"Lo specchio della vita" Medici e malati sullo schermo del cinema di

Presentazione del libro "Lo specchio della vita" Medici e malati sullo schermo del cinema di
Stefano Beccastrini
Giogio Cosmacini
Professore di Storia della medicina e della sanità - Università “Vita-Salute S. Raffaele” Milano
Mi trovo un po’ a disagio a dover parlare dopo aver visto le immagini del film di Kurosawa. Sono
immagini talmente eloquenti
che parlarne si corre il rischio di sciuparne il significato, però mi
permetterò un breve commento, anzitutto io tratterò il problema cinema e medicina da un punto di
vista generale facendo riferimento anche ad alcune parole che sono risuonate in quest’aula negli
oratori che hanno preceduto questa tavola rotonda e che mi stimolerebbero a interloquire per la
grande rilevanza che essi hanno, limiti di accessibilità alla conoscenza, peso del tecnicismo, rischio
sicurezza, equità, lasciamo da parte questi grandi temi che però attraverseranno anche le cose che
sto, per dirvi; vorrei esordire dicendo che sovente sempre più sovente si sente dire e ridire dai mass
media e da molti fra gli addetti ai lavori clinici, ricercatori, docenti universitari addetti alla
formazione dei medici di domani, che la medicina è una scienza, molto spesso non lo si dice
neppure lo si da per scontato per ovvio, ebbene a mio avviso non è cosi la medicina non è una
scienza la medicina è una pratica e una nobile pratica basata su scienze, le sue scienze fondamentali
di base, e che opera in un mondo di valori. La medicina ha una sua metodologia che si chiama
metodo clinico ha una sua epistemologia che si chiama teoria della conoscenza scientifica e delle
applicazioni tecniche di questa conoscenza ma differisce dalle altre scienze dicendo che non è una
scienza; la differenza è sostanziale perchè il suo oggetto non è un oggetto ma è un soggetto e questo
soggetto è l’uomo la medicina è basata su valori tra cui il rapporto interpersonale intersoggettivo fra
un soggetto il medico e un altro soggetto il paziente e poi tra questi due soggetti e la società di cui
entrambi sono parte importante e spesso determinante.
L’antica ίατριχή τέχνη del padre Ippocrate a cui la medicina anche attuale fa sempre ricorso in
tempi di crisi richiamandosi al dettato ippocratico che è una sorta di fisarmonica che uno tira in
lungo e in largo come vuole a piacimento la ίατριχή τέχνη, la ars curandi, la perenne arte della cura
è una tecnica,un’arte, un mestiere, il mestiere di medico uso questo parola mestiere perché molto
dignitosa più dignitosa del termine professione perché mestiere viene da ministerium che significa
servizio, ebbene in questa cultura la tecnica è il mezzo, ma l’antropos, l’uomo, è il fine; quindi la
medicina che è tecnologia è anche antropologia e non può non essere tale sennò come diceva
Beccastrini dimezzandosi rinuncia alla propria identità. Avete visto il film è istruttivo perché
tecnologia e antropologia originariamente erano stessa cosa il medico come rilevava il polso del
paziente per contarne i battiti (rilevazione tecnica) teneva la mano del paziente (contatto umano),
come ne toccava la fronte per rilevarne la temperatura corporea (fatto tecnico) toccava la fronte se
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volete la accarezzava mentre rilevava l’amnesi atto tecnico ascoltava il vissuto dava ascolto al
paziente; mentre formulava la prognosi (atto tecnico) rispondeva alle aspettative del malato, alla sua
speranza di vita o alla sua disperazione di vita. È bello quando due culture cosi distanti, la cultura
taoista e la cultura della medicina laico-occidentale-razionalista in cui siamo nati tutti noi hanno la
figura unificante del medico. Quale altra attività è così unificante laddove le lotte di religione
dividono laddove le ideologie scompaginano, il riferimento alla medicina è universale è si svolge
all’insegna della comprensione, della tolleranza reciproca; in quel film è interessante perché la
prima risposta che da il giovane medico è “quest’uomo sta per morire”, la prognosi che anticipa la
diagnosi, una volta (nessuno lo mette in rilievo) nella medicina ippocratica la prognosi era più
importante della diagnosi, la qualità del medico veniva misurata sulla capacità che lui aveva di dare
risposta all’aspettativa del malato nel bene e del male, non tanto nel dirgli che male aveva. Al
malato interessava di più sapere se poteva guarire o non poteva guarire piuttosto che sapere di
essere affetto da questo o quel male, questo non diminuisce l’importanza della diagnosi:
l’importanza della diagnosi dovuta sappiamo a tutta una serie preziosissima inestimabile di mezzi
tecnici, dallo stetoscopio che si è interposto tra il petto del paziente all’orecchio del medico
incominciando a creare una piccola interdistanza fra i due, fino a agli odierni mezzi diagnostici in
cui questa distanza tecnica logistica è smisuratamente aumentata, con il rischio che aumenti anche
la distanza interpersonale, la distanza intersoggettiva si giudica dalle immagini dalle bio-immagini
che molto spesso sono simulacri di una realtà se non vengono interpretate da Ippocrate (dietro il
computer ci deve essere Ippocrate) e in base a una serie di esami diagnostici che molto spesso
precedono o addirittura sostituiscono l’atto clinico.
Io insegno Filosofia della Scienza e Storia della Medicina agli studenti di medicina del primo anno
i quali al primo anno studiano come ho studiato io e molti di voi che si sono laureati in medicina,
biologia, chimica, fisica, oggi anche informatica, e l’esperanto odierno della scienza medica, la
lingua inglese, e allora il discorso che io faccio loro è il seguente: quando come voi mi affacciavo
agli studi di medicina trovavo al primo anno le vostre stesse materie, era ed è giusto che fosse e sia
così perché su tali scienze di base la medicina è fondata, guai a non sapere la biologia, la fisica, la
chimica, la matematica, l’informatica. Però io che mi ero maturato con buoni voti nelle discipline
classiche mi chiedevo se tutto quel sapere letterario storico filosofico accumulato negli anni della
scuola secondaria non mi servisse per diventare un buon medico, era mai possibile che il sapere
umanistico non sia utile a chi inizia ad apprendere un mestiere considerato più di ogni altro umano?
Attraverso la lente di ingrandimento delle umane lettere diciamo meglio delle litterae umaniores,
cioè di quelle lettere che rendono l’uomo più uomo, le malattie del corpo le sofferenze dell’anima, i
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tempi del patire e del morire sono un mare di pene umane da cui vediamo emergere la
comprensione di quel che significa essere malati, una comprensione più alta e più profonda della
conoscenza dell’avere una malattia. La differenza che io amo sempre fare fra disease e illness,
allora da una parte affezione oggettiva da affrontare con i mezzi della tecnica, dall’altro afflizione
soggettiva da affrontare anche con le risorse del rapporto umano; fra le due c’è la distanza che
intercorre fra la malattia oggettivata, la patologia organica, l’affezione dell’organismo, il guasto
della macchina corporea e la malattia soggettivamente sperimentata ,vissuta, sofferta, come
malessere esistenziale, come cattiva qualità della vita, come vita quantitativamente residua. Qualità
e quantità (ci sarebbe da spenderci tutta una lezione) è una distanza questa che spesso è stata capita,
chiarita, colmata molto meno dai professori di medicina che dai poeti dai filosofi e perchè no dai
teatranti e dai registi di cinema: Non dimentichiamoci che spesso è nei classici della letteratura che
noi troviamo riferimenti alla patologia del vivere più formativi ed educativi delle nozioni
patologiche scritte nei trattati, perché fare a meno di questo sapere, non si tratta come spesso
succede di dire: la medicina è quella che è strutturata così nelle università, facciamo una bella
iniezione di storia della medicina che spesso viene intesa come racconto delle grandi conquiste di
cui sono stati capaci i medici nel corso dei secoli, senza dimenticare gli errori di percorso di
condizionamenti ideologici e le tare di vario genere che hanno gravato su questo percorso per niente
progressivo e indefettibile. Facciamo un iniezione di bioetica all’ultimo anno, quasi che non ci sia
un’etica della sperimentazione da studiare a fisiologia o ad anatomia e non ci sia un’etica della
patologia da studiare nel periodo propedeutico facciamo un’iniezione di filosofia
facciamo
un’iniezione di qualche cosa, di medical umanitis; non c’è bisogno di iniezioni, qui bisogna
riformulare la formazione in un modo nuovo, adeguato alla società in trasformazione continua e alla
mentalità in continua evoluzione; al fatto che la popolazione oggi giorno è cambiata rispetto ad un
tempo, che la popolazione bisognosa di assistenza, di aiuto copre più della metà dei viventi, che in
Italia è avvenuto un sorpasso storico per cui i pazienti con più di 65 anni superano quelli con meno
di 15 anni, e che quindi i problemi che ineriscono non tanto alla tecnica quanto al rapporto
antropologico interpersonale e sociale fanno parte della struttura della medicina così come deve
essere insegnata, appresa, tramandata. Le professioni come tutte le cose umane nascono crescono si
stabilizzano declinano e muoiono, le professioni.
Prima di concludere, perché su questo tema potrei parlare all’infinito, vorrei citarvi due brani che
concernono la stessa malattia, una delle malattie inguaribili ma curabili degli anni 20; esistono
malattie inguaribili, non esistono mai malattie incurabili, tutte le malattie sono curabili, ahimè
alcune sono inguaribili; tra le malattie inguaribili degli anni 20 c’era la tubercolosi, nel 1924/25 ci
sono due approcci letterari diversi alla tubercolosi: Thomas Mann è il primo che ce ne dà una
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descrizione ne 1924 con l’insuperabile archetipo della montagna incantata, l’esempio più classico di
mitizzazione della malattia, l’esempio più perfetto di quella che Susan Sontag ha chiamato l’uso
della malattia come metafora . Dovunque luce e pulizia clinica lassù, tutto era bianco e conservato
nel bianco, l’aria priva di profumo, di contenuto, di umidità che penetrava facilmente nei polmoni,
la passeggiata e la cura sulle sdraio, sotto due coperte di lana di cammello, lunghe, larghe,
morbidissime, i sei pasti al giorno, dalla prima colazione con coppe di marmellate di miele, piatti di
riso cotto col latte, piatti di uova frullate e di carne fredda al latte della sera che alle nove veniva
portato nelle camere. La sicurezza diagnostica integrante i dati termometrici forniti dal sigaro a
mercurio in bocca e i dati ascoltatori forniti dallo stetoscopio d’avorio, con i dati visivi di quando si
fa la radioscopia e la radiografia; la società del mezzo polmone composta da coloro cui era stato
introdotto in un emitorace per mezzo dell’apparecchio di Forlanini del gas azoto, così che il
polmone caseificato fosse messo fuori esercizio. Come vedete per il ricco la tubercolosi era un
modo di vita fatto anche di lusso e di ozio. Stesso anno 1925 al maniscalco Corrado detto Maciste
che chiede notizie del pizzicagnolo Alfredo ricoverato il giorno prima per ferite percosse in un
ospedale fiorentino, cronaca di poveri amanti di Vasco Pratolini, il medico di guardia risponde che
il genere delle ferite denunzia il manganello, il guaio è dentro con la tisi aggravata dalle lesione
sopraggiunte, vomita sangue; qualche tempo dopo le condizione di Alfredo si sono aggravate i
colpi ricevuti gli hanno procurato delle lesioni polmonari che hanno richiesto il pneumotorace da
entrambi i lati e la degenza al Sanatorio di Careggi. La vigilia di Pasqua 1926 il pizzicagnolo
Alfredo è ormai lucido e sereno persuaso della sua fine, solo con la moglie nella camera del
sanatorio egli fece promettere a Milena che dopo la sua morte ella avrebbe ripreso a vivere la sua
vita, oltre al bancone vi erano i prati erbosi costellati di margherite, il giardino del sanatorio, le
verande con i malati stesi sulle sdraie, al termine del breve colloquio fatto di verità al malato e di
bontà per il malato questi tacque, cadde nel sonno che prelude all’agonia. Ecco dai medici ai malati
nelle pagine di romanzieri e poeti possiamo passare ai medici e malati sullo schermo del cinema
come Stefano Beccastrini sottotitola il suo libro “Lo specchio della vita” nel quale ci propone la
Narrativ Medizin “un nuovo modello” complementare, integrativo di medicina con cui ovviare se è
possibile alle invadenze tecnicistiche e tecnocratiche che rischiano di espellere dall’attività della
coscienza del medico la tensione verso il fine primario i bisogni dell’uomo; è un modello
compensatorio di medicina umanistica, io rifuggo da questo temine perché umanesimo è nella
concezione comune la concezione elitaria degli umanisti rinascimentali e prerinascimentali,
preferisco definirla antropologica o meglio umanologica per non correre il rischio di confonderci
con altre antropologie che non sono l’antropologia medica, che ha fondamenta in un immenso
patrimonio di cultura letteraria artistica e cinematografica, dato che il cinema
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è un mezzo
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espressivo che associando la parola all’immagine può talora o sovente farci partecipi delle parole
più sagge e delle immagini più coinvolgenti, toccando alte vette di umana comunicazione,
comprensione, passione. Beccastrini nel suo libro mi fa l’onore di citarmi più volte lo ringrazio e mi
scuso se riporto una mia frase da lui citata, in fondo cito lui non cito me: “una riflessione critica
sulla medicina viene a latitare dagli studi medici, oggi per aiutare a nascere senza pericoli e a
morire serenamente, per proteggere i sani e aver cura dei malati cronici, degli anziani, dei disabili
sono sempre più necessari nuovi curanti che portino la medicina a potenziare la vocazione
antropologica cioè umana che per statuto le appartiene”.
Testo della lettura tenuta a Reggio Emilia al XVII congresso della società italiana per la qualità dell’assistenza sanitaria
– vrq, il giorno 9-novembre-2007
Trascrizione a cura di Danilo Orlandini MD
©2008 Azienda Unità Sanitaria Locale di Reggio Emilia
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