2014 n° 3 Temi Romana n° 3 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma ANNO LXII LUGLIO – SETTEMBRE 2014 Passeggiata in libreria n° 3 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma “TRASPARENZA E PRIVACY NELLA GESTIONE DEL BILANCIO DELL’UNIONE EUROPEA” Giuseppina Crisponi NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 160, euro 15,00 Da metafora esistenziale a paradigma istituzionale – dall’oracolo di Delfi alle Istituzioni comunitarie – il motto «nulla di troppo» indica la strada del bilanciamento come metodo per affrontare e risolvere i conflitti. Nell’ambito della formazione ed esecuzione del bilancio generale dell’Unione europea e della presentazione e revisione dei conti, in questo libro è offerta un’immagine rappresentativa della complessità intrinseca alla necessità di stabilire un equilibrio ottimale tra diritti ugualmente meritevoli di salvaguardia: l’interesse dell’Unione europea a garantire la trasparenza e una sana gestione delle finanze pubbliche, da un lato, e i diritti fondamentali dei beneficiari dei fondi dell’UE al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali, dall’altro, con il fondamentale contributo del Garante europeo della protezione dei dati (GEPD) sulla questione. Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO Direttore Scientifico: Alessandro CASSIANI Capo Redattore: Samantha LUPONIO Comitato Scientifico: Paola BALDUCCI, Antonio BRIGUGLIO, Luigi CANCRINI, Pierpaolo DELL’ANNO, Antonio FIORELLA, Giovanni Maria FLICK Giorgio LOMBARDI, Carlo MARTUCCELLI, Ugo PETRONIO Eugenio PICOZZA, Giulio PROSPERETTI, Giorgio SPANGHER Alfonso STILE, Federico TEDESCHINI, Roberta TISCINI, Giancarlo UMANI RONCHI, Romano VACCARELLA Comitato di Redazione: Mauro VAGLIO, Pietro DI TOSTO, Antonino GALLETTI Riccardo BOLOGNESI, Fabrizio BRUNI Alessandro CASSIANI, Domenico CONDELLO, Antonio CONTE Mauro MAZZONI, Aldo MINGHELLI, Roberto NICODEMI, Livia ROSSI Matteo SANTINI, Mario SCIALLA, Isabella Maria STOPPANI Coordinatori: Antonio ANDREOZZI, Andrea BARONE, Camilla BENEDUCE Domenico BENINCASA, Marina BINDA, Ersi BOZEKHU Francesco CASALE, Francesco CIANI, Benedetto CIMINO, Irma CONTI Antonio CORDASCO, Alessandro CRASTA, Carmelita DE FINIS Annalisa DI GIOVANNI, Ruggero FRASCAROLI, Maria Vittoria FERRONI Fabrizio GALLUZZO, Alessandro GENTILONI SILVERI, Mario LANA Paola LICCI, Andrea LONGO, Giuseppe MARAZZITA, Franco MARCONI Alessandra MARI, Gabriella MAZZEI, Arturo MEGLIO, Chiara PACIFICI Ginevra PAOLETTI, Chiara PETRILLO, Tommaso PIETROCARLO Aurelio RICHICHI, Sabrina RONDINELLI, Serafino RUSCICA Marco Valerio SANTONOCITO, Massimiliano SILVETTI, Luciano TAMBURRO Federico TELA, Antonio TESTA, Federica UMANI RONCHI, Clara VENETO Segretario di redazione: Natale ESPOSITO Progetto grafico: Alessandra GUGLIELMETTI Disegno di copertina: Rodrigo UGARTE ____________ Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma “CODICE DEL PUBBLICO IMPIEGO” Francesco Caringella, Ciro Silvestro, Francesco Vallacqua (Coordinatori) Testi di: Ciro Silvestro, Francesco Vallacqua, Renata Mazzaro, Fabrizio Sileri, Bruno Strati, Caterina Panzarino, Antonio Campanella, Anna Consiglio, Tina Cecilia Menelao, Alessandro Nicodemi, Luigi Pianesi, Valentina Fiorillo, Veronica Valenti, Barbara Malaisi, Simone Calzolaio DIKE GIURIDICA EDITRICE, ROMA pp. 1900, euro 150,00 Il codice si prefigge l’obiettivo di dotare operatori, amministratori e studiosi di una guida completa ed organica che illumini il variopinto mondo del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tracciando un esaustivo panorama delle norme fondamentali relative al pubblico impiego, privatizzato e non, ed all’universo previdenziale. L’opera, inedita per ricchezza del materiale normativo e profondità dell’indagine, offre agli operatori un quadro a 360 gradi del patrimonio di contributi ed esperienze svolti negli ultimi anni sull’accidentato campo della riforma del lavoro alle dipendenze delle p.a.. “LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E LE PROCEDURE CONCORSUALI” Antonio Caiafa DISCENDO AGITUR, ROMA pp. 292, euro 30,00 L’attuale ordinamento non offre una risposta adeguata alle esigenze delle imprese e dei lavoratori nel caso di processi di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione in caso di crisi del mercato, in quanto le soluzioni previste (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, piani attestati di risanamento e la stessa transazione fiscale), solo in apparenza rappresentanti un rimedio volto alla preservazione dei valori aziendali, ma, invero, non sono in grado di assicurare l’obiettivo voluto, soprattutto in ragione della dimostrata incapacità del legislatore di regolare, in modo appropriato, il procedimento di conformazione che le direttive comunitarie, troppo spesso ignorate, hanno inteso imporre, nonostante le numerose pronunce intervenute attestino una preoccupante difformità della disciplina nazionale da quella europea. “L’AVVOCATO E LE SUE QUATTRO RESPONSABILITÀ” Vito Tenore (a cura di) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE, NAPOLI pp. 576, euro 60,00 Mancava nel pur vasto panorama editoriale dedicato alla professione forense una monografia a tutto tondo sulle quattro responsabilità dell’avvocato e delle società tra avvocati. Difatti, gli studi editi si sono di solito soffermati sulla responsabilità civile per errori professionali o su quella disciplinare per violazione di regole deontologiche. Molto poco era stato scritto sulla responsabilità penale del difensore e mai nulla era stato pubblicato su quella mministrativo-contabile per talune attività dell’avvocato. Il volume colma, dunque, questa lacuna scientifica con uno studio organico, approfondito, aggiornato alla riforma forense della Legge n. 247 del 2012, ancorato al basilare referente normativo e, soprattutto, ricco di giurisprudenza (anche del CNF) e di dottrina, che hanno scandagliato diversi profili della patologia comportamentale del peculiare professionista legale. Sommario n° 3 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma 2 NORBERTO BOBBIO: LA STORIA 4 SAGGI A cura di Eleonora Senese Diritto penale europeo Pietro Mazzei 12 Il mobbing nella prospettiva criminologica integrata Giovanni Neri e Flavia Forgione 19 Profili generali relativi alla tutela del consumatore ed azione di classe - Parte I Alessandro Nicodemi 32 Criteri d’individuazione del titolare della qualifica soggettiva nell’ambito delle organizzazioni complesse e operatività della delega di funzioni, con particolare riferimento, alla responsabilità di Amministratori e Sindaci di società - Parte II - Posizione di garanzia e Responsabilità Francesca Zignani 39 Colpevole!... al 50%. Ovvero quando le perizie danno i numeri Marco Zonaro 42 OSSERVATORIO LEGISLATIVO Ancora sulla colpa medica: il danno da nascita indesiderata Marina Binda 46 I modelli di organizzazione e controllo ex D.Lgs. n. 231 del 2001 nella prospettiva di un magistrato della pubblica accusa Pierluigi Cipolla 51 NOTE A SENTENZA Concordato con riserva e licenziamento Antonio Caiafa 57 Decadenze in materia di licenziamento Carlotta Maria Manni 59 CRONACHE E ATTUALITÀ L’addebito della separazione Matteo Santini Con i contributi di: Barbara Capicotto Anna Lanza Marco Meliti Patrizia Paris Temi Romana 1 Norberto Bobbio: la storia È il senso del limite che ci fa prendere contatto con la realtà A cura di Eleonora Senese N orberto Bobbio nasce a Torino il 18 ottobre del 1909 da una famiglia abbastanza agiata che gli consente di studiare. Dopo il conseguimento del diploma al Liceo classico “Massimo D’Azeglio”, nel 1928 si iscrive al Partito Nazionale Fascista, pur non essendo vicino a quell’ideologia. Si iscrive all’Università ove diviene allievo di due importanti professori, Gioele Solari e Luigi Einaudi e, dove consegue la laura con lode in Giurisprudenza nel luglio del 1931, esponendo una tesi sulla “Filosofia e dogmatica del Diritto”. Successivamente si trova a studiare in Germania dove si avvicina alla filosofia di Jaspers e all’esistenzialismo, laureandosi poco dopo anche in Filosofia con una tesi riguardante la fenomenologia di Husserl. Circa un anno dopo ottiene la cattedra all’Università di Siena e a Padova, iniziando così la sua carriera universitaria. La sua avversione per il Fascismo gli procura un arresto a Torino e poco dopo un’intimidazione per la quale scrive un esposto direttamente a Benito Mussolini. Nel testo si discolpa delle accuse rivoltegli, riuscendo ad ottenere addirittura la cattedra di Filosofia del diritto all’Università di Camerino proprio grazie all’intervento dello stesso Mussolini. Negli anni giura ancora fedeltà al Regime, per poter riaccedere alle cattedre dell’Università di Siena e di Padova e, per questo motivo, fu oggetto di aspre critiche. Negli anni ’40 del Novecento aderisce al movimento liberal-socialista e per l’attività clandestina viene incarcerato per tre mesi. Riottenuta la libertà intraprende una critica all’esistenzialismo, tornando alla contemplazione delle teorie illuministe. In quegli anni si sposa con Valeria Cova dalla quale ha tre figli: Marco, Andrea e Luigi. I suoi studi politico-sociali si incentrano, poi, sulla tesi di un federalismo inteso come unione di stati diversi che, però, è da considerarsi ormai superata dopo l’unificazione nazionale. È la “Teorica della libertà”. Dopo aver lasciato l’incarico a Padova, occupa la Cattedra di Filosofia del diritto a Torino, riscontrando un notevole successo in merito ai suoi corsi fino al 1961. Dall’anno successivo fino al 1971, insegna presso la facoltà di Scienze Politiche della quale fu fondatore a Torino e che gli consente di ottenere la cattedra di Filosofia politica. Proprio nel 1971 è tra i firmatari della lettera sul caso Pirelli pubblicata da L’Espresso Il figlio Luigi milita nel frattempo in Lotta Continua. Durante quegli anni diviene Presidente della Facoltà e la politica diventa punto cardine del suo percorso intellettuale, tant’è che di notevole rilievo è un testo del 1972 indirizzato a Guido Fassò, nel quale si scaglia contro l’ingiustizia e la corruzione che si nasconde sotto l’insegna della Democrazia. Dice nel libro: “La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è l’ideale egualitario…”. Per i suoi numerosi lavori diventa socio dell’Accademia dei Lincei e della British Academy, collaborando, inoltre, con l’amico Aldo Capitini all’opera I problemi della guerra e le vie della pace del 1979, anno in cui è nominato Professore emerito all’Università di Torino. Cinque anni dopo, ottiene la carica di Senatore a vita dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini e, dal 1996, si iscrive al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra. Grazie al suo contributo non solo accademico, Bobbio riceve lauree honoria, vincendo il Premio Balzan nel 1994 e il Premio Agnelli nel 1995. Pubblica la sua autobiografia alla fine degli anni ’90, ma poco più tardi, dopo la scomparsa della moglie Valeria, inizia a ritirarsi a vita privata, pur continuando sporadicamente ad esporre le sue osservazioni critiche sulla politica del tempo. Nell’anno 2003 è onorato del “Sigillo Civico” per i suoi contributi alla città di Torino, in cui muore il 9 gennaio del 2004. Norberto Bobbio ha sempre ricercato i principi fonda2 Temi Romana Norberto Bobbio: la storia mentali che consentono lo sviluppo di una democrazia giusta ed equa. Pur ritenendo fallimentare l’esperienza marxista-leninista Bobbio ha tuttavia creduto in una contrattazione delle parti che si allarghi a tutto il mondo, che comprenda la fratellanza tra gli uomini e che non concepisca la violenza come mezzo per raggiungere tale obiettivo. Nell’ambito della teoria generale del diritto ha sostenuto e abbracciato la critica al giusnaturalismo e ha creduto nella costruzione di una scienza giuridica come sistema coerente. Considerato come “più occupato a seminare dubbi che a raccogliere consensi”, ha fondato la propria filosofia nel cercare appunto di trovare falle in quei sistemi che tanto si reputano sani ed incrollabili, incarnando in sé, l’ideale della concezione critica e militante del pensiero. È il padre della filosofia analitica italiana e reputa Temi Romana che per far evolvere questa democrazia sia necessario far progredire innanzitutto la civiltà nella quale essa deve avere luogo. Famose sono le sue parole: “Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina, quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un’altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so lo metto alla prova continuamente con coloro che presumo che ne sappiano più di me”. Tra i numerosi scritti che ci ha lasciato, occorre ricordare: L’indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica (Torino, 1934); La consuetudine come fatto normativo (Padova, 1942); Stati Uniti d’Italia (1945); Saggi sulla scienza politica in Italia (Torino, 1969); Liberalismo e Democrazia (Milano, 1985). 3 Saggi Diritto penale europeo Pietro Mazzei Avvocato del Foro di Roma I carsi alla già esistente dimensione d’integrazione economica ed istituzionale, costituita dalle originarie tre (oggi due) Comunità Europee: - Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, Ceca, istituita con il Trattato di Parigi del 18/4/1951, in vigore dal 27/7/1952, ed estintasi una volta decorso il prefissato termine di 50 anni; - Comunità Europea, CE, e Comunità Europea per l’Energia Atomica, CEEA o EURATOM, entrambe istituite con i Trattati di Roma del 25/3/1957, in vigore dal 1/1/1958 (che oggi ricomprendono anche la materia del carbone e dell’acciaio. Le predette tre comunità avevano creato un sistema giuridico di cooperazione interstatuale su materie prettamente economiche, con una struttura permanente, complessa e articolata, dotata dei mezzi e degli strumenti idonei al raggiungimento degli scopi previsti e, specificamente, la creazione di un mercato comune. Il trattato di Maastricht ha introdotto, per un diverso ambito (quello politico), un sistema giuridico di cooperazione simile, ferme restando alcune fondamentali differenze, che ha in parte mutuato le strutture e le istituzioni comunitarie già esistenti (c.d. quadro istituzionale unico). Del resto, l’idea di un’integrazione politica europea era già stata avanzata nel 1953 con il progetto di trattato per la Comunità politica europea, accantonato dopo il rifiuto dell’Assemblea nazionale francese di ratificare il diverso, ma complementare, Trattato istitutivo di una comunità europea per la difesa (Ced). L’ostracismo francese, pertanto, bloccò sul nascere le aspirazioni europee di integrazione politica che ritroveranno slancio esclusivamente negli anni ’80 e raggiungeranno un primo tangibile risultato con l’adozione nel febbraio del 1986 dell’Atto Unico Europeo (entrato in vigore il 1/7/1987) nel quale, oltre ad alcune modifiche apportate ai trattati istitutivi delle tre comunità, si ritrovano le prime disposizioni sulla cooperazione europea in materia politica estera e di cooperazione politica2. Il trattato di Maastricht si compone di un Preambolo, di l diritto internazionale, nella sua accezione più semplice, è costituito dal complesso delle norme che regolano i rapporti tra soggetti della comunità internazionale, tra i quali gli Stati che, pur essendo indubbiamente i maggiori protagonisti, non sono i soli. Appare opportuno rilevare che si riconduce al diritto internazionale anche quel particolare diritto, anch’esso di natura internazionale, che si sviluppa all’interno delle Organizzazioni Internazionali. Le predette organizzazioni generano, a loro volta, uno specifico ordinamento giuridico con propri soggetti, propri organi, fonti normative e procedure. I meccanismi di funzionamento delle organizzazioni internazionali possono certamente differire dagli schemi tradizionali del diritto internazionale per la semplice ragione che, avendo all’origine un esplicito accordo internazionale, nulla impedisce agli Stati la più ampia libertà di scelta delle forme e dei meccanismi di funzionamento dell’organizzazione nonché della tipologia, delle finalità e dei mezzi. In tale ipotesi, si suole parlare di un “diritto delle organizzazioni internazionali”, in senso generale, ovvero del diritto della singola organizzazione quale, ad esempio, il “diritto delle Nazioni Unite” o il “diritto dell’Unione Europea”1, indicandosi con tale precisazione tutti gli atti appartenenti all’ordinamento dell’organizzazione considerata che abbiano carattere giuridico. Sul punto, appare opportuno rilevare che il Trattato sull’Unione Europea (firmato a Maastricht il 7/2/1992 ed entrato in vigore il 1/11/1993, successivamente modificato dal Trattato di Amsterdam del 2/10/1997 e dal Trattato di Nizza del 26/2/2001) istituisce un’Unione Europea tra gli Stati membri allo scopo di segnare “una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile e più vicino possibile ai cittadini” (art. 1). Ebbene, l’Unione Europea rappresenta la dimensione politica dell’integrazione europea che viene ad affian4 Temi Romana Saggi sette Titoli, di un Atto finale, di 17 protocolli e di 33 Dichiarazioni allegate (ratificato in Italia con L. n. 454/1992). Sin dal Preambolo appare chiaro come la nuova dimensione politica di integrazione non intenda sostituirsi, bensì affiancarsi alla già esistente dimensione economico-istituzionale di integrazione. Rispetto al sistema giuridico comunitario, quindi, quello europeo rappresenta un completamento, una “nuova tappa nel processo di integrazione europea intrapreso con l’istituzione delle Comunità europee” che ritrova ora tra i suoi fine anche quello di “rafforzare ulteriormente il funzionamento democratico ed efficiente delle istituzioni in modo da consentire loro di adempiere in modo più efficace, in un contesto istituzionale unico, i compiti loro affidati”, quello di “attuare una politica estera e di sicurezza comune al fine di promuovere la pace, la sicurezza ed il progresso in Europa e nel mondo” e quello di “agevolare la libera circolazione delle persone, garantendo nel contempo la sicurezza dei loro popoli, con l’istituzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Tra le Disposizioni Comuni del Titolo I (artt. 1-7) spiccano l’art. 2 che fissa, riprendendo in parte le indicazioni del Preambolo, gli obiettivi dell’Unione, tra i quali: la promozione di un progresso economico e sociale ed un elevato livello di occupazione; il raggiungimento di uno sviluppo equilibrato e sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economia e sociale e l’instaurazione di un’unione economica e monetaria; l’affermazione di un’identità europea sulla scena internazionale, in particolare mediante l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune; la conservazione e lo sviluppo di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Ancora, l’articolo 3 che dota l’Unione di un quadro istituzionale unico capace di assicurare coerenza e continuità al complesso delle azioni; l’articolo 5 che riconosce alle Istituzioni Comunitarie (Parlamento Europeo, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia e Corte dei Conti) una certa competenza (in aggiunta alla competenza piena già attribuita loro dai trattati istitutivi) anche sulle materie previste dal trattato di Maastricht; l’art. 6 che elenca i principi che fondano l’Unione e che devono essere rispettati dagli Stati Temi Romana membri e da quelli candidati all’ammissione, come libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto3. La nuova riconfigurazione operata dal Trattato di Maastricht ha, così, introdotto un secondo sistema giuridico che presenta numerosi punti di contatto, sovrapposizione ed integrazione con il preesistente sistema comunitario: in tal senso, si suole parlare di “una struttura a pilastri”. Secondo questa ricostruzione, il primo pilastro, detto comunitario, corrisponde ai Trattati di Roma, mentre gli altri due (il secondo ed il terzo) corrispondono a quelle disposizioni introdotte dal Trattato sull’Unione aventi rispettivamente ad oggetto la politica estera e di sicurezza comune (artt. 11-28) e la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (artt. 29-42). Il principale tratto distintivo tra i due sistemi (tra il primo pilastro e gli altri due; tra diritto comunitario e diritto dell’Unione Europea) consiste, oltre che nella diversità di oggetto, nella diversa competenza e diversa tipizzazione degli atti normativi, nel quorum richiesto per l’adozione di decisioni: salvo eccezioni, la maggioranza qualificata nel pilastro comunitaria (metodo comunitario) e l’unanimità nel secondo e nel terzo pilastro (metodo intergovernativo). La scelta in favore dell’unanimità si spiega, politicamente, in ragione della particolare delicatezza degli interessi statuali coinvolti dalla cooperazione intergovernativa introdotta dal Trattato4. Per quel che maggiormente ivi ci riguarda, il terzo pilastro del Trattato di Maastricht, prevede le disposizione (artt. 29-42) per la cooperazione interstatuale di polizia e giudiziaria in materia penale. Secondo l’art. 29, infatti, “fatte salve le competenze della Comunità europea, l’obiettivo che l’Unione si prefigge è fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Il predetto obiettivo è perseguito “prevenendo e reprimendo la criminalità organizzata o di altro tipo mediante un’ampia ed articolata cooperazione che coinvolge, tra le atre, le forze di polizia, le autorità doganali e le autorità giudiziarie degli Stati membri”. In particolare, l’art. 34 elenca i provvedimenti tipici (posizioni comuni, decisioni-quadro, decisioni e convenzioni) attraverso l’adozione o lo stabilimento dei 5 Saggi quali il Consiglio, deliberando all’unanimità, persegue gli obiettivi del terzo pilastro. Anche in questo ambito, un ruolo minore viene riservato alle istituzioni comunitarie (Parlamento Europeo, Commissione, Corte di Giustizia). Di particolare apprezzamento è il ruolo riconosciuto dall’art. 35 alla Corte di Giustizia in termini di competenza a pronunciarsi pregiudizialmente sulla validità o l’interpretazione delle decisioni-quadro e delle decisioni, sull’interpretazione delle convenzioni stabilite ex art. 34 e sulla validità ed interpretazione delle misure di applicazione di queste ultime5. Nell’attuale momento storico, il nostro sistema penale, come quello di tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea, è sempre più influenzato da norme che promanano da Organi dell’Unione Europea. Pertanto, fonte del diritto penale non è più solo la legge statale, ma anche la norma europea. Specificamente, premesso che (almeno fino ad oggi) non si ritiene ammissibile che una norma comunitaria (direttiva, regolamento) possa direttamente creare fattispecie incriminatrici né, tanto meno, aggravare la responsabilità penale del cittadino di uno Stato membro – attesa la riscontrata assenza di legittimazione democratica delle fonti di produzione delle norme dell’Unione Europea (Consiglio dei Ministri, Commissione) – l’influenza del diritto comunitario sul diritto penale può essere schematicamente sintetizzata come segue. Il principio fondamentale è rappresentato dalla prevalenza della normativa comunitaria sulla normativa interna con essa incompatibile, la quale deve dunque essere disapplicata. Ciò premesso, il diritto comunitario può incidere: A. sulla produzione normativa di uno Stato membro; B. sull’ampiezza della fattispecie incriminatrice di uno Stato membro. Per quanto attiene l’influenza sulla produzione legislativa di uno Stato membro, la stessa può realizzarsi attraverso direttive (che per le loro caratteristiche non possono trovare immediata applicazione), le quali impegnano uno Stato membro a legiferare in determinati settori (ad es., nel settore dello smaltimento dei rifiuti) in conformità a criteri predeterminati; oppure attraverso decisioni quadro che vincolano lo Stato membro a costruire le fattispecie incriminatrici “dome- stiche” (ad es., in materia di pedopornografia) utilizzando come elementi costitutivi quelli contemplati nella fonte europea. Sia attraverso le direttive che le decisioni quadro si persegue l’obiettivo di un’armonizzazione delle legislazioni penali degli Stati membri. Per quanto attiene, invece, l’influenza sull’ampiezza delle fattispecie incriminatrici, la stessa può consumarsi attraverso la strada della vera e propria integrazione del precetto penale ovvero attraverso la strada dell’adozione di una interpretazione conforme alla norma comunitaria. La prima strada – il cui lastricato è costituito dai trattati, dalle direttive c.d. self executing (ossia specifiche e non bisognose di leggi attuative) e dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – può trovare sbocco all’interno delle norme di parte generale necessariamente integrative della fattispecie incriminatrice, quali quelle in materia di colpa ex art. 43 c.p. (si pensi, ad es., alle norme comunitarie impositive di obblighi di prudenza come non guidare un camion per più di un certo numero di ore consecutive), oppure di garanzia del non verificarsi dio eventi dannosi ex art. 40, comma 2, c.p. (si pensi, ad es., alla imposizione di standard di sicurezza europei concernenti ceri prodotti, come i giocattoli), ovvero all’interno della stessa fattispecie incriminatrice, comportandone la restrizione (non v’è dubbio, ad es., che le norme penali sul contrabbando non possano trovare applicazione relativamente a merci di provenienza comunitaria) o l’ampliamento (si pensi, ad es., all’art. 194 del Trattato Euratom che vincola gli Stati membri a proteggere il segreto atomico europeo con le stesse norme penali poste a presidio del segreto nazionale). La strada dell’interpretazione conforme al diritto comunitario è illuminata dai tre fari delle direttive, delle decisioni quadro e del ricorso per interpretazione alla Corte di Giustizia. Pertanto, il Giudice nazionale ha il dovere di applicare le norme penali interne in senso conforme a quelle comunitarie. Se sussiste un dubbio sul preciso significato da attribuire alla norma comunitaria della quale deve tenere conto per la risoluzione del caso di specie, il Giudice nazionale è tenuto a promuovere l’intervento della Corte di Giustizia affinché essa ne determini la corretta interpre- 6 Temi Romana Saggi tazione che sarà vincolante6. Quanto alla gerarchia delle fonti nel quadro dell’Unione Europea, il c.d. terzo pilastro (cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale) è quello che maggiormente si avvicina al sistema comunitario, in quanto lo stesso, oltre ad altre figure di atti comuni al secondo pilastro e a deliberazioni del consiglio genericamente denominate “misure” (art. 34, 2, Tue), prevede l’emanazione di atti vincolanti che sono denominati decisioni-quadro o decisioni (art. 34, 1, lett. b, e c, Tue). Le decisioni-quadro creano norme giuridiche che, per produrre effetti a carico dei soggetti di diritto statale, hanno bisogno di un atto di trasformazione da parte degli Stati destinatari, non diversamente di quanto stabilito per le direttive; le decisioni hanno un valore ed una portata analoghi a quelli propri delle decisioni comunitarie. Anche nel quadro del terzo pilastro è prevista la possibilità che siano stipulate dall’UE convenzioni internazionali (art. 34, par. 1, lett. d, Tue), il cui contenuto sarà poi oggetto di una raccomandazione inviata agli Stati membri, affinché gli stessi procedano, secondo le forme previste dai rispettivi ordinamenti, all’adozione delle misure necessarie per dare esecuzione alle obbligazioni assunte dall’UE7. La sintesi dell’articolata euro risposta alle problematiche della giustizia va individuata in quel passaggio storico-cronologico segnato dal consiglio Europeo di Tampere del 1999 che, nel rilanciare in ambito comunitario le esigenze di tutela della collettività, ha indicato quale via prioritaria, rispetto alla linea dell’armonizzazione, il reciproco riconoscimento degli atti posti in essere nei singoli Paesi dell’UE. La decisione-quadro sul mandato di arresto, quella sul blocco dei beni, la previsione di un ordine UE per la ricerca delle prove, la figura di Eurojust e l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie, costituiscono le soluzioni evolutive del predetto obiettivo. Nel percorso per la stabilizzazione dello “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia” è, altresì, essenziale il superamento della struttura in pilastri operato dal Trattato costituzionale europeo del 18 giugno del 2004, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’UE. Alla base vi è l’idea di rimodellare gli strumenti opera- Temi Romana tivi settoriali previsti oggi a seconda del tipo di politica d’intervento (si ribadisce, direttive e regolamenti, per le materie propriamente comunitarie – primo pilastro Tr. CE; decisioni e decisioni-quadro per l’ambito della giustizia – terzo pilastro Tr. CE). In sostanza, gli attuali regolamenti, direttive, decisioni e decisioni-quadro verrebbero sostituiti da leggi europee e leggi-quadro europee, con le quali si potranno stabilire norme minime riguardanti l’ammissibilità reciproca delle prove tra gli Stati membri, i diritti della persona nei procedimenti penali, i diritti delle vittime della criminalità ed altri elementi specifici della procedura penale individuati dal Consiglio in via preliminare mediante una decisione europea. Il rinnovato metodo legislativo dovrà, tuttavia, superare remore trasversali. Allo stato degli atti è difficile confidare nella ratifica senza alcun inciampo nella Carta. Peraltro, il processo di integrazione UE risulta arricchito da prospettive che potremmo definire di “policentrismo normativo-giurisdizionale”. Un esempio di questa ipotesi ricostruttiva è offerto dalla sentenza della Corte di Giustizia 16 giugno 2005 che si distingue per la capacità di innovare la declinazione dei rapporti tra diritto interno (processuale penale) ed europeo. Nella sentenza c.d. “Pupino”, la Corte, stabilendo l’obbligo per l’autorità giudiziaria di interpretare il diritto interno in senso conforme alla disciplina delle decisioni-quadro, opera un parallelismo con le direttive CE definendo in termini innovativi il principio di legalità in materia penale e la questione circa la natura del diritto dell’Unione. La pronuncia reca, pertanto, in sé il germe di una tendenza espansiva degli atti UE, la cui potenzialità sembrerebbe commisurata all’esigenza pratica di garantire il progressivo adeguamento a standards di tutela omogenei in Europa. Lo Stato, dunque, resta il soggetto di riferimento nella produzione delle norme, ma esso non è più il solo attore del diritto ed il suo territorio non rappresenta più il solo spazio normativo. Siamo oggi di fronte a molteplici livelli di influenza che tendono ad una configurazione modulare del diritto, quello che è stato definito in dottrina il “pluralismo ordinato”, ovvero un’altra via al di là del relativismo 7 Saggi assoluto (che determinerebbe la totale incomunicabilità tra gli ordinamenti, provocando il disordine mondiale), e quell’ordine imposto in nome di un universalismo sovrastante di tipo egemonico8. Il Libro XI del c.p.p. disciplina i rapporti con le autorità straniere costituiti da estradizione, rogatorie, riconoscimento della sentenza penale straniera ed esecuzione all’estero della sentenza penale italiana. Gli istituti de quibus non esauriscono, tuttavia, il settore della cooperazione in materia penale, ma rappresentano quelli che di regola sono maggiormente utilizzati. Va, peraltro, precisato che l’evoluzione impressa al settore in argomento dall’UE ha determinato la nascita di ulteriori forme di cooperazione che rappresentano, da un lato, lo snellimento di quelle già esistenti, dall’altro lato, la loro naturale evoluzione (Maria Riccarda Marchetti, Rapporti giurisdizionali con autorità straniere in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 12, capitolo I, pag. 610). Ebbene, l’evoluzione dell’istituto dell’estradizione all’interno dell’Unione Europea è costituita dal mandato di arresto europeo (Mae) che rappresenta una più snella modalità di consegna dei soggetti ricercati per l’esecuzione di un provvedimento privativo della libertà personale ovvero di una sentenza di condanna a pena detentiva. Trattasi di un procedimento di carattere esclusivamente giurisdizionale volto a ridurre i tempi di consegna e, in quanto fondato sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni, a semplificare l’iter per l’esecuzione. Il procedimento ha, quindi, inizio secondo due modalità: 1. la prima costituita dalla trasmissione della richiesta di esecuzione per il tramite del Ministro – che non ha comunque alcun potere di rigetto – ovvero direttamente all’autorità giudiziaria; 2. la seconda derivante dall’arresto effettuato dalla polizia giudiziaria a seguito di segnalazione nel Sistema informativo Schengen (Sis). Nel primo caso, il Presidente della Corte di Appello, cui il Mae è trasmesso dal Ministro, compiuti gli accertamenti preliminari, riunisce la Corte per la eventuale applicazione di una misura coercitiva che non può venire disposta ove si abbia ragione di ritenere che sussistano cause ostative alla consegna. Entro cinque giorni dall’esecuzione della misura, il Presidente provvede a sentire la persona sottoposta a misura coercitiva alla presenza del difensore di fiducia, ovvero d’ufficio, informandola del contenuto del Mae e della possibilità di consentire alla consegna e di rinunciare al principio di specialità. Nella seconda ipotesi, la polizia giudiziaria pone l’arrestato, mediante trasmissione del relativo verbale, a disposizione del Presidente della Corte nel cui distretto è avvenuto l’arresto non oltre ventiquattro ore dallo stesso. Entro le successive quarantotto ore, questi provvede a sentirlo in presenza del difensore (di fiducia o d’ufficio) e, se risulta che l’arresto è stato eseguito per errore di persona, ovvero fuori dai casi di cui all’art. 11 della legge de qua, ne dispone la immediata liberazione. Al di fuori di tali casi, si procede alla convalida applicando, ove necessario, una misura coercitiva. In tale sede il Presidente raccoglie, inoltre, l’eventuale consenso alla consegna manifestato dall’interessato, preliminarmente informato di tale possibilità dall’Ufficiale di polizia giudiziaria che ha proceduto all’arresto. L’ordinanza che dispone l’applicazione di una misura è ricorribile per cassazione per violazione di legge ex art. 9, comma 7, L. n. 69/20059. Premesso che, come si vedrà, nel caso di consenso alla consegna da parte dell’interessato si delinea una procedura ulteriormente semplificata, soffermiamoci ora sul rito, per così dire, ordinario. In entrambi i casi sopra considerati, il Presidente della Corte fissa l’udienza per la decisione entro venti giorni dall’esecuzione della misura coercitiva se disposta, Premesso che la normativa di recepimento interno (L. n. 69/2005) non è sempre in linea con la decisione-quadro (584/2002/GAI), in quanto non pone limiti ed adempimenti ulteriori a quelli previsti dalla decisione de qua, analizziamone sinteticamente gli aspetti essenziali. In primo luogo, si stabilisce per l’esecuzione del Mae la competenza della Corte di Appello nel cui distretto l’interessato ha la residenza, la dimora o il domicilio al momento di ricezione della domanda da parte dell’autorità giudiziaria. In mancanza, la competenza è della Corte di Appello di Roma. Diversamente, nell’ipotesi in cui vi sia stato l’arresto da parte della polizia giudiziaria, la competenza spetta alla Corte del luogo ove è stato effettuato l’arresto. 8 Temi Romana Saggi sto con il presupposto su cui si fonda la decisione-quadro, sostenendo che l’autorità giudiziaria deve solo controllare che il mandato sia “fondato su un compendio indiziario che l’autorità giudiziaria emittente ha ritenuto seriamente dimostrativo di un fatto reato”11. Infine, appare opportuno rammentare che per un elenco di reati si prevede la consegna obbligatoria indipendentemente dalla verifica in ordine alla sussistenza della doppia incriminabilità, verifica che viene, per contro, ribadita con riguardo a tutti gli altri reati esulanti dalla lista di cui all’art. 8. Ancor più snello il procedimento nel caso di consenso che può essere manifestato sia in sede di audizione a seguito di applicazione dio una misura coercitiva o di convalida dell’arresto sia, successivamente, nel corso dell’udienza dinnanzi alla Corte e fino alla conclusione della discussione. In questo caso, la decisione – adottata con ordinanza sentiti il PG, il difensore e, se comparso, l’interessato – deve avvenire al massimo nei successivi dieci giorni. ovvero (è da ritenere) dalla pronuncia negativa in ordine all’applicazione della stessa. Contestualmente dispone il deposito del Mae e della documentazione che in base all’art. 6 della legge de qua ha un contenuto più ampio della corrispondente norma della decisione-quadro. Il relativo decreto è comunicato al Procuratore Generale e notificato all’interessato, al suo difensore e, si suppone, al rappresentante dello Stato richiedente, la cui partecipazione è prevista anche in tale procedimento stante la dichiarata applicabilità dell’art. 702 c.p.p.. L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del PG e del difensore, mentre l’interessato ed il rappresentante dello Stato richiedente hanno la facoltà di partecipare. La Corte decide con sentenza sull’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della richiesta entro sessanta giorni dall’esecuzione della misura cautelare ovvero dalla pronuncia negativa, salvo l’impossibilità di rispettare il predetto termine, nel qual caso si prevede una proroga di ulteriori trenta giorni. Le cause ostative alla consegna sono dettagliatamente elencate dall’art. 18 che contempla le ipotesi individuate dagli artt. 3 e 4 decisione-quadro, nonché quelle deducibili dai consideranda. Alle predette se ne aggiungono di ulteriori che non trovano alcun riscontro nella disciplina sovranazionale di cui la legge in argomento dovrebbe costituire attuazione: ad esempio, il caso previsto alla lettera e “se la legislazione dello Stato di emissione non prevede i limiti massimi della xcarecerazione preventiva”10. Entrambi i provvedimenti sono ricorribili per cassazione, anche per il merito, entro dieci giorni dalla legale conoscenza degli stessi. Il termine assegnato per la decisione è di quindici giorni dalla ricezione degli atti e, nell’ipotesi di annullamento con rinvio, il Giudice del rinvio decide entro venti giorni. Il ricorso ha effetto sospensivo, ma solo quando venga impugnata la sentenza. Tale previsione innesca intuibili problemi allorché la decisione della Suprema Corte intervenga successivamente all’avvenuta consegna e sia di rigetto della richiesta di esecuzione. Secondo la dottrina, dovrebbe subordinarsi la consegna alla condizione che l’interessato venga rinviato nel territorio dello Stato ovvero venga rimesso in libertà assegnandogli un intervallo temporale entro il quale allontanarsi. Spetta alla Corte vincolare la consegna ad alcune condizioni e stabilire l’ordine di priorità nel caso di più domande. Giova, infine, rammentare come anche per il Mae valgano alcune regole previste per l’estradizione (rinvio della consegna o consegna temporanea, transito, divieto di consegna o estradizione successiva) la più importante delle quali è costituita dal principio di specialità Nel complesso sono elencati venti casi che, tuttavia, non esauriscono il novero di quelli nei quali deve rifiutarsi la consegna. Infatti, quando venga richiesto il completamento della documentazione di cui all’art. 6 ovvero delle informazioni integrative ex art. 16, l’inottemperanza da parte dello Stato di emissione del mandato determina il rigetto della domanda. Inoltre, la consegna è comunque subordinata alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico del ricercato. Qui, per vero, la giurisprudenza ha ridimensionato la portata della disposizione, che si pone in palese contra- Temi Romana 9 Saggi efficace azione di contrasto alla criminalità e, in particolare, di quella organizzata. L’organismo da ultimo deputato anche al perseguimento delle predette finalità è denominato Eurojust che svolge un’attività di coordinamento ed impulso investigativo non troppo dissimile da quello della Direzione Nazionale Antimafia. Quanto alle competenze, l’articolo 4 decisione-quadro 187/2002/GAI (da noi attuata con legge n. 41/2005) riguarda gravi forme di criminalità di carattere prevalentemente transazionale quali, ad esempio, il terrorismo, riciclaggio, criminalità informatica ed ambientale, traffico di stupefacenti, partecipazione ad una organizzazione criminale negli Stati membri dell’UE, nonché i reati contro gli interessi finanziari della Comunità Europea. L’attività del predetto organismo si realizza per il tramite dei membri nazionali, ovvero attraverso il collegio. Il tipo di intervento è similare in entrambi i casi, ma quando agisce attraverso il collegio le autorità nazionali sono obbligate ad ottemperare alla richiesta formulata ai sensi dell’art. 7, lett. a, della decisione-quadro ovvero a motivare il rifiuto. Per quel che attiene più specificamente alle sue funzioni, può sollecitare – o imporre – l’inizio di indagini (o l’esercizio di azioni penali) per fatti precisi, invitare a porre in essere un coordinamento tra autorità giudiziarie e ad istituire una squadra investigativa comune, comunicando le informazioni necessarie (art. 6, lett. a ed art. 7, lett. a). Tra gli ulteriori compiti e senza alcuna pretesa di un’indicazione completa, va segnalata la possibilità di assistere, se richiesto, le autorità giudiziarie per garantire il coordinamento delle indagini e delle azioni penali; di assicurare l’informazione reciproca; sotto il profilo dell’assistenza giudiziaria, può anche intervenire, a certe condizioni, per migliorare la cooperazione. Inoltre, collabora con la rete giudiziaria europea contribuendo, fra l’altro, ad arricchirne la base di dati documentali. In sostanza, si ribadisce, ha la funzione di dare impulso e coordinare le indagini e di agevolare la cooperazione tra gli Stati15. che, sebbene disciplinato con maggiore attenzione, non si discosta dalla formulazione tradizionale pattizia, atteso che costituisce una condizione di procedibilità12. L’emissione del Mae spetta al Giudice che ha applicato la misura coercitiva ovvero al PM che ha emesso l’ordine di esecuzione, i quali trasmettono al Ministro per l’inoltro all’autorità straniera e per la comunicazione al Sis. Il mandato contiene le informazioni previste dalla decisione-quadro e relative all’individuazione del soggetto, all’indicazione sia dell’esistenza del provvedimento per la cui esecuzione il Mae è emesso, sia del reato e delle sue conseguenze. Vale pure in questo caso il principio di specialità e si computa la custodia cautelare subita all’estero in esecuzione del mandato. Analogamente a quanto previsto per l’estradizione dall’art. 722 c.p.p. e nonostante quanto affermato dalla Corte Costituzionale 253/2004, la computabilità non riguarda i termini di fase13. Sono, poi, disciplinate dal Capo III della legge in argomento le misure reali e lo stesso riguarda sia le misure richieste dal nostro Stato sia quelle domandate dallo Stato estero. Per le prime si stabilisce che il PG con il Mae chieda la consegna dei beni oggetto del provvedimento di sequestro o confisca. Quando la richiesta provenga, invece, dall’autorità straniera che deve precisare se la consegna è necessaria a fini probatori o di confisca, si prevede la competenza della Corte di Appello che decide con decreto motivato, sentito il PG. La disciplina applicabile è quella sul sequestro probatorio, con la espressa esclusione dell’art. 257 c.p.p. (riesame del decreto di sequestro). Atteso il rinvio all’art. 719 c.p.p., l’impugnabilità è, dunque, limitata al ricorso per cassazione per violazione di legge14. L’esigenza di imprimere alla cooperazione internazionale un maggiore impulso ha portato all’interno dell’UE all’adozione di strumenti volti ad agevolare siffatta cooperazione e a consentire una più rapida ed _________________ 1 Cfr. C. ZAGHÌ, Diritto internazionale, in Il Diritto, in Enciclopedia Giuridica, Vol. V, pp. 398-400. 2 Cfr. A. SINAGRA, Diritto dell’Unione Europea, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 5, par. I, pp. 379-380. 10 3 Cfr. SINAGRA, Diritto dell’Unione Europea, Vol. 5, par. II, p. 380. 4 Cfr. SINAGRA, Diritto dell’Unione Europea, Temi Romana Saggi Vol. 5, par. III, pp. 380-381. 5 Cfr. SINAGRA, Diritto dell’Unione Europea, cit., Vol. 5, par. V, p. 382; T. BALLARINO, Lineamenti di diritto comunitario, Padova, CEDAM, 2004; R.A. CANGELOSI – V. GRASSI, Dalle Comunità all’Unione. Il Trattato di Maastricht, Milano, Franco Angeli, 1996; P. V. DASTOLI – G. VILELLA, La nuova Europa: dalla Comunità all’Unione, Bologna, il Mulino, 1992; U. DRAETTA, Elementi di diritto dell’Unione Europea, Milano, Giuffrè, 2004; V. GUIZZI, Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, Napoli, Editoriale Scientifico, 2003; R. MONACO, Diritto delle Comunità Europee e diritto interno, Milano, Giuffrè, 1967; ID., Scritti di diritto europeo, Milano, Giuffrè, 1972; C. ZANGHÌ, Istituzioni di diritto dell’Unione europea, Torino, Giappichelli, 2005. 6 Cfr. G. FLORA, Diritto Penale, L’attuale dimensione comunitaria e internazionale del diritto penale, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 5, par. VII, pp. 418-419; M. LUCIANI, Fonti del Diritto, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 6, cap. IV, par. 4, pp. 483-484; S. STAIANO, Legge di delega e decreto legislativo delegato, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 8, cap. I, par. 4, pp. 783-786. Temi Romana 7 Cfr. L. SICO, Fonti del diritto internazionale e comunitario, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 6, cap. IV, pp. 502-503; C. ZANGHÌ, Adattamento del diritto italiano al diritto internazionale, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 1, pp. 110-118; A. D’ATENA, L’anomalo assetto delle fonti comunitarie, in A. D'ATENA-P. GROSSI (a cura di), Diritto, diritti e autonomie tra Unione europea e riforme costituzionali, in ricordo di Andrea Paoletti, Milano, Giuffrè, 2003; L. DANIELE, Diritto dell’Unione Europea. Sistema istituzionale, ordinamento, tutela giurisdizionale, competenze, Milano, Giuffrè, 2006; GUIZZI, Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, cit.; F. POCAR, Diritto dell’Unione e delle Comunità Europee, Milano, Giuffrè, 2003; G. STROZZI, Diritto istituzionale dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli, 2005; G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2005; A. TIZZANO, La gerarchia delle norme comunitarie, in Dir. Un. Eur., 1997, p. 97; C. ZANGHÌ, Istituzioni di diritto dell’Unione europea, cit. 8 Cfr. B. PIATTOLI, Processo Penale Europeo, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 12, pp. 170-171; B. PIATTOLI, Cooperazione giudiziaria e pubblico ministero europeo, Milano, Giuffrè, 2002; F. SPIEZIA, Crimine transazionale e 11 procedure di cooperazione giudiziaria, in I libri di Guida al diritto, Milano, il Sole 24 ore, 2006. 9 Cfr. M. R. MARCHETTI, Rapporti giurisdizionale con autorità straniere, in Il Diritto. Enciclopedia Giuridica, Vol. 12, cap. III, par. 1, pp. 615-616. 10 Cass., Sez. IV, 8 maggio 2006, Cusini, in Dir. Giust., 2006, n. 23, p. 77; Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2007, Ramoci, per la diversa interpretazione che ritiene di dover rispettare la lettera e lo spirito dell’art. 18 e, pertanto, un sistema di controlli periodici sulla necessità della custodia cautelare anche in mancanza di un termine massimo di durata della stessa. 11 Cass., Sez. VI, 23 settembre 2005, P. ILIE, in Cass. Pen., 2005, p. 3772. 12 Cfr. M. R. MARCHETTI, Rapporti giurisdizionale con autorità straniere, in Il Diritto Enciclopedia Giuridica, Vol. 12, cap. III, par. 2, pp. 616-618. 13 Cfr. MARCHETTI, Rapporti giurisdizionale con autorità straniere, cit., par. 3, p. 618. 14 Cfr. MARCHETTI, Rapporti giurisdizionale con autorità straniere, cit., par. 4, p. 618. 15 Cfr. MARCHETTI, Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, cit., cap. VII, pp. 623-624. Saggi Il mobbing nella prospettiva criminologica integrata Giovanni Neri* e Flavia Forgione** * Avvocato del Foro di Roma – Docente di Criminologia UNI I.P.U.S. Chiasso – Direttore scientifico della Collana Jus & Comparative Law ** Dottore di Ricerca in Diritto Penale, Università degli Studi Roma Tre 1. Il mobbing. Nozione e caratteristiche Il termine mobbing deriva dal verbo to mob (“assalire in massa”) e consiste in un complesso abituale di condotte vessatorie, discriminatorie e di tipo aggressivo, praticate sul luogo di lavoro allo scopo di perseguitare un collega o un subalterno e talora agevolate dai cd. sighted mobbers1, ossia i compagni del mobbizzato che, con atteggiamenti di accettazione neutrale, incrementano lo stato di emarginazione e disagio della vittima2. I comportamenti ostili possono anche essere leciti o giuridicamente irrilevanti: quel che rileva è la reiterazione costante degli stessi e il correlato stato di impotenza che si alimenta nel mobbizzato3. Si tratta infatti di una “situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente in un costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni al alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in una posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di provocare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi ed a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore, che possono portare anche invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”4. Similmente, lo studioso svedese Leymann definisce il fenomeno come “una comunicazione contraria ed ostile ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone, principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare con continue attività ostili. Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza …e per un lungo periodo di tempo …. A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile da luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali”5. Dalle esposte definizioni si ricavano, dunque, gli elementi costitutivi del mobbing che possono riassumersi nel contestuale ricorso di più condizioni ed in partico- lare: la natura vessatoria e persecutoria della condotta, la collocazione della stessa nell’ambiente di lavoro, la ripetizione e persistenza temporale delle azioni mobbizzanti6, l’intento persecutorio del mobber, la subordinazione psicologica e lavorativa della vittima e l’andamento fasico7 degli effetti delle praticate ostilità sul mobbizzato. E la rosa di condotte devianti è ampia. Può spaziare da atteggiamenti di ostacolo alla regolare conduzione del lavoro (demansionamenti, trasferimenti, controlli esagerati, arresti di carriera, sanzioni disciplinari reiterate, svilimento dell’immagine, atteggiamenti di critica), a vere e proprie molestie, anche di tipo sessuale. Deve comunque trattarsi di atteggiamenti che, per diverse vie, finiscono per minare la serenità del lavoratore. Ad esempio, anche la richiesta continua di visite fiscali per malattia, come la diffamazione o l’omessa concessione dolosa del riposo settimanale possono costituire condotte mobbizzanti, se tali da provocare nella vittima turbative psicologiche impeditive del regolare e tranquillo svolgimento delle mansioni affidate. A costituire il comune denominatore delle azioni descritte è quindi la relativa natura sistemica, l’andamento progressivo e lo scopo e/o l’effetto persecutorio che vi associa8. Solitamente, si distinguono più tipologie di mobbing: quello gerarchico, o verticale, è perpetrato dal datore di lavoro verso i subalterni, mentre quello orizzontale è attuato tra colleghi di pari grado. Ancora, si ha mobbing combinato, quando le condotte del superiore gerarchico sono avallate dagli altri lavoratori e mobbing ascendente se, inusualmente, sono i dipendenti a boicottare l’operato del proprio capo. Se poi alle vessazioni sui luoghi di lavoro segue una conseguente perdita di sostegno all’interno del nucleo familiare si integra il fenomeno del cd. doppio mobbing9. Infine, una particolare condizione mobbizzante è integrata dalla molestia di tipo sessuale. Si tratta di una forma di mobbing del tutto peculiare, sia per la genesi, che per le modalità operative del molestatore. In primo 12 Temi Romana Saggi luogo infatti l’intento del mobber non coincide con la volontà di allontanare la vittima dai luoghi di lavoro. Anzi, al contrario, se ne incita l’avvicinamento coattivo a fronte di reazioni opposte del molestato, che tende a chiedere trasferimenti o giorni di malattia per sfuggire alle attenzioni sgradite. E le tecniche di sopruso risentono dei sentimenti di vendetta del respinto, che, specie se in posizione gerarchicamente favorevole, utilizza il ricatto come arma contro la vittima, stretta nell’alternativa tra l’accondiscendenza alla molestia o l’accettazione di uno stato mobbizzante. Ciò non toglie che talvolta il mobbing sessuale possa consistere anche una buona strategia di allontanamento della vittima dal proprio posto di lavoro. E questo si verifica quando i lavoratori, per danneggiare un collega, iniziano a diffondere voci non veritiere sulle abitudini sessuali del mobbizzato. Ad ogni modo, indipendentemente dalle forme che assume, il mobbing costituisce una fattispecie dai contorni assai incerti, di creazione giurisprudenziale10, che desta non poche perplessità, anche per la recente ed esponenziale diffusione delle condotte mobbizzanti in Europa e nel mondo11. In Italia il fenomeno è in crescita, anche se con minore intensità rispetto alle medie europee, e colpisce in particolare donne e impiegati nella pubblica amministrazione. Le prime per la loro maggiore fragilità emotiva e per la più evidente esposizione a molestie di tipo sessuale12. I secondi per il minor rigore dei controlli pubblici sul dilagare degli atteggiamenti mobbizzanti tra lavoratori. L’imprenditore privato, infatti, temendo gli effetti negativi del mobbing sul successo delle politiche aziendali, è più incline rispetto alla p.a. alla predisposizione di adeguati strumenti di freno e contenimento delle pratiche vessatorie. Restano ora da analizzare, in una prospettiva criminologica integrata, le cause del mobbing e le relative conseguenze sull’equilibrio psico-fisico della vittima. Infatti, la diffusione del mobbing viene in genere riconnessa a una serie di cause criminologiche legate al contesto ambientale di lavoro. In quest’ottica vengono in rilievo: l’importanza della tipologia e remuneratività dell’occupazione espletata secondo i canoni della società d’appartenenza; il livello di competitività sui posti di lavoro; il grado di aggressività ritenuto tollerabile; l’eventuale presenza di adeguati ammortizzatori sociali; e da ultimo, la maggiore o minore elasticità culturale del paese di riferimento, dal momento che il ricorso a tecniche mobbizzanti è inversamente proporzionale all’accettazione delle diversità biologiche (sesso, età, etnia) tra i lavoratori13. Ma non solo. Molto dipende anche dalla struttura organizzativa aziendale e dalle richieste di sempre maggior efficienza e produttività, imposte dal nuovo mercato globalizzato. Gli standard attuali infatti esigono rendimenti eccellenti a basso costo, il che talvolta impone rivisitazioni di spesa e conseguenti riallocazioni o riduzioni del personale. E questo, unito a sempre più frequente ricorso a contratti di lavoro interinale o a termine, sottopone i dipendenti ad un forte stress psicologico, alimentato dal timore di perdere la propria occupazione e dalla necessità di adeguarsi agli elevati livelli di produttività raggiunti nel mondo imprenditoriale. Invero, il forte grado di tensione, l’insicurezza dell’impiego, le inadeguatezze nella gestione manageriale e la pressione competitiva generano tra i lavoratori un evidente stato di conflittualità, particolarmente accentuato nelle fasi di eventuale ridimensionamento dell’organico, quando la volontà di boicottare colleghi antagonisti spinge ad attuare a loro svantaggio tecniche subdole di isolamento e discredito. Talora poi è lo stesso datore di lavoro a ricorrere ad atteggiamenti ostili proprio per eliminare dal gruppo i dipendenti meno efficienti o più anziani, inducendoli all’interruzione volontaria e prematura del rapporto lavorativo14. A ciò ovviamente si aggiungono le caratteristiche soggettive degli attori della vicenda mobbizzante. Invero, pur non esistendo un profilo psicocomportamentale di tipo unitario della vittima di mobbing, in prima approssimazione si tratta di una persona efficiente, scrupolosa e come tale temuta dai colleghi, che talvolta approfittano di uno suo temporaneo stato di stress 2. Le cause del fenomeno Il ricorso a tecniche mobbizzanti sul luogo di lavoro può dipendere dall’intersecarsi di più fattori compositi, da analizzare caso per caso. Dal punto di vista squisitamente oggettivo, il proliferare del fenomeno dipende da ragioni culturali e dal contesto economico in cui le imprese si trovano a operare. Temi Romana 13 Saggi per favorirne l’espulsione dal gruppo di lavoro15. D’altra parte quanto più è evidente la debolezza psicologica del lavoratore, tanto maggiore è il livello di aggressività cui si spinge il mobber, per invidia o frustrazione16. Ad ogni modo, indipendentemente da ogni generalizzazione, gli episodi di mobbing sono difficilmente stereotipabili, sia per modalità operative che li caratterizzano, che per le peculiari condizioni ambientali e personologiche in cui si sviluppano. Spesso infatti l’area manageriale alla quale il mobbizzato si rivolge per denunciare il sopruso tende a minimizzare la patologia, attribuendola a stress lavorativi ordinari, oppure addirittura a sfruttarla in vista di eventuali ridimensionamenti d’organico. Non a caso infatti la quasi classica conseguenza dell’avvio di pratiche di mobbing è la perdita del lavoro, alla quale inevitabilmente segue un senso di fallimento e la privazione della propria identità sociale. Talvolta, si percepisce anche un’ostilità all’interno della propria famiglia che, stanca di assecondare un componente emotivamente instabile, ritira il proprio sostegno emotivo, peggiorando in modo allarmante la situazione già compromessa della vittima. Motivo per il quale in casi limite il mobbizzato può addirittura meditare o mettere in atto tentativi di suicidio. Questi gli effetti sulla vittima. Ma il mobbing è foriero di conseguenze negative anche per l’impresa all’interno della quale si sviluppa. Infatti, ne deriva un calo generale del rendimento e delle produttività del gruppo di lavoro, una compromissione dell’immagine aziendale, un incremento di atteggiamenti di assenteismo, e una generale perdita di fiducia e collaborazione tra i colleghi. A ciò deve inoltre aggiungersi il costo, pur in termini di Know-how, per la sostituzione, anche temporanea del mobbizzato, la perdita di personale specializzato, e l’obbligo economico di risarcimento dei danni. Si tratta quindi di un fenomeno, non ancora compiutamente regolamentato ma da non sottovalutare, alla luce anche dell’incremento negli ultimi anni di pratiche mobbizzanti, direttamente proporzionale alla crescita del mercato globalizzato, all’elevato tasso di disoccupazione e alla precarietà dei rapporti lavorativi. 3. Le conseguenze del mobbing La costante sottoposizione a pratiche mobbizzanti conduce la vittima ad uno stato di disagio psicologico, che può sfociare in malattie psicosomatiche a vari livelli, clinicamente riconducibili al “disturbo dell’adattamento”17, al “disturbo acuto da stress”18 e al più grave “disturbo post traumatico da stress”19. Più in generale comunque, la sintomatologia della “sindrome da mobbing” è stata inquadrata dalla letteratura criminologica in base agli effetti psico fisici che determina nel mobbizzato. Alla variabilità dello stato socio emotivo, con conseguente alternanza di reazioni aggressive e remissivodepressive, si associa una modificazione dell’equilibrio psico fisico, dovuta alla somatizzazione del disagio vissuto, e una variazione del comportamento manifesto20. Si passa da crisi di pianto, ad attacchi di panico, a stati di alterazione psicosomatica anche gravi, che possono sfociare in disturbi alimentari o del sonno, ovvero in atteggiamenti di autolesionismo, come l’abuso di alcool o di farmaci anti depressivi. Sintomi tutti amplificati dal senso di impotenza derivante dalla reazione sociale, imprenditoriale e familiare alla manifestazione di devianze comportamentali. _________________ 1 Si tratta di colleghi che partecipano all’azione mobbizzante (cd. spettatori non conformisti), o che per timore o opportunità non prendono posizione a favore del mobbizzato (cd. spettatori conformisti). Sul punto vd. H. EGE, Mobbing Conoscerlo per vincerlo, Milano, Franco Angeli, 2001, che distingue tra side – mobber e co – mobber. 2 Il termine, che mutua anche dalla locuzio- ne latina mobile vulgus utilizzata con accezione negativa nei confronti del popolo meritevole di disprezzo, è stato ripreso anche dall’etologo Lorenz nella descrizione del comportamento aggressivo tenuto dagli animali in branco per allontanare i propri simili e, se trasposto sul piano umano, evoca tutta una serie di comportamenti praticati in massa per isolare un membro della comunità ritenuto scomodo o pericoloso. 14 Non si sviluppa quindi soltanto nei luoghi di lavoro ma anche altrove, ad esempio nell’ambiente militare (ove prende il nome di “nonnismo”; cfr. F. BATTISTELLI, Anatomia del nonnismo: cause e misure di contrasto del Mobbing militare, Milano, Angeli, 2000), condominiale o scolastico (il bullismo infatti null’altro è che una particolare specie di condotta mobbizzante applicata tra minori). Temi Romana Saggi 3 L’elemento dell’abitualità distingue il mobbing dal cd. straining, consistente in condotte vessatorie di tipo isolato, ma comunque tali da procurare disagi e danni psicologici alla vittima. Cfr. E. DI SABATINO, Dal Mobbing allo stalking allo straining, in Resp. civ., II, 2007, p. 171 ss.; H. EGE, Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, Giuffrè, 2005; N. SAPONE, I danni nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 2009, p. 178 ss., che scrive: “L’utilità della figura del mobbing è quella di consentire uno sguardo sinottico, teleologico di condotte disparate, stringendole in unità, e facendone così emergere la complessiva illiceità, anche quando tale illiceità non sarebbe stata praticabile all’esito di una valutazione separata, atomistica dei singoli comportamenti”; e B. TRONATI, Mobbing e straining nel rapporto di lavoro. Cosa sono, come riconoscerli, come reagire, come tutelarsi, Bologna, Ediesse, 2008. In giurisprudenza vd. tra le altre Corte Cost. 19 dicembre 2003, n. 359: “I comportamenti in cui può esternarsi il mobbing hanno la duplice peculiarità di poter essere esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e, talvolta secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione”; Cass. pen., Sez. V, 29 agosto 2007, n. 33624: “La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”. 4 Così H. EGE, Il Mobbing in Italia. Introduzione al mobbing culturale, Bologna, Pitagora, 1996. Dello stesso autore vd. anche Mobbing Conoscerlo per vincerlo, cit.; I numeri del mobbing. La prima ricerca italiana, Bologna, Pitagora, 1999; Il mobbing in Italia, Bologna, Pitagora, 1997; Che cos’è il terrore psicologico sul luogo di lavoro, Bologna, Pitagora, 1996. La letteratura criminologica sull’argomento è vastissima. Tra gli altri C. BALDASSARRI – M. DEPOLO, La vittimizzazione psicosociale sul lavoro, in Psicologia Contemporanea, Temi Romana 1999, 152, p. 18 ss.; C. BALDUCCI, I processi psichici del mobbing, Bologna, Edizioni Prima, 2000; M. BUCCI, Affrontare il mobbing dal punto di vista dell’azienda, un’esperienza concreta in un’amministrazione pubblica, in Psicologia e lavoro, 2007, p. 21 ss.; G. BUSSOTTI – S. MORIONDO Valutazione del mobbing. Manuale per la gestione del rischio dei lavoratori e delle lavoratrici, Bologna, Ediesse, 2010; L. CANALI. – R. DE CAMELIS – F. LAMANNA – B. PRIMICERIO, Il mobbing, Roma, Armando, 2004; S. CARRETTIN – N. RECUPERO, Il mobbing in Italia. Terrorismo psicologico nei rapporti di lavoro, Bari, Dedalo, 2002; A. CASILLI, Stop mobbing. Resistere alla violenza psicologica sul luogo di lavoro, Roma, Derive Approdi, 2000; G. COCCO – C. ANGELONE – V. PIERFELICE, Il mobbing. Aspetti psicosociologici e giuridici, Pozzuoli, Sistemi Editoriali, 2007; S. DE RISIO, Psichiatria della salute aziendale e mobbing, Milano, Franco Angeli, 2001; M. DEPOLO, Mobbing: quando la prevenzione è intervento. Aspetti giuridici e psicosociali del fenomeno, Milano, 2003; H. EGE – M. LANCIONI, Stress e Mobbing, Bologna, Pitagora, 1998; G. FAVRETTO (a cura di), Le forme del mobbing. Cause e conseguenze di dinamiche organizzative disfunzionali, Milano, Cortina, 2005; G. GULOTTA, Il vero e il falso mobbing, Milano, Giuffrè, 2007; C. LAZZARI, Mobbing: conoscerlo, affrontarlo, prevenirlo, Pescara, ESI, 2001; ID., Vincere le ingiustizie sul lavoro, Bologna, Pitagora, 1997; ID., Adesso mi arrabbio. Conoscere ed affrontare il litigio sul lavoro, Bologna, Pitagora, 1996; E. MAIER, Il Mobbing e lo stress organizzativo, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2002; G. POZZI (a cura di), Salute mentale e ambiente di lavoro. Conoscere e tutelare dal disadattamento al mobbing, Milano, Franco Angeli, 2008; B. RUPPRECHT-STROELL, Difendersi dal mobbing. Strategie contro aggressioni, boicottaggi, provocazioni, diffamazioni e umiliazioni sul posto di lavoro, Milano, Mondadori, 2007; ID., Mobbing: no grazie! Strategie di difesa contro aggressioni, boicottaggi, provocazioni, diffamazioni e umiliazioni sul posto di lavoro, Milano, TEA, 2001; G. SPRINI (a cura di), Mobbing: fenomenologia, conseguenze ed ipotesi di prevenzione, Milano, Franco Angeli, 2007; P. TOSI (a cura di), Il mobbing, Torino, Giappichelli, 2004; R. VACCANI, Stress, 15 mobbing e dintorni. Le insidie intangibili degli ambienti lavorativi, Milano, ETAS, 2007; C. VENTIMIGLIA, Disparità e disuguaglianza. Molestie sessuali, mobbing e dintorni, Milano, Franco Angeli, 2003. 5 In questi termini H. LEYMANN, The content and development of mobbing at work, in European journal and Organization psychology, 5, 2, 1996; ID., Mobbing and psychological terror at workplaces, in Violence and Victims, 5, 2, 1990. Le definizioni fornite dagli studiosi vengono riprese anche dal legislatore regionale e dalla giurisprudenza italiana, che tenta in particolare di ancorare la tutela del mobbizzato ad appigli normativi, civili e penali. A titolo esemplificativo, la Legge Regionale 16/2002, della Regione Lazio, poi dichiarata incostituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., definiva il mobbing come un insieme di “atti o comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”. Prevedeva inoltre un elenco non tassativo di atti e comportamenti mobbizzanti tra cui rientravano: pressioni e molestie psicologiche; calunnie sistematiche, maltrattamenti verbali ed offese personali; minacce e atteggiamenti intimidatori o avvilenti, palesi o indiretti; delegittimazione dell’immagine; esclusione o marginalizzazione immotivata dall’attività lavorativa; svuotamento delle mansioni; attribuzione di compiti esorbitanti, eccessivi o dequalificanti; inibizione all’accesso a informazioni sull’ordinaria attività lavorativa; marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto a iniziative formative, di riqualificazione o aggiornamento professionale; controllo eccessivo del dipendente; e discriminazioni sessuali, di razza, lingua o religione. Per la giurisprudenza cfr. ad es. Cass. civ., Sez. lav., 8 agosto 2011, n. 17089: “Come indicato dalla Corte costituzionale (a partire dalla sentenza n. 359 del 2003), la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell’etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del Saggi gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”; Cass. civ., Sez. lav. 17 febbraio 2009, n. 3785: “Per ‘mobbing’ (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”; Cass. civ., 6 marzo 2006, n. 4774: “Si qualifica come mobbing una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica della personalità morale del prestatore di lavoro, garantita dall’art. 2087 c.c.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato… La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e la durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato”. 6 Secondo Cass. civ., Sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858, la durata della vessazione non può comunque essere inferiore a undici mesi. 7 Cfr. LEYMANN, The content and development of mobbing at work, cit., distingue quattro fasi: fase del conflitto latente, connotata da usuali contrasti a cadenza grosso modo quotidiana; fase del conflitto mirato, ove si inizia a bersagliare una vittima specifica; fase del conflitto pubblico, ossia della pubblicizzazione dell’intento mobbizzante; e fase di espulsione, che culmina in genere con le dimissioni forzate del mobbizzato. EGE, Mobbing in Italia, cit., al primo momento di conflittualizzazione generale, fa seguire sei step: individuazione della vittima; autocolpevolizzazione del mobbizzato, che inizia a sentirsi responsabile per le accuse di incompetenza e inefficienza che gli vengono rivolte; presenza dei primi sintomi di malattie psicosomatiche; applicazione di sanzioni disciplinari per le conseguenti assenze; aggravamento dello stato di salute della vittima; e da ultimo espulsione dal mondo del lavoro per licenziamento o dimissioni forzate. 8 All’idoneità lesiva della condotta deve quindi affiancarsi, almeno secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’animus nocendi, ossia la volontà di arrecare un danno alla vittima. Sul punto, l’Osservatorio nazionale mobbing è chiaro: “Il Mobbing …si pone sempre come fine l’emarginazione del dipendente, in termini di frantumazione delle sue sicurezze lavorative, psicologiche ed esistenziali, con l’intento di escluderlo dal suo ruolo di lavoro e di destabilizzarlo nelle sue difese esistenziali e psicosociali, onde metterlo in conflitto con se stesso e con la microsocietà in cui si muove e dentro la quale espleta le sue scelte ed i suoi interessi sociali e culturali”. 9 L’esistenza del cd. doppio mobbing è teorizzata da EGE, Mobbing. Conoscerlo per vincerlo, cit. 10 A quest’ultimo proposito, pur se non è questa la sede per occuparsi del fenomeno sul piano legislativo e processuale, molto brevemente e senza pretese di completezza, si evidenzia l’assenza di specifiche previ- 16 sioni normative sul tema e il conseguente tentativo della giurisprudenza italiana di sussumere il fenomeno in fattispecie gia contemplate dall’ordinamento. In particolare, i giudici civili riportano la figura all’art. 2087 c.c., oltre che agli artt. 1175 e 1375 c.c., in tema di buona fede, mentre la giurisprudenza penale invoca l’applicazione degli artt. 572 e 610 c.p. Ad esempio, nella prima pronuncia di legittimità sul tema (Cass. pen., 12 marzo 2001, n. 10090) si legge: “Anche se l’ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell’art. 572 c.p., la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in danno di persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, per l’esercizio di una professione o di un’arte… Non vì è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificatamente prevista dalla norma penale richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente. L’aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto che, diffusamente illustrato dai giudici di merito, l’imputato con ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali e la ricorrente minaccia di troncare il rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite, aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell’impresa direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate. Ne risulta, dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col termine maltrattamenti”. Tra le altre, di recente Cass. pen., Sez. VI, 27 aprile 2012, n. 16094: “Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di Temi Romana Saggi maltrattamenti in famiglia qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia”; Cass. pen., Sez. VI, 3 aprile 2012, n. 12517: “Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”. Per approfondimenti sulla tutela giuridica, civile e penale, della vittima di mobbing cfr. tra gli altri F. Amato – M.V. Casciano – L. Lazzeroni – A. LOFFREDO, Il Mobbing. Aspetti lavoristici: nozioni, responsabilità, tutele, Milano, Giuffrè, 2002; M. BELLINA, Mobbing: profili penali, in Dir. & Pratica del Lavoro, XXX, 2007, p. 1913 ss.; M. BONA – G. MONATERI – U. OLIVA, La responsabilità civile del mobbing, Milano, IPSOA, 2002; F. COSTA, Il mobbing, Napoli, ESI, 2010; G. DE FALCO – A. MESSINEO – F. MESSINEO, Mobbing: diagnosi, prevenzione e tutela legale, Roma, EPC Libri, 2003; E. DE LUISE, Il Mobbing. La tutela esistente, le prospettive legislative e il ruolo degli organi di controllo, Napoli, Esselibri, 2003; F. DE STEFANI, Danno da mobbing, Milano, Giuffrè, 2012; G. DI PARDO – S. DI PARDO – V. IACOVINO – C. IZZI, Mobbing. Tutela civile, penale ed assicurativa. Casi giurisprudenziali e consigli pratici, Milano, Giuffrè, 2007; M. V. FERACO, Sulla rilevanza penale del mobbing (nota a Cass. pen., sez. VI, 21 settembre 2006, n. 31413), in Cass. pen., VI, 2007, p. 2493 ss.; S. FIGURATI, Osservazioni in materia di mobbing, in Guida al lavoro, XXXII-XXXIII, 2000, p. 35 ss.; M. GALLO, L’abuso del diritto come strumento provvisorio di contrasto al mobbing, in Il Lavoro nella giurisprudenza, III, 2008, p. 237 ss.; D. GAROFALO, Mobbing e Temi Romana tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria, in Il Lavoro nella giurisprudenza, VI, 2004, p. 521 ss.; N. GHIRARDI, Il mobbing nella giurisprudenza, in Dir. & Pratica del Lavoro, X, 2008, p. 3 ss.; A. GUGLIELMO, Responsabilità civile e mobbing, in Dir. & Pratica del Lavoro, XVII, 2008, p. 1033 ss.; G. MANNACCIO, Il mobbing ancora una volta in Cassazione, in Il lavoro nella giurisprudenza, XII, 2008, p. 1235 ss; S. MARETTI, Mobbing: fattispecie e strumenti di tutela, in Dir. & Pratica del Lavoro, 2007, n. 32; S. MAZZAMUTO, Il mobbing, Milano, Giuffrè, 2004; M. MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità. Danno professionale, biologico e psichico, morale, esistenziale, Roma, Ediesse, 2003; L. NOCCO, Il mobbing, in Danno e resp., IV, 2008, p. 398 ss.; F. PETRONI, Il danno derivante dal mobbing: autonomia dell’onere della prova, in Il merito, IX, 2008, p. 18 ss.; A. QUAGLIARELLA, Elementi caratterizzanti del mobbing, in Il Lavoro nella giurisprudenza, IX, 2008, p. 927 ss.; A. RAFFI, Il ruolo della Cassazione nella tutela del “mobbing” (nota a Cass. pen., sez.VI, 7 novembre 2007, n. 40891), in Riv. giur. lav. e prev. soc., II, 2008, p. 349 ss.; M. SANSONE, Prospettive per una penalizzazione del «mobbing», in Riv. pen., IX, 2006, 9, p. 885 ss.; M. VERRUCCHI, Rilevanza penale del mobbing, in Dir. pen. proc., VII, 2008, p. 892 ss.; C. ZOLI, Il mobbing: brevi osservazioni in tema di fattispecie ed effetti, in Il lavoro nella giurisprudenza, IV, 2003, p. 337 ss. Quanto alla tutela in ambito europeo, si segnala la Risoluzione del 20 settembre 2001 A5-0283/2001 e, in chiave comparatistica, si evidenzia un interesse generale alla tematica. Invero, si sono dotate di normative anti mobbing la Svezia, la Norvegia e la Francia, ma il fenomeno interessa anche l’Inghilterra, la Spagna, la Germania e gli USA che, per diverse vie, comunque individuano meccanismi nazionali di tutela delle vittime di mobbing. In Francia si parla di harcelement au travail e in Spagna di acoso moral, distinguendo poi il bossing, ossia la condotta di molestia gerarchica, dal mobbing praticato invece dai colleghi. Nei paesi anglosassoni si preferisce invece parlare di bulling at work, work harrassment o work abuse, ripartendo poi le condotte d’abuso a seconda delle caratteristiche peculiari che 17 le connotano (è corporate bulling, la vessazione esercitata dal datore di lavoro, client bulling, quella attuata dai destinatari della prestazione lavorativa, serial bulling, quella diretta a tutti indistintamente i colleghi di lavoro, e gang bulling quella praticata in gruppo). 11 I casi di mobbing sono numerosi in Inghilterra e, a seguire, in Svezia, Francia, Irlanda, Germania, Spagna e Belgio. 12 Il mobbing sessuale colpisce infatti per lo più le donne, ma nulla vieta che siano queste ultime a sfruttare la propria posizione gerarchica verso il sesso maschile. Ovviamente, la scarsa tendenza degli uomini alla denuncia impedisce una giusta analisi della cd. “cifra nera” del fenomeno. 13 Cfr. EGE, Il Mobbing in Italia, cit. 14 Si parla a questo proposito di mobbing strategico, attuato cioè proprio per l’eliminazione del personale in esubero. 15 Secondo EGE, Mobbing Conoscerlo per vincerlo, cit. “nella letteratura in tema di mobbing vengono riscontrate nell’indole scrupolosa, sensibile ai riconoscimenti e alle critiche e con elevato senso del dovere le caratteristiche caratteriali che agevolano il ruolo di vittima o mobbizzato”. L’autore elenca poi 18 possibili categorie a rischio: il distratto, il prigioniero, il paranoico, il severo, il presuntuoso, il passivo e dipendente, il buontempone, l’ipocondriaco, il vero collega, l’ambizioso, il sicuro di sé, il camerata, il servile, il sofferente, il capro espiatorio, il pauroso, il permaloso e l’introverso. 16 Quanto alla personalità del mobber, lo studioso Ege ha elaborato 14 diverse figure di riferimento: l’“istigatore”, ossia colui che è sempre alla ricerca di nuove cattiverie e maldicenze per colpire gli altri; il “casuale”, che diventa mobber per conflitti occasionalmente nati in azienda; il “conformista”, che non prende direttamente parte al conflitto attaccando la vittima, ma si limita ad osservare come spettatore inerte; il “collerico”, che non riesce a contenere la propria rabbia e la sfoga con terzi; il “megalomane”, che ha una visione distorta di se stesso da cui deriva il complesso di superiorità sui colleghi; il “frustrato”, che insoddisfatto della propria vita, scarica il suo malessere sugli altri, analogamente al collerico; il “sadico”, che prova piacere nel di- Saggi struggere i colleghi; il “criticone”, che crea un clima di insoddisfazione e di tensione nel gruppo; il “leccapiedi”, ossia il carrierista, tirannico con i subalterni ed ossequioso con i superiori; il “pusillanime”, che, pur non esponendosi direttamente, agevola il mobber e ne condivide gli intenti; il “tiranno” che sfrutta la propria posizione contro gli altri; il “terrorizzato”, che, temendo la concorrenza, si oppone con atteggiamenti mobbizzanti di difesa; l’“invidioso”, che reagisce ai successi altrui con cattiveria; e il “carrierista”, che cerca di farsi una posizione con tutti i mezzi possibili, anche se illeciti e dannosi. T. Field, invece, elenca quattro tipologie di tratti di personalità psicopatologicamente disturbate del possibile mobber: disturbo di personalità antisociale (ca- ratterizzato da mancata accettazione delle norme sociali, disonestà, impulsività, mancanza di empatia per gli altri, irresponsabilità e assenza di rimorso); personalità paranoica (connotata da sospetti infondati sull’onestà delle intenzioni altrui, riluttanza a confidarsi, diffidenza verso le persone vicine, travisamento della realtà e mancanza di perdono per dubbie offese ricevute); disturbo narcisistico di personalità (che si estrinseca in sentimenti di superiorità rispetto agli altri, desiderio costante di ammirazione, scarsa empatia, fantasie sconfinate di successo e esagerazione delle proprie qualità) e disturbo borderline (che si manifesta con relazioni instabili, sensazione di vuoto, senso di abbandono, incapacità di controllare la collera, comportamenti autolesionisti e 18 mutamenti d’umore costanti). 17 Si caratterizza per la presenza di sintomi depressivi al primo stadio, come disturbi dell’ansia, difetti di rendimento o alterazione degli ordinari rapporti sociali. 18 Caratterizzato da disturbi dissociativi di varia natura, come distacco, senso soggettivo di torpore, assenza di reattività emozionale, depersonalizzazione, derealizzazione, riduzione della consapevolezza dell’ambiente e amnesia dissociativa. 19 Disturbo cronico particolarmente grave, in genere connesso a eventi traumatici abnormi, che necessità di una obbligatoria terapia psicologica, unita alla somministrazione di aiuti farmacologici. 20 Cfr. EGE, I numeri del mobbing, cit. Temi Romana Saggi Profili generali relativi alla tutela del consumatore ed azione di classe Parte I Alessandro Nicodemi Avvocato, Dottorando di Ricerca “Consumatori e Mercato-area giuridica” Università degli Studi Roma Tre (XXVII ciclo) Il contributo reso affronta – in questa prima parte – taluni profili generali relativi alla materia consumeristica, soffermandosi dapprima sulle istanze socio-economiche poste alla base della relativa legislazione per poi analizzare alcuni elementi pregnanti della disciplina di riferimento quali, in particolare, le clausole vessatorie, la tutela amministrativa ad esse correlata e l’azione di classe. Nella seconda parte, di successiva pubblicazione, si continuerà ad analizzare l’azione di classe: istituto che – mutuato da altri ordinamenti ed apparentemente idoneo al contrasto delle condotte illecite poste in essere dagli operatori del mercato – allo stato sembra ancora caratterizzato da una ridotta effettualità. Sommario Prima Parte: 1. – La tutela del consumatore in ambito comunitario e domestico: nozione ed evoluzione storica; 2. – Uno sguardo generale al Codice del Consumo: clausole vessatorie ed altri elementi di rilievo; 3. – La tutela amministrativa del consumatore introdotta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27; 4. – La disciplina italiana della class action: la genesi ed i confronti con i rimedi preesistenti; 5. – I diritti tutelabili mediante l’azione di classe: struttura dell’illecito e danno risarcibile; 6. – Cenni di diritto comparato in materia di azione di classe; 7. – Le peculiarità processuali dell’azione di classe. Sommario Seconda Parte: 1. – Poteri processuali dell’organo giurisdizionale e pronunce adottabili dal Giudice; 2. – La legittimazione all’azione di classe; 3. – Il giudizio di ammissibilità nella class action; 4. – Le pronunce sull’ammissibilità del giudizio; 5. – Adesione ed intervento nell’art. 140 bis del Codice del Consumo; 6. – Le ipotesi emerse nella prassi giudiziaria: peculiarità delle singole fattispecie ed analisi correlata. 1. La tutela del consumatore in ambito comunitario e domestico: nozione ed evoluzione storica La necessità di apprestare forme di tutela nei confronti del consumatore attiene alla più ampia problematica relativa alla giustizia contrattuale ed alle correlate istanze di tutela del soggetto debole all’interno di forme di contrattazione connotate da diseguaglianze ed asimmetrie1. Tale esigenza si manifestò, in origine, nell’esperienza statunitense dove, prima che in ogni altro paese al mondo, si crearono le condizioni per la nascita ed il veloce sviluppo di un capitalismo monopolistico ed oligopolistico2. In correlazione, dunque, all’affermarsi delle suddette forme economiche e di mercato, emersero altresì le prime istanze di difesa degli interessi consumeristici. Temi Romana Soltanto in un secondo momento, le medesime istanze furono avvertite in ambito europeo, dapprima sul piano sociale ed economico e, successivamente, sul versante dell’elaborazione giuridica (fase, quest’ultima, collocabile, temporalmente, all’inizio degli anni settanta del secolo scorso). Sul piano strettamente nazionale, il legislatore italiano mostrò una scarsa attenzione al problema, benché nella Relazione al Re sul codice civile taluni passaggi relativi agli artt. 1341 e 1342 avessero posto in evidenza la necessità di predisporre una tutela per l’aderente ai c.d. contratti di massa, connotandosi, questo, per essere il soggetto debole dell’operazione economica di riferimento. Dati normativi di rilievo sul piano nazionale, dunque, sono rinvenibili nell’art. 2597 c.c., pure teso ad offrire una forma di tutela esclusivamente in presenza di un 19 Saggi soggetto monopolista, nonché nei menzionati artt. 1341 e 1342 c.c., idonei ad apprestare una forma di difesa puramente formale e scevra da interventi di carattere sostanziale. Tornando, quindi, al crinale comunitario, ove, per primo si registrò la prima elaborazione giuridica della materia, un primigenio dato di rilievo è costituito dalla Risoluzione sui diritti dei consumatori che, approvata nel 1975, fornì impulso alle politiche in materia consumeristica e dall’Atto Unico europeo del 23 dicembre 1986 che conferì un fondamento giuridico alla politica dei consumatori, modificando l’art. 100 del Trattato di Roma e prevedendo che, nella materia relativa alla protezione dei consumatori, dovesse esservi un livello di protezione elevato. Dati di assoluta pregnanza nell’affermazione del diritto dei consumi furono successivamente rappresentati dal Trattato di Maastricht (datato 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993) che elevò la tutela dei consumatori a strumento atto a perseguire gli obiettivi dell’Unione Europea e consentì l’adozione di azioni che fossero direttamente tese alla tutela del consumatore [cfr. art. 3, lett. t) ed art. 129 del Trattato] nonché dall’art. 153, comma 2 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, come novellato dal Trattato di Amsterdam (entrato in vigore in data 1 maggio 1999), secondo cui l’affermazione e l’attuazione delle politiche comunitarie avrebbero dovuto prendere in considerazione le esigenze relative alla protezione dei consumatori. Altri dati normativi di rilievo, inoltre, sono costituiti dall’art. 38 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 2000), secondo cui nella politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori, nonché, da ultimo, nell’art. 169 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE, in vigore dal 1 dicembre 2009), secondo cui la UE contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei loro interessi, sia con misure adottate nel quadro della realizzazione del mercato interno, sia con misure di sostegno, integrazione e controllo della politica svolta dagli Stati membri. L’art. 12 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea ha, poi, recepito l’articolo 153 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, al quale già si è fatto riferimento. 2. Uno sguardo generale al Codice del Consumo: clausole vessatorie ed altri elementi di rilievo Il Codice del Consumo è stato varato con il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in attuazione della delega conferita al Governo con l’art. 7, L. 29 luglio 2003, n. 229. Esso accorpa in un unico testo le disposizioni normative relative alla figura del consumatore, come cittadino consapevole dei propri diritti e doveri, altresì provvedendo al coordinamento ed alla semplificazione delle disposizioni stesse. Il Codice è teso a consentire l’informazione del consumatore nonché ad assicurare la correttezza dei processi negoziali su cui sono fondate le determinazioni correlate. Esso provvede anche a definire diritti ed interessi dei consumatori e degli utenti, nella loro forma sia individuale che collettiva, promuovendone la tutela in sede nazionale e locale. Il testo normativo in parola è costituito da 146 articoli ed è teso al riordino e alla semplificazione della normativa preesistente, posta a tutela del consumatore. Esso appresta regole di tutela in ordine al contratto ed alla fase precontrattuale (si pensi agli articoli posti a disciplina delle pratiche commerciali aggressive ed ingannevoli), altresì guardando alla fase della produzione e della distribuzione dei prodotti e dei servizi; disciplina, poi, la corretta informazione ed il diritto di recesso dal contratto, anche nella materia delle televendite. Tra le altre cose, richiama la disciplina relativa ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali e a distanza, quella relativa all’acquisto di pacchetti turistici, alla multiproprietà, alla sicurezza e qualità dei prodotti, alle garanzie legali e commerciali riferite ai beni di consumo (non è più presente, invece, nel codice, la disciplina relativa al credito al consumo, trasferita all’interno del Testo Unico Bancario a seguito delle modifiche normative indotte dal D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141). L’intento perseguito dal legislatore, risulta evidente, è stato, quindi, quello di apprestare un unico corpus normativo, a carattere totalizzante ed idoneo a contenere la generalità delle previsioni relative alla materia consumeristica. Nella disamina, poi, dei rapporti tra il Codice del consumo ed il codice civile, è stato altresì evidenziato che 20 Temi Romana Saggi le discipline offerta dall’uno e dall’altro, non avendo ambiti coincidenti, tendono a cumularsi, piuttosto che a porsi in un rapporto da genus a species, sul piano dell’individuazione delle norme concretamente rilevanti3. In via generale, comunque, secondo la medesima dottrina, mentre il codice civile porrebbe maggiore attenzione alla fattispecie astratta ed al dato formale, il codice del consumo guarderebbe al dato dinamico e funzionale, concentrandosi sull’elemento della disuguaglianza strutturale e mirando ad interventi di riequilibrio4. Tanto rilevato in via generale, occorre osservare che il Codice del consumo, teso a riequilibrare rapporti in radice sperequati, si avvale, a tale scopo, di diversi strumenti, imponendo obblighi informativi ed oneri formali in capo al professionista, sancendo l’illiceità di atti e comportamenti, sanzionando condotte aggressive e comportamenti ingannevoli, conferendo diritti di ripensamento in ordine a pattuizioni contrattuali già concluse, affermando la nullità di forniture di servizi non richieste, attribuendo poteri di vigilanza e regolazione ad organi amministrativi. Sul versante propriamente contrattuale, tuttavia l’elemento di tutela offerto al consumatore di maggiore pregnanza è forse costituito dall’accertamento giudiziale relativo alle clausole vessatorie. La disciplina di rilievo, estrapolata dal codice civile (originari artt. 1469 e ss., introdotti dalla L. 6 febbraio 1996, n. 52) ed introdotta nel corpo del Codice del consumo agli artt. 33 e ss., attuativa di una pregressa normazione comunitaria, ha inteso realizzare una forma di tutela sostanziale – in antitesi alla tutela formale originariamente apprestata dall’art. 1341 c.c. – in favore del consumatore, a fronte di assetti negoziali già predisposti dal professionista, così come preconfezionati in una veste immutabile ed espressivi della sola potestà di scelta del prendere o del lasciare. In altri termini, all’incapacità del consumatore di fronteggiare il professionista nel proprio campo – non disponendo di un idoneo apparato informativo e difettando delle conoscenze del settore invece proprie del soggetto professionale – ed all’impossibilità di modificare assetti negoziali già predisposti dal professionista, il legislatore, comunitario prima e nazionale poi, ha inteso porre rimedio sul piano delle tutele, così da riequilibrare, per via giudiziaria, una sperequazione ineliminabile sul piano dei rapporti socio-economici. Temi Romana Sul punto, poi, non pare inutile ribadire che l’incapacità del consumatore di incidere sull’assetto contrattuale – a fronte del diniego ordinariamente frapposto dal professionista a che il consumatore stesso modifichi le clausole negoziali predisposte – è tanto più rilevante ove si consideri che nella prassi i soggetti professionali non soltanto tendono a predisporre contratti che siano conformi ai propri interessi, ma talora fanno ciò andando a vulnerare, più o meno smaccatamente, gli interessi della controparte (per giunta, sovente sprovvisti della preparazione giuridica necessaria alla comprensione del documento sottoscritto). Guardando al dato sociale appena riportato, non appare arduo comprendere i motivi per i quali il legislatore ha introdotto una disciplina relativa alle clausole vessatorie, altresì apprestando ulteriori forme di garanzia (si pensi al c.d. foro del consumatore di cui all’art. 63 del Codice del consumo). In dottrina5, una volta premesso che la nuova tutela del consumatore ha carattere sostanziale – in quanto permette al giudice, diversamente dal passato, di valutare e sindacare il contenuto del contratto – sono state sinteticamente richiamate le peculiarità della disciplina normativa in parola. In particolare, è stato evidenziato che l’art. 33, cod. cons., collega l’abusività delle clausole non più al dato formale della mancata specifica sottoscrizione delle medesime da parte dell’aderente, bensì al “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Nel caso dell’anzidetto significativo squilibrio a carico del consumatore, l’art. 36, Codice del consumo, prevede la nullità delle clausole considerate vessatorie, mentre, per il resto, il contratto rimane valido. Anche attraverso quest’ultima disposizione normativa, quindi, la protezione del consumatore viene rafforzata, posto che l’inefficacia delle clausole abusive (prevista dall’art. 1341 c.c. e dall’abrogato art. 1469 quinquies c.c.) viene sostituita dalla nullità delle stesse. Si tratta di una nullità di protezione (come risulta, peraltro, dalla stessa rubrica della richiamata norma), operando esclusivamente a vantaggio del consumatore. Tale forma di nullità è relativa, essendo rilevabile soltanto dal consumatore, e si contrappone, dunque, alla nullità assoluta, che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. La nuova normativa amplia anche l’ambito oggettivo 21 Saggi scelta era tra un controllo giudiziale, un controllo amministrativo, ed un controllo integrato o combinato. Il legislatore italiano, nel dare attuazione alla dir. 1993/13/CEE, optava, dopo molte indecisioni, per un sistema di controllo giudiziale, e dettava l’art. 1469 sexies c.c., che sarebbe poi diventato l’art. 37 cod. cons., rubricato “azione inibitoria”. La scarsa incisività di siffatto strumento induce ora il legislatore a rivedere la scelta a suo tempo effettuata, e ad affiancare alla tutela giudiziale, di cui all’art. 37 cod. cons., la tutela amministrativa, di cui all’art. 37 bis dello stesso Codice: si passa così da un sistema di controllo giudiziale ad un sistema di controllo integrato o combinato. “Meglio tardi che mai”, è stato il commento espresso sul punto7. Tale norma, appunto, ha introdotto una forma di tutela del consumatore priva del carattere giurisdizionale ed attivabile in via puramente amministrativa: in termini pratici, a fronte di clausole vessatorie, il consumatore potrà sporgere apposita denuncia presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e questa, ravvisata l’effettiva sussistenza dell’illecito, provvederà a dare la prescritta pubblicità al fatto, altresì irrogando, ove si renda necessario, apposite sanzioni amministrative (cfr. art. 37 bis, commi 1 e 2, Codice del consumo). Una vicenda siffatta, certamente inidonea a determinare un esito risarcitorio in capo al consumatore, assume, tuttavia, un certo rilievo, fungendo da deterrente nei confronti delle imprese che, meno timorose dell’instaurazione di cause giudiziali (venendo spesso in rilievo le c.d. small claims), saranno, invece, assai più sensibili a forme di tutele attivabili dal consumatore con una semplice denuncia amministrativa e foriere, ove la denunzia sia fondata, di rilevanti conseguenze sul piano economico. La questione relativa all’opportunità di introdurre o meno una tutela di carattere amministrativo è stata ampiamente discussa in dottrina ancora prima che fosse emanata la direttiva comunitaria 93/13/CEE che, per prima, disciplinò le clausole vessatorie8. A fronte, tuttavia, di una tutela che pare assai incisiva e penetrante – anche solo per l’effetto deterrente che essa è in grado di realizzare sulle imprese – viene da pensare che l’elemento ostativo al suo inserimento stesse non tanto nel dubbio che la stessa potesse o meno avere una reale efficacia, quanto piuttosto in considerazioni di della tutela del consumatore. Al riguardo, si osserva che, mentre l’art. 1341 c.c. si riferisce all’ipotesi particolare delle condizioni generali di contratto, l’art. 33, Codice del consumo, non contiene alcuna limitazione e, pertanto, l’abusività delle clausole può essere rilevata dal consumatore anche nel caso di un contratto individuale stipulato con il professionista. In ordine al quesito, poi, se la tutela così apprestata dagli artt. 33 e ss. del Codice del consumo assuma un carattere alternativo rispetto a quella tradizionalmente posta dall’art. 1341 c.c., pare preferibile la tesi del cumulo delle discipline, secondo cui la normazione posta dal codice del consumo, foriera di ulteriori tutele, andrebbe ad aggiungersi alle forma di tutela tralaticie e non già a sostituirsi alle stesse. Giova, inoltre, precisare che le clausole in parola vanno soggette alla disciplina menzionata, “malgrado la buona fede”, come testualmente stabilito dall’art. 33 del Codice del consumo. Tale ultimo dato testuale, sin dall’emanazione della L. 6 febbraio 1996, n. 52, ha posto il quesito se la buona fede in parola debba essere interpretata in chiave oggettiva – vale a dire come correttezza o lealtà – oppure in chiave soggettiva, così riferendosi ad un dato psicologico di buona fede in capo al professionista, ignaro della vessatorietà della clausola. Benché la dizione testuale della direttiva comunitaria 93/13/CEE, cui le norme in parola hanno inteso dare attuazione, induca a propendere per l’iterpretazione in chiave oggettiva, il dibattito dottrinale sul punto pare tutt’altro che sopito6. 3. La tutela amministrativa del consumatore introdotta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27 L’art. 5 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle strutture e la competitività (c.d. Cresci Italia) ha inserito, all’interno del Codice del consumo, l’art. 37 bis, intitolato “Tutela amministrativa contro le clausole vessatorie”. Al riguardo, è opportuno premettere che l’art. 7 della dir. 1993/13/CEE del Consiglio devolveva ai legislatori nazionali il compito di stabilire l’autorità competente e i rimedi di tipo generale, preventivo e collettivo: la 22 Temi Romana Saggi natura politica in certa misura ostili a nuove forme di controllo amministrativo nei confronti dei soggetti imprenditoriali. In ordine alla tutela de qua, comunque, è dato avanzare una serie di considerazioni. In primo luogo, essa ha carattere preventivo, secondo due distinte accezioni: ha un carattere preventivo rispetto all’instaurazione di una lite giudiziaria; ancora, essa ha un carattere preventivo in relazione alla possibilità, per le imprese, di interpellare preventivamente l’Autorità in ordine alla vessatorietà delle clausole che esse intendono adottare nei rapporti coi consumatori (art. 37 bis, comma 3, Codice del consumo). In secondo luogo, la tutela in parola è assai più facilmente attivabile da parte del consumatore il quale, a tal fine, non andrà incontro ai costi che, invece, sono correlati ad una causa giudiziale e, di più, per il caso in cui l’Autorità effettivamente riscontri la paventata vessatorietà, egli potrà utilizzare le relative determinazioni per far valere, con maggiore vigore, il proprio diritto al risarcimento del danno dinanzi all’Autorità giudiziaria (che, pure, com’è ovvio, davvero non rimane vincolata alle decisioni assunte in sede amministrativa). In terzo luogo, la tutela amministrativa, sul versante della concreta efficacia, appare maggiormente idonea a sortire effetti pratici rispetto all’azione inibitoria di cui all’art. 37 del Codice del consumo, essendo attivabile con maggiore facilità e, come detto, non abbisognando dell’instaurazione di un procedimento giudiziario. Da ultimo, guardando specificamente allo strumento dell’interpello previsto dal predetto art. 37 bis, comma 3, esso costituisce un istituto mutuato dal diritto tributario (cfr. art. 11, L. 27 luglio 2000, n. 212) e del quale, si ritiene, le imprese faranno un uso tutt’altro che rarefatto. Guardando a tale istituto, la tutela amministrativa, letta in un’ottica di sussidiarietà, si pone, in maniera assai più palese rispetto ad altre ipotesi, come strumento di vigilanza sul corretto uso dell’autonomia, la quale non può spingersi a predisporre un modello di composizione degli interessi che non risponde a ragionevolezza, imponendo ad una delle parti sacrifici i quali, secondo i criteri di accertamento indicati, risultano sproporzionati. Il legislatore amplia i margini di autonomia dei privati, limita il ricorso alle norme inderogabili, sfuma la rigidità dei tipi, tuttavia, al fine di evitare che la libertà possa essere “abusata”, non circoscrive la tutela al Temi Romana rimedio giurisdizionale, ma introduce sistemi di vigilanza che si spingono fino alla verifica della corretta incidenza sul mercato di offerte che ancora non sono state emesse. La procedura di interpello non attribuisce di certo all’Autorità una funzione per così dire dirigistica, ma tende ad incentivare il passaggio dalla predisposizione all’autoregolamentazione9. 4. La disciplina italiana della class action: la genesi ed i confronti con i rimedi preesistenti L’azione di classe italiana, ispirata alla class action statunitense, è prevista dall’art. 140 bis del Codice del consumo, come introdotto dall’art. 2, commi 446-449, L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Legge finanziaria per il 2008) e successivamente modificato. L’art. 2 della suddetta Legge finanziaria, richiamando in larga misura precedenti disegni di legge non approvati10, ha introdotto nell’ordinamento un’azione collettiva risarcitoria riferita ad illeciti contrattuali o extracontrattuali produttivi di danni nei confronti di una pluralità di utenti o consumatori. La ratio giustificatrice della norma in commento può essere spiegata alla luce della difficoltà delle istanze consumeristiche ad approdare alle aule giudiziarie, trattandosi, assai frequentemente, di domande risarcitorie a connotazione esigua (c.d. small claims). Proprio alla luce di tale rilievi, sin dagli anni ’70 si è cercato di creare un mezzo di tutela più effettivo, economico e semplice, per la soluzione delle controversie seriali: un’azione estranea ai meccanismi ordinari del processo litisconsortile che altrimenti genererebbe giudizi con centinaia o migliaia di parti. In questa prospettiva, è opinione comune che un’azione risarcitoria seriale dovrebbe contemperare e garantire il soddisfacimento di tre interessi fondamentali: quello dei danneggiati ad ottenere una tutela efficace, quello del danneggiante alla predeterminazione dei danni, quello del sistema giudiziario a realizzare una deflazione del contenzioso seriale. In particolare, per quanto concerne l’ultimo degli obiettivi menzionati, esso può essere perseguito con qualche probabilità di successo solo mediante uno strumento processuale che svolga anche una funzione di deterrenza e stimoli comportamenti virtuosi degli operatori. Diversamente, le imprese, non avvertendo il rischio di 23 Saggi potenziali iniziative giudiziarie, avrebbero deboli motivazioni a rispettare le disposizioni normative e regole di condotta improntate a lealtà e correttezza nelle relazioni economiche11. Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il legislatore ha introdotto l’azione di classe, così superando le titubanze che, al riguardo, erano state manifestate in precedenza. L’art. 2, 446° comma, Legge finanziaria, infatti, inserisce nel Codice del consumo l’art. 140 bis il quale al 1° co. statuisce preliminarmente che la legittimazione all’azione spetta alle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale (ex art. 137, 1° co., Codice del consumo) e iscritte nell’apposito elenco tenuto presso il Ministero delle attività produttive nonché alle associazioni e ai comitati che siano adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere (art. 140 bis, 2° co., Codice del consumo). L’elemento qualificante della class action, idoneo a distinguerlo dalle azioni di matrice collettiva già previste dal codice del consumo agli artt. 37, 139, 140, per la verità, risulta già dall’intitolazione dell’art. 140 bis del codice (“Azione collettiva risarcitoria”). Come risulta chiaramente a seguito di un’analisi comparativa tra l’art. 140 bis e le norme citate, infatti, il predetto art. 140 bis ha aggiunto agli strumenti di tutela posti a disposizione delle associazioni considerate rappresentative a livello nazionale – domande inibitorie, domande tese ad ottenere l’adozione di misure di correzione od eliminazione di effetti dannosi, domande tese ad ottenere la pubblicazione dei provvedimenti giudiziari così adottati – altresì la possibilità di chiedere, per via giudiziale, il risarcimento dei danni cagionati ai consumatori nell’ambito di rapporti contrattuali stipulati per adesione od in relazione ad illeciti extracontrattuali, pratiche commerciali scorrette, illeciti concorrenziali; tutto ciò in riferimento alla lesione dei diritti di una pluralità di consumatori od utenti. La medesima finalità risarcitoria non può essere ricondotta all’art. 140, comma 1, lett. b) del Codice del consumo che, nel menzionare, con linguaggio scarno e poco specificativo, misure idonee ad eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate, intende riferirsi a misure giudiziali che abbiano l’effetto di eliminare tali effetti, ripristinando lo status quo ante, ma non già dal punto di vista del ristoro patrimoniale o della compensazione del depauperamento subito. L’opinione largamente dominante, in consonanza a quanto appena sostenuto, infatti, esclude che l’azione di cui all’art. 140 cod. cons. possa consentire di domandare il risarcimento dei danni subiti dai singoli consumatori12. Sul punto, ben vero, è stato sostenuto che l’azione ex art. 140 del Codice del consumo, avendo natura preventiva-inibitoria, può rivelarsi insufficiente o non adatta a tutelare alcune tipologie di illeciti seriali (c.d. danni di massa o mass torts) che non sempre rappresentano il risultato di comportamenti valutabili preventivamente e che, inoltre, presenta lo svantaggio di costringere il singolo, danneggiato dalle violazioni accertate per mezzo dello strumento inibitorio, ad avviare un’azione individuale per ottenere il risarcimento del danno13. La medesima opinione è stata poi avanzata in seno alla dottrina laddove è stato osservato che, prima dell’introduzione dell’art. 140 bis del codice del consumo, il meccanismo dell’art. 140 del Codice consentiva alle associazioni dei consumatori e degli utenti solamente di convenire in giudizio l’impresa e di ottenere dal giudice un provvedimento che inibisse l’uso della clausola di cui fosse stata accertata l’abusività. Il massimo risultato ottenibile, secondo tale ermeneutica, era dunque l’emissione di provvedimenti di accertamento e di natura preventiva. Proprio per ovviare a questo limite, il legislatore era perciò intervenuto integrando la normativa del Codice del Consumo, nella parte concernente la legittimazione ad agire in giudizio a tutela di interessi collettivi disciplinata dagli articoli 139 e 14014. Il punto è che le azioni giudiziali di cui agli artt. 139 e 140 del Codice del consumo assumono una valenza propriamente collettiva, come tale incapace di guardare ai profili risarcitori di pertinenza dei singoli consumatori danneggiati15; aspetto questo che rimane “stemperato” od eliso dalla stessa dizione testuale dell’art. 140 bis del Codice che, pur indirizzando l’azione delle associazioni a finalità di tutela di interessi collettivi, fa espresso riferimento all’accertamento della responsabilità ed alla condanna al risarcimento del danno in favore dei singoli consumatori. Il dato sostanziale della vicenda in relazione al quale, assunta l’insufficienza degli strumenti processuali preesistenti, si è addivenuti all’introduzione della class action nel nostro ordinamento, per la verità, è stato 24 Temi Romana Saggi ampiamente affrontato dalla dottrina. In favore dell’introduzione di una tutela risarcitoria di classe, in particolare, sono state addotte nel tempo, una serie di motivazioni16. In primo luogo, ragioni di economia processuale connesse alla contrazione del contenzioso civile, insieme ad esigenze di equità, tradotte nella necessità di eliminare il rischio di provvedimenti giudiziali difformi tra singoli consumatori. Nel medesimo senso, poi, stava la considerazione per cui tali forme di tutela collettiva consentono all’imprenditore di predeterminare il rischio economico al quale va incontro. Inoltre la prospettiva di strumenti efficaci di deterrenza corrispondeva al più ampio obiettivo di ristabilire fiducia nel mercato e di rassicurare i consumatori e gli utenti, oltre a consentire l’accesso alla giustizia alle situazioni generalizzate a ridotto importo economico individuale (si allude alle small claims,cui già si è fatto riferimento). L’azione di classe consentiva, poi, il riequilibrio dell’asimmetria, sul piano processuale, tra le parti occasionali (i consumatori, portatori degli interessi attinenti alla loro singola pretesa) e la parte abituale (il professionista, portatore di interessi economici assai più elevati). Un’asimmetria delle poste economiche, questa, che si traduce a sua volta in una diversa propensione ad investire nel giudizio e che influenza l’accesso alla giustizia e la tutela di situazioni sostanziali pure enunciate come fondamentali: trattandosi di contenzioso ripetitivo, l’impresa non solo ha vantaggi strategici, ma tendenzialmente destina al singolo processo risorse economiche commisurate non alle singole domande, ma all’entità globale delle pretese complessive. La differenza di potere economico e di accesso alla tutela giudiziale menzionata è suscettibile di superamento proprio coordinando le parti occasionali così da contribuire insieme alle spese necessarie per la lite. La situazione così descritta faceva propendere per l’opportunità di una tutela di classe. In tal senso stava anche la considerazione per cui l’efficacia e l’attuazione delle regole poste a protezione della libera concorrenza nel mercato, per essere realmente operative, devono essere affidate non soltanto alla vigilanza dei pubblici poteri (c.d. public enforcement), ma anche all’operatività di rimedi civilistici (c.d. private Temi Romana enforcement), come sostenuto a livello comunitario in materia di attuazione del diritto antitrust (in tal senso, il Libro Verde delle azioni risarcitorie in materia antitrust, presentato dalla Commissione il 19 dicembre 2005, ed il Libro Bianco del 2 aprile 2008). Queste, dunque, sono le ragioni note e sostanzialmente condivise che hanno indotto all’adozione dell’azione di classe17. Ragioni, evidentemente, ben presenti al legislatore al momento in cui, da ultimo, ha ritenuto di richiamare l’applicabilità dell’azione di classe anche in riferimento alle controversie relative ai diritti dei consumatori nei contratti, con specifico riferimento alle disposizioni contenute nelle Sezioni da I a IV del Capo I, Titolo III, Parte III del Codice del consumo (in tal senso dispone l’art. 66, cod. cons., come riformato dal D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 intitolato: “Attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, recante modifica delle direttive 93/13/CEE e 1999/44/CE e che abroga le direttive 85/577/CEE e 97/7/CE”). 5. I diritti tutelabili mediante l’azione di classe: struttura dell’illecito e danno risarcibile L’ambito oggettivo di applicazione della norma è compiutamente delineato ai primi due commi dello stesso art. 140 bis, cod. cons., come riformulato dalle modifiche normative intervenute. Per ragioni di opportunità espositiva, dunque, viene riportato, a seguire, tale dato normativo. “1. I diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2 nonché gli interessi collettivi sono tutelabili anche attraverso l’azione di classe, secondo le previsioni del presente articolo. A tal fine ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa, può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni. (170) 2. L’azione di classe ha per oggetto l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore degli utenti consumatori. L’azione tutela: a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile; 25 Saggi dotta precontrattuale scorretta e realizzata in termini di generalità (si ipotizzi il caso delle informazioni false o fallaci rese alla generalità dei consumatori) od ancora dal generale inserimento, nei contratti d’impresa, di clausole vessatorie verso il consumatore. È interessante, poi, rilevare come la tutela sia stata estesa ai consumatori anche a prescindere da un rapporto contrattuale diretto [lett. b), comma 2, art. 140 bis], potendosi, dunque, attivare anche nei confronti di un fornitore di servizi o produttore di beni, anche laddove il consumatore non abbia instaurato cogli stessi una vicenda contrattuale. Una siffatta formulazione della norma è meno ampia rispetto a quella presente nella versione originaria, che assumeva l’azionabilità della class action in relazione ad atti illeciti extracontrattuali, ma, verosimilmente, più specialistica, ovvero maggiormente aderente alle situazioni di danni che possono concretamente verificarsi in capo a classi di consumatori. Rimane, ancora, la previsione relativa all’attivabilità dell’azione in commento anche in relazione a pregiudizi derivanti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali, da sempre presente nell’ambito della norma de qua. A fronte di una disciplina siffatta, resta, tuttavia, un’incertezza sul piano soggettivo: la norma non utilizza il termine professionista che nel codice del consumo designa sia l’imprenditore che il libero professionista, sicché permane il dubbio se l’azione di classe possa essere esperita soltanto nei confronti dell’imprenditore o anche nei confronti degli esercenti le professioni intellettuali o dei loro ordini e associazioni professionali18. In ogni caso, minimo comune denominatore delle vicende da cui può scaturire la class action è sicuramente rappresentato da un fatto costitutivo a rilevanza comune che vale a fondare la pluralità di diritti risarcitori o restitutori e che deve potersi riferire in modo indifferenziato alla pluralità di consumatori od utenti19. Tanto delineato in termini generali, sul fronte della struttura dell’illecito, pare che la stessa, di massima, si caratterizzi nei termini consueti, assurgendo a rilievo la condotta del danneggiante nonché il nesso di causalità della stessa col danno riportato dal danneggiato. Minor rilievo pare, invece, che debba assumere l’elemento psicologico della condotta dannosa, in considerazione del fatto che in ambito contrattuale, a fronte di b) i diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c) i diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali”. Il comma 1 della norma in commento estende il proprio ambito di tutela, oltre ai diritti individuali omogenei di consumatori ed utenti, anche agli interessi collettivi. Una siffatta estensione testuale non pare, tuttavia, caratterizzarsi in termini di effettività: la norma de qua, come in precedenza esposto, assolve alla specifica finalità di fornire uno strumento risarcitorio alla pletora di consumatori che abbiano subito l’illecito laddove alla tutela degli interessi collettivi dei consumatori sono preposte altre norme (artt. 140 e 37, cod. cons.). Anche ove si ignorassero, poi, le ragioni poste a fondamento dell’introduzione di un’azione di classe nel nostro ordinamento e le istanze sociali che ne hanno costituito la base, la stessa struttura della norma depone nel senso di una tutela specificamente finalizzata alle restituzioni ed ai risarcimenti in favore dei consumatori che siano stati danneggiati (si guardi, in tal senso, al comma 12 dell’art. 140 bis, relativo ai poteri decisori del giudice nel caso di accoglimento della domanda), piuttosto che al perseguimento di interessi a rilievo collettivistico (salvo che l’interesse collettivo in parola sia considerato proprio quello attinente all’azione di classe). Acclarato, dunque, come il proprium della tutela in commento attenga ai diritti risarcitori di spettanza dei singoli consumatori, pure inseriti nel contesto collettivo di un’azione di classe, giova rilevare come l’ambito di applicazione della fattispecie si presenti in termini decisamente più ampi rispetto alla primigenia formulazione della norma, riferendosi non più soltanto all’ambito di rapporti giuridici stipulati ai sensi dell’art. 1342 c.c., ma alla più vasta categoria dei diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile (lett. a), comma 2, art. 140 bis, attuale formulazione. Diritti contrattuali che, quindi, potrebbero essere stati vulnerati da un inadempimento, ma anche da una con- 26 Temi Romana Saggi prestazioni rese da un soggetto professionale, l’interpretazione giurisprudenziale, ormai da tempo, individua forma di responsabilità per danni che assumono una valenza oggettiva o semioggettiva. L’assunto per cui il soggetto professionale, alla luce della propria esperienza, è in grado di prevedere i danni verificabili e, per questo, è tenuto a predisporre opportune misure idonee a prevenirli od evitarli, quindi – per quanto consta – induce la prassi giudiziaria a prescindere in certa misura dall’elemento della colpevolezza in capo al professionista, nei limiti, naturalmente, del sacrificio esigibile in capo al debitore professionale e, soprattutto, del caso fortuito. Circa la portata delle disposizioni in parola, naturalmente, non sono mancati commenti dottrinali. In particolare, sul punto è stato osservato20 che l’omogeneità dei diritti contrattuali di cui al menzionato comma 2, lett. a), allude ad una contrattazione seriale iniqua od illecita riferita ad una pluralità di consumatori/utenti laddove l’omogeneità delle situazioni soggettive sarebbe data dalla comune condizione di parti contraenti (deboli) pregiudicate dalla medesima clausola o condizione iniqua apposta al regolamento negoziale. In altri termini, secondo la menzionata dottrina, i diritti risarcitori a connotazione aggregata sono quelli ad una contrattazione equa, vulnerati da un’identica condizione o clausola illegittima, anche non predisposta dall’impresa. Circa le situazioni soggettive di cui al comma 2, lett. b), poi, la superfluità del rapporto contrattuale tra consumatore finale e produttore viene interpretata nei termini per cui possono promuovere l’azione di classe non soltanto i soggetti che abbiano la qualifica di emptores, ma anche chiunque venga a trovarsi, anche in via occasionale, a contatto col prodotto stesso21. Relativamente, poi, all’idoneità dell’azione di classe a riferirsi anche a condotte anticoncorrenziali, ciò muove dalla necessità di tutelare l’assetto concorrenziale del mercato non soltanto per via pubblicistica, ma anche tramite strumenti a carattere privatistico. Aspetto, questo, che appare maggiormente comprensibile ove si consideri che l’effetto distorsivo della concorrenza è idonea a ledere, oltre agli interessi delle imprese, anche quelle dei consumatori che, “a valle”, subiscono gli effetti degli illeciti verificatisi “a monte” (cioè ab origine, con la condotta anticoncorrenziale) e Temi Romana che, dunque, hanno diritto alla restituzione del sovrapprezzo pagato22. Sul piano generale e conclusivo, comunque, è stato ritenuto che il rimedio sia stato concepito in riferimento a risarcimenti tutt’affatto omogenei e standardizzabili quanto alla loro monetarizzazione, come è agevole desumere dal rinvio all’art. 1226 c.c., operato dal comma 12 dell’art. 140 bis cod. cons.: la tutela risarcitoria collettiva gravita soprattutto in ambito contrattuale e comunque, anche quando lambisce la responsabilità aquiliana, nelle ipotesi tipizzate ivi previste, essa si ricollega pur sempre alla stipula di un negozio, che rileverà come fatto storico nella prospettazione attorea, ancorché non sia necessario che un rapporto negoziale corra direttamente tra i consumatori e l’impresa convenuta; specie a fronte di illeciti anticoncorrenziali, infatti, la condotta dell’impresa convenuta influirà direttamente sulla validità del contratto concluso a valle dal consumatore o sulla causazione del danno derivante dalla sua esecuzione. In sostanza, secondo l’ermeneutica ivi riportata, il contesto che il legislatore sembra avere immaginato come spazio operativo del rimedio è quello di fasci di microcrediti risarcitori/restitutori spettanti ai singoli quali vittime di illeciti seriali occasionati da identici rapporti di consumo di cui essi sono parte e, quindi, di entità tendenzialmente commisurate al valore del bene o del servizio richiesto23. Sul versante ultimo dell’utilità del rimedio giudiziale in parola, tuttavia, in ambito dottrinale24 è stato individuato quale elemento di dissuasione presente nell’attuale disciplina legislativa il fatto che l’azione, nella sostanza, possa essere esperita soltanto da soggetti economicamente forti. Soltanto soggetti che presentino tali requisiti, infatti, possono farsi carico di oneri economici adeguati a remunerare professionisti legali e consulenziali di certo livello, capaci di superare il vaglio di ammissibilità processualmente imposto dalla norma (comma 6, art. 140 bis, cod. cons.). Parimenti una certa capacità economica in capo al soggetto proponente dell’azione è de facto imposta dalla norma al momento in cui si richiede che lo stesso dia dimostrazione di poter curare adeguatamente gli interessi della classe: requisito, questo, inclusivo della possibilità, in capo all’attore, di dar luogo alla pubblicità 27 Saggi disposta dal Tribunale per consentire l’adesione degli appartenenti alla classe nonché della possibilità di raccogliere e gestire le adesioni operate dai soggetti danneggiati. L’art. 140 bis in parola, al comma 8, poi, stabilisce che un’eventuale ordinanza di inammissibilità emessa dal Tribunale, oltre a disporre sulle spese, ponga altresì a carico del soccombente l’onere di dare adeguata pubblicità al provvedimento stesso. Una siffatta situazione pare sortire effetti dissuasivi assai efficaci nei confronti dei consumatori, posto che questi si guarderanno bene dal proporre un’azione di classe ove questa non sia assistita da un’efficacia certa e da una notevole probabilità di successo. Una prospettiva de iure condendo, dunque, potrebbe incidere sugli aspetti da ultimo segnalati, prevedendo un riparto delle spese non afflittivo in capo al consumatore che veda respinte le proprie istanze quando esse abbiano un certo grado di fondamento ed altresì disponendo sistemi di pubblicità che – avallati da una previsione legale in tal senso e dotati di efficiacia impositiva nei confronti di taluni organi mediatici oppure basati sull’utilizzo della televisione pubblica – abbiano una portata lieve o non vessatoria nei confronti del consumatore, sul versante propriamente economico. Modifiche siffatte, favorendo l’accesso alla giustizia, senza meno aumenterebbero il numero delle azioni di classe effettivamente proposto così mutando l’attuale trend, caratterizzato da un’esperienza giudiziaria assai ridotta o limitata25. adattamenti dovuta a talune peculiarità proprie di quel sistema che non sempre sono riproducibili nell’ambito degli altri Paesi (si pensi, esemplificativamente, ai c.d. punitive damages, tipici degli ordinamenti di common law e, in particolare, degli Stati Uniti). Il dato sostanziale dell’azione di classe statunitense, in particolare, è stato rinvenuto26 nell’unione di una pluralità di consumatori avverso un soggetto professionale, sovente con l’impulso di grandi studi legali disposti a sostenere le spese correlate, con la prospettiva di guadagnare una congrua percentuale sul risultato ottenuto (c.d. patto di quota lite, ormai ammesso anche nel nostro ordinamento). L’analisi della class action statunitense, tuttavia, evidenzia un contrasto stridente, si potrebbe dire, rispetto a taluni principi propri dell’ordinamento italiano: il c.d. sistema dell’opt-out – in base al quale un membro del gruppo interessato dalla controversia di classe decide di rimanere estraneo al relativo contenzioso, consapevole del fatto che l’assenza di una scelta in tal senso lo renderebbe automaticamente partecipe del relativo esito giudiziario – collide nettamente coll’assunto per cui la sentenza produce effetti soltanto nei confronti delle parti processuali (cfr. art. 2909 c.c.). Il decisum giudiziale, cioè, nel nostro ordinamento produce i propri effetti nei confronti delle parti, degli eredi o degli aventi causa, ma non anche nei confronti di altri soggetti che, pur partecipi della medesima situazione sostanziale, siano rimasti estranei al relativo contenzioso. Tanto ciò è vero che l’azione di classe di cui all’art. 140 bis cod. cons. prevede l’opposto sistema dell’opt-in ovvero della scelta di prendere parte al processo quale necessaria condizione affinché la relativa sentenza estenda i propri effetti ad altri soggetti, diversi da colui che ha proposto l’azione e dal convenuto. Altro elemento di differenziazione tra la class action originale e l’omologo sistema rimediale recentemente introdotto nel nostro ordinamento attiene alle possibili pronunce giudiziali cui è possibile pervenire: in particolare, nell’ordinamento statunitense possono essere emesse sentenze di condanna a danni c.d. punitivi (si tratta dei già menzionati punitive damages), ossia a vocazione propriamente sanzionatoria nei confronti del convenuto. Pronunce giudiziali di questo tipo, a notevole effetto 6. Cenni di diritto comparato in materia di azione di classe Sul crinale comparativo, l’esperienza di maggiore rilievo in materia di azioni di classe si è verificata negli Stati Uniti, verosimilmente in relazione alla precoce maturazione industriale ed economica di tale Paese e del correlato manifestarsi, prima che altrove, di esigenze di tutela consumeristica sorte dalla prassi dei rapporti economici. La previa realizzazione di una siffatta casistica giudiziaria negli Stati Uniti ha comportato che l’azione di classe delineatasi nell’ambito di tale ordinamento assurgesse propriamente a modello od a stereotipo per gli altri ordinamenti giuridici, pur con la necessità di 28 Temi Romana Saggi deterrente o di prevenzione generale nei confronti dei soggetti professionali – comprensibilmente timorosi di subire rilevanti disfatte economiche correlate a siffatte decisioni – non sono riproponibili nel nostro ordinamento ove il risarcimento viene associato non già ad intenti punitivi, quanto piuttosto ad esigenze di reintegrazione o riparazione della lesione perpetrata (Cass. n. 1183 del 19 gennaio 2007). Le differenze sopra esposte, per altro, sono state altresì evidenziate dalla dottrina27. L’analisi ermeneutica28 ha anche posto in rilievo un’altra differenza rispetto al modello di class action nostrano: il fatto, cioè, che nel sistema di origine i singoli componenti della classe saranno vincolati in linea di principio anche dalla transazione, che eventualmente porrà termine a quel processo. Una delle problematiche più rilevanti poste nei tempi recenti dall’operatività della class action negli USA è proprio connessa alle prospettive di una possibile transazione e all’endemico conflitto di interessi che tende ad innestarsi, tra avvocati e membri della classe. Spesso infatti si concretizza l’ipotesi del pool di avvocati che, a un certo punto, avendo già messo sotto pressione l’impresa convenendola in giudizio, pur di realizzare in tempi rapidi il profitto atteso, è disponibile ad accettare un risarcimento che, per gli stessi finanziatori della class actions, può essere sicuramente appagante, ma che invece è quasi irrisorio rispetto all’ammontare complessivo del pregiudizio sofferto dai vari componenti della classe. All’atto pratico, poi, innanzi a fattispecie quali quella descritta, accade frequentemente che, non appena i rappresentati si avvedono che in realtà il pregiudizio da compensare era molto più elevato, spesso ripartono con un’altra class action contro il primo pool dei legali che li ha, in questo modo, non adeguatamente rappresentati. I casi di azioni seriali, di class actions originatesi in ragione di una inadeguata difesa nella prima azione di classe, sono infatti molto frequenti a verificarsi nella pratica americana. Una tale eventualità di possibile conflitto di interessi tra rappresentanti e rappresentati, tuttavia, è scarsamente probabile a verificarsi nella class action all’italiana, in cui la transazione non vincola coloro che non abbiano dichiarato espressamente di volerne beneficiare (art. 140 bis, 15° comma, cod. cons.). Temi Romana 7. Le peculiarità processuali dell’azione di classe Guardando all’articolo 140 bis, cod. cons., emerge ictu oculi la sussistenza di un dato processuale anomalo o di certa peculiarità. La fattispecie, cioè, viene disciplinata sul versante processuale secondo modalità difformi da quelle ordinarie ed alla stregua di una regolamentazione specificamente prevista per le azioni di classe esercitate dai consumatori. La peculiarità delle azioni in parola, dunque, è stata tale da indurre il Legislatore alla formulazione di un apposito processo che adattasse il crinale giurisdizionale alla dimensione collettiva delle situazioni sostanziali da tutelare. In prima approssimazione, è possibile rilevare dati processuali difformi rispetto alla disciplina ordinaria nella possibilità di adesione dei soggetti interessati senza ministero di difensore (aspetto, questo, che è però compatibile con la natura di small claims delle situazioni da tutelare), nella possibilità d’intervento da parte del pubblico ministero, correlata alla dimensione collettiva e quindi pubblica delle vicende de quibus, nella previsione di una fase preliminare costituita da un vaglio di ammissibilità, nelle modalità idonee a pubblicizzare il processo pendente, nell’esclusione della possibilità d’intervento del terzo ex art. 105 c.p.c. (correlata alle particolari caratteristiche del processo in parola), nel potere del giudice di determinare il corso della procedura, nelle peculiari modalità di determinazione del danno nonché in altre previsioni particolari, proprie della norma in commento. Il punto è che l’azione di classe offre una tutela ai consumatori, consentendogli di agire giudizialmente per situazioni che altrimenti rimarrebbero spesso prive di un’effettiva tutela; cumula una sommatoria di istanze individuali, così evitando il pericolo dell’intasamento degli uffici di giustizia; rende possibili ipotesi di accordo tra le parti nella fase finale della decisione, così consentendo alle imprese di assentire a risarcimenti accettabili piuttosto che esporsi all’aleatorietà di una decisione calata dall’alto ed alla connessa (potenzialmente letale) imprevedibilità. Tutto quanto precede, rilevando sul piano sostanziale, non poteva rimanere privo di effetti sul versante processuale: piuttosto che affidare le situazioni in parola agli ordinari meccanismi del rito processuale, dunque, il legislatore ha inteso delineare un modello giudiziale 29 Saggi menti sopra indicati); trattandosi, cioè, di una fase a valenza non ordinaria od eccezionale, in quanto normalmente insussistente, pare che essa debba attenersi rigorosamente ai limiti di legge, senza consentire agli organi giudiziari di inoltrarsi in (straordinarie) valutazioni di ammissibilità non facoltizzate dalla norma. Ancora appare pertinente alle problematiche in parola l’esigenza di dare idonea pubblicità all’azione giudiziale ammessa – che la norma ha inteso assicurare adeguatamente – così da consentire l’adesione degli appartenenti alla classe. In consonanza, poi, con la disciplina peculiare del dato processuale de quo, non trova applicazione l’istituto dell’intervento del terzo di cui all’art. 105 c.p.c. (esigenze di intervento sono già soddisfatte dai meccanismi di pubblicità suindicati). Di certo rilievo, inoltre, appare il potere del Tribunale di determinare il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo: facoltà, questa riconosciuta agli organi giudicanti che, doppiando previsioni tipiche di processi a connotazione sommaria od accelerata (si allude al rito ex artt. 702 bis e ss. c.p.c. od al rito del lavoro), pare idonea ad assicurare una tutela idonea – ed in certa misura rafforzata rispetto a quella ordinaria, quanto meno sul piano della rapidità dei tempi processuali – alle istanze provenienti dalla classe. Anche la fase attinente al dato decisionale, infine, appare caratterizzata da certe peculiarità, come saranno debitamente evidenziate nelle pagine a seguire. ad hoc, meglio idoneo alla definizione delle problematiche consumeristiche a dimensione collettiva. Per tali motivi, esigenze di giustizia hanno reso possibile aderire all’azione di classe anche senza ministero di difensore, analogamente alle possibilità di ricorso sussistenti per le piccole controversie civili o tributarie o per l’opposizione a talune sanzioni amministrative di ridotto rilievo economico. Per gli stessi motivi, poi, in conformità alla rilevanza collettiva – e, dunque, pubblica – delle istanze di classe la norma ha imposto che l’atto introduttivo del giudizio fosse notificato anche al pubblico ministero, così facoltizzato ad intervenire nella fase preliminare del giudizio. Istanze ancora correlate alla peculiarità della situazione sostanziale di riferimento hanno indotto il Legislatore all’introduzione di un vaglio preliminare di ammissibilità a valenza plurima, cioè teso alla valutazione di situazione diverse, quali la patente infondatezza della domanda, la mancata omogeneità delle situazioni giuridiche di riferimento (coessenziale all’azione di classe), la sussistenza di conflitti d’interessi o l’idoneità del promotore a curare l’interesse della classe. Circa il vaglio di ammissibilità in parola, esso, nell’ambito della prassi giudiziaria, può costituire uno “scoglio” non facilmente superabile, essendo rimesso alla stringente analisi degli organi giudiziari. Per altro, la stessa fase preliminare di ammissibilità pare comunque debba basarsi – pressoché esclusivamente – sugli elementi di valutazione previsti dalla norma (la manifesta infondatezza della domanda e gli altri ele- _________________ 1 Sul punto, cfr. F. CARINGELLA - L. BUFFONI, Manuale di diritto civile, Roma, Dike, 2010, p. 845 e ss. 2 Cfr. G. ALPA, Il Diritto dei consumatori, Bari, Laterza, 1995, p. 12. 3 Cfr. L. ROSSI CARLEO, Diritto dei consu- mi – Soggetti, contratti e rimedi, Torino, Giappichelli, 2012, p. 18. 4 Cfr. L. ROSSI CARLEO, Diritto dei consumi, cit., p. 19. 5 Cfr. P. BARBIERI, La tutela del consumatore in materia di clausole contrattuali abusi- 30 ve, rinvenibile sul sito www. Nel diritto.it 6 Cfr. F. CARINGELLA - L. BUFFONI, Manuale di diritto civile, cit., p. 851. 7 Cfr. E. MINERVINI, La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie nei contratti del consumatore, in Nuove Leggi Civ. Temi Romana Saggi Comm., 2012, 3, p. 563. 12 Cfr. DINACCI, Diritto dei consumi, cit., p. 233. cessuali, cit., p. 74. 8 Cfr. L. ROSSI CARLEO, La tutela amministrativa contro le clausole vessatorie, in Obbl. e Contr., 2012, 7, p. 492. 13 Cfr. S. MICONI, La “class action” nell’ordinamento italiano: sintesi di una trasformazione, in Resp. civ., 2008, 8-9, p. 678. 22 Cass. Sez. Un. 4 febbraio 2005, n. 2207. 9 Così L. ROSSI CARLEO, La tutela aministrativa contro le clausole vessatorie, cit., p. 7 e ss. 14 Cfr. M. ATELLI, Class action/1: profili di legittimazione ad agire, in Obbl. e Contr., 2008, 3, p. 79. 10 In particolare, è stato richiamato il testo del disegno di legge 3058/S/XIV, presentato al Senato il 22.7.2004, poi divenuto C1495 (2006), di origine interministeriale. Nella materia de qua, comunque, erano state avanzate diverse proposte di legge tra cui ricordiamo le seguenti: la n. 1834 di iniziativa del deputato Pedica; la n. 1443 di iniziativa dei deputati Poretti e Capezzone; la n. 1330 di iniziativa del senatore Fabris; la proposta di legge di iniziativa dei ministri Bersani e Mastella; la n. 1662 di iniziativa del deputato Buemi e altri, la n. 679 di iniziativa del senatore Benvenuto nonché la n. 1289 di iniziativa dei deputati Maran e altri. 11 Cfr. F. TEDIOLI, La class action all’italiana: alcuni spunti critici in attesa del preannunciato intervento di restyling, in Obbl. e Contr., 2008, 10, p. 831. Temi Romana 15 Cfr. A. C. DI LANDRO, Interessi dei consumatori e azione di classe, Napoli, E.S.I., 2012, p. 72. 16 Cfr. DI LANDRO, Interessi dei consumatori e azione di classe, cit., p. 18 e ss. 17 Cfr. DI LANDRO, Interessi dei consumatori e azione di classe, cit., p. 21 e ss. 18 Cfr. DINACCI, Diritto dei consumi, cit., p. 236. 19 Cfr. DI LANDRO, Interessi dei consumatori e azione di classe, cit., p. 88. 20 Cfr. C. CONSOLO - B. ZUFFI, L’azione di classe ex art. 140 bis codice consumo – Lineamenti processuali, Padova, CEDAM, 2012, p. 73. 21 Cfr. CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe ex art. 140 bis cod. cons. – Lineamenti pro- 31 23 Cfr. CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe ex art. 140 bis cod. cons. – Lineamenti processuali, cit., p. 85. 24 Cfr. DINACCI, Diritto dei consumi, cit., p. 239. 25 Sul punto, cfr. DINACCI, Diritto dei consumi, cit., p. 238, secondo cui “Sebbene l’interesse della dottrina per la nuova disciplina sia vivissimo, e l’attenzione mediatica sempre alta, le azioni di classe effettivamente proposte avanti ai Tribunali si contano, a due anni dall’entrata in vigore del novellato art. 140 bis, sulle dita di una mano”. 26 Cfr. CODACONS, Dissanguati? – la guida pratica per la tutela del consumatore – Novara, De Agostini, 2013, p. 176. 27 Cfr. I. LUCATI, “Class action” all’italiana nuove forme di tutela per consumatori e utenti, in Resp. Civ., 2008, 2, p. 188. 28 Cfr. M. SACCHI, Nuova class action: tra tutela dei diritti soggettivi omogenei ed interessi a valenza collettiva, in www.altalex.it. Saggi Criteri d’individuazione del titolare della qualifica soggettiva nell’ambito delle organizzazioni complesse e operatività della delega di funzioni, con particolare riferimento, alla responsabilità di Amministratori e Sindaci di società Parte II – Posizione di garanzia e Responsabilità Francesca Zignani Avvocato L e osservazioni formulate nella Parte I della presente dissertazione consentono di affrontare, con maggiore consapevolezza, le problematiche inerenti la posizione di garanzia e la responsabilità degli amministratori e sindaci di società. Lo schema posizione di garanzia/responsabilità implica, in ossequio ai principi costituzionali di legalità, colpevolezza, personalità della responsabilità penale: i) l’individuazione di una posizione di garanzia in capo all’organo di controllo e, dunque, la demarcazione di un obbligo giuridico d’impedimento e dei relativi poteri impeditivi; ii) la prova del nesso causale tra la mancata attivazione dei poteri impeditivi e il fatto di reato; iii) nell’ipotesi di compartecipazione in un reato doloso, la prova del dolo e, quindi, della rappresentazione e volizione del fatto storico congruente con la fattispecie di reato. Si può evidenziare, pertanto, alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale in materia di art. 40 cpv. c.p., che al fine di perseguire le condotte di amministratori non operativi e di sindaci è necessaria la precisa rappresentazione dell’evento nella sua portata illecita, e la omissione consapevole nell’impedirlo. Tali soggetti, debbono certamente attivare il loro potere informativo per attingere notizie utili all’esercizio del loro mandato. Essi hanno il dovere di richiedere informazioni, quando percepiscano segnali di pericolo o sintomi di patologia nelle operazioni da compiere. In sintesi, per poter affermare la responsabilità penale dei soggetti in esame è necessario che vi sia la prova che gli stessi siano stati debitamente informati, oppure che vi sia stata la presenza di segnali peculiari in relazione all’evento illecito, nonché l’accertamento del grado di anormalità di questi sintomi1. In effetti, la riforma della disciplina delle società, portata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, ha certamente modificato il quadro normativo dei doveri di chi è preposto alla gestione della società ed ha compiutamente regolamentato la responsabilità dell’amministratore destinatario di delega. La nuova disciplina ha delineato, inoltre, il criterio direttivo “dell’agire informato”, che sostiene il mandato gestorio (art. 2381 c.c., comma 5) e, correlativamente, l’obbligo di ragguaglio informativo sia a carico del presidente del consiglio di amministrazione (art. 2381 c.c., comma 1: “provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri”), sia in capo agli amministratori delegati, i quali, con prestabilita periodicità, devono fornire adeguata notizia “sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società o dalle sue controllate” (art. 2381 c.c., comma 5). In tal modo, la riforma ha alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe, poiché l’art. 2392 c.c., comma 1 prevede che sono responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni proprie. È stato rimosso il generale “obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione” (già con32 Temi Romana Saggi templato dall’art. 2392 c.c., comma 2), sostituendolo con l’onere di “agire informato”, atteso il potere2 di richiedere informazioni (senza che ciò assegni anche un’autonoma potestà di indagine). La modifica dell’art. 2392 c.c. è stata introdotta nell’ordinamento con immediata vigenza, attesa la disposizione di cui all’art. 209 disp. trans. codice civile. Per ciò che interessa il settore penale, la suesposta premessa riconfigura la “posizione di garanzia” del consigliere non operativo, postoché l’obbligo di impedire l’evento, disciplinato quale tramite giuridico causale, dall’art. 40 c.p., comma 2, si parametra su una fonte normativa che costituisce il dovere di intervento. Dunque, anche il ruolo penale dell’amministratore privo di delega risulta modificato. A chiarimento di quanto sinora esposto, occorre evidenziare il limite operativo dell’art. 40 c.p., comma 2, quando correlato ad incriminazioni connotate da volontarietà, onde evitare di sovrapporlo o, peggio, sostituirlo con responsabilità di natura colposa, incompatibile con la lettera delle fattispecie incriminatici, che configurando comportamenti modulati su consapevolezza dolosa, non consentono di addebitare all’autore di volontaria omissione, con argomentazione propria della colpa (e cioè con rimprovero di imperizia, o di negligenza, o di imprudenza), l’evento che egli ha l’obbligo giuridico di impedire. La Riforma ha operato in questa direzione, poiché la relazione accompagnatrice del testo legislativo accenna alla necessità di evitare ingiustificate letture estensive della responsabilità degli amministratori. In sede di legittimità è stato posto il quesito se ed in quali termini possa invocarsi la disciplina dettata dall’art. 2 c.p., in seno al combinato disposto delle norme penal-societarie e dell’art. 40 c.p., comma 2, tenuto conto della obiettiva restrizione della responsabilità apportata nel contesto del codice civile e della più favorevole condizione prevista per gli amministratori privi di delega. La Corte di Cassazione, con sentenza del 4 maggio 2007, n. 23838, precisa che l’analisi del profilo della responsabilità, discendente dall’art. 40 c.p., comma 2 per condotte connotate da volontarietà, e la configurazione della “posizione di garanzia”, che qualifica il ruolo dell’amministratore, evidenzia due momenti, tra loro complementari, ma idealmente distinti ed entram- Temi Romana bi essenziali. Il primo postula la rappresentazione dell’evento, nella sua portata illecita, il secondo – discendente da obbligo giuridico – l’omissione consapevole nell’impedirlo. Entrambi questi due presupposti debbono ricorrere nel meccanismo tratteggiato dal nesso di causalità giuridico. Non è responsabile, quindi, chi non abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole (sì che l’omissione dell’azione impeditiva non risulti connotata da consapevolezza). Ovviamente l’evento può essere oggetto di rappresentazione anche eventuale. Pertanto, chi consapevolmente si sia sottratto nell’esercitare i poteri-doveri di controllo, attribuiti dalla legge, accettando il rischio, presente nella sua rappresentazione, di eventi illeciti discendenti dalla sua inerzia può risponderne ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 2. E, tuttavia, per il Giudice di legittimità non può esservi equiparazione – pur in questa dilatazione consentita dalla forma eventuale del dolo – tra “conoscenza” e “conoscibilità” dell’evento che si deve impedire, attenendo la prima, all’area della fattispecie volontaria, e la seconda, quale violazione ai doveri di diligenza, all’area della colpa. Riportando l’assunto nel contesto della responsabilità dell’amministratore non operativo, può evidenziarsi che l’effettiva rilevanza derivante dalla disciplina di cui all’art. 2 c.p. risulta molto contenuta. L’amministratore (ed è indifferente che egli sia o meno dotato di delega) è penalmente responsabile (ex art. 40 c.p., comma 2) per la commissione dell’evento che ebbe a conoscere (anche se al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non scongiurò. Altro discorso attiene alla conoscibilità dell’evento e, quindi, per restare nell’area del fatto volontario, situazione desunta dalla percezione dei segnali di pericolo o di sintomi di patologia insiti nell’operazione coinvolgente la società, evincibili dagli atti sottoposti alla sua attenzione. Situazioni che possono – pertanto – mantenere rilievo penale nella prospettiva del dolo (oltre che, evidentemente, per la colpa). Ma, pur accogliendo in via astratta tale prospettazione, il Collegio osserva che in capo all’organo di accusa grava la dimostrazione della presenza di segnali perspicui e peculiari, in relazione all’evento illecito, nonché l’accertamento del grado di 33 Saggi anormalità di questi sintomi. E l’onere, nel caso di specie, non è stato ritenuto assolto dal PM ricorrente. Ritiene la Corte, inoltre, che l’addurre a sostegno della tesi d’accusa la “consapevole approvazione di ogni iniziativa della dirigenza” è del tutto logicamente inconcludente: se consapevole fu il voto favorevole, tanto non dimostra che esso fu correttamente ed esaurientemente “informato” sull’effettiva sostanza della decisione, sì che discenda seria attestazione di una adesione volontaria all’opzione illecita o dannosa per la società. Né il fatto che, poco tempo dopo la approvazione dei bilanci incriminati, vi siano state sostanziose rettifiche illumina sul reale stato conoscitivo dei prevenuti all’atto della lettura delle relazioni loro rimesse. Né, ancora, la riduzione del consiglio di amministratore a “ratificatore” di decisioni “adottate altrove” risulta peculiare e congruente rispetto alla esigenza di puntualità dimostrativa di cui si è detto. Tutto ciò, ritiene il Supremo consesso, per tacere della difficile compatibilità del dolo eventuale con fattispecie non soltanto marcatamente fraudolente (art. 2638 c.c., comma 1), ma anche contrassegnate da specificità del dolo, da espressa connotazione di consapevolezza (art. 2638 c.c., comma 2, tipica delle condotte di omessa informazione) e, financo, da intenzionalità di inganno (artt. 2621 e 2622 c.c.). Non diversamente si deve concludere per la posizione dei sindaci: per essi la riforma non ha disposto mutamento quanto all’obbligo di vigilanza, essendo rimasto inalterato il paradigma della responsabilità dettato dall’art. 2407 c.c., comma 2. Tuttavia, l’espresso e diretto obbligo di vigilanza sulla gestione degli amministratori estende molto il grado di responsabilità. La giurisprudenza di legittimità ha ravvisato il discrimine, tra condotte esenti e quelle pregne di responsabilità, nel grado di conoscenza dell’atto antidoveroso degli amministratori, con ciò applicando alla figura del sindaco, il medesimo vaglio giuridico sin qui svolto ed addebitandogli – ai sensi dell’art. 40 c.c., comma 2 – la colpevole inerzia, censurabile in quanto pienamente conscia dell’evento da evitare. Sulla scorta di tali principi, il Supremo Collegio ha affermato che la riforma della disciplina delle società ha alleggerito gli oneri degli amministratori privi di deleghe e comportato un’obiettiva restrizione della loro responsabilità. L’amministratore non esecutivo risponde di omesso impedimento di un reato doloso posto in essere agli amministratori delegati, purché si sia rappresentato l’evento, nella sua portata illecita, e abbia consapevolmente omesso di impedirlo. Non vi può essere equiparazione tra “conoscenza” e “conoscibilità” dell’evento che si deve impedire, attenendo la prima, alla sfera della fattispecie volontaria e la seconda, quale violazione ai doveri di diligenza, a quella della colpa. La responsabilità penale dell’amministratore non esecutivo postula la dimostrazione di un effettivo ed efficace ragguaglio, circa l’evento oggetto del doveroso impedimento. In relazione all’arresto sopra citato la dottrina non ha mancato di evidenziare l’omesso approfondimento, da parte della Corte di legittimità, in ordine ai poteri dell’amministratore delegato. L’indagine assume, in effetti, rilievo decisivo al fine di determinare se l’inerzia del delegante sia stata condizione necessaria del reato posto in essere dal delegato: un giudizio contro-fattuale compiuto, dunque, immaginando presente – nel caso di specie – l’azione doverosa e, quindi, l’esercizio da parte del delegante degli eventuali poteri impeditivi a lui attribuiti dalla legge, e realmente esercitabili nella vicenda concreta. In estrema sintesi, è opportuno ricordare che la riforma civilistica non ha certo enucleato autonomi poteri impeditivi, pur avendo espressamente introdotto, con l’art. 2388 c.c., l’impugnativa, da parte del consigliere assente o dissenziente, della delibera consiliare che sia contraria alla legge o allo statuto. Tale rimedio civilistico si aggiunge alle altre azioni speciali, già espressamente riconosciute dalla legge ed, in particolare, all’impugnativa ex art. 2391 c.c. per i casi di delibere consiliari che violino la disciplina sul conflitto d’interessi e a quelle ulteriori azioni, già individuate (da una parte della dottrina) per via interpretativa, come l’azione di accertamento relativa ai vizi del bilancio consolidato, approvato con una delibera consiliare (argomentando ex art. 157 t.u.f.). Gli amministratori, quando legittimati, possono e devono impugnare le delibere consiliari invalide, al fine di impedire il compimento di fattispecie di reato. La riforma del diritto societario ha drasticamente limitato, tuttavia, il ricorso al procedimento di cui all’art. 2409 c.c., determinando così una contrazione dei pote- 34 Temi Romana Saggi ne necessaria del reato, posto in essere dal delegato. Il legislatore ha reso, quindi, penalmente lecite alcune particolari condotte omissive sino a quel momento ritenute illecite, con tutte le relative conseguenze in relazione alla questione della successione di leggi, non compiutamente affrontato dalla Suprema Corte. Il mutamento delle norme extrapenali, che concorrono a descrivere la posizione di garanzia dei deleganti segue, dunque, la disciplina dell’art. 2 c.p.. In particolare, nel campo delle posizioni di garanzia dei consiglieri deleganti, la riforma del diritto societario ha dato vita ad una “restrizione dell’area applicativa di una incriminazione preesistente” e, quindi, ad una “abolitio criminis parziale”, che risulta palese da una analisi dei rapporti logico-strutturali tra le diverse fattispecie (ante e post riforma), emergenti dalla combinazione dell’art. 40 cpv. con gli artt. 2381 e 2392 c.c.. Resta punibile, nei processi in corso, la realizzazione di fatti di reato, che il garante avrebbe dovuto prevenire, in quanto avrebbe potuto attivare rimedi astrattamente impeditivi, di cui disponeva allora come ancora oggi. Mentre fuoriesce dall’aerea dell’illiceità penale, il mancato attivarsi con poteri che il garante, a seguito della riforma del diritto societario, non può più utilmente esercitare. Come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale, il principio di retroattività della norma più favorevole, trova il suo fondamento costituzionale nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma, che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice. Se la valutazione del legislatore in ordine al disvalore del fatto muta – nel senso di ritenere che quel presidio non sia più necessario od opportuno o che sia sufficiente un presidio meno energico – tale mutamento deve riverberarsi, quindi, a vantaggio anche di coloro che abbiano posto in essere il fatto in un momento anteriore. Sennonché, il fondamentale problema – sul quale non vi è una comune posizione in dottrina – resta la nozione di potere impeditivo. Nell’ambito dei controlli societari, il potere impeditivo – ai fini dell’individuazione della posizione di ri e doveri degli amministratori non esecutivi: da un lato, escludendo il pubblico ministero dalla cerchia dei soggetti legittimati ad attivare il procedimento, quando si tratti di società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio; dall’altro, circoscrivendo il controllo giudiziario ai soli casi di gravi irregolarità “che possono arrecare un danno alla società o a una o più società controllate”. Com’è stato evidenziato in dottrina trattasi di “un’arma decisamente spuntata”: il singolo amministratore potrà attivare il pubblico ministero, solo nel caso di società con azioni quotate o con azioni diffuse in misura rilevante, e solo nel caso di irregolarità di gestione capaci di produrre un danno alla società. Tali modifiche incidono non poco sulla definizione della sfera dei poteri e, quindi, dei doveri dei consiglieri deleganti: si pensi a tutti quei casi in cui la segnalazione al pubblico ministero costituisce “la sola strada percorribile” – cioè astrattamente dotata di una attitudine preventiva – nel caso in cui manchi “una delibera suscettibile di impugnazione” oppure occorre “bloccare l’operato di organi delegati”. Sicché il limite del potere segna i confini invalicabili della garanzia esigibile: il delegante è obbligato a fare ciò che può fare. Oltre alle iniziative appena cennate, il consigliere senza delega può (e quindi deve) spendersi in consiglio per impedire l’adozione di una delibera che possa integrare una fattispecie di reato, far annotare il proprio dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio e darne immediata notizia al presidente del collegio sindacale, chiedere al presidente del consiglio d’amministrazione la convocazione dello stesso. Ma come appare ben evidente l’amministratore, in generale, non può direttamente impedire il compimento di fatti criminosi poiché non ha il potere di adottare, individualmente, provvedimenti direttamente impeditivi. Il consigliere non esecutivo, può innescare il meccanismo in astratto idoneo, insieme al verificarsi di altre condizioni, ad impedire la realizzazione di un fatto criminoso; ma l’effettivo impedimento dell’evento, presuppone sempre l’opera almeno di un soggetto terzo: il pubblico ministero, il presidente del consiglio, il presidente del collegio sindacale, il giudice, etc. Da qui le straordinarie difficoltà di provare che la condotta omissiva del delegante rappresenti una condizio- Temi Romana 35 Saggi carotta semplice di cui alla L. Fall. art. 217, comma 2, è un reato di pericolo, punibile anche a titolo di colpa e, pertanto, è irrilevante che l’agente si sia mantenuto estraneo all’amministrazione dell’azienda, in quanto è obbligato, in ogni caso, ad esercitare un controllo sulla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili. Così inquadrata la fattispecie, ben si comprende come nessuna efficace incidenza hanno esplicato le deduzioni difensive incentrate sulla acclarata (e riconosciuta dagli stessi giudici del merito) completa estraneità del ricorrente alla gestione dell’azienda, riconducibile, invece, esclusivamente all’amministratore di fatto, nonché sulla copiosa documentazione dimostrativa di tale estraneità, e sulle risultanze emerse dalle altre decisioni giudiziarie, attestanti che, uno dei due imputati fu vittima di condotte illecite altrui. Come pure inconferente è stato il riferimento alla giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di amministratore meramente formale. Per la Corte, infatti, la lettura della L. Fall. art. 216, comma 1, n. 2, rende chiaro che il dolo specifico è relativo all’ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale, mentre la seconda ipotesi, della quale il ricorrente è stato ritenuto responsabile, è caratterizzata dalla tenuta delle scritture contabili, tali da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, ed e questo lo scopo cui deve tendere l’agente e, quindi, l’elemento soggettivo del reato. Occorre, in definitiva, l’intenzione di impedire la conoscenza relativa al patrimonio o al movimento degli affari, ma non occorre, invece, l’intenzione di recare pregiudizio ai creditori e neppure la rappresentazione di questo pregiudizio. Discende che essendosi accertato dai giudici del merito che lo scopo dell’omessa tenuta della contabilità interna è stato proprio quello di impedire la conoscenza relativa al patrimonio o al movimento degli affari, non vi è possibilità alcuna per il Giudicante, diversamente dal dedotto della difesa, di configurare tale fatto omissivo come integrante gli estremi della bancarotta semplice documentale, di cui alla L. Fall., art. 217, comma 2, e non quelli della bancarotta fraudolenta documentale. Il che ha consentito alla Corte di affermare che integra il reato di bancarotta semplice (art. 217 L. Fall.) l’amministratore che, ancorché estraneo alla gestione del- garanzia volta all’impedimento di un illecito di terzi – è quel potere giuridico che può astrattamente (secondo un modello di causalità generale) impedire3 il verificarsi dell’illecito da parte del soggetto sottoposto al controllo. Il primo dato da considerare è che, anche nella riforma delle società, il carattere collegiale del consiglio d’amministrazione impedisce l’adozione d’iniziative individuali. Il giudice penale deve considerare, invece, nella ricostruzione della posizione di garanzia, i soli poteri individuali astrattamente impeditivi. Tra questi vi è, innanzitutto, l’impugnazione della delibera consiliare (art. 2388 c.c.). Ma tale impugnativa non assume, neanche astrattamente, natura impeditiva quando il reato si è già perfezionato, con l’assunzione della delibera. In altri termini, la sua potenziale efficacia è limitata ai casi in cui la delibera non sia self executing, cioè, costituisca solo un passaggio essenziale, di un più complesso iter criminoso, diretto a realizzarsi compiutamente in un momento successivo: in questo caso, infatti, l’impugnazione della delibera può operare ex ante e la declaratoria di invalidità, o addirittura un provvedimento cautelare, possono intervenire prima del compimento dell’atto. Ecco spiegata la ragione per cui, nella prassi, il problema cruciale è quello della verifica causale. L’esistenza di un obbligo giuridico d’impedimento e dei relativi poteri impeditivi è, infatti, un presupposto indispensabile, ma non sufficiente, per la definitiva affermazione di responsabilità del garante: nel processo rimane da affrontare4, infatti, il problema della prova e, quindi, della verifica, ex post, che l’esercizio di quel potere astrattamente impeditivo avrebbe effettivamente neutralizzato, in quel particolare caso, il programma criminoso. In assenza di questo ineludibile passaggio, si configura il rischio di un addebito di responsabilità per fatto altrui. E, al fine di rendere inequivocabile il proprio pensiero, la Suprema Corte cita espressamente le Sez. Unite nella c.d. sentenza Franzese del 2002. In tema di responsabilità omissiva degli amministratori, nell’alveo di reati fallimentari, deve darsi menzione, infine, di un’altra importante decisione del Giudice di legittimità5. Nella sentenza, il Collegio osserva che il reato di ban- 36 Temi Romana Saggi l’azienda – esclusivamente riconducibile all’amministratore di fatto – abbia omesso, anche per colpa, di esercitare il controllo sulla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili, poiché l’accettazione della carica di amministratore, anche quando si tratti di mero prestanome, comporta l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo di cui all’art. 2932 c.c.. Il principio affermato in sede di legittimità ha offerto ad una parte della dottrina, l’occasione di svolgere alcune considerazioni e censure critiche. In effetti, la pronuncia in esame rappresenta certamente un novum di particolare interesse, meritando peculiare attenzione per una variegata serie di motivi. Il primo attiene al fondamento giuridico della responsabilità penale, posto che, nell’individuare i doveri gravanti sull’organo gestorio, la Corte – per così dire – relega qualsiasi rinvio alle sopra citate norme extrapenali, che concorrono a descrivere la posizione di garanzia degli amministratori, e sposa la teoria secondo la quale il fulcro dell’incriminazione risiede semplicemente nella mera assunzione della carica. In altre parole, nel percorso logico seguito dalla Cassazione, gli (asseriti meri) obblighi di vigilanza e di controllo (convertiti in veri e propri obblighi impeditivi) acquisterebbero completa operatività già al momento dell’accettazione dell’incarico, sicché – pur in assenza di un corrispondente approfondimento probatorio/argomentativo in merito all’effettiva titolarità di poteri d’intervento e, sebbene, difetti ogni indagine sulle concrete mansioni svolte dal soggetto nella realtà aziendale – l’amministratore assumerebbe il ruolo di “garante” della salvaguardia degli interessi protetti e, di conseguenza, risponderebbe anche dei risultati connessi al suo mancato attivarsi. Sono evidenti i profili di complessità di un simile ragionamento. Anzitutto un’eccessiva dilatazione della responsabilità per non impedimento, fondata sul solo criterio formale, senza che a ciò si accompagni una benché minima verifica del limite decisivo della garanzia esigibile da parte del soggetto coinvolto. In secondo luogo, un obbligo impeditivo avulso dalla “posizione fattuale di garanzia” del bene giuridico tutelato, ed ancorato ad un momento, quello di assunzione della carica, precedente rispetto alla reale configurazione, in capo all’amministratore, dei poteri idonei a scongiurare l’evento. Temi Romana Ciò non solo comporta un’aprioristica ed ingiustificata responsabilità “anomala” o di pura “posizione” a carico dell’organo di gestione, ma ancor di più equivale a legittimare un’estensione esagerata del sistema delle incriminazioni per omesso impedimento, violando – tra l’altro – il fondamentale criterio della corrispondenza, ai fini della costruzione della posizione di garanzia penalmente rilevante, tra poteri e doveri impeditivi. Le conseguenze di questa impostazione, emergono in tutta la loro stridente gravità ove solo si consideri che, nel caso sottoposto all’attenzione del supremo Collegio, il soggetto interessato è un semplice “prestanome” ovverosia un individuo generalmente estraneo alla gestione dell’azienda ed, in tal misura, tendenzialmente sprovvisto di quei requisiti necessari per essere considerato, anche solo astrattamente, titolare di un potere giuridico a contenuto impeditivo del comportamento criminoso da altri tenuto. Da qui le considerevoli difficoltà per ricondurre l’intera interpretazione offerta dalla Corte nell’alveo della responsabilità penale personale. In altri termini, continua a non comprendersi come il mero richiamo a dati normativi extrapenali possa, di per sé, ritenersi sufficiente per il sorgere di autonomi e distinti obblighi d’impedimento dell’evento lesivo, e ciò specialmente a seguito delle modifiche di cui alla riforma del diritto societario del 2003, che ha enormemente attenuato i poteri-doveri degli amministratori senza delega. Sembra superfluo rammentare, anzitutto, che anche ai fini della configurabilità del delitto colposo, il disposto normativo obbliga l’interprete ad accertare, oltre il ragionevole dubbio, se la condotta del soggetto agente presenti tutti gli elementi strutturali previsti dalla legge, secondo cui il delitto è colposo per violazione non voluta, e sia pure prevista, di regole a contenuto precauzionale scritte o non scritte/sociali. Va da sé che non possa parlarsi di colpa se non può essere mosso all’agente il rimprovero di avere trascurato le precauzioni cui era tenuto, o qualora, seppur in presenza di regole cautelari, l’evento non era prevedibile o evitabile dall’agente. Approfondendo l’indagine si evince che la Cassazione ha omesso la verifica sia dell’effettiva prevedibilità/evitabilità dell’evento, sia della sussistenza di obiet- 37 Saggi tive regole cautelari di condotta cui l’agente è tenuto all’automatica osservanza, finendo in tal modo per individuare il nucleo centrale dell’imputazione colposa a carico del prestanome, non nella violazione di predeterminati doveri imposti dalla normativa vigente, quanto, piuttosto, nella mera acquiescenza alla carica. Ragionando in tali termini, non pare azzardato sostenere che l’agente risponde dell’evento non voluto, indipendentemente da ogni indagine circa il suo atteggiamento psichico, nei confronti dell’evento medesimo, e ciò, sulla base della sola accettazione del ruolo di amministratore e dei doveri che la qualifica astrattamente comporta. Il che implica un giudizio d’inaccettabile astrattizzazione dei criteri d’imputazione per colpa, che prescindono da ogni profilo di concretizzazione del rimprovero rispetto all’evento hic et nunc verificatosi. Alla luce delle osservazioni svolte dalla dottrina, l’orientamento giurisprudenziale in esame sembrerebbe prestare il fianco ad un duplice ordine di censure. Anzitutto una così eccessiva dilatazione della funzione di garanzia conferita ai membri dell’organo di amministrazione – i quali, sembrano dover, sempre e comunque, rispondere penalmente del reato da altri commesso, a prescindere dalla loro effettiva partecipazione causale e soggettiva al fatto lesivo – pare il frutto di una contingente giustizia penale che opta per un sicuro e rapido verdetto di condanna, piuttosto che, assicurare la fedele applicazione dei principi propri di un sistema penale autenticamente garantito. D’altra parte, anche la motivazione offerta dai giudici nella sentenza in esame sottolinea l’esigenza di salvaguardare un maggior rigore in termini di configurabilità della posizione di garanzia dei soggetti obbligati, non potendo non stupire la scelta di considerare sic et simpliciter ascrivibile il reato di bancarotta semplice documentale al prestanome, sul mero rilievo della sua (presunta) consapevole acquisizione del ruolo gestorio. Proprio l’assunto dell’estraneità alla gestione dell’azienda dovrebbe di fatto comportare una più cogente verifica, idonea ad accertare la reale possibilità di intervento da parte del prestanome, il quale ben potrebbe risultare, nella singola vicenda concreta, del tutto sprovvisto di un concreto ed effettivo ‘margine di manovra’ ai fini dell’impedibilità dell’evento. _________________ 1 Cass. Pen., Sez. V, 4 maggio 2007, n. 23838 del 2007. 2 Ma che si qualifica come doveroso nell’ottica dell’indicazione normativa sulla modalità di gestione informata. 3 Agendo su una o più fasi del processo di 4 Oltre, ovviamente, alla questione della dimostrazione del dolo. realizzazione del reato. 5 Cass. Pen., Sez. V, 23 settembre 2009, n. 31885. 38 Temi Romana Saggi Colpevole!... al 50%. Ovvero quando le perizie danno i numeri Marco Zonaro Esperto in informatica forense e sistemi d'intercettazione, iscritto nell’Albo dei Periti del Tribunale Penale di Roma V cere, non lo farà ma sarà molto più facile che egli scommetta se gli dite che con la medesima probabilità ne può perdere 100 ma ne può vincere 250. La percentuale è ingannevole e viene utilizzata sovente per illudere, soprattutto all’interno di spot pubblicitari. Se vi dicessero di scegliere tra uno yogurt magro al 90% e uno grasso al 10% probabilmente scegliereste quello magro. Vorrei rifarmi alla nota barzelletta del tizio che pretendeva di portare con sé in aereo una bomba perché era nulla la probabilità che su un aereo potessero esserci due bombe per prendere in esame quanto asserito in un bollettino di una nota Carta di Credito che, in merito alla sicurezza delle transazioni in internet, asseriva che il 99% delle stesse andava a buon fine. Una percentuale di 99 su 100 dovrebbe rassicurarci assai sull’utilizzo di tale sistema di pagamento attraverso la rete Internet, ma se pensiamo che utilizzando la carta una volta alla settimana per un anno la probabilità che almeno una transazione abbia esito negativo è di circa il 41%, non c’è da stare allegri. Prendi un matematico statistico, mettilo con la testa in un forno e con i piedi in un congelatore e poi chiedigli: “come ti senti?” e ti risponderà: “mediamente bene!”. È una battuta che circola al pari di quelle su Architetti e Ingegneri, che si prendono in giro vicendevolmente, eppure rende l’idea di come coi numeri, ma soprattutto con le percentuali statistiche, non si debba scherzare, in particolar modo nelle aule di Giustizia. È sufficiente quindi la presenza di un nesso di causalità per poter esprimere un giudizio su un determinato evento? La sentenza Daubert (Corte Suprema degli Stati Uniti, 1993) nega questo assunto. L’ipotesi accusatoria sosteneva che un farmaco antidolorifico prodotto dalla casa farmaceutica Merrel provocasse malformazioni nel feto di donne che lo assumessero in stato di gravidanza. La perizia farmacologica individuò nessi di causalità tra alcuni principi attivi del farmaco e le malformazioni fetali e la Merrel venne condannata a risarcire la Parte Offesa. Successivamente la Difesa dimostrò che su 10.000 donne che avevano assunto il farma- olendo fare una valutazione nemmeno troppo spicciola, si può affermare che ben pochi sono i procedimenti penali di una certa rilevanza per i quali, in sede d’indagini, la Polizia Giudiziaria non abbia utilizzato tecnologie elettroniche o informatiche a scopo investigativo o non si sia affidata a qualche metodologia scientifica forense per la ricerca di prove o per l’analisi di evidenze probatorie. Le scienze forensi hanno subìto negli ultimi 15 anni una spinta accelerativa di notevole intensità, promossa innanzitutto dal progresso tecnologico e dagli investimenti sulla ricerca in campo informatico. Lo sviluppo di microprocessori sempre più veloci, di memorie sempre più capienti e più piccole, di metodologie d’analisi sempre più precise, ha consentito l’implementazione di potenti strumenti d’indagine a disposizione degli investigatori. Senza entrare nel merito delle singole branche della criminalistica e discutere in chiave critica queste metodologie che possono offrire ottimi risultati solo se correttamente impiegate, vorrei disaminare gli esiti che esse producono, o meglio, come tali risultati vengano proposti ed utilizzati in sede dibattimentale. Vi sono casi, infatti, in cui le conclusioni di una perizia non sono trancianti e producono più perplessità che benefici; il più delle volte ciò accade perché esse sono mal esposte o meglio mal interpretate. Non è difficile che nel corso dell’escussione di un Perito egli si senta rivolgere la classica domanda: “con che probabilità?”, ed è altrettanto facile che la risposta faccia più danni di uno tsunami se il Perito non ha ben chiaro il concetto statistico di “probabilità”. Questo termine è utilizzato con troppa facilità nelle aule di Giustizia, nella convinzione, errata, che l’indicazione di un valore percentuale possa sgombrare dubbi e risolvere quesiti. Purtroppo dietro al concetto di probabilità si nascondono un’infinità d’insidie e chi non conosce almeno i fondamenti della statistica non è in grado di coglierle e valutarle. È quasi sicuro che, se proponete a qualcuno di scommettere 100 Euro dandogli il 50% di probabilità di vin- Temi Romana 39 Saggi anonima appartenga all’imputato, il Perito se vorrà rispondere in tale termine dovrà farlo applicando le leggi della matematica e non inventando un numero sulla base di un proprio mero convincimento. Nel corso del convegno tenutosi a Roma e intitolato “Maresciallo mi sente?”, il Ten. Col. Davide Zavattaro del R.I.S. illustrò un’interessante disamina raccogliendo in tre grandi categorie i Periti che di volta in volta si avvicendano nelle aule di Giustizia. • Il Duro: secondo il quale esiste la certezza e la difende a tutti i costi nella consapevolezza di rivestire un ruolo di longa mano del Giudice e nell’inconsapevolezza (forse) di essere un pochino ignorante. • Il Diplomatico: tutto è possibile e negoziabile, l’unica certezza che ha è che quando piacerà a Dio egli ritornerà ad essere polvere, per il resto la certezza non è di questo mondo. • Lo Scientifico: quantifica la delimitazione del campo d’indeterminazione; se ti dico che il reperto A è compatibile con l’elemento B in comparazione, ti quantifico di quanto sono compatibili, ti dico qual è il margine d’errore che la metodologia introduce e ti dico anche qual è la possibilità che esistano altri elementi in comparazione che soddisfino quei requisiti di compatibilità. E questo è l’approccio più corretto. Chi mi conosce sa che sono un’amante degli esempi e quindi eccone uno: supponiamo che da un’analisi fonica per il riconoscimento della voce emerga che la voce anonima e quella dell’imputato presentino molteplici caratteri timbrici, prosodici, sociolinguistici e fonetici simili. Queste somiglianze sono accertate mediante un’analisi uditivo-percettiva e quindi senza ausilio di strumenti di misura. L’esperto mette a disposizione della Giustizia il proprio orecchio, affetto o meno da problemi o patologie che ne limitino le prestazioni. Come può, quindi, egli esprimere un giudizio in termini di percentuale di somiglianza se l’analisi compiuta fornisce solo “sensazioni” e non dati oggettivi? Poniamo ora che oltre all’esame uditivo-percettivo egli possa anche eseguire un analisi parametrica misurando il valore delle frequenze formanti dei foni vocalici. Una volta ottenuti questi “numeri” come farà il Perito a tradurli in un valore percentuale che soddisfi la richiesta del Giudice ovvero “con che probabilità le due voci appartengono allo stesso parlatore?”. Eh si, perché il Giudice con questa domanda vorrebbe sapere con quale probabilità l’imputato è colpevole, ma questa è una risposta che il Perito non può fornire. E allora come si fa? Concettualmente è piuttosto sempli- co in gravidanza l’incidenza delle malformazioni era inferiore alla media nazionale; in pratica il farmaco incriminato anziché provocare malformazioni, secondo la casistica utilizzata, sembrava avere un effetto protettivo. Nacque da ciò un dibattito accesissimo sulla valenza scientifica delle perizie tecniche che si risolse modificando i criteri per l’ammissione della prova scientifica in aula, ovvero essa doveva soddisfare alcuni precisi requisiti: • la verifica della metodologia utilizzata da parte di esperti riconosciuti; • la falsificabilità dell’esito della prova: se da A si deduce B, e se B è falso, allora è falso anche A. Se una teoria non possiede questa proprietà, è impossibile controllare la validità del suo contenuto informativo relativamente alla realtà che essa presume di descrivere; • la produzione di un error-rate: ovvero dev’essere stimato l’errore che il sistema può commettere nell’affermare quanto in esito dell’indagine; • la metodologia dev’essere accettata dalla comunità scientifica. Questo è quanto dovrebbe avvenire anche in ambito giudiziario italiano: il Giudice dovrebbe pretendere dal suo Perito il soddisfacimento di questi requisiti per poter produrre una relazione di perizia. Eppure sono ancora in molti i Periti che rispondono alla domanda: “con che probabilità?” fornendo numeri quasi a casaccio o in relazione ad una stima del tutto soggettiva ossia non suffragata da alcun elemento matematico. Fino alla metà del secolo scorso era radicata l’idea che la matematica fosse il paradigma della precisione e soprattutto dell’univocità dei risultati, nel senso che se veniva stabilita la verità di una proposizione essa non sarebbe mai stata messa in discussione. Da ciò nasceva il detto popolare “la matematica non è un’opinione”, per testimoniare appunto il fatto che in matematica non esistevano “punti di vista”, non potevano dunque esprimersi pareri tranne che su congetture o su risultati non provati. Ebbene, tralasciando le geometrie non euclidee e i paradossi sulle teorie degli insiemi, che in parte hanno scardinato questo assunto (per i nostri scopi è più che sufficiente l’utilizzo della matematica tradizionale), la matematica continua a non essere dipendente da convinzioni personali e quindi è necessario rispettarla nelle sue regole e nei suoi fondamenti. Se un Giudice chiede a un Perito che ha appena attribuito una voce anonima a quella dell’imputato, quale sia la percentuale di somiglianza o meglio quale sia la probabilità che la voce 40 Temi Romana Saggi ni? Come posso essere certo che non ne esista almeno uno la cui voce ha una percentuale di somiglianza con la voce anonima di un valore superiore all’80%, ad esempio l’82%? In quel caso il mio 80% diverrebbe una percentuale si alta, ma che mi scagiona. È necessario quindi avere a disposizione una popolazione di riferimento, ossia una casistica tale che mi permetta di definire la probabilità di “falsa identificazione”: l’espressione della possibilità che il test stia sbagliando nell’attribuzione di un termine anonimo ad uno noto. Attenzione quindi alle percentuali di probabilità che i Periti dichiarano nei loro elaborati o nel corso della loro escussione, ci si accerti che provengano da calcoli reali, con l’applicazione di teoremi accettati alla comunità scientifica e dimostrabili, al fine di evitare che una valutazione priva di pregnanza scientifica possa trasformarsi in una probabilità di colpevolezza, anche perché è più raro che si trasformi in una probabilità d’innocenza. ce; nel valutare due termini a confronto ne analizzo le peculiarità che li contraddistinguono. Se su 100 caratteri peculiari 80 sono simili, potrò sostenere che i due termini si assomigliano all’80%. È sufficiente ciò per poter dire che i due termini hanno la medesima origine? Ovvero che sono lo stesso elemento? Se fosse dimostrabile che esiste un solo elemento con quelle peculiarità allora quell’80% sarebbe individualizzante. La voce dell’anonimo assomiglia alla mia all’80%. Se io sono l’unico uomo su un pianeta abitato da sole donne allora io sono per forza identificabile nell’anonimo parlatore. Le cose si complicano un pochino se sullo stesso pianeta vivono 10 uomini. Quell’80% di somiglianza è ancora così individualizzante? Per poter rispondere dovrei esaminare la voce degli altri 9 uomini esistenti. Se dall’analisi emergesse che le loro voci assomigliano a quella dell’anonimo con percentuali inferiori all’80% allora ecco che mi ritroverei ad essere di nuovo colpevole. Ma se gli uomini sono 20 milio- Temi Romana 41 Osservatorio legislativo Ancora sulla colpa medica: il danno da nascita indesiderata Marina Binda Avvocato iscritto nell’Elenco Speciale Avvocati di un Ente pubblico, Foro di Roma “Bambini? Preferisco cominciarne cento che finirne uno…” (Paolina Bonaparte) I l danno da nascita indesiderata viene normalmente definito come il pregiudizio patito dal genitore, leso nel proprio diritto di scegliere se e quando avere figli. La figura affonda le radici nel diritto alla libera autodeterminazione delle scelte relative al bene-salute, con specifico riferimento al rapporto medico-paziente. Il diritto alla libera autodeterminazione, come è noto, è strettamente connesso all’obbligo di informazione gravante sul sanitario, il quale è tenuto a rendere notizie in maniera adeguata ed efficace al fine di ottenere dal paziente un consenso pieno, consapevole e certo. In tale prospettiva il diritto del paziente di essere informato è evidentemente correlato all’obbligo del medico di informare. Il dovere di informazione trova fondamento in diverse fonti di vario rango. Viene anzitutto in considerazione la Convenzione sui diritti umani e la biomedica, adottata dal Consiglio d’Europa il 19 novembre 1996, ancora non ratificata dall’Italia, secondo cui ogni intervento sulla persona può essere effettuato solo dopo aver ottenuto un consenso libero e informato. Viene poi in considerazione la legge 23 dicembre 1978, n. 833, recante l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, che, all’art. 33, dispone che gli accertamenti sanitari sono accompagnati da iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato. Viene altresì in considerazione la legge 22 maggio 1978 n. 194, che, all’art. 14, statuisce che in presenza di anomalie del nascituro il medico deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione. Viene infine in rilievo il codice deontologico, approvato dall’Ordine nazionale dei medici chirurghi, che impone la necessità di acquisire il consenso informato del paziente. Da tutte le disposizioni citate deriva, a tutta evidenza, che il medico è assolutamente obbligato a porre il paziente in condizione di valutare ogni rischio e ogni alternativa terapeutica. In concreto, in caso di omessa o inadeguata informazione del medico nei confronti del paziente il diritto alla salute e il diritto alla autodeterminazione possono venire in rilievo in due ipotesi. a) Il paziente non ha rilasciato il consenso e l’intervento, ritenuto imprescindibile dal medico, viene effettuato nel pieno rispetto delle regole d’arte. L’esito, peraltro, risulta infausto o infelice. Qui la colpa del medico è rinvenibile non nella tecnica utilizzata durante l’intervento (c.d. colpa da imperizia1), bensì nella mancata doverosa acquisizione del consenso del paziente2. Ditalché, nell’ipotesi considerata, risultano lesi sia il diritto alla salute sia il diritto all’autodeterminazione, ma la violazione di quest’ultimo diritto rende senz’altro risarcibile anche il primo. b) Il paziente non ha prestato il consenso, il medico ha operato secondo le migliori regole dell’arte e il risultato è fausto. Qui la colpa del medico non consiste nell’aver causato un danno alla salute, bensì nell’aver leso il diritto all’autodeterminazione del paziente, derivante dalla mancata prestazione del consenso. La giurisprudenza3, in ipotesi siffatte, ha ritenuto risarcibili le sofferenze derivanti dal fisiologico decorso dell’operazione che il paziente non si aspettava, in quanto non informato. Si tratta, per tale orientamento, di sofferente superiori – poiché inattese – a quelle che il paziente avrebbe provato ove fosse stato consapevole degli effetti dell’intervento. Il dovere di informazione in capo al sanitario nei confronti dei propri assistiti viene poi in rilievo nel caso in cui l’informazione costituisce proprio l’oggetto principale della prestazione medica: ci si riferisce alla controversa ipotesi di danno da nascita indesiderata. Tralasciando il caso di nascita indesiderata derivante da 42 Temi Romana Osservatorio legislativo quantomeno a livello psichico. Secondo un orientamento consolidato7, è irrilevante la circostanza che la madre, dopo la nascita del bambino non si sia ammalata, in quanto il giudizio sulla patologia e sulla pericolosità della salute deve essere valutato ex ante, con prognosi postuma, trascurando ciò che è effettivamente accaduto e immaginando cosa sarebbe piuttosto avvenuto se l’informazione fosse stata fornita. Nel solco di questo indirizzo giurisprudenziale è intervenuta una nota sentenza della Corte di Cassazione8 (Cass. Civ. 2 ottobre 2012, n. 16754), secondo cui l’omessa informazione delle malformazioni di cui è affetto il nascituro comporta la responsabilità per danni patrimoniali, consistenti nelle maggiori spese sopportate per le anomalie del bambino, nonché la responsabilità per danni non patrimoniali, consistenti nelle significative sofferenze e nello sconvolgimento della vita familiare. La sentenza si distingue per l’allargamento della platea dei soggetti legittimati ad ottenere il risarcimento del danno; oltre alla madre e al padre viene riconosciuta la titolarità del diritto ai fratelli del bambino e allo stesso soggetto nato con patologie non notiziate. La tesi suscita perplessità sia con riferimento alla risarcibilità del danno in favore dei fratelli che con riferimento alla risarcibilità in favore del bambino malformato. Per quanto riguarda la legittimazione dei fratelli, è innegabile che la nascita di un bimbo malato possa in concreto causare grave dolore, ma non si ritiene condivisibile che dalla sofferenza possa discendere, sic et simpliciter, un automatico diritto al risarcimento. Al riguardo non ci si può esimere dal rilevare che la nascita di un bimbo malformato non provoca ai fratelli sofferenze necessariamente maggiori di quelle provate da altri soggetti particolarmente legati alla famiglia: si pensi, ad es., ad una “tata” affezionata, alla migliore amica della madre, ai nonni, ad un parente convivente, ad un compagno di uno dei familiari, e così via. Tutte le persone esemplificamente elencate possono in concreto soffrire dolori indicibili per la nascita di un bimbo malformato sino ad ammalarsi, in ipotesi, a seguito di tale evento. Sicché l’allargamento dei destinatari del risarcimento va operato con prudente cautela, tenendo conto di criteri diversi rispetto a quello della semplice sofferenza. Al riguardo, va chiarito che il dovere di informazione errata esecuzione degli esami prenatali, ove si verifica una tipica colpa da imperizia, è opportuno soffermarsi sul caso di impropria o mancata informazione del corretto significato degli esami stessi, ove ricorre, invece, un’ipotesi di colpa da negligenza. Sussiste nell’ordinamento giuridico un diritto generalizzato ad abortire? È noto che la legge n. 194/1978 sottopone l’interruzione volontaria di gravidanza a determinate condizioni. Prima del terzo mese, a partire dall’inizio del concepimento, l’interruzione della gravidanza è possibile purché la donna deduca che la prosecuzione della gestazione comporterebbe un serio pericolo per la propria salute, fisica o psichica. In questo caso l’interruzione della gravidanza viene considerato quasi un atto dovuto, volto a scongiurare un danno temuto per la gestante, inteso dalla giurisprudenza anche in senso molto lato4 come afferente al benessere anche solo mentale della donna. I giudici di legittimità e di merito5, invero, hanno sempre mostrato un atteggiamento volto ad indebolire significativamente l’onere probatorio in capo alla donna, richiedendo la mera allegazione della anomalia del feto e ritenendo che sia normale, naturale, che dalla nascita di un bimbo malformato derivi un serio danno alla salute della madre. Dopo il novantesimo giorno dal concepimento, la legge n. 194/1978 preclude l’aborto salvo che sussista: a) un grave pericolo per la madre; b) una malattia in atto del concepito che esponga la salute della madre ad un pericolo anch’esso grave. Il caso sub. a) non reca particolari problemi, in quanto la legge predilige sempre la preservazione della vita della madre rispetto a quella del nascituro. Nel secondo caso, invece, la norma richiede non solo la malformazione in atto del feto, ma anche che la gestante corra un grave pericolo per la salute. Ciò significa che, al fine di accertare la responsabilità del medico, occorrerebbe non solo dimostrare la patologia del feto, ma anche dimostrare che la madre, ove informata, avrebbe corso un grave pericolo di ammalarsi. Tale rigoroso onere probatorio, tuttavia, viene nella pratica alleggerito facendo ricorso alla prova presuntiva: la giurisprudenza6 ritiene scontato che, laddove la madre fosse stata informata della malformazione, ella avrebbe corso il rischio di ammalarsi gravemente, Temi Romana 43 Osservatorio legislativo nesso causale. Al riguardo è necessario chiedersi: qual è il collegamento finalistico tra la condotta del medico ed i relativi effetti nei confronti del soggetto nato malformato? A ben vedere, il dovere di informazione che incombe in capo al medico rileva unicamente nei confronti della gestante (e, in determinate condizioni, nei confronti del padre) giammai nei confronti del nascituro, in quanto, proprio perché privo di soggettività giuridica, non può essere considerato destinatario di notizia alcuna circa lo stato della propria salute. Per le ragioni esposte si ritiene che l’allargamento della titolarità del diritto al risarcimento del danno in caso di danno da nascita indesiderata – e, in generale, in tutti i casi di responsabilità – sia operazione ermeneutica non scevra da possibili criticità. Al riguardo, va dato conto di un recente orientamento della Corte di Cassazione13 che segna un deciso revirement rispetto all’anteriore orientamento giurisprudenziale, in tema di danno da nascita indesiderata. Qui i giudici di legittimità pongono in dubbio la pregressa affermazione giurisprudenziale secondo cui la gestante, se informata delle anomalie del feto, si sarebbe senz’altro avvalsa della facoltà di abortire concessale dalla legge, fondando tale ragionamento presuntivo anche sul solo elemento della malformazione del bambino. Secondo la Cassazione, in particolare, l’accertamento del nesso causale tra omessa informazione e nascita indesiderata – e perciò dannosa – va affrontato facendo ricorso alle regole generali. Ne deriva che: l’onere di provare che, in caso di corretta informazione, sussistevano le condizioni per procedere all’aborto grava sulla gestante e non sul medico; non può essere sufficiente, al fine del raggiungimento della prova, la mera circostanza che la donna avesse richiesto di venir sottoposta a esami diagnostici prenatali. Viene richiesto, all’opposto, un indice univoco della volontà di abortire, da valutarsi tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, venendo in rilievo ad es. la condotta della madre, le credenze religiose, le convinzioni etiche, il livello culturale, eccetera. E con ciò la Cassazione mostra di aver tenuto in debito conto la constatazione di Calamandrei secondo cui il giudice spesso propende inconsciamente ad accorrere in soccorso del soggetto ritenuto più debole, pur se questi ha torto14. da parte del medico sulle condizioni di salute del nascituro è indirizzato anzitutto verso la madre, con la quale esiste un vero e proprio rapporto contrattuale avente ad oggetto l’assistenza medica in corso di gravidanza. Analogo dovere di informazione, peraltro, normalmente ricorre nei confronti del padre9, il quale, pur essendo estraneo al rapporto medico-gestante, è titolare del diritto all’informazione nascente dal contratto tra quelli concluso, in quanto è indiscutibilmente legato ad una delle parti contrattuali da una relazione socialmente significativa10. I fratelli del nascituro, all’opposto, non sono destinatari delle informazioni su eventuali anomalie del feto, pur se, in concreto, è possibile che tali anomalie rechino sofferenze, anche notevoli, nella loro vita. Inoltre, ai fratelli la legge non riconosce alcun potere di pianificazione della famiglia: solo ai coniugi il codice civile attribuisce il potere di indirizzo della vita familiare. Di conseguenza, non si ritiene che ai fratelli del nascituro possa essere attribuito, in via ermeneutica, alcun diritto all’interruzione della gravidanza della loro madre, non trovando tale diritto fondamento nella legge. Quanto alla titolarità del diritto al risarcimento in capo al bimbo nato malformato, si rappresenta quanto segue. La citata sentenza della Corte di Cassazione, partendo dal rilievo secondo cui la capacità giuridica si acquista con la nascita in quanto prima di tal momento il concepito è privo di soggettività, fa inverare l’effetto che il bimbo subisce un pregiudizio dal fatto stesso di nascere, una sorta di danno in sé, scaturente dalla semplice venuta in vita della persona malformata. Il danno derivante dalla venuta al mondo del bambino malformato non sarebbe occorso, secondo la sentenza in commento, se la madre fosse stata informata ed avesse esercitato correttamente il proprio diritto di abortire. A prescindere da ogni considerazione di tipo ideologico, qui assolutamente ultronea11, va rilevato che l’ordinamento giuridico non attribuisce all’individuo un diritto alla felicità, una pretesa ad una vita serena e senza affanni, la cui lesione risulti passibile di risarcimento12. È del tutto opinabile, peraltro, che per il soggetto malformato la nascita costituisca un danno, e che per lui sarebbe stata più vantaggiosa la “non nascita”. A ciò si aggiunga che il ragionamento del giudicante porta ad un utilizzo improprio dello strumento del 44 Temi Romana Osservatorio legislativo 1 Per imperizia medica si intende normalmente l’assenza di zelo e precisione nell’applicazione delle regole d’arte e operative e nell’utilizzo delle tecniche condivise dalla comunità scientifica. 2 La giurisprudenza discute se in questo caso l’elemento soggettivo qualificante l’illecito è identificabile come colpa o come dolo; la tesi prevalente rinviene un caso di colpa (Ex multis: Cass. Civ., 10 maggio 2002, n. 6735). 3 Ex multis: Cass. Civ., 9 febbraio 2010, n. 2847. 4 Viene invero utilizzata l’espressione “aborto terapeutico” anche con riferimento a possibili malattie psichiche della donna. Ex multis: Cass. Civ., 29 luglio 2004, n. 14488. 5 Ex multis: Cass. Civ., 2 febbraio 2010, n. 2354 6 Ex multis: Cass. Civ., 4 gennaio 2010, n. 13. 7 Cass. Civ., 10 maggio 2002, n. 6735; Cass. Civ., 29 luglio 2008, n. 14488. 8 Cass. Civ., 2 ottobre 2012, n. 16754. In Temi Romana dottrina a commento cfr. M. ROSSETTI, La responsabilità del medico, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, Treccani, 2013. 9 La giurisprudenza, in casi siffatti, fa riferimento alla figura del “contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo” ove il terzo ha diritto alla protezione del contratto stipulato da altri, distinguendo tale istituto da quello del “contratto a favore di terzo” ove il terzo ha diritto non alla semplice protezione bensì alla prestazione oggetto del contratto stipulato da altri. 10 Tale dovere, peraltro, si atteggia diversamente a seconda delle circostanze concrete: è evidente che l’adempimento dell’obbligo di informazione comporta che il medico sia tenuto a fornire ogni notizia riguardante la salute del nascituro ad un padre assiduamente presente ai controlli, ma tale adempimento non può di certo comportare che il medico ricerchi affannosamente un padre mai partecipe alle visite (anche per impedi- 45 menti oggettivi), al fine di renderlo edotto sullo stato di salute del feto. 11 Al riguardo, la Corte di Cassazione (Cass. Civ. 2013 n. 7269 cit.) ha rilevato che la questione deve essere affrontata e risolta “all’infuori degli schematismi di soluzioni fortemente condizionate da implicazioni emotive e da opzioni ideologiche”, che siano opzioni che patrocinano il diritto di abortire in modo libero e consapevole, o che siano opzioni che aderiscono all’idea secondo cui “ogni bambino che nasce porta la notizia che Dio non è ancora stanco degli uomini” (Tagore). 12 In tale senso si vedano le esemplari statuizioni della nota sentenza di San Martino delle Sezioni Unite: 11 novembre 2008, n. 26972. 13 Cass. Civ., 22 marzo 2013, n. 7269. 14 Le opinioni e i giudizi contenuti nel presente lavoro sono espressi a titolo personale e non sono in alcun modo riferibili all’Ente di appartenenza. Osservatorio legislativo I modelli di organizzazione e controllo ex D.Lgs. n. 231 del 2001 nella prospettiva di un magistrato della pubblica accusa Pierluigi Cipolla Magistrato 1. La centralità dei modelli di organizzazione e controllo nel “sistema 231” È indubbio che i modelli di organizzazione e controllo costituiscano il “fulcro” della riforma epocale introdotta dal D.Lgs. n. 231 del 2001 . Non solo perché essi sono richiamati da molteplici norme del testo normativo in esame, e perché dalla loro adozione ed efficace attuazione dipende l’affrancamento dalla responsabilità amministrativa degli enti collettivi ivi prevista (si verte in una sorta di scusante positivizzata, secondo alcuni1, ovvero, secondo altri, in una causa di non punibilità2), ma soprattutto perché la loro mancata o inefficace attuazione costituisce l’essenza di quella “colpa di organizzazione” che si pone alla base dell’illecito parapenale di cui si discute. Se infatti la ratio della innovativa disciplina del 2001 consiste nella volontà di perseguire gli enti che non hanno impedito ai cd vertici (art. 6 D.Lgs. n. 231 del 2001) e ai sottoposti (art. 7 D.Lgs. n. 231 del 2001) la perpetrazione di reati nell’interesse o a vantaggio degli enti stessi, l’addebito di fondo nei confronti della persona giuridica consiste nel non aver adottato efficaci misure di contenimento del cd rischio di reato, nell’aver omesso di adeguare la struttura dell’impresa in modo da neutralizzare le condotte illegali, nell’aver conservato e perpetuato un deficit organizzativo, il che si traduce in una vera e propria “colpa” di organizzazione. Di converso, i “modelli comportamentali” calibrati sul rischio di reato di cui parla la legge a più riprese costituiscono quella “virtuosa” organizzazione la cui messa in atto è idonea a impedire o attenuare l’impatto delle (talvolta temibili) sanzioni amministrative sulla vita dell’ente, esattamente come nel diritto penale degli umani il rispetto delle cautele prevenzionistiche esclude in radice la colpa delle persone fisiche. Si giunge a questa conclusione sulla base della relazione ministeriale (pag. 9) e alla luce della rilevanza attribuita ai programmi de quibus dal testo normativo citato, laddove non solo l’attuazione dei modelli in fase antecedente alla commissione del reato-presupposto (in una con l’avverarsi di altre condizioni, se il reato base è riferibile ad un “vertice”: art. 6 D.Lgs. n. 231 del 2001) comporta l’esenzione della responsabilità dell’ente, ma anche la messa in atto ex post implica molti benefici: la sospensione e la revoca di misure cautelari (art. 49 D.Lgs. n. 231 del 2001), la reductio della sanzione pecuniaria (art. 12 D.Lgs. n. 231 del 2001), l’inapplicabilità delle formidabili sanzioni interdittive (art. 17 D.Lgs. n. 231 del 2001), la conversione di sanzioni interdittive in sanzioni pecuniarie in executivis (art. 78 D.Lgs. n. 231 del 2001). Proprio il rilievo processuale e sostanziale dato alla collaborazione dell’ente (anche postdelictum) mediante l’adozione di compliance programs evidenzia la finalità di fondo della riforma: provocare un rinnovamento ab interno dell’ente in prospettiva legalistica, la trasformazione dell’humus che ha consentito la commissione del reato, il recepimento di una nuova etica di impresa, dato che gli strumenti di contrasto ai white e blue collars crimes finora applicati (il controllo amministrativo ab externo e la repressione penale dei singoli) non hanno funzionato. 2. Modelli reali e modelli cartolari Proprio l’esigenza di effettiva prevenzione [oltre che la lettera della legge, che agli artt. 6 comma 1 lettera a), e 7 comma 2 D.Lgs. n. 231 del 2001 parla di “efficace attuazione”] e non tanto la volontà persecutoria dei pubblici ministeri impone di valutare se gli adempimenti siano effettivi oppure “cartolari” id est apparenti o fittizi. Su questo vi è una concordia generalizzata in 46 Temi Romana Osservatorio legislativo reato-base5 a prescindere dalla conformità rispetto alle “linee guida”, il che potrà rilevare, al limite, come presunzione semplice pro reo. Tale incertezza di fondo, fin dal 2001 ha legittimato chiunque a formulare opinioni sulla forma, la struttura, il contenuto e i requisiti di efficienza dei programmi di organizzazione e controllo di cui si discute e il sottoscritto si inserisce alla schiera. Quanto alla forma, si opina che il modello debba essere deliberato dall’assemblea e iscritto nello statuto societario, ed in effetti questa conclusione è corroborata da un argomento di diritto positivo6. Quanto alla struttura, vi sono coloro che propongono una tipologia “leggera”, con specificazioni nei singoli settori7, tuttavia non si vede come tale struttura leggera possa essere compatibile con imprese di grandi dimensioni. Il problema maggiore riguarda tuttavia i contenuti, dato che chi si è cimentato ha fatto ricorso alla fantasia oppure ha mutuato indicazioni utili dalle vicende giudiziarie. Chi scrive ritiene che occorra comunque partire dalla legge (soprattutto dalla sua ratio) e solo in un secondo momento desumere qualcosa dalle sentenze, se non altro al fine di non prestare il destro a chi censura l’ennesimo caso di diritto giurisprudenziale. Orbene, la legge è chiara nel distinguere la disciplina a seconda che il reato presupposto sia posto in essere dai vertici (art. 6 D.Lgs. n. 231 del 2001) ovvero dai sottoposti (art. 7 D.Lgs. n. 231 del 2001). Nel primo caso non è sufficiente che l’ente abbia adottato ed efficacemente attuato un compliance program, ma occorre che il reato sia stato possibile da una elusione fraudolenta dei modelli e dei controlli. Se si aderisce alla tesi che individua nell’elusione fraudolenta dei modelli un aggiramento del sistema mediante eccezionale abilità e astuzia – come sostiene dottrina autorevole8, e come si legge anche nelle linee guida per la costruzione di Modelli di organizzazione, gestione e controllo della Associazione bancaria italiana, del 20049 – ne deriva che il sistema prevenzionistico, per poter produrre i suoi effetti giuridici, dovrà essere alquanto complesso e sofisticato, a prova di resistere alla calliditas dei suoi stessi artefici: un livello ordinario di cautela sarebbe soggetto a facile e non fraudolenta elusione! Invero costituirebbe “colpa” dell’Ente anche il mancato impedimento (possibile) della con- dottrina e giurisprudenza. D’altra parte è la legge stessa a subordinare l’esonero da responsabilità non solo all’adozione di un Modello di organizzazione idoneo a contenerne il rischio reato, ma anche alla presenza di misure/controlli/interventi idonei a prevenire e impedire condotte di violazione e aggiramento delle regole da parte di coloro che hanno maggiore interesse a commettere reati nell’interesse e a vantaggio dell’Ente. Di converso, se lo scopo dell’ordinamento giuridico è quello contenere il rischio di reato mediante il concorso dell’ente, un niveau di diligenza eccessivamente alto indurrebbe l’ente stesso ad accettare il rischio di una condanna, piuttosto che innescare un meccanismo di riorganizzazione di sicura onerosità (in termini pecuniari) e incerta efficacia salvifica. Il principio di realtà e non il bieco cinismo insegna che lo scopo naturale dell’impresa commerciale è il profitto3; all’uopo la possibilità di subire sanzioni per comportamenti economicamente produttivi ma giuridicamente illeciti rientra tra i rischi di impresa: se il beneficio “possibilità di affrancamento da responsabilità parapenale” implica oneri esorbitanti preferirà non fare nulla, ossia assumersi il rischio di reato, e ciò tanto più in quanto quel beneficio appaia remoto o soltanto ipotetico. La necessità di trovare un giusto mezzo tra una concezione “lassista” e una visione “puritana” dei modelli di organizzazione e controllo si complica poiché sia il legislatore delegante sia il governo si sono astenuti dal fornire indicazioni realmente concrete oltre che cogenti in materia: sul punto esiste un indubbio deficit di determinatezza. Nonostante lo spazio attribuito dalla legge alla macchinosa procedura ministeriale di “pubblicazione” di codici di comportamento elaborati dalle associazioni di categoria4, la mancata formulazione di rilievi da parte del ministro della Giustizia non potrà avere significato di lasciapassare dirimente: 1) nessuna disposizione di legge attribuisce al silenzio il valore di assenso; 2) la procedura riguarda, a rigori, i codici di comportamento generali, le c.d. linee guida, che devono essere calate nelle singole situazioni aziendali; 3) la legge stessa dispone in più punti che solo l’aver efficacemente attuato i modelli produce efficacia salvifica. Dunque all’autorità giudiziaria in fase di accertamento dell’illecito è rimesso il vaglio sulla concreta idoneità dei programmi adottati prima o dopo la perpetrazione del Temi Romana 47 Osservatorio legislativo dotta illecita di coloro che al massimo grado esprimono la voluntas societatis ossia esprimono e rappresentano la politica dell’Ente medesimo e che quindi, possono, meglio di altri, aggirarne le regole. Tale livello di complessità evidentemente non è richiesto né per i modelli adottati al fine di impedire i reati di dipendenti, né per i modelli postdelictum, per i quali, tuttavia, sono ravvisabili ulteriori requisiti. È possibile quindi immaginare tre tipologie diverse di modelli di organizzazione e gestione, con tre differenti standard di diligenza. risorse extracontabili. Nel caso in cui il commercio di merce con marchi contraffatti sia stato favorito dalla mancanza di controlli sulla scelta dei fornitori, sarà d’uopo introdurre sistemi di verifica preventiva e successiva dei partner economici e della provenienza della merce da questi commercializzati. Dato che il reato generalmente viene consumato con il favore delle tenebre del segreto, della arbitrarietà e monocraticità delle decisioni, potranno essere immessi opportuni antidoti quali la trasparenza delle operazioni, il principio della collegialità delle decisioni, la rotazione delle funzioni, l’immodificabilità periodica dei dati contabili, la separazione tra le funzioni di chi decide, chi esegue e chi controlla. Inutile aggiungere che molta importanza dovrà essere attribuita inoltre alla formazione periodica dei dipendenti e alla introduzione di un sistema disciplinare. 3. I Modelli postdelictum Se lo scopo del “sistema 231” consiste nel provocare un mutamento della cultura di impresa, nel senso dell’avvicinamento a livelli accettabili di legalità, occorre che il programma di organizzazione e controllo sia non un abito calato a forza e dall’alto sull’impresa commerciale, bensì un quotidiano, ordinario e dinamico atteggiarsi della vita aziendale in modo conforme alla legalità preventiva. Ciò impone, per quanto attiene ai modelli elaborati postdelictum, che si tenga conto nel concreto della situazione che ha favorito la commissione dell’illecito, e che si eliminino le specifiche carenze organizzative grazie alle quali il reato ha potuto essere ideato e realizzato. Il che presuppone: 1) una compiuta indagine “sul campo” delle aree di rischio connesse all’evento già verificatosi; 2) la rappresentazione di tutti i reati potenzialmente ancora perpetrabili nel contesto operativo e nei momenti di vita dell’ente viziati dai fattori di pericolo. Cessata siffatta fase istruttoria (la c.d. mappatura del rischio di reato) seguirà la procedimentalizzazione delle attività a rischio, ossia la previsione di regole idonee a impedire il ripetersi del reato, forgiate in una direttrice diretta e contraria rispetto alla spinta criminale. Ad es., nel caso in cui il reato di corruzione sia stato favorito dalla procedura di appalto a trattativa privata, occorrerà inibire tale procedimento ovvero individuare meccanismi controllabili di presentazione delle offerte. Nel caso in cui il reato di corruzione sia stato agevolato dalla facilità nel creare fondi occulti, sarà necessario adeguare la gestione della contabilità, ad es. introducendo controlli incrociati sulle fatturazioni, sulle movimentazioni pecuniarie, sulle consulenze a terzi, ossia su tutte quelle condotte che secondo la prassi consentono l’accantonamento di 4. Modelli antedelictum La mancanza di “precedenti” rende ben più ardua l’elaborazione di un modello di organizzazione e controllo antecedente alla commissione del reato realmente idoneo a esonerare da responsabilità (c.d. modello ex ante): l’assenza di un precedente specifico rischia di rendere la mappatura dei rischi generica e incompleta. Tuttavia a più di dieci anni dalla entrata in vigore è legittimo far tesoro delle vicende processuali e procedere per così dire per analogia; in tal caso l’esperienza delle aule giudiziarie è insostituibile. Pertanto, traendo spunto dalle più rilevanti pronunce di merito in materia, anche per la elaborazione di modelli ex ante occorrerà identificare le aree in cui si possono verificare fatti criminosi, mediante una indagine sur-lechamp; sarà poi necessario individuare i comportamenti anomali indicativi di intenti illeciti (o della volontà di occultamento di condotte illecite) ed adottare le necessarie contromisure, di natura persuasiva (in primis sistemi premiali conseguenti al raggiungimento di obiettivi economici nel rispetto della legalità; incentivi connessi alla segnalazione di condotte anomale) e di natura dissuasiva (sistema di informazione e comunicazione mediante “visti”; codici di comportamento sia all’interno sia nei rapporti di affari; individuazione di un codice etico che autorizzi tutti a riferire comportamenti anomali altrui; separazione tra chi decide, chi attua e chi controlla: c.d. segregazione delle funzioni). 48 Temi Romana Osservatorio legislativo base familiare e da una industria multinazionale. Più di tante parole, tuttavia sarà utile una metafora per comprendere il discrimen tra il modello “di facciata” e il compliance program realmente indicativo di un mutamento della cultura di impresa in senso legalistico: potrà definirsi idoneo perché specifico e dinamico il programma di organizzazione che mutui dalle api lo stesso sistema di controllo reciproco e “dal basso” che connota l’alveare, dove il rispetto delle regole da parte di tutti non ostacola anzi favorisce il successo dell’impresa proprio perché il controllo reciproco isola i disonesti, galvanizza il lavoro degli onesti e quindi ne provoca il successo. È evidente, comunque, che il problema di fondo del “sistema 231” consiste nella sua non convinta accettazione da parte dei destinatari, che continuano a vedere nei modelli di organizzazione e controllo – al più – un ulteriore fardello imposto dalla legge e non, come il legislatore del volgere del millennio auspicava, un segno concreto della rigenerazione della cultura di impresa. Eppure, per provocare un mutamento di passo, basterebbe far leva sul quid pluris simbolico – connesso al contenuto etico – che i compliance programs portano con sé valorizzandone il potenziale economico. Scrive Garapon a proposito di un argomento viciniore, il rispetto dei diritti umani da parte delle imprese commerciali nell’era della globalizzazione: “i diritti umani … saranno trattati come rischi e forse anche come un vantaggio competitivo …. Una grande impresa vorrà presentarsi come la più rispettosa dei diritti umani per farne argomento di pubblicità per le vendite. Non si moralizzerà il capitalismo, dunque, facendo appello a un improbabile senso etico dell’impresa, bensì facendo integrare nel mercato i dati sociali e ambientali”12. Il tutto andrà corroborato da un efficiente sistema interno di supervisione, che dovrà assommarsi al controllo riferibile all’organo di vigilanza, la cui essenzialità è talmente palese da non richiedere neanche una parola: si tratta del “custode” del modello, nello stesso senso in cui la Corte costituzionale è il custode della Carta fondamentale. Anche per i modelli preventivi rileverà quanto detto a proposito della adeguata formazione del personale e dell’effettivo modello disciplinare10. 5. Rilievi conclusivi Da quanto sommariamente esposto si evincono le tre qualità fondamentali del modello organizzativo “efficace”: specificità, dinamicità, procedimentalizzazione, laddove la prima viene meno in programmi passivamente recettizi delle disposizioni penali e delle c.d. Linee guida, privi di indicazioni di illeciti e sanzioni, carenti di protocolli di lavoro tesi a neutralizzare i rischi; la seconda si eclissa quando non siano previsti revisioni periodiche, un sistema di informazione e formazione del personale e una struttura di monitoraggio interno; la terza svanisce quando non siano contemplate procedure di ricerca e identificazione di rischi di reato al cospetto di situazioni particolari, codici di autoregolamentazione con riguardo a attività a rischio, obblighi informativi periodici degli amministratori e dei dirigenti in merito a violazioni del modelli, sistemi di controllo di routine o periodico a sorpresa11. Parlando in generale, non è possibile dire oltre. Ogni rischio di reato, infatti, ha la sua particolarità e quindi reclama specifiche contromisure. Del pari, molto dovrà variare a seconda della dimensione dell’impresa: non si potrà pretendere lo stesso dispendio di energie da una impresa a _________________ 1 Cfr. C.E. PALIERO, La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento italiano: profili sistematici, in Societas puniri potest, in AA.VV., La responsabilità da reato degli enti collettivi, a cura di F. PALAZZO, Padova, CEDAM, 2003 p. 29; DESIMONE, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti. La parte generale e la parte spe- Temi Romana ciale del D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231, in AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, a cura di G. GARUTI, Padova, CEDAM, 2002, p. 107; C. PIERGALLINI, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. GIARDA - S. SEMINARA, Padova, CEDAM, 2002, p. 76. 49 2 Cfr. D. PULITANÒ, La responsabilità da reato degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 429 ss.; G. COCCO, L’illecito degli enti dipendente da reato e il ruolo dei Modelli di prevenzione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p. 97 ss. 3 Cfr. A. GARAPON, Lo Stato minimo, il neoliberalismo e la giustizia, Milano, Raffaello Osservatorio legislativo Cortina Editore, 2012, p. 146: “L’impresa – come ricordava crudamente Milton Friedman – è sottoposta ad un’unica responsabilità, quella di arricchirsi. Essa non è né a favore né contro i diritti dell’uomo: essa è indifferente verso gli stessi. Se è necessario rispettare i diritti dell’uomo per arricchirsi, lo farà; se non è necessario, se ne asterrà”. 4 Art. 6 comma 3 D.Lgs. n. 231 del 2001 5 In questo senso, M. BARBUTO, Responsabilità amministrativa della società per reati commessi a suo vantaggio, in Impresa c.i., 2001, n. 6, p. 935; G. BUSSON, Il commento ai codici di comportamento delle associazioni rappresentative degli enti, in AA.VV., Societas puniri potest, la responsabilità da reato degli enti collettivi, Atti del convegno di Firenze, marzo 2002, Padova, CEDAM, 2003, p. 408; G. LANCELLOTTI, I modelli organizzativi e gestio- nali dell’ente, contenuto e rilevanza, in AA.VV., La responsabilità dell’impresa per i fatti di reato, a cura di A. FIORELLA G. LANCELLOTTI, Torino, Giappichelli, 2004, p. 118; R. RORDORF, La normativa sui modelli di organizzazione dell’ ente, in AA.VV., Responsabilità degli enti per reati commessi nel loro interesse, Atti del convegno di Roma, nov.-dic. 2001, in Cass pen., 2003, suppl. al n. 6, p. 89; G. PAOLOZZI, Vademecum per gli enti sotto processo, Torino, Giappichelli, 2006, p. 69; contra DE VERO, La responsabilità dell’ ente collettivo dipendente da reato, criteri di imputazione e qualificazione giuridica, in AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi da reato, Padova, CEDAM, 2002, p. 27. vità economiche, Bologna, il Mulino, 2010, p. 225. 8 Cfr. G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, Giuffrè, 2008, p. 185; E. AMODIO, Prevenzione del rischio penale di impresa e Modelli integrati di responsabilità degli enti, in Cass. pen., 2005, p. 320. 9 “L’elusione fraudolenta […] presuppone la messa in opera di un artificio, di una forzatura precipuamente e artatamente volta alla elusione del precetto”. 10 Sul punto, ex plurimis, Trib. Milano, 20 settembre 2004, in PAOLOZZI, Vademecum, cit., cd allegato, p. 862 ss. 6 Art. 5 D.M. 26 giugno 2003 n. 201. 11 Su alcune di queste indicazioni: Trib. Roma 4 aprile 2003, in PAOLOZZI, Vademecum, cit., cd allegato, p. 805. 7 Cfr. A. ALESSANDRI, Diritto penale e atti- 12 Cfr. GARAPON, Lo Stato, cit., p. 147. 50 Temi Romana Note a sentenza Concordato con riserva e licenziamento Tribunale di Roma 1 Agosto 2014 Pres. Russo, Est. Di Salvo Antonio Caiafa Avvocato del Foro di Roma - Professore di Diritto Fallimentare Università L.U.M. “Jean Monnet” di Bari OMISSIS - vista l’istanza con la quale la Merimar s.a.s. di Cesare Menasci e C. ha chiesto di essere autorizzata a risolvere i rapporti in essere con i propri dipendenti ed avviare la procedura di licenziamento collettivo di tutti i dipendenti al fine di ridurre i costi aziendali connessi al personale dipendente e di essere autorizzata a nominare un professionista per essere assistita durante la procedura di licenziamento nella gestione delle relazioni con le rappresentanze sindacali e in ogni adempimento conseguente per un compendo predeterminato; - rilevato che detta società con ricorso depositato il 24.4.2014 ha chiesto l’ammissione al concordato preventivo cosiddetto “prenotativo” ai sensi dell’art. 161 co. 6 l.f. e che il Tribunale con decreto in data 23.5.2014 ha concesso termine fino al 16.9.2014 per il deposito della proposta e del piano ammessa alla procedura nominando il commissario giudiziale; - che l’istanza di autorizzazione allo scioglimento dei contratti di lavoro è intervenuta in una fase in cui comunque la società proponente ha definito nelle sue linee essenziali i contenuti della proposta e del piano di concordato prospettando un concordato liquidatorio con la cessione dei beni ai creditori; - considerato che effettivamente l’art. 169 bis l.f. attribuisce al Tribunale la facoltà di autorizzare il debitore ricorrente a sciogliersi dai contratti in corso alla data di presentazione del ricorso ovvero a sospendere gli effetti di tali contratti nella fase che precede la ammissione al concordato preventivo; - considerato, tuttavia, che l’ultimo comma di tale disposizione stabilisce espressamente che “le disposizioni di questo articolo non si applicano ai rapporti di lavoro subordinato”; - ritenuto, dunque, che tale disposizione non possa essere invocata in un caso come quello in esame poiché dall’ambito applicativo della disciplina dettata dai primi tre commi sono espressamente esclusi proprio i Temi Romana contratti oggetto dell’istanza, e ciò esime da ogni valutazione sia in ordine alla funzionalità della richiesta rispetto all’interesse del ceto creditorio e sia in ordine alle ragioni di urgenza; - ritenuto, dunque, che i contratti di lavoro e i relativi rapporti proseguono nel corso della procedura per concordato preventivo sicché la società proponente non può essere autorizzata a determinarne lo scioglimento; visto il parere negativo espresso dal commissario giudiziario reso in data 1.8.2014; - ritenuto, pertanto, che alla luce di tali considerazioni l’istanza non può trovare accoglimento; P.Q.M. rigetta integralmente l’istanza depositata il 28.7.2014. *** Seppur il debitore proponente ha definito i contenuti della proposta prospettando un concordato liquidatorio, con la cessione dei beni ai creditori, tuttavia non può essere autorizzato, ai sensi dell’art. 169 bis l.f., dal Tribunale la risoluzione dei rapporti di lavoro, atteso che l’ultimo comma di tale disposizione ne esclude la applicazione ad essi, sì da rendere superflua ogni valutazione in ordine alla funzionalità della richiesta rispetto all’interesse del ceto creditorio. I contratti di lavoro ed i relativi rapporti proseguono nel corso della procedura concordatizia e, pertanto, la società proponente non può essere autorizzata a determinarne lo scioglimento. [artt. 161 e 169 bis l.f.; art. 2119 cod. civ.] *** I l provvedimento offre spunti di riflessione in relazione al tema affrontato ed alla soluzione offerta, ritenuta l’unica possibile attraverso una interpretazione, decisamente singolare, dell’art. 169 bis l.f. 51 Note a sentenza intende realizzare, e ciò sicuramente avviene qualora questi intenda, attraverso il piano, poi, prevedere la prosecuzione dell’attività di impresa, ovvero la cessione dell’azienda in esercizio o, ancora, il conferimento di questa in una o più società, anche di nuova costituzione, potendo essere richiesta, in tal caso, anche l’autorizzazione alla liquidazione dei beni che si ritengono non funzionali per il fine proposto e l’obiettivo che si intende realizzare. L’art. 186 bis l.f., al secondo comma, opera una descrizione del contenuto del piano e della relazione attestativa e, ancora, l’art. 182 quinquies l.f. consente al debitore, che abbia presentato la domanda ai sensi dell’art. 161, sesto comma, l.f., di ottenere l’autorizzazione, da parte del tribunale, per la contrazione dei finanziamenti, alla condizione che la richiesta sia accompagnata da una attestazione e sempre che questi risultino essere funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori. Ed ancora, nell’ottica della realizzazione della continuità aziendale, la stessa norma consente il pagamento di crediti anteriori, per prestazioni di beni e servizi in presenza di una relazione attestativa che affermi essere questi essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e, al tempo stesso, funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori. Dunque, è in tal senso, e nei limiti descritti, che il debitore, nel presentare il ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo prenotativo ha, evidentemente, interesse a chiarire – pur senza necessità di operarne una specifica illustrazione – quale sarà l’offerta che ipotizza di formulare ai propri creditori, non potendo, diversamente, avvalersi, poi, della possibilità di richiedere quelle autorizzazioni che il tribunale potrà concedere solo se le ritenga funzionali all’obiettivo e tali da garantire il miglior soddisfacimento dei creditori. In questa fase, difatti, non vi è un programma, né un piano, essendo ancora assente l’offerta che si intende, poi, sottoporre alla specifica approvazione dei creditori, ma gli interessi di questi devono essere già tutelati affinché la par condicio – cui la procedura è ispirata – non venga ad essere alterata attraverso iniziative che, ove assunte ed in contrasto con la previsione normativa, potranno consentire al tribunale di intervenire immediatamente, quante volte l’attività compiuta risulti essere inidonea, con riferimento alla proposta ed al Stupisce la decisione adottata, soprattutto in ragione del fatto che il ricorso depositato per l’ammissione al concordato preventivo prenotativo, cui la società istante era stata ammessa, conteneva la definizione (come si legge nel provvedimento) del contenuto della proposta e del piano concordatario volto alla cessione dei beni ai creditori – pertanto liquidatorio – sicché la conclusione avrebbe (ma così non è, per quanto si dirà) potuto trovare una sua giustificazione quante volte la richiesta autorizzazione avesse dato luogo ad una modificazione strutturale degli elementi essenziali del complesso dei beni organizzati, per l’esercizio dell’attività di impresa, sì da poter incidere, in modo irreversibile, sulla possibilità concreta di attuare il risanamento attraverso la continuità aziendale, per avere il proponente anticipato di voler presentare una proposta concordatizia ai sensi dell’art. 186 bis l.f. (c.d. concordato in continuità). È noto che, nell’ambito del concordato prenotativo, non sussiste un onere del proponente di anticipare il contenuto della soluzione che intende poi prospettare, nel termine assegnatogli dal Tribunale, ai propri creditori, se non nella misura in cui è necessario per poter, poi, ottenere quelle autorizzazioni di cui non sarebbe possibile lo scrutinio in assenza di una offerta indicazione delle linee essenziali della successiva proposta. Le pronunce che sono intervenute sulla corretta interpretazione dell’art. 161, sesto comma, l.f. hanno avuto modo di sottolineare che la domanda deve contenere, integralmente, al suo interno, l’esposizione dei requisiti formali e processuali e, dunque, l’enunciazione della sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi per l’accesso alla procedura, e l’ammissione non può essere condizionata dalla produzione di documenti diversi, da quelli espressamente previsti dalla legge (bilanci degli ultimi tre esercizi), per acquisire, nel prosieguo, attraverso gli obblighi informativi, notizie in ordine alla gestione finanziaria dell’impresa ed all’attività svolta, con la periodicità prevista nel provvedimento di ammissione, sotto la vigilanza del Commissario giudiziale, se ed in quanto nominato, sino alla scadenza del termine fissato1. Ecco, che il mantenimento dei livelli occupazionali e la tutela delle specifiche professionalità, da un lato, e del patrimonio tecnologico, delle strutture e degli impianti dall’altro, possono rappresentare, anche nel caso del concordato prenotativo, la finalità che l’imprenditore 52 Temi Romana Note a sentenza piano, che, per le ragioni esposte, devono essere stati anticipati, pur se non completamente delineati. Non è, tuttavia, escluso che al risanamento possa pervenirsi anche attraverso una efficace ristrutturazione dell’azienda, ovvero un ridimensionamento di parte delle unità occupate, in quanto ritenute non indispensabili nell’ambito di un assetto aziendale maggiormente funzionale e, comunque, competitivo. Possono, dunque, verificarsi in concreto, già al momento della presentazione della domanda di Concordato con riserva, le condizioni legittimanti la riduzione del personale, così come, al contrario, qualora l’attività risulti essere già cessata, ovvero prossima alla conclusione subito dopo la presentazione, non potrà essere inibito, in ragione della natura liquidatoria della proposta futura, all’imprenditore, di attuare la risoluzione dei rapporti di lavoro attraverso il particolare iter procedimentale per questi previsto, ove occupi più di quindici dipendenti (art. 24 della legge n. 223 del 1991). In tal caso, il licenziamento collettivo verrà a trovare la sua giustificazione, secondo l’orientamento della giurisprudenza, nella situazione di fatto che viene a discendere dalla scelta unilaterale operata dall’imprenditore, relativamente alla quale il personale viene globalmente considerato in quella che è la sua composizione quantitativa e qualitativa, con riferimento ai posti di lavoro, e non già ai lavoratori che ne sono titolari. Il licenziamento collettivo è, difatti, caratterizzato dalla circostanza di essere esso riferito ad una pluralità di persone, nell’ambito di imprese che occupano più di quindici dipendenti, e può riguardare anche parte del personale, alla condizione che interessi più di cinque dipendenti, nell’arco dei centoventi giorni, laddove il recesso sarà individuale ove riguardi direttamente il lavoratore o quei lavoratori il cui rapporto l’imprenditore è intenzionato a risolvere in presenza di circostanze che sono riconducibili ad un grave inadempimento dell’interessato, oppure a motivi relativi all’attività produttiva ed alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di esso (artt. 1 e 9 legge n. 604 del 1966). Ed allora, va diversamente interpretata la previsione di cui all’ultimo comma, dell’art. 169 bis l.f., che esclude dalla applicazione delle disposizioni precedenti, per quel che attiene il possibile scioglimento e la sospen- Temi Romana sione del rapporto, quello di lavoro subordinato, per il fatto di trovare esso una sua regolamentazione nell’ambito di una normativa specifica, come risulta evidente dalla circostanza che non sono a questo applicabili i principi dettati, in via generale, per ogni tipo di contratto, dagli artt. 1256 e 1463 cod. civ., tant’è che la sopravvenuta impossibilità di una delle prestazioni corrispettive produce la sua risoluzione non solo se abbia carattere definitivo ma, anche, se temporanea, purché si profili di non breve durata, indeterminata ed indeterminabile, e sia, comunque, tale da fare venir meno l’interesse dell’una o dell’altra parte al mantenimento in virtù del rapporto. In particolare, con riferimento al contratto di lavoro la sopravvenuta impossibilità, laddove riguardi il lavoratore e non sia rapportabile ai casi di sospensione legale, previsti dagli artt. 2110 e 2111 cod. civ., determina l’estinzione del rapporto, sempre che si presenti di durata indeterminata e tale da non consentire di prevedere il tempo per il quale, nell’ambito della struttura sinallagmatica, può venir meno l’effettiva e concreta prestazione dell’attività lavorativa, così escludendo quella funzione di scambio tra lavoro e retribuzione che rappresenta la causa stessa del contratto. L’impossibilità della esecuzione della prestazione lavorativa, dovuta a cause non imputabili al datore di lavoro, comporta, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., il venir meno del diritto del lavoratore alla retribuzione, senza che, in tal caso, possa porsi un discorso di mora accipiendi – che si profila allorché sia stata offerta una prestazione parziale o alterata nella sua essenza – ciò in quanto l’oggettiva impossibilità della prestazione lavorativa rende non configurabile una offerta da parte dei dipendenti. Specularmente, le ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa non possono che essere fatte valere, mediante il licenziamento e le sue regole, anche causali, per garantire i coinvolti interessi alla certezza e stabilità dell’occupazione. Al di là, pertanto, della manifestata volontà di risolvere il rapporto, non par dubbio che il datore di lavoro, ove non esegua esattamente la prestazione dovuta, è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, estinguendosi, nel qual caso, l’obbligazione ai sensi, 53 Note a sentenza via, ad essa equiparate, alla condizione, peraltro, che intervenga e permanga il relativo provvedimento autorizzativo, che ha natura di accertamento costitutivo e segna il sorgere del rapporto previdenziale diretto tra il lavoratore posto in cigs e l’Inps, rispetto al quale l’imprenditore stesso, ormai liberato dall’obbligo retributivo, assume la figura di adectius solutionis causa6. Al di fuori delle ipotesi ora considerate, tuttavia, la giurisprudenza ha riconosciuto validità all’accordo attraverso il quale l’imprenditore e le OO.SS. pattuiscano, ai fini del ricorso alla cigs, una sospensione del rapporto di lavoro, con esonero del datore dall’obbligazione retributiva, indipendentemente dall’esito della richiesta di concessione dell’integrazione salariale, alla condizione, però, che i lavoratori interessati abbiano conferito, specificamente, ai rappresentanti sindacali, l’incarico di stipularlo, ovvero abbiano provveduto a ratificarne l’operato, trattandosi di un accordo che incide, immediatamente, sulla disciplina dei contratti individuali di lavoro e sui diritti di cui i singoli sono titolari7. La cessazione dell’attività imprenditoriale, dovuta ad una situazione di crisi aziendale irreversibile, ove abbia determinato l’imprenditore a richiedere l’accesso alla procedura di concordato preventivo prenotativo, al fine di poter, poi, presentare, nel termine assegnato dal tribunale, la documentazione prevista dall’art. 161, l.f., la proposta ed il piano, certamente non integra una ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione e, dunque, non lo abilita a sospendere l’obbligazione retributiva, discendente dal rapporto di lavoro, ma costituisce, tuttavia, il presupposto perché questi possa provvedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – previsto dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966 – quante volte occupi meno di quindici dipendenti o, in alternativa, al licenziamento collettivo regolato dall’art. 24 della legge n. 223 del 1991, nell’ipotesi di organico superiore8. Le svolte considerazioni sono pertinenti, oltre che necessarie ed utili, per meglio comprendere e valutare la portata della decisione e la erroneità della conclusione cui è pervenuto il tribunale nel richiamare l’art. 169 bis l.f., al fine di giustificare il proprio convincimento, affermando che, proseguendo senza soluzione di continuità, i contratti di lavoro, durante la procedura concordatizia, la proponente non poteva essere autorizzata a determinarne lo scioglimento. per l’appunto, degli artt. 1218 e 1256 codice civile. Ricorre, difatti, la tradizionale esimente del caso fortuito e della forza maggiore, scaturenti da eventi naturali o accadimenti non ascrivibili all’uomo, solo quando inevitabili, nonostante l’uso della ordinaria diligenza, da valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata2. Ne consegue, quindi, che la sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro esonera il medesimo dalla obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile, e non sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendali, ovvero a contingenti difficoltà di mercato3. La sospensione unilaterale del rapporto è, pertanto, giustificata solo quando ricorre una situazione obiettiva di forza maggiore, non imputabile, e tale da determinare l’impossibilità della prestazione, ovvero altra situazione che sia stata valutata dalle parti del rapporto contrattuale e sia stata da queste espressamente accettata, dovendosi escludere che la sospensione possa essere conseguenza della mera volontà del datore di lavoro, risolvendosi, in tal caso, in una condizione meramente potestativa4. Altre situazioni, ancorché incolpevoli, dovute a crisi economiche congiunturali e strutturali ed a reali difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, al calo delle commesse, in quanto rientranti nel c.d. rischio di impresa, inibiscono l’unilaterale determinazione datoriale di sospendere la prestazione ed originano una situazione di mora credendi dalla quale discende l’obbligo al risarcimento del danno in misura corrispondente alle ordinarie retribuzioni dovute5. La soluzione, nella ricorrenza delle ultime ipotesi formulate di crisi strutturale ed economica, è data dalla possibilità di ottenere la sospensione delle obbligazioni attraverso la richiesta di accesso alla cassa integrazione ordinaria, ovvero straordinaria, che consente, sul piano del diritto comune, di sospendere il rapporto di lavoro, la cui applicazione è previsto intervenga in situazioni dovute ad eventi transitori non imputabili all’imprenditore, ovvero ai dipendenti di questi. Le cause che giustificano la domanda di integrazione salariale, pur non sostanziandosi in ipotesi di impossibilità sopravvenuta – che unica libera l’imprenditore dall’obbligo del pagamento delle retribuzioni – sono, tutta- 54 Temi Romana Note a sentenza Anche tale affermazione, contenuta nel provvedimento, disorienta il lettore, perché il rapporto di lavoro vede assicurata la continuità giuridica anche nel fallimento, ma l’avere ritenuto il legislatore di collocarlo nell’ambito dell’art. 72 l.f. – ovvero tra i rapporti giuridici pendenti che rimangono sospesi sino a quando il curatore non intende avvalersi della facoltà di risolverli – non esclude, ma, al contrario, ne legittima la risoluzione attraverso il necessario rispetto dell’iter procedimentale di cui agli artt. 4 e 24 della legge n. 223 del 1991 quante volte l’organico sia superiore a quindici dipendenti, ovvero il curatore intenda risolvere più di cinque rapporti, nell’arco dei centoventi giorni, qualora sia stato autorizzato l’esercizio provvisorio o disposta la continuazione temporanea dell’attività, su sua richiesta, ed abbia, tuttavia, ritenuto superflue alcune figure professionali e, pertanto, necessaria una riduzione del personale in esubero. La linea seguita dal collegio capitolino non è, pertanto, convincente e la conclusione sarebbe stata giustificata esclusivamente nell’ipotesi in cui il debitore, con la domanda di concordato prenotativo, avesse rappresentato l’esigenza di una continuazione temporanea dell’attività e, poi, motivato l’istanza, volta ad ottenere la relativa autorizzazione, in ragione della necessità di organizzare diversamente l’impresa in modo rispondente al mutare della situazione. In tal caso, il tribunale avrebbe dovuto svolgere l’indagine sulla dedotta ristrutturazione aziendale e sul rapporto di causalità intercorrente tra questa ed i licenziamenti che si intendevano attuare, per poi stabilire se, rientrando la richiesta di autorizzazione al compimento dell’atto nell’ambito della straordinaria amministrazione, il relativo compimento poteva ritenersi subordinato allo scrutinio positivo del collegio. La volontà che il legislatore ha inteso esprimere attraverso la formulazione della norma e la esclusione da essa dei rapporti di lavoro non incide sulla facoltà dell’imprenditore di operare le scelte, con riferimento al successivo piano che è tenuto a depositare con la proposta, e l’attività da questi svolta non può essere considerata ordinaria, ovvero straordinaria, a seconda della rilevanza patrimoniale delle conseguenze che da essa possono discendere, atteso che lo stesso recesso di uno o più dipendenti può essere inteso come atto di conservazione del patrimonio, ed in quanto tale, certamente, Temi Romana non è straordinario9. Il richiamo effettuato all’art. 169 bis l.f. non è, né può essere, esaustivo in conseguenza della riconosciuta possibilità per l’imprenditore di formalizzare, nel prosieguo, la proposta, ed avrebbe dovuto indurre, al contrario, il tribunale ad affermare che, nel caso di specie, essendo l’istanza intervenuta in una fase in cui la società proponente aveva definito “…nelle sue linee essenziali i contenuti della proposta e del piano di concordato prospettando un concordato liquidatorio con la cessione dei beni ai creditori”, mancando, quindi, l’intento di risanare l’impresa l’autorizzazione, avrebbe dovuto essere concessa e, ancor prima, non richiesta. Non può, d’altronde, sfuggire che l’art. 161, sesto comma, l.f. abilita l’imprenditore al deposito di un ricorso che contiene la domanda di concordato, con la documentazione prevista dalla norma, senza, tuttavia, che questi debba presentare la proposta, il piano e la documentazione di cui al secondo e terzo comma dello stesso articolo, adempimento cui è tenuto, nel termine fissato dal tribunale, diversamente previsto a seconda che sia stata già presentata una istanza per la dichiarazione di fallimento. La anticipazione del contenuto della proposta e del piano può essere utile al solo fine di ottenere l’autorizzazione al compimento di quegli atti che non potrebbero trovare ingresso durante tale fase, con la conseguenza che potrebbe – l’uso del condizionale è d’obbligo – prevenire alla conclusione che, qualora sia stata manifestata ed anticipata l’intenzione di elaborare un adeguato programma di ristrutturazione per il superamento della crisi, in grado da consentire la rimozione del dissesto ed il riavvio dell’attività produttiva, nell’interesse dei creditori, oltre che quello generale dell’economia, il tribunale, investitone, sarebbe tenuto a stabilire se la richiesta di risolvere alcuni rapporti di lavoro confligga con la anticipata soluzione negoziale conservativa ed a negare l’autorizzazione stessa qualora fosse diretta alla risoluzione di tutti i rapporti, perché in contrasto, in tal caso, con la manifestata ed anticipata intenzione di realizzare il risanamento dell’impresa. Il concordato preventivo, d’altronde, una volta abrogata la procedura disciplinata dagli artt. 187 l.f. e segg., può avere una funzione liquidatoria, ovvero anche di risanamento, e, in tal caso, di salvaguardia del patrimonio aziendale, con la conseguenza, sicché, 55 Note a sentenza ove tale obiettivo sia stato in qualche modo anticipato, in ragione della riconosciuta possibilità di formulare le richieste consentite dagli artt. 169 bis e 182 quinquies l.f., potrebbe giustificarsi la domandata autorizzazione per la riduzione del personale occupato, che non è necessaria quante volte la soluzione concordatizia prospettata sia liquidatoria, per essere l’attività già cessata. _________________ 1 Tribunale Modena, 15 novembre 2012, che ha ritenuto non integrare la fattispecie degli atti di straordinaria amministrazione, la cessione di immobili, qualora inerente l’attività caratteristica dell’impresa ammessa alla procedura. 2 Cass., 22 ottobre 1999, n. 11916, in Not. giur. lav., 2000, p. 68. 3 Cass., 4 settembre 2013, n. 20319 in Not. giur. lav., 2014, p. 362; Cass., 6 ottobre 1999, n. 11147, ivi, 1999, p. 10; Cass., 1 settembre 1997, n. 8273, ivi, 1997, p. 708; Cass., 2 dicembre 1985, n. 6032, ivi, 1986, p. 398; Cass., 19 gennaio 1983, n. 498, in Giust. civ., 1983, I, p. 3230; Cass., 13 maggio 1982, n. 2994, in Not. giur. lav., 1983, p. 39. 4 Cass., 26 maggio 2000, n. 6928, in Not. giur. lav., 2000, p. 696 che ha ritenuto nulla la clausola di un contratto collettivo che autorizzava il datore di lavoro a sospendere unilateralmente il rapporto e la relativa retribuzione. 5 Cass., 13 marzo 1997, n. 2232, in Not. giur. lav., 1997, p. 365; Cass., 10 maggio 1995, n. 5090, ivi, 1995, p. 535; Cass., 3 ottobre 1991, n. 10298, in Dir. prat. lav., 1991, p. 3038. 6 Cass., Sez. Un., 28 aprile 1989, n. 2034, in Arch. civ., 1989, p. 821; Cass., Sez. Un., 20 giugno 1987, n. 5454, in Mass. giur. lav., 1987, p. 403; Cass., 9 luglio 1983, n. 4658, in Riv. It. lav., 1984, II, p. 218 che hanno ritenuto esonerato il datore di lavoro dall’obbligo retributivo in coincidenza con l’intervento del provvedimento autorizzativo. 7 Cass., 19 settembre 2006, n. 19500; Cass., 22 ottobre 1999, n. 11916, in Not. giur. lav., 2000, p. 68. 8 Cass., 5 ottobre 19991, n. 10819; Cass., 56 15 novembre 1991, n. 12249, in Dir. prat. lav., 1992, p. 121; Cass., 24 ottobre 1991, n. 11300; Cass., 28 settembre 1989, n. 3941, in Mass. giur. lav., 1989, p. 644 ove risulta ribadito il principio per il quale, ove sopravvenga la cessazione dell’attività aziendale, il giudice che accerti la illegittimità del licenziamento non può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno, dal momento che la prestazione è divenuta impossibile per cessazione dell’attività. 9 Cass., 3 luglio 1979, n. 3731, in Il fallimento, 1980, p. 290, ed ulteriori richiami di dottrina e giurisprudenza; Cass., 17 maggio 1974, n. 1433, in Giur. comm., 1975, II, p. 175, sui criteri distintivi tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione con riferimento all’art. 167 l.f.. Temi Romana Note a sentenza Decadenze in materia di licenziamento Carlotta Maria Manni Praticante Abilitato L’ proprio datore di lavoro mediante cui mette a disposizione del medesimo le proprie energie lavorative tenuto conto dell’allontanamento dal posto di lavoro. In merito al termine ad quem si è assistito ad un dibattito giurisprudenziale conclusosi, solo di recente, con l’intervento delle Sezioni Unite. Nel dettaglio negli anni ’80 la Suprema Corte aveva stabilito che l’impugnativa del licenziamento dovesse pervenire all’indirizzo del datore di lavoro entro 60 giorni dalla comunicazione; diversamente il lavoratore sarebbe decaduto da ogni diritto4. Ciò in quanto il termine previsto ex lege opera nell’interesse del datore di lavoro, il quale deve conoscere per tempo le intenzioni del lavoratore licenziato senza incorrere nel rischio di future quanto impreviste pretese economiche e/o reintegratorie che potrebbero incidere negativamente sulla posizione dell’impresa. Circa venti anni dopo la Consulta è chiamata a decidere in merito ad una questione simile: la decorrenza ad quem della notifica degli atti giudiziari. Si tratta di un tema di carettere processual-civilistico che presenta un certo rilievo in riferimento al tema qui esaminato. Nella specie i giudici della Corte erano chiamati a verificare la costituzionalità del combinato disposto degli artt. 139 e 148 c.p.c. rispetto agli artt. 3 e 24 Costituzione. In tale occasione l’organo giudicante, conformandosi a precedenti pronunzie, ha affermato il principio della “doppia notifica”. Sulla base di detto principio la notifica si perfeziona nei confronti del notificante nel momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario o all’agente postale; mentre per il destinatario i termini decorrono dal momento in cui ha ricevuto l’atto5. La ratio di tale principio consiste nel tutelare il notificante che diversamente potrebbe incorrere incolpevolmente nella decadenza per attività imputabili a soggetti terzi e non a lui direttamente6. La sentenza richiamata ha influenzato, ampiamente, l’orientamento della S.C. la quale, mutando il precedente indirizzo, ha precisato che i 60 giorni rappresentano il termine entro cui il lavoratore deve proporre l’impugnativa, non rilevando il fatto che il datore di lavoro riceva solo successivamente la comunicazione di contestazione articolo 32 del Collegato lavoro (Legge n. 183/2010) e successive integrazioni interviene, come è noto, a modificare l’articolo 6 L. 604/1966 in materia di decadenze per l’impugnativa del licenziamento. Precisamente l’articolo indica due termini decadenziali: l’uno di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale, l’altro di 180 giorni per l’impugnazione giudiziale. La norma, benché apparentemente chiara, presenta complessità interpretative. In riferimento al primo termine è pacifica la sua decorrenza dalla comunicazione del licenziamento in forma scritta o, comunque, dalla comunicazione dei soli motivi, se successiva. Alla base di una simile disposizione vi è certamente un riferimento alla disciplina civilistica (art. 1335 c.c.) laddove il licenziamento si configura come atto unilaterale recettizio. Ciò comporta che il medesimo produce i propri effetti solo nel momento in cui venga portato a conoscenza del lavoratore che può discrezionalmente valutare se impugnarlo o meno nel termine di 60 giorni. Pertanto l’effettiva conoscenza del licenziamento sarà presunta nel momento in cui la lettera di licenziamento giunga presso la residenza del lavoratore. Si tratta, invero, di una presunzione relativa; il destinatario potrà dimostrare l’impossibilità di averne avuto notizia senza sua colpa1. Esula da questa fattispecie il licenziamento verbale, che viene definito dal legislatore inefficace2. Sebbene nel corso dei lavori preparatori il Collegato lavoro prevedesse che i termini decadenziali riguardassero sia i licenziamenti invalidi sia quelli inefficaci, al momento della promulgazione l’ambito applicativo risultava ristretto alle sole ipotesi di invalidità. Sulla base di ciò il lavoratore licenziato oralmente non è tenuto ad impugnare in via stragiudiziale nel termine di 60 giorni, in quanto l’assenza della forma scritta comporta l’inidoneità ad avviare la procedura di licenziamento nei termini di legge3. Ne consegue che il lavoratore può ricorrere all’autorità giudiziaria nel più ampio termine prescrizionale di 5 anni, oppure più semplicemente possa inviare una raccomandata al Temi Romana 57 Note a sentenza del licenziamento7. Si tratta, invero, della logica prevalenza dell’interesse del lavoratore a impugnare un provvedimento datoriale irregolare rispetto al più generico interesse alla certezza dei rapporti giuridici. Si comprende bene come il principio, sancito dalla Consulta, non operi solo in ambito processuale; è ragionevole applicarlo in via estensiva anche al diritto sostanziale, tanto più in una materia delicata come il diritto del lavoro, laddove il soggetto licenziato venga privato di una fonte reddituale stabile tale da coinvolgere il diritto ad una esistenza libera e dignitosa propria e della sua famiglia8. Pertanto si ritiene che il momento della spedizione dell’impugnativa sia idoneo a interrompere il decorso del termine decadenziale, mentre la ricezione dell’impugnativa da parte del datore di lavoro è il momento in cui si perfeziona la fattispecie impugnatoria. Ne consegue che sarà tempestiva la lettera inviata dal lavoratore quando verrà spedita nei termini di legge presso il domicilio del datore di lavoro o la sede legale dell’impresa, facendo fede il timbro postale. L’impugnativa stragiudiziale diviene inefficace se non è seguita, nei successivi 180 giorni, dal deposito del ricorso avverso il datore di lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. In merito riteniamo di poter condividere l’orientamento maggioritario9 secondo cui tale termine decorre dal giorno in cui il lavoratore ha impu- gnato stragiudizialmente il licenziamento e non piuttosto dal giorno successivo al 60mo; ciò al solo scopo di garantire una più sollecita definizione della controversia a vantaggio di entrambe le parti. Se il lavoratore lascia decorrere inutilmente detto termine, decade dal diritto di impugnare il licenziamento e con esso viene meno l’efficacia della prima impugnativa. Per quanto concerne il termine ad quem di 180 giorni la Cassazione aveva dapprima condiviso l’orientamento secondo cui il lavoratore per impedire la decadenza dovesse notificare il ricorso con pedissequo decreto entro il termine previsto ex lege, non risultando sufficiente il mero deposito in cancelleria10. Per attenuare la rigidità di un simile orientamento, la S.C. in altro contesto ha precisato che il lavoratore, seppure decaduto dall’impugnativa, può comunque presentare domanda di risarcimento in via ordinaria per illiceità del recesso. In tale occasione si avrà un richiamo ai principi generali di responsabilità contrattuale (art. 1218) ed extracontrattuale (art. 2043) contenuti nel Codice civile11. Oggi vi è un orientamento condiviso secondo cui il termine finale è quello del deposito del ricorso o comunque della comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione e arbitrato. Infatti è irrilevante la data del decreto di fissazione di udienza (nel primo caso) o la data di convocazione per la procedura conciliativa (nel secondo caso), poiché si tratta di elementi estranei alla sfera di controllo del lavoratore12. _________________ 1 La S.C. precisa che sussiste una impossibilità oggettiva ogniqualvolta il lavoratore non ne abbia avuto conoscenza a causa di un evento eccezionale estraneo alla sua volontà (v. Cass. Sez. lav. n. 18272/2002 e n. 6845/2014). 2 In particolare cfr. il dettato di cui all’art. 2 che stabilisce quanto segue: “Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro. (…) Il licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 è inefficace”. 3 Così il Tribunale di Napoli 8.9.1994; Trib. di Palermo 9.1.2013 secondo cui nessun onere di impugnativa nei termini dell’art. 6 L. 604/1966 può essere posto a carico del lavoratore licenziato verbalmente. 4 Cfr. Cass., Sez. Un., n. 5395/1982 (conf. Cass. Sez. lav. n. 5468/1981; contra Cass. Sez. lav. n. 4560/1978). 5 Corte Cost. n. 28/2004. 6 Si pensi, a titolo di esempio, al caso di eventuali scioperi da parte del personale degli Uffici notifiche (Unep) o ipotesi non del tutto rara di possibili comportamenti dilatori posti in essere dal ricevente che rifiuti la notifica. È irragionevole, quanto lesivo per il notificante, considerare il termine ad quem in riferimento alla materiale consegna dell’impugnativa. 7 Cass., Sez. Un., n. 8830/2010. 8 Di tale avviso la Cass. Sez. lav. n. 22287/2008, secondo cui nello specifico: “In tema di disciplina, dettata dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, concernente la decadenza dal potere di impugnare il licenziamento, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata – che consente l’estensione del principio generale dell’or- 58 dinamento in materia di decadenza processuale da impedire tramite la notificazione di un atto al diritto sostanziale e, segnatamente, anche tramite l’art. 36, primo comma, Cost., alla tutela apprestata contro il licenziamento illegittimo – l’impugnazione anzidetta è tempestiva, e detta decadenza è quindi impedita, qualora la lettera raccomandata con la quale essa viene effettuata sia, entro il termine di sessanta giorni previsto dal citato art. 6, consegnata all’ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine”. 9 Peraltro condiviso dal Tribunale di Milano con recenti pronunzie (Cfr. in particolare la sentenza del 20.12.2013 n. 4709). 10 Cass. Sez. lav. n. 5552/2007. 11 Cass. Sez. lav. n. 245/2007. 12 Così la S.C. Sez. lav. n. 2837/2014. Temi Romana Cronache e attualità L’addebito della separazione Attualità dell’istituto e profili applicativi tra la giurisprudenza di legittimità e quella di merito CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA Progetti consiliari di settore SETTORE FAMIGLIA, MINORI, IMMIGRAZIONE Cons. Avv. Matteo Santini SOMMARIO: CAPITOLO PRIMO – 1. Dal sistema sanzionatorio all’intollerabilità della convivenza – 2. Aspetti processuali del giudizio di addebito – 3. Addebito della separazione: quale futuro?; CAPITOLO SECONDO – 4. L’addebito nella giurisprudenza di legittimità e di merito – 5. Presupposti per la pronuncia di addebito – 6. Giurisprudenza di legittimità e di merito; CAPITOLO TERZO – 7. Il risarcimento del danno nella separazione con o senza addebito – 8. Giurisprudenza di merito – 9. La giurisprudenza della Corte di Cassazione CAPITOLO PRIMO Una siffatta argomentazione, però, si era ben presto scontrata con i timori di chi riteneva che l’assenza di una sanzione nei confronti del coniuge che si era reso protagonista, con il proprio comportamento contrario ai doveri coniugali, del fallimento dell’unione, sarebbe equivalso ad elidere la giuridicità di tali doveri1, in quanto avrebbe irrimediabilmente indebolito gli stessi impegni formali assunti al momento della celebrazione del matrimonio. A fronte di detta contrapposizione aveva finito per prevalere una situazione di compromesso, ben ravvisabile nell’attuale formulazione dell’art. 151 codice civile. Se, infatti, la regola generale contenuta nel riformato primo comma dell’art. 151 c.c. sancisce il passaggio dalla separazione a carattere sanzionatorio a quella avente funzione di rimedio ad una situazione di intollerabilità della prosecuzione della convivenza, è altrettanto vero che il secondo comma lascia la possibilità al Giudice, se investito da specifica domanda di parte, di sanzionare il coniuge che si sia reso autore di comportamenti contrari ai doveri che derivano dal matrimonio, addebitando allo stesso la separazione. Con l’intervenuta riforma del diritto di famiglia, pertanto, il legislatore nel sostituire il termine “colpa” con la locuzione addebitabilità della separazione ha inteso marcare la distanza con la precedente normativa che, in mancanza di accordo, aveva nella colpa dei coniugi il presupposto imprescindibile e sufficiente per la pronuncia di separazione. Nella previgente ipotesi, infatti, il Giudice era tenuto a pronunciare la separazione solamente in presenza di di Marco Meliti Avvocato del Foro di Roma 1. Dal sistema sanzionatorio all’intollerabilità della convivenza Il tema dell’addebito della separazione, seppure sia stato eroso nel tempo dalle trasformazioni sociali che hanno inciso sensibilmente sul mutamento dei costumi, mantiene tutt’ora una posizione preminente nei giudizi di separazione, in quanto intimamente legato a sentimenti come la rabbia ed il dolore che generalmente accompagnano le crisi familiari. Si tratta di pulsioni spesso difficilmente arginabili e che trovano molte difficoltà ad essere governate in sede processuale, stante anche l’inadeguatezza dei rigidi schemi del diritto ad adattarsi alla complessità delle situazioni dibattute. Non a caso la riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva inciso in maniera sostanziale sull’istituto, sganciando la separazione dal concetto di colpa cui era stata, fino ad allora, indissolubilmente legata. Nel corso dei lavori preparatori si era fatta strada la volontà di abbandonare ogni possibile riferimento alle responsabilità individuali dei coniugi in relazione alla crisi coniugale. La ratio ispiratrice di tale tesi vedeva nella separazione esclusivamente un rimedio ai problemi sorti nel matrimonio, senza che dovessero in alcun modo assumere rilevanza le eventuali colpe dei coniugi che avevano determinato la frattura del rapporto. Temi Romana 59 Cronache e attualità nunce giurisprudenziali che si sono succedute hanno progressivamente affermato lo spirito della riforma del 1975, concentrandosi sul necessario rapporto che vi doveva essere tra quei comportamenti (non più tipizzati) in violazione dei doveri matrimoniali posti in essere da uno dei coniugi e la frattura del rapporto coniugale. In tal modo, si è andato consolidando il principio secondo il quale affinché si possa giungere ad una pronuncia di separazione con addebito è imprescindibile che venga prima accertata, in maniera rigorosa, la sussistenza di un nesso causale tra la condotta contraria ai doveri nascenti dal matrimonio e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, ovvero del grave pregiudizio all’educazione della prole12. una delle cause tassativamente indicate dalla legge come violazione dei doveri coniugali2. Attraverso l’odierna formulazione dell’art. 155 c.c., invece, il legislatore ha operato un’inversione prospettica, ponendo l’accertamento dell’addebito solo come eventuale ed eccezionale3 rispetto, invece, alla preminente verifica della sussistenza di fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole4. A decorrere dalla riforma del 1975, pertanto, il presupposto della separazione è dato dall’intollerabilità della convivenza, che può determinarsi indipendentemente da colpe dell’uno o dell’altro coniuge5 ed il cui accertamento andrà effettuato in chiave soggettiva, ovvero per come viene percepita dal coniuge che domanda la separazione. Per la pronuncia di separazione, pertanto, non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale di una sola delle parti. In tal modo, il diritto di ciascun coniuge di separarsi rappresenta l’attuazione di un diritto individuale di libertà, riconducibile al combinato disposto degli artt. 2 e 29 della Carta costituzionale, che implicano per ciascun coniuge il diritto di ottenere la separazione ed interrompere la convivenza ove, per fatti obiettivi, ancorché non dipendenti da “colpa” dell’altro coniuge o propria, tale convivenza sia per lui divenuta “intollerabile”, così da essere divenuto impossibile svolgere adeguatamente la propria personalità in quella “società naturale”, costituita con il matrimonio, che è la famiglia6. In ragione di questa visione evolutiva del rapporto coniugale, la declaratoria di addebito ha assunto carattere eventuale ed accessorio, richiedendo un’autonoma domanda7 di parte ed i cui effetti si riverberano esclusivamente sul piano patrimoniale8, determinando la perdita del diritto all’assegno di mantenimento9 (ma non a quello degli alimenti) e dei diritti successori10. Come spesso accade, la giurisprudenza ha inizialmente faticato a recepire il significato della riforma, sovrapponendo spesso il concetto di separazione per colpa a quello di separazione addebitabile. Nel tempo, anche grazie alla spinta propulsiva della dottrina che sin da subito aveva dimostrato di aver meglio colto la portata delle novità introdotte11, le pro- 2. Aspetti processuali del giudizio sull’addebito Al Giudice è stato così demandato l’arduo compito di stabilire se, effettivamente, il comportamento in violazione abbia causato la frattura del rapporto coniugale o se, invece, abbia solamente aggravato o reso definitiva la crisi matrimoniale. Come è facile comprendere si tratta di un accertamento assai difficile, in quanto necessita di una valutazione complessiva della condotta tenuta da entrambi i coniugi durante tutto il matrimonio, poiché il fallimento dell’unione è sovente frutto di un complesso di concause maturate nel corso degli anni che, pertanto, non potrà essere realmente compreso limitandosi al mero esame di singoli episodi di frattura. La necessità di comparazione delle rispettive condotte dei coniugi all’interno del matrimonio, secondo parte della dottrina13, ha confinato ad ipotesi del tutto residuali la possibilità – pur prevista dalla norma – di arrivare ad una pronuncia di “doppio addebito” a carico di entrambi i coniugi, poiché in caso di reciproche violazione dei doveri nascenti dal matrimonio appare certamente ancora più arduo per il giudice districarsi tra azioni e reazioni più o meno giustificate, nell’impervio tentativo di isolare le singole responsabilità che giustifichino una pronuncia di addebito. Ovviamente, la necessità di raffrontare i comportamenti tenuti da entrambi i coniugi è stata correttamente esclusa in ipotesi di violenza intrafamiliare, in quanto la gravità di tali atti non potrebbe certamente trovare valida giustificazione nella condotta dell’altro coniuge14. In ogni caso, poiché è indubbio che la pronuncia di 60 Temi Romana Cronache e attualità costituisce mera deduzione difensiva e, pertanto, dovrà essere inserita dal ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, mentre – se proposta dal resistente – richiederà il rispetto dei termini e dei modi previsti per la domanda riconvenzionale19. Né, peraltro, può ritenersi che la domanda di addebito possa essere introdotta a seguito di quella proposta in via riconvenzionale dall’altro coniuge, in quanto le istanze di addebito non presentano tra loro alcuna interdipendenza, poiché l’eventuale declaratoria di addebito a carico di uno dei coniugi non esclude l’addebitabilità della separazione anche all’altro. È stata, invece, riconosciuta la possibilità di proporre per la prima volta in appello la richiesta di un assegno alimentare qualora la stessa sia conseguenza di un’intervenuta pronuncia di addebito della separazione, in quanto tale domanda non può essere qualificata come nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., considerata anche la natura degli interessi sottostanti. Per il giudice di legittimità, infatti, tale richiesta costituisce un minus ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge. Sotto il profilo della prova, non vi è dubbio che il giudizio in materia di addebito presenti notevoli difficoltà, risultando spesso assai difficoltoso dare contezza dell’abitualità e del progressivo ripetersi di comportamenti idonei a minare il rapporto coniugale. Ragione per cui, qualora non si riesca a raggiungere la piena prova che la condotta contraria ai doveri del matrimonio posta in essere da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stata causa diretta del fallimento della convivenza, il giudice dovrà necessariamente astenersi da pronunciare la separazione con addebito20. Inoltre, proprio a ribadire l’importanza di un’attenta valutazione dell’effettiva sussistenza di un nesso causale tra violazione e crisi del rapporto, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare la tendenziale irrilevanza, ai fini dell’addebito, di quei comportamenti in violazione avvenuti dopo che la crisi familiare si è già irreversibilmente consacrata21. Anzi, con le più recenti pronunce la Corte romana è andata anche oltre, negando la possibilità di ottenere il mutamento del titolo della separazione sia in relazione a comportamenti posti in essere successivamente alla sentenza di separazione (od all’omologa dell’accordo) che con riferimento a fatti preesistenti, ma di cui una addebito si debba basare su un rigoroso accertamento delle cause che hanno determinato la crisi dell’unione coniugale, si è giustamente rilevato come sia da escludere che tale valutazione possa essere compiuta in sede di udienza presidenziale, trattandosi di una fase processuale a cognizione sommaria. Non a caso le Sezioni Unite hanno posto in risalto come la richiesta di addebito, sia pur intimamente legata a quella di separazione, costituisca una domanda autonoma15, determinando un ampliamento del thema decidendum, i cui effetti si manifestano sul piano dei rapporti patrimoniali tra i coniugi e che, pertanto, necessita di un giudizio a cognizione piena. La configurazione dell’istanza di addebito quale domanda in senso tecnico, dotata di un proprio petitum e di una propria causa petendi, seppur logicamente subordinata alla pronuncia di separazione, introduce quindi un’indagine su fatti indipendenti da quelli che giustificano la separazione. Non a caso il giudice non potrà indagare e statuire d’ufficio sul quesito dell’addebito, in quanto lo stesso necessita dell’iniziativa di parte, così come inequivocabilmente previsto dall’art. 151, 2° comma, c.c.. Di conseguenza, è stata affermata la scindibilità della domanda di separazione rispetto a quella relativa all’addebito16; per cui, in ipotesi di impugnazione della sola statuizione relativa all’addebito, la parte della sentenza dichiarativa della separazione acquisterà valore di res iudicata17. Da ciò ne discende la possibilità di proporre la successiva domanda di divorzio pur nella prosecuzione del giudizio in ordine alla domanda di addebito, dal momento che il giudicato sulla pronuncia autonoma sulla separazione consente l’immediata dichiarabilità dello scioglimento del vincolo con sentenza non definitiva. Per molti autori, proprio il fatto di aver ammesso il passaggio in giudicato del capo della sentenza sulla separazione ove quest’ultima sia stata impugnata solo sull’addebito, ha determinato un effetto deflattivo sulle liti in corso, impedendo che tale impugnazione possa essere utilizzata al solo fine di dilatare i tempi della controversia, così da costituire un mero strumento di pressione sull’altro coniuge nei casi in cui quest’ultimo abbia interesse ad una sollecita definizione della causa18. Tra l’altro, sotto l’aspetto procedurale, la domanda di addebito, proprio in ragione della sua autonomia, non Temi Romana 61 Cronache e attualità Del pari, dalla violazione degli obblighi inerenti allo status di coniuge e di genitore potranno derivare anche specifiche sanzioni penali. Ci si riferisce in particolare all’art. 570 c.p. relativo alla “violazione degli obblighi di assistenza familiare”; disposizione che, inserita tra i delitti contro la famiglia, trova il suo fondamento nell’esigenza di tutelare i diritti della prole e del coniuge26. parte sia venuta a conoscenza solo successivamente alla pronuncia di separazione. Di contro, è stato chiarito22 come il patto siglato tra i coniugi al termine di un periodo di crisi matrimoniale per regolare i loro rapporti economici non possa essere considerato vincolante in sede di separazione nel caso in cui si sia in presenza di una declaratoria di addebito. Le conseguenze patrimoniali che derivano ex lege dalla dichiarazione di addebito (art. 156, comma 1 e 3 c.c.) inducono, infatti, ad escluderne radicalmente la vincolatività. Quanto ai rapporti tra la declaratoria di addebito della separazione ed i provvedimenti in materia di affidamento dei figli, va subito chiarito come non vi possa essere tra loro alcun legame diretto, nel senso che tale pronuncia non potrà essere considerata di per sé ostativa all’affidamento condiviso dei figli minori. Sul punto la Suprema Corte ha espresso il principio di diritto in base al quale “in tema di separazione personale i provvedimenti di affidamento della prole minore prescindono dalle responsabilità dell’uno e dell’altro coniuge23 nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza coniugale, dovendo essere adottati con esclusivo riferimento al superiore interesse morale e materiale della prole stessa”24. Ovviamente, nelle ipotesi residuali in cui la separazione sia stata pronunciata in relazione a gravi condotte poste in essere da uno dei coniugi ed idonee a determinare un grave pregiudizio alla educazione della prole, il giudice potrà certamente utilizzare gli accertamenti relativi all’addebito anche al fine di decidere sul regime di affidamento dei figli della coppia. Da ultimo – rimandando all’apposito capitolo per un approfondimento del tema – preme solo ricordare come, poiché i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica, la loro violazione non trovi sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quali l’addebito della separazione. Ove tale violazione, infatti, cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, la stessa potrà integrare gli estremi dell’illecito civile, dando così luogo anche ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali, senza che la mancanza di pronuncia e di addebito in sede di separazione sia preclusiva all’azione di risarcimento relativa a tali danni25. 3. Addebito della separazione: quale futuro? A distanza di quasi quarant’anni dall’intervenuta riforma del diritto di famiglia, è lecito interrogarsi se oggi abbia ancora senso parlare di addebito della separazione, anche in considerazione dei mutati costumi e dell’intervenute trasformazioni sociali. Secondo una parte della dottrina, la funzione dell’addebito sarebbe quella di evitare al coniuge “che ha patito una convivenza non solo fallita, ma travagliata da una condotta dell’altro contraria agli impegni assunti con il matrimonio, di restare legato a quest’ultimo da obblighi di assistenza e vincoli di carattere ereditario” anche successivamente all’intervenuta separazione27. Inoltre, vi sarebbe anche un interesse del coniuge non colpevole a vedere riconosciuta la propria correttezza nel rispetto dei doveri coniugali, sia nei confronti della prole e dei parenti, sia in vista di un possibile nuovo matrimonio28. Ora, se non vi è dubbio che la domanda di addebito conservi un’indiscussa valenza nelle ipotesi in cui uno dei coniugi si renda autore di condotte gravemente lesive della dignità della persona e della sua integrità psico-fisica, è altrettanto vero come nel tempo si stia affievolendo la sensibilità degli effetti della pronuncia dell’addebito sotto il profilo dell’interesse pubblico alla tutela dei diritti nascenti dal matrimonio. D’altro canto non si può ignorare come il giudizio sull’addebito della separazione, oltre a risvolti di natura patrimoniale, coinvolga anche delicati aspetti psicologici, alimentando tra i coniugi quella conflittualità che inevitabilmente si ripercuote sui figli minori. Peraltro, la necessità per il Giudice di estendere l’accertamento all’intera vicenda matrimoniale, per stabilire se effettivamente la violazione posta in essere da uno dei coniugi sia effettivamente la causa diretta della crisi, introduce nel giudizio elementi di soggettività difficilmente decifrabili. Quando, infatti, la crisi familiare cessa di essere un 62 Temi Romana Cronache e attualità A questo ha certamente contribuito anche un’altra ragione che risiede nella bulimia che investe i nostri Tribunali31, ormai sommersi da una mole spropositata di ricorsi per separazione e divorzio in cui il litigio sembra essere l’unico modo per i coniugi per non rompere definitivamente il filo che li lega, quasi a voler impedire che il partner possa ritrovare una propria libertà ed autonomia. Così i Tribunali hanno finito sempre più per ignorare le istanze di addebito della separazione proposte, anche reciprocamente, dai coniugi, impendendo spesso l’ingresso nel processo di parenti ed amici pronti a sconfessarsi tra loro pur di sostenere le ragioni di uno o l’altro coniuge. I fautori di tale orientamento32 – che di fatto pone un notevole sbarramento all’accoglimento delle domande di addebito – osservano come lo stesso abbia il pregio di evitare di appesantire ulteriormente la procedura di separazione, magari favorendo persino il raggiungimento di accordi consensuali, offrendo al contempo un contributo determinante nel cercare di contrastare un retaggio culturale che vede nella fine del matrimonio un momento in cui si debba necessariamente distribuire giudizi o riparare a presunti torti. I sostenitori dell’eliminazione dell’istituto dell’addebito hanno, poi, posto l’accento anche sul fatto che molto spesso le conseguenze dirette che derivano dalla declaratoria sono lievi e prive di effettiva praticabilità, come nel caso la separazione venga addebitata ad un coniuge che goda di redditi autonomi e sufficienti, tali da non legittimare alcuna richiesta di mantenimento. Del pari, sempre secondo la dottrina sopra richiamata, anche nel campo successorio gli effetti sarebbero piuttosto limitati, in quanto riferibili solamente al periodo intercorrente tra separazione e divorzio. Ciò premesso, non vi è dubbio che anche in ragione dell’accostamento della responsabilità civile al diritto di famiglia determinatosi in questi ultimi anni, sia più che doveroso interrogarsi sull’attualità e sull’utilità dell’istituto dell’addebito. Nell’ambito di tale condivisibile riflessione, però, non bisognerà cadere nella tentazione di imboccare pericolose scorciatoie che, nel rifiuto aprioristico di un rigoroso esame delle ragioni poste alla base della domanda di addebito, finiscano per privare l’istituto del matrimonio di quelle tutele che fino ad oggi hanno evento privato per essere calata, attraverso il giudizio di separazione, in una dimensione pubblica-giuridica è inevitabile che le diverse visioni che le parti hanno della vicenda coniugale e delle cause che ne hanno determinato la fine entrano a far parte del processo. In tal modo i fatti narrati dal cliente secondo il proprio punto di vista vengono modellati dai rispettivi avvocati in ragione della strategia processuale che si ritiene più idonea al raggiungimento degli obiettivi prefissati29. Torti e ragioni finiscono così per mescolarsi, impedendo di comprendere se realmente la violazione dei doveri matrimoniali posta in essere da uno dei coniugi possa essere realmente considerata come il peccato originale che ha determinato la fine dell’unione coniugale. Peraltro, è evidente come il giudizio sull’addebito necessiti di apprezzamenti di fatto in relazione ad un quadro di “valori”, cosicché la medesima violazione, a seconda del rapporto e del contesto sociale nel quale lo stesso si è estrinsecato, può determinare o meno un’effettiva situazione di intollerabilità della convivenza. Il giudice, quindi, si trova spesso davanti a due versioni discordanti, se non incompatibili, che oltre a rendere difficile la decisione, rischiano di prestarsi a valutazioni soggettive da parte dello stesso giudice il quale, avventurandosi in ambiti della vita personale e familiare talvolta imperscrutabili anche agli stessi protagonisti della vicenda, diventa inevitabilmente anch’egli portatore dei propri pregiudizi mentali e culturali. In tale quadro non è difficile comprendere come il giudizio legato alla domanda di addebito mostri tutti i propri limiti, poiché è riduttivo immaginare di poter racchiudere in un istruttoria od in una sentenza un fenomeno così complesso e spesso di lunga durata (anni di vita quotidiana) com’è il rapporto a due30. Per cui troppe volte i coniugi tendono a riporre nel giudizio aspettative illusorie ed irrealistiche, in quanto il processo legale non è certamente luogo per il raggiungimento di verità assolute. Il confine tra comportamento lecito, espressione del diritto a separarsi, e la violazione dei doveri matrimoniali determinante l’insorgenza della intollerabilità della convivenza, è così divenuto nel tempo molto labile. A fronte di tali oggettive difficoltà, anche legate al mutamento dei costumi, con il passare degli anni le domande di addebito hanno sempre più faticato a trovare accoglimento in sede processuale. Temi Romana 63 Cronache e attualità contribuito – sia pure con i loro innegabili limiti – a difendere la solennità e la giuridicità degli impegni assunti dai coniugi. mento ormai costante, ha precisato che: «ai fini dell’addebitabilità della separazione il Giudice di merito deve accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi, e quindi se sussista un rapporto di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, o se piuttosto la violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale, o per effetto di essa» (Cass. 2012 n. 8862; Cass. 2012 n. 8873; Cass. Sez. I, 2008, n. 14042, conf. Cass. Sez. I, 2010, n. 21245; Cass. 2001, n. 12130; Cass. Sez. I, 1999, n. 7566, Cass. Sez. I, 1998, n. 10742). Ciò che la Suprema Corte di Cassazione richiede dunque, per poter addebitare la separazione al “coniuge trasgressore”, è che la crisi dell’unione coniugale sia riconducibile secondo un nesso di causa-effetto alla violazione di uno degli obblighi di cui all’art.143 c.c. (ad esempio dell’obbligo di fedeltà coniugale). Mentre è irrilevante ai fini dell’addebito il comportamento tenuto dal coniuge che ha “trasgredito” (per es. infedele) successivamente al verificarsi di una situazione di intollerabilità della convivenza. Per tale ragione, la parte richiedente l’addebito deve fornire in giudizio la prova che la violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio sia stata la causa (unica o prevalente e determinante) dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza fino a determinare la separazione33-36. Qualora invece emerga nel corso del giudizio che alla suddetta violazione preesisteva una diversa causa di intollerabilità della convivenza (per cui la crisi coniugale era già in atto), il Giudice dovrà pronunciare la separazione ma senza addebito (Cass. 2001, n. 12130). CAPITOLO SECONDO di Barbara Capicotto e Anna Lanza Avvocati del Foro di Roma 4. L’addebito nella separazione In forza del novellato art. 151 c.c. attualmente la separazione può essere chiesta quando per qualsiasi motivo sia venuta meno la comunione materiale e spirituale tra i coniugi (c.d. affectio maritalis) e la convivenza sia ormai divenuta intollerabile o possa arrecare un pregiudizio ai figli (Cass. 1994, n. 10512). La Dottrina e la Giurisprudenza definiscono nella prassi queste fattispecie come “separazione senza colpa o per incompatibilità di carattere”. La separazione con addebito non configura un tipo di separazione a sé, ma necessita comunque di una specifica domanda dell’attore o, in via riconvenzionale, del convenuto, la quale può essere abbandonata in qualsiasi grado del giudizio. Nel caso in cui venga ritenuto insussistente l’addebito, può essere pronunciata separazione senza addebito. Spetta pertanto al Giudice, solo se vi è una espressa e specifica domanda, pronunciare la separazione con addebito a seguito di una discrezionale valutazione con riferimento alla violazione dei doveri matrimoniali da parte di uno o di entrambi i coniugi. Tale valutazione deve comprendere e basarsi sul comportamento complessivo tenuto dai coniugi in costanza di matrimonio nello svolgimento del rapporto coniugale. 5. Presupposti per la pronuncia di addebito 1) Un comportamento cosciente e volontario contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di cui all’art. 143 c.c.: per esempio infedeltà coniugale qualora uno dei due coniugi abbia una relazione extraconiugale, abbandono della casa coniugale; infedeltà apparente che costituisca grave offesa all’altro coniuge, mentre non è necessario che vi sia l’intenzione di ledere l’altro coniuge o recargli nocumento. * 2) Tale violazione deve essere la causa determinante della crisi coniugale. La Giurisprudenza, con orienta- 6. Giurisprudenza di legittimità e di merito A tal proposito sebbene la Cassazione con orientamento costante ribadisce quanto sopra richiamato. Degne di particolare menzione appaiono alcune Sentenze dei Tribunali di Merito ed in particolare la Giurisprudenza del Tribunale di Roma che con riferimento agli aspetti più problematici della richiesta di addebito precisa quanto segue: 1) Abbandono della casa coniugale e violazione dell’obbligo di coabitazione. La Corte di Cassazione ha precisato che non costituisce causa di violazione del- 64 Temi Romana Cronache e attualità l’obbligo matrimoniale, e non è quindi causa di addebito, se l’abbandono della casa coniugale è determinato dalla “mancanza di una appagante e serena intesa sessuale” (Cass., Sez. I, 31.5.2012 n. 8773). Nella fattispecie presa in esame dalla Corte la moglie aveva abbandonato la casa coniugale a causa di problematiche di natura sessuale (mancanza di intesa sessuale). Il marito, in sede di ricorso in Cassazione, evidenziava che le problematiche lamentate erano da imputare alla donna che “si presentava indisponibile e priva di recettività”. La Suprema Corte confermando l’orientamento dominante, rigettava le richieste del marito ribadendo che la mancanza di intesa sessuale rappresenta una «giusta causa» per abbandonare il tetto coniugale per cui chi lascia il coniuge, non vivendo con lui un rapporto «sereno e appagante» non rischia di vedersi addebitata la colpa della separazione. Altra causa ritenuta dalla Suprema Corte giustificativa dell’abbandono della casa coniugale è costituita dai frequenti litigi domestici della moglie con la suocera convivente37. 2) Allontanamento dalla casa coniugale. La Cassazione, riformando la sentenza dei giudici di primo e secondo grado, ha stabilito che “è sufficiente una lettera di addio del coniuge all’altro per provare la giusta causa dell’allontanamento definitivo dalla casa coniugale” (Cass. Pen., Sez. VI, 11.9.2012 n. 34562). Nella fattispecie il marito (che in primo e secondo grado era stato condannato ai sensi dell’art. 570 c.p.) aveva lasciato una lettera di addio alla moglie in cui giustificava la sua scelta con riferimento ad una situazione di intenso disagio nei rapporti con il proprio coniuge. La Cassazione preso atto di tale circostanza ha precisato che in presenza di questo elemento che pare aver determinato una situazione di intollerabilità della vita coniugale, i Giudici di merito avrebbero dovuto accertare la presenza di una giusta causa di allontanamento fermo restando che l’imputato si era allontanato ma senza far venire meno i mezzi di sussistenza ai figli. Ribadisce la Suprema Corte che: “il giudice non può esaurire il proprio compito nell’accertamento del fatto storico dell’abbandono, ma deve ricostruire la situazione in cui esso si è verificato onde valutare la presenza di cause di giustificazione, per impossibilità, intolle- Temi Romana rabilità o estrema penosità della convivenza”. L’art. 570 c.p. rende punibile non l’allontanamento (rectius abbandono del domicilio domestico) in sé ma quello privo di una giusta causa. Al contrario, viene ritenuto motivo di addebito della separazione, l’allontanamento del marito dalla casa familiare dettato non da esigenze lavorative, ma dall’intento di abbandonare la famiglia38, mentre non costituisce causa di addebito39 quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto. 3) Violazione dell’obbligo di fedeltà. Presuppone una comunione spirituale tra i coniugi ed implica un “impegno globale di devozione” al fine di garantire e consolidare una ampia armonia interna tra gli stessi. In tal senso dunque la fedeltà sessuale è solo un aspetto (un minus) anche se rilevante di tale obbligo coniugale. Precisa la Cassazione che l’addebito per violazione di tale obbligo sussiste pertanto qualora vi siano state violazioni degli obblighi matrimoniali, gravi e ripetute, che abbiano causato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (Cass. 8862/2012). Ciò vale in generale per tutti gli obblighi nascenti dal matrimonio e non solo per quello di fedeltà. Interessante appare anche la sentenza della Cassazione n. 21245 del 2010, nella quale viene riconosciuto l’addebito al coniuge che tradisce l’altro e rende nota la sua relazione extraconiugale agli amici di famiglia. Tuttavia anche in questo caso la Giurisprudenza per escludere l’addebito richiede che si fornisca la PROVA che il ménage preesistente restava in piedi solo sul piano formale (Cass. Sez. I, 2010 n. 21245). Recentemente la Cassazione ha anche precisato che sempre nell’ottica in cui la violazione dell’obbligo coniugale deve essere la causa della frattura dell’unione coniugale nell’ambio del più ampio menage familiare preesistente, ha negato l’addebito della separazione al marito fedifrago se la moglie era contraria ad avere figli. In tale caso la Corte ha ritenuto che la reazione extraconiugale del marito era proporzionata all’omissione dei doveri coniugali da parte della moglie (Cass. 21.9.012). 4) Prova dell’addebito Cass. 2012 n. 2059. Grava sulla parte che richiede, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniu- 65 Cronache e attualità ge, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre, è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà. (Rigetta, App. Bari, 2.2.2010)40, anche se in una recente sentenza, la Cassazione ha affermato che “Deve escludersi che il richiedente la separazione con addebito debba altresì fornire la prova che la crisi coniugale sia stata provocata in via diretta ed esclusiva dall’accertata relazione extraconiugale intrattenuta dall’altro coniuge. Nella specie, peraltro, non contestata”41. Non può non evidenziarsi che la prova per l’accertamento della violazione dei doveri matrimoniali, ai fini della dichiarazione di addebito, risulta spesso indiziaria e indiretta perché i fatti oggetto di causa, sono avvenuti tra le mura domestiche o nella dimensione privata dei soggetti coinvolti. Quando si tratta di provare l’infedeltà coniugale entrano in gioco una serie di elementi probatori che singolarmente non avrebbero alcun valore, ma unitariamente considerati possono condurre il giudice a considerare il fatto come provato (Cassazione 6 novembre 2012, n. 19114). Si tratta di prove indiziarie (le così dette testimonianze de relato o indirette da parte di soggetti terzi estranei alla vicenda), poiché il fatto non è sottoposto alla diretta percezione fisica del teste. Tali dichiarazioni testimoniali secondo la Suprema Corte possono divenire valido elemento di prova se sono suffragate da altre circostanze oggettive e soggettive o da altre risultanze probatorie acquisite al processo che concorrano a rafforzarne la credibilità (Cass. Civ. 19 maggio 2006, n. 11844 e Cass. Civ. 8 febbraio 2006, n. 28159). Pertanto il Giudice nel pronunciare l’addebito potrà basare la propria decisione anche su presunzioni purché siano gravi, precise e concordanti. Ciò significa che nel giudizio di separazione e divorzio potranno essere sentiti come testi i familiari e in generale i parenti delle parti la cui attendibilità dovrà essere successivamente valutata dal Giudice sia con riguardo alla deposizione, sia con riguardo agli episodi riferiti. Inoltre, il giudice di merito non è obbligato ad accettare integralmente la deposizione di un teste ma potrà scinderla e accettarla soltanto per quella parte che meglio si armonizza con le altre risultanze di causa e che quindi riterrà discrezionalmente più attendibile. * Sempre in tema di infedeltà coniugale, la Cassazione nega l’addebito in caso di tradimenti reciproci dei coniugi, non attribuendo valore alcuno al soggetto che ha tradito per primo42. Del pari, la Corte Suprema nega l’addebito della separazione a carico del marito che abbia convissuto con un’altra donna in costanza di matrimonio, ove si sia determinata medio tempore una separazione di fatto dalla consorte43. In una sentenza di approccio particolarmente “aperto”, la Cassazione ha negato efficacia ai fini dell’addebito anche alla relazione extraconiugale della moglie, stante il successivo periodo di riappacificazione tra i coniugi44. Al contrario, è stata addebitata la separazione alla moglie che dopo la conciliazione seguita alla separazione, ha intrattenuto una convivenza con un terzo uomo45. In ogni caso il Tribunale di Roma è tranciante nel suo giudizio, ove afferma che “In materia di separazione giudiziale dei coniugi non può essere accolta la domanda di addebito di uno dei coniugi qualora non ne venga data idonea prova in giudizio”46. * Sul nesso di causalità: alcune pronunce del giudice di merito - Corte Appello Roma 8.2.2012 sempre in tema di prova e infedeltà coniugale In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale mediante accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi irrimediabilmente il fatto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. - Appello Roma 21.9.2011 addebito e accertamento del Giudice 66 Temi Romana Cronache e attualità In tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito non può fondarsi esclusivamente sull’accertamento della violazione dei doveri posta dall’art. 143 cod. civ. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata ed in conseguenza di una situazione di intollerabilità della convivenza, abbia, viceversa, assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale. L’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi della intollerabilità della convivenza è istituzionalmente riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione congrua e logica. - In senso conforme a Cassazione Civile, Sez. I, 24.2.2011 n. 4540 La giusta causa legittimante l’allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale, prima della separazione, deve intendersi identificabile non solo nel comportamento illegittimo dell’altro coniuge, anch’esso concretatosi nella violazione dei doveri coniugali, ma anche nella obiettiva determinatasi situazione di intollerabilità della convivenza coniugale. In tal senso, pertanto, l’abbandono del tetto coniugale non costituisce violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, e conseguente causa di addebito della separazione, qualora legittimato da una giusta causa nei termini di cui innanzi, con ciò dovendosi intendere anche i frequenti litigi della moglie, poi allontanatasi, con la suocera, qualora determinanti un progressivo deterioramento del rapporto di coniugio. - Appello Roma, 16.2.2011 In tema di separazione personale dei coniugi, l’abbandono della casa familiare, di per sé costituisce violazione di un obbligo matrimoniale, con la conseguenza che il volontario allontanamento dal domicilio coniugale è causa di per sé sufficiente di addebito della separazione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, salvo che si provi – e l’onere incombe a chi ha posto in essere l’abbandono – che esso é stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge, ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto. - Tribunale Roma, Sez. I, 1.2.2011 II volontario abbandono del domicilio coniugale costi- Temi Romana tuisce violazione di un obbligo matrimoniale ed è pertanto di per sé sufficiente a configurare, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, causa di addebito della separazione, salvo che si provi – e l’onere incombe su chi ha posto in essere l’abbandono – che esso è stato determinato dall’altro coniuge ovvero che sia intervenuto quando l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si era già verificata. - Appello Roma, 13.10.2010 La dichiarazione di addebito della separazione necessita della prova che l’irreversibile crisi coniugale sia riconducibile in via esclusiva alla condotta volontariamente e consapevolmente contraria ai doveri nascenti dal matrimonio assunta da uno o da entrambi i coniugi, ovverosia che sussista un nesso eziologico tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità della ulteriore convivenza. In caso di mancato raggiungimento della suddetta prova, deve essere pronunciata la separazione senza addebito. - Conf. anche con Appello Roma 8.9.2010; Cass. Civ., Sez. I, 19.7.2010 n. 16873; Appello Roma 30.6.2010; Appello Roma 9.6.2010 In materia di separazione dei coniugi, con riguardo all’addebito, può ritenersi sussistente la responsabilità quantomeno prevalente nel fallimento del matrimonio di quel coniuge che ha posto in essere nei confronti dell’altro coniuge e del figlio (nel caso di specie gravemente disabile) condotte violative dei doveri scaturenti dal matrimonio, eziologicamente collegabili al fallimento del rapporto – Tribunale Roma, Sez. I, 10.3.2011, n. 5212. * Altre cause di addebitabilità della separazione Oltre alla infedeltà ed all’abbandono della casa familiare, la giurisprudenza individua anche altre possibili cause di addebito della separazione. Al riguardo, la Cassazione precisa i confini dei comportamenti atipici a cui è possibile ricondurre l’addebito della separazione: “In tema di addebitabilità della separazione personale, ove i fatti accertati a carico di un coniuge costituiscano violazione di norme di condotta imperative ed inderogabili – traducendosi nell’aggressione a beni e diritti fondamentali della persona, quali l’incolumità e l’integrità fisica, morale e sociale dell’altro coniuge, ed oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto comunque 67 Cronache e attualità Altro caso in cui la Cassazione ha addebitato al marito la separazione riguarda la scelta del marito di fissare la residenza familiare nel luogo più consono alla propria attività lavorativa non curandosi delle esigenze della moglie, prossima al parto54. necessaria e doverosa per la personalità del partner – essi sono insuscettibili di essere giustificati come ritorsione e reazione al comportamento di quest’ultimo, e si sottraggono anche alla comparazione con tale comportamento, la quale non può costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere”47. Sicuramente una delle cause di addebito della separazione è costituita dalla violenza endofamiliare, in relazione alla quale, il Tribunale di Roma ha concesso l’addebito a carico del marito il quale: “non soltanto non ha ottemperato ai propri doveri familiari ma ha altresì avuto nel corso della convivenza coniugale condotte ripetutamente violente nei confronti delle figlie e della moglie esternatesi in aggressioni fisiche, espressioni scurrili ed offensive, scatti di rabbia incontrollata a fronte di motivi futili se non inesistenti, intolleranza nei confronti dei familiari, oltre ad essersi più volte allontanato dall’abitazione familiare per periodi prolungati senza più dare notizie di sé”48. La Cassazione ha confermato la pronuncia di addebito al marito che si è reso protagonista anche di un solo episodio di percosse, soprattutto ove causato da un motivo banale e futile come l’aver gettato nella spazzatura un tozzo di pane raffermo49. Il marito è stato ritenuto responsabile della separazione che gli è stata addebitata, per aver fatto mancare il suo sostegno morale e materiale alla moglie malata di depressione50. Al contrario, la Cassazione non ritiene sussistere una valida causa di addebito della separazione ove un coniuge si rechi all’estero ad assistere un genitore malato51. Ai coniugi viene richiesto, altresì, pena l’addebito della separazione, di comunicare all’altro coniuge un’eventuale incapacità ad avere figli: in caso contrario, il comportamento tenuto dall’altro coniuge viene considerato una mera conseguenza dell’omessa verità sulla propria impotenza a generare e non da luogo all’addebito della separazione52. Altra fattispecie particolare di addebito della separazione è costituita dalla la condotta del marito che ha imposto alla moglie pratiche di scambio di coppia e di amori di gruppo, le quali, seppur dalla stessa a lungo accettate, hanno determinato un atteggiamento violento ed umiliante del marito allorquando la stessa ha dichiarato di volerle interrompere53. CAPITOLO TERZO di Patrizia Paris Avvocato del Foro di Roma 7. Il risarcimento del danno nella separazione con o senza addebito Il tema della responsabilità civile nell’ambito delle relazioni coniugali si colloca nel contesto della progressiva valorizzazione delle posizioni individuali. Venuto meno il profilo istituzionale, che voleva gli interessi dei familiari subordinati a quelli “superiori” del consorzio, è mutata l’intera prospettiva in cui si collocano le situazioni attinenti la responsabilità civile; infatti nuovi spazi ha conquistato nell’area dei rapporti tra coniugi e tra genitori e figli l’illecito civile, a testimoniare ancora una volta l’attenzione dell’ordinamento alle prerogative individuali, un tempo sacrificate dalle incombenti potestà familiari. Le norme che regolano il diritto di famiglia hanno costituito fino ad oggi un sistema autonomo, completo e autosufficiente, assolutamente refrattario al concetto della responsabilità civile ex art. 2043 c.c., ma la rielaborazione giurisprudenziale ha apportato profonde modifiche a tale impianto; così la responsabilità aquiliana, con il suo risarcimento del danno ingiusto ha fatto l’ingresso anche all’interno delle problematiche della famiglia. Si tratta, dunque, di una nuova forma di tutela che trova il presupposto in una ridefinizione – avviata con la riforma del 1975 – del concetto di “famiglia”, da formazione sociale a sé stante, capace da sola di tutelare i propri membri da eventuali illeciti endofamiliari, a formazione sociale che valorizza i diritti fondamentali costituzionalmente protetti dei suoi singoli appartenenti come persone, alle quali viene riconosciuta una ulteriore tutela. Attualmente dottrina e giurisprudenza unanimemente riconoscono la risarcibilità del danno endofamiliare, sempre che la condotta del coniuge contraria ai doveri nascenti dal matrimonio abbia altresì cagionato un 68 Temi Romana Cronache e attualità danno ingiusto suscettibile di essere risarcito ai sensi degli artt. 2043 ss.. Lo status di coniuge non può certo comportare una riduzione ed una limitazione delle prerogative riconosciute a tutte la persone, ma semmai può prevedere un aggravamento delle conseguenze a carico del familiare responsabile. Il problema consiste nel verificare le circostanze nelle quali la condotta di un coniuge cagiona all’altro un danno ingiusto, nonché i rapporti che intercorrono tra la violazione dei doveri matrimoniali, l’addebito della separazione ed il danno ingiusto. Appare difficile sostenere che la semplice violazione dei doveri matrimoniali possa legittimare una condanna al risarcimento del danno; pertanto è necessario escludere ogni automatismo di giudizio tra la violazione dei doveri coniugali, il giudizio di addebito della separazione e il danno. Il comportamento di un coniuge in violazione dei doveri matrimoniali, può provocare l’addebito della separazione, soltanto se ha determinato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, oppure il grave pregiudizio all’educazione della prole. Può portare ad una responsabilità aquiliana se concretizza un danno ingiusto, che non necessariamente coincide con la violazione dei doveri matrimoniali o con la declaratoria di addebito. Il risarcimento del danno può essere accordato quando la condotta, particolarmente grave, del coniuge ha violato non solo uno dei diritti nascenti dal matrimonio, ma ha anche provocato la lesione di un interesse ulteriore, tutelato dall’ordinamento; in tal caso se non si riconoscesse il risarcimento del danno, tale interesse rimarrebbe privo di tutela, perché non potrebbe essere compensato con i rimedi specifici previsti nell’ambito del diritto di famiglia. La violazione dei doveri derivanti dal matrimonio rappresenta il presupposto per accertare la concreta lesione di un interesse tutelato, al riguardo la Suprema Corte ha affermato a chiare lettere che «il rispetto della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare assume i connotati di diritto inviolabile, la cui lesione da parte dell’altro componente del nucleo della famiglia, così come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo ritenersi che diritti definiti come inviolabili Temi Romana ricevano tutela diversa a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare» (Cassazione, 10 maggio 2005, n. 9081). Il rapporto tra violazione dei doveri coniugali e responsabilità aquiliana deve essere inquadrato nel più ampio contesto del risarcimento del danno per lesione di un interesse costituzionalmente rilevante ex art. 2059 c.c., “... Appare significativa l’evoluzione della giurisprudenza di questa S.C., sollecitata dalla sempre più avvertita esigenza di garantire l’integrale riparazione del danno ingiustamente subito, non solo nel patrimonio inteso in senso strettamente economico, ma anche nei valori propri della persona (art. 2 Cost.). In proposito va anzitutto richiamata la rilevante innovazione costituita dall’ammissione a risarcimento (a partire dalla sentenza n. 3675-81) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale (diverso dal danno morale soggettivo) che è il danno biologico, formula con la quale si designa l’ipotesi della lesione dell’interesse costituzionalmente garantito (art. 32 Cost.) alla integrità psichica e fisica della persona. Non ignora il Collegio che la tutela risarcitoria del c.d. danno biologico viene somministrata in virtù del collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost., e non già in ragione della collocazione del danno biologico nell’ambito dell’art. 2059, quale danno non patrimoniale, e che tale costruzione trova le sue radici (v. Corte cost., sent. n. 184-1986) nella esigenza di sottrarre il risarcimento del danno biologico (danno non patrimoniale) dal limite posto dall’art. 2059 norma nel cui ambito ben avrebbe potuto trovare collocazione, … si deve ormai ritenere acquisito dal diritto positivo la nozione di danno non patrimoniale inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come “danno morale soggettivo” (Cassazione, 31 maggio 2003, n. 8827 e n. 8828). Il danno non patrimoniale così configurato costituisce la forma più appropriata per un adeguato ristoro alla lesione subita dal familiare, in quanto consente di offrire una tutela indipendentemente dalla circostanza che la condotta lesiva integri fattispecie delittuosa, o fattispecie per la dichiarazione dall’addebito della separazione (Cassazione, n. 18853/11). Al riguardo merita una lettura attenta la recente sentenza della I Sezione Civile della Corte di Cassazione, del 15 settembre 2011, n. 18853, che si è espressa con molta chiarezza al riguardo: “se la violazione del dove- 69 Cronache e attualità re di fedeltà arriva a ledere diritti fondamentali ed inviolabili, il coniuge tradito, a prescindere dalla separazione o addebito, ha diritto al risarcimento”. La ricorrente dopo aver scoperto la relazione adulterina del marito con una donna sposata, aveva prima proposto ricorso per separazione giudiziale, con richiesta di addebito, ma poi, preferendo accelerare il più possibile la procedura, ha sottoscritto un verbale di separazione consensuale, ritualmente omologato, e solo successivamente ha attivato un nuovo giudizio, questa volta ordinario, perché la relazione extraconiugale di cui era stata vittima, suo malgrado, aveva leso profondamente la sua dignità, l’immagine, etc., diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento. Il marito, infatti, non aveva mai cercato di nascondere quella relazione, ma anzi l’aveva “consumata” pubblicamente, senza mai mostrare il minimo riguardo per la moglie, per la sua dignità, la sua immagine, i suoi rapporti sociali, la sua riservatezza e la sua stessa salute. E proprio per l’umiliazione inferta da questo “tradimento plateale” che la moglie si è determinata a chiedere il risarcimento per tutte le sofferenze che il coniuge le aveva provocato. La domanda veniva respinta sia in primo che in secondo grado. Le pronunce negative non hanno scoraggiato la ricorrente che si è rivolta alla Suprema Corte chiedendo la “cassazione” della decisione con cui i giudici di appello avevano negato il diritto al risarcimento dei danni provocati dalla “violazione dell’obbligo di fedeltà, avvenuto con modalità particolarmente frustranti, stante la notorietà della relazione intrattenuta con donna sposata”. Con il proprio ricorso l’istante ha rilevato come la decisione d’appello fosse viziata da un errore di fondo, perché dopo aver confermato l’applicabilità, anche in caso di violazione dei doveri matrimoniali, delle norme in tema di responsabilità, le aveva poi ingiustamente negato il risarcimento per uno “specifico presupposto”: “l’abbandono della domanda di addebito presupporrebbe la volontà da parte dei coniugi di non accertare la causa della crisi coniugale”. La ricorrente contestando proprio questa erronea trasposizione, in un giudizio risarcitorio, di regole ed i limiti che sono previsti dall’art. 151 c.c. e che sono, dunque, applicabili esclusivamente in tema di separa- zione con addebito (con conseguenze del tutto peculiari e limitate) nell’adire la Corte di Cassazione chiedeva preliminarmente che si disponesse che: “la mancanza di addebito in sede di separazione per mutuo consenso non è preclusiva di separata azione per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti”. La Cassazione chiarendo la propri posizione dichiarava che: “Ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l’addebito o si sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma coprendo il dedotto e il deducibile unicamente in relazione al ‘petitum’ azionato e non sussiste pertanto alcuna preclusione all’esperimento dell’azione di risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, così come nessuna preclusione si forma in caso di separazione consensuale”. La Corte ha poi analizzato le richieste risarcitorie della ricorrente evidenziando che la mera violazione dei doveri matrimoniali e finanche la pronuncia di addebito non possono di per sé ed automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria; in particolare il dovere di fedeltà del nostro diritto di famiglia deve conciliarsi anche con il diritto di libertà garantito dall’art. 2 della Costituzione, che prevede per ciascun coniuge il diritto di separarsi e divorziare, a prescindere dalla volontà o dalle colpe dell’altro coniuge: “ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione”. Dunque la “semplice” violazione in costanza di convivenza matrimoniale del dovere di fedeltà, potrà senz’altro costituire valido motivo di separazione, qualora sia stata la causa determinante della separazione; potrà (se richiesto ed accertato) essere “sanzionata” con la misura tipica dell’addebito, ma tale violazione, di per sé, non è idonea, né sufficiente ad integrare una responsabilità risarcitoria del coniuge che l’abbia compiuta. Di contro, si deve sottolineare come i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono esclusivamente morali ma hanno anche natura giuridica, come confermano le nozioni di diritti e doveri reciproci dei coniugi racchiuse nell’art. 143 e seguenti del codice civile oltre che la previsione della loro inderogabilità prevista dal successivo art. 160 c.c.; risulta dunque evidente che l’in- 70 Temi Romana Cronache e attualità teresse di ciascun coniuge all’osservanza di tali doveri da parte dell’altro ha valenza di diritto soggettivo. Pertanto, l’infedeltà coniugale, qualora abbia provocato in danno dell’altro coniuge la grave compromissione di diritti fondamentali, potrà comportare un diritto al risarcimento, ma come viene specificato in sentenza il motivo della richiesta non potrà “consistere nella sola sofferenza psichica causata dall’infedeltà e nella percezione dell’offesa che ne deriva – insita nell’obbligo di fedeltà, ma nella lesione di un interesse costituzionalmente protetto”. Il risarcimento da infedeltà è dunque riconducibile a casi e contesti del tutto particolari in cui sarà possibile dimostrare che l’infedeltà sia la causa unica e determinante di una lesione alla salute del coniuge o che i comportamenti infedeli abbiano travalicato i limiti dell’offesa (di per sé insita nella violazione) e si siano concretizzati con atti specificamente lesivi della dignità della persona. Solo in presenza di tali circostanze sarà dunque possibile invocare il risarcimento ex art. 2059. La Suprema Corte ha dunque accolto il ricorso per il “tradimento plateale” disponendo la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Genova che dovrà applicare il seguente principio: “I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti; che la relativa violazione ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni”. Il danno non patrimoniale sarà risarcibile ove ricorrano contestualmente le seguenti condizioni: a) che l’interesse leso (non il pregiudizio sofferto) abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell’interesse sia grave nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità come impone il dovere di solidarietà di cui all’articolo 2 della costituzione; c) che il danno non sia futile ma consistente e possa Temi Romana considerarsi giuridicamente rilevante. Ad eliminare ogni dubbio sull’orientamento della Cassazione vi è la recentissima sentenza della Prima Sezione Civile, 1 giugno 2012 n. 8862, che dispone: “La violazione di obblighi nascenti dal matrimonio che, da un lato è causa di intollerabilità della convivenza, giustificando la pronuncia di addebito, con gravi conseguenze, com’è noto, anche di natura patrimoniale, dall’altro, dà luogo ad un comportamento (doloso o colposo) che, incidendo su beni essenziali della vita, produce un danno ingiusto, con conseguente risarcimento, secondo lo schema generale della responsabilità civile. Possono dunque sicuramente coesistere pronuncia di addebito e risarcimento del danno, considerati i presupposti, i caratteri, le finalità radicalmente differenti”. La Cassazione chiarisce che assumeranno particolare rilievo, rispetto ai coniugi, le modalità con cui la violazione viene realizzata dal convenuto; non sarà sufficiente la semplice infedeltà, ma dovrà risultare che la condotta fedifraga è stata storicamente così intensa o crudele nella sua manifestazione da ledere la dignità stessa del coniuge tradito. La dichiarazione di addebito non riesce a riparare le conseguenze negative, provocate dalla condotta illecita di un coniuge nella sfera di interessi dell’altro, non potendosi attribuire all’assegno di mantenimento o all’assegno divorzile funzione risarcitoria – avendo per loro natura solo finalità assistenziali. Altrettanto insufficienti sono le sanzioni penali inadeguate a tutelare il coniuge, vuoi per i caratteri restrittivi delle fattispecie delittuose, che limitano una applicazione ampia e adattabile alle diverse situazioni bisognevoli di tutela, vuoi perché è improbabile che nell’ambito delle relazioni familiari la tutela penale possa condurre a risultati apprezzabili. Così, quando con istanza di parte si dimostri che vi è stata la violazione dei doveri coniugali, e che tale comportamento ha costituito la causa unica e diretta della determinazione della crisi coniugale, si può ottenere la pronuncia di addebito, che spiega i suoi effetti patrimoniali: - la perdita del diritto all’assegno di mantenimento (sempre che vi fossero i presupposti per ottenerlo) e dei diritti successori; ad essa può affiancarsi la richiesta di risarcimento del danno per responsabilità aquiliana, quando la violazione dei doveri coniugali si è realizza- 71 Cronache e attualità ta con modalità tali da arrecare un pregiudizio che lede non solo i diritti del coniuge, ma anche quelli della persona, precisando che tale azione potrà essere esperita anche in assenza della dichiarazione di addebito nella separazione. Un risultato innovativo e “rivoluzionario” che forma l’humus per l’affermarsi all’interno della famiglia dei danni di carattere non patrimoniale, “il danno biologico”, e offre al coniuge due tipi di tutela che si distinguono fra di loro per compiti e per natura: - l’uno, l’addebito, ha funzione prevalentemente sanzionatoria; - l’altro, la responsabilità aquiliana, ha funzione riparatoria. Quindi se la semplice violazione dei doveri coniugali de sé non da luogo alla responsabilità aquiliana, la correlata lesione dei diritti costituzionalmente riconosciuti e tutelati, permetterà al Giudicante di applicare i principi previsti dall’art. 2043 c.c. e riconoscere il danno non patrimoniale, così come individuati dalle Sezioni Unite con sentenza 26972/0855. Con tale sentenza le Sezioni Unite hanno sancito la risarcibilità del pregiudizio di natura non patrimoniale quando il fatto illecito abbia violato in modo grave “diritti inviolabili della persona”, la valorizzazione della persona, non solo nel suo essere, ma anche nel suo volere e nel suo agire, in nome di quei diritti inviolabili che sono garantiti dalla Costituzione. Tale sentenza ha chiarito il significato di danno non patrimoniale, definito come danno biologico, diverso e omnicomprensivo del danno morale, esistenziale, di relazione, etc., unica categoria alla quale si riconduce la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona. Tale danno potrà essere accolto sulla base anche di presunzioni semplici, fermo restando però l’onere per il danneggiato di rappresentare gli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio, il Giudice per calcolare il ristoro del danno nella sua interezza, oltre a far riferimento alle relative tabelle, dovrà procedere ad una adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando l’effettiva consistenza delle sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso. Riassumendo secondo l’attuale orientamento della Cassazione: 1. la violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio che costituisce la causa diretta della intollerabilità della convivenza, giustifica la pronuncia di addebito, con le note conseguenze di natura patrimoniale. 2. La violazione dei doveri coniugali, con comportamento (doloso o colposo) che incide sui beni essenziali della vita, può determinare una sanzione di natura risarcitoria unitamente alla richiesta di addebito in sede di separazione dei coniugi. 3. La mancanza di addebito, anche nel caso di separazione consensuale, non è preclusiva di separata azione civile per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri discendenti dall’art. 143 del Codice Civile e riguardanti diritti costituzionalmente garantiti. 4. Qualora ne sussistano i presupposti, l’azione per far valere l’illecito civile deve ritenersi del tutto autonoma rispetto agli strumenti previsti dal diritto di famiglia. Possono così coesistere la pronuncia di addebito e il risarcimento del danno, essendo differenti i presupposti, i caratteri, le finalità, anche se il comportamento del coniuge non ha assunto carattere ingiurioso o manifestazioni di eccezionale disdoro per l’altro. Tale responsabilità aquiliana si estende a tutte le relazioni familiari, anche a quelle del genitore nei confronti del figlio, laddove con la violazione dei doveri derivanti dal rapporto genitoriale si realizza una lesione ai diritti inviolabili e primari del destinatario costituzionalmente garantiti (artt. 2 e 30 Cost.), come la salute, la privacy, ai rapporti relazionali. Il disinteresse palese e prolungato dimostrato dal genitore verso il figlio, realizza la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, e determina un “vulnus” dalle conseguenze rimarchevoli ed ineliminabili a quei diritti inviolabili che scaturiscono dal rapporto di filiazione, tutelati dalla Carta costituzionale e dalle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento. È superfluo ribadire che l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del proprio figlio sorge con la nascita del medesimo (Appello Milano, 12 aprile 200656, Cass. civ. n. 5652 /2012, e Cass. n. 610 /2012). 8. Giurisprudenza di merito - Trib. Firenze, 13.6.2000 ll Tribunale a fronte di una fattispecie in cui il marito aveva fatto mancare per lungo tempo ogni assistenza alla moglie, affetta da infermità mentale, determinando così una compromissione della sua integrità psicofisica 72 Temi Romana Cronache e attualità rilevata a mezzo di apposita c.t.u., le ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico corrispondente alla durata della sofferenza debitamente accertata. - Trib. Milano, 4.6.2002 Il Tribunale acquisita prova adeguata e sufficiente della condotta, soprattutto omissiva, assunta dal marito in aperto contrasto con i doveri di assistenza morale e materiale e di collaborazione con il coniuge, tale da giustificare pienamente a suo carico la declaratoria di addebito della separazione ex art. 151, 2° co., c.c., ha ritenuto che siffatta condotta non può che integrare violazione dell’art. 2043 c.c.. - Trib. Milano, 22.11.2002 Il Tribunale, in relazione ad un caso di separazione personale per infedeltà coniugale, ha negato che possa essere riconosciuta una responsabilità risarcitoria a carico del coniuge inadempiente, richiedendo, per la configurabilità dell’illecito civile un «“quid pluris” costituito dalla condotta trasgressiva posta in essere in aperta e grave violazione di uno o più doveri coniugali», che, nel caso in questione, non appariva ravvisabile, trattandosi di «una vicenda di ordinaria infedeltà, clandestina e negata», la quale, seppure ritenuta idonea a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, non si connotava «per specifica gravità e per peculiare lesività della personalità del coniuge tradito». Per il prevalente indirizzo giurisprudenziale, la possibilità di azionare la tutela aquiliana non si pone in rotta di collisione con la pronuncia di addebito della separazione; tuttavia, è dato constatare una comprensibile prudenza nell’individuare, nei casi prospettati, profili di responsabilità civile: fatti che danno luogo alla dichiarazione di addebito possono ingenerare responsabilità aquiliana solo se siano con sicurezza riscontrabili, nella fattispecie, tutti gli estremi prescritti dall’art. 2043 c.c.. - Tribunale di Venezia, Sez. III Civile, 30 giugno 2004 Il danno esistenziale è presente se vi è trascuratezza e privazione affettiva da parte del genitore. Il figlio che è immotivatamente trascurato o rifiutato dal genitore subisce, malgrado l’assenza di esiti apprezzabili sul piano psicopatologico che potrebbero configurare un danno biologico, l’immotivata e dolorosa privazione di un apporto che la Costituzione garantisce. Viene quindi leso un diritto fondamentale del figlio all’apporto anche morale ed assistenziale che trascende l’ambito strettamente patrimoniale, lesione risarcibile e Temi Romana riconducibile nell’alveo del c.d. danno esistenziale. - Corte d’Appello di Bologna, 10 febbraio 2004 La nuova dimensione dei doveri genitoriali è stata integralmente recepita dalla giurisprudenza con specifico riguardo alla applicazione dei principi della responsabilità civile nell’ambito dei rapporti di filiazione, segnatamente per l’ipotesi in cui il genitore li abbia trascurati, arrecando al figlio un danno ingiusto. - Tribunale di Modena, 12 settembre 2006 Il Tribunale ha deciso che la condotta del padre che non abbia riconosciuto il figlio naturale e si sia rifiutato di adempiere gli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione, è contraria agli artt. 147, 148 e 261 c.c., e causa un danno esistenziale al figlio naturale e alla madre che, nel caso di specie, si manifesta, per la donna, sul piano delle relazioni sociali, per il figlio, nelle ripercussioni sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stato desiderato e trattato come figlio. Il diritto al risarcimento del danno da essi subito, nonché il diritto della madre al rimborso pro quota delle spese effettuate per il mantenimento del figlio naturale, può essere tutelato attraverso il sequestro conservativo autorizzato sui beni del padre e sulle somme e cose al medesimo dovute. - Tribunale di Brescia, Sez. II 12 ottobre 2006 Con orientamento sicuramente innovativo, i giudici di Brescia in merito alla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata dalla sig.ra C. nei confronti del coniuge, avente ad oggetto il risarcimento del c.d. danno esistenziale conseguente alla compromissione della complessiva sfera di esplicazione personale della sig.ra C., con contestuale richiesta di liquidazione del danno in via equitativa, hanno, in primis, esaminato il tradizionale orientamento giurisprudenziale che, in ragione del principio “lex specialis derogat legi generali” di cui all’art. 14 disp. prel., esclude ogni forma di risarcimento del danno in caso di addebito della separazione personale, poi hanno così argomentato: «se all’ingiustizia del danno è affidato il ruolo della selezione degli interessi meritevoli di tutela ed il danno ingiusto coincide con la violazione di qualunque bene meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento giuridico, allora non si comprende per quale ragione tale meritevolezza deve essere esclusa nelle relazioni tra sposi». Nel contesto familiare, il “bene meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento giuridico” è stato individuato 73 Cronache e attualità nella dignità e nei valori della persona propri di ciascun componente del nucleo familiare, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia non può non costituire, a giudizio del Tribunale di Brescia, il presupposto logico della responsabilità civile. In tale prospettiva, il comportamento del marito della sig.ra C., consistente nell’avere intrattenuto rapporti omosessuali in costanza di matrimonio, ha comportato l’ingiusta lesione della dignità e della personalità della sig.ra C. Pertanto, oltre a fondare la pronuncia di addebito della separazione, giustifica la condanna del sig. B al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla sig.ra C., «anche alla luce dell’id quod plerumque accidit e di presunzioni derivanti dalla comune esperienza quotidiana». - Tribunale di Trani, 27 settembre 2007 Il Tribunale ha ritenuto ammissibile una domanda di risarcimento del danno esistenziale conseguente al mancato riconoscimento del figlio naturale, ma la ha rigettata per mancanza di prova. - Tribunale Reggio Emilia Dec., 31 marzo 2008 Il Tribunale ha rigettato per infondatezza il ricorso proposto dalla madre che aveva chiesto la revisione delle condizioni di divorzio e la condanna del padre al risarcimento del danno anche in favore della figlia con le seguenti motivazioni: “mentre le questioni connesse al c.d. illecito endofamiliare (fra cui, ad esempio, quella relativa alla responsabilità del genitore che si è volontariamente disinteressato della prole violando l’obbligo di assistenza materiale, morale ed educativa) vanno trattate in un ordinario giudizio di cognizione, l’art. 709 ter c.p.c. ha lo scopo di garantire la soluzione delle controversie familiari in corso insorte vuoi nell’ambito di una lite già pendente fra i genitori vuoi nell’ambito di una situazione già definita, ma suscettibile di modifica – e di stimolare l’adempimento dei doveri genitoriali anche mediante l’adozione dei provvedimenti sanzionatori previsti dal secondo comma di tale norma: pertanto, nel caso di specie, l’indagine del Tribunale deve essere limitata all’accertamento di eventuali gravi inadempienze agli obblighi posti a carico del padre nella sentenza di divorzio”. - Tribunale di Macerata del marzo 2009 “... pronunciava la separazione giudiziale tra i coniugi F.L. e B.C., con addebito al marito, assegnando la casa coniugale alla moglie e disponendo l’affidamento con- giunto delle figlie minori E. e F., con collocamento presso la madre; poneva a carico del F. assegni a favore delle due figlie, di importo differente; escludeva l’assegno di mantenimento, nonché risarcimento dei danni non patrimoniali per la moglie; condannava peraltro il F. a corrispondere alla moglie stessa somma da essa anticipata a favore del marito per l’acquisto di un appartamento...”. La sentenza sosteneva che la condotta del F., con il suo tradimento, non sarebbe stata antigiuridica perché legata al legittimo desiderio di “libertà e felicità” riconosciuto all’individuo dal nostro diritto; inoltre evidenziava che “l’adulterio non costituisce più illecito sanzionabile”, pertanto la domanda di risarcimento del danno contrasterebbe con il diritto del coniuge di perseguire le proprie scelte personali, che seppure hanno portato alla disgregazione della famiglia, possono solo essere valutate esclusivamente come motivo di addebito della separazione, senza potersi spingere fino a configurare una fonte di un risarcimento di danni. Il Giudicante ha omesso di valutare l’introduzione della logica e dei metodi della responsabilità civile nel rapporto tra coniugi e tra genitori e figli, che del resto, si inserisce nel più generale ampliamento dell’area della responsabilità aquiliana. - Tribunale di Roma, I sezione, 14 ottobre 2011 È risarcibile il danno esistenziale patito dal figlio naturale a causa del mancato riconoscimento. Due sorelle quarantenni citano in giudizio davanti al Tribunale di Roma il loro presunto padre naturale, chiedendo l’accertamento giudiziale della paternità e formulando specifiche domande di natura patrimoniale. In particolare chiedono la condanna del genitore naturale al pagamento di somme a titolo di mantenimento arretrato mai corrisposto e di un assegno di natura alimentare per il futuro. Insieme formulano anche domanda di risarcimento del danno morale patito in relazione al mancato riconoscimento da parte del genitore. Il Tribunale, accertata la paternità biologica, dichiara il convenuto padre naturale delle due sorelle, ma respinge sia la domanda di mantenimento pregresso che la domanda di assegno alimentare per il futuro sul presupposto, quanto alla prima, che le donne non avevano titolo essendo state mantenute dalla madre e dalla nonna e poi da una comunità che le aveva ospitate per molti anni e, quanto alla seconda, che non fosse stata da 74 Temi Romana Cronache e attualità loro provata l’impossibilità di trovare una occupazione confacente. Il Tribunale accoglie la domanda di risarcimento del danno morale “originato dalla sofferenza patita per la privazione della figura genitoriale”. - Corte d’Appello di Napoli, 19 ottobre 2011 L’adulterio della moglie, concretizzato dalla nascita di un bambino concepito con altro uomo, costituisce condotta illecita e fonte di danno non patrimoniale di cui il marito può esigere il risarcimento. Costituzione, va così “necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”. Per cui, quindi – essendo le norme costituzionali di garanzia dei diritti fondamentali della persona pienamente e direttamente, operanti “anche nei rapporti tra privati” (c.d. drittwirkung) – “non è ipotizzabile limite alla risarcibilità”, della correlativa lesione, “per sé considerata” (184/1986 cit.), ai sensi dell’articolo 2043 c.c.: che, per tal profilo la Corte veneziana ha per ciò correttamente applicato, riconoscendo all’attore il ristoro del danno (non già “morale” da illecito penale, ma) da lesione in sé di suoi diritti fondamentali, in conseguenza della riferita condotta del suo genitore. - Cass. Sez. I, 26 maggio 1995, n. 5866 La Suprema Corte ha disposto che “... la risarcibilità dei danni è configurabile solo se i fatti che hanno dato luogo alla dichiarazione di addebito integrino gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità”. - Cass., Sez. I, 10 maggio 2005, n. 9801 La Suprema Corte ha precisato come fatti generatori di responsabilità aquiliana possano ritenersi «unicamente quelle condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona». - Cass. civile, Sez. I, 15 settembre 2011 n. 18853 “I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi su detti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni”. - Cass. Civile, Sezione I, 1 giugno 2012, n. 8862 Separazione dei coniugi - Responsabilità aquiliana: La violazione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, anche ai sensi dell’art. 2 9. La giurisprudenza della corte di cassazione - Cass. 7 giugno 2000, n. 7713 “...il comportamento sanzionato dall’articolo 570 del codice penale – sia pur costituito nella sua materialità dalla mancata corresponsione di mezzi di sussistenza – rileva, sul piano civile, in termini di violazione non di un mero diritto di contenuto patrimoniale, ma di sottesi e più pregnanti diritti fondamentali della persona, in quanto figlio e in quanto minore”. Ed è poi del pari innegabile che la lesione di diritti siffatti, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, vada incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza). Il che è stato del resto già ben posto in luce dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza 184/1986, relativa al danno-evento da lesione del diritto alla salute (c.d. danno biologico) ma riferibile (per la latitudine dei suoi enunciati) ad ogni analoga lesione di diritti comunque fondamentali della persona, risolventesi in un danno esistenziale ed alla vita di relazione. La vigente Costituzione, garantendo principalmente e primariamente valori personali impone, infatti, una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2043 c.c. (che non si sottrarrebbe altrimenti ad esiti di incostituzionalità) “in correlazione agli articoli della Carta che tutelano i predetti valori”, nel senso appunto che quella norma sia “idonea a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell’illecito”, attraverso “il risarcimento del danno [che] è sanzione esecutiva del precetto primario ed è la minima delle sanzioni che l’ordinamento appresta per la tutela di un interesse”. Il citato articolo 2043 c.c., correlato agli articoli 2 e ss. Temi Romana 75 Cronache e attualità Cost., invero, incidendo sui beni essenziali della vita, dà luogo a risarcimento dei danni non patrimoniali. La responsabilità aquiliana del coniuge per violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale è compatibile con la pronuncia di addebito della separazione a carico del medesimo. Va precisato che la responsabilità tra coniuge o del genitore nei confronti del figlio, non si fonda sulla mera violazione dei doveri, matrimoniali o di quelli derivanti dal rapporto di genitorialità, ma sulla lesione, a seguito dell’avvenuta violazione di tali a doveri, di beni inerenti la persona umana, come la salute, la privacy, i rapporti relazionali, eccetera. _________________ 1 Cfr. C. GRASSETTI, in Commentario CianOppo-Trabucchi, p. 686. 2 Adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce od ingiurie gravi, condanna penale e non fissata residenza. 3 Cfr. G. VETTORI, L’unità della famiglia e la nuova disciplina della separazione giudiziale fra i coniugi, in Riv. tri. dir. e proc. civ., 1978, p. 740. 4 Cfr. B. DE FILIPPIS – G. CASABURI, Separazione e divorzio nella giurisprudenza, Padova, CEDAM, 1988, p. 389. 5 Cfr. DE FILIPPIS, Trattato breve del diritto di famiglia, 2002, p. 496. 6 Cass. n. 210999/ 2007. 7 Cfr. L. BARBIERA, Stato patologico di un coniuge come fondamento della domanda di separazione personale proposta dall’altro coniuge e addebitabilità della separazione, in Giur. it., 1996, I, p. 885. 8 Cfr. M. DOGLIOTTI, La separazione giudiziale, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. BONILINI - G. CATTANEO, Torino, UTET, 1997, I. . 9 Cass. n. 7165/1994: “la perdita del diritto al mantenimento a carico del coniuge al quale la separazione sia stata addebitata costituisce una sanzione che prescinde dalla condizioni economica del colpevole e si fonda su una valutazione discrezionale del Legislatore che non è censurabile per violazione degli articoli 3 e 29 della Costituzione”. 10 In tema di eredità, infatti, il coniuge cui è stata addebitata la separazione ha diritto solo a un assegno vitalizio se quando viene aperto il testamento godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. 11 Cfr. DOGLIOTTI, in La Separazione, cit., p. 484; Rossi Carleo, in Trattato Bessone, p. 187. 12 Cass. n. 2183/2013 Con la sentenza n. 3356 del 2007 questa Corte ha ampliato l’originaria interpretazione, di stampo strettamente oggettivistico, di tale norma – interpretazione secondo la quale il diritto alla separazione si fonda su fatti che nella coscienza sociale e nella comune percezione rendano intollerabile il proseguimento della vita coniugale – per dare della medesima norma una lettura aperta anche alla valorizzazione di “elementi di carattere soggettivo, costituendo la intollerabilità un fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi”. Ribadita, quindi, l’originaria impostazione oggettivistica quanto al (solo) profilo del controllo giurisdizionale sulla intollerabilità della prosecuzione della convivenza nel senso che le situazioni di intollerabilità della convivenza devono essere oggettivamente apprezzabili e giudizialmente controllabili – e puntualizzato che la frattura può dipendere, come già affermato da questa stessa Corte (Cass. 7148/1992) dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, ha concluso che in una doverosa “visione evolutiva del rapporto coniugale – ritenuto, nello stadio attuale della società, incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge – (...) ciò significa che il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare, in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di 76 addebitabilità, l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell’altro, la convivenza. Ove tale situazione d’intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione: con la conseguenza che la relativa domanda, costituendo esercizio di un suo diritto, non può costituire ragione di addebito”. 13 Cfr. M. DOGLIOTTI, Separazione e divorzio, Torino, UTET, 1995, p. 40. 14 Cass. n. 817/ 2011, in CED, Cassazione, 2011: “in tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito richiesta da un coniuge per le violenze perpetrate dall’altro non è esclusa qualora risulti provato un unico episodio di percosse, trattandosi di comportamento idoneo comunque a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona”. 15 Cfr. C. PADALINO, in Guida al Diritto 15.12.2001, n. 48, p. 45. La declaratoria d’addebito è sollecitabile ed adottabile soltanto nell’ambito del giudizio di separazione, ed inoltre integra un quid pluris che si affianca alla pronuncia di separazione, senza alterarne la natura e la consistenza, e senza delineare una diversa figura di separazione, contrapposta a quella priva di addebito; la separazione giudiziale, addebitabile o meno, è istituto unitario. 16 In giurisprudenza: Cass. 11688/2013. In dottrina: E. CIPRIANI, Impugnazione per il solo addebito, in Foro it., 1998, I, 2143, p. 2146; A. FINOCCHIARO, Ammettere l’auto- Temi Romana Cronache e attualità nomia delle due azioni, in Giur. it., 1998, p. 38; L. BARBIERA, Una non convincente conferma dell’unità del giudicato su intollerabilità della prosecuzione della convivenza e addebito, in Giur. it., 1998, I, p. 2250. 17 Cass. n. 14639/ 2008, massimata e pubblicata in Questioni di diritto di famiglia, Rimini, Maggioli Editore, 2008, 6, p. 86. 18 Sul punto, cfr. Guida al Diritto, 9.5.1998, n. 18, p. 37. 19 Con la conseguenza che la domanda avanzata nella fase dinanzi al presidente del tribunale ovvero in un momento ancora successivo a essa, soggiace alla sanzione dell’inammissibilità: “perché introduce, nell’originario contenzioso, un nuovo tema d’indagine, non rappresentando mera deduzione difensiva o semplice sviluppo logico della contesa instaurata con la domanda di separazione”, Cass. n. 17349/ 2010. 20 Cass. n. 5061/ 2006. 21 Sul punto occorre tenere a mente anche quanto affermato dalla Suprema Corte con alcune significative pronunce (Cass. 10719 del 2013), secondo cui anche il comportamento tenuto dal coniuge successivamente al venir meno della convivenza, ma in tempi immediatamente prossimi a detta cessazione può rilevare ai fini della dichiarazione di addebito della separazione allorché costituisca una conferma del passato e concorra ad illuminare sulla condotta pregressa. 22 Cass. n. 10718/2013, in Il Sole 24 Ore, Famiglia e Minori, 2013. 23 Anche in passato la Corte romana (sent. n. 3776/1983) aveva sostenuto come l’affidamento dei figli non potesse essere inteso come una sorta di punizione o premio per l’uno o l’altro dei genitori, a secondo dei torti o delle ragioni di ciascuno di essi, dovendo invece tener conto esclusivamente di ciò che appare più idoneo a preservare l’interesse morale e materiale dei figli stessi. 24 Cass. n. 23786/2004, in Famiglia e diritto, 2005, 118, con nota di GELLI. 25 Cass. n. 18853/2011 in Danno e Responsabilità, Ipsoa, 2012, 4, p. 382. 26 Cfr. A. R. GALLUZZO, Famiglia e minori, Milano, Il Sole 24 Ore, 2011. 27 Cfr. P. ZATTI, in Trattato Rescigno, Milano, Giuffrè, 1996, p. 175 ss. 28 Cfr. F. SCARDULLA, La separazione per- Temi Romana sonale dei coniugi ed il divorzio, Milano, Giuffrè, 2008, p. 131. 29 Cfr. O. MANCA UCCHEDDU - A. BUSONERA, Storie di separazione fra coniugi, Milano, Giuffrè, 2004, p. 293. 30 Cfr. P. PERLINGIERI intervento in Diritto di famiglia: casi e questioni, Napoli, 1982, p. 126, dove afferma che se determinati fatti sono dovuti al comportamento di un soggetto, “come si fa a ricercare se quel comportamento è l’effetto o la causa? Com’è possibile in quella comunità familiare isolare quel fatto da un contesto di vita comune?”. 31 Anche a seguito dell’entrata in vigore il 1º gennaio 2013 della legge 219 del 10 dicembre 2012 (pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» del 17 dicembre), che elimina la distinzione tra figli legittimi e naturali e trasferisce la competenza dal Tribunale per i minorenni al giudice ordinario su una serie di giudizi che riguardano la tutela dei diritti dei figli, nati nel matrimonio o no. 32 Per un esame della problematica, con riferimento alla dottrina che ha auspicato l’abrogazione dell’istituto dell’addebito e dei progetti di legge che si sono uniformati a tale indirizzo, ci permettiamo di rinviare a A. MORACE PINELLI, La crisi coniugale tra separazione e divorzio, Milano, Giuffrè, 2001, p. 190 e ss. 33 Grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà. Cassazione Civile, Sez. I, 14.2.2012, n. 2059 – Pellegrini c. Tagliaferri – Red. Giust. civ. Mass., 2012, 2. 34 La pronuncia di addebito della separazione può essere accolta dove il coniuge provi che la causa del venir meno della comunione coniugale sia imputabile al partner, il quale ha commesso una o più violazioni dei doveri che discendono dal matrimonio, salvo il caso in cui ricorra una palese e grave violazione di diritti fondamentali. Tribunale Varese, 4.1.2012, 77 Redazione Giuffrè 2012. 35 I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi su detti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa a detti danni (in applicazione del suesposto principio, la Corte ha riconosciuto un risarcimento in favore della moglie che aveva dovuto subire le sofferenze per la relazione extraconiugale del marito, ampiamente pubblica e quindi particolarmente frustrante). Cassazione Civile, Sez. I, 15.9.2011, n. 18853 Giust. civ. Mass. 2011, 9, 1296 – Diritto & Giustizia 2011 – Guida al diritto 2011, 42, 12 (nt. FIORINI). 36 L’addebito di colpa presuppone la violazione dei doveri coniugali derivanti dal matrimonio e il nesso di causalità tra tale violazione e l’intollerabilità della convivenza, che deve essere provato dal richiedente. Pertanto, fallita la riconciliazione, non rileva il comportamento pregresso della moglie, e la mancanza di prove sulla prosecuzione della relazione extra coniugale, nonché sulla causalità di tale circostanza con la nuova crisi e l’intollerabilità della convivenza, preclude l’accoglimento dell’istanza di addebito di colpa. Cassazione Civile, Sez. I, 12.9.2011, n. 18618 – Diritto & Giustizia 2011 (nota PALEARI) 37 Cass. Civ. I, sent. del 24.2.2011, n. 4540. L’allontanamento dalla casa familiare, senza il consenso dell’altro coniuge e confermato dal rifiuto di tornarvi, costituisce violazione di un obbligo matrimoniale; conseguentemente è causa di addebitamento della separazione poiché porta all’impossibilità della coabitazione. Tuttavia, non sussiste tale violazione qualora risulti legittimato da una “giusta causa”, da ravvisare anche nei casi di frequenti litigi domestici della moglie con la suocera convivente e nel conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniugi, e ciò anche in assenza di tradimento o di violen- Cronache e attualità ze da parte del marito. 38 Tribunale Bari, 7.10.2008, n. 1039 – L’allontanamento di un coniuge dalla casa coniugale, se dettato non da specifiche esigenze lavorative, ma dall’intento del medesimo di abbandonare la famiglia, in violazione degli obblighi di assistenza, collaborazione e coabitazione enunciati dall’art. 143 c.c., comporta l’accoglimento della domanda di addebito della separazione proposta nei suoi confronti dall’altro coniuge. 39 Tribunale Bari, Sez. I, 12.6.2008, n. 1495 – Ai fini dell’addebito della separazione, il fatto oggettivo dell’abbandono della casa coniugale non può essere ritenuto sufficiente, poiché se è vero che lo stesso costituisce violazione di un obbligo matrimoniale e, conseguentemente, può costituire causa di addebito della separazione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, è però altrettanto vero che detto comportamento non concreta tale violazione allorquando sia determinato dal comportamento dell’altro coniuge, ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto, sicché anche in caso di abbandono della casa familiare occorre la prova che tale fatto sia stato la causa dell’impossibilità della convivenza, e non la conseguenza di una preesistente intollerabilità della prosecuzione della convivenza stessa. 40 Cassazione Civile, Sez. I, 12.9.2011, n. 18618 – L’addebito di colpa presuppone la violazione dei doveri coniugali derivanti dal matrimonio e il nesso di causalità tra tale violazione e l’intollerabilità della convivenza, che deve essere provato dal richiedente. Pertanto, fallita la riconciliazione, non rileva il comportamento pregresso della moglie, e la mancanza di prove sulla prosecuzione della relazione extra coniugale, nonché sulla causalità di tale circostanza con la nuova crisi e l’intollerabilità della convivenza, preclude l’accoglimento dell’istanza di addebito di colpa. – Diritto & Giustizia 2011 (nota PALEARI). 41 Cass. Civ., Sez. I, 26.9.2011, n. 19606. 42 Cass. Civ., Sez. I, 20.4.2011, n. 9074 – In tema di separazione tra coniugi, la reiterata inosservanza da parte di entrambi dell’obbligo di reciproca fedeltà non costituisce circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione in capo all’uno o all’altro o ad entrambi, quando sia sopravvenuta in un contesto di disgregazione della comunione spirituale e materiale quale rispondente al dettato normativo e al comune sentire, in una situazione stabilizzata di reciproca sostanziale autonomia di vita, non caratterizzata da affectio coniugalis. Cass. Civ., Sez. I, 20.4.2011, n. 9074 – La reiterata inosservanza da parte di entrambi dell’obbligo di reciproca fedeltà, pur se ricorrente, non costituisce circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione in capo all’uno o all’altro o ad entrambi allorché sopravvenga in un contesto di disgregazione della comunione spirituale e materiale tra i coniugi stessi. 43 Cass. Civ., Sez. I, 8.4.2011, n. 8052 – Qualora la sentenza di merito affermi che la separazione è addebitabile al marito per avere introdotto nella casa coniugale, anteriormente alla instaurazione del giudizio di separazione, un’altra donna con la quale ha iniziato una convivenza more uxorio, deve essere rigettato il motivo di ricorso per cassazione che denunzi che ciò si è verificato molti anni dopo che la moglie si era allontanata dalla casa coniugale trasferendosi a vivere nella mansarda dello stesso immobile (così realizzandosi una separazione di fatto). (Conferma App. Milano luglio 2006, n. 1947). 44 Cass. Civ., Sez. I, 17.12.2010, n. 25560 – La relazione extraconiugale della moglie non costituisce necessariamente e automaticamente causa esclusiva di addebito della separazione coniugale. Occorre accertare, infatti, se la relazione extraconiugale, che di regola si presume causa efficiente di situazione d’intollerabilità della convivenza rappresentando violazione particolarmente grave, non risulti comunque priva di efficienza causale, siccome interviene in un ménage già compromesso, ovvero perché, nonostante tutto, la coppia ne abbia superato le conseguenze recuperando un rapporto armonico. T.G. c. C.A. – Redazione Giuffrè 2011. 45 Cass. Civ., Sez. I, 19.7.2010, n. 16873 – La ripresa della convivenza, dopo la precedente separazione, comportando il venire meno – in capo ai coniugi – dello status di separati, pur se avvenuta nell’esclusivo interesse della prole, postula il rispetto degli obblighi di cui all’art. 143 c.c., liberamente assunti dai coniugi con la concordata decisione. Correttamente, pertanto, il giudice del merito, accertato che successi- 78 vamente alla conciliazione la moglie ha abbandonato la casa familiare per andare a convivere con un terzo nel pronunciare nuovamente la separazione dichiara la stessa addebitabile a questa prescindendo dalle circostanze che avevano giustificato l’originaria separazione. – Guida al diritto 2010, 39, 88. 46 Tribunale Roma, Sez. II, 30.11.2010, n. 23717. 47 Cass. Civ., Sez. I, 14.4.2011, n. 8548. 48 Tribunale Roma, Sez. I, 11.2.2011, n. 2899 – In tema di giudizio di separazione giudiziale dei coniugi è fondata la domanda di addebito formulata dal coniuge ricorrente qualora il medesimo provi nel corso del giudizio “de quo” che il coniuge resistente non soltanto non ha ottemperato ai propri doveri familiari ma ha altresì avuto nel corso della convivenza coniugale condotte ripetutamente violente nei confronti delle figlie e della moglie esternatesi in aggressioni fisiche, espressioni scurrili ed offensive, scatti di rabbia incontrollata a fronte di motivi futili se non inesistenti, intolleranza nei confronti dei familiari, oltre ad essersi più volte allontanato dall’abitazione familiare per periodi prolungati senza più dare notizie di sé. 49 Cass. Civ., Sez. I, 14.1.2011, n. 817 – In tema di separazione personale dei coniugi, la pronuncia di addebito richiesta da un coniuge per le violenze perpetrate dall’altro non è esclusa qualora risulti provato un unico episodio di percosse, trattandosi di comportamento idoneo comunque a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona. Anche un solo episodio di non lieve violenza, con percosse, consumato dal marito ai danni della moglie, per di più per un banale, futilissimo motivo (avere gettato nella spazzatura un tozzo di pane raffermo), legittima la moglie a chiedere la separazione personale dal coniuge con addebito a quest’ultimo, rendendo verosimile l’affermazione della moglie che il marito fosse solito “alzare le mani”, pur non potendo essere data la prova di ciò, trattandosi di condotte verificatesi all’interno delle mura domestiche ed in assenza di persone estranee. – Giust. civ. Mass. 2011, 1, 63. 50 Cass. Civ., Sez. I, 10.7.2008, n. 19065 – La separazione può essere addebitata al Temi Romana Cronache e attualità coniuge che sia rimasto indifferente alla depressione dell’altro, non sostenendolo economicamente e moralmente, violando così l’obbligo di assistenza coniugale, esistente a tutti gli effetti anche per le malattie mentali. Nella fattispecie, la violazione di tale obbligo, concretizzatasi nella condotta non partecipativa e distaccata dell’uomo rispetto alla malattia della moglie, è stata la causa della fine della convivenza e della conseguente separazione. Diritto & Giustizia, 2008. 51 Cass. Civ., Sez. I, 12.8.2009, n. 18235 – Non integra causa di addebito della separazione l’allontanamento dalla casa coniugale del coniugi che, andato all’estero per assistere il genitore malato, si allontani dalla casa coniugale, qualora non si dimostri che l’intollerabilità della convivenza fosse antecedente rispetto all’allontanamento e dipendente dalla violazione del dovere di fedeltà da parte dell’altro coniuge. – Redazione Giuffrè 2009. 52 Cass. Civ., Sez. I, 19.3.2009, n. 6697 – Il giudice del merito non può fondare la pronuncia di addebito della separazione sulla mera inosservanza, da parte di uno dei coniugi, dei doveri di cui all’art. 143 c.c., ma deve verificare la effettiva incidenza delle relative violazioni, nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza. Deriva da quanto precede – pertanto – che deve essere cassata la pronuncia che ha addebitato la separazione alla moglie sulla base della sola condotta tenuta da costei – in violazione del dovere di fedeltà – totalmente trascurando che il marito ha portato a conoscenza della moglie solo un anno e mezzo dopo la celebrazione del matrimonio la propria “impotentia generandi”, e omettendo quindi qualsiasi indagine sulla lesione del diritto fondamentale della moglie stessa di realizzarsi nella famiglia e nella società come donna, come moglie ed eventualmente come madre. – Guida al diritto 2009, 17, 26 (nota FINOCCHIARO). 53 Tribunale Prato, 2.12.2008 – Costituisce motivo di addebito della e, nell’arco di una lunga convivenza matrimoniale, sottopone la moglie ad umiliazioni quotidiane, rivolgendosi alla stessa, in presenza di terzi, in modo irriguardoso e non assistendola anche quando aveva problemi di salute, ed infine manifestando nei suoi confronti ulteriore ostilità allorché la donna aveva manifestato l’intenzione di cessare le pratiche di scam- Temi Romana bio di coppia e di amori di gruppo che il marito le aveva imposto in precedenza, e dalla stessa a lungo accettate. – Foro it., 2009, 3, p. 753. 54 Cass. Civ., Sez. I, 3.10.2008, n. 24574 – Nel giudizio di separazione personale, ove venga dedotto come causa di addebitabilità della separazione il mancato accordo sulla fissazione della residenza familiare, il giudice di merito, al fine di valutare i motivi del disaccordo, deve tenere presente che l’art. 144 c.c. rimette la scelta relativa alla volontà concordata di entrambi i coniugi, con la conseguenza che questa non deve soddisfare solo le esigenze economiche e professionali del marito, ma deve soprattutto salvaguardare le esigenze di entrambi i coniugi e quelle preminenti della serenità della famiglia. (In applicazione del predetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di merito, che aveva tenuto conto unicamente delle esigenze economiche e lavorative prospettate dal marito, omettendo di valutare quelle, offerte dalla moglie, inerenti al suo stato di gravidanza ed all'imminente maternità). 55 Danno non patrimoniale Cassazione a Sezione Unite con sentenza dell’ 11 novembre 2008, n. 26972 (di contenuto identico ad altre tre sentenze, tutte depositate contestualmente). La sentenza ha innanzitutto ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: - le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (ad es., nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato); -e quella in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non essendo espressamente prevista da una norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione. Questa sentenza ha non solo composto i precedenti contrasti sulla risarcibilità del c.d. danno esistenziale, ma hanno anche più in generale riesaminato approfonditamente i presupposti ed il contenuto della nozione di “danno non patrimoniale” di cui all’art. 2059 c.c.. ll danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica. Il 79 suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale e definito dall’art. 2043 c.c.. L’art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte Cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008)”. La decisione è quindi passata ad esaminare il contenuto della nozione di danno non patrimoniale, stabilendo che quest’ultimo costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva. È, pertanto, scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il c.d. “danno morale soggettivo”, inteso quale sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell’unico ed unitario danno non patrimoniale, e non un pregiudizio a sé stante. Da questo principio è stato tratto il corollario che non è ammissibile nel nostro ordinamento la concepibilità d’un danno definito “esistenziale”, inteso quale la perdita del fare areddituale della persona. Una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un diritto della persona costituzionalmente garantito, costituisce né più né meno che un ordinario danno non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059 c.c., e che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato. Quando, per contro, un pregiudizio del tipo definito in dottrina “esistenziale” sia causato da condotte che non siano lesive di specifici diritti della persona costituzionalmente garantiti, esso sarà irrisarcibile, giusta la limitazione di cui all’art. 2059 c.c.. Da ciò le Sez. Un. hanno tratto spunto per Cronache e attualità negare la risarcibilità dei danni non patrimoniali cc.dd. “bagatellari”, ossia quelli futili od irrisori, ovvero causati da condotte prive del requisito della gravità, ed hanno al riguardo avvertito che la liquidazione, specie nei giudizi decisi dal giudice di pace secondo equità, di danni non patrimoniali non gravi o causati da offese non serie, è censurabile in sede di gravame per violazione di un principio informatore della materia. La sentenza è completata da tre importanti precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, liquidazione e prova del danno. Per quanto attiene la responsabilità contrattuale, le Sez. Un. hanno precisato che anche dall’inadempimento di una obbligazione contrattuale può derivare un danno non patrimoniale, che sarà risarcibile nei limiti ed alle condizioni già viste (e quindi o nei casi espressamente previsti dalla legge, ovvero quando l’inadempimento abbia leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione). Per quanto attiene la liquidazione del danno, le Sez. Un. hanno ricordato che il danno non patrimoniale va risarcito integralmente, ma senza duplicazioni: deve, pertanto, ritenersi sbagliata la prassi di liquidare in caso di lesioni della persona sia il danno morale sia quello biologico; come pure quella di liquidare nel caso di morte di un familiare sia il danno morale, sia quello da perdita del rapporto parentale: gli uni e gli altri, per quanto detto, costituiscono infatti pregiudizi del medesimo tipo. Infine, per quanto attiene la prova del danno, le Sez. Un. hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per presunzioni semplici, fermo restando però l’onere del dan- 80 neggiato gli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio. 56 Corte d’Appello di Milano, 12 aprile 2006, in Fam. e dir., 2006, p. 509, che ammette il risarcimento del danno esistenziale, quale conseguenza della dichiarazione di nullità del matrimonio viziato da errore essenziale sulle qualità del coniuge, consistente nello stato di gravidanza causato da persona diversa dal marito, sotto il duplice profilo del danno da privazione affettiva per la perdita della qualità di padre (e nel caso di specie anche di nonni) a seguito dell’accertata non paternità biologica del ricorrente del figlio e del danno cagionato dal comportamento della convenuta, che ha inciso sulla libertà matrimoniale del futuro marito. Trib. Milano, 4 giugno 2002. Temi Romana Passeggiata in libreria n° 3 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma “TRASPARENZA E PRIVACY NELLA GESTIONE DEL BILANCIO DELL’UNIONE EUROPEA” Giuseppina Crisponi NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 160, euro 15,00 Da metafora esistenziale a paradigma istituzionale – dall’oracolo di Delfi alle Istituzioni comunitarie – il motto «nulla di troppo» indica la strada del bilanciamento come metodo per affrontare e risolvere i conflitti. Nell’ambito della formazione ed esecuzione del bilancio generale dell’Unione europea e della presentazione e revisione dei conti, in questo libro è offerta un’immagine rappresentativa della complessità intrinseca alla necessità di stabilire un equilibrio ottimale tra diritti ugualmente meritevoli di salvaguardia: l’interesse dell’Unione europea a garantire la trasparenza e una sana gestione delle finanze pubbliche, da un lato, e i diritti fondamentali dei beneficiari dei fondi dell’UE al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali, dall’altro, con il fondamentale contributo del Garante europeo della protezione dei dati (GEPD) sulla questione. Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO Direttore Scientifico: Alessandro CASSIANI Capo Redattore: Samantha LUPONIO Comitato Scientifico: Paola BALDUCCI, Antonio BRIGUGLIO, Luigi CANCRINI, Pierpaolo DELL’ANNO, Antonio FIORELLA, Giovanni Maria FLICK Giorgio LOMBARDI, Carlo MARTUCCELLI, Ugo PETRONIO Eugenio PICOZZA, Giulio PROSPERETTI, Giorgio SPANGHER Alfonso STILE, Federico TEDESCHINI, Roberta TISCINI, Giancarlo UMANI RONCHI, Romano VACCARELLA Comitato di Redazione: Mauro VAGLIO, Pietro DI TOSTO, Antonino GALLETTI Riccardo BOLOGNESI, Fabrizio BRUNI Alessandro CASSIANI, Domenico CONDELLO, Antonio CONTE Mauro MAZZONI, Aldo MINGHELLI, Roberto NICODEMI, Livia ROSSI Matteo SANTINI, Mario SCIALLA, Isabella Maria STOPPANI Coordinatori: Antonio ANDREOZZI, Andrea BARONE, Camilla BENEDUCE Domenico BENINCASA, Marina BINDA, Ersi BOZEKHU Francesco CASALE, Francesco CIANI, Benedetto CIMINO, Irma CONTI Antonio CORDASCO, Alessandro CRASTA, Carmelita DE FINIS Annalisa DI GIOVANNI, Ruggero FRASCAROLI, Maria Vittoria FERRONI Fabrizio GALLUZZO, Alessandro GENTILONI SILVERI, Mario LANA Paola LICCI, Andrea LONGO, Giuseppe MARAZZITA, Franco MARCONI Alessandra MARI, Gabriella MAZZEI, Arturo MEGLIO, Chiara PACIFICI Ginevra PAOLETTI, Chiara PETRILLO, Tommaso PIETROCARLO Aurelio RICHICHI, Sabrina RONDINELLI, Serafino RUSCICA Marco Valerio SANTONOCITO, Massimiliano SILVETTI, Luciano TAMBURRO Federico TELA, Antonio TESTA, Federica UMANI RONCHI, Clara VENETO Segretario di redazione: Natale ESPOSITO Progetto grafico: Alessandra GUGLIELMETTI Disegno di copertina: Rodrigo UGARTE ____________ Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma “CODICE DEL PUBBLICO IMPIEGO” Francesco Caringella, Ciro Silvestro, Francesco Vallacqua (Coordinatori) Testi di: Ciro Silvestro, Francesco Vallacqua, Renata Mazzaro, Fabrizio Sileri, Bruno Strati, Caterina Panzarino, Antonio Campanella, Anna Consiglio, Tina Cecilia Menelao, Alessandro Nicodemi, Luigi Pianesi, Valentina Fiorillo, Veronica Valenti, Barbara Malaisi, Simone Calzolaio DIKE GIURIDICA EDITRICE, ROMA pp. 1900, euro 150,00 Il codice si prefigge l’obiettivo di dotare operatori, amministratori e studiosi di una guida completa ed organica che illumini il variopinto mondo del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tracciando un esaustivo panorama delle norme fondamentali relative al pubblico impiego, privatizzato e non, ed all’universo previdenziale. L’opera, inedita per ricchezza del materiale normativo e profondità dell’indagine, offre agli operatori un quadro a 360 gradi del patrimonio di contributi ed esperienze svolti negli ultimi anni sull’accidentato campo della riforma del lavoro alle dipendenze delle p.a.. “LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E LE PROCEDURE CONCORSUALI” Antonio Caiafa DISCENDO AGITUR, ROMA pp. 292, euro 30,00 L’attuale ordinamento non offre una risposta adeguata alle esigenze delle imprese e dei lavoratori nel caso di processi di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione in caso di crisi del mercato, in quanto le soluzioni previste (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, piani attestati di risanamento e la stessa transazione fiscale), solo in apparenza rappresentanti un rimedio volto alla preservazione dei valori aziendali, ma, invero, non sono in grado di assicurare l’obiettivo voluto, soprattutto in ragione della dimostrata incapacità del legislatore di regolare, in modo appropriato, il procedimento di conformazione che le direttive comunitarie, troppo spesso ignorate, hanno inteso imporre, nonostante le numerose pronunce intervenute attestino una preoccupante difformità della disciplina nazionale da quella europea. “L’AVVOCATO E LE SUE QUATTRO RESPONSABILITÀ” Vito Tenore (a cura di) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE, NAPOLI pp. 576, euro 60,00 Mancava nel pur vasto panorama editoriale dedicato alla professione forense una monografia a tutto tondo sulle quattro responsabilità dell’avvocato e delle società tra avvocati. Difatti, gli studi editi si sono di solito soffermati sulla responsabilità civile per errori professionali o su quella disciplinare per violazione di regole deontologiche. Molto poco era stato scritto sulla responsabilità penale del difensore e mai nulla era stato pubblicato su quella mministrativo-contabile per talune attività dell’avvocato. Il volume colma, dunque, questa lacuna scientifica con uno studio organico, approfondito, aggiornato alla riforma forense della Legge n. 247 del 2012, ancorato al basilare referente normativo e, soprattutto, ricco di giurisprudenza (anche del CNF) e di dottrina, che hanno scandagliato diversi profili della patologia comportamentale del peculiare professionista legale. 2014 n° 3 Temi Romana n° 3 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma ANNO LXII LUGLIO – SETTEMBRE 2014