell’universo e la gerarchia delle sue parti, dal più spirituale al più corporeo. Questa dottrina permette anche di fondare una conoscenza razionale della realtà. Grossatesta conosce i trattati di ottica arabi, i quali studiano il propagarsi della luce secondo le regole geometriche che presiedono alla rifrazione della luce stessa. Quando incontra una superficie, infatti, la luce si rifrange secondo regole geometriche creando angoli e le relative linee o figure. In questo modo, poiché la luce è l’origine di ogni cosa, la realtà universale può essere conosciute nelle sue cause secondo le varie leggi della geometria; nel suo De lineis, angulis et figuris, Grossatesta, quindi, individua la scienza che descrive il comportamento della luce nella geometria e pone questa disciplina come strumento privilegiato per conoscere l’universo, mediante una sapere propter quid, ovvero il sapere che parte dalle cause per dedurne tutti gli effetti. La filosofia della luce fornisce a Grossatesta anche la teoria delle forme e modi della conoscenza umana. Il rapporto tra anima e corpo è descritto dal vescovo di Lincoln, infatti, in termini agostiniani e neoplatonici come il rapporto tra due realtà delle quali la prima è superiore alla seconda. Per questa ragione il corpo non può agire sull’anima, ma sarà questa a cogliere e giudicare le affezioni che colpiscono il corpo stesso; lo strumento con il quale la sostanza psichica opera come forza in grado di monitorare/avvertire la corporeità di quanto le accade è proprio la luce, che permette la connessione tra due realtà così difformi. In armonia con la filosofia della luce e con le sue radici metafisiche Grossatesta sviluppa una dottrina realista degli universali. Questi esistono realmente, in maniera però differenziata a seconda di quale livello cosmico si prenda in considerazione. Gli universali, infatti, esistono: come paradigmi delle cose, analoghi alle Idee platoniche nei diversi cieli e nelle Intelligenze (come realtà angeliche) che presiedono a ciascuno di essi, sotto forma della conoscenza delle cose reali che tali Intelligenze contribuiranno a produrre nei diversi cieli come cause delle specie delle realtà terrestri nelle realtà concrete come specie e generi, forme che ne rendono possibile il sapere Solo in questa loro ultima manifestazione gli universali sono predicabili delle cose e fanno parte del sapere logico. L’uomo conosce gli universali solamente nella mediazione sensoriale, in quanto la sua anima nel rapporto con il corpo ha smarrito la capacità di sollevarsi all’intuizione diretta delle forme (così come esse di danno nei primi tre gradi della gerarchia prima definita) e deve essere sollecitata dal sapere corporeo. Oggetto del sapere umano sollecitato dall’esperienza concreta sono l’universale semplice e l’universale composto sperimentale. Mediante il rapporto sensoriale con il mondo fisico, infatti, Grossatesta ritiene che l’uomo possa giungere a un sapere che è relativo essenzialmente all’universale semplice e l’universale composto sperimentale. Con la prima espressione Grossatesta fa riferimento ai termini semplici di ogni conoscenza, come i singoli concetti universali (ad esempio “uomo”); con la secondo espressione il pensatore Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella francescano intende le proposizioni che questi termini semplici, una volta uniti insieme, producono, generando giudizi. In questo modo Grossatesta definisce una complessa teoria sull’origine del sapere umano. L’uomo, infatti, per Grossatesta mediante l’esperienza sensibile può condurre la propria ragione a cogliere l’universale (universale semplice); mediante la ripetizione della stessa esperienza l’individuo sarà poi in grado di generare un giudizio, trovando correlazioni e rapporti causali tra i termini universali semplici. In questa ultima attività consiste per l’uomo la scienza, definita appunto come il processo volto a cogliere relazioni causali tra termini. L’esempio fatto a questo proposito da Grossatesta è il rapporto tra ingestione di una sostanza (la scammonea, un tipo di erba medicinale) e l’effetto che produce sul corpo (nel caso della scammonea, l’espulsione di bile); facendo questa esperienza più volte si giunge a formulare un giudizio e la corrispettiva legge per cui all’ingestione del primo elemento si associa la produzione del secondo. In questo contesto Grossatesta parla anche della necessità, per giungere a un giudizio corretto, di ripetere l’esperienza in condizione controllate, ovvero eliminando gli altri fattori che possono produrre lo stesso effetto (come la secrezione della bile); solo in questo modo, osserva il filosofo francescano, si può essere sicuri che sia proprio la presenza del fattore da noi analizzato (la scammonea) a determinare l’effetto che vogliamo studiare. Nella sua epistemologia Grossatesta mette a frutto la propria famigliarità con la gnoseologia e la cosmologia di Avicenna (le intelligenze celesti come mediatrici delle forme) e il suo studio degli Analitici secondi di Aristotele. Proprio il commento grossatestiano a questa importante opera aristotelica sulle forme e i modi della conoscenza umana sarà strumento essenziale per il suo studio durante il Medioevo. Per alcuni aspetti della sua epistemologia Grossatesta è stato considerato da alcuni studiosi un precursore del sapere moderno scientifico. Grazie al confronto con opere dello Stagirita come gli Analitici secondi, infatti, il vescovo di Lincoln: da un lato afferma la necessità di condurre l’indagine empirica in condizioni controllate per essere sicuri del risultato ottenuto (secondo quanto viene consigliato nella ricerca sulle proprietà della scammonea) dall’altro identifica la geometria quale base e strumento della conoscenza fisica, in ragione della metafisica della luce come sua centrale teoria cosmologica Queste dottrine in effetti, sebbene in un contesto teorico molto diverso da quello in cui nasce la scienza moderna, possono essere avvicinate alle indicazioni presenti in Galilei sulla corretta modalità di preparazione dell’esperimento e sulla Natura come libro scritto in caratteri geometrici. BONAVENTURA: FEDE, MISTICA E CONOSCENZA RAZIONALE Il pensiero di Giovanni di Fidanza, conosciuto con il suo nome da religioso ovvero Bonaventura da Bagnoreggio, riassume efficacemente l’impostazione teologica propria del pensiero francescano. Bonaventura, infatti, dimostra di conoscere bene la filosofia e le dottrine aristoteliche che in quegli anni venivano introdotte in Occidente, ma al tempo stesso afferma con chiarezza il pericolo non della filosofia (o dell’aristotelismo) in sé bensì di un uso imprudente di tali strumenti. Alcune dottrine razionali e proprie del pensiero dello Stagirita, infatti, contraddicono la Fede e il pensatore cristiano non può esporre queste teorie senza subito confutarle, poiché così facendo induce le persone meno preparate a ritenere valide queste posizioni; in quanto differenti dal dogma e dalla Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Rivelazione, invece, simili dottrine devono essere rifiutate e dimostrate erronee (come dice in un sermone del 1267 servendosi della metafora del pozzo lasciato non coperto e degli animali che vi cadono dentro, secondo l’immagine già presente nel libro dell’Esodo 21, 33). La filosofia in questo modo deve essere utilizzata in maniera attenta e va sempre fatta dialogare con la Fede, come sicura pietra di paragone in ogni ricerca della Verità. Tale progetto filosofico e teologico di San Bonaventura è ben riassunto nel suo testo probabilmente più famoso: l’Itinerario della mente in Dio (Itinerarium mentis in Deum). Lo scritto, infatti, descrive il percorso che l’uomo deve seguire per arrivare a Dio. Tale percorso è diviso in tre tappe: cogliere il divino nelle tracce che questo lascia nella realtà fisica cogliere il divino nell’immagine che Dio stesso ha impresso nell’anima dell’uomo cogliere il divino al di sopra del mondo e dell’uomo In ciascun momento l’uomo può, infatti, ritrovare un legame tra Dio e quanto da esso è prodotto, secondo una gerarchia di crescente perfezione: l’immagine di Dio che si trova nel mondo fisico è il vestigium che sarà inferiore all’immagine presente nell’uomo, ovvero l’imago meno perfetta a sua volta della traccia del divino in quanto sta “sopra l’uomo”, definita similitudo. Il percorso totale è composto di: sei tappe, in quanto ciascuno dei momenti può essere sdoppiato in due sotto-fasi. In ciascun caso, infatti, il divino può essere considerato come fine e come principio della ricerca dell’uomo. L’uomo, quindi, ritroverà Dio nelle cose fisiche perché esse sono ordinate e soggette a categorie razionali. Troverà Dio nella sua anima, in quanto questa riceve direttamente da Dio la luce della conoscenza e si articola in una trinità di facoltà (amore, intelletto e memoria). Troverà Dio in quanto trascende la dimensione finita; è questa la fase in cui si conosce Dio nella maniera più diretta e semplice secondo i nomi che la stessa bontà divina ha voluto far conoscere all’uomo nella Rivelazione, ovvero “Essere” nell’antico Testamento (secondo quanto in Esodo 3, 14 Dio stesso risponde a Mosè, quando questi gli chiede cosa dovrà dire al popolo ebraico quando gli verrà chiesto quale sia il nome del Dio: “Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi»”.) e “Amore/Bene” nel nuovo Testamento. Il primo nome deve essere inteso come l’esistere pieno, l’assenza di imperfezione, l’essere eterno. In questo senso Bonaventura accetta e riprende la prova ontologica di Anselmo. Dio è la piena perfezione e l’assenza di limite; la sua stessa natura, quindi, costringe l’uomo a pensarlo come veramente esistente. L’argomento anselmiano, tuttavia, è riformulato da Bonaventura nell’espressione: Si Deus est Deus, Deus est (“Se Dio è Dio, Dio esiste”); se si attribuisce a Dio la natura che veramente Lo definisce (la perfezione e la pienezza anche ontologica), affermando così la sua identità con Se medesimo, non si può che concludere che Egli esiste necessariamente, in quanto la perfezione della sua essenza non può essere priva dell’essere. D’altra parte la stessa relazione diretta che l’anima ha con Dio, quale fonte delle sue certezze e sorgente della luce che la illumina, fornisce l’uomo di un sapere immediato della stessa esistenza di Dio, come realtà subito presente alla stessa anima umana. Il secondo nome di Dio come Amore ci fa comprendere che Dio è una relazione, prima tra le varie Sue Persone poi con il mondo creato. L’amore di Dio si realizza pienamente nell’incarnazione della seconda Persona, il Figlio, la cui contemplazione rappresenta la sesta tappa del viaggio descritto da Bonaventura. L’ultimo momento, il settimo, del cammino dell’uomo verso Dio è l’uscita dell’anima dell’uomo da se stessa, il suo auto-superamento, l’estasi per un incontro con Dio di natura mistica. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella La dottrina della conoscenza di Bonaventura si basa sulla dottrina dell’illuminazione e sul recupero della dottrina delle Idee divine che già Agostino aveva fatta propria (esemplarismo). Bonaventura ritiene che la conoscenza certa del vero non possa essere spiegata se non con il rapporto tra l’anima dell’uomo, da un lato, e Dio quale creatore delle Idee eterne, dall’altro. Bonaventura osserva, infatti, che il sapere autentico richiede l’infallibilità del soggetto che conosce e l’immutabilità dell’oggetto conosciuto. Questi due requisiti non si possono trovare nella realtà fisica alla quale l’uomo appartiene: l’individuo stesso che conosce è sempre soggetto all’errore e le realtà materiali conosciute sono divenienti. È allora necessario supporre che sia Dio stesso, autore infallibile del Vero, a mostrare la Verità stessa delle Idee, come paradigmi eterni che non mutano, all’anima dell’uomo. Questo avviene mediante l’illuminazione della stessa anima ad opera della luce divina; Dio, quindi, è presente alla sostanza psichica del singolo individuo, rendendola capace di conoscere il vero. La distanza che sussiste tra uomo e Dio, tra conoscenza umana e Idee eterne, tuttavia, fa sì che il sapere dell’uomo sia sempre imperfetto rispetto all’autentica sapienza; le Idee eterne forniscono all’anima principi creati di assoluta certezza, ma non la totale verità delle Idee stesse. Bonaventura ritiene che anche il sapere sensibile abbia un’importanza per l’uomo. La conoscenza dei sensi nasce dal giudizio che l’anima dà sulla modificazione di un organo di senso a partire da un oggetto esterno; l’anima, pertanto, in parte subisce questa azione e in parte è in sé attiva perché la giudica. Le immagini sensibili che così si producono sono il materiale da cui l’intelletto possibile astrae gli universali; questo intelletto non è pura potenzialità, ma prepara le nozioni intelligibili con l’aiuto dell’intelletto agente. Quest’ultimo non è anch’esso perfettamente in atto poiché in questo caso sarebbe Atto puro e un’Intelligenza agente separata (di natura divina come quella di cui parla Avicenna). È solo l’intervento diretto di Dio a portare a compimento il processo della conoscenza, fornendo un’intuizione delle Idee eterne e delle verità, mediante l’illuminazione che infonde nell’intelletto umano i principi derivati dalle Idee stesse. Bonaventura fonda la sua visione del mondo fisico sulla dottrina dell’ilemorfismo universale e su quella della pluralità delle forme. Per Bonaventura l’universo è una realtà creata nel tempo. Il filosofo francescano, infatti, rifiuta la dottrina dell’esistenza ab aeterno della realtà cosmica, ritenendola non solo contraria alla Fede ma anche in se stessa auto-contraddittoria (a differenza di quanto farà Tommaso); Bonaventura, a questo proposito, osserva, ad esempio, che ammettendo l’eterna esistenza del mondo si dovrebbe anche ammettere che due numeri infiniti (come quello relativo alle rivoluzioni lunari e quello delle rivoluzioni solari) dovrebbe essere l’uno 12 volte maggiore del secondo, il che è impossibile (proprio in quanto entrambi infiniti). La realtà creata appare chiaramente composta da due elementi: esistenza ed essenza, forma e materia. Ogni ente in quanto creato dipende per il suo esistere dalla propria Causa e così possiede un’essenza (una natura che lo definisce) differente dalla sua esistenza (il suo esistere non è coimplicato dalla sua natura e pertanto dipende, nel venire all’essere, da una Causa). La coppia materia/forma, invece, è tradotta da Bonaventura nella diade potenzialità/atto: la materia è la pura possibilità (la semplice disponibilità a ogni forma) che viene definita, assumendo una natura, particolare dalla forma. Partendo da questa dottrina sulla materia Bonaventura giunge a sostenere una posizione ilemorfica, secondo la quale ogni realtà, eccetto Dio, è composta di materia e forma. Bonaventura, infatti, osserva che: anche la corporeità e la materialità sono forme che ineriscono alla materia in quanto tale, definendola: la materia in se stessa non è corporea. Per questa ragione un sostrato materiale è rinvenibile anche in sostanze non fisiche Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella ogni essere creato e finito sarà il prodotto di un limite formale e di una potenzialità di carattere materiale, mentre Dio sarà solo atto e solo forma (quindi privo di un residuo d’essere non ancora realizzato). Questa dottrina si fonde con quella della pluralità delle forme. Ogni ente non ha una sola forma che lo definisce, ma molteplici forme che spiegano le sue differenti proprietà e attività. Come per l’ilemorfismo anche l’anima ha una propria materia incorporea, così anche i corpi hanno molteplici forme. Bonaventura in particolare individua anche nelle realtà corporee più semplici una forma generale dei corpi, ovvero la luce (considerata la forma comune a cui tutte le realtà partecipano), e le forme particolari degli elementi primi presenti in quei corpi. RUGGERO BACONE E LA RIFORMA DEL SAPERE L’opera di Ruggero Bacone viene ricordata, innanzitutto, per la sua polemica contro quelli che egli riteneva gli errori del sistema culturale e formativo della propria epoca. Bacone, infatti, è autore di un progetto di riforma globale del sapere, delineato in tre opere (Opus maius, minus e tertium), ma mai interamente realizzato. Bacone parte da un’analisi delle cause dell’errore umano che egli individua in: utilizzo non critico delle autorità passate, in particolari quando queste sono deboli l’assumere comportamenti o dottrine solo perché sono imposte dalla consuetudine e dall’abitudine l’accettazione di una presunta verità solo perché questa è creduta dalla maggior parte delle persone. La causa somma di errore che spiega tutte le altre è infine individuata nella: volontà di apparire sapienti anche se non lo si è, nascondendo la propria ignoranza Per questa ragione Bacone è un sostenitore dell’introduzione e dello studio nel sistema culturale occidentale dei nuovi testi, in particolare aristotelici, sui quali tiene lezione a più riprese a Parigi nonostante i divieti. L’innovazione e l’acquisizione di nuove fonti, infatti, è centrale per Bacone al fine di riformare il sapere ed emendare gli sbagli del mondo latino. Il confronto con il nuovo sapere in Bacone è comunque fondato su un atteggiamento critico e razionale: il pensatore francescano valuta la storia dell’aristotelismo, i suoi meriti e i suoi errori, con un approccio decisamente moderno (d’altra parte anche gli autori che più furono attivi nell’operare le prime sintesi tra cristianesimo e aristotelismo, come Alberto Magno, affermavano con chiarezza che lo Stagirita in quanto uomo era anch’gli soggetto all’errore). Va ricordato, tuttavia, come Bacone insista così fortemente sulla necessità di una ridefinizione del sapere perché attribuisce alla riforma dei curricula accademici un valore anche sociale ed escatologico. Grazie a una sapienza veramente ben fondata, infatti, Bacone ritiene che la comunità dei credenti e tutto il mondo cristiano potranno in futuro distruggere l’Islam, percepito come epitome di ogni religione contraria al cristianesimo, convertire i Tartari, che premevano sui confini dell’Europa, e difendersi dall’imminente venuta dell’Anticristo. Bacone ritiene che ogni verità si possa trovare contenuta nelle Scritture e che possa da queste essere dedotta mediante la conoscenza del diritto canonico e della filosofia. L’unicità della sorgente della sapienza stessa, ovvero Dio e la Rivelazione, rende necessaria l’esistenza anche di un’unica comunità e potere. Bacone teorizza così la necessità che la respublica fidelium (la cristianità tutta) sia dominata dalla Chiesa e dal papa, responsabili della diffusione e difesa della sapientia scritturale. Sotto questa unico potere i singoli individui possono conoscere le Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella verità di fede che permetteranno loro di salvare la propria anima e le verità naturali che permetteranno loro di vivere un’esistenza pacifica e produttiva. Per creare questo nuovo sapere sotto l’egida della verità rivelata Bacone ritiene sia necessario: mostrare gli errori delle precedenti filosofie definire l’esatto rapporto tra teologia e filosofia studiare le strutture del linguaggio e imparare gli idiomi più importanti (le lingue sapienziali collegate con la Rivelazione e la conoscenza di Dio: greco, ebraico, arabo e caldeo) approfondire le discipline scientifiche e naturali, in particolare matematica, astronomia e geometria approfondire la conoscenza dell’ottica geometrica (perspectiva) potenziare l’insegnamento morale In questo percorso educativo baconiano vanno sottolineati alcuni elementi particolarmente significativi che permettono di cogliere l’originalità dello stesso Bacone. In particolare bisogna mettere in luce il duplice tema delle discipline matematico-fisiche e della conoscenza delle lingue, tematiche dove si avverte l’influenza esercitata sul pensatore francescano da Roberto Grossatesta. Bacone con la seconda dimostra di essere consapevole non solo della necessità dell’aggiornamento culturale dell’Occidente, ma anche della complessità dei processi di traduzione; il pensatore francescano è cosciente di come solo una seria preparazione linguistica permetta di rendere un testo in un diverso idioma in modo efficace e intelligibile. Bacone, d’altra parte, lascerà anche significative riflessioni sulle tecniche del tradurre, criticando molti autori del tempo impegnati nella produzione di versioni latine di testi greci e arabi (Bacone ha parole di lode per la sua attività di traduttore solo per Grossatesta, che si era in effetti molto impegnato nella preparazione di versioni latine di testi scientifici redatti in greco). Con l’attribuzione di un ruolo culturale centrale alle matematiche in generale e all’ottica geometrica in particolare, invece, Bacone richiama l’attenzione sulla centralità di queste discipline per la conoscenza del mondo fisico. Riprendendo la metafisica della luce grossatestiana, Bacone afferma che la realtà fisica si genera ed è spiegabile nei suoi comportamenti attraverso le leggi di propagazione della luce. Angoli e figure geometriche che descrivono il comportamento dei raggi luminosi permettono anche di comprendere l’azione delle forze naturali. L’ottica diviene così radice di una teoria del mondo naturale che pone al proprio centro la categoria di “forza”, fornendo al tempo stesso un accesso privilegiato alle stesse leggi del mondo fisico. Tale teoria viene riassunta da Bacone nella dottrina della propagazione delle specie, dove “specie” significa sia l’ “immagine” di una realtà sia il suo “potere” di agire su altri oggetti. L’attenzione al linguaggio propria del pensiero baconiano fa sì che uno dei più importanti contributi dello stesso Bacone alla speculazione del XIII secolo sia quello relativo alla semiotica (teoria dei segni, in particolare linguistici). Per Bacone segno è ogni cosa, sensibile o non sensibile, che quando viene inteso designa qualcosa. I segni sensibili possono essere le cose concrete le quali fungono da segno (il fumo è segno per il fuoco); i segni non sensibili sono i concetti (il concetto mentale di “uomo” è segno dell’uomo concreto). I segni si distinguono poi in naturali e prodotti dall’anima in maniera intenzionale. Tale distinzione è quella propria di Agostino: esistono stati di cose che naturalmente permettono di inferire la relazione tra due cose, sicché la prima rinvia alla seconda (come nel caso dell’inferenza: “se è il terreno è bagnato è probabile che abbia piovuto”), ed esistono segni che sono prodotti in modo volontario, come il suono di una tromba che in battaglia indica un preciso ordine. Questa seconda categoria (segni intenzionali dell’anima) è poi suddivisa in segni prodotti dall’anima che significano naturalmente e segni prodotti dall’anima che significano per convenzione. Alla prima tipologia appartiene la risata come segno di gioia (non si devono Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella confondere in questo caso naturale e involontario: anche se la risata è volontaria essa è universalmente e naturalmente segno di gioia). Alla seconda tipologia appartengono le forme di comunicazione secondo le lingue naturali: in questi casi il rapporto tra il segno scritto “uomo” e l’uomo reale è frutto di una convenzione e, infatti, il segno per la medesima realtà (ad esempio per l’uomo) cambia da lingua a lingua. CRONOLOGIA - Nel 1175 nasce a Stradbrook, nel Suffolk, Roberto Grossatesta - Nel 1214 (circa) nasce a Ilchester, nel Somersetshire, Ruggero Bacone - Nel 1217 nasce a Bagnoreggio Giovanni Fidanza - Sino agli anni ’20 del ’200 le notizie sulla vita di Grossatesta sono poche. Si sa che nel 1222 è cancelliere a Oxford dove con ogni probabilità si è anche formato - A partire dalla metà degli anni (forse 1224) Grossatesta ricopre l’incarico di maestro di teologia nello Studium dei francescani a Oxford - Dal 1229 al 1231 Grossatesta è arcidiacono di Leicester - Intorno alla prima metà degli ’30 del ’200 a Oxford Ruggero Bacone è allievo di Roberto Grossatesta; per tutta la vita conserverà grande stima per il suo maestro e la sua opera - 1235: Grossatesta è nominato vescovo di Lincoln. Anche in questa veste continuerà a promuovere l’attività di traduzione di testi filosofici e scientifici: l’Etica nicomachea di Aristotele (prima versione latina completa) con i commenti al trattato di Eustrazio di Nicea e Michele di Efeso, l’aristotelico De caelo (non integralmente) con il commento di Simplicio, alcune opere di Giovanni Damasceno (come il De haeresibus), gli scritti dello pseudo-Dionigi, per citare solo alcune delle opere le versioni latine delle quali si devono all’attività del pensatore inglese - Nel 1243 Giovanni Fidanza entra nell’ordine francescano (prendendo il nome di Bonaventura da Bagnoreggio), dopo un periodo di studio a Parigi. - Nel 1245-55 Bacone è a Parigi per gli studi di teologia - Dopo aver proseguito gli studi in teologia sotto la guida di Alessandro di Hales, Bonaventura diviene baccelliere biblico nel 1248 - Nel 1253 Bonaventura diviene maestro di teologia a Parigi, mentre scoppia la controversia tra maestri secolari e maestri degli ordini mendicanti (come Bonaventura); il frate francescano sarà più volte impegnato a difendere il suo ordine dalle accuse lanciategli nel corso di questa disputa. - Muore a Lincoln nel 1253 Roberto Grossatesta - Nel 1254 Bonaventura diviene generale dell’ordine francescano succedendo a Giovanni da Parma. Da questo momento Bonaventura è molto attivo e viaggia spesso, a causa del suo ruolo nell’ordine francescano - Nel 1255 Bacone entra a far parte dell’ordine francescano - 1260: Bonaventura riceve l’incarico di scrivere la biografia ufficiale di san Francesco (la Legenda) - Nel 1271 è al concilio di Viterbo e nel 1272 al capitolo generale di Lione. - Bonaventura muore a Lione 1274 - Dopo le polemiche e le difficoltà suscitate dal suo piano di riforma del sapere, Bacone muore forse Oxford successivamente al 1292 - Bonaventura viene proclamato santo nel 1482 e dottore della Chiesa nel 1588 Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella TOMMASO D’AQUINO E LO STUDIO DEL PENSIERO GRECO-ARABO L’opera filosofica e teologica di Tommaso d’Aquino (1224/25 – 1274) è caratterizzata dallo sforzo di comprensione e adattamento della speculazione greco-araba fondata su Aristotele al contesto dottrinale cristiano. La tradizione storiografica, infatti, ha spesso descritto il pensiero tomista come una delle più riuscite operazioni di integrazione tra i dati della Rivelazione e la pratica razionale derivante dal mondo pagano antico. Alcuni storici della filosofia hanno così visto in Tommaso il pensatore che riassume il senso della filosofia medievale, in quanto autore che concilia la grande Filosofia greca (Aristotele), organizzata attorno a una ben definita teoria dell’essere (la dottrina della sostanza e dei sensi dell’essere che lo Stagirita introduce nei suoi scritti), e la Rivelazione. La complessità dell’esperienza speculativa nell’epoca di mezzo consiglia di ridimensionare simili giudizi. Questa valutazione dell’opera tomista, infatti, da un lato si fonda sulla pre-definizione della filosofia medievale come non solo dominata unicamente dalla dialettica di Fede e Ragione ma anche interessata principalmente alla sottomissione della seconda alla prima (la filosofia come ancilla theologiae); dall’altro vede nella definizione di Dio in termini metafisici rigorosi (desunti da Aristotele) come Essere la forma più perfetta di teologia, secondo le indicazioni che la stessa Bibbia fornirebbe al credente in Esodo 3, 14 (la risposta a Mosé di Dio che dice di Sé: “Io sono colui che è”; è stato in particolare Etienne Gilson a enfatizzare questi aspetti del pensiero medievale e del tomismo parlando di “metafisica dell’Esodo”). In modo più equilibrato si può che Tommaso appartiene a quella generazione di pensatori che si confrontano con la ricca tradizione speculativa araba (innanzitutto Avicenna e Averroé) e greca (Aristotele); lo sforzo teoretico di Tommaso è comprendere a pieno tale tradizione al fine di poterla riformulare, superandone limiti e incoerenze, in modo personale e all’interno delle coordinate speculative proprie del mondo cristiano. Al centro di una simile operazione è naturalmente presente un confronto tra la ragione aristotelica e la Rivelazione cristiana, ma in termini più complessi di quanto alcune ricostruzioni abbiano voluto far credere. Il successo del progetto filosofico-teologico tomista sarà alla base della grande fortuna di cui godette la dottrina dello stesso Tommaso. Nonostante gli attacchi da parte di alcuni pensatori poco dopo la sua morte e la condanna nel 1277 di alcune dottrine di ispirazione tomista, infatti, nel 1309 il Capitolo generale dei Domenicani (ordine religioso al quale Tommaso apparteneva) indica nella filosofia tomista la linea dottrinale che tutti gli appartenenti all’ordine devono seguire. Nel 1567 Tommaso verrà nominato dottore della Chiesa e nel 1879 (con l’enciclica Aeternis Patris di Leone XIII) paradigma nonché modello del pensiero cristiano. L’opera di Tommaso, quindi, rimane di centrale importanza nella storia del pensiero medievale e della filosofia occidentale, quale espressione dello sforzo fatta dal mondo latino per appropriarsi della “nuova” filosofia e quale testimonianza dei successi che in questa operazione ottenne. QUESTIONI DI METODO E RAPPORTO FEDE/RAGIONE Per comprendere il rapporto tra Rivelazione e filosofia nel tomismo è necessario soffermarsi su alcune questioni metodologiche presenti in Tommaso, innanzitutto quella dello statuto della teologia. In Tommaso è rinvenibile il progetto di trasformare la ricerca teologica in una vera scienza. In termini aristotelici, tuttavia, scienza è solamente ciò che: Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella procede da principi evidenti e applica a essi un metodo dimostrativo per procedere dal noto all’ignoto, creando così un sapere universale Nell’ambito della fede, invece: i principi non sono evidenti (la stessa esistenza di Dio deve essere dimostrata e non è evidente) il racconto biblico si concentra solo su fatti particolari. Tommaso cerca di risolvere il problema mediante la teoria della subalternatio delle scienze di Aristotele. La subalternazione delle scienze è quella teoria per cui una scienza che appartiene a un grado inferiore (scienza subalternata) rispetto a un’altra disciplina il cui contenuto è più universale (scienza subalternante) dipende dai principi evidenti di questa scienza superiore e da essi procede come fossero per lei (ovvero per la scienza subalternata) evidenti, benché la stessa scienza subalternata non ne abbia diretta conoscenza o dimostrazione (è questo il caso, ad esempio, della farmaceutica che dipende da nozioni e principi della medicina non oggetto diretto della stessa scienza farmaceutica). Nel caso della teologia: la scienza subalternante è la teologia come conoscenza che Dio ha di sé e che i beati in parte potranno attingere dopo la morte, mentre la scienza subalternata è la teologia che l’uomo può elaborare già in questa vita (theologia nostra) e i principi evidenti della scienza subalternante utilizzati dalla scienza subalternata sono quelle verità comunicate dalla Bibbia e dalla Rivelazione divina In questo modo la ricerca teologica ha una qualità scientifica poiché procede per via di dimostrazione a partire da dati i quali sono evidenti non per la theologia nostra (la teologia subalternata che l’uomo produce in questa vita) ma per la superiore teologia dei beati. L’importanza della ragione filosofica per la Fede in Tommaso si coglie bene anche nel tema dei praeambula fidei. Tommaso, infatti, ritieni che la ragione possa aiutare la fede: dimostrando in modo autonomo alcune verità che sono utili per la fede del credente (praeambula fidei) chiarendo alcuni aspetti della dottrina rivelata confutando coloro che rifiutano la Rivelazione e cercano di dimostrarne la falsità 1) Quanto al primo aspetto, Tommaso crede che la sola ricerca filosofica, senza prendere le mosse da dottrine di carattere rivelato, possa dimostrare verità che sono utili al credente (praeambula fidei). Alcune verità che la filosofia può dimostrare in modo autonomo, quindi, risultano capaci di supportare articoli di fede e parti del Credo del cristiano. In questo modo che esista un Dio o che l’anima sia immortale sono asserzioni vere che la pura ricerca razionale riesce a dimostrare indipendentemente dal riferimento alla Rivelazione (e, infatti, si possono trovare anche negli autori pagani), ma che contribuiscono a confermare la fede cristiana. 2) Per quanto riguarda la chiarificazione di aspetti particolarmente complessi della fede, Tommaso ritiene che la ragione possa, ad esempio con similitudini e metafore, rendere più comprensibili dogmi come quello della Trinità. 3) Quanto alla capacità di confutare gli avversari delle fede, Tommaso stesso utilizza argomenti filosofici per dimostrare l’inconsistenza di teorie razionali che porterebbero a esiti teorici contrari alla verità Rivelata. Nel caso della unicità dell’intelletto (la posizione dei sostenitori latini di Averroé per cui esiste un unico intelletto agente e un unico intelletto possibile per tutta la specie umana con la conseguenza di affermare la mortalità dell’anima umana, la quale è legata al corpo e Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella corruttibile) Tommaso critica una simile dottrina non solo perché è contraria alla fede, ma perché è filosoficamente falsa (Tommaso ritiene che Averroé tradisca la teoria di Aristotele nel De anima) e come tale inaccettabile. In Tommaso, comunque, ragione e fede restano forme di conoscenza/fonti della verità distinte le cui metodologie e dottrine non vanno confuse. Tommaso non ritiene, infatti, che ogni verità teologica sia raggiungibile mediante la ricerca razionale; anche nei casi in cui la filosofia può contribuire a confermare la Rivelazione (come nel caso dei praeambula fidei) la conoscenza filosofica non è del tutto identificabile con quella teologica. Per Tommaso fede e ragione si devono sempre trovare in un ideale accordo, in quanto procedono da una medesima fonte (Dio) e, quindi, non possono contraddirsi. Quando questa contraddizione si produce, essa deve essere solo apparente, prodotta da un errore umano nel indagare l’una o l’altra fonte della Verità (la Rivelazione o la Ragione). In particolare è più probabile che l’errore sia dovuto a una scorretta forma di ragionamento, la quale produce una teoria solo apparentemente vera. Nei casi in cui si produca questa contraddizione apparente è necessario allora seguire la Fede così come è stata correttamente definita dalla Rivelazione e fissata dalla tradizione. ONTOLOGIA E TEOLOGIA: IL DE ENTE ET ESSENTIA Al di là delle esagerazioni di alcuna storiografia, è corretto affermare che il concetto di essere riveste un ruolo centrale nel pensiero di Tommaso, a partire dal De ente et essentia. Il De ente et essentia rappresenta un testo giovanile di Tommaso (scritto negli anni ’50 del XIII secolo, quando Tommaso era baccelliere a Parigi) dedicato, come indicato nel titolo, al problema della definizione di due termini centrali per la riflessione filosofica e teologica, ovvero ens ed essentia. Nonostante sia un’opera composta nella fase iniziale della formazione speculativa tomista, il De ente può essere considerato un testimone fedele della dottrina ontologica tomista anche nelle successive fase di evoluzione del suo pensiero. In questo testo Tommaso distingue tra: l’ente reale e l’ente logico Quanto al secondo Tommaso afferma che esso è l’ente di cui si tratta all’interno di una proposizione, quando si definisce una certa realtà. L’ente reale, invece, rappresenta l’oggetto specifico dell’analisi tomista e viene subito messo in relazione con l’essenza. L’essenza è per Tommaso la natura di una cosa, ciò che la definisce e che coincide con la sua quidditas. Ens ed essentia sono termini che si trovano in costante reciproco rapporto. Mediante l’essenza l’intelletto coglie l’ente; l’ente si dà sempre unitamente a una certa essenza della quale è realizzazione concreta. “Ente”, infatti, indica l’actus essendi, ovvero l’atto di concreta esistenza di una realtà la quale non può che essere definita dalla propria quidditas. Tommaso distingue a questo punto il rapporto di ente ed essenza nelle creature e in Dio. Se l’ente è l’atto di esistere di una certa essenza, in Dio tale rapporto sarà costante e perfetto, mentre nelle creature risulterà di opposta natura. Ciò significa che in Dio l’esistenza (l’atto di esistere) è collegato all’essenza, ovvero (in termini più precisi) che l’essenza divina è lo stesso esistere; per Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Tommaso appartiene alla stessa natura divina l’esistenza o atto di esistere (ens come actus essendi). Nelle creature l’essenza, identificabile con la natura definitoria della cosa, non coimplica l’esistenza. Dio allora: è ciò che per natura esiste e quindi è l’ente necessario massimamente esistente le creature sono quelle realtà la cui esistenza non è precompresa nella loro essenza e il cui esistere è solamente contingente. In termini aristotelici tale contrapposizione tra necessità e contingenza dell’esistenza rispettivamente di Dio e delle creature si può tradurre con la distinzione tra stato potenziale e attuale dell’essere: Dio è l’essere in sé in atto, che non è mai potenziale le creature sono l’essere in potenza, che può passare all’atto La traduzione in termini di potenzialità/attualità del rapporto ens-essentia permette di comprendere il ruolo ontologico di Dio nei confronti della realtà cosmica. Siccome le realtà create sono essere potenziale solo un essere perfettamente in atto può rendere possibile il loro passaggio dalla stato potenziale a quello di completa attualità. In questo modo: Dio è l’essere in atto che rende possibile il passaggio dalla potenzialità all’attualità delle creature quali realtà che in sé sono puro essere in potenza Tommaso realizza così una definizione di Dio come ciò che ha l’essere e quindi esiste per essenza, in qualità di essere in atto di contro all’essere potenziale del mondo. Viene così garantita per Tommaso la perfetta distinzione tra Dio e le creature, sia quelle immateriali (come gli angeli), sia quelle materiali come l’uomo. Tale distinzione si produce in ragione di una duplice forma di composizione: esiste, infatti, la composizione di materia e forma (come nel caso dell’uomo che è corpo e anima, ovvero “animale razionale”; per questo motivo l’essenza di tali realtà coincide con il composto stesso, unione di forma e materia, dove però la materia è generale e non quella materia concreta, quantitate signata, che rappresenta il criterio di individuazione della singola realtà) e la composizione di essenza ed esistenza (che riguarda sia le sostanze materiali sia le sostanze immateriali, come gli angeli). In questo modo Tommaso evitava di dover ricorrere, per spiegare l’unicità della condizione divina, alla teoria dell’ilomorfismo universale, proposta da Ibn Gabirol e ripresa da Bonaventura. Bisogna, tuttavia, ricordare a proposito di tale dottrina del De ente et essentia che Tommaso non fonda questa definizione della natura divina, come ciò che è l’essere per essenza, su una conoscenza diretta della stessa essenza divina (cosa impossibile). Tommaso, quindi, esprime in termini di rigorosa ontologia aristotelica la natura necessaria dell’esistere divino a partire dalla constatazione della contingenza delle realtà create (la cui essenza conoscibile dall’uomo non coimplica l’esistenza) e dalla conseguente necessità, dedotta razionalmente, che si dia un essere necessario in grado di spiegare l’esistere delle creature. Questa questione introduce già il problema del rapporto di analogia tra creature e Dio nonché il problema delle forme e della metodologia della dimostrazione dell’esistenza di Dio che Tommaso risolve con la dottrina delle cinque vie. ANALOGIA DELL’ESSERE Con la dottrina dell’analogia Tommaso spiega il rapporto che intercorre tra mondo e Dio, con particolare riferimento allo statuto ontologico dei due termini, secondo un rapporto che è al tempo stesso di somiglianza e difformità. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Tommaso sviluppa la teoria dell’analogia riprendendo la problematica, analizzata da Aristotele nel IV libro della Metafisica, sui molteplici sensi dell’essere. In quell’occasione Aristotele individuava tre forme di rapporto semantico tra termini dati. Rapporto di: sinonimia: due nomi hanno diversa forma e identica definizione (come nel caso “Aristotele” e “il filosofo di Stagira”, espressioni entrambe relative a un medesimo oggetto) omonimia: due nomi hanno identica forma e differente definizione (come può essere “cane” inteso come animale e “cane” inteso come parte della pistola, espressioni relative a differenti oggetti, benché identiche quanto al loro suono) paronimia: due nomi sono l’uno dipendente dall’altro, cosicché posseggono una qualche forma di similitudine benché non una totale identità di definizione. L’esempio aristotelico è quello del rapporto tra il concetto di “salute” e i diversi modi in cui questo termine è utilizzato in differenti accezioni, quali la salute che si attribuisce ad un cibo intendendo che è in grado di produrla (cibo sano) o la salute che si attribuisce a uno stato fisico intendendo che è in grado di rivelare la buona salute dell’individuo (un colorito sano) La sinonimia dà luogo a due proposizioni univoche, dove cioè identico è l’oggetto e il valore del dire. L’omonimia, invece, dà luogo a due discorsi equivoci, nei quali quindi l’oggetto del dire differisce radicalmente. La paronimia, infine, dà luogo a discorsi né univoci né equivoci, dove cioè l’oggetto della prima proposizione è simile, sebbene non identico, all’oggetto della seconda proposizione. Tommaso afferma che l’essere divino e l’essere creaturale sono due termini che hanno tra di loro un rapporto di natura paronimica, ovvero di somiglianza imperfetta. Tommaso definisce questa forma del rapporto tra due termini e la corrispettiva tipologia di discorso, analogia. Nella dottrina tomista, quindi, il valore del termine “essere” impiegato in una proposizione che parla di Dio è analogo, ovvero simile, al valore del termine “essere” impiegato in una proposizione che parla di una creatura. Tra le due accezioni di “essere” sussiste però una differenza in quanto Dio esiste in maniera più perfetta rispetto alla creatura. Il rapporto secundum analogiam che intercorre tra Creatore e creature può venire applicato alla ricostruzione dell’esatto significato di ogni attributo creaturale quando questo sia impiegato per definire la natura del divino. Il risultato di tale declinazione “analogica” della relazione tra Dio e mondo è la relativizzazione del valore di tutte le qualità creaturali quando queste vengono impiegate per parlare di Dio: l’esistenza di una similitudine tra i termini del rapporto di analogia non consente di asserire che Dio esista e possieda certi attributi nell’identico modo in cui il mondo creato esiste e possiede i medesimi attributi. L’idea di similitudine imperfetta, infatti, che è presente nell’accezione logica di analogia (e prima ancora nella paronimia di Aristotele) viene radicalizzata da Tommaso una volta che si applichi il concetto in questione al rapporto Dio-mondo. L’analogia tra creatura e Creatore, infatti, unisce realtà che sono incommensurabili, ovvero che stanno in una relazione reciproca del tutto indefinibile (si tratta del rapporto tra l’infinita perfezione di Dio, da un lato, e la finitezza del mondo, dall’altro). In questo caso si deve allora parlare di una convenientia proportionalitatis, ovvero di una forma peculiare di rapporto (convenientia come comunanza o relazione) fondata sull’analogia, dove la similitudine dei termini è ancora più sfumata. Questa difformità nella somiglianza tra Creatore e creatura viene espressa in Tommaso dalla: dottrina della via eminentiae. Con questo termine si intende la necessità, ogni qualvolta si voglia impiegare una categoria o Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella attributo tratto dal mondo creato per definire la natura divina, di ricordare che Dio supera per la sua dignità quella qualità così come l’uomo la trova realizzata, anche al massimo livello, nello stato di finitudine proprio della nostra realtà; Dio, infatti, è superiore (eminens) rispetto a ogni attributo finito. La conoscenza positiva intorno a Dio che l’analogia rende possibile, quindi, deve essere sempre relativizzata nella riaffermazione che il Creatore è superiore e più perfetto rispetto alla pienezza di ogni qualità predicabile della realtà finita. La teologia di Tommaso appare così molto complessa e influenzata da molteplici dottrine Tommaso riduce notevolmente il potere della ragione umana di conoscere adeguatamente il divino. In questa dottrina tomista emergono l’utilizzo che il teologo domenicano fa di diverse tradizioni speculative: la logica di Aristotele, la rielaborazione di tale logica in Avicenna con la riflessione sui termini ambigua e convenientia nonché con la distinzione tra predicazione univoca e predicazione paronimica o denominativa, la riflessione teologica latina a partire da Boezio. Le conseguenze di questa fondamentale modalità di pensare natura e limiti del discorso teologico saranno ben visibili nella dimostrazione che Tommaso elabora intorno all’esistenza di Dio. DIMOSTRARE CHE DIO ESISTE: LE CINQUE VIE Tommaso elabora cinque prove, alle quali ci si riferisce in genere come cinque vie, per dimostrare l’esistenza di Dio, ciascuna delle quali muove dall’analisi della realtà creata e dalla sua radicale debolezza metafisica. Le cinque vie che Tommaso elabora in una delle sue summae (Summa theologiae, Iª q. 2 a. 3 arg. 1, opera concepita come scritto introduttivo alla teologia per gli studenti della Facoltà di Parigi), hanno una tutte una medesima struttura argomentativa. Tommaso parte dall’analisi della realtà empirica creata, mettendo al centro di ciascuna prova un aspetto o qualità peculiare dello stesso mondo creaturale. Tommaso mette così in luce il carattere di non autosufficienza che segna il mondo fisico: ogni attributo proprio del creato risulta comprensibile e spiegabile solo a partire da superiore elemento metafisico. La stessa realtà creaturale, quindi, rimanda a un principio quale unico fattore che ne possa spiegare l’esistenza. Il procedimento logico impiegato da Tommaso in queste vie è quello della dimostrazione, secondo il modello aristotelico degli Analitici secondi. Tommaso, però, precisa che lo Stagirita distingue tra: dimostrazione propter quid e dimostrazione quia La prima consiste nel dimostrare una realtà a partire dalla sua causa più propria, mentre la seconda permette di dimostrare che qualcosa esiste a partire dagli effetti che questa realtà produce (dal momento che una volta posto l’effetto si deve anche dare la sua causa). La prima dimostrazione richiederebbe una conoscenza della natura di Dio e della sua essenza (quale “causa” autentica che potrebbe spiegare il perché della necessaria esistenza di Dio), il che è impossibile. La seconda, invece, risulta una soluzione argomentativa praticabile. Le cinque vie tomiste, quindi, sviluppano una dimostrazione quia, che risale dagli effetti alla loro causa dimostrandone il darsi necessario. L’esito a cui Tommaso giunge mediante queste cinque vie è la dimostrazione che esiste una realtà (aliquid), capace di spiegare i caratteri e l’esistenza del mondo e identificabile con Dio (hoc dicimus Deum, è la formula con cui Tommaso chiude il percorso argomentativo delle vie). La dimostrazione aristotelica, infatti, non è mai relativa a realtà individuali, ma a realtà universali, denotate da nomi comuni. Anche il risultato della dimostrazione attraverso le vie tomiste, quindi, riguarderà un generico e astratto principio, ma non in modo immediato e diretto il Dio cristiano, di Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella cui si parla nella Bibbia. Esiste, quindi, sempre una differenza tra il Dio cristiano e l’aliquid al quale mettono capo del vie: il Dio cristiano supera ogni definizione e, benché possa correttamente essere pensato secondo le forme che ciascuna via suggerisce, non si riduce alla definizione che le stesse prove tomiste forniscono. La prima via tomista è quella che prende le mosse dal movimento (riproducendo il ragionamento aristotelico sul motore immobile) Tommaso in questa via argomenta osservando che: il movimento è un attributo evidente della realtà creata ma ogni movimento può essere causato solo da un’altra realtà e non dalla stessa realtà che si muove, poiché in questo caso quella realtà sarebbe nello stesso momento causa del moto e cosa mossa se non esistesse una prima realtà che fosse causa del movimento di ogni altra realtà che si muove (come accadrebbe se pensassimo a una serie infinita di cause del movimento senza una prima realtà) allora ogni moto sarebbe senza spiegazione (il che è impossibile visto che il movimento è evidente) allora esiste un primo principio del movimento, identificabile con Dio La seconda via si basa sulla nozione di causa efficiente In questa via Tommaso argomenta osservando che: ogni cosa si dà come effetto in virtù di una causa diversa da sé, perché se una cosa fosse causa di sé dovrebbe essere anteriore a se stessa, il che è impossibile se non esistesse una prima causa efficiente, che agisce come causa per tutte le realtà, non si produrrebbe nessun effetto allora esiste una prima causa efficiente, identificabile con Dio La terza via si fonda sulla contingenza In questo caso Tommaso procede notando che: le cose che si incontrano nella realtà sono contingenti, in quanto possono essere e non essere. il contingente per esistere ha bisogno di qualcosa di necessario per se stesso, che lo porti all’essere deve esistere, quindi, un ente in sé necessario in grado di spiegare l’esistenza delle realtà contingenti di cui si fa esperienza e questo ente è Dio La quarta via va riferimento alla gerarchia dei gradi di perfezione Qui Tommaso fonda il suo ragionamento sul fatto che: le realtà sono ordinate secondo la maggiore o minore perfezione e ogni qualità può essere articolata secondo differenti forme di pienezza la possibilità di distinguere gradi di perfezione nelle cose è possibile perché esiste una realtà che possiede le qualità proprie delle cose in una condizione assoluta e tale realtà, modello di ogni positività creata, è identificabile con Dio La quinta via ruota intorno all’esperienza dell’ordine finalistico Tommaso nella quinta via osserva che: Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella le realtà fisiche, benché prive di vita e coscienza, sono organizzate in funzione di un certo fine, tanto da generare un ordine costante degli eventi è necessario, quindi, che via sia una realtà intelligente che interviene a organizzare i fatti del mondo e questa realtà è Dio. ANTROPOLOGIA, GNOSEOLOGIA ED ETICA IN TOMMASO Nella sua concezione dell’uomo (antropologia) e dei processi del conoscere (gnoseologia) Tommaso risulta fedele ad Aristotele sostenendo la dipendenza di ogni sapere dai sensi Tommaso riproduce con precisione nelle sue opere le teorie aristoteliche sulla conoscenza, ma è attento a evitare di dedurne dottrine che possano essere contrarie alla tradizione cristiana. Anche per Tommaso i sensi sono il primo ed essenziale momento del sapere. Attraverso la conoscenza sensoriale si produce un’immagine della cosa conosciuta, la quale è sottoposta a una prima rielaborazione grazie ai sensi interni. Tali sensi cominciano a liberare l’immagine dagli elementi concreti dovuti alla natura individuale e particolare della realtà conosciuta, creando una specie sensibile (phantasma). La cosa concreta, ad esempio il singolo uomo che vedo di fronte a me in un certo momento, quindi, produce in me un’immagine segnata da tutti gli elementi propri solo di quella realtà nella sua determinatezza (tratti del volto, aspetti esteriori, circostanze spazio-temporali); la conoscenza inizia quando tale immagine è spogliata da questi elementi e ricondotta alla sua universalità. La definitiva individuazione dell’universale nell’immagine ricavata dal sapere sensibile è il prodotto dell’intelletto agente. Tale intelletto libera le specie intelligibili presenti nei phantasma dai residui di materialità e ne trae delle specie intelligibili. Queste specie si fissano nell’intelletto possibile dell’uomo e permettono la conoscenza dell’essenza della cosa, vero oggetto del sapere umano. Questo processo di separazione delle specie e della forma dalla materia insieme con la quale si trovano unite nella realtà è definito astrazione. La materia nei confronti della quale si esercita l’attività di astrazione è la materia individuale o materia quantitate signata, la materia considerata sotto determinate e concrete dimensioni (questa materia che si estende nello spazio secondo certe misure). In Tommaso, infatti, si può ritrovare la distinzione tra una materia comune e una materia individuale: la prima è la materia intesa nella sua universalità e alla quale, come tale, si deve far riferimento anche nel processo astrattivo nella misura in cui, ad esempio, quando colgo l’essenza di uomo come “animale razionale” con il termine “animale” rimando alla dimensione corporea dell’uomo stesso la seconda è la concreta materia di cui un individuo è composto e da cui si fa astrazione nel processo conoscitivo Quindi: intelletto possibile e intelletto attivo sono facoltà dell’anima umana la quale trae le specie oggetto del proprio sapere dalla materia mediante un’attività di astrazione, grazie al tramite delle specie sensibili quali prodotto dell’elaborazione, ad opera dei sensi interni, del materiale fornito dai sensi. Questa teoria della conoscenza fornisce anche indicazioni sulla teoria dell’uomo in Tommaso. Per Tommaso l’anima dell’uomo deve essere considerata forma del corpo, a questo legata, ma al tempo stesso dotata di una propria sostanzialità. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella L’anima, infatti agisce come forma del corpo, unendosi a questo e creando un sinolo di materia (la sostanza materiale) e forma (l’anima stessa che definisce la natura umana in quanto tale). L’anima, infatti, è atto del corpo, rendendo il composto del quale consiste l’uomo capace di operare e di conoscere. L’anima, quindi: non è più una Intelligenza angelica capace di una conoscenza diretta dell’intelligibile. l’anima è un intelletto: è unita a un corpo e coglie l’oggetto del suo sapere grazie alla mediazione del corpo stesso. Tommaso, tuttavia, attribuisce all’anima la natura di sostanza intellettuale: l’anima dell’uomo, può esistere anche senza il corpo e, quindi sopravvivere alla sua morte: l’anima, infatti, in quanto capace di operare come intelletto agente, è connessa con le specie intelligibili e illuminata dalla stessa luce di Dio. Nello sviluppare le attività intellettive superiori, così come nel conoscere tutti i corpi e nell’essere autocosciente, l’anima manifesta la sua natura di sostanza sussistente per sé e quindi immortale. la morte, inoltre, è separazione della forma dalla materia alla quale la forma stessa ineriva; ma poiché l’anima non ha materia non può corrompersi Queste dottrine forniscono indicazioni anche sulla teoria etica e politica tomista. L’anima, infatti, in virtù della propria condizione di realtà che segna il confine tra immateriale e fisico, si trova sempre a scegliere tra beni particolari, ovvero realtà materiali e finite. L’anima cerca sempre il bene e tende a realizzare la propria felicità (beatitudo), ma la sua condizione di commistione con il corpo e la materia le impedisce di conoscere pienamente il Bene in sé, ovvero Dio, fine ultimo dell’azione umana; solamente nel partecipare di questo Bene perfetto, tuttavia, l’individuo raggiunge una totale realizzazione. Ogni bene particolare è solo immagine di tale Bene, cosicché l’uomo è sempre alla ricerca di una pienezza che non potrà mai essere soddisfatta nella condizione terrena. D’altra parte, poiché l’intelletto agente umano è riflesso e dono della luce divina, l’esercizio della razionalità nel conoscere essenze e specie intelligibili costituisce una forma di partecipazione al divino come Bene supremo e, quindi, rappresenta una forma di vita particolarmente perfetta: dedicarsi alla scienza e al sapere permette di ottenere già in questa vita una certa beatitudo, sempre inferiore al godimento pieno di Dio come Vero e Bene senza l’ostacolo della materia. L’uomo per Tommaso è in ogni caso dotato di una capacità naturale sia di comprendere che cosa è il bene in astratto (sinderesi) sia di agire concretamente seguendo tale bene (coscienza), ovvero: individuare nel caso concreto dove si trovi o cosa realizzi la nozione generale di bene. La reiterata azione in conformità alla coscienza genera un habitus, ovvero una sorta di seconda natura fondata sull’abitudine e il ripetersi di una tipologia di condotta, che è la prudenza. L’etica tomista è sostanzialmente intellettualista. Nella dottrina di Tommaso, infatti, emerge il ruolo centrale dell’intelletto anche per l’azione morale. È l’intelletto a cogliere cosa sia il bene e a sottoporre alla volontà il bene stesso perché questa lo scelga, agendo di conseguenza; l’errore etico, quindi, è un errore intellettuale consistente in un giudizio scorretto circa il vero bene. La norma e il giusto fine dell’azione umana sono definiti da un insieme di leggi, che sono le une dipendenti dalle altre: il vero Bene per l’uomo è prescritto dalla legge eterna, che è l’ordine voluto da Dio per le cose. la legge naturale è la partecipazione dell’uomo a questo ordine nonché la sua conoscenza razionale Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella la legge umana è il corpus di provvedimenti e norme giurisprudenziali che le società elaborano per regolare la vita degli uomini. Questa legge non è giusta in sé (ovvero: non ogni legge positiva emanata da un sistema è corretta), ma è giusta solo se prescrive quanto stabilito dalle prime due leggi. In termini politici e giuridici, quindi, Tommaso fonda la bontà di un ordinamento sociale sulla corrispondenza tra tale ordinamento e il fine posto da Dio per l’uomo. In particolare corretta è la legge umana che tende al Bene comune e non agli interessi particolari di alcuni membri della società. Il male in questa dottrina etica può allora essere pensato secondo due prospettive diverse: come male metafisico, ovvero come il male che si ritrova nell’imperfezione delle cose e nell’apparente disordine del mondo (nel lessico tomista: pena). Questo male è, per Tommaso come per molti teologici cristiani a partire da Agostino, una semplice non-esistenza, cioè un’assenza di bene e di essere. Tale male, inoltre, è funzionale alla pienezza cosmica, poiché la gerarchia naturale delle cose, ordinate in più e meno perfette, richiede che ci sia un ultimo al fine di dare senso all’esistenza di un primo come male legato all’azione. Questo male dipende dal libero arbitrio e nasce quando l’uomo, per difetto del suo intelletto e della sua volontà, sceglie un falso bene e fine, agendo non in conformità con la legge eterna e naturale. TOMMASO E LA CONDANNA DEL 1277 Le difficoltà e le controversie prodotte dall’introduzione della tradizione aristotelica nel mondo latino sono ben testimoniate dalla condanna di alcuni dottrine pronunciata dal vescovo di Parigi Étienne Tempier Il 7 Marzo 1277 Étienne Tempier, già cancelliere dell’università di Parigi nel 1263 e vescovo della città dal 1268, condanna ufficialmente 219 dottrine o proposizioni, indicategli come scorrette da una equipe di maestri della Facoltà di Teologia di Parigi. Tempier minaccia la scomunica per quanti le professeranno. Già nel 1270 Tempier, d’altra parte, aveva indicato come sospette e teologicamente pericolose 15 tesi (siamo negli anni in cui anche Bonaventura sottolinea i pericoli derivanti da alcune teorie filosofiche). La condanna del Marzo 1277 appare come la conseguenza della richiesta proveniente dallo stesso papa, Giovanni XXI, che alcuni mesi prima aveva chiesto un intervento per chiarire la reale natura e i rischi di alcune dottrine che provenivano dal mondo universitario di Parigi. Tra le 219 tesi si possono trovare posizioni o teorie molti differenti tra di loro, di natura anche non filosofica; il sillabo di Tempier indicava come pericolose anche alcune pratiche negromantiche e magiche o lo stesso De amore di Andrea Cappellano (una delle opere più famose della tradizione dell’ “amor cortese”). Molte delle dottrine condannate nel 1277, tuttavia, erano di chiaro carattere filosofico e potevano essere ricondotte alla linea speculativa aristotelico-araba. Tempier in questo modo attaccava alcune posizioni speculative che riassumevano in modo sintomatico la nuova filosofia e la nuova teologia, nate dal dialogo con il pensiero greco grazie alla mediazione dell’insegnamento arabo-ebraico. Anche Tommaso, quale autore impegnato nello studio di queste inedite fonti filosofiche, viene coinvolto dalla condanna. L’elenco di proposizioni non fa riferimento esplicitamente a nomi o persone, ma è abbastanza agevole rinvenire personaggi e autori particolari dietro ad alcune dottrine; è possibile in questo modo ricondurre talune proposizioni condannate dal sillabo (come quella che sostiene che ogni angelo, in quanto privo di materia, è non un individuo ma una specie a se stante) al pensiero dell’Aquinate. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella L’obiettivo principale dell’attacco di Tempier, tuttavia, non è Tommaso (la cui dottrina non sarà poi sottoposta a nessuna censura, avviandosi a diventare, come già ricordato, una delle sintesi dottrinali più influenti nella storia della filosofia non solo medievale). Tempier vuole mettere sotto accusa l’utilizzo delle fonti filosofiche greco-arabe e l’elaborazione di dottrine che da queste fonti potevano essere dedotte, anche se in apparente contrasto con i dogmi della Chiesa. Un simile atteggiamento speculativo può essere rinvenuto in particolare in alcuni pensatori, un tempo indicati in modo improprio come “aristotelici radicali” o “averroisti latini”, ai quali possono in effetti venire ricondotte un buon numero delle dottrine censurate da Tempier. Si tratta di autori che, negli stessi anni in cui il sillabo viene pubblicato, insegnavano alla Facoltà delle Arti e che sostenevano la necessità dell’autonomia, contenutistica e metodologica, della ricerca condotta in quella Facoltà. Va ricordato, infatti, che a partire dal 1250, anno di una importante riforma dei “pian di studio” e della conseguente introduzione a Parigi di Aristotele quale oggetto privilegiato dell’insegnamento nelle “arti liberali”, la Facoltà delle Arti parigina si era trasformata in una vera “facoltà di filosofia”. I più importanti fra questi pensatori sono Sigieri di Brabante (1240 circa – 1284 circa) e di Boezio di Dacia (attivo negli anni ’70 del ’200). Le dottrine caratteristiche della linea dottrinale della quale Sigieri e Boezio sono i più noti rappresentanti e che vennero indicate come teologicamente scorrette dall’equipe teologica di Tempier sono: l’unicità dell’intelletto umano: l’intelletto agente e possibile con i quali l’uomo coglie gli universali non sarebbero individuali e presenti in ciascun uomo, ma unici e separati, il che avrebbe conseguenze anche sulle dottrine intorno al destino ultraterreno delle persone la perfezione della forma di vita fondata sulla filosofia: la pratica dell’indagine filosofica sarebbe capace di condurre l’uomo già in vita a una piena felicità (beatitudo), rendendo ininfluente per il conseguimento di una condizione di autentica pienezza l’intervento divino della Grazia e la liberazione dal corpo materiale con la morte l’eternità del mondo: il mondo sarebbe eterno e, quindi, non creato dal nulla nel tempo secondo l’insegnamento della Chiesa Come si può vedere, si tratta di teorie di ispirazione aristotelica e averroistica, che contraddicono dottrine proprie della tradizione cristiana. L’aspetto filosoficamente più interessante, tuttavia, della condanna nel 1277 della filosofia “averroista” è quello epistemologico. Il dato maggiormente significativo, infatti, che emerge dalle opere di Sigieri e di Boezio di Dacia e che è per primo criticato da Tempier è quello sulla differenza di metodi e obiettivi tra la filosofia e la teologia. Gli autori presi in considerazione sostengono la legittimità di un’indagine che muova unicamente dalla ragione e dall’esperienza, in piena autonomia rispetto alla Rivelazione biblica. Questi pensatori sono anche consapevoli di come una simile indagine possa trovarsi in conflitto con la Fede, arrivando a sostenere posizioni a questa opposte. In simili casi Sigieri e Boezio sostengono una dottrina che asserisce il carattere puramente apparente del conflitto e che è volta a evitare la reale contraddizione tra Fede e Ragione. In base a questa dottrina i risultati ottenuti dalla libera ricerca razionale, anche qualora fossero in contrasto con le verità di Fede, potrebbero essere ritenuti veri e asseriti parallelamente o contemporaneamente agli stessi dogmi della Chiesa. Tempier rifiuta in modo molto netto questa dottrina, accusandola, in modo molto evidente già nel prologo all’elenco di posizioni del 1277, di sostenere la possibilità di una “doppia verità” (così come venne poi conosciuta): su alcune questioni la filosofia e la teologia avrebbero entrambe ragione, pur sostenendo posizioni differenti e contraddittorie. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella La lettura proposta da Tempier della dottrina, rinvenibile in Sigieri e in Boezio, sul rapporto tra verità di ragione e verità di fede, tuttavia, appare in realtà una semplificazione di quanto sostenuto dai due autori, cosicché l’attacco del sillabo del 1277 a tale teoria appare non pertinente o del tutto corretto. Per comprendere l’esatto significato della cosiddetta dottrina della “doppia verità” si deve far riferimento innanzitutto al testo di Boezio di Dacia Sull’eternità del mondo. In quell’opuscolo, infatti, Boezio elabora la dottrina per la quale ogni scienza procede sviluppando una certa teoria della realtà a partire da principi che le sono propri. Due scienze di cui una è superiore all’altra, muoveranno da principi diversi e giungeranno, quindi, a esiti dottrinali differenti. In particolare quella superiore, i cui principi sono più generali e universali, giungerà a conclusioni più ampie e articolate rispetto a quella inferiore. In questo modo le dottrine della scienza superiore sono in grado di ricomprendere in loro, come propria parte o momento, gli esiti delle scienze inferiori, anche se questi appaiono difformi rispetto alle prime. La contraddizione che si può produrre tra quanto sostenuto dalle due scienze, quindi, è solo apparente perché ciò che è vero per una scienza (sulla base di quanto viene dedotto dai suoi principi) può essere incompatibile con quanto viene scoperto da una scienza superiore; cionondimeno quanto viene affermato dalla prima scienza resta in sé vero, sebbene relativamente ai suoi principi e all’indagine che su questi è stata fondata. La scienza superiore, d’altra parte, dirà la verità in modo più articolato e autentico perché i suoi principi la rendono capace di una ricerca più completa. Questo medesimo rapporto tra scienza superiore e inferiore può spiegare la differenza tra la dottrina filosofica sull’eternità del mondo e quella teologica sul suo carattere creato: il filosofo che ragiona intorno alla natura delle cose, partendo dai principi propri della stessa filosofia naturale, giungerà a una verità (l’eternità del mondo) che è autentica ma meno “ampia” rispetto a quella colta dal teologo (il carattere creato del mondo) sulla base dei principi specifici della sua ricerca. Le due verità non sono contraddittorie ma complementari. Anche in Sigieri di Brabante si possono trovare posizioni analoghe. Dopo la condanna del 1270 della sua teoria dell’unicità dell’intelletto, Sigieri tende ad affermare che gli esiti filosofici di una ricerca (come quelli che sostengono l’esistenza di un unico intelletto) sono solo probabili perché derivati per induzione dall’osservazione della natura. La dottrina teologica, quindi, ha un grado di certezza superiore rispetto a quello della semplice analisi filosofica. In questi autori, tuttavia, questa dottrina non conduce ad affermare l’insufficienza dell’indagine razionale, ma rendi anzi la ricerca filosofica libera di elaborare le proprie dottrine nella consapevolezza che queste, all’interno dei limiti epistemologici a loro propri, sono vere e ben fondate. La fortuna del pensiero tomista nella storia del pensiero, non solo medievale, fu enorme. Il pensiero di Tommaso d'Aquino godette di un prestigio e di un'attenzione pressoché uniche nella storia della filosofia medievale (analoghe a quelle riservate ai più importanti padri della chiesa, come Agostino), sebbene la sua opera non sia stata immune da critiche e attacchi. La sintesi teologica tomista, infatti, finì per essere indicata come la “forma” più perfetta dell'indagine razionale intorno ai misteri della fede cristiana. In particolare nel 1879 un'enciclica di Leone XIII (la Aeternis Patris) promuoveva un ritorno in teologia e in filosofia alla via speculativa di Tommaso; la ragione del primato del tomismo era individuata nella sua capacità di trovare, nella ricerca di una maggiore comprensione della Rivelazione cristiana, un equilibrio tra Fede e Ragione, evitando atteggiamenti iper-razionalistici così come un eccessivamente marcato utilizzo del principio di autorità e un'accettazione per sola fede del dettato biblico. La scelta di Leone XIII si collocava nel contesto di una lotta del mondo cattolico tra XIX e XX secolo contro le dottrine proprie del mondo moderno (modernismo), tanto filosofiche (con il primato del Soggetto a partire Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella da Cartesio) quanto culturali-sociali (in particolare le strutture politiche liberali-borghesi con la rivendicazione del diritto individuale alla libera scelta). Sulla medesima linea vanno collocate anche encicliche come la Quanta cura e il connesso Sillabo del 1864, promulgata da papa Pio IX e, maggiormente interessata alle questioni propriamente teologiche, la Pascendi Dominici gregis di Pio X (1907); in quest'ultima venivano condannati i tentativi teologici cattolici di creare dialogare con il pensiero moderno. Cionondimeno la designazione ottocentesca di Tommaso come maestro della teologia cristianocattolica è solamente una tappa in un percorso di analisi e studio del magister domenicano nel quale il suo pensiero è stato anche giudicato in modo molto negativo. Pochi anni dopo la sua morte (avvenuta nel 1272-73), infatti, alcune delle tesi riconducibili al pensiero tomista furono messe sotto accusa nel contesto dell'intervento promosso da Roma e dal vescovo di Parigi, Étienne Tempier, per evitare la proliferazione di dottrine eretiche o pericolose riconducibili all'insegnamento della Facoltà delle Arti nella stessa università parigina. Per quanto nel decreto non si facesse riferimento esplicito a nomi e persone alcune delle proposizioni attaccate apparivano proprie della teologia tomista, rea di aver concesso troppo alla filosofia e quindi all'aristotelismo insegnato nella Facoltà delle Arti. In modo analogo a quanto avvenuto a Parigi nel 1277, d'altra parte, il pensiero tomista venne messo sotto accusa da quei teologi e quelle tradizioni speculative che temevano le conseguenze di un uso eccessivo della filosofia pagana nella riflessione teologica cristiana. In questo senso le maggiori critiche alla sintesi di Tommaso vennero dagli ambienti francescani, la cui linea speculativa (simile a quella indirettamente sostenuta dalla stesso Tempier) privilegiava il ricorso ai Padri e ad Agostino. Già nel 1278 un autore francescano, Guglielmo de la Mare, aveva composto un Correctorium fratris Thomae (il Correttore di frate Tommaso), che mirava a individuare e a emendare gli errori teologici propri del tomismo. A partire dal 1282 divenne obbligatorio per tutti gli appartenenti all'ordine francescano leggere Tommaso solo con l'ausilio e il filtro del testo di Guglielmo. Condanne analoghe vennero dal mondo francescano nel 1279, con autori quali Giovanni Peckham (arcivescovo di Canterbury). All'interno del mondo domenicano, tuttavia, la fama e l'attenzione di cui godette Tommaso furono da subito notevoli. Nel 1309 il Capitolo generale dei Domenicani elevava la teologia di Tommaso a paradigma speculativo per i pensatori appartenenti all’ordine. Nel 1323, invece, Tommaso fu proclamato santo e nel 1567 infine dottore della Chiesa (venendo così annoverato tra coloro che con il proprio insegnamento hanno contributo alla difesa della vera fede; nel mondo latino i primi quattro dottori furono Agostino. Ambrogio, Girolamo e Gregorio Magno). Riconosciuto come uno degli autori di maggior importanza per la teologia e la cultura cattolica, Tommaso con le sue opere divenne oggetto di studio e fonte di ispirazione per pensatori successivi. In particolare va ricordata la centralità della speculazione tomista nel lavoro di Francisco Suarez (Granada 1548 - Lisbona 1617). Appartenente all'ordine dei Gesuiti, Suarez si servì dell'eredità tomista per sviluppare dottrine in parte originali, soprattutto in ambito politico. D'altro canto la stessa centralità della dottrina di Tommaso per il pensiero scolastico e per la sintesi teologica difesa dalla Chiesa cattolica può essere considerata all'origine di differenti critiche mosse allo stesso Tommaso. La filosofia scolastica, con il proprio metodo e le proprie dottrine, convive per lungo tempo con nuove espressioni culturali, come la cultura rinascimentale e la filosofia moderna, dalle quali è sottoposta a una feroce critica; il pensiero tomista viene in questo senso a volte considerato come espressione esemplare della scolastica e sottoposto ai medesimi attacchi. L'opera di Tommaso viene così considerata il luogo dove si manifestano più chiaramente i vizi speculativi dello scolasticismo: mancanza di stile e cura nell'uso della lingua, inutile sottigliezza nell'analisi, verbosità, prolissità priva di sostanza. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Queste critiche rivolte a tutto il pensiero delle scholae e, infine, all'intero mondo medievale vengono ripetute sino al XVIII secolo, negli ambienti illuministi. La teologia di Tommaso d'Aquino è oggetto di un nuovo interesse nel XIX secolo, con il mutato clima culturale, sino alla sua identificazione con il modello speculativo anti-modernista sul finire del secolo. All'interno di questa nuova tradizione dottrinale, anche nel '900 Tommaso non solo ritorna ad essere studiato come autore di grande importanza, ma viene anche impiegato come fonte di ispirazione per nuove sintesi dottrinali come il neotomismo italiano del XX secolo. La rinnovata attenzione novecentesca della storiografia filosofica per Tommaso è testimoniata dall'impegno di autori come Étienne Gilson (Parigi 1884 - Cravant, Yonne, 1978), Martin Grabmann (Winterzhofen, 1875 - Eichstätt 1949) e Marie-Dominique Chenu (Soisy-sur-Seine, 1895 - Parigi 1990), per citare solo pochi nomi. Questi storici del pensiero medievale, infatti, hanno realizzato lavori fondamentali per la ricostruzione della filosofia di Tommaso, in grado di aprire la via agli studi più recenti sul pensatore domenicano: Le thomisme (1919) e L'esprit de la philosophie médiévale (1932) di Gilson, Die Geschichte der scholastischen Methode, 2 voll. (La storia del metodo scolastico, 1909-11) di Grabmann e la Introduction à l'étude de saint Thomas d'Aquin (1950) di Chenu. Dal punto di vista delle nuove sintesi teoretiche, testimonianza dell'importanza di Tommaso è l'opera di Gustavo Bontadini (Milano, 1903 – Milano, 1990). Professore alla Cattolica di Milano e all'università di Pavia, Bontadini all'interno del movimento filosofico del neotomismo cerca di trovare una sintesi tra speculazione medievale-tomista e pensiero moderno, cogliendo in quest'ultimo gli elementi adeguati alla spiritualità umana e in grado di rispondere alle esigenze religiose del mondo contemporaneo. CRONOLOGIA - Intorno al 1225 nasce a Roccasecca, in Campania, Tommaso dalla famiglia dei conti di Aquino. - Dopo essere entrato come oblato nel monastero di Montecassino e aver studiato a Napoli entrò nell’ordine domenicano nel 1243-44. - Tra il 1245 e il 1248 è a Parigi e a Colonia per continuare i suoi studi; in questo periodo diviene discepolo di Alberto Magno. - Tra il 1252 e il 1255 Tommaso insegna come baccelliere biblico e sentenziario - Nel 1256 Tommaso ottiene la licentia docendi. Scrive in questo periodo il Commento alle Sentenze (1254-56), le Quaestiones de veritate, alcuni Quodlibeta, i commenti a Boezio (sino al 1261). - Nel 1259 è in Italia, dove ottiene alcuni incarichi dalla curia papale e prosegue la sua attività di studio; scrive in questi anni tra le altre la Summa contra Gentiles, il commento al De divinis nominibus dello Pseudo-Dionigi, il commento all'Etica e inizia a stendere la Summa theologica. Inizia probabilmente in questo periodo il rapporto con Guglielmo di Moerbeke (futuro vescovo di Corinto) le cui traduzioni di opere filosofiche greche avranno grande importanza nella maturazione del percorso filosofico-teologico di Tommaso. - Nel 1269 è un’altra volta a Parigi (II° soggiorni parigino). In questi inizia la polemica antiaverroista (nel 1270 scrive il De unitate intellectus contra Averroistas). Continua a lavorare ad altre opere, tra cui ancora la Summa theologica. - Tra il 1272 e il 1274 è di nuovo in Italia, per insegnare teologia (Napoli). - Nel 1274 Tommaso è inviato al Concilio di Lione; durante il viaggio però si ammala e muore a Fossanova intorno al 9 Marzo dello stesso anno. Lascia incompiuta la Summa theologica (redatta sino alla quaestio 90 della III parte; verrà terminata dal suo allievo Reginaldo da Piperno utilizzando il Commento alle Sentenze dello stesso Tommaso). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella PARTE QUARTA: LA SECONDA SCOLASTICA Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella LA FILOSOFIA NEL XIV SECOLO. CONTINUITÀ E RINNOVAMENTO. INTRODUZIONE Il pensiero del XIV secolo è stato spesso descritto come la fine della scolastica quale sintesi di Fede e Ragione. La riflessione teologica del ’300, dominata dalle figure di Duns Scoto e Guglielmo di Ockham, è stata a lungo descritta come la dissoluzione della scolastica. Se quest’ultima, nella forma che le aveva dato Tommaso d’Aquino, era stata pensata quale la forma più compiuta di sinergia tra ricerca razionale e Rivelazione, l’opera di questi pensatori appariva come una messa in crisi di tale collaborazione, con l’affermazione di una sostanziale refrattarietà di molti aspetti e dogmi cristiani a ogni indagine filosofica. La riformulazione del giudizio sul pensiero tomista e dell’intera lettura della filosofia nell’epoca di mezzo mettono in questione questa interpretazione della speculazione nel ’300. Nella filosofia del XIV secolo, infatti, vengono sì ridefiniti i campi di indagine e le forme di interrelazione tra Ragione e Fede, ma questo fatto non può essere letto come la fine della scolastica, in quanto, da un lato, la precedente armonizzazione tra tali elementi non fu mai completa e totale (vedi le accuse di eresia che colpirono, senza esito, il pensiero di Tommaso), dall’altro, l’interazione tra Rivelazione e ricerca razionale non può essere considerata, come detto, la questione in base alla quale giudicare l’intero arco speculativo dell’epoca di mezzo o il percorso della Scolastica. Per questa ragione il pensiero del XIV secolo fu sicuramente caratterizzato da grande originalità; in esso sorsero nuove scuole speculative, legate in particolare all’insegnamento di Scoto e di Ockham, portatrici di soluzioni dottrinali alternative, tra le quali si divisero gli studiosi di teologia nelle università del ’300. Tuttavia questo pensiero si comprende solo se viene letto sullo sfondo della prima stagione della ricezione di Aristotele nel mondo latino (con Alberto Magno e Tommaso d’Aquino) e delle reazioni teologiche che questa ricezione aveva prodotto, in particolare la condanna che il vescovo di Parigi Etienne Tempier pronuncia il 7 Marzo 1277. I caratteri fondamentali del pensiero del ’300 possono essere riassunti nell’importanza assunta dalla categoria della possibilità/contingenza e nella “svolta linguistica” del pensiero. La critica al determinismo arabo-aristotelico della fine del ’200 aveva portato diversi autori a sviluppare una riflessione sulla libertà e la creazione divina. Di contro al Dio dei greci e degli arabi, il cui rapporto con la creazione è necessario e descritto sulla base di un rigido determinismo, il pensiero cristiano aveva sottolineato il carattere volontario e autodeterminato dell’atto creativo divino. Accentuando la libera e inesauribile potenza divina, il pensiero del ’300 sottolineerà come il Creatore avrebbe potuto creare una realtà diversa da quella che ha creato e come possano esistere (anche solamente a livello di “progetti” nella mente divina) differenti universi, con leggi e insieme di fatti/eventi alternativi a quelli in cui l’uomo si trova ad esistere. Queste tematiche troveranno espressione ed elaborazione nella riflessione intorno alla potentia absoluta e potentia ordinata. La seconda è la capacità d’azione divina conforme alle leggi che Dio stesso ha voluto nell’atto della creazione, ovvero la soluzione creazionistica (l’organizzazione dell’universo con le sue leggi) messa in essere e conservata da Dio; la prima consiste in quanto Dio potrebbe fare contro le leggi naturali e, quindi, in tutti gli altri possibili stati di cose e organizzazioni dell’universo che Dio non ha realizzato ma che avrebbe potuto creare e che potrebbe ancora decidere di portare all’essere. Dio, quindi, poteva fare molte altre cose che non ha fatto e potrebbe ancora fare molte cose che non ha mai fatto, anche se queste contraddicono l’ordine universale che egli ha realizzato nell’attuale creazione. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Per questo nel pensiero del XIV secolo il possibile, come ciò che potrebbe verificarsi (per volere di Dio), appare molto più ampio dell’attuale, ovvero di quanto si realizza e può realizzarsi sulla base delle leggi che Dio ha voluto. Con Ockham in particolare poi l’analisi del linguaggio e della logica raggiunge un nuovo livello di complessità. L’importanza dell’analisi dei meccanismi logico-linguistici è tale che in Ockham la stessa dottrina della verità e le analisi sulla realtà naturale verranno pensate in termini di correttezza logica, come adeguata unione o disgiunzione di termini; la verità viene colta a livello linguistico, essendo definita sulla base della struttura della lingua stessa e del pensiero. Ockham non deduce da questa dottrina conseguenze relativistiche (vedi: Dottrine fisiche di Ockham), ma il cambio di prospettiva è comunque importante e la critica ha molto insistito sul suo peso. Il panorama della filosofia durante il XIV secolo è comunque molto complesso. Nonostante la centralità delle soluzioni dottrinali e delle scuole scotista e ockhamista non è possibile ridurre il pensiero medievale del XIV secolo alle sole sintesi di questi due autori. La filosofia dell’epoca di mezzo continua a caratterizzarsi per una notevole complessità, la quale non è mai del tutto riducibile a semplici contrapposizioni tra dottrine o a profili troppo schematici. Bisogna, quindi, ricordare come nel ’300 si possano rinvenire, accanto alle “vie” di Scoto e Ockham, molteplici spunti speculativi e differenti questioni teoretiche capaci di impegnare i pensatori dell’epoca. Oltre al pensiero domenicano di Mesiter Eckhart, che per la sua intensità merita un’analisi a parte, per brevità si possono qui ricordare: Durando di San Porziano (morto nel 1334); Durando nega l’esistenza dell’intelletto agente e attribuisce all’intelletto umano la causa della conoscenza. Il singolo intelletto coglie per la sua propria natura la cosa la quale è oggettivamente (obiective) presente all’intelletto stesso senza la mediazione delle species intelligibiles. Durando si stacca così da Tommaso e subisce per questo la censura dell’ordine domenicano. i calculatores del Merton College di Oxford (William Heytesbury, Thomas Bradwardine John Dumbleton, Richard Kilvington e Richard Billingham; attivi nella metà del XIV secolo) impegnati a utilizzare la logica, e le influenze ockhamiste in essa, per sviluppare una filosofia della natura fondata sul calcolo dialettico-matematico. Marsilio da Padova, anch’egli accolto come lo sarà Ockham (vedi: Politica in Ockham) alla corte imperiale di Ludovico il Bavaro per le sue posizioni contrarie al potere temporale della Chiesa. Marsilio (la cui opera più importante, il Defensor pacis, risale al 1324) afferma la naturalità della società e vede l’origine della legge, che per essere buona deve risultare volta al bene collettivo, nell’attività dei cittadini o della parte migliore tra questi; il potere alla Chiesa è dato dall’insieme dei credenti come cittadini e, quindi, la chiesa è subordinata al potere politico e da questo può essere sciolta nel caso il comportamento del papa sia contrario alle indicazioni dei concili e alla fede. Sostenitore di posizioni teoriche simili è anche John Wycliff (1330 – 1384) che subordina la Chiesa storica al potere temporale. Nicola di Autrecourt (1300 circa – 1350) i cui lavori sul principio dell’evidenza e sulla dottrina della verità sono molto originali. e, infine, la mistica di Johannes Tauler (1300 – 1361) e Heinrich Suso (1300 – 1366) nella quale forte è l’influenza di Eckhart È il ’300 anche il periodo di un grande fermento nella filosofia della natura. Oltre ai contributi dello stesso Ockham e a quelli di Buridano (vedi: Dottrine fisiche di Ockham) bisogna ricordare il lavoro di Nicola Oresme (1323 – 1382): questo autore, che scrive un trattato cosmologico in francese, va ricordato per almeno due questioni: scrive un’importante opera scientifica in volgare e teorizza la rotazione della terra intorno al sole. Oresme sottolinea la relatività della percezione del movimento e sostiene che risulta indecidibile quale sia il sistema in moto senza precisi punti di riferimento (non Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella si può dire, quindi, se nell’esperienza del sorgere e tramontare del sole e delle stelle, sia la terra a muoversi o gli astri stessi). Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella DUNS SCOTO: UNIVOCITÀ DELL’ESSERE E CARATTERE PRATICO DELLA TEOLOGIA Il pensiero di Duns Scoto viene in genere considerato come inizio della fine della prima fase della scolastica, segnata dall’alleanza tra fede e ragione. Questo giudizio storiografico è stato recentemente rivisto. Scoto, infatti, è sicuramente uno dei pensatori che mettono in discussione aspetti centrali del pensiero scolastico precedente e, per questo, può essere considerato uno degli autori più rappresentativi della speculazione medievale del XIV secolo. Se, tuttavia, si rifiuta la posizione critica che fa del solo rapporto Ragione-Rivelazione il nucleo del pensiero medievale e che giudica ogni dottrina dell’epoca di mezzo sulla base del grado in cui realizzò la sintesi tra questi due elementi, il pensiero di Scoto deve assumere un differente significato, pur rimanendo intatta la sua importanza e originalità. Scoto rappresenta così un momento di ulteriore sviluppo del pensiero nell’epoca di mezzo, segnato da una nuova fase del confronto con il retaggio filosofico aristotelico e con le interpretazioni arabe di tale retaggio (ad opera di Avicenna e Averroé). Scoto enfatizzerà, infatti, la differenza tra teologia e filosofia, sia per quanto attiene all’oggetto studiato dalle due discipline sia per quello che riguarda lo statuto metodologico delle stesse: la teologia è scienza intorno a Dio; la filosofia, invece, conosce l’essere in quanto essere che rappresenta l’oggetto proprio del sapere intellettuale dell’uomo la filosofia si presenta come un sistema razionale, costruito mediante necessarie dimostrazioni e deduzioni; la teologia, invece, è una scienza pratica, che non porta a sviluppare un sapere razionalmente necessario e che si fonda sulla rivelazione non per conoscere certe realtà ma per regolare il comportamento umano in vista della salvezza. STATUTO DELLA TEOLOGIA, SUO RAPPORTO CON LA RAGIONE, UNIVOCITÀ DELL’ESSERE Scoto distingue il piano della ricerca teologica da quello dell’indagine filosofica, relativizzando la capacità di quest’ultima di elaborare dimostrazioni razionali intorno a dogmi o parti della Fede. Scoto considera alcuni dati propri della Fede e alcune affermazioni intorno a Dio come non dimostrabili razionalmente. Sebbene la ragione naturale e la filosofia siano riuscite a identificare alcuni attributi divini (in accordo con quanto la Rivelazione dice di Dio stesso), come il Suo essere causa efficiente e prima perfezione, molti altri caratteri che la Rivelazione afferma essere propri della natura divina non sono dimostrabili, quali, ad esempio, l’onnipotenza, l’onnipresenza, la misericordia e la provvidenza. Allo stesso modo l’immortalità dell’anima non può essere dimostrata con assoluta certezza, né a priori né a posteriori. Alcuni attributi divini o che l’anima sia immortale possono solo essere creduti per Fede e rappresentano, quindi, dei credibilia, asserzioni certe perché la Rivelazione ne garantisce la validità ma in sé non razionalmente argomentabili. La prova di tale indimostrabilità di alcuni aspetti della Rivelazione è data dal fatto che i filosofi pagani, seguendo la sola ragione, non sono riusciti a cogliere molti dei caratteri rivelati di Dio: Aristotele e Averroé, il suo interprete, hanno chiaramente pensato il divino non come un’entità provvidente. In modo analogo, i filosofi hanno prodotto solo argomenti probabili sulla immortalità dell’anima. Il riferimento di Scoto ad Aristotele è molto significativo per comprendere l’impostazione Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella speculativa del pensatore francescano. Anche Scoto, infatti, tende a identificare la razionalità umana con Aristotele e con i suoi interpreti arabi, sicché l’assenza in Aristotele di una dottrina o la presenza di un errore può essere considerata come testimonianza che quell’assenza o errore sono propri della stessa razionalità in quanto tale. Posta questa distinzione disciplinare, Scoto ritiene che la fondamentale attività della filosofia sia la ricerca intorno all’essere in quanto essere e non la ricerca intorno a Dio. La divisione tra ragione filosofica e teologia comporta la ridefinizione del compito e dell’oggetto proprio della stessa ricerca filosofica. Scoto ritiene che la filosofia sia in se stessa metafisica e che come tale debba studiare l’essere. Proprio a partire dall’identificazione della filosofia con la metafisica come studio ontologico dell’essere, tuttavia, Scoto giunge a sostenere una convergenza tra l’oggetto di indagine proprio della filosofia e l’oggetto di indagine proprio della teologica e, quindi, una convergenza delle due discipline. La filosofia, infatti, potrà arrivare a studiare Dio solo nella misura in cui Questi è identico all’essere (Dio in quanto essere), ma non a studiare Dio in sé (Dio in quanto Dio); la filosofia in quanto ontologia può parlare di Dio perché Dio stesso è oggetto di un’indagine ontologica (Dio è essere; Egli, infatti, è l’Essere infinito e increato). L’essere che la ricerca filosofica ha come proprio oggetto primo di indagine, tuttavia, è l’essere in quanto essere di cui parlava già Aristotele come problema proprio della filosofia prima, ovvero l’essere considerato nel modo più generale possibile, senza alcun attributo particolare (non quindi l’essere in movimento, l’essere come quantità, o l’essere sensibile etc.). L’essere in quanto essere è l’essere pensato nella sua massima estensione e massima generalità. L’attingimento di questa forma di sapere ontologico è possibile, per Scoto, nonostante anche per il pensatore francescano ogni conoscenza intellettuale nasca dai sensi. È possibile, infatti, in Scoto partire dall’essere fisico, quale particolare forma dell’essere, per poi sollevarsi alla nozione di essere in assoluto, che è la nozione propria del metafisico. Scoto ritiene che l’essere in quanto essere non abbia diversi significati ma sia in sé univoco, cioè abbia sempre il medesimo valore. Tale univocità permane anche quando si prenda in esame l’essere di Dio. Il senso in cui il metafisico parla dell’essere in quanto essere, quindi, è sempre lo stesso e tale nozione che la mente umana può cogliere è applicabile anche alla natura divina. Il metafisico che prende in considerazione solo questa “forma” dell’essere identifica e studia nelle cose la loro natura semplice e astratta, la loro realtà intelligibile. Tale natura è l’essenza della cosa e in se stessa essa non è né universale né individuale, ovvero non coincide né con i termini universali (oggetto del sapere logico) né con le realtà concrete nelle quali quell’essenza può essere rinvenuta. Scoto, infatti, riprende da Avicenna la dottrina per la quale l’essenza è in sé indifferente rispetto all’universalità e alla particolarità (ovvero non è determinata né in un senso né in un altro). Se l’essenza fosse in sé universale non potrebbe trovarsi negli individui e se fosse individuale non si potrebbe ritrovare in differenti individui tutti consimili in quanto appartenenti alle medesime specie o generi. Questa natura in-differenziata è la sostanza comune e rappresenta il primo oggetto della conoscenza umana. La sostanza comune una volta conosciuta può essere declinata in senso universale, cogliendo la sua presenza in differenti realtà, o in senso individuale, in quanto elemento presente nel singolo Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella individuo che appartiene a una certa specie. L’elemento che permette all’essenza in-differenziata di essere presente nel singolo individuo è una caratteristica che appartiene alla specie; tale ultima attualità o elemento formale della specie è definita da Scoto haecceitas. Le forme di conoscenza che permettono all’uomo di cogliere la sostanza comune sono per Scoto essenzialmente due: la conoscenza intuitiva. Questa conoscenza significa il cogliere direttamente la presenza della cosa, la sua esistenza, e a partire da essa elaborare un sapere dell’essenza la conoscenza astrattiva. A differenza di quanto accade nella terminologia aristotelicotomista, “astrarre” per Scoto non significa tanto il ricavare la specie o l’universale dal dato sensibile, ma indica il conoscere una cosa non facendo riferimento alla sua esistenza. A partire dalla nozione di univocità dell’essere, quale condizione che rende possibile lo studio filosofico di Dio, Scoto sviluppa una dimostrazione dell’esistenza di Dio stesso. Scoto procede con un’argomentazione a posteriori, ovvero dagli effetti alla causa (non è possibile procedere a priori perché di Dio in quanto Dio e della sua essenza non si sa nulla filosoficamente). Gli effetti presi in considerazione da Scoto non sono però le cose fisiche esistenti (come per Tommaso) poiché non sono essere in quanto essere (bensì essere fisico), ma lo stesso essere in quanto essere (di cui l’intelletto umano fa esperienza quotidianamente a partire dalla conoscenza sensibile); argomentare a posteriori sull’essere in quanto essere come effetto significa: 1. cercare di risalire al primo essere in quanto essere, cioè verificare se è possibile individuare nella catena dell’essere così considerato un elemento che occupa una posizione eminente e poi 2. dimostrare la sua necessaria esistenza. 1. Scoto dimostra che deve esistere una prima causa efficiente, un fine sommo e una perfezione ultima, ovvero che per quanto riguarda la causa, il fine e la perfezione ci deve essere un termine che occupi la posizione più alta in assoluto. In ciascuno di questi ordini (causa, fine, perfezione), infatti, se non esistesse un termine primo non esisterebbero tutti gli altri gradi o momenti intermedi della catena gerarchica: senza una causa prima non ci sarebbero cause intermedie ed effetti, senza una cosa perfetta nulla potrebbe essere giudicato più o meno perfetto, senza un fine ultimo non si potrebbero ordinare gli scopi tra più o meno importanti. Tuttavia poiché le cause intermedie e la gerarchia tra le perfezione e i fini esistono e sono concetti comunemente utilizzati, allora deve esistere anche il termine primo e perfetto che rende queste categorie “seconde” possibili. Quindi si deve dire che è per lo meno possibile porre un termine primo negli ordini presi in considerazione, ovvero che appare non contraddittorio porre nelle serie analizzate un termine capace di aprire la stessa serie gerarchica in quanto perfetto. 2. Si deve ora osservare che un simile termine primo sarà anche incausato, in quanto, essendo il termine iniziale di un certo ordine, non potrà essere prodotto da nulla che esista antecedentemente a lui. Ma un termine primo possibile e incausato si manifesta come necessario. In quanto possibile, infatti, una simile determinazione non esisterebbe solo se ci fosse una causa del suo non essere; ma in quanto primo esso è incausato e, quindi, non esiste nessuna realtà che possa agire come sua causa né in positivo (quale ragione del suo esistere), né in negativo (quale ragione del suo non esistere). Non è plausibile, d’altronde, che lo stesso termine primo sia responsabile del suo non esistere. La possibilità di un termine primo nell’ordine della causa, della perfezione e del fine, quindi, ne dimostra la necessità. Dio filosoficamente, quindi, è una perfezione che in quanto possibile risulta anche necessaria e la cui non esistenza, come tale, è impossibile. In quanto primo incausato Dio sarà anche infinito, in quanto non potrebbe essere limitato da nessun’altra causa o principio. Questa prova, che può essere formulata come una rielaborazione dell’argomento di Anselmo (non se Dio è Dio esiste, ma se Dio è possibile allora esiste), verrà ripresa nei secoli e può essere rinvenuta anche in Leibniz. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella VOLONTÀ E INTELLETTO NELL’UOMO E IN DIO In antropologia e in teologia, in forme diverse, Scoto accentua la dimensione della volontà. Il rapporto in Scoto tra Volere e Conoscere, quali facoltà proprie dell’uomo, è nettamente differente rispetto a quello teorizzato da Tommaso. All’intellettualismo e al conseguente determinismo psichico di Tommaso (determinismo per cui la volontà sceglie ciò che l’intelletto le presenta come buono e desiderabile), Scoto sostituisce un sostanziale primato della Volontà. Anche Scoto ammette che il Volere è sempre condizionato da ciò che si conosce e che si vuole ciò che si sa come buono, ma in realtà, afferma Scoto, questa conoscenza è solo la causa occasionale o accidentale del volere. Il primato del Volere d’altra parte si manifesta chiaramente se si considera che: il Volere comanda il Conoscere: noi sappiamo qualcosa intellettualmente perché abbiamo desiderato conoscerlo, cosicché il sapere è stato indirizzato da un precedente atto di volontà è il Volere a decidere e comandare l’azione: quando si decide e si agisce è il Volere a determinare l’azione e per questo il Sapere intellettuale risulta sempre subordinato alla volontà stessa Anche nella natura divina Scoto accentua in modo analogo la dimensione della libertà e della volontà. Scoto marca la differenza della sua filosofia dalla dottrina teologica di Aristotele (ma anche di Avicenna e di Averroé). Nella tradizione aristotelica il venire all’essere del mondo e l’azione divina sul mondo stesso sono frutto di una catena causale necessaria e non liberamente scelta dal Creatore. Scoto, come accade in molti altri autori medievali, considera la natura divina assolutamente semplice, sicché gli attributi di tale natura, come il Conoscere e il Volere sono congiunti nell’unità della stessa essenza di Dio senza porsi con quella differenza reciproca che si può invece rinvenire nelle cose create. Così concepita la natura divina, Scoto accentua la libertà dell’atto creativo divino e in questo modo sottolinea la differenza tra Dio e mondo. In questo contesto Scoto distingue tra potentia Dei absoluta e ordinata. In Dio le possibilità del creare prima che la creazione stessa si realizzasse erano infinite; Dio avrebbe potuto nella sua libertà decidere di porre in essere un altro mondo, con altre leggi e altre realtà. I diversi universi compossibili che Dio avrebbe potuto generare rappresentano la sua potentia absoluta, ovvero priva di limiti e condizioni. L’atto con cui Dio ha posto in essere il mondo che ha in effetti creato realizza uno di questi universi, retto da certe regole e leggi. Dio rispetta l’ordine che ha così prodotto e non lo altera. L’universo esistente con la regolarità delle sue leggi è la potentia ordinata. Per Scoto anche la potentia absoluta, tuttavia, ha dei limiti: non solo Dio non altera l’ordine cosmico da lui voluto (quindi, Dio non modificherà le leggi che ha voluto vigessero nell’universo da Lui realizzato), ma anche Dio non può volere ciò che è contraddittorio logicamente Tale dottrina, in ogni caso, lascia intatto il potere e la libertà d’azione propria di Dio. Per Scoto, infatti, le Idee eterne sono state volute da Dio e come tali sono dipendenti dal suo volere. Lo stesso Bene è tale solo perché Dio lo avuto come Bene e non in quanto sia Bene in sé. Questo tratto del pensiero scotista, espressione tipica della teologia francescana, rappresenta una questione dibattuta a lungo nel Medioevo e ripresa nel XIV secolo da altri importanti autori, primo Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella fra tutti Guglielmo d’Ockham. Sulla base della teoria della potentia absoluta la realtà universale appare contingente, ovvero l’ordine delle leggi del cosmo risulta non necessario o irreversibile: l’intervento di Dio potrebbe in ogni momento modificare o sospendere le leggi dell’universo. CRONOLOGIA - Giovanni Duns Scoto nasce in Scozia, nei pressi di Duns (Berwick) intorno al 1265-1266 - Al 1280 risale l’entrata di Scoto nell’ordine francescano - Si forma probabilmente a Oxford e nel 1298-99 commenta una prima volta le Sentenze di Pietro Lombardo proprio nell’università inglese - Nel 1302 è a Parigi come baccelliere - 1303: sospensione dall’insegnamento per essersi rifiutato si sostenere il re di Francia, Filippo il Bello, contro Bonifacio VIII - Nel 1305, rientrato a Parigi, consegue il titolo di dottore - Tra il 1306 e il 1307 parte per Colonia dove è lettore presso lo Studio francescano della città - Secondo la tradizione muore l’8 Novembre 1308 a Colonia Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella MEISTER ECKHART. FILOSOFIA E MISTICA Il pensiero di Giovanni Eckhart di Hochheim ha un profondo significato “mistico”. Nonostante la riflessione eckhartiana conduca a esiti che si possono definire “mistici”, i critici e gli studiosi della filosofia medievale hanno da tempo messo in evidenza come lo stesso pensiero di Eckhart risulti più complesso di quanto il semplice richiamo alla categoria di “misticismo” permetta di comprendere. Il termine mistico, infatti, come osservato dallo storico della filosofia medievale Kurt Flash proprio in riferimento a Eckhart, è troppo generico per permettere di definire con precisione la speculazione di un autore; al suo interno, infatti, si possono distinguere generi e tipologie di esperienza mistica differenti. Oltre ciò va osservato che in Eckhart non vi è nessuna di quelle forme di intuizione e immediata visione soprannaturale che in genere qualificano il misticismo propriamente detto. Anche limitarsi, d’altra parte, ad aggiungere l’attributo “filosofica” al termine “mistica”, per definire il carattere della speculazione eckhartiana, non spiega ancora quali ne siano i tratti contraddistintivi e a quale tradizione speculativa lo stesso Eckhart faccia riferimento. Sarà, quindi, possibile definire con più precisione l’opera di questo pensatore prima identificando le sue radici filosofiche e teologiche per poi comprendere in che termini la sua speculazione, muovendo dalle fonti trascelte, possa condurre a esiti mistici. Si deve in questo senso individuare subito la tradizione filosofica che maggiormente influenza Eckhart nel neoplatonismo tardo-antica e medievale. In questo senso i temi e le fonti della filosofia eckhartiana possono essere considerati in perfetta continuità con la tradizione teologica dell’ordine domenicano, del quale anche Eckhart fa parte. Anche nel pensatore di Hochheim, infatti, si possono ritrovare: le fonti neoplatoniche che già Alberto Magno aveva studiato e utilizzato nella propria riflessione, quali il Liber de causis, il De anima di Avicenna, gli scritti procliani, oltre alla tradizione di ispirazione plotiniana da sempre presente nel mondo latino (Agostino e Dionigi). il tema dell’intelletto come categoria centrale tanto per le teorie della conoscenza nell’uomo quanto nella riflessione teologica (in questo senso notevole è la prossimità tra Eckhart e Teodorico di Freiberg) Il valore mistico del pensiero eckhartiano, d’altra parte, è chiaramente manifestato dall’influenza che la speculazione dello stesso Eckhart è stata in grado di esercitare su autori e correnti spirituali nel XIV secolo: gli esiti mistici potenzialmente presenti nel pensatore di Hochheim trovano piena espressione nelle forme di visione contemplativa del divino propri di alcuni autori tedeschi da lui teologicamente dipendenti. Tra gli autori e i movimenti nei quali è più facile rinvenire un’influenza eckhartiana possono essere ricordati: la tradizione delle beghine (gruppi di donne, in Germania e nelle Fiandre, interessate alla riforma della vita spirituale e organizzate in movimenti religiosi) e alcuni importanti mistici tedeschi come Giovanni Taulero (morto nel 1361) Enrico Suso (1295 – 1366), Jan van Ruusbroec o Ruysbroeck (1293 – 1381). Un altro elemento che caratterizza l’opera eckhartiana e che in parte permette di spiegare il ruolo da essa giocata nello sviluppo di alcune dottrine mistiche tedesche è il fatto che lo stesso Eckhart redasse alcuni sue scritti in lingua volgare. Eckhart, infatti, è uno dei primi pensatori nei quali è possibile trovare testimonianza dell’affermarsi nel tardo Medioevo dell’uso degli idiomi vernacolari (nel suo caso l’alto tedesco, ovvero il tedesco dell’epoca) per veicolare contenuti alti e complessi. In Eckhart, quindi, è possibile distinguere un’opera latina, ovvero gli scritti redatti in latino secondo le forme tipiche della comunicazione filosofica dell’epoca, e un’opera tedesca, con testi composti in Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella volgare. All’interno di quest’ultima possiamo individuare sia una serie di trattati sistematici, come Le istruzioni spirituali, Il Libro della consolazione divina, Il distacco sia varie omelie e sermoni che Eckhart teneva in occasione delle celebrazioni liturgiche. Proprio queste omelie rappresentano, all’interno dell’inedita (per l’epoca) scelta del volgare, un elemento di ulteriore novità. In queste prediche, infatti, Eckhart si sofferma su concetti e dottrine complessi, tratte dalla propria attività di maestro universitario, proponendoli a un pubblico di non specialisti, composto dalla gente comune e incolta che si riunisce per partecipare alla funzione domenicale. La decisione di fare della propria intensa teologia l’oggetto di un ammaestramento religioso in lingua volgare volto alle masse popolari favorì la diffusione delle dottrine del pensatore di Hochheim anche in ambiente culturali differenti dalle élite universitarie e la conseguente elaborazione di dottrine mistiche a tale teologia ispirate, ma sarà anche una delle ragioni per cui lo stesso Eckhart verrà attaccato e inquisito dalle autorità religiose dell’epoca. DIO, ESSERE, INTELLETTO: I CONCETTI CARDINE DEL PENSIERO DI ECKHART Eckhart preferisce definire Dio non come Essere ma come Intelletto. Eckhart, sulla scorta della teologia negativa di Dionigi (rafforzata dalle altre fonti da lui conosciute: da Mosè Maimonide a Proclo), pone Dio al di sopra dell’essere, in una condizione di semplicità, purezza e unità. Dio, quindi, per Meister Eckhart supera qualsiasi determinazione e ogni natura definita. Eckhart è consapevole che nella Rivelazione sembra esserci l’esplicita affermazione dell’identità tra il Dio biblico e l’Essere; in un celebre passo dell’Esodo (3,14) , infatti, alla domanda di Mosè, su quale fosse il Suo nome, Dio stesso risponde: “Io sono colui che sono” (luogo già conosciuto e interpretato in senso ontologico da diversi teologi medievali). Il pensatore di Hochheim, tuttavia, prende le mosse proprio da quel passaggio per rifiutare ogni teoria che veda nell’Essere la prima natura di Dio. Eckhart, infatti, afferma che una simile affermazione va intesa come una maschera dietro la quale il divino cela la propria identità (così come colui, osserva Eckhart, che non volendo far sapere chi è risponde evasivamente “sono ciò che sono”). Non per questo Eckhart conclude che Dio non esista o non abbia alcun rapporto con l’essere stesso. Nella natura trinitaria di Dio, ovvero nell’insieme dei diversi attributi che qualificano in modo specifico ciascuna delle tre Persone divine, infatti, è presente anche l’Essere, nome proprio per Eckhart dello Spirito Santo. D’altra parte Dio è causa dell’essere, in quanto Creatore di ogni cosa, e in alcuni luoghi Eckhart giunge persino a parlare di Dio come puritas essendi, ovvero come pienezza e perfezione dell’essere, per qualificare Dio, definendoLo l’essere stesso. La vera natura di Dio, tuttavia, per quanto connessa all’Essere, è al di là dell’Essere stesso. Tale ambiguità del pensiero di Eckhart si risolve se si tiene presente che per il pensatore di Hochheim la capacità di una causa di creare e produrre l’essere si dà unicamente quando la causa stessa è al di là dell’essere superandolo: il principio dell’essere non può identificarsi con l’essere, altrimenti non risulterebbe autenticamente capace, nella sua alterità e quindi superiorità, di produrlo. Per tale ragione Dio è essere solo in un modo derivato e impreciso, mentre proprio la sua differenza dall’esse lo rende in grado di crearlo. Eckhart afferma così che pensare Dio in termini di solo “essere” significa coglierlo unicamente nel suo rapporto con la creazione come insieme delle cose che sono state create da Dio e che esistono, tradendone così la natura. Identificando semplicemente Dio ed Essere (pensandoLo come creatore dell’essere cosmico), allora, osserva Eckhart, si rischia di rendere Dio stesso condizionato e dipendente dalla realtà generata. Rovesciando il tradizionale modo di pensare, infatti, si deve ammettere che una causa per Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella essere se stessa dipende dal proprio effetto (una realtà può essere definita causa solamente quando genera un effetto); in modo analogo, pensare il divino solo come potenza che genera il mondo (identificando Deus ed Esse) significa rendere Dio dipendente dalla realtà cosmica, poiché senza quest’ultima Dio non sarebbe Se stesso, ovvero forza creatrice. L’esito ultimo di questa erronea scelta teologica è quello di far dipendere l’identità stessa di Dio con se medesimo dalla Sua relazione con la creatura, tradendone così l’assolutezza. L’essere viene così pensato come la prima delle creature e, pertanto, come differente da Dio in quanto tale. La vera natura di Dio allora non sarà l’essere ma l’intelletto. Dio è intelletto perché solo una realtà intellettuale può contenere anticipatamente tutto ciò che produce, ponendosi come superiore ai propri effetti. L’intelligere è così il carattere fondamentale del Padre nella relazione trinitaria, così come quello del Figlio è il Vivere: il divino è non una realtà statica ma un essere attivo e sapiente, capace nel suo dinamismo trinitario di creare. D’altronde, osserva Eckhart, la stessa Rivelazione scritturale suggerisce di cogliere nella Sapienza e nell’Intelletto la vera natura di Dio. Giovanni, infatti, inizia il suo vangelo affermando che “In principio era il Verbo”, ponendo all’origine del Tutto la Conoscenza e la Verità, così come confermato da altri passaggi del medesimo vangelo (ad esempio Giovanni 14, 6). Dio come Intelletto perfetto è anche unità somma. Eckhart considera l’attributo della noeticità e dell’unità di Dio come termini connessi e convertibili l’uno con l’altro. Dio, infatti, è in sé anche semplicità e unità, e può essere conosciuto come l’Uno. Dio quale Intelligere è uno e semplice, in quanto è solo pensiero, a differenza delle sostanze intelligenti nelle quali c’è un dualismo tra essere (la loro esistenza) e pensiero (l’attività del pensare che si distingue dalla loro natura e dal loro essere). Definire Dio come Uno e come Sapienza, quindi, è la conoscenza teologica più alta che si possa ottenere. ECKHART E IL DESTINO DELL’ANIMA La dottrina teologica che pensa Dio come un Intelligere è alla base anche della teoria eckhartiana dell’anima. La centralità dell’intelligere come attributo divino spinge Eckhart ad affermare che tutto ciò che è esiste nella misura in cui possiede in sé la traccia di una natura o attività intellettuale, mantenendo così una connessione nonché una somiglianza con lo stesso intelletto divino. Grazie alla presenza di un aspetto intellettuale nella creatura, infatti, il singolo ente è dotato di identità con sé e quindi di unità, conservando in sé qualcosa del divino e dell’essere. L’importanza della dimensione intellettuale sarà poi ancora maggiore nell’ambito antropologico. L’anima dell’uomo, infatti, per Eckhart possiede, da un lato, delle qualità e funzioni che Dio le ha comunicato nel crearla; si tratta della capacità della memoria, dell’intelletto e della volontà. Come in Agostino questa trinità di funzioni psichiche rimanda alla Trinità divina che è causa dell’essere dell’anima stessa. Nell’anima, dall’altro lato, tuttavia, esiste anche qualcosa che non è creato e che come tale si identifica direttamente e pienamente con la natura divina. Eckhart, infatti, teorizza l’esistenza di un luogo nella sostanza psichica umana, definito dal filosofo di Hochheim con una varietà di termini (“fondo”, “cittadella”, “scintilla”), il quale è identico alla semplicità e pura intellettualità di Dio, increato e ingenerato come la stessa realtà trinitaria. Una simile dottrina può essere considerata come la rielaborazione, in termini cristiani, delle teorie procliane sul “fiore dell’intelletto” e sul “fiore dell’anima”; con questi termini Proclo indicava le capacità psichiche con le quali, rispettivamente, l’uomo coglie l’unità propria del dato intelligibile e Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella l’unità che sta sopra il pensiero stesso. Al tempo stesso in questo modo Eckhart si pone in continuità con una certa psicologia aristotelica, riletta dalla tradizione araba (Avicenna e Averroé) e ripresa da Alberto Magno, la quale vede nell’intelletto la facoltà capace di mettere in comunicazione l’uomo con il divino. La teoria dell’esistenza nell’anima dell’uomo di una “scintilla” divina porta Eckhart ad affermare che l’individuo è in qualche modo simile a Dio e che l’uomo è per questo al pari del divino creatore di tutte le cose e generatore del Verbo. Questa dottrina si sviluppa nella teoria dell’uomo povero o dell’uomo nobile. Eckhart, infatti, ritiene che il fedele che intraprende un percorso morale di purificazione e di perfezionamento possa essere in grado di raggiungere questo luogo nascosto della sua anima e, una volta trovatolo, di ricongiungersi con Dio. Per ottenere questo risultato è necessario abbandonare ogni possesso e ogni rapporto con le cose concrete, al fine di trascendere l’ambito della determinazione che si oppone alla semplicità del divino. Il rifiuto del mondo materiale diviene così in Eckhart non tanto e non solo una pratica ascetica di povertà e rinuncia ai beni secolari, ma un’operazione grazie alla quale si supera la dimensione dell’essere quale realtà molteplice, differenziata e determinata (tutti attributi che non possono appartenere all’Uno divino). Colui che intraprende questa ricerca è definito da Eckhart l’ “uomo povero”. La povertà a cui qui si allude, non potendosi identificare semplicemente con la rinuncia dei beni fisici, è la condizione dell’anima che non cerca più le creature in quanto realtà determinate e altre rispetto a Dio, e non cerca neppure se stessa quale determinazione diversa da Dio. Tale anima deve anche rinunciare a desiderare Dio: questo desiderare è ancora un desiderare proprio dell’anima nella sua identità a sé e nella sua differenza da Dio, e il Dio che desidera, in quanto divinità pensata dalla creatura a partire dalla sua differenza da Dio, è il Dio creatore e il Dio signore dell’essere, quindi una divinità determinata, conosciuta nella sua relazione con la creatura stessa, non colta nella Sua autentica identità con Sé. Il superamento di questa forma erronea di ricerca, indirizzata o al creaturale in quanto realtà determinata o al divino in quanto definito dal suo rapporto con il cosmo da Lui generato, è anche la condizione dell’ “uomo nobile”, quale stato più alto e perfetto che l’individuo possa raggiungere. L’esito ultimo della ricerca di Dio e la piena espressione della parte divina che l’individuo stesso possiede in sé, quindi, è il superamento di ogni differenza e opposizione, perché differenza e opposizione nascono quando si pensa la creatura nella sua distanza dal Creatore e non si risale a Dio nella pura Unità con se stesso senza rapporto con l’essere e con il mondo creato. L’uomo deve ritornare così in Dio, eliminando ogni distanza con Lui, anche quella distanza che si produce quando la stessa volontà umana cerca l’unità con Dio: colui che cerca Dio distingue ancora se stesso dal divino e il suo ricongiungersi al Principio si fonda sulla differenza tra uomo e Dio. L’uomo, invece, prima di esistere come creatura era in Dio e continua a possedere nella sua anima un frammento dell’eternità divina; in ragione di tale frammento d’Eterno l’uomo può ritornare presso Dio autenticamente, senza distinzione, essendo in Dio come Dio e non come una creatura. La radicalità e la complessità di questo pensiero teologico permettono di comprendere, da un lato, come la dottrina eckhartiana potesse essere sviluppata in direzione di una pratica mistica, dall’altro come la divulgazione di simili idee a un vasto pubblico (ad esempio nell’omelia sul passo evangelico “Beati i poveri di spirito…”, Matteo 5, 3) venisse considerata sconveniente. È d’altronde in ragione di queste dottrine che la prima riscoperta del pensiero eckhartiano a metà dell’800 grazie all’edizione Pfeiffer dei suoi sermoni portò pensatori come Schopenhauer e Rudolf Otto a sottolineare la prossimità tra lo stesso Eckhart e alcune forme del pensiero orientale, come il buddismo zen. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella CRONOLOGIA - Eckhart nasce a Hochheim in Turingia, regione centrale della Germania non distante da Erfurt, intorno al 1260 da una famiglia nobile. - Entrato ancora giovane nell’ordine domenicano, è priore e vicario della sua regione (la Turingia, appunto) a partire dal 1290. - Si forma a Parigi, dove tra il 1293 e il 1294 commenta per la prima volta le Sentenze di Pietro Lombardo. - Sino al 1298 è priore del convento domenicano di Erfurt. - Ritorna a Parigi nel 1302 ottenendo il titolo di maestro e dal 1302 al 1303 insegna teologia nell’università parigina. - Nel 1303 è inviato un’altra volta in Germania come priore della provincia della Sassonia; a questa carica si sommerà quella di priore della provincia di Boemia nel 1307. Proprio in Sassonia Eckhart comincia la sua predicazione in lingua volgare. - Tra il 1311 e il 1313 ritorna a Parigi per un secondo periodo di docenza. In questo soggiorno parigino discute le ultime due Questioni parigine (al primo periodo, invece, dovrebbero risalire le prime due Questioni). - Dopo essere stato inviato a Strasburgo per curare la formazione spirituale delle monache e a Colonia, nel 1324, per dirigere lo Studium domenicano in quella città, viene accusato si aver sostenuto tesi eretiche da Enrico II di Virneburg (1326) il quale agisce sulla base di quanto gli viene riferito della sua predicazione in lingua volgare. - Eckhart si difende e decide nel 1327 di rivolgersi al papato di Avignone, sostenendo l’ortodossia della sua dottrina. Morirà però a Colonia nel 1328. - Il 27 Marzo 1329 il processo a Eckhart si chiude con la bolla In agro dominico, con la quale Giovanni XXII condanna alcune tesi eckhartiane come eretiche. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella LA TEOLOGIA “RADICALE” DI GUGLIELMO D’OCKHAM Il contributo speculativo dato da Guglielmo d’Ockham è di grande importanza sia per la logica sia per la teologia. La riflessione sviluppata da Guglielmo d’Ockham è caratterizzata da almeno due aspetti teorici: la filosofia ockhamista può essere inserita nella stessa linea teorica di cui è iniziatore Giovanni Duns Scoto, ovvero la ridefinizione dei ruoli di teologia e filosofia e del loro rapporto reciproco (entrambi i pensatori d’altra parte appartennero all’ordine francescano). Ockham, tuttavia, può essere considerato più radicale di Scoto nell’opera di ripensamento dei limiti della razionalità nell’indagine sulle cose divine, tanto che con la sua opera si afferma con nuova forza l’indipendenza delle due discipline. Nel pensiero ockhamista, tuttavia, hanno grande importanza anche le questioni logiche, campo di indagine nel quale Ockham stesso raggiunge i risultati più originali e significativi. Ockham, infatti, impiega l’apparato di strumenti concettuali elaborati nello studio logico per sviluppare la propria sintesi speculativa. In questo senso Ockham può essere considerato come una delle espressioni più interessanti della logica terminista, ovvero l’indagine logica centrata sulle proprietà dei termini e iniziata nel XII secolo; tale filone della logica medievale rappresenta una delle espressioni più originali della speculazione filosofica nell’età di mezzo. Ockham applicherà l’impostazione teorica e i risultati delle proprie teorie logiche allo studio di molteplici questioni, sia filosofiche che teologiche; in Ockham la centralità delle problematiche logiche e l’importanza degli strumenti dottrinali che dallo studio di questa disciplina derivano sono tali, quindi, da aver fatto parlare alcuni studiosi di una svolta linguistica del pensiero medievale, iniziata proprio dal pensatore francescano. Guglielmo d’Ockham, infine, viene ricordato per il suo contributo al dibattito politico medievale; nell’ambito della riflessione politica il pensatore francescano interviene sostenendo la necessità che il potere papale sia limitato alla sola dimensione teologica e spirituale. QUESTIONI EPISTEMOLOGICHE, ONTOLOGICHE E LOGICHE: CERTEZZA, ESSERI INDIVIDUALI, PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI La logica ockhamista si accompagna a una teoria generale della realtà e dell’essere, per la quale solamente le cose individuali hanno vera esistenza. Ockham ritiene che l’unica vera forma di dimostrazione sia quella che deriva dall’immediata evidenza e da quanto si può dedurre dall’immediata evidenza. L’unica evidenza immediata è quella che deriva dalla conoscenza sensibile che testimonia l’esistenza di una certa realtà e che, quindi, ha a che fare con i fatti. In quest’ottica Ockham distingue evidenza e necessità: la necessità è il carattere proprio dei rapporti che si costituiscono tra i termini conosciuti dalla scienza; un rapporto tra termini può essere necessario, ma non evidente in quanto non sappiamo se i termini necessariamente connessi esistono. l’evidenza definisce la modalità con la quale si colgono anche le cose contingenti nella certezza assoluta del loro darsi ed esistere. Sulla base di queste considerazioni Ockham distingue: il sapere intuitivo e il sapere astrattivo Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Il primo è il sapere che produce evidenza in quanto consiste nella constatazione dell’esistenza delle cose. Il secondo, invece, è il sapere che, prescindendo dal darsi concreto delle cose, consiste nella conoscenza del solo significato delle cose stesse e, quindi, delle idee mentali che queste producono. Ockham distingue poi: una intuizione intelligibile e una intuizione sensibile. Con la seconda si coglie il darsi di una concreta realtà fisica; con la prima si coglie uno stato o modificazione interiori dell’uomo, come possono essere le emozioni o le decisioni. Il sapere intuitivo, quindi, è un sapere del particolare in quanto coglie la singola cosa esistente; ma in quanto radice dell’evidenza è anche la base per ogni altra forma di sapere, anche per la creazione della conoscenza universale propria dei principi della scienza (detta da Ockham notitia experimentalis), prodotta proprio per generalizzazione dal sapere intuitivo. Questa dottrina della conoscenza ha una duplice conseguenza: sul piano epistemologico, da un lato, la riduzione del numero di cause o realtà che si possono ammettere in quanto assolutamente evidenti. Tutto ciò che non è testimoniato dalla conoscenza intuitiva della cosa presente risulta destituito di fondamento. In questo modo una realtà potrà essere veramente considerata causa di un’altra quale suo effetto se, una volta posta la prima realtà ed eliminati tutti gli altri fattori possibili, l’effetto stesso si produce ed è osservabile nella realtà. sul piano ontologico, dall’altro, l’identificazione del reale e del veramente esistente con l’individuale. Poiché la certezza è legata al sapere intuitivo e questo registra l’esistenza delle singole realtà conoscibili dall’individuo, l’unica realtà della quale l’uomo può essere certo e della quale quindi si possa dire che esiste con evidenza è la singola cosa concreta. La radicale riduzione del numero enti (e con essi di cause potenziali per spiegare i fenomeni) fondata sulla dottrina che individua nel dato singolare concreto l’unica realtà evidente e veramente esistente viene in genere indicato con il nome di “rasoio di Ockham” o principio di economia del pensiero; secondo la formulazione più nota di questo principio (che si trova variamente enunciato in diversi luoghi dell’opera ockhamista) “le realtà non devono essere moltiplicate senza necessità” (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem). Il fattore necessitante a cui fa riferimento Ockham è l’attestazione intuitiva dell’esistenza della cosa e dell’autentico rapporto causale. A partire da queste dottrine Ockham ripensa radicalmente la logica e la questione degli universali. Identificando l’individuo con il vero ente, Ockham rifiuta ogni esistenza all’universale. L’universale può esistere unicamente come affezione e idea dell’anima, ovvero come modificazione dell’anima che elabora e si serve di questi concetti per la propria attività conoscitiva. Nell’ambito delle realtà extra-mentali, tuttavia, poiché esistono solo realtà singolari, l’universale deve essere ridotto, quanto al suo essere e alla sua esistenza, alla singola cosa concreta che dall’universale stesso può essere denotata. L’universale, quindi, non ha una qualche propria indipendenza o esistenza, ma ontologicamente deve essere ricondotto alla realtà singolare, in quanto solo la realtà singolare esiste veramente. Ockham, quindi, ritiene che l’universale si possa identificare sul piano dell’esistenza con la singola cosa. La differenza tra il concreto individuo e il concetto universale che a questo è collegato sta nel grado di precisione e distinzione della conoscenza. La conoscenza dell’universale è un sapere dell’individuo ma confuso; il termine universale (ad esempio “uomo”), infatti, non rimanda alla totalità dei caratteri e delle qualità proprie della singola realtà (ad esempio Platone, come individuo concreto) che pure è l’unico referente possibile dell’universale stesso (“uomo” non conterrà in sé tutti quegli elementi specificanti che definiscono la natura di Platone in quanto realtà singolare e concreta). A differenza di quanto accade per l’universale, la conoscenza della realtà singolare è un Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella sapere particolare e preciso di quell’unico individuo. Per comprendere a pieno tale dottrina si deve far riferimento alla teoria della suppositio, nella quale Ockham illustra il funzionamento dei termini quali segni che rimandano alle cose. Ogni conoscenza, infatti, è costituita di termini che “stanno per” oggetti reali. Gli oggetti reali, quindi, sono in ultima analisi il significato dei termini stessi. Lo “stare per” del termine è definito da Ockham suppositio. Ockham distingue tre tipi di suppositio distinti in base alla natura dell’oggetto per il quale sta il termine corrispondente: suppositio personalis. In questa tipologia il termine rinvia a un oggetto reale e concreto, come nel caso “l’uomo corre” o “l’uomo è un animale”. suppositio materialis. In questa tipologia il termine rimanda al termine stesso considerato nel suo aspetto di elemento linguistico-grammaticale. È il caso in cui il termine “uomo” viene impiegato in un’espressione come “uomo è una parola”, dove il termine stesso è preso in considerazione in quanto parte del sistema del linguaggio (la parola “uomo”). suppositio simplex. In questa tipologia il termine rimanda a se stesso considerato nel suo aspetto logico, così come accade quando si dice “l’uomo è una specie”. Gli universali, quindi, possono essere considerati come termini dotati di significato impiegati in una suppositio personalis, quindi all’interno di un rapporto segnico che rinvia a realtà concrete. Gli universali “suppongono” per cose determinate e individui, ma in modo confuso. Il significato dell’universale, così come il suo essere, coincide con la cosa singola, sebbene tale significato sia, così come lo presenta il termine universale, indeterminato. La natura propria di tale universale è quella di “stare per” non una sola realtà singolare, ma molteplici realtà tra loro simili. In questa teoria della conoscenza viene meno la funzione della specie, sensibile e intelligibile. Per Ockham, infatti, la dottrina aristotelica per cui conoscere intellettualmente è cogliere la specie intelligibile a partire dai dati forniti dai sensi, non supera la verifica condotta secondo il criterio di evidenza e autentica causalità. La specie non è necessaria né per spiegare l’atto dell’intelletto che conosce l’oggetto o il passaggio dell’intelletto stesso dalla potenza all’atto. La sola esistenza e presenza dell’oggetto basta a spiegare la reazione dell’intelletto, così come è sufficiente porre la causa necessaria di un effetto per spiegare l’effetto senza ricorrere a enti intermedi tra i due termini, dei quali la conoscenza intuitiva non fornisce prove. Per Ockham l’intelletto è in grado di conservare mediante il sapere astrattivo le immagini delle cose conosciute; queste immagini non sono il prodotto o il riflesso di essenze nelle cose, ma sono l’effetto nell’anima della realtà singolare dalla quale si possono poi sviluppare corrispettivi concetti universali. L’anima, quindi, può elaborare un linguaggio mentale i cui termini stanno per le cose concrete (suppositio personalis); a differenza delle lingue naturali (i diversi idiomi parlati nel mondo da vari popoli in varie epoche), quindi, questo linguaggio è più perfetto e privo di differenze culturali o geografiche, benché operi secondo i medesimi principi. TEOLOGIA E PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO Ockham riduce notevolmente il contributo che la ragione può dare alla ricerca teologica e rifiuta le tradizionali dimostrazioni dell’esistenza di Dio. Ockham applica i principi logici ed epistemologici da lui sviluppati anche allo studio delle questioni teologiche. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Esito di questa impostazione metodologica è che le tradizionali prove per dimostrare che Dio esiste, la prova in base alla causa efficiente, al movimento con la dimostrazione di un primo motore immobile, la prova fondata sull’infinità di Dio, non hanno, per il pensatore francescano, un valore di autentica dimostrazione. Ragionamenti e argomentazioni che la teologia ha mutuato dalla filosofia possono sviluppare un sapere solo probabile e, in fin dei conti, non conclusivo sulle problematiche prese in considerazione. Nel caso ad esempio dell’argomento aristotelico e tomista per dimostrare che Dio esiste a partire dal moto, Ockham rifiuta le conclusioni di questa prova e demolisce molte delle dottrine tradizionali in essa impiegate. A questo proposito, infatti, Ockham confuta la dottrina che sostiene l’impossibilità di risalire all’infinito nella serie della cause del movimento. Tommaso sosteneva che non si poteva risalire all’infinito nella ricerca di un motore e, quindi, che esisteva una prima realtà capace di comunicare di per sé il moto agli altri enti. Ockham osserva che in molti casi il regresso all’infinito è possibile: se si colpisce un bastone in una sua estremità il moto si propaga all’altro estremo del bastone stesso, ma siccome un corpo può essere diviso in infinite parti e ciascuna parte agisce come “motore” in quanto trasmette il movimento alla parte più prossima allora si dà un’infinità di “motori”. In modo analogo l’esistenza di infinite anime (poiché infiniti sono gli uomini che sono esistiti) ciascuna causa del movimento dei corpi dimostra che esistono infinite cause del moto. la dottrina che sostiene che ogni cosa può muoversi solo perché è mossa da altro. Tommaso nella sua via in base al movimento affermava che ogni cosa che si muove è mossa da altro, altrimenti sarebbe causa del movimento e cosa mossa, cosa di per sé contraddittoria; ma Ockham nota che molte cose si muovono in modo autonomo, come l’anima, gli angeli e il corpo pesante che per la sua stessa pesantezza si muove cadendo. L’unica prova filosoficamente stringente intorno alle realtà trascendenti consiste per Ockham nella dimostrazione che deve esistere una forza capace di mantenere nell’essere le cose. L’esperienza, infatti, insegna la debolezza delle realtà e la loro incapacità a sussistere, sicché la stessa esistenza del cosmo porta a postulare l’esistenza di una causa che lo coadiuvi nel permanere nell’essere. Naturalmente Ockham ritiene però che la natura e i caratteri di questa causa siano indeterminati e che non la si possa identificare con il Dio della Rivelazione. Da un punto di vista filosofico allora si può ritenere probabile che Dio sia una realtà infinita e che esista in quanto motore immobile, causa efficiente, che sia onnipotente e sapiente. Solo da un punto di vista teologico, tuttavia, e partendo dalla Rivelazione queste asserzioni appaiono del tutto certe. Ockham, quindi, non vuole affermare la falsità o l’infondatezza della Fede; asserisce al contrario che i dogmi di Fede possono essere correttamente accettati solo a partire dalla Rivelazione e dalla Fede stessa, senza interventi razionali. In modo analogo Ockham giunge a rifiutare ogni dimostrazione razionale dell’esistenza di un’anima sostanziale e immortale. Per Ockham, infatti, non abbiamo una conoscenza intuitiva della sostanza dell’anima, né sappiamo attraverso l’intuizione sensibile o quella intelligibile nulla di certo sull’esistenza dell’intelletto agente, sicché queste realtà non sono oggetto di vera dimostrazione. Il mondo che la filosofia di Ockham così descrive, privo di certezze razionali su quanto è trascendente e dal quale sono stati espunti gli enti e le essenze universali, appare segnato da una forte contingenza. La dottrina teologica corrispondente alla visione del cosmo come realtà contingente è l’assoluta libertà di Dio nella ripresa della distinzione tra potentia Dei absoluta e ordinata. Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella Anche Ockham come Scoto sottolinea che Dio nel creare il cosmo ha agito secondo uno dei molti modi che a lui sarebbero stati possibili. Dio, quindi, ha creato l’ordine cosmico e lo rispetta (potentia ordinata), non alterando con il suo intervento le leggi che lo governano. Tuttavia Dio avrebbe anche potuto agire in altra maniera, secondo una totale assenza di limiti e costrizioni, fatta eccezione per la possibilità di realizzare quanto è contraddittorio (potentia absoluta). La conseguenza di questa dottrina è la completa relativizzazione di ogni legge fisica e precetto morale, in un cosmo che appare del tutto contingente in quanto Dio avrebbe potuto creare un diverso ordine universale in base al proprio volere. Ciò significa che le leggi che governano l’universo sono valide solo nella misura in cui Dio le ha volute e che Dio avrebbe potuto volerne altre; anche le norme etiche sono giuste non perché abbiano una verità intrinseca, ma perché Dio le ha scelte. Affermare la libertà assoluta di Dio nella creazione, infatti, significa affermare che non esistono verità oggettive (quali essenze e Idee) che si impongano alla volontà divina (cosicché Dio doveva rispettare quelle verità e scegliere di creare il mondo così come lo ha creato, perché in caso contrario avrebbe agito contro ogni giustizia e correttezza). Dal punto di vista etico la dottrina ockhamista della potenza assoluta porta il pensatore francescano ad affermare che se Dio avesse ordinato all’uomo di odiarLo, cioè avesse stabilito che fosse giusto odiare il proprio Creatore, quel comportamento sarebbe stato il più corretto; tale tesi sarà oggetto di critiche e sospetti di eresia. POLITICA IN OCKHAM Ockham in politica assume una posizione di condanna del potere temporale del papa. Ockham ritiene che non esista una forma di governo perfetta che possa essere superiore alle altre. L’uomo decide di volta in volta quale tipologia di organizzazione sociale fare propria. Non esistendo una forma perfetta di costituzione che Dio (nell’ordine universale che ha realizzato creando questo cosmo) abbia posto sopra le altre, la politica appare come attività strettamente umana. Per Ockam il potere politico nasce dall’uomo e spetta all’uomo controllarlo. Criterio guida fondamentale della gestione del potere politico in Ockham è il bene comune. Il popolo, osserva infatti il pensatore francescano, può legittimamente deporre i propri governanti se questi usano la loro posizione e ruolo a scopi contrari all’utile della collettività. Il carattere umano del potere porta Ockham ad escludere anche la necessità di una legittimazione sacrale della forza politica, ovvero l’opportunità che il papa investa il sovrano del suo potere subordinando di fatto la forza politica a quella religiosa. Ockham, quindi, teorizza una sostanziale indipendenza tra potere religioso e potere politico. Papato e impero operano su due piani distinti; l’uno legato alle norme che Dio ha voluto e rivelato all’uomo per renderlo perfetto e salvarlo (il fine ultimo dell’individuo è obbedire a Dio), l’altro creato per operare come garante dell’ordine e per il bene collettivo in senso materiale. Il potere della Chiesa insegna cosa sia il fine ultimo che rende l’uomo felice, mentre il potere dell’Impero veglia sul bene materiale. In Ockham allora poiché entrambi i poteri sono funzionali alla difesa del bene pubblico (salvezza dell’anima e pace materiale) entrambi i poteri possono anche essere sottoposti a giudizio, nel caso in cui non operino autenticamente in vista del bene comune. L’imperatore, quindi, può trovarsi costretto, se il papato viene meno al suo compito nei confronti Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella della collettività, ad agire contro il papa e il papa può fare lo stesso nei confronti dell’impero. Ockham insiste anche sulla necessità che il papato agisca non per soffocare la libertà dell’uomo con dispotismo ma per promuoverla. La vera libertà è l’agire sotto la legge che Dio ha insegnato cosicché il papato deve solo indirizzare l’uomo alla condotta perfetta secondo il modello di Cristo. Anche l’infallibilità della Chiesa è ripensata da Ockham in termini di infallibilità della comunità storica che la chiesa è stata e sarà, quale insieme dei credenti e dei giusti. La non fallibilità dei decreti che il singolo papa può emanare è così negata. Ockham si trova in questo modo in contrasto con la Chiesa del suo tempo, ovvero la Chiesa della cosiddetta cattività avignonese (il periodo tra il 1309 – 1377 in cui il papato si trasferì ad Avignone sotto il controllo della monarchia francese). Ockham proprio per tali contrasti fu costretto a fuggire dalla Francia dove era stato chiamato per essere giudicato a causa di alcune sue dottrine e venne accolto e protetto da Ludovico il Bavaro, avversario dell’allora papa Giovanni XXII. DOTTRINE FISICHE OCKHAMISTE La sua teoria della conoscenza porta Ockham a elaborare importanti dottrine anche nell’ambito della filosofia della natura e della fisica. Ockham spiega la conoscenza come l’unione di un soggetto e un predicato. La conoscenza sarà vera nella misura in cui la supposizione del termine che costituisce il soggetto sia la stessa della supposizione del termine che costituisce il predicato; la verità si produce, quindi, quando i termini del giudizio “suppongono” tutti per una medesima realtà. “Socrate è uomo” allora è una proposizione vera in quanto tanto il soggetto che il predicato rimandano a una medesima cosa e con ciò hanno lo stesso significato. Questa dottrina, con la quale Ockham evitava di pensare al sapere vero in termini di presenza dell’essenza colta dal predicato della proposizione nella natura del soggetto che a quel predicato era unito, conduce a pensare ogni forma di conoscenza come una semplice operazione linguistica. La verità di ogni scienza in Ockham, infatti, non dipende in prima istanza dal rapporto tra i termini del giudizio e la realtà, ma dalla coerenza dell’operazione logica della suppositio che coinvolge termini dati. Per questa ragione la critica ha definito la scienza in Ockham come analisi metalinguistica del linguaggio delle scienze: il sapere scientifico in quanto sapere vero è fondato sul corretto rapporto di suppositio tra i termini dello stesso discorso scientifico. Naturalmente questa dottrina non portava Ockham a ridurre la conoscenza autentica a gioco linguistico. Il semplice fatto che la suppositio possa essere personalis, ovvero riferita a cose concrete che sono il significato dei termini che la suppositio stessa mette in relazione, permette di affermare immediatamente che il discorso scientifico fondato su una corretta suppositio personalis denota cose concrete. Cionondimeno la peculiare definizione ockhamista di “discorso vero” ha notevoli conseguenze sul piano epistemologico, in particolare per la scienza della natura. Altra dottrina logico-espitemologica centrale per la riformulazione della filosofia della natura ockhamista è quella dei termini assoluti e connotativi. In Ockham un termine assoluto è un termine che denota una sola realtà e che ha un solo significato. Un termine connotativo, invece, è un termine che denota come suo primo significato una realtà, ma Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella che in modo obliquo e indiretto rimanda (connota e non denota appunto) anche a una cosa differente. Sviluppando le riflessioni sui termini paronimici e sul significare per se e per aliud, Ockham quindi affermava che mentre “uomo” ha un unico significato, termini come “bianco” denotano una sostanza (la cosa concreta che ha quel colore) e connotano la qualità (la bianchezza), in quanto non si dà mai la qualità senza la cosa alla quale questa inerisce. Applicando questa dottrina a problemi scientifici come quelli del movimento era possibile per Ockham osservare che il moto è un termine connotativo che in realtà rimanda all’esistenza del corpo che si muove e non è, dunque, una differente realtà, semplificando molto la riflessione fisica sulla dinamica e la cinematica. Queste dottrine, unitamente a quella della conoscenza fondata sul sapere intuitivo, conducono Ockham a superare alcune tipiche teorie della fisica medievale. Se: la conoscenza vera è data dal corretto rapporto delle suppositiones dei termini, le quali rimandano a realtà colte con la conoscenza intuitiva se l’applicazione della teoria dei termini connotativi a questioni come quelle del movimento conferma che oggetto vero del discorso scientifico è sempre la sostanza singolare allora per Ockham il sapere è fondato sulla conoscenza intuitiva di una concreta realtà individuale (vero oggetto di ogni atto linguistico e conoscitivo). Lo stesso rasoio di Ockham impedisce di ipotizzare “nuove” cause ed enti per spiegare un fenomeno se ricorrendo alla realtà che già conosciamo la spiegazione è comunque efficace. In questo modo Ockham nega la differenza tra corpi sub-lunari e corpi celesti sopra-lunari, in quanto questa distinzione, non attestata in modo evidente da nessun sapere, non permette di risolvere in modo più efficace problemi o questioni speculative. In modo analogo Ockham sostiene che, posta anche l’infinita potenza divina, più mondi sono pensabili né che contro tale dottrina vale la teoria aristotelica dell’assolutezza dei riferimenti spaziali: in uno spazio infinito si avrebbero diversi centri e diversi termini per orientarsi (alto, basso, destra e sinistra) sicché differenti “pianeta terra” non tenderebbero a convergere nello stesso centro (dato che la terra ha come proprio luogo naturale il centro), diventando una sola. Ockham in questo modo riassume bene la temperie speculativa nella filosofia della natura e nella fisica nel ’300. Queste discipline, infatti, furono in quel periodo soggette a profonde trasformazioni metodologiche e contenutistiche delle quali l’esito più interessante sarà Giovanni Buridano (1295 circa – 1361). Maestro a Parigi, Buridano svilupperà la teoria fisica dell’impetus. Se Aristotele sosteneva che ogni cosa che si muove è mossa da altro e se questa teoria comportava difficoltà nello spiegare il movimento dei proiettili (i corpi lanciati) in quanto non esisteva, una volta scagliati, nessun motore connesso a questi corpi per farli muovere (Aristotele aveva allora supposto che l’aria che circonda i corpi agisse da motore, mutuando la forza dal primo motore che aveva lanciato il corpo), Buridano riprende una teoria araba, risalente a Giovanni Filopono (VI secolo d. C.) per la quale una potenza motrice immateriale è comunicata al corpo lanciato da colui che lo lancia. Questa teoria dell’impetus asserisce, quindi, che esiste nel corpo proiettato una forza residua impressagli da colui che lo ha scagliato e che tale forza rimane nel corpo stesso sino a che altre forze non intervengono; la dottrina dell’impetus è stata vista come un primo passo verso la teorizzazione del principio di inerzia di Galilei. Queste dottrine di Ockham e di Buridano (la non differenza delle sostanze celesti da quelle sublunari, infiniti mondi possibili, la dottrina dell’impetus) verranno riprese in ambiente rinascimentale da autori come Nicolò Cusano. CRONOLOGIA Università di Bergamo, Storia della filosofia medievale, a.a. 2016 – 2017, prof. Francesco Paparella - Guglielmo nasce a Ockham (o Occam) nel Surrey verso la fine del ’200 (forse 1288). - Entra in giovane età nell’ordine francescano e comincia il suo percorso di preparazione teologica e filosofica che lo porta all’università di Oxford - Qui, intorno al 1319 Ockham completa il suo percorso di studio teologico commentando le Sentenze di Pietro Lombardo; i materiali derivanti da questa attività di analisi saranno riletti e corretti poi dallo stesso Ockham nella sua Ordinatio. - Nel 1321 arriva a Londra con l’incarico di insegnare dello Studio generale dell’ordine - Al 1323, durante il suo soggiorno londinese, scrive probabilmente la sua Summa logicae. - Intorno al 1324 51 tesi ockhamiste sono considerate sospette di eresia. Ockham si reca ad Avignone per discutere la sua posizione e le proprie dottrine ritenute sospette. - Tra il 1324 e il 1328 Ockham è ad Avignone, dove incontra il generale dell’ordine francescano, Michele da Cesena, e il procuratore dell’ordine (colui che rappresentava giuridicamente l’ordine presso la curia pontificia), Bonagrazia da Bergamo. I due erano impegnati nella disputa con il papato sulla questione della povertà evangelica. - Ockham prende parte alla discussione sul precetto cristiano della povertà, schierandosi con i rappresentanti del suo ordine. All’inasprirsi del conflitto con il papato, Michele da Cesena e Bonagrazia da Bergamo fuggono da Avignone (26 Maggio 1328) e Ockham, che aveva appoggiato le loro posizioni, li segue. - Tra il 1328 e il 1330 i tre sono a Pisa, sotto la protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro, anch’egli impegnato in una lotta con il pontefice sul primato del potere spirituale. - Negli anni successivi sino al 1347 (anno probabile della sua morte) Ockham è a Monaco di Baviera, alla corte imperiale, dove si occupa di problemi politici, scrivendo diverse opere a difesa dell’indipendenza del potere secolare da quello religioso.