Teologia Dogmatica Prof. Carlo Collo TEMA SINTETICO TEOLOGICO Innanzitutto occore fare delle precisazioni terminologiche, perché: - Teologia in senso stretto è l’approfondimento sistematico di “O Theos”, il Padre del Signore Gesù Cristo e proprio per questo a volte si usa anche il termine Patrologia. - Cristologia, è l’approfondimento sistematico di Gesù, il Cristo. - Pneumatologia è l’approfondimento sistematico dello Spirito di Dio. - Soteriologia è il tema della salvezza è relativo in primis al Padre (Moshia), a Gesù e allo Spirito. Dal tema della salvezza si può sempre partire per risalire al Padre. Fatte queste precisazioni va comunque detto che è Gesù all’origine della teologia : perché è Gesù Cristo che rivela il Padre, anche se prima (AT), vi era già una rivelazione, quella in Cristo è la culminante, Gesù infatti rivela il Dio dell’Antico Testamento in maniera completa e restaurandone anche un poco l’immagine. Gesù è quindi all’origine della rivelazone di Dio, del Dio trinitario perché è il rivelatore del venire salvifico (regno di Dio) di Dio Padre, con tutta la sua persona, azione e vicenda di morte e di risurrezione e con l’effusione dello Spirito Santo. Una rivelazione di Dio adeguata non può quindi prescindere da Gesù Cristo. Detto ciò bisogna sempre tenere conto di una serie di punti molto importanti: Nel trattare la persona di Gesù c’è un modo di fare teologia (tipico del protestantesimo) che privilegia la funzione a scapito dell’essere, ma cosa c’è in Cristo che “funziona” da Salvatore rispetto a Buddha o a Socrate? È importante quindi dire che c’è una ragionevolezza ontologica a cui affidarsi per credere, senza dimenticare la circolarità virtuosa fra cristologia e soteriologia. I Padri Cappadoci hanno insistito molto sul fatto che ciò che non è assunto non è redento. Molto importante questo in cristologia e soteriologia perché se il Logos ha preso il posto del Nous , l’uomo non sarebbe totalmente salvato. (dimensione soteriologia). Il venire salvifico è il venire dinamico del regno di Dio Padre che per il Battista sarebbe dovuto essere un venire giudiziale, di conversione, condannatorio, mentre Gesù rovescia le cose perché siccome il Regno di Dio si avvicina, invita a convertirsi e a credere al Vangelo. La fede è quindi vista come una risposta al venire del Regno di Dio, ed è un “venire” misericordioso, che soccorre l’uomo e dona il perdono dei peccati, la guarigione anche fisica, la liberazione, la valorizzazione di tutti gli uomini, in special modo gli ultimi (Mt.). Molto importante è il teocentrismo di Gesù che parla raramente di sé, ma parla quasi sempre di Dio, del Padre e solo in tal modo parla di Sé stesso, ma non secondo un discorso egocentrico, distoglie l’attenzione sulla Sua persona per portarla al Padre. Il venire di Dio passa così principalmente attraverso Gesù, che è un po’ il fuoco centrale, anzi la Sua persona è parabola del venire di Dio (emblematiche le parabole lucane della misericordia). Gesù è quindi implicato in questo venire di Dio. “Io faccio quello che vedo fare dal Padre mio” dice Gesù in Giovanni. Gesù ha dato visibilità al venire di Dio attraverso la sua attività, ma anche attraverso la sua vicenda di passione, morte e resurrezione. Il venire di Dio passa attraverso il rifiuto di Gesù da parte degli uomini. L’evento di Resurrezione mostra il venire di Dio che si dimostra pienamente Padre. Gesù assume il meglio della rivelazione dell’A.T. Però insiste nel dire che il Dio creatore si avvicina all’uomo “oggi”, si fa incontro all’uomo nel presente, e questo Dio che viene oggi è Padre, tenendo conto che essere Padre in senso biblico è essere colui che si piega con tenerezza. Il Padre è un’attività; Padre si diventa non lo si è. E’ Padre con misericordia oblativa. Secondo Gesù, la paternità di Dio non è diritto da parte dell’uomo, ma è un evento di grazia libero di Dio. La prima fase della vita di Gesù è la vita nello Spirito; a partire dalla Resurrezione si può parlare dello Spirito dato da Gesù. I NODO – IL DOGMA TRINITARIO. Dalle prime riflessioni teologiche cristiane ai pronunciamenti di Nicea e Costantinopoli sorti nel contesto culturale del tempo. La formula trinitaria dell’invio degli apostoli da parte di Gesù nel vangelo di Matteo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo» (Mt 28,19) ha portato da subito a farsi delle domande: - Del Padre si sa che sicuramente è Dio; - Di Gesù Cristo si sa che è una persona concreta, ma che rapporto ha con Dio Padre? - E lo Spirito di Dio in tutto questo che posto ha? Nel N.T. lo Spirito Santo non è ben presentato come persona. Si potrebbe pensare come “forza di Dio”, anche se Galati 4,4: «…..mandò lo Spirito e il Figlio» porta ad optare per una tendenziale personalità dello Spirito Santo, la cui attività è ben espressa dalle funzioni che Paolo elenca. Giovanni vede lo Spirito principalmente come Paraclito, come “advocatus”. Venendo quindi allo sviluppo della questione trinitaria bisogna fare attenzione a: - non separarla mai da quella cristologica a cui è strettamente unita; - cogliere la logica sottesa ai ragionamenti, coglierne il fil – rouge. Già il nome “Gesù” è estremamente importante perché significa “Dio salva”, ma ancor più importante è “Gesù Cristo” che non è un nome e cognome, ma è una professione di fede paradossale, perché unisce il circostanziato storico personaggio di Gesù di Nazaret e il concreto universale e cioè il titolo “Cristo” che va inteso nel senso più pieno della parola, nel suo significato salvifico-universale. Esemplare a questo proposito il dialogo di Gesù con la samaritana dove c’è un crescendo di precisazioni su Gesù, un lento immergersi nel mistero della sua persona. Spesso poi nella Bibbia si vede che a Gesù Cristo è affibiato il titolo di Signore, Kyrios, traduzione dell’Adonai ebraico che veniva usato solo per Dio. Chi è quindi questo Gesù? In opposizione ai doceti Ignazio di Antiochia calca la mano sulla reale umanità di Gesù e lo stesso farà Ireneo in opposizione agli gnostici. Ma se Gesù è Dio ed è veramente uomo, da un lato viene spontaneo agli uomini di Chiesa chiedersi come Gesù possa essere vero Dio e vero uomo e dall’altro lato viene spontaneo affrontare il problema trinitario, la questione trinitaria, perché quale rapporto c’è tra Gesù Cristo e il Padre? E quale rapporto tra lo Spirito Santo e il Padre?1 Guardando la penultima domanda le prime tre risposte che si tentò di dare furono: Il monarchianismo dinamista, l’adozionismo, dove per salvare l’unicità di Dio si afferma che solo il Padre è il Dio unico, il Dio vero in senso pieno e rigoroso ed è Egli che con la sua forza, con la sua “dynamis” ha adottato il Figlio. Il monarchianismo moralista, il patripassianesimo, per il quale le tre persone sono solo tre modi di apparire del medesimo soggetto, del medesimo ed unico personaggio. Di conseguenza tutta la storia della salvezza è un apparenza, come anche quando il Figlio parla con il Padre, quando manda lo Spirito ecc. sono tutte delle messe in scena. Il subordinazionismo. Si ammette la distinzione delle tre persone divine che sono però una subordinata all’altra. Se il subordinazionismo è inteso in senso funzionale è vero che c’è: il Figlio è subordinato al Padre; lo Spirito per alcuni versi è subordinato al Figlio (dopo Pasqua), mentre per altri lo dinamicizza e dà valore alla sua autorità (incarnazione, battesimo). Ma se dal piano funzionale si passa a quello ontologico e si scade così nel subordinazionismo ontologico si scade nell’eresia e in fondo in fondo nell’arianesimo per cui tutto ciò che non è il Padre è creatura perché: Dio non genera e quindi se Verbo e Spirito non sono il Padre, sono creature; Dio è immutabile, non può cambiare ed il Verbo diventando carne denuncia la sua non divinità! La risposta all’Arianesimo avviene con il concilio di Nicea nel 325 d.C. che: - Usa un termine nuovo, “consostanziale”, termine rischioso perché ousia era usato per indicare molte cose, compresa una persona umana. L’intenzione del concilio nel far ciò fu quella di far capire che il Figlio è “partecipe della stessa natura del Padre”, 1 Solo molto più tardi ci si porrà anche la domanda sui rapporti tra lo Spirito ed il Figlio … Il Figlio è “Dio vero da Dio vero”, “generato e non creato” e si fa quindi uso della “generazione” un’immagine, che come tale va trattata, per dire il procedere in ugual dignità da un altro. Anche se il “nascere” in senso umano può dar adito a fraintendimenti perché un figlio che nasce da un padre, non è a lui consostanziale come lo è il Figlio con il Padre. Proprio questo Concilio è quindi la prova che l’ellenizzazione del Cristianesimo non l’hanno fatta i Concili, ma Ario e prova ne è anche il suo successo legato all’uso di un linguaggio accessibile a tutti e le cui categorie erano a tutti familiari. Il Concilio di Costantinopoli celebrato nel 381 invece è “trifronte” perché: Guarda indietro, confermando Nicea di fronte al dilagare dell’eresia ariana contrastata in primis dai padri cappadoci. Guarda al presente, affermando la divinità dello Spirito Santo contro i macedoni, seguaci di una forma di arianesimo applicato allo Spirito Santo, e attribuendoGli un titolo ed un’attività: Egli infatti è Kyrios (come il Figlio) e Zoopoion (dà la vita eterna e perciò è Dio). Si termina la descrizione dello Spirito facendo ricorso alla liturgia perché si dice che lo Spirito procede dal Padre e con il Padre ed il Figlio è con-adorato e con-glorificato (Sia Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo). Curioso notare come non si usi per lo Spirito il termine di “consostanziale” e questo grazie all’opera di Basilio che preferisce usare le attività (e siccome agere sequitur esse …) e le affermazioni liturgiche. Guarda avanti, perché condanna gli apollinaristi, seguaci di Apolinnare, vescovo di Laodicea, teologo acuto, strenuo difensore di Nicea, che si pone per primo il problema cristologico: se Gesù è vero Dio ed è vero uomo, come può essere un’unità? Ciò in cui difetta è la risposta, perché per onorare la perfetta unità del Gesù dei Vangeli egli ritenne di ammettere un’unione che noi potremmo impropriamente definire “ad incastro” e a spese dell’umanità, perché egli dice che il Logos si innesta nell’umano soppiantandone il nous, l’intelletto, anche perché Gesù conosceva tutto, non commetteva peccato ecc. I suoi avversari però obiettarono che: o Così non si dava a Gesù un umanità integrale, perché l’uomo è un animale razionale e se gli togli la razionalità … o Per il principio che “ciò che non è assunto non è redento”, vuol dire che l’intelletto non sarebbe stato partecipe della redenzione. Noi aggiungiamo che in fondo Apollinare pensa che dove arriva Dio, l’umano in qualche modo deve sloggiare, visione concorrenziale che sarà anche quella di Lutero, per il quale se uno aumenta l’atro diminuisce, e che oggi è ancora dominante nella cultura occidentale. Posta la questione cristologica ecco l’emergere di due scuole: Quella antiochiena che, tutta rivolta a salvaguardare la consistenza e l’integrità dell’uomo Gesù (tanto che più che parlare di Logos e Sarx preferiscono parlare di Logos e Antropos), per reagire a questo “abbraccio invadente e mutilante” rispose in modo netto dicendo che l’umanità e la divinità di Gesù erano unite per coniunctio (in greco sunafeia). Quella alessandrina che vedeva l’umanità e la divinità di Gesù unite per enosis (unio in latino) che è un termine molto più forte di quello antiochieno. La scuola che fu la prima ad emergere fu quella di Antiochia anche perché la Chiesa doveva rispondere alla preoccupazione che nell’unione tra il divino e l’umano quest’ultimo non ci lasciasse le penne e così ecco che in fondo era meglio vedere le due “andare a braccetto”. Esponente di questa scuola fu Nestorio, vescovo di Costantinopoli che impegnandosi nella difesa dell’umanità di Gesù si impegnò anche nella difesa della trascendenza del Logos, così se lo schema mentale di Ario era: Padre inizio creazione Logos; lo schema mentale di Nestorio era: Padre Figlio inizio creazione Antropos. Perciò il Logos è venuto ad abitare nell’uomo come in un tempio, ha messo la sua tenda nell’antropos, ma chi è nato da Maria? Il Logos? No, il Logos è immutabile, non può nascere, è nato Cristo ed è Cristo che ha provato, fatica, è morto ed è risorto ecc. È il tempio che ha provato queste cose. E ciò emerge molto bene nel carteggio tra Nestorio ed il capofila della scuola di Alessandria Cirillo al quale dice: «Non implicare il Logos in queste cose» e quindi non è il - Logos l’autore primo, il soggetto della vicenda storica di Gesù, Egli dava solo il benestare all’umanità, ma la storia di Gesù non è in primis storia di Dio. La reazione della Chiesa arriva in maniera netta al Concilio di Efeso nel 431, nel quale si approva gran parte, anche se non tutto, di quella che era la posizione di Cirillo di Gerusalemme, ma soprattutto consacra la sua logica di pensiero che asserisce la misteriosa unione (enosis) tra il Verbo e la sua umanità ed ecco quindi l’importanza, in funzione cristologica, di Maria, dalla quale il Verbo nasce secondo l’umanità. Nell’uomo – Gesù Dio è entrato nella storia o come dicevano i monaci sciiti “uno della Trinità ha patito per noi”, è cioè il Figlio il soggetto primo della vicenda di Gesù di Nazaret. Eutiche, rifacendosi maldestramente a Cirillo, scambia l’unità con la confusione ed ecco quindi l’emergere del monofisismo dove l’incontro dell’umano con il divino è ancora più disastroso che in quello di Apollinare. Il Concilio di Caldedonia nel 451 reagisce aiutato e preparato dalla lucida lettera di papa Leone Magno il cui schema è: ribadire con Efeso l’unità di Cristo dualità delle nature in Cristo unità di queste in Cristo nuova parentesi sulla dualità delle nature in Cristo unità di Cristo. Così il Concilio confessa: «Un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità … da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili» (DS 301-302) Il II concilio di Costantinopoli affronterà il tema della comunicazione di proprietà tra le due nature nella persona di Cristo. Il III concilio di Costantinopoli tratterà non tanto l’essere di Cristo, quanto il suo agire perché intanto era emerso un monofisimo dell’azione, il monotelismo, che vedeva in Cristo una sola volontà, mentre il Concilio ribadirà la presenza in Cristo di due volontà volenti anche se di volontà voluta ce ne è una, c’è poi un solo progetto. Il Concilio di Calcedonia e il III Costantinopolitano sono considerati umanistici perché mettono in luce come “per l’obbedienza di un uomo siamo stati salvati”, come la redenzione sia sì avvenuta per opera di Dio, ma includendo in quest’opera, in Gesù Cristo, già l’umanità. II NODO – DALLA TRINITÀ ECONOMICA ALLA TRINITÀ IMMANENTE. Le missioni trinitarie e la loro valenza rivelatrice della stessa realtà di Dio. Per Economia i Padri hanno sempre inteso lo svolgimento, l’attuazione del disegno di salvezza che la Parola di Dio ci propone, mentre con teologia intendevano il tentativo che la riflessione di fede fa all’interno di sé stessa, per passare dal “Dio per noi” al “Dio in sé”. Il problema è sorto guardando alla figura di Gesù perché tutto ciò che lui fa e dice ed il suo modo di rapportarsi al Padre dice qualcosa della sua funzione, che viene significata bene dai vari attributi o titoli che gli vengono dati (teologia questa che è detta funzionale), ma questi attributi-funzioni, soprattutto quello di Figlio di Dio, dicono anche qualcosa del suo essere? E se dicono qualcosa del suo essere divino Dio è da sempre Padre, Figlio e Spirito Santo? I primi a tentare il passaggio dall’economia alla teologia furono gli apologisti anche se lo facevano usando delle immagini (fuoco, parola ecc.), ma già tra gli apologisti molti erano reticenti anche perché si trovavano a contrastare la mentalità gnostica che sganciava la teologia dall’economia! Si passerà così ai primi tentativi più organizzati dei padri greci per arrivare poi ad Agostino che con le sue categorie di unità, distinzione, relazione e persona farà fare un salto alla trinità immanente. In Occidente Anselmo approfondirà il concetto di persona preparando le basi per il lavoro di Tommaso che arriva a definire la persona divina come relazione sussistente. In generale se in Oriente si parte dalla Trinità per arrivare all’Unità di Dio di cui il Padre è il “Dio fontale”, in Occidente si parte dall’unità per arrivare alla Trinità. Sulla diatriba del Filioque lo stesso Agostino diceva che lo Spirito spira principalmente dal Padre e secondariamente dal Figlio a cui il Padre dà il potere di spirarlo, ma secondo gli orientali compromette la principalità del Padre ed esagera la cristologia a scapito della pneumatologia. Gli studi sulla Trinità subiranno un contraccolpo dai protestanti e soprattutto dagli unitariani, ma proprio dai protestanti verrà poi una rinascita degli studi grazie a Barth, in contrapposizione ad Harnack (per cui l’essenza del cristianesimo era la paternità divina e l’immortalità dell’anima). Dopo di lui anche Moltmann sempre in campo protestante e poi von Balthasaar in campo cattolico. Tutti e tre scorgono e mettono in evidenza la dimensione trinitaria della salvezza in tutti gli eventi salvifici, ma che emerge soprattutto nella croce e nella risurrezione. Oggi in generale si dà molto rilievo all’aspetto trinitario (cf Ladaria in “Il Dio vivente”, Gresacke “Il Dio uni-trino”, Forte ecc.) ma in generale il ritorno è soprattutto alla trinità economica. III NODO – GLI ATTRIBUTI DIVINI. In particolare quelli rivelati dalla libera autocomunicazione di Dio. Immagini, simboli, metafore, nomi e titoli di Dio. Il problema dell’analogia. Se per Maimonide l’esistenza di Dio si può appurare, la sua essenza no, ma Tommaso reagisce e passa a distinguere tra nomi, titoli,metafore, simboli e immagini. Nella scolastica questa scala era discendente e così ciò che rivelava meglio di Dio erano i nomi, perché più “liberi” da condizionamenti, ma oggi si è unanimi nel dire che tutti sono validi e tutti vanno sottoposti alla cosiddetta via triadica, ad un processo che è composto di tre fasi, da tre “vie”: Affermationis. Ciò che si afferma su Dio dice qualcosa di Dio. Negationis. Ciò che si afferma su Dio va subito negato per liberarlo da tutto ciò che c’è di imperfetto nell’attributo usato. Eminentiae. Ciò che si afferma di Dio, depurato, lo si deve riconoscere in Dio in maniera eminente, superlativa, che a noi sfugge. Passando quindi ad un’analisi degli attributi divini essi possono essere: Necessari: infinito, ineffabile, immenso ecc. che come si vede sono più che altro negativi (non finito ecc.), dicono cosa non si può dire di Dio. Liberi: avendo raggiunto Dio come un tu a cui rivolgersi, si arguisce che in lui c’è vitalità e quindi è lecito chiedersi quali progetti abbia su di noi ed il suo modo di comportarsi. Tutti elementi deducibili solo dalla rivelazione perché solo lui può dirceli, solo lui può dischiudere il mistero della sua vita intima. Parlando di attributi è centrale però il problema, ben approfondito nel medioevo, della analogia: la conoscenza di qualche cosa attraverso la somiglianza di questa con un’altra. L’analogia quindi suppone una diversità ed una comunanza tra cose diverse aventi tra di loro una relazione (proportio) che forma la comunanza del nome. Già Aristotele diceva che l’analogia è a metà strada tra: - L’univocità e cioè attribuire qualcosa a più soggetti secondo un identico significato. Se però tra Dio e la creatura ci fosse questa non ci sarebbe distinzione tra i due, come succede nei sistemi monistici e panteistici. - L’equità e cioè qualcosa che detto di due realtà ha un senso completamente diverso. Se però tra Dio e la creatura ci fosse questa non si potrebbe parlare di Dio e la stessa rivelazione sarebbe priva di fondamento, perché se Dio dice se che è Padre, ma non sappiamo in che senso lo dice, che ce lo dice a fare? Esso sarebbe solo un flatus voci. Agostino ha dato una buona sintesi perché dice che Dio lo si trova solo cercandolo, ma una volta trovato lo si deve sempre cercare, perché se lo si è compreso, esso non è Dio! L’analogia è: Di proporzionalità, se ciò che fonda l’attribuzione a cose diverse è una somiglianza di rapporti esistenti in esse. Es.: la gamba del tavolo e la gamba dell’uomo sono totalmente diverse, ma entrambe hanno la funzione di tenere su, perciò ci può essere l’equazione gamba:tavolo=gamba:uomo. Essa si distingue a sua volta in: o Propria, se la ragione dell’analogia, dei rapporti è intrinseca, come l’essere di Dio e delle creature ad asempio. o Impropria, se la ragione dell’analogia, dei rapporti è intrinseca solo in una delle cose. Es.: L’uomo ride, il prato ride. Questo è il caso della metafora. Di attribuzione, se ciò che il termine significa si trova propriamente e principalmente in una cosa sola, analogato principale, e viene predicato anche di altre, analogati secondari, che hanno un rapporto con essa. Es. La salute dell’uomo e un cibo salutare, che è tale proprio perché favorisce la prima. Essa si distingue a sua volta in: o Estrinseca, se ciò che è espresso non si trova negli analogati secondari o Intrinseca, se ciò che è espresso si trova negli analogati secondari perché l’analogato principale li ha resi partecipi. Questa si basa sul principio creazionistico. Se tra Dio e la creatura si può stabilire un rapporto di analogia sia entis (fatta a partire dalla ragione che indaga sulla natura) che fidei (fatta a partire dalla rivelazione) essa è di attribuzione intrinseca, per via della causalità con la quale Dio si partecipa, ma la partecipazione si realizza diversamente in Dio e nella creatura, ecco allora anche l’importanza dell’analogia di proporzionalità tra Dio e la creatura, che evita l’univocità e che è molto usata anche da Gesù come quando dice “perché dici buono, solo Dio è buono!”, solo di Dio si possono infatti predicare gli attributi senza riserve e ciò che c’è di buono nelle creature, deriva dalla fonte della bontà. Es. Molti dicono che non si deve dire che Dio è Padre, perché molti possono avere esempi di paternità negativa, ma la paternità pura si realizza solo in Dio, nelle creature si realizzerà sempre piena di limiti e lo stesso far critiche di come uno esercita la paternità è perché in fondo si percepisce cosa un padre dovrebbe essere. Chi ha fatto largo uso dell’analogia nel suo teologare ai giorni nostri è stato Paul Tillich. Guardando poi nello specifico l’analogia fidei essa è usata anche: da Paolo per parlare dei rapporti tra i carismi della comunità (cf Rm 12,6); oggi per ricordarsi che ogni affermazione di fede è sempre legata alle altre, infatti solo nella totalità della rivelazione cioè emerge la verità. Barth ha però detto che solo l’analogia fidei ha senso, perché è la rivelazione che crea la somiglianza tra la Parola divina e parola umana, abilita l’uomo a conoscere Dio. L’analogia entis invece mette in una sola gabbia Dio e la creatura per oggettivare Dio, per impadronirsene, per edificare un idolo. Il concetto di essere infatti è umano, relativo e come tale inadatto a Dio. Solo l’analogia fidei è valida perché permette di dire le somiglianze tra Dio e la creatura non a partire dall’essere, ma a partire dall’azione di Dio e quindi è un frutto della rivelazione di Dio, di Pentecoste, e non della boriosa pretesa dell’uomo di ascendere a Dio, di Babele: solo Dio rivelandosi può istituire una somiglianza tra Dio e la creatura. In questa impostazione l’aspetto della creazione è nullo, non si capisce come mai allora Dio ci ha creato: in fondo il sistema di Barth è equivoco a livello naturale, ma se non c’è la natura, la rivelazione perde ogni riferimento, ogni punto d’aggancio: gratia supponit natura, Dio si è fatto carne! Una volta che la Rivelazione ha agganciato la nostra esperienza umana, perché ha trovato degli “appigli”, ci invita ad andare oltre e mostra la nostra “dotta ignoranza”. Rimane comunque pur vero che l’analogia pende comunque più sull’equivocità perché come dice il Concilio Lateranense IV: «Nulla maior similitudo …». Questa possibilità di lasciar cristianizzare, evangelizzare le nostre idee è importante e se in fondo la via affermationis è l’aggancio, la via negationis ed eminentiae è il ruolo della Rivelazione. Ma quale rapporto tra analogia entis e analogia fidei? Di incompatibilità o di relazione organica? Von Balthasaar nel suo libro su Barth dice che: - L’analogia fidei non può essere ricavata dalla analogia entis che vige tra Dio e la creatura in forza della creazione, perché essa è legata alla rivelazione. Così si rettifica l’errata concezione di analogia entis che aveva Barth, perché nella tradizione cattolica la possibilità di “salire” a Dio a partire dalla creazione è logica conseguenza del fatto che già nella creazione si ha una “discesa” di Dio. Dall’altra parte però si dà ragione a Barth dicendo l’indeducibilità dell’analogia fidei da quella entis, perché l’uomo è solo possibile ascoltatore della parola di Dio: l’essere e l’agire di Dio possono essere raggiunti solo con un atto libero di manifestazione di Dio. - L’analogia entis è comunque presupposto ontologico e noetico della analogia fidei. La grazia infatti presuppone la natura, perché Dio si rivela tramite degli enti e solo se questo ente ha l’intelleto e la volontà può compiere l’atto di fede. Inoltre se Dio si rivela e si ha così l’analogia fidei essa assume sempre i connotati della analogia entis, perché la grazia stessa è essere, è ente e come tale non sta al di là delle logiche metafisiche: se certo non è irriducibile ad esse, pur superandole non le contraddice, come le verità di fede superano le verità di ragione senza contrapporsi ad esse. La Rivelazione poi ci propone concetti, immagini, metafore e simboli desunti dall’analogia entis! - Nell’ordine concreto però non c’è analogia entis senza analogia fidei, perché l’ordine della natura è inserito nell’ordine della grazia e così la creazione non si può separare dall’alleanza: la creazione è tutta fondata in Cristo. - L’analogia fidei ripara in un certo senso l’analogia entis che è ferita, come l’uomo è ferito. E come dice splendidamente San Bonaventura: «Analogia Entis ergo destruimus per Analogiam Fidei? Absit! Sed analogiam entis statuimus, Iesus Christus est nostra analogia fidei assumens et reparans nostra analogia entis» - L’analogia fidei include l’analogia entis, la supera e le conferisce vigore intrinseco, perché le somiglianze che essa stabilisce tra Dio e la creatura (pur essendo sempre minori delle dissomiglianze …) superano quelle dell’analogia entis in due sensi: o Superamento ascendente. L’analogia fidei mostra la destinazione della natura umana alla visio beatifica, alla partecipazione alla vita trinitaria, che supera le possibilità immanenti alla natura umana. o Superamento discendente. L’analogia fidei è fondata sull’indeducibile e non producibile incarnazione del Verbo nella natura umana con l’assunzione della carne umana segnata dal peccato fino alla morte. Così se anche nell’ordine della analogia entis si può chiamare Dio, Padre, solo la rivelazione le dà un senso nuovo, anche se questa analogia nominis implica comunque l’analogia entis. Le sintesi cattoliche proposte per un sano dialogo tra analogia entis e analogia fidei sono riconducibili essenzialmente a due movimenti: Dall’analogia entis all’analogia fidei, il cui capofila è san Tommaso. Dall’analogia fidei all’analogia entis, i cui capofila sono sant’Anselmo e san Bonaventura. TEMA SINTETICO CRISTOLOGICO Gesù all’origine della cristologia. Rivelando il Padre e il suo rapporto con lui, Gesù di Nazaret rivela se stesso: la sua missione e identità. Dal Gesù annunciatore al Cristo annunciato. I NODO – IL DOGMA CRISTOLOGICO. Dalla funzione di Gesù Cristo alla sua ontologia, con particolare riferimento ai titoli cristologici. Il modello calcedonese come traduzione del kerygma nella cultura ambiente. Presentazione dei tentativi odierni di rilettura e valutazione critica. Nel NT Gesù svolge delle attività, delle funzioni, tanto che per Marco sono più importanti dei titoli, disseminati lungo i vangeli, come: Cristo, Signore, Figlio di Dio, Figlio dell’Uomo, Salvatore, Dio. Vi è allora nel NT una istanza ontologica? La tendenza comune è quella che propende per il sì, anche perché spesso nel vangelo ricorre la domanda circa Gesù “Chi è costui?”. Quest’istanza ontologica si accentuerà fortemente nell’incontro con l’ellenismo che permetterà di passare dall’ontico (presente, ma non espresso) all’ontologico permettendo da un lato di preservare il vangelo da gravi distorsioni e dall’altro lato di tradurre la fede nelle categorie mentali del mondo ellenistico. Il dogma non è quindi un incapsulamento della verità rivelata per cui si può fare a meno della Parola di Dio, ma è un segnale indicatore ne suo itinerario interpretativo che indica anche le direzioni sbagliate da non prendere. È quindi fondamentale la continua interazione tra dogmi e parola di Dio senza cadere in riduzionismi come avvenne ad esempio dopo Calcedonia, quando si ripetevano semplicemente le formule dogmatiche, fossilizzando così la cristologia. Il cosiddetto fenomeno di ellenizzazioe del cristianesimo è quindi molto importante perché è il caso dell’inculturazione (diversa dalla contestualizzazione, che è tener conto del contesto) ben riuscita e come tale va riscoperta. Detto ciò vanno anche elencati i suoi limiti: La tensione soteriologia cade nell’ombra, dando priorità al piano ontologico. La dimensione trinitaria del Figlio incarnato, scade nel più generico Dio-uomo. La dimensione storica dell’evento Cristo viene eclissata dalla considerazione astratta della sua natura umana e della sua natura divina, a prescindere dal fatto che esse siano il concreto Gesù storico nel “lì” e nel “allora”. Il coinvolgimento personale di Dio nella storia decade a favore di concetti più filosofici Insomma se il NT è centrato su Cristo-Evento, Calcedonia è centrato su una verità di fede. II NODO – LA SINGOLARE UNITÀ ONTOLOGICA DI CRISTO nella formulazione tradizionale e nella riflessione teologica recente. Le sue implicazioni per ciò che concerne la conoscenza e la coscienza di Cristo e la sua libertà. Una volta professata l’umanità e la divinità di Cristo venne subito da chiedersi: In che rapporto stanno tra loro? Se è persona divina è anche persona umana? Ecc. A tutte queste domande è in fondo sottesa quella che si chiede: La natura umana di Gesù è persona umana? La risposta è che Gesù ha una personalità umana, ma la persona che Lui è, è quella del Verbo. Ma allora ciò non è un depauperare l’umanità? Ecco allora il sorgere delle due grandi scuole cristologiche: Scuola Antiochena che porta avanti la teoria dell’homo assuntus che, nella sua forma degenere, arriverà a dire che in fondo Gesù è una persona umana sottomessa a quella divina. Scuola Alessandrina che affermando l’unica personalità divina di Cristo e, nella sua forma degenere, arriverà a dire che è il Verbo che fa essere la natura umana di Cristo. Ciò porterà ovviamente a due esiti diversi sull’io di Gesù e sulla sua coscienza-conoscenza. La risposta più soddisfacente nel momento attuale è quella di Rahner per cui nell’unione ipostatica il Verbo fa sì che la natura umana sia se stessa proprio grazie a questa unione, facendo capire che più l’uomo è più vicino a Dio e più è uomo, l’incarnazione non è la mortificazione dell’umanità, ma la sua piena realizzazione. Si ricordi sempre comunque che nel parlare della personalità di Cristo sarebbe sempre bene distinguere tra la sua fase terrena e quella gloriosa. Per quanto riguarda la conoscenza e la coscienza di Cristo e la sua libertà, la patristica ha abbastanza riconosciuto i limiti della conoscenza di Gesù e solo in seguito, sulla scia della reazione anti-agnoetica2, prese piede il principio della perfezione per cui Cristo conosceva tutto (per alcuni medioevali anche tutte le scienze), ma lentamente ci si ri-modera fino ad arrivare a san Tommaso il quale dirà che in Gesù ci sono tre tipi di conoscenze: beata (quella di chi vede Dio), infusa (quella degli angeli) e sperimentale (quella degli uomini)3. E tutte e tre ce le ha “alla umana” anche perché se non avesse conosciuto come uomo, non avrebbe conosciuto nulla! L’epoca moderna ha introdotto il tema della coscienza che ha portato molti teologi a fare pasticci, l’unico che si è salvato è Bernard Lonergan che sottolinea come con il termine coscienza (simile a quello di consapevolezza) si intende l’esperirsi come soggetto, mentre con il termine conoscenza si intende il percepire qualcosa attraverso il trinomio esperienza – concettualizzazione – giudizio. Così affermare in Cristo un progresso della coscienza è una cavolata, mentre è corretto affermare un progresso della sua conoscenza e anche della sua auto-conoscenza, infatti un conto è conoscere se stessi e un altro conto è dire chi sono io! Si noti poi che nei Vangeli Gesù è poco portato a dire di sé stesso, è più portato a dire il Padre ed il suo rapporto con Lui, ecco allora l’importanza del tema della conoscenza del Padre, conoscenza totalmente singolare ed unica in Gesù. Da questa conoscenza primaria deriva quella riflessa del suo essere Figlio: solo riconoscendo un Tu si scopre di essere Io, anche a livello psicologico. Il conoscersi come Figlio di Gesù è quindi estroverso. Detto ciò rimane il mistero della sua personalità umana da non ridurre o esagerare ma da custodire nella sua esemplarità evangelica. In merito alla libertà non c’è realtà più controversa di questa già solo nella sua definizione. Ecco allora anche qui l’importanza di andare al Nuovo Testamento dove vediamo come Paolo la veda come condizione dell’obbedienza e dell’amore e dove in Gesù scopriamo una sorprendente libertà intesa non solo in senso debole, come libero arbitrio (posso scegliere il bene come il male), ma soprattutto in senso forte come adesione piena al bene, mentre Gli ag-noeti dicevano che in Cristo si ha l’ignoranza piena. Oggi in generale sono quasi tutti d’accordo su tutte e tre le conoscenze (non tutti sull’infusa), ma al posto di “beata” si preferisce dire “immediata”. 2 3 l’adesione al male è una finta libertà. Da qui si vede come solo scegliendo e compiendo il bene un uomo facilita la sua libertà (come un qualsiasi artista o sportivo) e la libertà in senso forte riesce a dar peso ad una scelta di per sé meno attraente. Come B. Sesbouè dice che la storia della salvezza è storia di riconciliazione, frutto di un storia di libertà così assoluta che è più potente di tutte le altre libertà peccatrici, quindi non solo la libertà è condizione della salvezza, ma è costitutiva di essa! E si noti che la libertà di Gesù non è una libertà costrittiva, ma contagiosa! TEMA SINTETICO PNEUMATOLOGICO4 E SOTERIOLOGICO Gesù all’origine della pneumatologia. La presenza e l’azione dello Spirito Santo nella fase prepasquale e dopo la Pasqua. Il radicamento cristologico della pneumatologia e la successiva riflessione della comunità cristiana. È molto interessante seguire l’evolversi del concetto di Ruah, di Spirito, nell’AT, che da semplice dato cosmologico per i pagani, diventa per gli ebrei la forza regale di Dio. Nell’At si vede poi anche come la Ruah sia legata al profetiamo (cf Isaia), ma come essa sarà nei tempi messianici un dono per tutti (crf Gioele) ed il suo dono porterà alla risurrezione e alla rigenerazione (cf Ezechiele). Con Gesù vediamo come lo Spirito è “su” di Lui e “in” Lui, ma da risorto si parla soprattutto dello Spirito “di” Lui. Nel Nuovo Testamento si assiste ad una crescente attenzione allo Spirito Santo, tanto che attribuire l’opera di Gesù a Belzebul è considerato un peccato gravissimo perché è un peccato contro lo Spirito: in Mc se ne parla poco, in Mt un po’ di più, in Lc molto di più, in Paolo tanto (egli sottolinea come lo Spirito rigenera e guida la preghiera) ed in Giovanni tantissimo (egli sottolinea la personalità dello Spirito, il Paraclito, e come Egli conduce soprattutto alla verità, alla rivelazione in Cristo). La finale di Matteo mostra in tal senso una trinitaria molto avanzata. I NODO5 – LA SALVEZZA CRISTIANA come opera trinitaria unitaria e specifica ad un tempo. Puntualizzare il senso delle categorie interpretative della morte in croce di Gesù e precisare il suo rapporto con gli altri momenti dell’evento pasquale (Risurrezione, Ascensione, Pentecoste, Parusia) e con gli altri misteri della vita di Gesù. Come c’è una cristologia implicita prima della Pasqua ed una esplicita dopo la Pasqua, allo stesso modo si può parlare di una soteriologia implicita ed una esplicita e la prima si trova nei racconti neotestamentari, la seconda si trova nelle categorie neotestamentarie (sacrificio) e della tradizione (soddisfazione, sostituzione finale, merito ecc.). Le categorie si innestano comunque sulla trama originale del racconto che presuppongono e contengono, ma che non possono mai sostituire, perché il racconto invita continuamente a rivedere, correggere e riordinare le categorie in modo sempre nuovo ed attuale.Tra le categorie esistono poi quelle discendenti (che mettono in luce ciò che Dio fa per gli uomini) e quelle ascendenti (che mettono in luce ciò che gli uomini fan per Dio) e nei racconti biblici sono prevalenti e fondamentali le prime. Se succedesse, come è successo, che alcune categorie discendenti avessero subito una mutazione diventando ascendenti è il caso di riconvertirle (vedasi il caso di “sacrificio”). La patristica aveva sviluppato diverse categorie soteriologiche che si possono ricondurre a quattro: luce, maestro, legate all’aspetto veritativo; viktor, vincitore sul male, sul peccato, sulla morte, laddove insomma l’umanità è deficitaria; divinizzazione, intesa non come che basti la sola unione del divino con l’umano per la salvezza, ma che il Figlio di Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenisse figlio di Dio; vittima, altare, sacerdote. Passando ad una distinzione tra categorie potremmo dire che quelle discendenti sono: La salvezza ottenuta mediante la Rivelazione che mette in luce come l’atto rivelatore, di autocomunicazione è in sé salvifico. Forse un po’ trascurata per la battaglia con gli gnostici. La salvezza come combattimento che Dio ha sostenuto per noi, evitando ogni idea di riscatto pagato al Diavolo (avanzata da Origene) e tenendo l’idea della liberazione della libertà. 4 5 Per quest’argomento è molto buono il manuale di dogmatica del Keller. Illuminante per il tema il libro di B. Sesbouè “Gesù Cristo l’unico Mediatore” (2° volume) La salvezza come perdono, infatti l’autocomunicazione di Dio è un dono che essendo fatto a dei peccatori acquista la modalità del perdono, della riconciliazione. Essa è in fondo un po’ il nucleo della cristologia perché è l’obbedienza della fiducia e dell’amore che è il cibo quotidiano e l’obbedienza cristiana, realismo di un amore che si è fatto libertà, salvaguarda l’amore dal diventare un capriccio. La salvezza come divinizzazione, come dono della vita di Dio che è la via per ciò che Dio ha ed è che giunge a noi nella filialità. La salvezza come interprellazione della fede, di fede in fede sulla scia della finale giovannea: «Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31) B. Sesbouè privilegia tra le categorie quelle di rivelazione, comunicazione e comunione o più in generale dell’autocomunicazione che comprende in sé rivelazione e comunione. Passando alle categorie ascendenti esse sono sintetizzabili in: o Sacrificio o Espiazione o Soddisfazione o Sostituzione Tutte queste vanno lette però subordinatamente alle prime e alla luce di esse senza porre conflitto tra il Padre e il Figlio come spesso nella teologia si è fatto come se il Figlio fosse Colui che si dona per placare l’ira del Padre, o il Padre è il padrone e il Figlio è l’amante, il Padre è la giustizia e il Figlio è la misericordia ecc. Queste contrapposizioni sono senza senso, perché il dono del Figlio per gli uomini è sacramento del dono del Figlio da parte del Padre, perciò le due dedizioni non sono avverse. Un esempio di questa rilettura in chiave ascendente di ogni categoria discendente è quella della categoria di “sacrificio”. Il primo sacrificio infatti è quello di Dio, è Lui il martire che si sacrifica all’uomo “prima di” e “al fine di” un sacrificio che l’uomo fa a Dio: infatti ciò che Dio non ha chiesto ad Abramo (suo figlio) gli uomini l’hanno chiesto a Dio e Dio si è sacrificato. Ogni sacrificio è quindi un’autocomunicazione e Dio in Gesù la fa al Padre e ai fratelli, o ai fratelli nel nome del Padre, dando agli uomini la possibilità di donarsi al Padre e ai fratelli. II NODO – DISTINZIONE TRA SALVAZIONE E BENEDIZIONE. Tentativi recenti di interpretazione della salvezza cristiana con particolare riferimento a quelli che rilevano la funzione dello Spirito Santo nella fase costitutiva e applicativa (funzione universalizzante) della salvezza. Si veda la funzione attribuita allo Spirito in alcune recenti elaborazioni della teologia delle religioni non cristiane.