Leonard Cohen, ancora sul palco con stile

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46 — l’altra musica
Leonard Cohen,
ancora sul palco
con stile
Proposta dal Casinò di Venezia
l’unica data italiana
«
I
di John Vignola
l linguaggio è sopravvivenza e nessuno lo usa me-
nite, piuttosto che quelle che sono ancora in corso. La forza
poetica del rimpianto o del commiato è impagabile.
Oramai da più di due anni sta attraversando molti palchi, a un’età insospettabile. Cosa la ha spinta fuori dal suo guscio, di cui si parlava prima?
Ho sempre amato il teatro. Credo che a settantacinque anni
si possa calcare con stile le assi di un palcoscenico senza essere ridicolo, a meno che non si voglia fare il rocker o il reduce.
Io sono, un po’ almeno, entrambe le cose. Ma per questa lunga serie di concerti mi sono vestito elegante, ho rispolverato le
buone maniere e ho deciso di raccontare le mie canzoni, come
fossero parti di un libro mai scritto, ma tante volte suonato.
Lei è «passato» dall’ebraismo al buddismo, quindi ha di fatto percorso
la distanza maggiore che esiste fra le religioni. Qual è stato il momento in
cui si è sentito maggiormente vicino a Dio?
Forse proprio adesso, il presente. A dire il vero, non ho mai
l’altra musica
www.lifepr.de
glio delle donne». Parole di Leonard Cohen, a settantacinque anni uno dei più vivaci esponenti della poesia
rock. Mai però un termine del genere, rock, può
avere una valenza ambigua. Una dozzina di album originali, non pochi tributi ed un recentissimo live, uscito tanto su cd quanto su dvd,
rimarcano l’autonomia
poetica di un personaggio che è stato, ed è, pure romanziere e poeta.
Entrato nell’immaginario della cultura angloamericana, quasi suo malgrado, oggi ne rappresenta comunque la parte
più matura e vivace.
Lei ha vissuto a lungo lontano dalla «follia delle città»,
sono parole sue. Per il suo ritorno, otto anni fa, ha usato
la frase «scendere dalla montagna»: si è così trovato di
nuovo in mezzo al caos di promozioni, giornalisti e faccende del genere, ciò che lei stesso definisce in un pezzo «Boogie Street» e dice di non aver
ancora capito a cosa serva
veramente.
cercato altre religioni, non sono mai passato dall’ebraismo al
Ho un’idea precisa su questa faccenda, ma non intendo rivebuddismo. La mia fede originaria non mi ha lasciato, non mi
larla. Cerchi di capirmi… Uno fa musica e poi la deve mettesono convertito: semplicemente, pur radendomi la testa e dire in piazza: se proprio bisogna, preferisco i concerti ai soliti
ventando, per il mio vecchio maestro, un suo monaco, non
giri promozionali.
sono divenuto totalmente un altro. Nella tradizione del budChe effetto fa vedere le sue composizioni utilizzate in alcuni film, I comdismo non c’è né affermazione né negazione della divinità,
pari di Altman e Natural Born Killers di Oliver Stone, per esempio?
non ci sono dogmi, c’è solo lo studio di come le cose succeÈ spesso un piacere e un onore, le pellicole che ha citato sodono. Nessun conflitto con le mie radici spirituali. In effetti,
no ovviamente momenti importanti della storia del cinema.
quando ero sulla montagna due rabbini avevano sentito che
La poesia, nel mondo occidentale, ha spesso un valore catartico sull’angoc’era un ebreo nel monastero ed erano venuti a «salvarmi» (alscia, sui lutti, come si diceva. Lei raramente ha scritto canzoni speranzose.
tre risate, ndr). Nella mia cella – era inverno, quando i cristiaNessuna, direi; non che non ne abbia avute, di speranze, ma
ni celebrano il Natale – c’era un candelabro acceso, come tranon volevo certo esprimerle. Come dice lei, sono altre le cose
dizione comanda, e i due rimasero davvero confusi, ma sodche si mettono sovente in versi…
disfatti. Così, abbiamo preso una bottiglia di whisky e sigaretPerché?
te turche e abbiamo fumato, cantato e bevuto…
Perché il sentimento che attraversa tutti gli uoUna volta ha detto che per salvarsi ci sono vari mezzi:
mini, affratellandoli, è la sofferenza.
poesia,
canzone, preghiera. Possiamo contare che continui a
Non c’è pure l’amore?
Venezia
usarli tutti e tre?
Se vuole, una variazione sul tema della sofferenPiazza San Marco
Sì, sì. Ha però dimenticato le donne e il vino… ◼
za (sorride, ndr). Preferisco raccontare le storie fi3 agosto, ore 20.30
Cohen, un poeta
che fa apprezzare
la gioia
Giò Alajmo ci regala
un ritratto
del cantautore canadese
L
eonard Cohen sarà in concerto a Venezia il 3 agosto
©platon/c
pi
in piazza San Marco. Ne parliamo con Giò Alajmo, da oltre
trent’anni critico musicale del «Gazzettino». Possiamo considerare il prossimo concerto a San Marco un piccolo evento?
Certamente sì se pensiamo che prima di iniziare questo
tour mondiale Cohen non si era più offerto al pubblico per
17 anni. Sembrava che la sua apparizione in Italia l’anno scorso dovesse essere un episodio isolato, e invece ci fa questo regalo estivo tutto veneziano. Una cosa curiosa è che i primi a
comprare i biglietti sono stati in massa gli americani. Ma pare
che sia sempre così. Ha la sua schiera di ammiratori che corre al richiamo, ovunque si esibisca.
Ha visto il suo ultimo concerto a Lucca l’anno scorso?
Sì ed è stata una sorpresa positiva. Uno dei migliori concerti visti negli ultimi anni, pieno di musica ed emozione, una
grande band, niente orpelli inutili o effetti speciali e Cohen,
col suo cappello in testa a dipanare i suoi versi con quella voce bassa e tagliente. Ne ha fatto un buon disco, Live in London, appena uscito, ma il concerto è più ampio e più carico di
emozione.
Cosa pensa di Leonard Cohen?
Che è un curioso fenomeno. Per anni si è dibattuto se la
canzone fosse o no poesia. L’opinione di Fabrizio De André era che no, poesia e canzone sono due cose diverse, anche se di fatto la canzone può
appartenere all’universo poetico o essere,
come ho detto una volta a Fernanda Pivano, una poesia che ha ritrovato la sua
melodia. Cohen scrive canzoni ed è prima di tutto un poeta. Alla canzone arriva piuttosto tardi, nel 1966, ma a quel
tempo aveva già pubblicato diverse raccolte di poesie e perfino un disco di versi
recitati in forma di reading, come si usava fare nel periodo d’oro della
beat generation. L’anno
scorso gli americani hanno inserito
il suo nome nella Hall of fame
del rock’n’roll e
Lou Reed ne ha
parlato come di
«uno dei più importanti e influenti autori dei nostri tempi».
Si considera che
la canzone d’autore debba pagare il suo
debito all’influenza
fondamentale di Bob
Dylan. Ma Cohen
come si colloca rispetto a Dylan?
Sono due figure molto diverse, pur con delle affinità. Entrambi provengono da famiglie ebree, ma Dylan è affascinato dalle storie di frontiera americane, Cohen invece è canadese e questo lo rende in qualche modo un po’ più europeo.
Ed è anche più vecchio di qualche anno. Dylan è del 1941,
Cohen del 1934 e questi sette anni di differenza sono tanti in
quel particolare periodo della storia. Dylan diventa il cantore e l’idolo della sua generazione, Cohen ha una visione del
mondo completamente diversa, molto più intimista, solitaria. Dylan insegue e supera i folksinger e i cantastorie blues,
Cohen è per certi versi più vicino agli chansonnier francesi.
Ma se l’influenza di Dylan sulla canzone d’autore è appurata, quella
di Cohen non è da meno?
Cohen è stato cantato da tanti in tanti momenti diversi. Anche da Bob Dylan, che non ha mai inciso ma talvolta eseguito dal vivo «Hallelujah». Questa è una canzone che si rinnova spesso attraversando le generazioni. Di recente ricordiamo le belle versioni di Jeff Buckley e, in Italia, di Elisa. Ma
ce ne sono state altre, da Rufus Wainwright a John Cale. De
André lo apprezzava molto e ha anche tradotto «It Seems So
Long Ago Nancy», come Bardotti per Ornella Vanoni ha riscritto «Famous Blue Raincoat». Al concerto in suo onore a
Sydney nel 2005 sono arrivati gli U2, Nick Cave, una folla.
C’è un film che lo ricorda. Ed è curioso pensare come anche
per Cohen come per Dylan la spinta decisiva è venuta da una
donna. Bob ha trovato Joan Baez, Cohen è stato convinto a
tradurre la sua poetica in canzoni da Judy Collins.
Una grande folksinger dimenticata?
In Italia non ha avuto il successo e la notorietà che aveva in
patria, ma Judy era un mito nell’America degli anni sessanta,
per la voce, la capacità compositiva, e anche per i suoi occhi
azzurri. La famosa «Suite: Judy Blue Eyes» che Crosby Stills
e Nash cantarono a Woodstock era dedicata a lei.
Leonard Cohen non ha mai disdegnato le donne, diciamo così...
La donna è il tema principale delle sue canzoni, da «Suzanne», che tutti conoscono, a «Chelsea Hotel #2» dedicata a Janis Joplin con cui ebbe un’amicizia fugace. Ha avuto lunghe
relazioni con Suzanne Elrod, un’artista da cui ha avuto due
figli, e l’attrice Rebecca De Mornay. La donna, l’amore, le
pene del cuore, sono i temi dei poeti, e Cohen è un
poeta. Ma è anche buddista, al punto da passare alcuni anni in un monastero californiano.
Si faceva chiamare «Il silenzioso».
Indicativo.
Per molti Leonard Cohen è
considerato «depr imente». È
d’accordo?
Ciò che per qualcuno è «deprimente», per qualcun altro
è «blues». Prendiamo
«Halleluyah». È un grido di gioia, ma suonato
in tonalità minore, malinconica, e canta di un amore
finito, ma senza rancori né
rimpianti, mettendo in primo piano la musica. È un gioco di
contrasti che lo rende affascinate. Ed è Cohen. Che non canta la
gioia,matelafaapprezzare.(l.m.)◼
l’altra musica
l’altra musica — 47
48 — l’altra musica
Veneto Jazz
Summer 2009
l’altra musica
D
di Giovanni Greto
per rullate rapidissime, assolo melodici e percussivi nello stesso tempo che si compiacciono di sperimentare sonorità diverse con frequenti cambi di tempo, stop e accelerazioni improvvise. Tutto questo potrebbe generare un certo nervosismo in
un ascoltatore poco abituato, tuttavia, riuscendo a entrare nella medesima lunghezza d’onda, il disappunto saprà tramutarsi in emozione e in tensione che esplode quando l’assolo raggiunge il suo climax. Il 16 luglio ci spostiamo in terra lombarda, precisamente a Mantova, dove per la prima volta a Palazzo Te si esibirà il sessantaquattrenne pianista e compositore
ue mesi intensi quelli di luglio e agosto per l’Associazione culturale Veneto Jazz, impegnata nel coordinare un centinaio di concerti nella nostra regione,
ma non solo, e, fortunatamente, la seconda
edizione del Venezia Jazz Festival, dal 27 luglio al 2 agosto, che porterà, tra la laguna e
Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack de Johnette
Mestre, una ventata di musica di qualità. La
XXI edizione della rassegna porrà come
sempre l’attenzione a valorizzare anche spazi
meno conosciuti, spesso immersi nel verde,
che contribuiscono, senza alcun dubbio, al
successo di un’esibizione dal vivo. È il caso
del parco di villa Varda di Brugnera (Pn), dove potremo ascoltare Roy Haynes Fountain
of Youth Band, un quartetto classico quanto
a scelta strumentale – sassofono, pianoforte,
contrabbasso e batteria – guidato dall’ultimo,
purtroppo, ancora in vita dei grandi batteristi
americani della storia del jazz. Partiamo da
una considerazione sorprendente: a 83 anni
compiuti a marzo, Haynes, oltre che in sala
d’incisione, è ancora capace di suonare uno
strumento così impegnativo, che mette in
moto il corpo intero e, soprattutto, di affrontare una tournée che è fatta sì di giorni anche
vuoti, ma presenta spostamenti terrestri e aerei. Haynes è cresciuto nell’ambiente Bop. Ha
americano Keith Jarrett, assieme allo storico trio, ventisei ansuonato, tra gli altri, con Charlie Parker, Thelonious Monk
ni dopo l’uscita del primo disco Standards, che fece gridare al
(per 18 settimane in cartellone al Five Spot e alla Jazz Gallery
capolavoro pubblico e critica. Considerato un artista bizzoso,
di New York), Miles Davis, John Coltrane (sostituì Elvin Joche arriva anche alle offese – vedi l’episodio di cattivo gusto
nes nel celebre quartetto per qualche meverificatosi qualche estate fa a Umbria Jazz – Jarrett, il quale ha
se nel 1963), Eric Dolphy, Sonny Rollottato e debellato la sindrome da fatica cronica che lo aveva
lins e, in anni più recenti, Chick Coallontanato dalle esibizioni dal vivo, così si difende dalle accurea – stupendo il trio completato
se: «Dicono che maltratto il pubblico, ma non hanno capito
da Miroslav Viche tocca a loro chiudere il cerchio disegnato da me. Ho bisotous – e il
gno del pubblico al punto che in sala d’incisione mi manca.
compianSuono la musica che nasce nella mia testa e se c’è troppo ruto M imore, non parliamo dei flash dei videofonini, non riesco a
chel Pesentirla, quella musica …» (da un’intervista recente apparsa
trucciasul «Corriere della Sera»). Così il pubblico, specie negli episoni. Tecdi solistici, ha sempre paura che il Maestro possa alzarsi dal
nicamenseggiolino, dirigersi verso il camerino e non rientrare più sul
te il suo
palco. Comunque il trio – completato da Gary Peacock al
drumcontrabbasso e Jack de Johnette alla batteria – merita di esser
ming si rivisto, anche se suona troppo assoluto definire questo «il miconosce
glior piano-trio del jazz moderno» dopo quello storico di Bill
Evans, Scott La Faro e Paul Motian. Sfogliando la nostra memoria e considerato che il piano trio sta vivendo un felice momento, non possiamo non ricordare il trio del nostro Enrico
Pieranunzi con Marc Johnson (contrabbassista che, giovanissimo, suonò con Bill Evans) e Joey Baron alla batteria – il doppio cd registrato dal vivo in Giappone è estremamente ricco
di spunti di riflessione – o il trio di Uri Caine con Drew Gress
e Ben Perowsky: la creatività al servizio dello Swing. Tra i concerti di indubbio richiamo segnaliamo al castello scaligero di
Charles Lloyd
Villafranca di Verona il 19 luglio una produzione speciale. Il
sestetto del chitarrista e cantante George Benson assieme
l’altra musica — 49
Stefano Bollani
Brasil, che si è conquistato la notorietà grazie al lungometraggio Brasileirinho di Miki Kaurismaki, in cui l’autore esplorava
l’universo musicale dello Choro. Ronaldo do Bandolim al
bandolim, il mandolino brasiliano, Zè Paulo Becker alla chitarra classica e Marcello Gonçalves a quella a sette corde interpreteranno sia pezzi dei grandi maestri dello Choro che rielaborazioni di opere per pianoforte di Ernesto Nazareth – ecco
il richiamo al progetto di Bollani che del compositore esegue
«Apanhei-te cavaquinho» –, riletture di Pixinguinha, Heitor
Villa-Lobos, Jacob do Bandolim, versioni sorprendenti di un
Ragtime di Scott Joplin,
di un brano classico di
Manuel De Falla, di un
valzer venezuelano di Antonio Lauro, e adattamenti
di brani di compositori più
moderni come Tom Jo-
Wynton Marsalis
bim, Chico Buarque, Astor Piazzolla, Egberto Gismonti. Di
indubbio interesse, i due concerti al teatro La Fenice. Il 28 luglio arriva il trombettista Wynton Marsalis con la sua Jazz at
Lincoln Center Orchestra, una formazione di quattordici elementi che lui dirige dal 1995. Esploso sia nell’universo classico che in quello del Jazz – fu ingaggiato, diciottenne dai Jazz
Messengers di Art Blakey – diventando il
musicista prodigio degli anni ottanta, Marsalis, nato a New Orleàns nell’ottobre 1961, incarna il jazzista di colore perfettamente integrato nella società dei bianchi, esteticamente
elegante, ma privo di quell’irruenza destabilizzante che contraddistingue, poniamo, la
musica di Charlie Mingus. Il 29 il teatro ospita addirittura un doppio concerto: il quartetto del sassofonista, flautista e compositore
Charles Lloyd e quello del fisarmonicista
francese Richard Galliano. Il primo – si spiega così il secondo richiamo – fu colui che lanciò nel 1965 un giovanissimo Keith Jarrett,
costituendo un quartetto, Flower Power,
completato da Jack de Johnette e Cecil McBee, che resterà insieme fino al ’69. In seguito il leader, colpito dalla morte della madre,
lascia la musica e si dedica alla meditazione e
allo studio delle religioni orientali, ripresentandosi alla ribalta nel 1980 assieme a Michel
Petrucciani. Tra le sue registrazioni dell’ultimo decennio ricordiamo un doppio cd inciso in duo assieme a Billy Higgins nel gennaio
2001, quattro mesi prima della morte di un batterista che, pur
amatissimo dai colleghi, non è mai assurto a un’appropriata
consacrazione. Il jazz di Lloyd è indirizzato da tempo verso la
musica cosiddetta etnica, anche se alla Fenice, lo vedremo dirigere un quartetto strumentalmente canonico. Galliano, che
fu allievo tra gli altri di Piazzolla, incontrerà l’apprezzato pianista cubano Gonzalo Rubalcaba. Sono due artisti creativi
che potrebbero dar vita a un concerto contraddistinto da improvvisazioni melodiche, sopra un sostanzioso tappeto ritmico in grado di indirizzarlo verso una veemente intensità. ◼
l’altra musica
all’orchestra Filarmonia Veneta (28 elementi) e a cinque coristi, renderà omaggio a Nat King Cole (1919-1965), uno tra i
pianisti e coroner più apprezzati, la cui carriera, iniziata nel
jazz e proseguita nel pop, sembra assomigliare a quella di Benson, colpevole senz’altro, di aver licenziato troppi dischi commerciali, senza sforzarsi di dire qualcosa di significativo. Godibilissimo e inserito in un’accogliente cornice naturale – la
Rocca del Tempesta a Noale – ritorna il 24 luglio per Veneto
Jazz, dopo il tutto esaurito di un anno fa a Conegliano,
«Bollani carioca», vale a dire l’indagine musicale sul
samba e lo choro, due generi che ben caratterizzano
l’immensa varietà ritmica e melodica del Brasile. Il
pianista Stefano Bollani corre il rischio di una sovraesposizione – quest’estate suonerà anche con
altre formazioni. Comunque, a nostro avviso,
questo è il suo progetto più convincente, grazie
anche alla qualità dei musicisti: i due fiatisti del suo
gruppo i Visionari – Mirko Guerrini e Nico Gori –
ed un quartetto di brasiliani, trascinati ritmicamente da Jurim Moreira alla batteria – sembra suonare in
pantofole, tanto appare rilassato, eppure ha un controllo
sonoro impressionante – e Armando Marçal alle percussioni, che ha militato a lungo nel Pat Metheny Group e che sa inserirsi con pochi tocchi in quegli spazi dove la percussione
trova la propria valorizzazione. Il Venezia Jazz Festival in un
paio di date si collega ad appuntamenti del cartellone generale. È il caso del 30 luglio, quando nel giardino della Collezione Peggy Guggenheim – per inciso l’anno scorso qui abbiamo
ascoltato il talentuoso chitarrista brasiliano Yamandù Costa
che ha lasciato letteralmente attonita la platea per ciò che ha
saputo tirar fuori dalla sua chitarra – si esibirà il Trio Madera
50 — l’altra musica
Venezia Jazz Festival
presenta Paolo Conte
lore come il sassofonista Luca Velotti, il chitarrista Daniele dall’Omo o il pianista e vibrafonista Daniele di Gregorio), anche da una nutrita schiera di solisti dell’Orchestra
Sinfonica del Gran Teatro La Fenice.
Il jazz è entrato molto presto nella vita di Conte, che è nato ad Asti nel 1937 e che ha inizialmente affiancato a quella di musicista anche la carriera, di tradizione familiare,
di legale: è un amore a prima vista, condiviso con il fratello Giorgio (anch’egli ottimo cantautore) e concretizzato dalla partecipazione ad alcune band di jazz tradizionale,
di Enrico Bettinello
una su tutte il Paul Conte Quartet (il nome
americanizzato oggi fa un po’ sorridere, ma
he il concerto di un cantautore acall’epoca era piuttosto frequente), cui la Rca
compagnato da un’orchestra sinfonica sia tra gli appuntamenti più atte- Venezia – Piazza San Marco affida l’incisione di un disco dal titolo inequivocabile: The Italian Way to Swing.
si di un prestigioso festival jazzistico, non
31 luglio, ore 20.30
Una fama però il nostro Conte se la fa coè elemento che sorprende più nessuno, speme autore di canzoni per alcuni dei più popolari interprecialmente se il cantautore in questione risponde al nome
ti italiani, da Celentano a Caterina Caselli: portano la sua
del baffuto e sornione Paolo Conte.
Se poi si vuole, la riflessione può essere spostata sull’incredibile flessibilità di un termine, «jazz», che da oltre un
secolo ha dimostrato di saper incorporare, sintetizzare,
ibridare i materiali espressivi più vari, diventando quasi
l’emblema dell’inafferrabilità definitoria contemporanea.
Ma non c’è dubbio che il legame di Conte con il jazz – sotto le cui «stelle» il cantautore astigiano ha composto alcune
delle sue canzoni più rappresentative – sia un legame quasi necessario, ci verrebbe da dire «vero», se solo non fossimo certi che le emozioni della musica sfuggono a qualsivoglia pretesa di verità.
Ecco dunque Paolo Conte, venerdì 31 luglio, nell’irripetibile scenario di Piazza San Marco, protagonista della serata più popolare dell’edizione 2009 del Venezia Jazz Festival, organizzato da Veneto Jazz con il Casinò, la Regione
Veneto, il Comune di Venezia e la Fondazione La Fenice.
Per un’occasione speciale ci voleva anche un progetto spePaolo Conte
ciale e il cantautore sarà accompagnato,
oltre che dalla sua
splendida band
firma dei «classici» della nostra cultura canora come
(ricca di stru«La coppia più bella del mondo», «Azzurro», «Onda
mentisti di
su onda» o «Insieme a te non ci sto più», per arrivagrande vare, alla metà degli anni settanta alla carriera solista.
Inizialmente lo stile di Conte – straordinario narratore di esotismi da tinello e di disillusione della provincia che trovano nelle forme del jazz, della
rumba, di poetici bolero, una straniante forza poetica
– fa un po’ fatica a emergere in uno scenario nel quale
a dominare era la canzone «impegnata», ma dischi come Un gelato al limon o Appunti di viaggio già contengono
brani memorabili e liriche ricche di giochi di parole e di
immagini fulminanti. Il grande successo arriverà negli
anni successivi con album come l’omonimo Paolo Conte, Parole d’Amore Scritte a Macchina o Novecento, nonché con
concerti sempre più trionfali – anche in Francia, dove è
amatissimo – e con l’ambiziosa opera Razmataz. Gli anni
più recenti, caratterizzati da un grande interesse per linguaggi quali quello pittorico, lo hanno consacrato come
uno degli artisti più inconfondibili della musica italiana,
grazie alla voce roca e profonda, il mood senza tempo degli arrangiamenti, le visioni quasi felliniane dei testi. Nella
notte di Piazza San Marco, non mancheranno le canzoni
dell’ultimo disco, Psiche, e ovviamente nemmeno i grandi
classici, per una sera davvero… «sotto le stelle del jazz». ◼
Il cantautore astigiano
in scena a San Marco
l’altra musica
C
l’altra musica — 51
«New Gold Dream»:
dal 1982 arrivano
i Simple Minds
ri in un luogo sconosciuto dove oggi ha finalmente la possibilità di portare la propria arte. Il 24 luglio dunque sarà
l’evento principale di un programma intenso, che quest’anno l’organizzazione, visto anche l’affollamento di concerti che ormai si alternano in Piazza durante l’estate, ha deciso di diversificare intraprendendo iniziative di fundrising
anche con occasioni diverse dalle consuete proposte musicali. Dopo i concerti invernali di Madeleine Peyroux alla Fenice e di Jackson Browne al Malibran, «Sms Venice»
ha ospitato a Venezia per una settimana l’artista americano Shepard Fairey, che ha regalato alcune sue opere che
di Tommaso Gastaldi
andranno successivamente battute all’asta.
Fairey deve la sua celebrità alla creazione di
un’immagine del neo presidente degli Stati
amicizia tra Jim K err , il leader dei
Simple Minds, e Fran Tomasi, pro- Venezia – Piazza San Marco Uniti, Barack Obama, scelto come ritratto
ufficiale durante la campagna che l’ha pormoter e ideatore di «Sms Venice»,
24 luglio, ore 20.30
tato all’elezione. Alcune di queste opere poi
dura da tempi non sospetti, da quando la
sono state direttamente create in svariati luoghi della citband scozzese ha tenuto i primi concerti in Italia, passantà, dove il pubblico poteva seguirne la creazione e dove sodo per i grandi eventi degli anni ottanta fino a oggi che Jim
no rimaste esposte per un mese. Ancora relativa all’arte è
l’iniziativa che l’azienda veneta Magis ha avviato con «Sms
Venice»: si tratta della produzione di una sedia creata apposta per l’utilizzo all’aperto durante le manifestazioni a
San Marco e in altre occasioni culturali. Un numero limitato di pezzi verrà poi rielaborato da alcuni artisti di fama
mondiale così da creare oggetti unici molto appetibili per
i collezionisti di tutto il mondo. Dopo la partenza un po’
confusa dell’anno scorso, finalmente sono state chiarite le
modalità di donazione: con carta di credito attraverso il sito www.smsvenice.com, oppure chiamando il callcenter automatizzato 800250661 o infine con il numero 899499400
componendo il quale si doneranno 2 euro attraverso rete fissa e 3 euro attraverso rete mobile. Con una tournée
mondiale che celebrerà il trentennale della loro carriera, a
San Marco i Simple Minds regaleranno una serata molto
particolare: per la prima volta infatti verrà suonato dal vivo e per intero il loro album più celebrato: New Gold Dream,
datato 1982. Il concerto verrà registrato e venduto in rete
a favore di «Sms Venice». Appena finita la tempesta punk,
molti gruppi cercavano una nuova via per voltare pagina: i
Simple Minds ci riuscirono in maniera eccelsa creando un
suono che mescolava la lezione poetica di David Bowie e
l’utilizzo intensivo delle novità sonore apportate dai sintetizzatori. È la new wave, la nuova onda. Il nuovo genere musicale mescola il rock con l’elettronica assieme a riferimenti
e atteggiamenti dark e gotici. Nel disco trovano posto canzoni che rappresentano ciò che di meglio è stato composto dal quartetto scozzese: «Someone Somewhere in Summertime», «I Promised You a Miracle», fino alla title track:
è il sogno dorato che ha illuminato e abbagliato le speranze
di quegli anni. Se questo lavoro rappresenta la punta più alJim Kerr
ta di un progetto compositivo iniziato nel 1979 e che aveva
partorito ben quattro dischi, il periodo successivo segnerà una svolta più rock, improntata all’impegno politico soprattutto nella lotta all’apartheid. Segnati dal grande sucha elevato Taormina, dove gestisce un albergo con il fracesso di pubblico iniziato con brani come «Waterfront» fitello, a sua seconda patria. Un legame sottolineato dallo
no alle hit colossali come «Don’t You (forget about me)» e
stesso artista in occasione della conferenza stampa di pre«Alive and Kickin’», non riescono più a trovare una vena
sentazione del programma 2009 di «Sms Venice»: a Palazcreativa convincente, schiacciata anche da una competizo Ducale, in un piacevole italiano con accento scozzezione, creata dai media, con altri gruppi che ebbero magse, ha spiegato la propria adesione al progetto, orgogliogiore fortuna. Oggi finalmente senza isterismi discograso di poter aiutare con la propria musica la città e di porfici i Simple Minds possono permettersi di essere di nuotare il proprio spettacolo in una cornice così importante.
vo se stessi: sono tornati a ricomporre con la prima forDivertito, ha raccontato di come quand’era bambino, nelmazione producendo un buon disco, Graffiti Soul, che fila sua casa natale di Glasgow, ci fosse un quadro raffigunora ha avuto un’ottima risposta di pubblico e critica. ◼
rante Venezia che diventava spunto per viaggi immagina-
La band di Jim Kerr
sbarca in Piazza
l’altra musica
L’
52 — l’altra musica
Il ritorno del «Boss»
ri dell’autorevolezza dell’uomo e dell’artista, moderno cantautore, sincero e autentico. Anche oggi, ventidue anni dopo, si può dire con Frith che Springsteen sia ancora genuino, importante, grandissimo, in quanto «garante dei valori essenziali del rock’n’roll nonostante quei valori diventino sempre più difficili da sostenere. In un’epoca in cui il
rock è la colonna sonora della pubblicità televisiva, in cui
di Guido Michelone
le tournée dipendono da accordi di sponsorizzazione (…)
Springsteen afferma che la musica, nonostante tutto, fororna in Italia il «Boss», Bruce Springsteen, sesnisca ancora alla gente un modo per definire se stessi consant’anni il prossimo 23 settembre, per uno di quei
tro la logica corporativa, un linguaggio in cui esprimere
concerti memorabili che sempre e da sempre affasperanze e paure quotidiane». Era il 1973 quando il «Boss»,
scinano, divertono, coinvolgono. Il celebre rocker di Long
barba incolta, capello lungo, giubbotto di jeans, esordiva
Branch (New Jersey), oltre la Hall of Fame, meriterebbe
con Greetings From Asbury Park, che ne rivela subito il talenil premio alla coerenza e all’onestà professionale, giacché
to di story-teller, erede della poesia civile, della protest song,
nessuno più di lui – nemmeno un Bob Dylan oggi fermo,
della letteratura on the road, della canzone popolare, che, fin dal primo Novecento, da Woody Guthrie a Pete Seeger, da Joan Baez a Phil Ochs, costellano l’altra America, che abita l’immensa provincia, ma che approda nelle metropoli cosmopolite; è spesso un’America «umiliata e offesa», ma che si sveglia e s’infiamma magari per i giovani
presidenti, da Roosvelt a Kennedy, da
Clinton a Obama: non a caso il «Boss»,
viene invitato dagli ultimi due a suonare per il giorno del Giuramento. Gli album dello splendido decennio ‘75-‘80
– Born To Run, Darkness On The Edge Of
The Town, The River, Born In The Usa – rivelano uno Springsteen capace di reinventare la musica rock guardando pure
alla tradizione nera del soul e del blues
grazie all’E-Street Band che l’accompagna puntualmente. Ma dietro l’angolo
c’è pure il menestrello solitario che da
Nebraska a In Concert sino al recente We
Shall Overcome The Seeger Sessions American
Land Edition propone il vecchio country ribadendo l’impegno di un folk-singer contemporaneo che ha ancora molto da dire, cantare e proporre, magari
partendo dal suo vissuto, come afferma in un’intervista: «Negli ultimi tempi
mi sono nuovamente innamorato delle
mie vecchie canzoni. C’era molta libertà in quegli album. Quando sei all’inizio e quando sei affermato: sono questi i momenti nella carriera nei quali
c’è meno pressione. All’inizio sei uno
sconosciuto e non sei in competizione
Bruce Springsteen
con nessuno. E al punto in cui mi trovo oggi, non mi sento in competizione con 50 Cent né sento il bisogno di
apparire su Mtv. Suono per me, per la
mia band e per il mio pubblico». Un pubblico che è anpoeticamente, agli anni settanta, cioè nel passaggio di testiche e soprattutto nostrano, non fosse altro per le radici
mone epocale allo stesso Springsteen – ha saputo racconfamiliari: «Mia madre è un’immigrata italiana di secontare l’America (e l’Amerika) degli ultimi decenni, servendoda generazione. Mia nonna ha vissuto fino a 102 anni e
si di una voce, un gruppo, una chitarra elettrica (e talvolnon ha mai parlato inglese. Quando entravo in camera sua,
ta acustica). Già nel 1987 Simon Frith, il massimo studioera come fare un viaggio in Italia. Tutto la
so di cultura pop, redigeva un fondamentaricordava: le Madonne, gli scialli… Per quele saggio partendo da un’apparente contradsto l’identità americana è diventata una pardizione – Springsteen il miliardario che veste come
Udine – Stadio Friuli
te importante della musica che scrivevo». ◼
un operaio – per convincere scettici e detratto23 luglio, ore 20.30
Attesissimo a Udine
il concerto di Bruce Springsteen
l’altra musica
T
l’altra musica — 53
Musica in Via Garibaldi
(residenti permettendo)
Variegato il programma
proposto dal «Rèfolo»
G
li sforzi di alcuni illuminati titolari di attività com-
merciali per regalare a veneziani e turisti qualche ora
di musica all’aperto sembrano prima o poi destinati a
naufragare contro gli scogli dell’intolleranza ormai cronica di
pochi residenti, tetragoni a ogni iniziativa destinata all’intrattenimento. Solo così si può comprendere l’annullamento del
concerto blues previsto per sabato 13 giugno scorso a El Rèfolo, piccolo e vitale bar di via Garibaldi, centro nevralgico di un
sestiere popoloso e vivace come Castello. L’appuntamento –
Daniele Concina, Francesco Lobina (basso),
Giampiero Zardo (batteria), Marco Bolognini (chitarra),
Danilo Scaggiante (sax)
l’altra musica
Fabio Calabrò
no a giugno inoltrato. Tra gli eventi più ragguardevoli si segnala la spassosissima performance di Fabio Calabrò, cantautore
raffinato e ironico che ha avviluppato l’uditorio con le sue melodie a metà tra parodia e impegno, in un contesto che di tanto in tanto ha richiamato alla mente sonorità vicine a un maestro del teatro-canzone come Giorgio Gaber. Ma la personalità dell’artista bolognese presenta tratti di originalità assai spiccati, che caratterizzano inequivocabilmente il suo stile eclettico. Tra le perle della serata si menziona almeno l’esilarante «Io
sono mio nonno», nonsense esistenzialista con qualche rettogusto amarognolo.
A seguire, è tornato a esibirsi nello stesso spazio anche Giovanni Dell’Olivo, che per il suo assolo accompagnato dalla chitarra è partito dal suo magnifico Lagunaria – interpretato con
la band al completo pochi giorni dopo nella suggestiva cornice del Teatro Goldoni – per virare poi, senza soluzione di continuità, verso le nuove creazioni cantautoriali e un florilegio di
struggenti canti anarchici e libertari.
che prevedeva una formazione di rango, con, tra gli altri, Marco Bolognini alla chitarra e Daniele Concina alla voce – è stato
sospeso dallo stesso gestore, Massimiliano Lo Duca, in risposta a una serie di poco velate minacce verbali da parte di uno dei
limitrofi abitanti. Al di là della spiacevole contingenza, degna
di occupare qualche colonna in cronaca, la riflessione va indirizzata all’atavica assenza – in laguna – di una normale vita serale, che possa prevedere – senza creare scandalo e indignazione – momenti di ritrovo e socializzazione, peraltro mantenuti dagli organizzatori rigorosamente al di qua della soglia critica delle ventitré (oltre che privi di alcuna amplificazione). Ne
consegue un’oggettiva difficoltà, da parte di esercenti e consumatori, di dare seguito a queste piccole
ma importanti finestre che contemperano divertimento e proposta culturale.
Nonostante l’incidente, comunque, la
programmazione legata al vivace locale
di via Garibaldi ha attraversato con successo la primavera, e si è prolungato fi-
Ma il programma ha contemperato anche un’interessante parentesi swing, con l’Ad Libitum Swing Quintet (voce di Arianna Sperandio e sax di Ferruccio Toffoletto), cui si sono alternate le sonorità della Hot Jazz Band e l’esperimento di Freve
da Samba, dove – grazie all’inventiva di Daniele Galletta coadiuvato da Rosa Bittolo Bon – il dialetto veneziano si è intrecciato alle sensuali atmosfere brasiliane. Punto culminante però – quasi inatteso e insperato – è stato il recupero della band lasciata all’asciutto il sabato precedente, che ha esaltato la serata conclusiva del 20 giugno. Grazie ai tipici e trascinanti ritmi blues Daniele Concina, in stato di grazia, ha rapidamente coinvolto la sempre più numerosa folla con la sua voce inconfondibile. Ma il livello dell’esecuzione impone di citare tutti i bravissimi strumentisti: Marco Bolognini
alla chitarra, Claudio Zulian all’hammond, Danilo Scaggiante al sax e all’armonica, Francesco Lobina al basso e
Giampiero Zardo alla batteria. (l.m.) ◼
54 — l’altra musica
Ivan Della Mea:
a quell omm
M
di Gualtiero Bertelli
artedì 16 giugno 2009. Milano, via Oglio, ore 12 e
l’altra musica
30. Una banda informale di giovani intona l’Internazionale tra lo sventolio mesto di bandiere rosse e
una selva di pugni alzati.
Una bara esce dal Circolo Arci Corvetto portata a braccia
da un gruppo visibilmente commosso, ma la commozione
si taglia col coltello in quel nugolo di persone di ogni età che
saluta e canta.
Ivan Della Mea a Villa San Lorenzo (9.6.2001)
È la scena ormai rara di un funerale laico, dell’addio alla vita e ai compagni di un comunista, rimasto orgogliosamente
tale sino all’ultimo istante della sua vita; è l’estremo saluto a
Ivan Della Mea.
Ho incontrato Ivan per la prima volta il 10 febbraio 1965 a
Mantova, dove il Nuovo Canzoniere Italiano, quasi al completo, presentava la nuova edizione dello spettacolo Bella ciao
che tanto clamore aveva suscitato a Spoleto e io ho avuto
il primo incontro con i cantanti e i promotori del gruppo
(Gianni Bosio, Nanni Ricordi) che Luisa Ronchini frequentava già da tempo.
Ma è stato un incontro fugace; l’occasione che mi ha fatto
conoscere Ivan è arrivata i primi giorni di aprile, quando sono andato a Milano per incidere Sta bruta guera che no xe finia.
Nel pomeriggio del primo giorno ho inciso le cinque canzoni dell’album, accompagnandomi con la fisarmonica, «buona
la prima» o al massimo la seconda. Non c’erano soldi, la sala d’incisione costava un occhio, ma non c’era neanche tempo: il giorno dopo chiudevano per le feste pasquali e avevamo acciuffato qualche ora buca per realizzare la mia opera
prima. Non è che ci importasse molto della qualità fonografica: erano per noi tutti dei documenti da proporre nel modo
più semplice ed immediato.
La sera rimanevo a Milano perché il giorno dopo dovevo
provare con Paolo Ciarchi, Rudi Assuntino, Guido Boninsegni e Barbara Amante un programma di canti della Resistenza da eseguire a Dongo il 25 aprile successivo; era il ventennale della Liberazione, un anniversario piuttosto
caldo in quei tempi. Dopo la registrazione, seguita da
Michele Straniero, andammo alle Edizioni del Gallo
e Ivan mi chiese se avevo un posto per dormire. Alla mia risposta negativa ribatté «Allora ti porto a casa mia» e mi accompagnò in un appartamento completamente arredato ma intonso: letti, mobili, elettrodomestici, tutto sembrava appena uscito dalla vetrina di un negozio, con tanto di rivestimenti di plastica. «Ecco dormi qua» mi disse senza tanti fronzoli, come nel suo carattere, e dopo aver tolto il rivestimento di plastica da uno dei materassi del letto matrimoniale mi dette cuscino, federa, lenzuola, coperta, tutto nuovo di zecca. «Ma quando vieni ad abitare qua?» gli chiesi piuttosto sorpreso. «Tra un mese
mi sposo e vengo qua. Domani quando vai alle prove lascia la chiave alle Edizioni. Ciao, buona notte».
Rividi Ivan a giugno alla preparazione degli spettacoli per l’estate. «Allora com’è andato il matrimonio?» «Non mi sono sposato. La mia morosa mi ha
piantato!» «E la casa? Abiti là adesso?» «No, non avevo proprio voglia di andarci. Ho regalato tutto a un
mio amico che si è sposato davvero».
Era un squattrinato Ivan, viveva di mille lavori e lavoretti: operaio in una fabbrica elettromeccanica, barista, scaricatore, fattorino con bicicletta di una drogheria milanese, fattorino senza bicicletta al «Calendario del Popolo» di Giulio Trevisani, rivista mensile nella quale diventerà prima correttore di bozze poi
redattore, redattore al giornale «Stasera», revisore di
collane periodiche della Mondadori (Gialli, Urania,
Segretissimo) per le quali ha scritto alcuni racconti.
Eppure era persona di grande, immensa generosità,
quella vera che non ha a che fare con il soldi.
Nel 1957 scrive le sue prime canzoni e nel ’62 avviene l’incontro che gli cambierà la vita, quello con
Gianni Bosio che vuol dire Nuovo Canzoniere Italiano, Edizioni del Gallo e poi Istituto Ernesto de
Martino. Il suo canto diventa sempre più «la nuova canzone
sociale», ma continua a scrivere articoli, libri, soggetti per il
cinema e soprattutto a penetrare sempre più in quel mondo
operaio e contadino che diventa il suo mondo, il mondo che
darà senso e speranza a tutta la sua vita.
Una sera d’aprile del ’66 mi trovavo a Milano a casa di Dario Fo con Roberto Leydi, Gianni Bosio e altri che ora non ricordo; stavano lavorando alla realizzazione di Ci ragiono e canto, lo spettacolo di canti popolari che doveva proseguire il solco tracciato da Bella ciao.
Verso le ventidue arrivò Ivan. Tornava da Torino, dai cancelli della Fiat dove fin dal turno della mattina aveva parte-
ventimila persone; sul palco, enorme, le presenze più significipato con Paolo Ciarchi, cantando e suonando, ai picchetti
cative della canzone sociale.
dello sciopero generale dei metalmeccanici, atto finale della
Guardo questo mare di teste in una serata turbata da un
lotta per il rinnovo del contratto nazionale.
vento fastidioso e da nuvole minacciose e mi rivolgo a Ivan:
L’autunno caldo non è stata un’invenzione del ’68; già nella
«Hai visto, ce l’abbiamo fatta! La gente ci segue, riempiamo
precedente tornata di rinnovi contrattuali si era ricomposta
le piazze…» Mi interrompe, dalle fessure dei suoi occhi da
l’unità sindacale specialmente nelle due categorie più impormiope esce uno sguardo quasi di compatimento: «Berteo (si
tanti: i metalmeccanici (1965/1966) e i chimici (1966/1967).
divertiva a chiamarmi così) abbiamo perso, questa roba non
Entrò in casa visibilmente stanco, trascinando la sua chitarra
porta a niente….»
e una volta seduto sul divano, annunciò «Ho fatto una canPoco dopo il «riflusso», le piazze vuote, la violenza brigatizone nuova stamattina. Ve la faccio sentire». Estrasse un fosta, i terribili anni ottanta.
glio strapazzato, lo appoggiò su una sedia e urlò con quanUna tremenda previsione quella di Ivan. Una lungimiranta forza gli rimaneva ancora in gola «O cara moglie staseza che avrebbe annichilito qualsiasi volontà, ma non la sua.
ra ti prego…». Era nata la sua canzone più nota, quel griMentre io per anni non ho più scritto una canzone, né pardo che le piazze, le scuole, i teatri e le fabbriche in lotta cantecipato ad un concerto, perché davvero non sapevo cosa e a
teranno per anni e che ancor oggi molti di noi si sorprendochi cantare, Ivan si è caricato sulle spalle il fardello dell’Istino a canticchiare.
tuto de Martino, lasciato vuoto dalla giovanissima morte di
Mi ha fatto un certo effetto sentire quelle note suonate con
Franco Coggiola, ne ha caldeggiato e seguito il trasferimento
andamento marziale e triste dalla banda martedì 16 giugno
a Sesto Fiorentino e ha diviso la sua vita tra queste due città,
e non ho potuto fare a meno di risalire a questo lembo di
memoria.
Fedele a un mondo ormai minoritario e destinato all’estinzione il
nostro Ivan? Non
lo so, certo con
generosità si è assunto la sua parte di responsabilità in tutte le sconfitte e non ha mai
smesso di credere
che si sarebbe potuto ricominciare;
in ogni caso è stato una persona capace di guardare
molto avanti con
realismo e ottimismo dell’azione. In
caso contrario non
avrebbe potuto dedicare tanta fatica,
fino ai suoi ultimi
giorni, all’Istituto
de Martino, testiIvan Della Mea n concerto, foto di Angela Chiti
mone della cultura
proletaria, scrigno
di tante speranze.
Milano e Sesto, tra due impegni per lui egualmente imporSettembre del 1978, Firenze, festa nazionale dell’Unità. È
tanti: il Circolo Arci Corvetto, di cui è stato attivissimo presicambiato il mondo in quei dodici anni, e altro ci sembra andente, il suo contatto con la realtà fatta di uomini, di compacora debba cambiare.
gni; l’Istituto che ha diretto fino all’anno scorso, il suo conNel frattempo sono morti Gianni Bosio e Giovanni Pireltatto con i documenti che testimoniano la cultura di clasli, fulcro organizzativo il primo, risorsa non solo economise a cui ha dato un ampio contributo e ancora altre persoca il secondo. Il Nuovo Canzoniere Italiano è di fatto una sine, altri compagni che l’hanno sostenuto in questa sua titagla dentro la quale si riconoscono alcuni autori, ricercatori e
nica impresa.
cantanti (Ivan, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Caterina
L’Arci Corvetto l’ha accolto per l’ultima volta; gli ocBueno e anch’io) e gruppi, i vari Canzonieri sparsi per l’Italia.
chi lucidi dei compagni l’hanno salutato nell’ultimo
Non si stampa più la rivista, le pubblicazioni vanno a rilenviaggio lungo una strada anonima della sua Milano. ◼
to, i dischi di ricerca sono sempre meno, ma per noi «cantautori», seppure sui generis, è il momento di maggiore popolarità. Vediamo le piazze intorno a noi riempirsi e gli appuntaNota: La morte di Ivan Della Mea mi sorprende e mi annichilisce
menti infittirsi.
mentre sto scrivendo la seconda parte dell’articolo dedicato al folk reviLe Cascine sono stracolme di giovani, di militanti del Pci
val. Il folk revival può aspettare, un mio, un nostro saluto a Ivan no.
e delle formazioni della sinistra extraparlamentare, almeno
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